psicoin rivista dell’ordine degli psicologi delle marche direttore responsabile Bernardo Gili redazione Commissione Cultura Coordinatrice Patrizia Vetuli Giuseppe Lavenia Marco Massaccesi Anna Maria Mensà Luca Pierucci Collaboratori Silvia Greganti Milo Montelli Giuseppe Narciso impaginazione Valentina Conti Registrato il 19.06.2000 Presso il Tribunale di Ancona Con il n. 8/2000 Quadrimestrale Poste Italiane S.p.a. – Spedizione in A.P. 70% D.C.B. Ancona recapiti Redazione Ordine degli Psicologi delle Marche Corso Stamira, 29 - 60122 Ancona [email protected] Patrizia Vetuli [email protected] Per conoscere le norme redazionali consultare il sito internet www.ordinepsicologimarche.it © Copyright 2011 by affinità elettive vicolo Stelluto, 3 - 60121 Ancona www.edizioniae.it e-mail: [email protected] Tel. e Fax: 071 9941852 Cell. 333 7778153 Indice La pagina del Presidente Bernardo Gili* La pagina del Presidente Bernardo Gili 3 L’annunciato tentativo di liberalizzare le Professioni sembra sia stato ridimensionato. 4 Non possiamo che essere lieti di come, ancora una volta, gli Ordini professionali abbiano resistito a proposte di cambiamento o addirittura di abolizione che suonano come il tradimento di un patto di lealtà e correttezza che il professionista stipula con la Società, che riguarda l’etica e la deontologia del suo intervento. Credo sia alto il rischio per cui, immettendo la pratica professionale della psicologia all’interno di una forte logica mercantilistica, si favorisca un depauperamento della qualità professionale, con un relativo spostamento di risorse verso una forte propaganda del singolo professionista o studio o associazione. Tutti noi sappiamo bene che non si tratta di difendere “caste”, bensì continuare a rispettare i percorsi formativi e la pratica professionale Editoriale di Patrizia Vetuli Psicologia La psicologia dello sport Barbara Rossi Il terremoto... dentro: lezioni dal terremoto dell’Abruzzo Valeria Catufi 5 9 Orizzonti nuovi 2 Pratica sportiva compulsiva e dipendenze comportamentali: un’analisi psico-sociale Stefano Oronzo-Enrico Iraso 14 Intersezioni Neuroni specchio: scoperta e risvolti applicativi Stefania Stimilli 32 In fondo Verso un lavoro perfetto Anna Fata Sull’umanità dei curanti Anna Fata 37 39 che con lealtà e passione abbiamo intrapreso e proponiamo ai nostri clienti e ai nostri pazienti. Sottolineo inoltre l’importanza per l’Ordine del compito, dopo quello della deontologia, di porsi come un riferimento per il professionista che fuori da altri contenitori istituzionali, ASUR, Enti, società varie, si propone “sul mercato”. Un professionista che è capace di imparare ad ascoltare, leggere il contesto sociale, la comunità, il territorio e che sa elaborare progetti e proposte per interventi al singolo privato, all’associazione, all’ente, eccetera, e con armonia sa accompagnare alla ricerca di risposte rispetto a quesiti, criticità ed emergenze. Soprattutto, sa continuamente apprendere dai propri contesti e proporre accompagnamento a percorsi di apprendimento dei contesti di chi usufruisce del suo intervento. Crediamo sia anche questo un compito che il presente Consiglio debba avere nelle sue prerogative. * Psicologo Psicoterapeuta, Presidente dell’Ordine degli Psicologi delle Marche 3 4 Editoriale Psicologia di Patrizia Vetuli* Barbara Rossi* Nel licenziare i numeri del 2011 di Psico In, torno a sottolineare come la rinnovata veste editoriale – per una scelta voluta e condivisa – non risponde solo alla esigenza di ottimizzare i costi, quanto di dotare l’Ordine di uno strumento agile e capace di farsi luogo e spazio di dibattito delle problematiche tradizionali e di attualità della nostra professione. Ciò, naturalmente, fatti salvi i valori di riferimento, nonché gli obiettivi di serietà e scientificità dei contenuti. A questo proposito, l’inserimento di Psico In nel range delle pubblicazioni periodiche scientifiche, avvenuto – ci piace sottolinearlo – per la prima volta nel 2010, costituisce un salto di qualità della rivista. Scientificità e dialogo, dunque, sui temi centrali della professione attraverso un dibattito in cui figurano firme di