psicoin
rivista dell’ordine degli psicologi delle marche
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Bernardo Gili
redazione
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Coordinatrice
Patrizia Vetuli
Giuseppe Lavenia
Marco Massaccesi
Anna Maria Mensà
Luca Pierucci
Collaboratori
Silvia Greganti
Milo Montelli
Giuseppe Narciso
impaginazione
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Registrato il 19.06.2000
Presso il Tribunale di Ancona
Con il n. 8/2000
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Indice
La pagina del Presidente
Bernardo Gili*
La pagina del Presidente
Bernardo Gili
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L’annunciato tentativo di liberalizzare le Professioni sembra sia stato
ridimensionato.
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Non possiamo che essere lieti di
come, ancora una volta, gli Ordini professionali abbiano resistito a
proposte di cambiamento o addirittura di abolizione che suonano
come il tradimento di un patto di
lealtà e correttezza che il professionista stipula con la Società, che riguarda l’etica e la deontologia del
suo intervento.
Credo sia alto il rischio per cui,
immettendo la pratica professionale della psicologia all’interno di
una forte logica mercantilistica, si
favorisca un depauperamento della qualità professionale, con un relativo spostamento di risorse verso
una forte propaganda del singolo
professionista o studio o associazione.
Tutti noi sappiamo bene che non
si tratta di difendere “caste”, bensì
continuare a rispettare i percorsi
formativi e la pratica professionale
Editoriale
di Patrizia Vetuli
Psicologia
La psicologia dello sport
Barbara Rossi
Il terremoto... dentro: lezioni dal terremoto dell’Abruzzo
Valeria Catufi
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Orizzonti nuovi
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Pratica sportiva compulsiva e dipendenze
comportamentali: un’analisi psico-sociale
Stefano Oronzo-Enrico Iraso
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Intersezioni
Neuroni specchio: scoperta e risvolti applicativi
Stefania Stimilli
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In fondo
Verso un lavoro perfetto
Anna Fata
Sull’umanità dei curanti
Anna Fata
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che con lealtà e passione abbiamo
intrapreso e proponiamo ai nostri
clienti e ai nostri pazienti.
Sottolineo inoltre l’importanza per
l’Ordine del compito, dopo quello della deontologia, di porsi come
un riferimento per il professionista che fuori da altri contenitori
istituzionali, ASUR, Enti, società
varie, si propone “sul mercato”.
Un professionista che è capace di
imparare ad ascoltare, leggere il
contesto sociale, la comunità, il
territorio e che sa elaborare progetti e proposte per interventi al
singolo privato, all’associazione,
all’ente, eccetera, e con armonia
sa accompagnare alla ricerca di risposte rispetto a quesiti, criticità ed
emergenze.
Soprattutto, sa continuamente apprendere dai propri contesti e proporre accompagnamento a percorsi
di apprendimento dei contesti di
chi usufruisce del suo intervento.
Crediamo sia anche questo un
compito che il presente Consiglio
debba avere nelle sue prerogative.
* Psicologo Psicoterapeuta, Presidente dell’Ordine degli Psicologi delle Marche
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4
Editoriale
Psicologia
di Patrizia Vetuli*
Barbara Rossi*
Nel licenziare i numeri del 2011 di
Psico In, torno a sottolineare come la
rinnovata veste editoriale – per una
scelta voluta e condivisa – non risponde solo alla esigenza di ottimizzare i costi, quanto di dotare l’Ordine di uno strumento agile e capace
di farsi luogo e spazio di dibattito
delle problematiche tradizionali e
di attualità della nostra professione.
Ciò, naturalmente, fatti salvi i valori
di riferimento, nonché gli obiettivi
di serietà e scientificità dei contenuti.
A questo proposito, l’inserimento di
Psico In nel range delle pubblicazioni
periodiche scientifiche, avvenuto –
ci piace sottolinearlo – per la prima
volta nel 2010, costituisce un salto di
qualità della rivista. Scientificità e dialogo, dunque, sui temi centrali della
professione attraverso un dibattito
in cui figurano firme di spicco come
quella di Silvia Vegetti Finzi. Soprattutto, Psico in è la rivista dell’Ordine,
dunque è aperta a tutti gli iscritti:
accogliamo volentieri suggerimenti e
siamo grati a quanti vogliono dare un
apporto in termini costruttivi e propositivi. I primi due numeri del 2011
sono caratterizzati dalla presenza dei
resoconti dei gruppi di lavoro atti-
vati dal nostro Ordine evidenziando
una sinergia proficua tra il lavoro dei
gruppi e i risultati oggetto di pubblicazione. Per la sezione Psicologia, abbiamo il contributo di Barbara Rossi,
del Centro Regionale di Psicologia
dello Sport di Macerata, con La psicologia dello sport, che, partendo dal
concetto che psicologia e sport hanno come minimo comune denominatore la persona, individua le aree
in cui opera lo psicologo dello sport.
Valeria Catufi, in Il terremoto… dentro: lezioni dal terremoto dell’Abruzzo,
sottolinea l’importanza di un sostegno competente per le vittime di un
evento calamitoso e per gli stessi soccorritori. In Orizzonti nuovi, Stefano
Oronzo e Enrico Iraso con un lavoro
sulla Pratica sportiva compulsiva e dipendenze comportamentali: un’analisi
psicosociale, analizzano la dipendenza
da sport e il conseguente approccio psicologico al fenomeno. Per
Intersezioni pubblichiamo Neuroni
specchio: scoperta e risvolti applicativi
di Stefania Stimilli e, per In fondo i
due suggestivi lavori con cui Anna
Fata si rivolge ai professionisti della
mente e del cuore: Verso un lavoro
perfetto e Sull’umanità dei curanti.
* Psicologa Psicoterapeuta, Coordinatrice Commissione Cultura, Web,
Formazione e Comunicazione
la psicologia dello sport
La psicologia e lo sport hanno un
minimo comune denominatore, la
persona, e condividono l’interesse
per l’uomo e la sua espressione attraverso lo sport. La psicologia dello
sport nasce agli inizi del 1900, quando alcuni psicologi ed educatori fisici, in situazioni differenti, iniziano
a formulare teorie sugli aspetti psicologici dell’attività sportiva. Nasce
allora la necessità di dare una spiegazione alle implicazioni emotive
e mentali connesse allo sport. Al
momento, in Italia, esistono associazioni che, sempre più numerose,
si occupano di psicologia dello sport
in virtù di una domanda del mercato sportivo che aumenta, seppure
lentamente rispetto ad altri paesi.
Ogni prestazione sportiva nasce da
una molteplicità di fattori, spesso
complessi, che si completano a vicenda. Questi fattori sono:
• Predisposizione fisica e
capacità
naturali
atletiche
* Psicologa
• Capacità tecniche e talento innato
• Capacità tattiche e strategiche
• Livello e intensità di allenamento
• Alimentazione e regole di vita
• Preparazione psicologica.
La preparazione psicologica ha
l’obiettivo di portare stabilmente l’atleta ad acquisire una buona
condizione mentale generale e una
buona capacità di preparare ogni
singola gara.
In tutti gli sport, la fiducia nella
propria forza, la determinazione, la
lucidità e la concentrazione nei momenti importanti, il saper stare in
un gruppo, sono elementi invisibili
che tuttavia fanno spesso pendere
l’ago della bilancia della prestazione
in una direzione positiva in presenza
di una buona preparazione mentale. È su questo che lo psicologo dello sport lavora, come un allenatore
sulla tecnica e tattica e un preparatore atletico sulla condizione fisica.
In tutti gli sport l’intervento della
psicologia è volto a ottimizzare:
- lo sviluppo e la crescita personale
dell’atleta
- la prestazione dell’atleta
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- la comunicazione e la coesione
all’interno del gruppo-squadra.
Questo genere di intervento, soprattutto negli sport di squadra, può
avere un impatto fortissimo quando
vede l’attiva partecipazione dell’allenatore che, supportato dallo psicologo dello sport, diventa anche trainer
delle capacità mentali dei suoi atleti.
La psicologia dello sport e nello specifico l’allenamento mentale o Mental Training si traduce, anche grazie
al prezioso contributo della ricerca
universitaria e delle neuroscienze, in
esercizi pratici che insegnano a porsi degli obiettivi di miglioramento
misurabili, che rendono l’atleta in
grado di ottimizzare le proprie potenzialità e puntano a facilitarne
l’espressione completa. Un risultato
positivo e duraturo è solo la conseguenza di come si lavora.
Allo psicologo dello sport spetta
il compito di portare nel mondo
sportivo l’approfondimento di anni
di studio finalizzati a migliorare le
abilità mentali e a facilitare le dinamiche personali e interpersonali valorizzando, però, la leggerezza che è
insita nello sport, che ha nel gioco
una componente insostituibile.
A proposito di gioco, lo sport agonistico non è l’unico ambito di applicazione della psicologia dello sport.
Una parte importante degli studi e
delle risorse è infatti destinata allo
sport infantile e allo sviluppo del ragazzo attraverso lo sport. In questo
contesto, l’impiego degli psicologi
dello sport è rivolto principalmen-
te alla formazione e al supporto agli
operatori delle società sportive con
settore giovanile. Queste, infatti,
si trovano in un’epoca storica con
una congiuntura di vari fenomeni
sociali e situazioni difficilmente gestibili senza una competenza specifica, una spiccata capacità organizzativa e una chiara attitudine alla
gestione della risorsa umana.
La psicologia dello sport potrebbe
rappresentare un valido aiuto, potrebbe davvero, se fosse più diffusa
la cultura di una richiesta d’aiuto in
questo senso, se fosse una disciplina
più conosciuta di quanto realmente è
agli addetti ai lavori e se non fosse più
circondata da un alone di diffidenza
o dal pregiudizio per cui allo psicologo si rivolge solo chi ha problemi.
In realtà, allo psicologo dello sport
si rivolge chi vuole migliorare, imparando a trovare soluzioni ai problemi o meglio alle difficoltà riscontrabili in questo difficile settore della
formazione dei giovani sportivi.
Il lavoro degli psicologi dello sport
serve anche a prevenire l’abbandono
precoce dello sport da parte dei bambini. Si parla di abbandono sportivo
precoce per dire che tanti bambini
lasciano lo sport intorno ai 10 o 12
anni, o anche prima, il più delle volte in maniera definitiva. Il bambino,
rinunciando allo sport, si priva di
elementi indispensabili alla sua crescita, quali il gioco, il divertimento,
la socializzazione, la competizione, il
senso di responsabilità, l’autonomia
e l’espressione dei suoi talenti.
Perché i bambini abbandonano lo
sport? Evidentemente perché non
si divertono più!
Volendo approfondire il discorso,
si rende necessario, per capirne le
scelte, dare una descrizione più
completa del bambino di oggi.
Il bambino del duemila vive in un
contesto molto diverso dal bambino
di qualche decennio fa: è bombardato di stimoli intellettivi di ogni genere, vive in una società multirazziale e
variegata, passa molto tempo seduto
a svolgere attività intellettuali (studio, play-station, computer, ecc.), ha
le giornate piene e molto strutturate,
poco tempo per giocare liberamente
esercitando la sua fantasia, poca possibilità di muoversi liberamente per
strada (correndo, saltando, lanciando ecc.), poco tempo da trascorrere
con i genitori che lavorano, e tende a
essere iper-nutrito: tutti si aspettano
molto da lui benché sia circondato
da agenzie educative ed educatori
che raramente si parlano tra loro interrogandosi sulle sue reali esigenze.
Tutte queste caratteristiche rendono il bambino molto più bisognoso
di 30 anni fa di tanta attività motoria completa e non troppo strutturata in cui possa respirare, divertirsi
e crescere insieme ad altri bambini
sotto la guida di un buon maestro
di sport che abbia un filo diretto
con le famiglie e, perché no, con gli
insegnanti scolastici.
La psicomotricità ci ricorda che
nello sport l’esigenza del bimbo è
quella di muoversi, giocare e stare
con i suoi pari; tutto il resto (coppe
da mettere in bacheca, campionati,
classifiche, ecc.) è solo una esigenza degli adulti. Questo non significa che i bambini debbano venire
abbandonati a se stessi o allenati
con metodi lassi: al contrario, significa che è necessario prenderli
per mano educandoli all’autonomia e al rispetto delle giuste regole
della salute e della correttezza del
gioco-sport finalizzato alla crescita
espressiva e non alla vittoria a tutti
i costi. Nemmeno il bambino ama
perdere quando gioca, ma l’obiettivo non è la vittoria: il fine del suo
giocare è il gioco stesso. Il bambino gioca per procurarsi piacere, è
stato così da sempre e sarà così per
sempre; quindi, una società nella
quale tanti bimbi abbandonano
lo sport è una società nella quale
gli adulti devono inevitabilmente
porsi delle domande sulla qualità
del prodotto che offrono come attività ricreativa.
