Premessa

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Premessa Le dolci rime:Maquetaci n 1
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Premessa
Nella settimana del 17 al 19 luglio del 2012 si è svolto in Galizia, al
Balneario Rio Pambre, il settimo ludoconvegno del Grupo Tenzone destinato a dibattere la canzone dantesca Le dolci rime d’amor ch’io solea.
Sono trascorsi sette anni dal primo incontro del gruppo, nel luglio del
2006, tenutosi in questa stessa sede, quando i suoi membri, dopo il Convegno di Psicología y Poética en Dante (Madrid, 2005), decisero creare
uno spazio dove il delectare e il prodesse potessero fondersi in un ambito
di amicizia e di impegnato lavoro. Uno spazio, come diceva Juan VarelaPortas nella premessa del primo libro della Biblioteca de Tenzone, «con
le condizioni necessarie affinché l’espressione e la difesa delle proprie
idee e dei disaccordi –e anche delle certezze non completamente dimostrate o dimostrabili- potesse produrre una vera comunità scientifica».
Credo che oggi si possa dire che questa comunità, di amicizia e di impegnato lavoro, si è affermata intorno allo studio delle quindici canzoni di
Dante, un corpus, nel 2006, non molto frequentato dalla critica ma che ha
cominciato ad attirare la sua attenzione, «anticipando – come diceva Fenzi
nella premessa al volume dedicato a Amor che nella mente mi ragiona
(2013) – quell’esigenza di approfondire lo studio delle rime dantesche
alla quale, da allora, si è da più parti cominciato a rispondere».
Con il ritorno a Rio Pambre, si è voluto enfatizzare l’importanza di un
ciclo temporale che ha raggiunto la linea dell’equatore nel corpus delle
canzoni dantesche, e anche rinnovare lo slancio per continuare il viaggio
e portare a termine il progetto di partenza. Un progetto che ha dimostrato
anche la sua ricca potenzialità con il contributo alla dantistica spagnola
della prima traduzione ed edizione commentata in Spagna delle quindici
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canzoni di Dante e altre rime, fatta da sei membri del gruppo e appena
pubblicata dalla la casa editrice Akal.
Oltre ai participanti degli anni precedenti si è aggiunto quest’anno il
prestigioso filologo e studioso Paolo Borsa dell’Università di Milano e ci
siamo giovati anche -sebbene la sua relazione non faccia parte di questo
libro- della partecipazione di Umberto Carpi che, non essendo potuto arrivare in Galizia, l’ha letta attraverso una video-conferenza. Umberto
Carpi è stato fino alla fine della sua vita un entusiasta sostenitore dei ludoconvegni del Grupo Tenzone. Era presente, come membro fondatore
sette anni fa nel primo ludoconvegno, apportando al progetto che stava nascendo la sua intelligenza e passione e in questa occasione non ha voluto
mancare a quello dedicato alla canzone dantesca della nobiltà, materia
nella quale le sue ricerche e pubblicazioni sono di rilevanza decisiva.
Nel suo intervento, come è solito in lui, Umberto Carpi ha delineato accuratamente il contesto storico e politico della canzone, con precisione
di dati e di personaggi che mostrano al lettore il teso scenario sociale e politico in cui si moveva Dante nel momento della sua composizione. Sulla
linea degli autori che negano il carattere originario allegorico della donna
gentile, l’abbandono delle dolci rime d’amore per rime di intento civile ed
etico non risponde per Carpi all’inaccessibilità della donna-Filosofia, cioè,
ad ardui problemi metafisici con cui si imbatte Dante nello studio della filosofia, ma a «stringenti ragioni politiche» della Firenze comunale di
1295, una fase di complessi sconvolgimenti politici, economici e sociali:
«è in tale contesto che a Firenze effettivamente si pone il tema culturale
della gentilezza, della definizione di nobiltà in una società aperta di straordinaria mobilità sociale, con tormentati incroci e conflitti di interessi e
di parentele». Dieci anni dopo, invece, nel momento della redazione del
quarto trattato del Convivio, la definizione della nobiltà per Dante si deve
cercare in un contesto affatto diverso da quello comunale fiorentino degli
anni Novanta, un contesto di regni feudali, di incipienti regimi signorili,
di Comuni popolari, mancanti della forza aggregatrice della curia imperiale. Per questa ragione, nel commento di Convivio IV, spiega Carpi,
Dante «inquadra la lettura dei suoi vecchi versi entro la logica del modello
imperiale che sta costruendo […] e se la canzone di dieci anni prima
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viene confermata nella sua lettera, risulta però finalizzata a un contesto
politico e sociale affatto nuovo».