spicco come quella di Silvia Vegetti Finzi. Soprattutto, Psico in è la rivista dell’Ordine, dunque è aperta a tutti gli iscritti: accogliamo volentieri suggerimenti e siamo grati a quanti vogliono dare un apporto in termini costruttivi e propositivi. I primi due numeri del 2011 sono caratterizzati dalla presenza dei resoconti dei gruppi di lavoro atti- vati dal nostro Ordine evidenziando una sinergia proficua tra il lavoro dei gruppi e i risultati oggetto di pubblicazione. Per la sezione Psicologia, abbiamo il contributo di Barbara Rossi, del Centro Regionale di Psicologia dello Sport di Macerata, con La psicologia dello sport, che, partendo dal concetto che psicologia e sport hanno come minimo comune denominatore la persona, individua le aree in cui opera lo psicologo dello sport. Valeria Catufi, in Il terremoto… dentro: lezioni dal terremoto dell’Abruzzo, sottolinea l’importanza di un sostegno competente per le vittime di un evento calamitoso e per gli stessi soccorritori. In Orizzonti nuovi, Stefano Oronzo e Enrico Iraso con un lavoro sulla Pratica sportiva compulsiva e dipendenze comportamentali: un’analisi psicosociale, analizzano la dipendenza da sport e il conseguente approccio psicologico al fenomeno. Per Intersezioni pubblichiamo Neuroni specchio: scoperta e risvolti applicativi di Stefania Stimilli e, per In fondo i due suggestivi lavori con cui Anna Fata si rivolge ai professionisti della mente e del cuore: Verso un lavoro perfetto e Sull’umanità dei curanti. * Psicologa Psicoterapeuta, Coordinatrice Commissione Cultura, Web, Formazione e Comunicazione la psicologia dello sport La psicologia e lo sport hanno un minimo comune denominatore, la persona, e condividono l’interesse per l’uomo e la sua espressione attraverso lo sport. La psicologia dello sport nasce agli inizi del 1900, quando alcuni psicologi ed educatori fisici, in situazioni differenti, iniziano a formulare teorie sugli aspetti psicologici dell’attività sportiva. Nasce allora la necessità di dare una spiegazione alle implicazioni emotive e mentali connesse allo sport. Al momento, in Italia, esistono associazioni che, sempre più numerose, si occupano di psicologia dello sport in virtù di una domanda del mercato sportivo che aumenta, seppure lentamente rispetto ad altri paesi. Ogni prestazione sportiva nasce da una molteplicità di fattori, spesso complessi, che si completano a vicenda. Questi fattori sono: • Predisposizione fisica e capacità naturali atletiche * Psicologa • Capacità tecniche e talento innato • Capacità tattiche e strategiche • Livello e intensità di allenamento • Alimentazione e regole di vita • Preparazione psicologica. La preparazione psicologica ha l’obiettivo di portare stabilmente l’atleta ad acquisire una buona condizione mentale generale e una buona capacità di preparare ogni singola gara. In tutti gli sport, la fiducia nella propria forza, la determinazione, la lucidità e la concentrazione nei momenti importanti, il saper stare in un gruppo, sono elementi invisibili che tuttavia fanno spesso pendere l’ago della bilancia della prestazione in una direzione positiva in presenza di una buona preparazione mentale. È su questo che lo psicologo dello sport lavora, come un allenatore sulla tecnica e tattica e un preparatore atletico sulla condizione fisica. In tutti gli sport l’intervento della psicologia è volto a ottimizzare: - lo sviluppo e la crescita personale dell’atleta - la prestazione dell’atleta 5 6 - la comunicazione e la coesione all’interno del gruppo-squadra. Questo genere di intervento, soprattutto negli sport di squadra, può avere un impatto fortissimo quando vede l’attiva partecipazione dell’allenatore che, supportato dallo psicologo dello sport, diventa anche trainer delle capacità mentali dei suoi atleti. La psicologia dello sport e nello specifico l’allenamento mentale o Mental Training si traduce, anche grazie al prezioso contributo della ricerca universitaria e delle neuroscienze, in esercizi pratici che insegnano a porsi degli obiettivi di miglioramento misurabili, che rendono l’atleta in grado di ottimizzare le proprie potenzialità e puntano a facilitarne