Se i ragazzi preferiscono smettere
di giocare è solo perché nello sport
infantile che si propone loro spesso
c’è mancanza di gioia e di insegnamenti adeguati.
In sostanza, gli ambienti sportivi a
rischio di abbandono sono quelli
con sistemi troppo oppressivi, che
offrono allenamenti “scientifici”
e privi di divertimento, dove l’insegnamento privilegia esercizi ripetitivi e un senso dell’agonismo
sbagliato. Tali sistemi, pur essendo
rivolti ai più piccoli, sono basati sul
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giocare per vincere e hanno aspettative inadeguate che generano stimoli eccessivi che portano alla paura di perdere.
Le famiglie affidano agli allenatori
il loro bene più prezioso e insieme
a loro devono creare intorno ai
bambini un sistema ideale nel quale crescere e imparare a esprimere
e sviluppare le proprie capacità, la
propria personalità, il proprio agonismo senza la paura di sbagliare.
Chi ha paura di sbagliare ha meno
possibilità di esplorare il mondo
circostante e di imparare a superare
i propri limiti, finendo per abbandonare le attività che anziché essere
risorse, rappresentano solo inutili e
dannosi momenti di stress.
In una società sportiva dove istruttori preparati e supportati dalla psicologia dello sport portano avanti
tali valori e sono accompagnati in
questo da famiglie consapevoli e da
dirigenti competenti che non disdegnano il dialogo con la scuola,
il disagio e il rischio di abbandono si riduce notevolmente, mentre
cresce la possibilità di aiutare a crescere individui autonomi e in grado di essere felici e, perché no, abili
sportivi.
Nel nostro territorio l’Ordine degli
Psicologi della Regione Marche,
con la creazione del Gruppo di
Lavoro in Psicologia dello Sport e
con il proseguimento della collaborazione con il Centro Regionale
di Psicologia dello Sport di Macerata, si propone come punto di
riferimento per quanto riguarda la
formazione, la consulenza e la realizzazione di progetti in psicologia
dello sport e come canale di divulgazione delle teorie e della pratica
di questa preziosa disciplina.
Il terremoto... dentro:
lezioni dal terremoto dell’Abruzzo
Valeria Catufi*
C’è una parte del terremoto che non si
vede e non si ode ed è il sisma che avviene dentro, il “terremoto invisibile”,
Grignani (1999)
Secondo Castelli e Sbattella (2003),
l’emergenza è una circostanza in cui
un evento devastante, inaspettato
e improvviso, naturale o provocato dall’uomo (disastro), crea una
situazione di allerta e attivazione
in cui vengono messe in atto delle
manovre di soccorso. Vi è, dunque,
la presenza di un particolare clima
emotivo, di una risposta organizzativa e di un insieme di condizioni
ambientali. In un’emergenza possiamo distinguere le vittime “primarie”, ovvero i soggetti direttamente
coinvolti dall’evento critico; quelle
“secondarie”, ovvero i parenti e/o
testimoni diretti dell’evento; infine, le vittime cosiddette “terziarie”,
ossia i soccorritori intervenuti sulla
scena, spesso esposti a situazioni di
particolare drammaticità.
Questo contributo si propone di divulgare, attraverso una esperienza
personale, l’importanza di offrire sostegno nel post-emergenza non solo
alle vittime di un evento calamitoso,
* Psicologa
ma anche ai soccorritori che hanno
apportato il loro aiuto. Per entrambi
gli attori di una scena di emergenza
è importante promuovere il senso di
sicurezza, favorire un ritorno alla calma, incoraggiare il senso di efficacia
individuale e collettiva, e promuovere
il senso di speranza e di rete sociale
(Pietrantoni & Prati, 2009).
Dal novembre del 2009 al febbraio
2010, ho partecipato a un progetto
formativo attivato dalla Protezione
Civile del Comune di Bologna, intitolato “Competenze relazionali nel
lavoro della protezione civile. Lessons
learned del terremoto dell’Abruzzo”
(Catufi, Prati, & Pietrantoni, 2010).
Il corso era rivolto a circa 120 operatori della Polizia Municipale e 25
tecnici dei Lavori Pubblici che hanno partecipato come Protezione civile al terremoto dell’Aquila.
Il progetto si è articolato in sette edizioni, ognuna composta di
2 giornate per un totale di 12 ore.
Durante ogni incontro, il gruppo si
costituiva di circa 18 operatori. Non
sono state svolte lezioni frontali, ma
si è preferito utilizzare metodologie
interattive come, per esempio, la
discussione di casi e le esercitazio-
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ni individuali in aula. Questo ha
permesso, grazie anche alla disposizione delle sedie in forma circolare,
lo scambio di idee ed esperienze,
il confronto e la partecipazione.
Ogni incontro iniziava con la presentazione dei singoli partecipanti
ai quali era chiesto di riferire il proprio nome, il luogo di intervento e
il periodo di permanenza in Abruzzo, in modo tale da comprendere in
quale fase del post-emergenza erano
andati a operare. Sono stati affrontati argomenti relativi alle risposte
emotive e comportamentali dei
sopravvissuti, le reazioni dei familiari in caso di morte/dispersione,
le dinamiche sociali e i conflitti nel
campo, le competenze relazionali
con particolari target della popolazione (anziani, bambini,…).
Nel corso degli incontri, per favorire lo scambio tra operatori, venivano dati alcuni input di discussione:
le reazioni osservate nelle persone
in risposta all’evento accaduto, la
conflittualità tra la popolazione,
tra gli operatori e la popolazione e
tra gli operatori. Nell’ultima parte dell’incontro è stato chiesto di
esprimere quali fossero le emozioni
provate nella settimana in cui erano
in Abruzzo, distinguendo il loro vissuto secondo un ordine temporale:
alla partenza-arrivo, a metà settimana, alla partenza-ritorno.
Il vissuto degli operatori alla partenza-arrivo
I vissuti degli operatori erano legati
maggiormente all’incertezza, all’entusiasmo e alla curiosità: “Decisa
di andare, ma prima di partire mi è
arrivato il patema. Mi era venuto il
dubbio sulle mie capacità”; “Avevo tanta paura di sentirmi tra i piedi o essere
inadeguata”; “Ho capito che la situazione era in continua evoluzione. Sono
andato giù con l’idea di fare quello che
mi veniva chiesto”; “Preoccupazione/
disagio al momento della partenza. A
queste sensazioni negative si sono poi
sviluppate reazioni opposte, positive”.
All’arrivo in Abruzzo, gli operatori
si sono trovati di fronte a una situazione tragica e difficile, dovuta anche
all’incertezza del loro lavoro e del loro
ruolo: “Spaesamento all’arrivo iniziale
perché non ci sono certezze. Forza data
dal gruppo di colleghi e delle persone e
l’adattamento di tutti”; “Mi sono trovata incapace di parlare, mi sentivo
inadeguata. Ero spaventata da quello
che ti puoi trovare. Il primo sentimento
è stato inadeguatezza. La cosa che mi
ha fatto star male è stato questo silenzio surreale. Cominci poi a pensare che
dietro a tutta questa distruzione c’era
un negozio, c’erano persone che vendevano, mamma e figlia che compravano, zainetti nelle scuole… a un certo
punto ho smesso di pensare”; “Sensazione continua di sospensione. Questo
silenzio, questo «non luogo» diverso da
altri luoghi che era l’Aquila prima del
terremoto. Come stare in Purgatorio.
Tra passato e futuro c’era una cappa di
vetro. Sensazione che mi ha accompagnato per tutta la mia permanenza e
anche dopo”; “Senso di vuoto da quan-
do siamo arrivati là, facendo un giro
per l’Aquila. Vedevi il niente che era
rimasto. Un grande silenzio. La loro
gratitudine nei miei confronti e la mia
verso di loro e ingratitudine per aver
assistito a scene forse dovute alla stanchezza. Scene molto spiacevoli”.
Il vissuto degli operatori a metà
settimana
A metà settimana gli operatori erano ormai entrati nella routine del
posto e il loro vissuto ha subìto delle
modifiche: “A metà settimana, dopo
avere conosciuto cosa dovevi fare, eri
già a tuo agio. Facevamo il 30%-40%
di quello che potevamo fare”; “Ansia
perché sono partita con colleghi che
non conoscevo. Senso di colpa perché
le mie figlie volevano che non partissi. Frustrazione perché ti rendi conto
che non cambi la situazione, sei utile
ma non indispensabile. Sei uno fra
tanti. Euforia perché sono tornata
indietro di 15 anni, ero libera dalla
vita di tutti i giorni e dagli impegni
quotidiani. C’era un po’ l’atmosfera
da campeggio”; “Mi sono sentito utile perché se non c’ero lo doveva fare
qualcun altro, invece c’ero io e l’ho
fatto io! Sintonia tra tutti gli operatori volontari all’interno del campo.
Mi ha arricchito a livello umano”;
“Ho cercato di essere distaccata per
non farmi coinvolgere ma per essere
utile. Una notte ho avuto paura dopo
una scossa. Quando ho raccontato che
la scossa della notte era stata forte, un
ragazzo mi ha risposto «Sì, infatti» e
li mi sono vergognata”.
Il vissuto degli operatori alla partenza-ritorno
Al momento della partenza i vissuti
emotivi degli operatori sono di nuovo cambiati: “È stata un’esperienza di
emozioni. Sono partito carico di entusiasmo (come rivivere il periodo del
militare). La cosa bellissima è stata il
cameratismo che si è creato con i colleghi. Il silenzio mi ha impressionato. Il
rumore del silenzio. Gli ultimi giorni
avevo finito le pile, ero stanco mentalmente. Quell’entusiasmo mi era passato. Ho notato la tristezza del tornare a
casa”; “Mi sono sentita molto fortunata
perché io avevo tutto e loro niente. È un
misto tra stupida, imbarazzata perché
capisci che le cose che per te erano importanti dopo la visione di quelle cose
non erano più importanti. Molta tristezza negli ultimi giorni. Io parlo molto e durante il viaggio non ho detto una
parola tanto che i colleghi si sono anche
preoccupati!”; “Arricchito dalla situazione. Impotenza considerando quello
che facevo e quello che avrei potuto fare.
Mi sono sentito perso perché non sapevo cosa sarei andato a fare. Arrivati ero
ancora più perso. Al ritorno, con persone molto allegre che chiacchierano molto, siamo stati un’ora in silenzio”; “Ho
avuto il calo di adrenalina quando ho
visto un campo sportivo senza tende. Lì
ho capito di rientrare nella normalità”.
Il momento del ritorno, per molti
operatori, è stato duro per la stanchezza fisica e psicologica: “Appena
arrivata sono entrata nel contesto. Il
rientro mi ha costato fatica. Ho capito
l’inutilità di tante cose dopo l’esperien-
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za difficile vissuta. È stato più difficile
riabituarmi a Bologna che abituarmi
all’Aquila”; “Soddisfazione per il lavoro di gruppo, che è stato fatto qualcosa
nel lavorare con gli altri. Senso di spossatezza al rientro a Bologna. Quando
arrivi a casa c’è un crollo. Compassione e umanità delle persone. Appagamento con il contatto con gli altri”;
“Sorpresa, pensavo di trovare angoscia
e disperazione: nelle case rovinate si,
ma nelle persone no. L’angoscia del
terremoto l’ho vista nel vedere i cani
abbandonati. Armonia con i colleghi
e nostalgia quando sono ritornata a
casa. Al ritorno cercavo nei palazzi le
crepe, mi sembrava strano vedere case
senza crepe”; “Tristezza, umanità,
sofferenza, condivisione e solidarietà. Mi è rimasto impresso il ritorno
a casa: i miei mi hanno abbracciato
e mi sono rattristata pensando che io
ero fortunata invece una ragazza che
si doveva sposare a giugno aveva perso
il fidanzato nella tragedia”; “Noi non
spingevamo tanto per ritornare a casa.