La relazione di Pasquini comincia con la accurata e utile parafrasi della
canzone, questa volta più difficile delle precedenti, dato il suo carattere filosofico e la sua fitta sintassi logico argomentativa. L’autore giustifica il
titolo del suo saggio richiamando, rispetto alla decisione di Dante di lasciare temporaneamente «le dolci rime», la svolta leopardiana del 1826,
segnata dall’epistola Al conte Carlo Pepoli, «liquidatrice della stagione
degli ‘idilli’ e instauratrice di una ‘prosa’ della vita contro ogni evasione
poetica». Infatti per Pasquini, sulla linea di Carpi, sono i gravi problemi
di filosofia morale, emergenti dallo sfondo della politica fiorentina di quegli anni la ragione dell’abbandono in Dante della poesia amorosa, e considera il movente sociale, economico e politico come l’origine della
canzone, e non quello dato da Dante nel Convivio:
le altre canzoni parlavano più liberamente di una donna reale trasformata, in virtù di un miracoloso gioco di prestigio, nell’icona
della Filosofia; questa invece, partendo dall’esaltazione della verità
(«Cominciai dunque ad amare li seguitatori de la veritade e odiare
li seguitatori dell’errore…»), ulteriore pretesto geniale legato all’invenzione della donna-Filosofia, punta decisamente sull’eone
nobiltà, nei suoi addentellati sociali, riconoscendone appena (ma
solo nel principio e nella fine del testo, ai vv. 5-8 e 142-146), la sua
evidente e quasi etimologica pertinenza alla Donna gentile.
Il modello filosofico-morale di Dante nella canzone è anzittutto per
Pasquini L’Etica Nicomachea e non tanto il De consolatione philosophiae
e il De amicitia di Cicerone e, in questo senso, l’autore stima più come
orizzonte interdiscorsivo che intertestuale i nessi con il Cicerone del De
officiis e l’Agostino del De civi.
La parte centrale del saggio realizza una rigorosa analisi del concetto
di nobiltà esposto da Dante nella canzone e mette in evidenza il percorso
argomentativo di Dante, secondo il procedimento scolastico della quaestio
(probatio, reprobatio), tendente a demolire il valore della ricchezza, l’opinione che un uomo vile non possa diventare nobile, la dimostrazione della
superiorità della nobiltà rispetto alle virtù morali, e la considerazione della
gentilezza come dono di Dio. Per poi rilevare suggestivamente nell’ultima
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parte delle sue riflessioni il carattere anticipatorio della canzone, ma soprattutto del commento del libro IV del Convivio, rispetto a importanti
passaggi della Commedia. Così, nella canzone, «l’aver privilegiato la nobiltà rispetto ad altri possibili argomenti costituisce una prova del fatto che
già a metà degli anni Novanta Dante ponesse le premesse della concezione del mito del «nobil castello» del Limbo (Inf. IV)». E rispetto al Convivio, Pasquini fa una ricca e illustrativa enumerazione di elementi
lessicali, neologismi, comparationes, metafore, digressioni che nascono
dal commento della canzone e costituiscono «umbriferi prefazii» della
Commedia come, per esempio, quella «sulla necessità della Monarchia
(Cv. IV iv 1-14) rispetto al XVI del Purgatorio». Ma Pasquini enfatizza
soprattutto l’importanza del capitolo XXVIII del quarto libro perché fornisce «gli abbozzi embrionali del canto di Guido da Montefeltro, trasmettendo al XXVII dell’Inferno, che pur ne rappresenta la più clamorosa
palinodia, tutto un repertorio di metafore nautiche» […] per non dire della
grande metafora del rapporto di Marzia e Catone, l’anima umana che
torna a Dio dopo mille vicissitudini, che rappresenta la principale giustificazione della scelta di Catone come guardiano del Purgatorio». Nel commento del IV libro del Convivio, conclude Pasquini, la canzone «viene
come transcodificata e proiettata ormai verso le conquiste spirituali del
poema».