l’espressione completa. Un risultato positivo e duraturo è solo la conseguenza di come si lavora. Allo psicologo dello sport spetta il compito di portare nel mondo sportivo l’approfondimento di anni di studio finalizzati a migliorare le abilità mentali e a facilitare le dinamiche personali e interpersonali valorizzando, però, la leggerezza che è insita nello sport, che ha nel gioco una componente insostituibile. A proposito di gioco, lo sport agonistico non è l’unico ambito di applicazione della psicologia dello sport. Una parte importante degli studi e delle risorse è infatti destinata allo sport infantile e allo sviluppo del ragazzo attraverso lo sport. In questo contesto, l’impiego degli psicologi dello sport è rivolto principalmen- te alla formazione e al supporto agli operatori delle società sportive con settore giovanile. Queste, infatti, si trovano in un’epoca storica con una congiuntura di vari fenomeni sociali e situazioni difficilmente gestibili senza una competenza specifica, una spiccata capacità organizzativa e una chiara attitudine alla gestione della risorsa umana. La psicologia dello sport potrebbe rappresentare un valido aiuto, potrebbe davvero, se fosse più diffusa la cultura di una richiesta d’aiuto in questo senso, se fosse una disciplina più conosciuta di quanto realmente è agli addetti ai lavori e se non fosse più circondata da un alone di diffidenza o dal pregiudizio per cui allo psicologo si rivolge solo chi ha problemi. In realtà, allo psicologo dello sport si rivolge chi vuole migliorare, imparando a trovare soluzioni ai problemi o meglio alle difficoltà riscontrabili in questo difficile settore della formazione dei giovani sportivi. Il lavoro degli psicologi dello sport serve anche a prevenire l’abbandono precoce dello sport da parte dei bambini. Si parla di abbandono sportivo precoce per dire che tanti bambini lasciano lo sport intorno ai 10 o 12 anni, o anche prima, il più delle volte in maniera definitiva. Il bambino, rinunciando allo sport, si priva di elementi indispensabili alla sua crescita, quali il gioco, il divertimento, la socializzazione, la competizione, il senso di responsabilità, l’autonomia e l’espressione dei suoi talenti. Perché i bambini abbandonano lo sport? Evidentemente perché non si divertono più! Volendo approfondire il discorso, si rende necessario, per capirne le scelte, dare una descrizione più completa del bambino di oggi. Il bambino del duemila vive in un contesto molto diverso dal bambino di qualche decennio fa: è bombardato di stimoli intellettivi di ogni genere, vive in una società multirazziale e variegata, passa molto tempo seduto a svolgere attività intellettuali (studio, play-station, computer, ecc.), ha le giornate piene e molto strutturate, poco tempo per giocare liberamente esercitando la sua fantasia, poca possibilità di muoversi liberamente per strada (correndo, saltando, lanciando ecc.), poco tempo da trascorrere con i genitori che lavorano, e tende a essere iper-nutrito: tutti si aspettano molto da lui benché sia circondato da agenzie educative ed educatori che raramente si parlano tra loro interrogandosi sulle sue reali esigenze. Tutte queste caratteristiche rendono il bambino molto più bisognoso di 30 anni fa di tanta attività motoria completa e non troppo strutturata in cui possa respirare, divertirsi e crescere insieme ad altri bambini sotto la guida di un buon maestro di sport che abbia un filo diretto con le famiglie e, perché no, con gli insegnanti scolastici. La psicomotricità ci ricorda che nello sport l’esigenza del bimbo è quella di muoversi, giocare e stare con i suoi pari; tutto il resto (coppe da mettere in bacheca, campionati, classifiche, ecc.) è solo una esigenza degli adulti. Questo non significa che i bambini debbano venire abbandonati a se stessi o allenati con metodi lassi: al contrario, significa che è necessario prenderli per mano educandoli all’autonomia e al rispetto delle giuste regole della salute e della correttezza del gioco-sport finalizzato alla crescita espressiva e non alla vittoria a tutti i costi. Nemmeno il bambino ama perdere quando gioca, ma l’obiettivo non è la vittoria: il fine del suo giocare è il gioco stesso. Il bambino gioca per procurarsi piacere, è stato così da sempre e sarà così per sempre; quindi, una società nella quale tanti bimbi abbandonano lo sport è una società nella quale gli adulti devono inevitabilmente porsi delle domande sulla qualità del prodotto che offrono come attività ricreativa. Se i ragazzi preferiscono smettere di giocare è solo perché nello sport infantile che si propone loro spesso c’è mancanza di gioia e di insegnamenti adeguati. In sostanza, gli ambienti sportivi a rischio di abbandono sono quelli con sistemi troppo oppressivi, che offrono allenamenti “scientifici” e privi di divertimento, dove l’insegnamento privilegia esercizi ripetitivi e un senso dell’agonismo sbagliato. Tali sistemi, pur essendo rivolti ai più piccoli, sono basati sul 7 8 giocare per vincere e hanno aspettative inadeguate che generano stimoli eccessivi che portano alla paura di perdere. Le famiglie affidano agli allenatori il loro bene più prezioso e insieme a loro devono creare intorno ai bambini un sistema ideale nel quale crescere e imparare a esprimere e sviluppare le proprie capacità, la propria personalità, il proprio agonismo senza la paura di sbagliare. Chi ha paura di sbagliare ha meno possibilità di esplorare il mondo circostante e di imparare a superare i propri limiti, finendo per abbandonare le attività che anziché essere risorse, rappresentano solo inutili e dannosi momenti di stress. In una società sportiva dove istruttori preparati e supportati dalla psicologia dello sport portano avanti tali valori e sono accompagnati in questo da famiglie consapevoli e da dirigenti competenti che non disdegnano il dialogo con la scuola, il disagio e il rischio di abbandono si riduce notevolmente, mentre cresce la possibilità di aiutare a crescere individui autonomi e in grado di essere felici e, perché no, abili sportivi. Nel nostro territorio l’Ordine degli Psicologi della Regione Marche, con la creazione del Gruppo di Lavoro in Psicologia dello Sport e con il proseguimento della collaborazione con il Centro Regionale di Psicologia dello Sport di Macerata, si propone come punto di riferimento per quanto riguarda la formazione, la consulenza e la realizzazione di progetti in psicologia dello sport e come canale di divulgazione delle teorie e della pratica di questa preziosa disciplina. Il terremoto... dentro: lezioni dal terremoto dell’Abruzzo Valeria Catufi* C’è una parte del terremoto che non si vede e non si ode ed è il sisma che avviene dentro, il “terremoto invisibile”, Grignani (1999) Secondo Castelli e Sbattella (2003), l’emergenza è una circostanza in cui un evento devastante, inaspettato e improvviso, naturale o provocato dall’uomo (disastro), crea una situazione di allerta e attivazione in cui vengono messe in atto delle manovre di soccorso. Vi è, dunque, la presenza di un particolare clima emotivo, di una risposta organizzativa e di un insieme di condizioni ambientali. In un’emergenza possiamo distinguere le vittime “primarie”, ovvero i soggetti direttamente coinvolti dall’evento critico; quelle “secondarie”, ovvero i parenti e/o testimoni diretti dell’evento; infine, le vittime cosiddette “terziarie”, ossia i soccorritori intervenuti sulla scena, spesso esposti a situazioni di particolare drammaticità. Questo contributo si propone di divulgare, attraverso una esperienza personale, l’importanza di offrire sostegno nel post-emergenza non solo alle vittime di un evento calamitoso, * Psicologa ma anche ai soccorritori che hanno apportato il loro aiuto. Per entrambi gli attori di una scena di emergenza è importante promuovere il senso di sicurezza, favorire un ritorno alla calma, incoraggiare il senso di efficacia individuale e collettiva, e promuovere il senso di speranza e di rete sociale (Pietrantoni & Prati, 2009). Dal novembre del 2009 al febbraio 2010, ho partecipato a un progetto formativo attivato dalla Protezione Civile del Comune di Bologna, intitolato “Competenze relazionali nel lavoro della protezione civile. Lessons learned del terremoto dell’Abruzzo” (Catufi, Prati, & Pietrantoni, 2010). Il corso era rivolto a