Abbiamo fatto le foto con il turno che
veniva dopo. Ti rendi conto che hai
dato poco e ricevuto tanto e che quei
sorrisi e quei grazie ti hanno arricchito tantissimo. Ti senti legato a quella
situazione anche quando sei a casa”;
“Quando sono tornato sono stato tutta
la notte a vedere su internet se c’erano state scosse e ho letto quello che era
accaduto successivamente, anche se ero
stanchissimo”.
Dalle testimonianze emerse (Prati,
Catufi, Pietrantoni, Baldassarri, &
Monti, 2010) compare il senso di
arricchimento legato all’esperienza
vissuta. Prima di partire gli operatori riportano un timore relativo
alle proprie mansioni da svolgere
sul luogo dell’emergenza, ma una
voglia di portare comunque il proprio aiuto ai bisognosi. Successivamente, la permanenza nei campi è
stata caratterizzata da una fase molto attiva in cui gli operatori si sono
sentiti parte di una missione; alcuni, però, hanno evidenziato una
inutilità del loro lavoro rispetto al
grande bisogno che c’era. Al momento di rientrare a casa, c’è stata
una fase di stordimento dovuto a
una sorta di contraccolpo con una
realtà della quale si erano disabituati (la routine quotidiana). Questo è
rispecchiabile nel modello a fasi di
Hartsough e Myers (1985) che descrive le reazioni psicologiche degli
operatori dell’emergenza in un intervento critico. La fase di allarme
comincia nel momento in cui vi è
la comunicazione di un evento da
parte della centrale. Nella fase di
mobilitazione vi è una rapida attivazione psicofisiologica e la formazione di aspettative e rappresentazioni
cognitive volte a indurre azioni corrette ed efficaci. Successivamente,
nella fase dell’azione, gli operatori si
dedicano con grande dispendio di
energie all’intervento per il tempo
necessario. Infine, la fase di smobilitazione riguarda il ritorno alla normale routine lavorativa e sociale.
Con questo progetto si è pensato di
valorizzare il contributo di ciascun
operatore, attraverso uno spazio di
discussione, al fine di promuovere
una crescita professionale rispetto
all’esperienza vissuta in Abruzzo,
ma anche di migliorare le abilità relazionali con le persone delle zone
colpite da una calamità secondi i
principi base di quello che viene
chiamato “Primo Soccorso Psicologico” (Pietrantoni, Prati, & Palestini, 2008) allo scopo di formare gli
operatori per interventi futuri.
Le testimonianze riportate in questo contributo sono una parte di
quello che è emerso nel corso degli incontri, ma sono comunque
importanti per comprendere come
anche il soccorritore possa essere
travolto da emozioni intense che
non riesce a gestire con i mezzi personali di adattamento di cui dispone. È stata, questa, un’esperienza
importante perché mi ha permesso
di confrontarmi con una realtà diversa dalla mia (come il terremoto
Umbria-Marche del 1997) e ha rappresentato uno spunto per eventuali
corsi di formazione rivolti agli operatori dell’emergenza su quelle che
vengono chiamate “competenze
non tecniche”, ovvero tutte quelle
abilità cognitive, emotive, comportamentali e interpersonali che non
sono specifiche dell’expertise tecnica di una professione, ma che sono
allo stesso modo importanti nella riuscita delle pratiche operative
(Pietrantoni & Prati, 2009).
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bibliografia
Castelli, C., & Sbattella, F. (2003), Psicologia dei disastri. Interventi relazionali in contesti di
emergenza, Carocci Editore, Roma.
Catufi, V., Prati, G., & Pietrantoni, L. (2010), Competenze relazionali nel lavoro della Polizia
Locale in situazioni di disastro. Lezioni dal terremoto dell’Abruzzo, in «N&A mensile italiano
del soccorso», 19(209), 16-17.
Grignani, M. (1999), Il terremoto invisibile. Le reazioni psicologiche alla catastrofe. Studi e informazioni, a. XI-XII, nn. 31-32, 1998-1999-Irres.
Hartsough, D. M., & Myers, D. G. (1985), Disaster work and mental health: Prevention and
control of stress among workers, Rockville, Md., National Institute of Mental Health, «DHHS»
Publication n. ADM 85-1422, 1-44.
Pietrantoni, L. & Prati, G. (2009), Psicologia dell’emergenza, Il Mulino, Bologna.
Pietrantoni, L., Prati, G. & Palestini, L. (2008), Il Primo Soccorso Psicologico nelle maxi-emergenze e nei disastri. Un manuale operativo, Clueb, Bologna.
Prati, G., Catufi, V, Pietrantoni, L., Baldassarri, E., & Monti, M. (2010), Competenze relazionali nel lavoro di Protezione Civile. Lessons learned dal terremoto dell’Abruzzo. Rapporto finale del
percorso formativo, Protezione Civile del Comune di Bologna, Bologna.
Orizzonti nuovi
Stefano Oronzo-Enrico Iraso*
pratica sportiva compulsiva e dipendenze
comportamentali: un’analisi psico-sociale
14
Abstract
Numerosi studi hanno dimostrato
che l’attività fisica e sportiva sono
fonti inesauribili di benefici psicofisici. Tuttavia, per alcune persone
l’esercizio fisico può divenire un’ossessione, nota come dipendenza da
esercizio compulsivo (exercise addiction). Tale dipendenza consiste nel
meccanismo di auto costrizione degli individui a estremizzare il valore
dei benefici dell’attività fisica, ovvero
sportiva, senza la minima considerazione dei possibili ostacoli e conseguenti rischi. Non è infatti irrilevante
il numero di coloro che si sottopongono quotidianamente a continue
ed estenuanti sessioni d’allenamento,
travalicando i limiti del buon senso e
della resistenza fisica, alla ricerca della forma perfetta o di una modalità
per compensare carenze e tematiche irrisolte a livello personale e sociale. Gli aspetti pervasivi del
fenomeno sono messi in
relazione con l’eventuale
co-presenza di disturbi
* Psicologo
alimentari, modificazioni caratteriali
e sindrome da overtraining (sovrallenamento), condizione assai pericolosa che, se non opportunamente
rilevata e curata, costituisce un serio
rischio per la salute dell’atleta. In tale
ultima prospettiva, da diversi anni
è emersa la cosiddetta sindrome di
Highlander o dell’immortalità, che
è una malattia caratterizzata dall’inasprimento del senso della competizione, autostima e sensazione di
benessere che colpisce, in prevalenza, gli individui dai 40 anni in su.
1. Lo scenario - 1.1. Da tempo libero a tempo disponibile - 1.2. Lo sport quale bisogno
competitivo - 2. Lo sport come dipendenza
e l’esercizio compulsivo - 2.1. Le 4 dimensioni della “dipendenza da sport” - 2.2.
La sindrome da overtraining (OTS) - 2.3.
Disturbi alimentari e l’exercise addiction 3. L’approccio psicologico - 4. Sport come
droga: l’approccio neurobiologico - 5. Oltre la dipendenza: il Disturbo Ossessivo
Compulsivo - 5.1. La sindrome di
Highlander - bibliografia siti internet consultati
1. Lo scenario
Durante il secolo scorso si è assistito
a un forte incremento della pratica sportiva, in relazione alle mutate
condizioni di vita, al maggior tempo
libero a disposizione e alla sensibilità
emergente verso tematiche correlate
all’attenzione per il proprio corpo. Lo
sport, da pratica elitaria, è divenuto
oggi pratica di massa: se da una parte nascono continuamente palestre e
centri sportivi iperattrezzati in grado
di offrire agli atleti un programma
completo di addestramento, dall’altra sempre più si incontrano singoli
individui o gruppi che spontaneamente praticano sport in contesti
non strutturati (jogging, ciclismo e,
sulle spiagge, windsurf, beach volley
e via discorrendo). Basta inoltre recarsi negli iperstore dedicati, anch’essi
in forte espansione, per notare come
l’offerta di articoli sportivi stenti talvolta a soddisfare la crescente richiesta
di strumenti e abbigliamento tecnico
e specializzato che proviene trasversalmente da una popolazione variegata,
senza significative variazioni in ordine
età o sesso. La pratica sportiva, al pari
di tutte le attività umane, risponde a
diverse esigenze e spesso non scaturisce da una motivazione univoca. Si
può fare sport per il proprio benessere
psicofisico, per divertimento, per spirito di competizione, per guadagnare, per aumentare il proprio appeal
sessuale, per scaricare l’aggressività,
per perdere peso, per socializzare, per
passare il tempo, per incrementare la
massa muscolare, per rimanere giova-
ni e performanti, per scopo medico e
curativo, e la lista potrebbe essere ben
più lunga. Si deve quindi considerare
che, dietro al “fare sport”, esiste una
congerie variegata di spinte individuali, alcune palesi, altre meno, che
possono presentarsi singolarmente, o
più spesso, in combinazione tra loro.
1.1. Da tempo libero a tempo disponibile
Il concetto di tempo ha avuto nel
corso della storia dell’umanità, un
importante influsso sull’evoluzione
della società e dei suoi costumi, in
particolare relativamente al concetto di beni e consumi. La sua concezione ha influenzato, da un lato,
la riformulazione delle modalità di
reperimento dei beni; dall’altro, la
ripartizione delle risorse temporali
attraverso la pianificazione del tempo
libero. A partire dal ’900, per mezzo
dello sviluppo dell’industrializzazione
e dalla nascita della società di massa,
la crescita del benessere sociale ha determinato la facilità di reperimento
delle risorse, aumentando a dismisura e rimodulando l’offerta di tempo libero giornaliera. Quello che una volta
era il tempo “libero”, è divenuto, da
un lato, tempo pianificato, in ragione
di una disponibilità eccessiva rispetto alla sua reale domanda; dall’altro,
tempo disponibile indifferentemente
nell’arco di un giorno o addirittura
dell’intero anno solare. La sua percezione ha abbandonato il carattere
della residualità rispetto al lavoro, il
quale permeava i contenuti massima-
15
16
li dell’organizzazione sociale. Il tempo
libero è oggi legato alla persona, dotato di una propria specifica identità,
nel quale costruire anche la propria
identità sociale. È un luogo creativo
dell’individualità, in cui i settori del
ludens e del ristoro psico-fisico trovano una collocazione ripensata a seconda dei modelli di interpretazione
sociale. La diversità dei bisogni di cui
diviene contenitore è talmente eterogenea, da non rispecchiare i classici
postulati della società, che vede oggi
protagonisti del tempo libero tutte le
categorie dell’organizzazione sociale,
tutte le fasce di età, gruppi sociali e
sessi differenti. In definitiva, è divenuto terreno adatto a creare la propria
identità sociale. Un “luogo” nel quale
non solo recuperare ma anche costruire. In tale contesto, l’attività fisica e la
pratica sportiva sono divenute sia un
indicatore di uno stile che un modo
di vivere il tempo libero nel pieno accoglimento degli stereotipi sportivi
quali l’agonismo e la competizione.
1.2. Lo sport quale bisogno competitivo
Uno degli elementi caratterizzanti
la moderna idea di sport è l’agon, la
competizione. Attraverso il perfezionamento delle proprie capacità, in
rapporto con la prestazione dell’altro/avversario, si cerca di raggiungere
l’alto rendimento in competizioni
sportive sistematiche e organizzate.
In linea teorica, il confrontarsi con
l’avversario per misurare le proprie
capacità è uno degli elementi princi-
pali senza cui non sarebbe possibile
parlare di competizione sportiva.