Raffaele Pinto si domanda all’inizio del suo saggio, come questione
preliminare a ogni altra ne Le dolci Rime, perché Dante a un certo momento della sua carriera adotti come materia poetica temi di natura politica e sociale. Egli non considera in principio le ragioni politiche e sociali
come il punto di partenza della canzone e ancora meno lo scontro di Dante
con ardui problemi metafisici, allegorizzati dal disdegno della donna filosofia, dato che la allegorizzazione di quest’ultima è sopravvenuta per
Pinto nel processo sublimante del Convivio, ma pensa che siano prima di
tutto ragioni ideologiche e poetiche quelle che hanno fatto cambiare a
Dante il concetto d’amore e gli hanno permesso di non sottomettersi più
al divieto della Vita nuova che impediva di rimare su qualsiasi materia
che non fosse quella d’amore. Ragioni dunque strettamente ideologiche
e poetiche suggerite dal commento di Tommaso al De causis e presenti
nella canzone Amor che movi, scritta come risposta alla cavalcantiana
Donna me prega e datata, secondo Pinto, proprio dopo la Vita nuova, sov8
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vertendo così il tradizionale quadro di riferimento temporale di Voi che
‘ntendendo e Amor che nella mente, scritte, secondo lui, prima della stesura del libello. Con la teoria neoplatonica dell’amore, sganciato dalla
passione e dal fantasma negativo della donna, cioè con l’idea di un amore
inteso como principio celeste, emanazione dell’Uno in cui bellezza e
bontà confluiscono, Dante può adottare senza contraddirsi la materia delle
canzoni dottrinali e, d’altra parte, potrà assumere nelle petrose, di fronte
al desiderio non corrisposto, la posizione cavalcantiana dell’amore come
passione distruttiva.
Dante fa dunque, secondo Pinto, della sconfitta della teoria d’amore
espressa nella Vita nuova «un trampolino per nuove acquisizioni di pensiero e di poesia», e sotto la nuova ideologia neoplatonica, la nobiltà viene
identificata con la natura spirituale e divina dell’universo. In quanto energia cosmica emanante dall’uno divino, «la nobiltà dell’anima del mondo
può essere comparata con la nobiltà di quanti svolgono, sulla terra,
l’azione di governo politico». La nobiltà acquista così un fondamento metafisico poiché è Dio stesso che la infonde nell’anima al momento della
nascita, costituendo per Pinto questa «la originalissima tesi che la canzone
svolge e dimostra», spostando il discorso relativo ai comportamenti dell’individuo dal pragmatismo dell’etica sociale ai grandi problemi della
teologia poiché «la soluzione che Dante dà alla questione della gentilezza
coincide infatti con quella che danno i teologi al problema della infusione
nel feto umano dell’anima individuale».
Un importante contributo del saggio di Pinto é legato alla semiotica
della nobiltà: «della gentilezza ciò che soprattutto importa al poeta –
spiega Pinto- è la sua riconoscibilità, il suo rivelarsi all’esterno, alla percezione e all’attenzione degli altri». La nobiltà
deve essere riconoscibile in ogni momento dell’esistenza, poiché
la caratterizza dal principio alla fine. È qui che emerge, in modo
direi clamoroso, il sovvertimento di ogni teoria giuridico-sociologica della gentilezza: questa, intesa come merito intrinseco al carattere ed al temperamento, seleziona in modo naturale e quindi
necessario i migliori, che devono essere non legittimati (dal potere
o dal diritto o dalla ideologia) ma semplicementi riconosciuti, dalla
società, in quanto tali.
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Da queste considerazioni consegue, spiega Pinto, che il problema per
Dante della nobiltà sia quello della sua leggibilità «posto che la gentilezza
afferisce all’anima della persona, e non alle sue determinazioni esterne o
materiali». La gentilezza infatti è naturalmente ‘effusiva’, emette segni
che la fanno riconoscere – segni che Pinto individua puntualmente nei
versi della canzone – «se non ci si lascia ingannare dalla falsa opinione
relativa alla famiglia e alle ricchezze». Lo studioso trova qui un’altra
prova del «radicalismo con cui Dante priva di credibilità e legittimità le
istituzioni che, a un titolo qualunque, pretendono di regolare e sanzionare
la dignità e il merito delle persone», e ricorda il percorso di Dante nel De
Vulgari Eloquentia, «analogamente decostruttivo, con cui libera il linguaggio da ogni ipoteca istituzionale, naturalizzandone completamente
le origini e le funzioni». La semiotica della nobiltà, conclude Pinto, non
viene svolta da Dante originariamente nel Convivio, come pensa Maria
Corti, ma in questa canzone:
il Convivio si limita a dichiarare in prosa concetti che nella canzone erano stati già perfettamente acquisiti e svolti. È evidente, infatti, che all’altezza di Le dolci rime il paradigma semiotico era
già operante nella riflessione del poeta, che ad esso approda lungo
l’accidentato percorso neoplatonico iniziato dopo la polemica Vita
nuova-Donna me prega.