circa 120 operatori della Polizia Municipale e 25 tecnici dei Lavori Pubblici che hanno partecipato come Protezione civile al terremoto dell’Aquila. Il progetto si è articolato in sette edizioni, ognuna composta di 2 giornate per un totale di 12 ore. Durante ogni incontro, il gruppo si costituiva di circa 18 operatori. Non sono state svolte lezioni frontali, ma si è preferito utilizzare metodologie interattive come, per esempio, la discussione di casi e le esercitazio- 9 10 ni individuali in aula. Questo ha permesso, grazie anche alla disposizione delle sedie in forma circolare, lo scambio di idee ed esperienze, il confronto e la partecipazione. Ogni incontro iniziava con la presentazione dei singoli partecipanti ai quali era chiesto di riferire il proprio nome, il luogo di intervento e il periodo di permanenza in Abruzzo, in modo tale da comprendere in quale fase del post-emergenza erano andati a operare. Sono stati affrontati argomenti relativi alle risposte emotive e comportamentali dei sopravvissuti, le reazioni dei familiari in caso di morte/dispersione, le dinamiche sociali e i conflitti nel campo, le competenze relazionali con particolari target della popolazione (anziani, bambini,…). Nel corso degli incontri, per favorire lo scambio tra operatori, venivano dati alcuni input di discussione: le reazioni osservate nelle persone in risposta all’evento accaduto, la conflittualità tra la popolazione, tra gli operatori e la popolazione e tra gli operatori. Nell’ultima parte dell’incontro è stato chiesto di esprimere quali fossero le emozioni provate nella settimana in cui erano in Abruzzo, distinguendo il loro vissuto secondo un ordine temporale: alla partenza-arrivo, a metà settimana, alla partenza-ritorno. Il vissuto degli operatori alla partenza-arrivo I vissuti degli operatori erano legati maggiormente all’incertezza, all’entusiasmo e alla curiosità: “Decisa di andare, ma prima di partire mi è arrivato il patema. Mi era venuto il dubbio sulle mie capacità”; “Avevo tanta paura di sentirmi tra i piedi o essere inadeguata”; “Ho capito che la situazione era in continua evoluzione. Sono andato giù con l’idea di fare quello che mi veniva chiesto”; “Preoccupazione/ disagio al momento della partenza. A queste sensazioni negative si sono poi sviluppate reazioni opposte, positive”. All’arrivo in Abruzzo, gli operatori si sono trovati di fronte a una situazione tragica e difficile, dovuta anche all’incertezza del loro lavoro e del loro ruolo: “Spaesamento all’arrivo iniziale perché non ci sono certezze. Forza data dal gruppo di colleghi e delle persone e l’adattamento di tutti”; “Mi sono trovata incapace di parlare, mi sentivo inadeguata. Ero spaventata da quello che ti puoi trovare. Il primo sentimento è stato inadeguatezza. La cosa che mi ha fatto star male è stato questo silenzio surreale. Cominci poi a pensare che dietro a tutta questa distruzione c’era un negozio, c’erano persone che vendevano, mamma e figlia che compravano, zainetti nelle scuole… a un certo punto ho smesso di pensare”; “Sensazione continua di sospensione. Questo silenzio, questo «non luogo» diverso da altri luoghi che era l’Aquila prima del terremoto. Come stare in Purgatorio. Tra passato e futuro c’era una cappa di vetro. Sensazione che mi ha accompagnato per tutta la mia permanenza e anche dopo”; “Senso di vuoto da quan- do siamo arrivati là, facendo un giro per l’Aquila. Vedevi il niente che era rimasto. Un grande silenzio. La loro gratitudine nei miei confronti e la mia verso di loro e ingratitudine per aver assistito a scene forse dovute alla stanchezza. Scene molto spiacevoli”. Il vissuto degli operatori a metà settimana A metà settimana gli operatori erano ormai entrati nella routine del posto e il loro vissuto ha subìto delle modifiche: “A metà settimana, dopo avere conosciuto cosa dovevi fare, eri già a tuo agio. Facevamo il 30%-40% di quello che potevamo fare”; “Ansia perché sono partita con colleghi che non conoscevo. Senso di colpa perché le mie figlie volevano che non partissi. Frustrazione perché ti rendi conto che non cambi la situazione, sei utile ma non indispensabile. Sei uno fra tanti. Euforia