Da tale elemento nasce la consapevolezza dell’importanza dell’altro,
dell’avversario che, mancando, non
renderebbe possibile il confronto. Il
cosiddetto bisogno competitivo che un
individuo può dimostrare necessariamente deve far fronte a tale connotazione. La degenerazione di tale concetto tuttavia è cosa semplice. In tale
contesto sussiste la distinzione tra:
a) sport professionistico e spettacolare
b) sport dilettantistico comunque
volto alla prestazione
c) sport amatoriale comunque competitivo
È ormai da tutti condiviso l’importante ruolo che svolgono l’educazione
fisica e lo sport nell’ambito dell’educazione, non tanto per le opportunità
che offrono di confrontarsi sul piano
fisico, ma perché forniscono reali occasioni di reciproca collaborazione e
arricchimento formativo, soprattutto, quando si basano sui veri valori
della cultura motoria che del bisogno
competitivo cerca di dare una soddisfazione paradigmatica. Dalla prima
Olimpiade dell’era moderna (1896)
nel rispetto dei principi del dilettantismo, della lealtà e della fratellanza,
e nell’osservanza del motto coniato
da De Coubertain “Più che vincere è
importante partecipare”, le Olimpiadi
(tranne che nei periodi delle guerre
mondiali), sono state sempre effettuate, ogni 4 anni, in paesi diversi. Con il
trascorrere degli anni alle Olimpiadi
si sono aggiunte altre manifestazioni
volte a recuperare e coniugare i valori
dell’agonismo con quelli dell’amicizia
e della pace. Dopo la I guerra mondiale, tuttavia, al carattere educativo
dell’attività fisica e sportiva si è aggiunta, quasi sostituendolo, un’eccessiva caratterizzazione dello spirito
competitivo. A ciò ha fatto seguito in
maniera naturale l’aspetto spettacolare affidato alle varie discipline, generando, in modo esplicito o nascosto,
una degenerazione del professionismo. È nata così la corsa al record, al
primato, alla lotta contro l’avversario
e contro il cronometro o contro la
misura. Il bisogno competitivo ha avuto una soddisfazione non incline alle
premesse. Lo sport professionistico,
caratterizzato da attività spettacolari, possedendo di per sé potenzialità educative soprattutto a livello di
emulazione, si svuota di ogni valore
culturale quando si lascia vincolare da
criteri di produttività e interesse economico perseguendo l’obiettivo della
prestazione, del record, della vittoria
e del relativo guadagno. C’è, in definitiva, uno stravolgimento dei valori
e delle finalità dello sport stesso. Il
professionismo, dunque, utilizzato
come mezzo di guadagno e di successo, tende a stravolgere la funzione
sociale dello sport tendendo ad appagare il bisogno competitivo in maniera
distorta. L’esasperata logica di mercato, anche se non comprende tutte
le discipline sportive, tende a trasformare lo sport in uno spettacolo in cui
l’atleta finisce per svolgere un vero e
proprio lavoro da affrontare secondo
le regole del professionismo, caratterizzato principalmente da esasperate
procedure tecnico-agonistiche e da
comportamenti omologati sempre
meno rispondenti a uno specifico
profilo socioculturale. Alcuni sport
sono rimasti legati allo spirito dilettantistico, mentre altri, che per molti
decenni hanno rispecchiato la specificità di singole culture (anglosassone,
latino-americana, italiana, francese...)
si sono svuotati nel tempo della specifica dimensione culturale locale.
Ormai sono sempre più numerose
le presenze di atleti di cultura diversa che riescono a confrontarsi su un
piano di parità con tutti gli altri campioni, anche in sport che in passato
sembravano essere una prerogativa
di determinate culture. A contribuire spesso all’eccessiva spettacolarizzazione dello sport sono, sicuramente,
i mezzi di comunicazione di massa
che, in base all’interesse economico
sollevato, contribuiscono in maniera
determinante a confezionare l’evento
sportivo come un prodotto da vendere nel modo migliore. Nel dualismo
tra professionismo e dilettantismo si
insinua il cosiddetto sport amatoriale
diretto a una pratica sportiva in cui le
finalità sociali dovrebbero essere predominanti su quelle legate alla prestazione, al risultato; tuttavia, spesso
anche in tale ambito la logica della prestazione agonistica domina sul ludens.
2. Lo sport come dipendenza e
l’esercizio compulsivo
In tempi relativamente recenti, la co-
17
18
munità scientifica si è spesso confrontata sul tema delle cosiddette “nuove
dipendenze” o dipendenze comportamentali, che comprendono una vasta
gamma di situazioni, quali il gioco
d’azzardo, la dipendenza da internet,
lo shopping compulsivo, la dipendenza da sesso, da lavoro e da cibo,
solo per citarne alcune. Se a livello
di importanti strumenti diagnostici
quali il DSM1, le uniche dipendenze
riconosciute sono tuttora quelle causate dall’assunzione di sostanze2, la
complessità della vita quotidiana e il
nevroticismo che l’accompagna, nonché l’evidenza empirica e il sorgere
numeroso di terapie mirate e gruppi di autoaiuto, testimoniano che le
nuove dipendenze rappresentano una
vera e propria emergenza sociale e
non già l’invenzione alla moda di sociologi e giornalisti à la page. È facile
evidenziare come sia le dipendenze
comportamentali che quelle determinate dall’uso di sostanze presentano
una matrice comune che implica:
a) impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento (compulsività);
b) sensazione crescente di tensione
che precede l’inizio del comportamento (craving);
c) piacere e sollievo durante la messa in atto del comportamento;
d) percezione di perdita di controllo;
e) persistenza del comportamento
nonostante la sua associazione con
conseguenze negative.
La dipendenza da sport nei paesi anglosassoni3 può essere considerata una
forma di dipendenza psicologica e/o
fisiologica da un programma di esercizio fisico in vista di un obiettivo
atletico o sportivo. L’individuo non è
semplicemente desideroso di tornare
ad allenarsi: non può farne a meno!
Letteralmente, vive il periodo intercorrente tra un allenamento e l’altro
come un tempo sospeso, inutile e
fastidioso. La sua mente è completamente concentrata su quello che farà
nella prossima sessione sportiva, e in
tale contesto gli allenamenti divengono quotidiani e i pomeriggi in palestra si allungano considerevolmente.
L’impegno è massimo per contrastare
l’affaticamento cui il corpo va incontro e ai persistenti segnali di stanchezza si ovvia raddoppiando gli sforzi.
L’allenamento è al primo posto nella
scala dei valori individuali e in alcuni
casi si rischia l’overtraining syndrome
(vedi oltre). Lo sport diviene così una
vera e propria ossessione dannosa per
la salute, che travalica gli scopi precipui di una sana attività fisica e la sua
stessa ragion d’essere (lo sport deve
essere al servizio dell’uomo e del suo
Manuale Diagnostico e Statico dei Disturbi Mentali, attualmente giunto alla quarta
redazione revisionata e molto usato in ambito psichiatrico.
2
Suddivise in Disturbi da Uso di Sostanze (Dipendenza da Sostanza e Abuso di Sostanze) e Disturbi Indotti da Sostanze.
3
Altri sinonimi usati sono sport addiction, compulsive exercise, exercise dependance.
1
benessere e non viceversa). La dipendenza da sport, ampiamente studiata
in letteratura specialistica, può quindi essere descritta come una forma di
attività fisica estrema, sia in frequenza che in durata, accompagnata da
un’irresistibile coazione a ripetere e da
possibili crisi di astinenza (Morgan,
1979). Cleere (2005) la descrive come
una dipendenza psicologica e/o fisiologica da un programma di esercizio
fisico che si caratterizza per la comparsa di sintomi d’astinenza dopo
24-36h di mancata pratica dell’attività sportiva. A tale proposito, già nel
1969, Little aveva evidenziato fenomeni di “dipendenza da sport” in uomini di mezza età che continuavano
a praticare la corsa nonostante fossero
infortunati. A riprova della pervasività del fenomeno, basti ricordare che
nel 2006 si è tenuto a Montesilvano
il Congresso Nazionale della Società
Italiana di Psichiatria, avente per oggetto proprio le nuove dipendenze. In
tale contesto è emerso come la dipendenza da sport colpisca circa 500.000
persone nel nostro Paese, circa il 10%
degli assidui frequentatori di palestre.
È altresì emerso come tale problematica si ricolleghi ad altre patologie e
disagi psicologici, in primo luogo a
disturbi dell’alimentazione nel 30%
dei casi e disturbi della personalità a
sfondo narcisistico. Ancora, dalla dipendenza da sport e dall’ossessione
per la forma fisica e per l’allenamento
all’assunzione di sostanze dopanti, in
4
Fonte: ANSA, 15 ottobre 2006.
grado di incrementare massa muscolare e prestazioni, il passo è breve e si
è evidenziato come circa il 3% delle
persone dipendenti da sport finisca
col fare uso di steroidi anabolizzanti,
secondo i dati forniti dal Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Università di Siena e dal Dipartimento di
Igiene dell’Università di Cagliari4.
2.1. Le 4 dimensioni della “dipendenza da sport”
Approfonditi studi (Bomber D., Cockerill I.M., Rodgers S., Carroll D.,
2003), partendo dalle narrazioni di
atleti affetti da tale dipendenza, hanno consentito di enucleare le caratteristiche principali di questo disturbo,
ricondotte poi a 4 categorie generali.
È importante notare come non necessariamente debbano presentarsi
tutte le quattro dimensioni, ma – relativamente alla gravità della situazione – già la compresenza di almeno 2
fattori su 4 possono connotare una
dipendenza da sport.
a) Funzionamento alterato (in almeno due aree tra le seguenti):
- Psicologico: Incapacità a concentrarsi su altro a causa del pensiero
ricorrente all’esercizio fisico;
- Sociale o lavorativo: Problemi sociali, familiari e lavorativi connessi
alla pratica sportiva;
- Fisico: Sovrallenamento continuo
nonostante infortuni o parere medico contrario;
- Comportamentale: Comportamen-
19
20
to atletico inflessibile, stereotipato,
esageratamente duro e autopunitivo.
b) Sintomi di astinenza
Disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o cessazione delle abitudini di allenamento, oppure
desiderio persistente di controllare o
ridurre l’attività fisica praticata senza riuscirvi.
c) Caratteristiche psicologiche e
comportamentali tipiche dei soggetti dipendenti:
- Tolleranza: Si aumenta progressivamente il grado di tolleranza agli
sforzi fisici;
- Eccesso di attività fisica: Problemi
sociali, familiari e lavorativi connessi alla pratica sportiva, che diviene
preminente rispetto ad altre aree di
funzionamento e interesse;
- Allenamento solitario: Si predilige
l’allenamento solitario, in quanto la
presenza di altre persone viene considerato un fattore di disturbo che
distoglie dalla pratica sportiva;
- Inganno: Si mente in merito alle
caratteristiche prestazionali, quali
durata dell’allenamento, km percorsi o entità dei carichi utilizzati;
- Motivazioni ossessive: Controllo
maniacale del peso, dell’immagine
corporea, delle prestazioni, delle calorie bruciate e delle ore di sonno.
4) Presenza di disturbi alimentari
Anoressia, bulimia o comportamenti
di controllo alimentare (diete iper o
ipoproteiche e assunzione integratori).
È importante ribadire che con il
termine “dipendenza da sport” non
ci si riferisce semplicemente a un
abuso quantitativo della forma fisica
(in questo caso sarebbe più proprio
parlare di “mania per lo sport”), ma
a una ben precisa condizione clinica
in cui sono presenti i sintomi tipici
della dipendenza.
2.2. La sindrome da overtraining
(OTS)
Tra le conseguenze negative di una
pratica sportiva errata ed esagerata
vi è la sindrome da sovrallenamento, conosciuta come overtraining
syndrome, intendendo con essa una
condizione fisiologica di disequilibrio tra sforzo supportato e recupero
fisiologico ed energetico. Ciò che caratterizza tale sindrome è il fatto che,
contrariamente al comune affaticamento, transitorio e di breve durata,
colui che ne è affetto presenta una
condizione stabile e cronicizzata di
stanchezza che non si può superare
se non tramite una supercompensazione che preveda mesi di riposo.
I sintomi principali sono costituiti da:
- diminuzione della forza e prestazioni inferiori alla media,
- difficoltà di recupero dagli allenamenti e dolori muscolari,
- aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa,
- disturbi del sonno con difficoltà ad
addormentarsi e risvegli notturni,
- variazioni di ematocrito, tasso di
emoglobina e livello di testosterone,
- maggiore vulnerabilità a infezioni e disturbi gastrointestinali,
- cambiamenti nello stato umorale
a sfondo depressivo,
- catabolismo muscolare e lesioni
da sovraccarico,
- riduzione dell’appetito e perdita
di peso,
- ingrossamento dei linfonodi.
Indipendentemente dalle cause (semplicemente perché si è esagerato con
gli allenamenti o perché si è in presenza di una vera e propria dipendenza, è importante che l’allenatore o il
personal trainer si rendano conto immediatamente della situazione e intervengano con prontezza, onde evitare
seri rischi per la salute dell’atleta. Ciò
deve esser fatto imponendo innanzitutto un periodo di riposo, con una
successiva graduale ripresa degli esercizi, alternando sessioni di allenamento più intense a periodi più blandi e
variando il tipo di allenamento stesso,
ma sempre dopo che si sia provveduto a un recupero completo, a livello
fisiologico, dello stress fisico accumulato. Anche una dieta appropriata,
con cibi sani e variati, è senz’altro di
supporto in tali situazioni.