Carlos López Cortezo, sulla linea di interpretazione allegorica della
donna gentile, collega direttamente Le dolci rime con l’inizio di Amor
che nella mente mi ragiona dove Dante confessa di essere arrivato ai limiti della sua capacità intellettuale e poetica per capire ed esprimere ciò
che quella donna rappresenta. Considera dunque che dal punto di vista
allegorico l’origine della canzone sia di carattere conoscitivo e filosoficomorale, e risponde alle difficoltà di Dante di fronte ad ardui problemi metafisici come quello della prima materia, precisando in questo senso che
nella canzone il disdegno della donna non sarebbe tanto figura dell’inaccessibilità di tali problemi quanto della sua reazione verso l’atteggiamento
di superbia che nel poeta implica la scelta di tali temi. Per questa ragione
Dante decide di cambiare materia e sceglie quella della virtù, in concreto
la nobiltà, per, come dice alla fine della canzone, riacquistare la corrispondenza amorosa della donna. Lo studioso completa il senso di questa
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decisione di Dante con il commento del Convivio in cui l’autore tratta
dell’ordine gerarchico nello studio delle scienze. Secondo quest’ordine
si può accedere allo studio della divina scienza, quella che si occupa della
conoscenza di Dio, solo dopo essersi occupati dei problemi umano-terreni
propri della filosofia morale: «in sintesi, la morale, la più umile delle
scienze, viene nobilitata fino al punto di diventare l’unica capace di vincere la ‘superbia’, cioè il rifiuto o il disdegno della più alta e nobile delle
scienze», fatto che verrà corroborato nella Commedia: solo dopo il viaggio di Dante attraverso l’inferno e il purgatorio e dopo aver acquistata la
nobiltà morale, il problema della prima materia sarà trattato da Beatrice
nel paradiso (XXIX, 22-30), dimostrando così lo studioso la rigorosa coerenza del pensiero di Dante fra la canzone, il Convivio e la Commedia.
Nella seconda parte del suo saggio invece López Cortezo si attiene
strettamente al senso letterale della canzone e considera che «Dante inserisce il suo discorso sulla nobiltà nell’ambito di una relazione amorosa
tra una donna, che è gentile, e il poeta […]; rivolge infatti il suo discorso
sulla vera gentilezza proprio a una donna gentile, amata da lui, ma che si
è mostrata ‘fera e disdegnosa’ nei suoi confronti». Il poeta vuole spiegare
alla donna, rappresentante della tradizionale nobiltà di stirpe, cosa sia la
vera gentilezza, «quella che deriva dalla probitas e non dalla ricchezza o
dalla schiatta»: il disdegno e «l’innamoramento di sé stessa della donna»
(vv.18-20) mostrerebbe dunque l’atteggiamento superbo della classe nobile fiorentina e la critica di Dante nei suoi confronti. Lo studioso argomenta la sua tesi con una dettagliata e ricca lettura intertestuale fra il De
Amore di Cappellano – lo squisito paradigma aristocratico dell’amore cortese che Dante prende anche come bersaglio implicito della sua critica –
e Le dolci rime, mettendo a confronto i dialoghi del trattato francese fra
una donna gentile e un plebeius, avallando così il tratto di ‘erranti’ inerente al titolo. Con questi ultimi «la donna gentile dantesca sarebbe d’accordo circa il parere sull’origine e l’essenza della gentilezza, allo stesso
modo che la nobildonna del De Amore, alla quale il plebeius rinfaccia il
suo errore». Da questo confronto intertestuale che implicitamente inserisce l’origine della canzone e il concetto di nobiltà nel teso dibattito sociale
fiorentino del tempo di Dante, è da sottolineare – non potendo qui farlo
in dettaglio – la notevole frequenza, individuata da López Cortezo nei
dialoghi dell’opposizione ‘dolce’ vs ‘aspro’, così pertinente nella poetica
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della canzone dantesca. Analogamente, il confronto che fa Cappellano tra
due fatti naturali ma contraddittori: «da un lato, i limiti sociali, stabiliti
dalla natura, affinché gli uomini vivano contenti all’interno di essi, senza
cercare di oltrepassarli; dall’altro, il desiderio, anche esso naturale, che
spinge l’uomo, innamorato della sdegnosa, a volere rompere le barriere di
classe». Qui la risposta di Dante è contundente e sovverte pienamente
l’idea del De amore: se al plebeius, moralmente nobile, soltanto un principe ha la potestà di dare nobiltà, per Dante la nobiltà è «una grazia» di
Dio (vv. 15-18), indipendente dalla stirpe (Cv. IV xx 5). È proprio questa
la risposta che la canzone vuole dare alla donna gentile: «la gentilezza di
cui è tanto fiera da disdegnarlo, è un dono di Dio, come d’altronde Dante
aveva già scritto a proposito di Amor che ne la mente mi ragiona».