La OTS è una sindrome seria ed
è importante che l’atleta venga indirizzato dal suo medico per gli interventi del caso. A tale proposito è
possibile effettuare test di laboratorio
per la diagnosi da sovrallenamento,
in grado di rilevare alcuni indicatori
dell’OTS (glutammina sierica, dosaggio IgA salivari, velocità di sedimentazione, gammaglobuline, contenuto di creatinchinasi e di magnesio).
Anche dal punto di vista psicologico
si registrano significative variazioni
nelle persone con sindrome da so-
vrallenamento: il soggetto è distratto,
scarsamente motivato e determinato, apatico e contemporaneamente
presenta irritabilità e sbalzi d’umore. Egli nutre altresì bassa autostima
e scarsa capacità di autovalutazione.
Se non opportunamente trattato, il
quadro psicologico esita nel rifiuto di
allenarsi, qualora non siano presenti
motivazioni diverse che sostengono
l’impegno sportivo, quali la dipendenza psicologica. In quest’ultimo
caso l’atleta potrebbe non volere o
potere fermarsi, neppure di fronte
all’evidenza del crollo fisico. L’intervento psicoterapeutico è, in questi
casi, il trattamento d’elezione.
2.3. Disturbi alimentari e l’exercise addiction
Abbiamo avuto modo di accennare
al fatto che la dipendenza da sport è
frequentemente associata a disturbi
alimentari importanti, quale anoressia o bulimia e a comportamenti di
controllo alimentare (come seguire
strenuamente una dieta iper o ipoproteica e assumere determinati integratori). È importante anche rilevare che
i disturbi alimentari, contrariamente a
quanto comunemente ritenuto, non
riguardano unicamente la popolazione femminile, ma si presentano con
elevata incidenza, almeno nel caso
dello sport, anche tra gli uomini, sebbene con caratteristiche diverse (vedi
bigoressia). L’anoressia e la bulimia
nervose, che colpiscono prevalentemente le donne, sono finalizzate ad
assumere un controllo pressoché to-
21
22
tale del proprio corpo, determinando
e centellinando con precisione millimetrica la quantità di cibo e di calorie
assunte. Ciò rimanda all’idea di un fisico etereo, impalpabile, che tanto più
viene visto come bello e desiderabile
quanto più è spogliato delle forme
tipiche della femminilità. Spesso si è
discusso se debba trattarsi di disturbi
separati o se entrambi facciano parte
di un’unica condizione patologica, la
bulianoressia, ma volendo per comodità espositiva tenere distinte le due
situazioni, si può affermare che, mentre nell’anoressia “pura” il controllo
del peso corporeo avviene tramite
l’assunzione di quantità estremamente modiche e scarsamente nutrienti di
cibo, nella bulimia il mangiare (che
può sconfinare anche in episodi di
abbuffate senza controllo) viene compensato dal vomito autoindotto e dal
frequente ricorso a lassativi che segue
l’assunzione del cibo. Anche l’attività
fisica, in tale contesto, serve a bruciare calorie e l’individuo oscilla tra due
poli opposti, entrambi compulsivi; da
un lato, la spinta a mangiare, anche
quando non si vorrebbe o non si ha
fame; dall’altro, la necessità impellente di praticare attività fisica (jogging,
ginnastica aerobica o lunghe sessioni
in palestra) per eliminare le calorie
assunte, sino alla prossima abbuffata
nel caso della bulimia, o per rispettare
un rigido programma autoimposto
di controllo alimentare nell’anores-
sia. Per quanto riguarda i maschi, è
stata ultimamente portata alla ribalta
della cronaca una nuova forma patologica, la bigoressia5 o “anoressia inversa” che colpisce in netta prevalenza
gli atleti impegnati in discipline che
comportano accrescimento muscolare, come nel sollevamento pesi e
nel body-building. Tale condizione
fu descritta per la prima volta dallo
psichiatra Harrison Pope nel suo libro Il complesso di Adone (1993) dove
sono raccolte le storie di giovani atleti
americani disposti a tutto pur di aumentare la propria massa muscolare.
È questa una modalità di comportamento patologico che agisce esattamente al contrario dell’anoressia
(da cui l’aggettivo “inversa”). Infatti,
se nell’anoressia ci si vede sempre
troppo grassi, nella bigoressia ci si
vede costantemente gracili e il timore
prevalente è quello di perdere massa
muscolare, di diventare troppo magri
e muscolarmente sottosviluppati. Per
compensare tale timore l’individuo
si sottopone a lunghe sessioni d’allenamento, con carichi via via ingravescenti. L’alimentazione, o sarebbe
meglio dire la sovralimentazione, è
parte integrante di tale programma
d’allenamento e ben presto si passa
dall’assunzione di micidiali cocktail
proteici, all’uso di pasticche e integratori (purtroppo) facilmente reperibili sul mercato, sino all’assunzione di
steroidi anabolizzanti. Secondo dati
recenti, questa sindrome pare colpire
circa il 10% dei body builder e dei sollevatori di peso6. Come nel caso della
bulianoressia, anche nella bigoressia
è dato riscontrare un’erronea percezione del proprio corpo alla fonte
del disturbo, una sorta di dismorfismo
corporeo a base psicogena che rende
l’individuo incapace di osservare se
stesso con la necessaria oggettività7 e
soprattutto di rendersi conto del superamento dei criteri minimi di buon
senso, esponendosi a seri rischi per la
propria salute. Non meno importante appare in questi casi il frequente
ricorso al doping, cioè all’utilizzo di
sostanze farmacologiche al solo scopo
di sconfiggere la fatica e migliorare le
prestazioni.
3. L’approccio psicologico
Una delle cose che lo psicologo dello
sport deve chiedersi, nel momento
in cui viene segnalato un problema di dipendenza, è capire da cosa
esso possa scaturire. Come in tutte
le dipendenze, esistono meccanismi difensivi e compensatori che
distolgono l’attenzione (trovando
una soluzione solo temporanea che
finisce per aggravare il problema)
da tematiche irrisolte o problematiche profonde in cui l’individuo si
dibatte. La “dipendenza” permette
di catalizzare la propria attenzione e
la propria energia psichica verso un
Andersen e altri (1995); Ravaldi e altri (2003).
Indipendentemente dal peso corporeo e dall’effettiva massa muscolare, egli si continuerà a vedere sempre eccessivamente grasso o eccessivamente magro.
6
Etimologicamente, il neologismo deriva dalla parola inglese “big” (grande) e dal
latino “orex” (appetito), a indicare proprio la “fame di grossezza”.
5
obiettivo che diviene primario e sovra-ordinato rispetto ad altri obiettivi
della propria esistenza, che vengono
declassati a fatti di minor rilevanza.
In altri termini, se vi è un’insoddisfazione profonda, o una sensazione
d’inferiorità ricollegabile ad alcune
aree della nostra vita (matrimonio,
lavoro, status acquisito, opportunità
e mete raggiunte, ma anche autostima e frustrazioni), la dipendenza
può agire come un parafulmine o
un potente magnete, in grado di attrarre a sé l’attenzione e la dedizione
del soggetto. È quindi un “sintomo”,
la cui funzione (patogenica) è quella
di mettere in secondo piano problemi che andrebbero affrontati e che
rimangono invece sullo sfondo. Una
“medicina di pronto soccorso psicologica” che si rivela inadeguata e dannosa. Tuttavia, anche i sintomi hanno
una loro leggibilità e una loro coerenza interna e nel caso dell’exercise
addiction, uno dei possibili motivi
per cui l’individuo giunge a sviluppare una vera e propria ossessione per
il proprio corpo e lo sport potrebbe
risiedere in un’inferiorità percepita,
ora o in passato, a livello fisico. Parimenti, e in senso contrario, lo sport
potrebbe rappresentare l’unica area
in cui l’individuo è riuscito a ottenere una certa visibilità e competenza,
e questo lo porterebbe a iperinvestire
proprio in quell’area in cui, poten-
7
23
24
zialmente, si è sentito più forte e gratificato. Un terapia psicologica mirata
deve innanzitutto portare il soggetto
a confrontarsi con la sua dipendenza,
a prendere atto che un problema esiste e che non si tratta di una semplice
esagerazione. In questa prima fase è
importante riuscire a concordare con
il terapeuta modalità comportamentali diverse da quelle abituali, con limiti precisi che il soggetto non deve
superare, stabilendo, così, clausole
di salvaguardia per la salute fisica e
psichica dell’atleta. Fondamentale
in tale fase, ai fini dell’evoluzione e
del successo della terapia, è capire le
modalità d’invio: in altri termini, chi
sia il “committente” dell’intervento.
Accade infatti che spesso sia il coach
stesso o il personal trainer a richiedere
la consulenza al professionista per un
determinato soggetto, tanto più se il
terapeuta è “disponibile” all’interno
della struttura sportiva. In questo caso,
spesso potremmo trovarci di fronte a
persone totalmente ignare del problema, che si presentano al colloquio
più per assecondare l’allenatore e per
curiosità personale che per affrontare
e sviscerare un problema così serio.
L’atteggiamento sarà quindi diffidente, resistente, spesso sarcastico (“non
capisco dosa debba fare io qui e perché
mi hanno consigliato di fare questo
colloquio”) e svalutante nei confronti
dell’operatore (“tanto io a queste cose
non ci credo”, “è solo un’inutile perdita
di tempo e non ne ho bisogno”). Ciò,
per certi versi, è insito nello stesso disturbo dipendente; possiamo infatti
considerare la dipendenza come una
difesa e uno spostamento d’attenzione dai problemi che non si vogliono
affrontare; in questo senso la dipendenza serve a “proteggere” l’individuo
dall’irruzione sul “palcoscenico della
sua coscienza” di tematiche spiacevoli
e insopportabili e fin quando non vi è
sostegno terapeutico e non si è instaurato un buon rapporto con lo psicologo, basato sulla reciproca fiducia e
sulla consapevolezza che non si sarà
lasciati soli quando questi problemi
emergeranno, difficilmente il soggetto “mollerà” le sue difese. Inoltre, è tipico del comportamento dipendente
operare un sistematico diniego della
dipendenza stessa, come ben sa chi si
è occupato di soggetti con problemi
correlati all’assunzione di droghe o alcool. Il soggetto nega decisamente di
avere un problema e svaluta costantemente l’importanza delle sue condotte dipendenti (“è solo che voglio tornare
in forma presto”, “forse avrò un pochino
esagerato ma non capisco proprio dove
sia il problema”). A questo “muro” che
l’individuo dipendente erige, si ovvia
conquistandone la fiducia e la disponibilità al cambiamento, attraverso
un vero e proprio processo maieutico
che porterà l’individuo a guardarsi
dal di dentro, a gettare la maschera ed
essere autentico con se stesso e con
il terapeuta. Difficilmente ciò potrà
accadere nel primo incontro, in cui
si possono però gettare le basi per ottenere la disponibilità dell’individuo
a un confronto aperto e sincero per
verificare l’esistenza di un eventuale
problema e solo dopo porre in essere opportune manovre terapeutiche.
Successivamente, ed è questo il fulcro del lavoro terapeutico, si dovranno scandagliare le aree del significato
(quale senso riveste per il soggetto
l’eccellere in una disciplina sportiva,
la spinta ad avere un fisico sempre
più rispondente a determinati canoni
e criteri) e del disagio (quali mancanze
– reali o presunte – l’individuo tende
a colmare o a compensare attraverso
la pratica sportiva compulsiva?). I risultati di tale indagine non possono
essere generalizzati, ma saranno pertinenti alle singole problematiche individuali. Ognuno di noi è latore di
lacune e nodi irrisolti inerenti il passato, il presente e le aspettative future.