Fondamentalmente aristocratica – questa è anche l’idea conclusiva del
saggio di López Cortezo – Le dolci rime per Paolo Borsa nasce in implicita contrapposizione alla legislazione del Comune del Popolo che «aveva
trasformato la nobiltà da segno di prelatura, quale era stata fino ad allora,
in motivo di esclusione dalla vita politica cittadina». Di fronte ai diversi
aspetti o modalità dell’idea di nobiltà (nobilitas politica et civilis, theologica, naturalis) che si incrociano nella riflessione su questa materia nell’epoca di Dante, Borsa realizza un documentatissimo ed esaustivo studio
storico – che qui non può essere riassunto nelle sue varie tappe – esponendo le diverse fonti di questo polivalente concetto dall’antichità all’epoca di Dante, considerando poi i modi in cui, «a partire dall’età
patristica, la cultura e la letteratura cristiana accolsero, confutarono o trasformarono le varie nozioni di nobilitas ereditate dal mondo classico e,
analizzando ulteriormente il processo con cui, in età altomedievale, nacque e trovò legittimazione dottrinale il concetto di nobiltà metafisica, che
si affermò pienamente nella letteratura filosofica e teologica dei secoli
XII e XIII».
Perfettamente strutturato, il saggio di Borsa fa nel paragrafo sesto un
bilancio delle tappe fondamentali dell’evoluzione e della diffrazione semantica di nobilitas e nobilis, previamente enumerate e commentate, per
concludere nel settimo che Le dolci rime «si presenta come la risposta di
Dante, da poco entrato nella vita politica fiorentina, all’interrogativo […]
su quali basi fondare l’identificazione di un nuovo ceto dirigente citta12
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dino». Anche se un po’ lungo cito l’illuminante passaggio conclusivo di
Borsa:
il testo de Le dolci rime rivela come, già all’altezza della canzone,
Dante avesse esplorato e attentamente analizzato l’ampio e problematico campo semantico del termine. La materia è affrontata
in tutta la sua complessità: la soluzione proposta è una sintesi che
tiene conto della ‘multidimensionalità’ della questione e che, senza
cedere a facili compromessi, si pone in equilibrio fra valori del
ceto aristocratico, istanze degli homines novi e ideali della nuova
aristocrazia dell’intelletto di formazione universitaria. La posizione dantesca, del resto, è perfettamente coerente con la figura
dell’autore, cólto rappresentante della piccola nobiltà (equitator,
non eques, a Firenze, eppure nobilis vir in un documento redatto
a San Gimignano nel 1300, dove è inviato in qualità di ambasciatore) che si era accostato alla parte popolare scegliendo di iscriversi
a un’Arte, quella dei medici e degli speziali, che gli consentiva di
mantenere il profilo comunque aristocratico del philosophus.
Il contributo di Juan Varela-Portas costituisce una intensa riflessione filosofica e ideologica sul contenuto della canzone. Parte dal considerare
le due posizioni della critica: quella che favorisce i motivi sociali e politici
come origine della canzone e quella che la considera prevalentemente una
riflessione dottrinale, perfettamente compatibili e persino inseparabili all’interno di un problema non solo intellettuale e politico ma implicante
pure la vita sensibile e affettiva. Una posizione la cui contraddittorietà
Dante infruttuosamente cerca di risolvere negli gli anni ’90 e i primi del
’300. Si tratta appunto «di integrare in una concezione unitaria il mondo
sensibile e quello intelligibile, l’anima e il corpo, la ‘luce’ e la materia,
ecc., e quindi ontologia ed etica, metafisica e filosofia morale».
In questo senso Juan Varela inizia il suo saggio precisando le ragioni
dell’abbandono da parte di Dante dello studio della filosofia, abbandono
non dovuto in generale alla difficoltà di ardui problemi metafisici ma alla
concreta questione dell’ origine della materia collegando in modo nuovo
e originale questo problema alla canzone: «l’abbandono della questione
della prima materia e la canzone sulla nobiltà risulta [...] assolutamente logica se consideriamo che la prima materia è precisamente lo stato di massima imperfezione, di massima potenzialità e minima attualità, mentre la
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canzone propriamente svolge, come si sa, una riflessione sulla “perfezione
di propria natura in ciascuna cosa” (Cv. IV xvi 5)». L’autore si propone
dunque mostrare come «la questione della materia è sempre latente lungo
la canzone come sfondo necessario sul quale svolgere il discorso sulla
nobiltà metafisica – e le sue difficoltà per diventare nobiltà civile –, fino
al punto che potremmo descrivere la canzone come un tentativo di capire
e spiegare le condizioni in cui possono essere superate le limitazioni che
la loro materialità impone agli esseri».
Una ampia riflessione ideologica si sviluppa nella parte centrale del
saggio impostata sull’opposizione in Dante fra la necessità di ribadire la
sacralità del mondo e dell’uomo – minacciata dallo sviluppo socioeconomico – e l’urgenza di adattare questa sacralità alla nuova società non più
schiettamente feudale. Qui l’autore mette in evidenza la profonda contraddizione vissuta da Dante dato il cambiamento delle basi dell’identità
stessa che incomincia a essere fondata sul valore individuale e di conseguenza, l’incipiente separazione nella vita comunale fra un ambito privato, formato intorno all’identità individuale, e un ambito pubblico dove
questa identità trova una riconferma pubblica nella vita civile. E l’autore
esemplifica questa contraddizione accostando la canzone alla novella IV
1 del Decameron dove è la voce sociale quella che ormai conferisce il valore sociale: Guiscardo non è nobile perché Dio gli ha conferito capacità
speciali nel momento della gestazione ma perché viene dichiarato nobile
dalla voce pubblica in virtù del suo comportamento.
Queste considerazioni di carattere ideologico si completano, da una
parte, con una riflessione sui rapporti fra nobiltà e amore e dall’altra sul
concetto di ricchezza. In quanto al primo, l’amore non sarebbe più un elemento di legittimazione sociale, come accadeva negli stilnovisti, ma una
forza cosmica che viene dal cielo, idea che implica per l’autore «un allargamento del suo campo d’azione al mondo tutto, e, se ci si concede dirlo,
una sua prima ‘democratizzazione’, che non risulta più un segno di
classe». E in quanto al concetto di ricchezza in Le dolci rime è già presente l’intuizione della radicale alterità fra il mondo ancora non capitalista
del Comune e il mondo capitalista dell’Età Moderna. Nella concezione sacralizzata del mondo le merci possono essere ‘intese’ solo come radicale
imperfezione, generanti un tipo di desiderio completamente alieno al con14
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trollo della ragione e anche alla ‘drittura’, un desiderio assolutamente diverso da quello della scienza: il primo insaziabile; il secondo, nel graduale processo di acquisizione della conoscenza, permette di sperimentare
il riposo e la perfezione di un diletto autentico.
Conclude l’autore il suo ricco e impegnativo saggio riprendendo l’idea
iniziale del rapporto tra la questione della prima materia e la nobiltà: la nobiltà sarebbe per l’autore l’antidoto contro la tendenza degli esseri alla
materialità informe, al non-essere radicale, che, ‘inteso’ o no da Dio [...]
è comunque alla base dell’universo e genera un desiderio insaziabile,
un’assenza totale di vero diletto. La nobiltà, come prerequisito per
l’amore, servirebbe «da contrappeso a questa controtendenza dell’universo e dell’uomo verso la distruzione, ma, come nelle successive canzoni
di Dante, scritte in mezzo alla battaglia politica e ai conflitti cittadini, questa controtendenza si farà più e più pesante fino a diventare vincitrice».
Per finire questa presentazione non mi resta che ringraziare Juan Varela-Portas e la sua famiglia per la gentile e calda accoglienza e ospitalità
nel bel Pazo familiare a Antas de Ulla dove fummo accolti anche sette
anni fa. Con il ricordo vivo di tutti quanti eravamo lì in quel momento festeggiando il convivio intorno a Le dolci rime e all’attraente percorso che
ancora ci offre il resto delle canzoni di Dante.
ROSARIO SCRIMIERI
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