Ciò che ci spinge da percorsi diversi
a giungere a esiti analoghi e talvolta
a perdere la capacità di vivere la vita
nella sua immediatezza e quotidianità è parte di quel bagaglio unico e
irripetibile che costituisce la propria
individualità e che rende conto della varietà e della ricchezza del nostro
essere “umani”, così differenti eppure
così simili al nostro prossimo. Una
volta affrontati e conosciuti i motivi
di insoddisfazione, si procederà alla
terza e ultima fase della terapia, quella
della propositività e delle nuove decisioni da prendere in merito alla propria vita. Infatti, la comprensione di
ciò che causa disagio può non portare
alcun frutto di per sé, se non facciamo sì che tale consapevolezza diventi
poi lo sprone e il punto di partenza
per porre in essere cambiamenti de-
cisivi nel nostro modo di gestire la
vita e considerare noi stessi e se non
si procede a una riformulazione degli obiettivi, ponendoli in ordine di
priorità. Si andrà quindi a ricercare
un nuovo equilibrio, proprio a partire da quegli elementi che, sottaciuti,
tanto disagio hanno creato in passato. La pratica sportiva, che esercitata
compulsivamente aveva il solo scopo
di celare e allontanare problemi importanti non dovrà certo essere abbandonata. Essa è stata e rimane un
valore per l’individuo che tanto tempo ed energie vi ha dedicato, ma dovrà essere ridimensionata e riportata
entro limiti normali, affinché torni a
essere quello che sarebbe dovuto essere: un modo per esprimere la propria
personalità e la propria competitività,
un momento da dedicare a se stessi e
al proprio corpo, una modalità sana
per rilassarsi e caricarsi.
4. Sport come droga: l’approccio
neurobiologico
Molti studiosi hanno tentato di dare
una spiegazione della dipendenza da
sport anche a partire dai meccanismi
neurofisiologici che l’intensa pratica
sportiva produce. Questi si integrano
e interagiscono col quadro psicologico senza contraddirlo, ma anzi completandolo. La conoscenza di questi
meccanismi ci consente di cogliere
appieno la complessità multidimensionale del fenomeno e per tale motivo è utile darne alcuni cenni in questa
sede. Alla base di tali considerazioni
vi è il fatto innegabile che l’attività
25
26
sportiva produce effetti benefici sul
corpo (a livello osteoartromuscolare
e cardiaco) e sulla mente (a livello di
neurotrasmettitori cerebrali che inducono un senso di benessere). È oramai accertato in letteratura medica
che l’attività fisica, soprattutto aerobica, attivi la produzione endogena
di beta-endorfine, sostanze chimiche
dall’effetto analogo agli oppiodi esogeni (come eroina e morfina). Un
esercizio intenso produce un’alta disponibilità di tali sostanze che oltre
una certa soglia possono attivare dipendenza e la conseguente carenza
delle stesse sostanze (dovuta a riposo o
tempi di recupero prolungati) induce
una sindrome da astinenza che porta
a riprendere e mantenere costantemente alta l’attività fisica per rendere
elevato il tasso di endocannabinoidi.
Come nella dipendenza da sostanze,
l’atleta scivola progressivamente lungo un piano inclinato che lo porta ad
aumentare sempre più lo sforzo e la
pratica sportiva, al fine di ripristinare
e mantenere elevati livelli di benessere, a scapito dello stress cui sottopone il proprio fisico e dell’esclusione o
riduzione progressiva, dalla propria
vita, di tutte quelle aree estranee allo
sport (famiglia, lavoro, svago e via
discorrendo.). È altresì appurato che
l’esercizio fisico comporta alterazioni
nella produzione di noradrenalina, serotonina e dopamina; in particolare,
l’esercizio fisico continuativo si correla a un incremento della noradrenalina e dei suoi metaboliti in aree cerebrali quali l’ippocampo e la corteccia
frontale; sono queste aree critiche implicate nella percezione del benessere
e nei processi d’attivazione in grado
di fronteggiare ansia e depressione.
L’attività fisica prolungata agirebbe
su due fronti distinti ma sinergici: da
una parte favorendo la produzione di
tali neurotrasmettitori, dall’altra rallentandone i tempi di decadimento.
In particolare, la serotonina, nota anche come “ormone del buonumore”, è
un neurotrasmettitore sintetizzato nel
cervello e in altri tessuti a partire da
un amminoacido essenziale, il triptofano, la cui disponibilità aumenta
con l’esercizio fisico. È degno di nota
il fatto che l’esercizio fisico continuativo, come nei maratoneti, aumenti la
quantità di triptofano libero plasmatico in misura maggiore rispetto ad
attività fisiche anche intense ma non
prolungate nel tempo. Eviteremo di
inoltrarci oltre in una discussione che
rischia di diventare troppo tecnica.
Qui conta rilevare che la pratica sportiva compulsiva può essere il prodotto
di una assuefazione alle molecole del
benessere che con lo sport vengono
prodotte. Se le sensazioni piacevoli associate al rilascio di tali sostanze sono
sempre più ricercate dall’atleta, che si
abitua progressivamente a livelli via via
più alti di tali metaboliti, si può innescare un processo di escalation, come
nelle tossicodipendenze, che porta
l’individuo a impegnarsi sempre più
strenuamente nella pratica sportiva,
per mantenere elevati livelli di benessere ed evitare le fasi “down”, dovute
al brusco decadimento dei metaboliti
cerebrali stessi. In effetti, chi non ha
mai avuto modo, parlando con un
amico “fissato” per l’esercizio fisico, di
sentirsi dire che saltare un pomeriggio
di allenamenti lo porta a “stare male”?
5. Oltre la dipendenza: il Disturbo Ossessivo Compulsivo
Per completezza, riportiamo in
quest’ultimo paragrafo un differente punto di vista sull’eziologia e sulla
caratterizzazione del comportamento
sportivo compulsivo. Sino a ora esso
è stato, a nostro avviso correttamente, inquadrato all’interno del quadro
clinico delle cosiddette “nuove dipendenze”. Tuttavia, alcuni autori hanno voluto evidenziare correlazioni
col Disturbo Ossessivo Compulsivo
(DOC), come descritto dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali (DSM-IV TR). Nel DSM, il
Disturbo Ossessivo Compulsivo, rientrante nella categoria dei Disturbi
d’Ansia, è definito come segue:
a) ossessioni e compulsioni.
Ossessioni definite da 1), 2), 3), e 4):
1) pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche
momento nel corso del disturbo,
come intrusivi o inappropriati, e che
causano ansia e disagio marcati;
2) i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi
della vita reale;
3) la persona tenta di ignorare o di
sopprimere tali pensieri, impulsi o
immagini, o di neutralizzarli con
altri pensieri o azioni;
4) la persona riconosce che i pensieri,
gli impulsi, o le immagini ossessive
sono un prodotto della propria mente.
Compulsioni come definite da 1) e 2):
1) comportamenti ripetivi o azioni
mentali che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad
un’ossessione, o secondo regole che
devono essere applicate rigidamente;
2) i comportamenti e le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il
disagio, o a prevenire alcuni eventi o
situazioni temute; comunque questi comportamenti o azioni mentali
non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o prevenire, oppure sono
chiaramente eccessivi.
b) In qualche momento nel corso
del disturbo la persona ha riconosciuto le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli;
c) Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di 1 ora al giorno) o interferiscono significativamente con le
normali abitudini della persona, con
il funzionamento lavorativo o con le
attività sociali usuali.
In effetti, alcuni aspetti della pratica
sportiva compulsiva presentano analogie e assonanze con i sintomi del
DOC, in particolare per quanto riguarda le compulsioni. Tuttavia, pare
che le analogie siano da considerarsi
più apparenti che reali. Nel Disturbo
Ossessivo Compulsivo, l’ossessione
si presenta sotto forma di pensieri o
preoccupazioni spiacevoli che affiorano continuamente alla coscienza,
27
28
nonostante l’individuo cerchi costantemente di tenerli alla larga e di
liberarsene, riconoscendone, più o
meno marcatamente, l’irragionevolezza. La compulsione è inizialmente
una risposta, di tipo rituale, finalizzata proprio a tenere a bada il pensiero o la preoccupazione persistente,
anche se ben presto si slega dalla sequenza originale e comincia a vivere
di vita propria. Ad esempio, l’ossessione di contrarre malattie può portare al comportamento compulsivo
di lavarsi le mani continuamente.
Al principio è una reazione, sebbene
inappropriata, alla paura di contagiarsi con batteri patogeni, ma ben
presto l’individuo non può farne a
meno e si sente (parzialmente) tranquillizzato soltanto nell’immediatezza dell’atto compulsivo, seppure per
breve tempo. La paura di ammalarsi e il continuo lavarsi le mani, una
volta strettamente consequenziali,
divengono comportamenti paralleli
e coesistenti. L’individuo riconosce sempre, ovviamente, un legame
tra le due situazioni, ma non può
esimersi dal mettere in atto l’una e
l’altra. Riepilogando, nel Disturbo
ossessivo Compulsivo abbiamo le
seguenti caratteristiche:
a) l’ossessione è un pensiero spiacevole ed intrusivo, che si presenta
automaticamente e persistentemente alla mente dell’individuo, irrompendo improvvisamente nel flusso
dei pensieri o rendendo impossibile
il non pensarci;
b) il comportamento compulsivo è il
tentativo di tenere a bada un pensiero
ossessivo, ponendo in essere azioni che
dovrebbero neutralizzarlo in modo
quasi magico. La compulsione è, infatti, in prima battuta un tentativo di
neutralizzare lo sfondo ossessivo.
Applicando tale descrizione al comportamento di persone affette da
sport compulsivo, possiamo ora evidenziare significative dissonanze:
a) in primo luogo, in chi presenta
exercise addiction, il pensiero ossessivo (devo fare pratica, mi devo allenare) è sì dominante, ma, soprattutto inizialmente, non si presenta con
le caratteristiche della spiacevolezza.
L’individuo vuole fare sport e ritiene
tale condizione una sua libera scelta. Un’altra fondamentale differenza è che non ci si trova in presenza
di un “pensiero ossessivo”, quanto di
un “desiderio continuo” che permea
ogni fibra del nostro essere, nel qual
caso, appunto, è più corretto parlare
di dipendenza, come nelle persone
che praticano sport compulsivamente o nel gioco d’azzardo;
b) inoltre, se dovessimo applicare gli
stilemi del DOC ai comportamenti
sport-dipendenti, dovremmo considerare la pratica sportiva come una
coercizione prodotta dal pensiero
ossessivo, ma ciò è, nel caso di specie, non applicabile. Infatti, mentre
nel DOC l’ossessione produce la
compulsione, nella dipendenza è
semmai il comportamento a divenire ossessione, con un processo completamente diverso.
In altri termini, il DOC nasce da
una paura, ha caratteristiche molto
più rigide e stereotipate, soprattutto
a livello di fantasie ossessive, che si
presentano esagerate, illogiche e irrazionali. Per meglio chiarire quest’ultimo punto si potrebbe considerare
la seguente situazione: un individuo
comincia a nutrire un’autentica fobia per l’invecchiamento e nella sua
mente si affaccia persistente e incontrollabile il pensiero di dover fare
qualcosa per evitare che il suo fisico
si inflaccidisca trasformandosi in una
massa informe e gelatinosa. Non è
una normale considerazione legata
all’età che avanza, cosa che sarebbe
appropriata e congrua, ma un vero e
proprio delirio sulle tremende conseguenze cui andrebbe incontro se non
cominciasse a dedicare ogni momento libero all’esercizio fisico. Tale pensiero quasi allucinatorio si riscontra
nonostante l’individuo sia perfettamente in grado, a livello razionale, di
effettuare un’efficace esame di realtà
(“ho solo 50 anni, godo di buona salute, sono sempre stato in forma e quindi
non mi dovrei preoccupare eccessivamente”). Esso è prodotto e mantenuto dalla paura che, a livello emotivo, disconferma e mette in dubbio
quanto ritenuto a livello cognitivo e
poiché le emozioni hanno un potere
motivante, in positivo o in negativo,
superiore a quello del pensiero, l’individuo non riuscirà a calmarsi se
non agendo in modo da contrastare
e neutralizzare la paura8 stessa. Ben
presto il nostro cinquantenne metterebbe in atto un comportamento
antagonista (praticare sport per difendersi dalla fobia dell’invecchiamento e dai pensieri a ciò collegati),
rientrando di diritto nella casistica
del Disturbo Ossessivo Compulsivo. Nel comportamento dipendente
vi è, al contrario, una “volontà” (in
origine) che ben presto si trasforma
in una coazione incontrollabile. L’individuo, soprattutto all’inizio, sente
di poter scegliere e soltanto dopo si
rende conto di essere divenuto uno
schiavo dei suoi stessi comportamenti. Quanto detto, utile ai fini di una
diagnosi psicologica differenziale, rimarca il fatto che vi possano essere
casi di DOC applicabili allo sport,
ma evidenze cliniche attestano che
la stragrande maggioranza dei casi di
sport compulsivo siano da ascrivere a
comportamenti di tipo “dipendente”.
Tuttavia, non bisogna considerare
questi ultimi meno pericolosi e invalidanti di altri disturbi psicologici e
non è corretto vederli come semplici
esagerazioni di menti leggermente
esaltate: sono vere e proprie malattie
che ogni anno devastano e mettono
a rischio la vita di molte persone, costituendo un problema, altresì sociale, che sta emergendo in tutta la sua
complessità.
Basti pensare che il sistema limbico e tutto l’apparato emozionale è, in termini evolutivi,
enormemente più antico – e quindi prevalente – rispetto allo sviluppo della corteccia
cerebrale e del pensiero.
8
29
5.1. La sindrome di Highlander
Un esempio tipico di DOC in ambito sportivo, che è emerso negli ultimi anni, è la cosiddetta sindrome
di Highlander9 ovvero dell’immortalità. La sua essenza consiste nel colpire gli individui dai 40 in su, anche
definiti atleti master, affetti da:
a) un eccessivo senso della competizione fisica e sportiva;
b) eccesso di autostima;
c) percezione distorta del benessere
post attività fisica ovvero sportiva.
La sindrome scaturisce dall’eccesso
di sforzo psico-fisico a cui alcuni
individui si sottopongono pur di
non rinunciare allo sport; in particolare, secondo diversi studi, sono
esposti al rischio di tale malattia sia
le persone sedentarie che tutti quegli atleti che in età giovanile hanno
praticato attività sportiva con assiduità o a livello professionistico
o semi-professionistico. Le conseguenze negative Dal punto di vista
medico, gli effetti della sindrome
interessano l’apparato muscoloscheletrico, l’apparato cardio-circolatorio e respiratorio, con conseguenze sovente anche gravi: da una
gestibile aritmia al mortale rischio
ischemico10.
30
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9
10
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http://www.sportmotion.it
http://www.vertici.com
31
Intersezioni
Stefania Stimilli*
neuroni specchio:
scoperta e risvolti applicativi
Cosa succede alle persone cosiddette normali quando incontrano di colpo un matto che urla, o le investe di un
delirio incomprensibile? Quando vedono qualcuno crollato a terra, o inchiodato da uno spasmo sui gradini
di una chiesa? Dopo l’incontro restano immobili, con un’espressione di disagio, di paura o di stordimento. Ma
il loro volto è cambiato, è come se fossero state fotografate da una luce accecante, scuotono la testa, parlano da
sole, per un attimo anche la loro normalità sembra incrinata. Così hanno visto nel lampo di quella luce, quale
paesaggio, quale specchio, quale verità insostenibile che dimenticheranno subito dopo, ma la cui immagine
resterà per sempre, in qualche recesso buio del loro cuore, nella biblioteca in fiamme della loro vita?
Stefano Benni - Achille piè veloce
32
Quale paesaggio? Quale specchio?
Quale collegamento tra l’azione, il
gesto, il movimento emotivo che
osserviamo nell’altra persona e l’immagine di esso che di riflesso si imprime in noi? Il metterci in relazione
con gli altri e la capacità di trasformare l’informazione, emozionale e
non, proveniente dall’altro, in atti
motori, ciò che ci lega all’azione ma
anche ai sentimenti delle altre persone, presenta una base biologica e
neurale localizzata nel Sistema dei
Neuroni Specchio. Il gruppo di ricerca dell’Università di Parma guidato
da Gallese e Rizzolatti agli inizi degli
anni ’90 osservò nelle scimmie macaco un’attività neurale che coinvolgeva
le stesse cellule in due tipi di operazioni: la prima è l’attivazione durante
* Psicologa
l’esecuzione di azioni dotate di significato; la seconda è rappresentata
dalla loro reazione alla vista, o al suono, di quelle stesse azioni (Gallese et
al., 1996). Venne così descritto, nel
cervello delle scimmie, un gruppo di
neuroni osservati nell’area premotoria F5 e, in seguito, anche nelle regioni del lobo parietale posteriore a
essa connesse (Rizzolatti et al., 1996;
Fogassi et al., 2005). I cosiddetti mirror neurons, o neuroni specchio, si
attivano sia quando il macaco compie l’azione (ad esempio manipolare
un oggetto, afferrarlo, posizionarlo,
trattenerlo) sia quando osserva un
suo simile compiere la stessa azione
o quando a eseguire il gesto è un soggetto umano (il ricercatore) (Rizzolatti et al., 1996). In seguito, tecniche
d’indagine non invasive quali PET
RMI TMS EEG e MEG, hanno
mostrato anche nell’uomo l’esistenza
di una popolazione di neuroni specchio, localizzata nelle regioni parietali
premotorie (Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001; Gallese, 2003; Rizzolatti e
Craighero, 2004; Gallese, Keysers e
Rizzolatti, 2004). Le ulteriori prove
sperimentali evidenziarono anche la
distinzione tra due tipi di neuroni
specchio: quelli che si attivano per
una determinata azione, come per
esempio afferrare una tazza di caffè,
e quelli che riconoscono l’intenzione del gesto, per cui afferrare la tazza
per berla è diverso dall’afferrarla per
riordinare. Ciò ha dimostrato che i
neuroni specchio sono in grado, non
solo di riconoscere e comprendere le
azioni altrui, ma anche di cogliere le
intenzioni che le hanno promosse
(Fogassi et al. 2005; Iacoboni et al.
2005). Tali cellule, osservate nel circuito fronto-parietale, connettono il
gesto al contesto, ovvero si attivano
sulla base dell’azione prevista, tanto da non presentare l’elaborazione
cerebrale per azioni insensate o incomprensibili. Ciò implica che siamo immediatamente e automaticamente in grado di comprendere ciò
che l’altro fa o ha intenzione di fare:
senza alcuno sforzo diviene possibile immedesimarci nell’altro. Queste
cellule sono quindi in grado di agire, sentire, partecipare e imitare, in
altre parole “rispecchiare” il significato delle esperienze altrui. Mediante la semplice connessione neurale
avviene una comprensione diretta,
dall’interno, la quale permette di distinguere, come affermano Gallese e
colleghi (2006), tra una simulazione
standard e una simulazione incarnata.
La prima è caratterizzata da una volontà intenzionale di porsi nei panni
dell’altro cercando di vedere le cose
dalla sua prospettiva e riproponendosi mentalmente il suo stato emotivo, mentre la seconda non sottende alcuna inferenza o introspezione
relativa agli stati mentali dell’altro,
piuttosto si presenta come automatica e pre-riflessiva, senza bisogno
di alcuna spiegazione. Quando osserviamo l’espressione facciale di un
altro, e questa percezione ci conduce
a identificare nell’altro un particolare
stato affettivo, la sua emozione è ricostruita, esperita e perciò compresa
direttamente attraverso una simulazione incarnata che produce uno stato corporeo condiviso dall’osservatore (Gallese, Migone e Eagle, 2006), il
quale attiva a livello neurale gli stessi
circuiti nervosi che ne controllano
l’esecuzione attiva (Gallese, 2003).
Un’ulteriore considerazione riguarda
l’evoluzione del linguaggio, poiché se
i neuroni specchio si sono evoluti favorendo l’imitazione e l’interazione,
potrebbero costituire i precursori del
linguaggio. Secondo quanto afferma Kohler, infatti, “la cosa interessante circa la scoperta dei neuroni
specchio è che essi sono stati osservati in un’area cerebrale dei primati
che sembra essere corrispondente
all’area di Broca negli esseri umani”
(Kohler et al., 2002) ovvero l’area
33
34
della corteccia più importante per il
linguaggio nell’uomo. Ricollegando
le diverse tappe che hanno segnato
l’osservazione e la verifica empirica
del Sistema dei Neuroni Specchio,
emerge la portata di questa scoperta,
che ha permesso ai ricercatori di descrivere un sostrato biologico della
conoscenza esperienziale e dell’intersoggettività, ossia della possibilità per l’essere umano di apprendere
dal suo simile e di riflettere le azioni,
ma anche gli stati d’animo osservati
nell’altro: una comprensione implicita delle azioni così come delle
intenzioni e dei sentimenti altrui.
Si tratta, quindi, di un meccanismo
che si è mantenuto e perfezionato
perché si è rivelato evolutivamente
vantaggioso e fortemente adattivo
per l’uomo, in quanto alla base della
comunicazione e della vita di relazione: i neuroni specchio ci danno
la possibilità di vivere con gli altri e
di entrare in una relazione empatica in grado di accomunare gli stati
emotivi, i sentimenti, il significato
di azioni e comportamenti. Essi costituiscono una modalità di funzionamento di base del nostro cervello
quando siamo impegnati in una
qualsivoglia relazione interpersonale (Gallese, 2007). A questo punto
non possiamo trascurare il fatto che
la biologia ci ha selezionato per essere “animali sociali”. Lo stesso Iacoboni, il quale si è focalizzato sul
ruolo dei neuroni specchio nel comportamento umano, afferma che
“sono cellule cerebrali che sembrano
essere specializzate nel comprendere
la nostra condizione esistenziale e
il nostro essere in relazione con gli
altri. Dimostrano che non siamo
strutturati come esseri soli, bensì
abbiamo una base biologica, modellata attraverso l’evoluzione, che
ci conduce a una profonda connessione reciproca con i nostri simili.
La nostra neurobiologia (i neuroni
specchio, nella fattispecie) ci vincola
agli altri. I neuroni specchio sono la
prova del modo più profondo che
possiamo mettere in atto di interagire con gli altri e di capirli: dimostrano che l’evoluzione ci ha predisposti
all’empatia, e dovrebbe essere questa l’idea guida sulla base della quale
modellare la società in cui viviamo
allo scopo di renderla migliore” (Iacoboni, 2008).
Occorre quindi considerare i diversi
risvolti applicativi a partire dall’idea
che “la scoperta dei neuroni specchio non è la scoperta di un nuovo
fenomeno clinico, ma solo dei possibili meccanismi neurali che possono
far luce su fenomeni clinici già noti”
(Gallese et al., 2006). Per cui l’imitazione, l’empatia, la comunicazione sociale e i risvolti clinici derivati
sono ricollegabili alla presenza entro
la specie umana di una connessione
che permette alle persone di entrare
in relazione al di là dell’elaborazione
cognitiva, oltre l’idea che ciascuno
debba teorizzare sugli stati d’animo
altrui o ripercorrere mentalmente
la concatenazione di gesti dell’altro per dedurne le intenzioni. Già
nell’analisi della comunicazione
non verbale si evidenzia come inconsapevolmente le persone imitano gli altri assumendone le posture,
le espressioni facciali e ripetendone
i gesti secondo quello che viene definito effetto camaleonte (Chartrand
e Bargh, 1997), ovvero l’imitazione
implicita ci permette di instaurare
una relazione profonda con l’altro e
risulta uno strumento di gradimento sociale che ci facilita nell’essere
socialmente accettati. Nell’imitazione e nell’apprendimento imitativo
si osserva, infatti, l’attivazione del
Sistema dei Neuroni Specchio. Per
ciò che riguarda l’empatia, definita
da Kohut (1984) come attitudine a
“pensare e sentire se stessi nella vita
interiore di un’altra persona” implicando la capacità di esperire ciò che
gli altri provano pur attribuendo tali
esperienze agli altri e non a se stessi,
con la scoperta dei neuroni specchio
essa non costituisce semplicemente una predisposizione mentale o
un atto di immedesimazione nelle
esperienze altrui, ma acquista un
carattere implicito e pre-cognitivo.
Tale meccanismo speculare sembra
attivarsi anche quando non siamo in
condizione di assistere direttamente
all’azione compiuta dall’altro, ma ne
ascoltiamo la narrazione (Buccino et
al., 2005). Perciò l’empatia si pone
alla base della relazione e ancor più
della relazione terapeutica: punto di
partenza per una risposta coerente
del terapeuta, sintonizzata al paziente e in grado, così, di rinforzare la sua
sensazione di essere in connessione
con l’altro; permette al paziente di
chiarire e articolare meglio i propri
sentimenti e contribuisce a rafforzare il suo senso di sé, a recuperare
se stesso, a riflettere e a trasformare
la propria esperienza. Il paziente fa
esperienza di sé rappresentato con
sicurezza nella mente del terapeuta,
il che non solo lo aiuta a scoprire se
stesso ma, ancor più, a scoprire se
stesso nella mente dell’altro (Fonagy
et al., 2002). Altri sviluppi importanti delle ricerche sui neuroni specchio riguardano la loro attivazione
nei processi di comunicazione sociale e, quindi, un’eventuale applicazione nell’etica e nella politica, andando a riconsiderare la dimensione
di reciprocità che ci lega all’altro e
la costruzione del senso di identità
sociale che ora può meglio definirsi
come processo di co-costruzione, di
tipo pre-verbale e pre-razionale, in
quanto basato sulla comprensione
immediata dell’altro come simile a
noi. Infine, non si può trascurare
l’interesse che la scoperta dei neuroni specchio ha assunto nella comprensione del disturbo autistico,
in cui una disfunzione del Sistema
Specchio sembra spiegare i diversi
sintomi autistici (Ramachandran e
Oberman, 2006; Gallese, Migone e
Eagle, 2006), aprendo la strada alla
diagnosi precoce e a nuove possibilità terapeutiche e riabilitative.
In conclusione, alla rassegna dei
diversi risvolti che hanno assunto
le ricerche sul Sistema dei Neu-
35
roni Specchio e in considerazione delle ipotesi ancora in corso di
sperimentazione, si realizza quanto
già affermato da Vilayanur S. Ramachadran, ovvero che “i neuroni
specchio saranno per la psicologia
quello che il Dna è stato per la bio-
36
In fondo
logia”. In altre parole, la comprovata presenza di un sistema neurale,
quale quello dei Neuroni Specchio,
dà sostanza e concretezza a molteplici teorizzazioni psicologiche alla
base della pratica della nostra professione.
bibliografia
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Anna Fata*
verso un lavoro perfetto
Sulle montagne si trova la libertà!
Il mondo è perfetto ovunque,
salvo quando l’uomo arriva con i propri
tormenti.
F. Von Schiller
Viviamo nella convinzione di essere
in cammino, un percorso attraverso
lo spazio e il tempo che dovrebbe arricchirci, farci evolvere, in un’ottica
di continuo miglioramento e arricchimento. Per alcuni pare diventare
una corsa contro il tempo o, al limite, contro se stessi. Nella pretesa di
assumere le sembianze di un modello
professionale ideale, di ideare servizi
e prodotti all’avanguardia, sempre
un passo più in là rispetto alla concorrenza. Oppure, prima ancora che
una dedizione aziendale o sociale,
che vede un essere devoti al mondo
lavorativo o umano di cui si è parte,
per alcuni diviene un egoistico e ristretto percorso volto al rimpinguare il proprio curriculum e la propria
mente con informazioni, nozioni,
conoscenze, credendo che l’accumulo comporti automaticamente
non solo anche la qualità, ma anche
* Psicologa
il discernimento e l’elaborazione di
quanto vissuto e assunto. Prima o
poi, però, complici anche il ritmo
sempre più serrato a cui si è chiamati nell’aggiornarsi, formarsi, in virtù
della senescenza pressoché immediata di ogni acquisizione, e i limiti fisici,
emotivi, energetici, mentali che ciascuno, prima o poi inevitabilmente
raggiunge, questa rincorsa disperata
e votata all’inevitabile fallimento, si
arena. E anche laddove questo non
dovesse accadere, l’insoddisfazione e
la frustrazione di fondo che serpeggiano e aleggiano, e che giorno dopo
giorno s’accrescono, prima o poi
raggiungono una soglia tale da non
poter più essere ignorate.
Che cosa rende, in realtà, costantemente evanescente, irraggiungibile, non veramente soddisfacente
l’esito finale del proprio lavoro e
della propria formazione?
Chi più, chi meno, siamo abituati
a considerare la nostra vita privata e
professionale come un
percorso, un tragitto da un luogo
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38
e un tempo verso un altro. Questo
implica uno spostamento, ma anche
delle modifiche interne ed esterne.
Anche quando la meta viene raggiunta, non si riesce a definirla mai
come ultima. Inevitabilmente ne sorge un’altra. E anche laddove si dovesse rinunciare al movimento, il permanere, o l’illusione che questo accada, non è parimenti soddisfacente.
Spesso la vita personale e professionale è talmente orientata alla meta, che
il percorso per raggiungerla passa in
secondo piano. Tutta l’esistenza è sacrificata a un futuro non meglio precisato che, appena diviene presente,
perde d’interesse in virtù di un rinnovato obiettivo futuro. E, così facendo,
non si vive mai. Oppure, all’estremo
opposto, talvolta si vive e si lavora
per ri-creare qualcosa del passato. Si
commisura ogni conseguimento alla
luce di quel che è stato, mentre quel
che è resta in ombra. E lo si perde.
Se, al contrario, si cominciasse a
concepire l’esistenza privata e lavorativa non come un processo,
un andare verso, ma come uno
stare, un essere già pienamente e
perfettamente qui ed ora, la visione delle cose cambierebbe ampiamente. Si vivrebbe e si lavorerebbe
in una dimensione di pienezza e di
soddisfazione, istante per istante.
Anche se di fondo vige una direzione, una bussola, un criterio di
orientamento, non si rischierebbe
d’investire e sacrificare il presente
– unica possibilità di vita di cui
si dispone – alla luce di qualcosa
non meglio precisato nello spazio
e nel tempo.
Al limite, non esiste un percorso,
ma un passo, in cui si è completamente immersi, a cui ne può seguire un altro, e via così. L’insieme di
questi, solo a posteriori è in grado
di segnare un passaggio. Ma questo ha senso solo se ci si volta, se
si osserva dietro le proprie spalle.
Purché non diventi un’abitudine,
altrimenti si rischia di deviare la
propria rotta e di perdere le occasioni e le opportunità, adesso.
In quest’ottica, che senso ha parlare di ‘lavoro perfetto’, di prodotto o
servizio perfetto? Un operato è già
perfetto nel momento stesso in cui
lo si esegue, quando si cerca di dare il
meglio di se stessi, con gli strumenti di cui si dispone in quel preciso
istante. Soprattutto quando perfetto
si intende nella sua definizione etimologica, cioè che è perfettamente
compiuto, che la sua natura è pienamente realizzata. Ogni istante
presente rappresenta l’opportunità
per manifestare e realizzare creativamente, concretamente e produttivamente la propria natura.
Allo stesso modo, ben poco senso
può avere definire un curriculum
o un professionista perfetto, se non
lo si considera, più correttamente,
come una risorsa, un’opportunità
che l’esistenza invia, e se si è in grado di compiere una scelta di cuore e
di pancia, anziché di analisi razionale delle competenze, se ne saprà fare
di sicuro tesoro e buon uso.
Sull’umanità dei curanti
Anna Fata
note a margine del vivere una professione
accanto alle persone
Il mio percorso umano e professionale è iniziato una ventina d’anni fa. Ero
molto, molto giovane. Ma, dentro,
avevo già vissuto tanti conflitti, sofferenze, piccoli, grandi dolori che, prima o poi, chi più, chi meno, ciascuno
di noi si trova a dover affrontare. Al di
là dei titoli, degli onori e delle onorificenze, quel che mi ha segnata maggiormente in termini evolutivi sono
stati gl’incontri con alcune persone
di riferimento. Un po’ maestri, un po’
curanti, un po’ terapeuti, un po’ compagni, un po’ amici. Ma, prima di tutto, e soprattutto, umani, molto umani. Ho imparato tanto da loro. Forse
perché non hanno mai preteso d’insegnarmi alcunché. Non si sono posti
come profeti, né guru, come docenti,
né asceti, ma semplicemente come
persone con un po’ più d’anni e d’esperienza, su un medesimo piano umano
rispetto al mio, pronti ad accogliere,
rispettare e discutere quanto a mia
volta potevo portare nel mio piccolo.
Potrei citare un’infinità di scene
istruttive ed eloquenti in tale processo. Ne porterò solo alcune a mo’
di esempio, che come tali mi hanno
ispirata nel mio pormi professionale
e hanno avvallato alcune convinzio-
ni di fondo che nel corso degl’anni
si sono approfondite e consolidate.
Chi opera nell’ampio mondo professionale della cura, prima di tutto,
ha qualcosa di se stesso da curare.
Che poi, nella migliore delle ipotesi,
si estende ad una cura verso il proprio prossimo, e, poi, all’umanità
intera. In realtà, la distinzione è solo
per convenzione. Si tratta di un percorso complesso, concatenato e in
ampia parte sovrapposto tra cura di
sé, dell’altro, del mondo. Ed è un
processo che, verosimilmente, non
ha mai fine finché siamo in questo
corpo materiale.
Ricordo uno dei miei due analisti – si
trattava di un periodo in cui stavo effettuando ben due percorsi paralleli!
– dopo alcuni anni di affiancamento, per motivi di salute, illustrati ed
esplicitati, mi disse che non mi poteva più seguire. Al di là dell’iniziale
senso di dispiacere, di scoramento e
di abbandono che questa comunicazione evocò in me, quel che poi, a
breve, scaturì in me fu un profondo
senso di compassione per il suo stare
male e di rispetto per un’umanità a
suo modo fragile che in quella scena
si stava svelando.
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Quando, a distanza di anni, mi trovai io in quelle condizioni, di dover
sospendere la mia attività per circa
un mese per motivi di salute, mi
trovai, senza esitazioni, a dichiarare apertamente ai miei clienti le
ragioni di quella scelta. E quel che
ne ricavai fu altrettanto rispetto, accoglienza, accettazione. Oltre a una
maturazione interiore delle persone
che passava attraverso una maggiore
accettazione della loro stessa umanità e dei loro stessi limiti, ma che
ha anche contribuito a rafforzare la
loro capacità d’incedere, per un breve periodo, con le loro gambe senza
eccessive difficoltà.
Altra scena. Nei vari corsi e percorsi
di formazione classica ci viene insegnato il distacco, la distanza, al limite
della freddezza. Non ci sembra vero,
molti di noi prendono tutto ciò alla
lettera, e si celano dietro i loro titoli,
ruoli, tecnicismi, cercando di mantenere una sorta di controllo e di potere che, in realtà, è alquanto precario e
di sicuro deleterio per chi sta dall’altra parte. Non solo la dipendenza è
sempre in agguato, ma quel processo
di accettazione profonda, quel processo di umanizzazione che passa
attraverso una completa manifestazione di sé, quasi paradossalmente,
difficilmente riesce ad esplicarsi.
Troppo spesso facciamo confusione
tra il farsi coinvolgere e il farsi travolgere. Il coinvolgere è l’abbracciare,
metaforico, simbolico, e, perché no,
se necessario, a volte anche concreto,
ed è funzionale e indispensabile a un
rapporto di cura – e sottolineo di cura,
intesa come avere a cuore –, mentre il
travolgere è il farsi trascinare via, mai
auspicabile, né raccomandabile. Troppo di frequente confondiamo questi
due estremi. Ci arrocchiamo sulla difensiva. Siamo i primi a temere la nostra umanità. Chi, invece, vive il processo di cura come percorso verso una
crescente umanizzazione sente che la
sua personale sofferenza è uno strumento necessario quasi quanto quella
altrui per entrare in sintonia con chi
sta di fronte. Nella mia esperienza mi
sono resa conto che le sedute meglio
riuscite sono proprio quelle in cui riesco a farmi attraversare da tutto quel
che c’è, di mio e dell’altro – facendo
ben attenzione a tenere distinte le due
percezioni – non trattenendo alcunché, né rifiutando alcuna cosa.
La vera umanità passa attraverso il
non avere timore di vivere, di essere
quel che si è, di manifestarsi per quel
che ci si sente dentro. Chi si rapporta
a un curante che non ha vissuto tutto
questo, o, meglio, che non sta vivendo un processo di questo tipo, che di
fatto si prolunga per tutta la vita, non
si potrà mai sentire accolto al cento
per cento, potrà percepire capacità
tecniche, preparazione, gentilezza,
ma non quella cordialità che nasce
dal cuore, non quella compassione
che scaturisce dal portare insieme gli
stessi pesi, che nascono da un vivere
comune. Ogni persona che soffre e
che gioisce sta vivendo la stessa cosa.
Ed è sulla base di tutto questo che
il processo di cura si esplica.