perché sono tornata indietro di 15 anni, ero libera dalla vita di tutti i giorni e dagli impegni quotidiani. C’era un po’ l’atmosfera da campeggio”; “Mi sono sentito utile perché se non c’ero lo doveva fare qualcun altro, invece c’ero io e l’ho fatto io! Sintonia tra tutti gli operatori volontari all’interno del campo. Mi ha arricchito a livello umano”; “Ho cercato di essere distaccata per non farmi coinvolgere ma per essere utile. Una notte ho avuto paura dopo una scossa. Quando ho raccontato che la scossa della notte era stata forte, un ragazzo mi ha risposto «Sì, infatti» e li mi sono vergognata”. Il vissuto degli operatori alla partenza-ritorno Al momento della partenza i vissuti emotivi degli operatori sono di nuovo cambiati: “È stata un’esperienza di emozioni. Sono partito carico di entusiasmo (come rivivere il periodo del militare). La cosa bellissima è stata il cameratismo che si è creato con i colleghi. Il silenzio mi ha impressionato. Il rumore del silenzio. Gli ultimi giorni avevo finito le pile, ero stanco mentalmente. Quell’entusiasmo mi era passato. Ho notato la tristezza del tornare a casa”; “Mi sono sentita molto fortunata perché io avevo tutto e loro niente. È un misto tra stupida, imbarazzata perché capisci che le cose che per te erano importanti dopo la visione di quelle cose non erano più importanti. Molta tristezza negli ultimi giorni. Io parlo molto e durante il viaggio non ho detto una parola tanto che i colleghi si sono anche preoccupati!”; “Arricchito dalla situazione. Impotenza considerando quello che facevo e quello che avrei potuto fare. Mi sono sentito perso perché non sapevo cosa sarei andato a fare. Arrivati ero ancora più perso. Al ritorno, con persone molto allegre che chiacchierano molto, siamo stati un’ora in silenzio”; “Ho avuto il calo di adrenalina quando ho visto un campo sportivo senza tende. Lì ho capito di rientrare nella normalità”. Il momento del ritorno, per molti operatori, è stato duro per la stanchezza fisica e psicologica: “Appena arrivata sono entrata nel contesto. Il rientro mi ha costato fatica. Ho capito l’inutilità di tante cose dopo l’esperien- 11 12 za difficile vissuta. È stato più difficile riabituarmi a Bologna che abituarmi all’Aquila”; “Soddisfazione per il lavoro di gruppo, che è stato fatto qualcosa nel lavorare con gli altri. Senso di spossatezza al rientro a Bologna. Quando arrivi a casa c’è un crollo. Compassione e umanità delle persone. Appagamento con il contatto con gli altri”; “Sorpresa, pensavo di trovare angoscia e disperazione: nelle case rovinate si, ma nelle persone no. L’angoscia del terremoto l’ho vista nel vedere i cani abbandonati. Armonia con i colleghi e nostalgia quando sono ritornata a casa. Al ritorno cercavo nei palazzi le crepe, mi sembrava strano vedere case senza crepe”; “Tristezza, umanità, sofferenza, condivisione e solidarietà. Mi è rimasto impresso il ritorno a casa: i miei mi hanno abbracciato e mi sono rattristata pensando che io ero fortunata invece una ragazza che si doveva sposare a giugno aveva perso il fidanzato nella tragedia”; “Noi non spingevamo tanto per ritornare a casa. Abbiamo fatto le foto con il turno che veniva dopo. Ti rendi conto che hai dato poco e ricevuto tanto e che quei sorrisi e quei grazie ti hanno arricchito tantissimo. Ti senti legato a quella situazione anche quando sei a casa”; “Quando sono tornato sono stato tutta la notte a vedere su internet se c’erano state scosse e ho letto quello che era accaduto successivamente, anche se ero stanchissimo”. Dalle testimonianze emerse (Prati, Catufi, Pietrantoni, Baldassarri, & Monti, 2010) compare il senso di arricchimento legato all’esperienza vissuta. Prima di partire gli operatori riportano un timore relativo alle proprie mansioni da svolgere sul luogo dell’emergenza, ma una voglia di portare comunque il proprio aiuto ai bisognosi. Successivamente, la permanenza nei campi è stata caratterizzata da una fase molto attiva in cui gli operatori si sono sentiti parte di una missione; alcuni, però, hanno evidenziato una inutilità del loro lavoro rispetto al grande bisogno che c’era. Al momento di rientrare a casa, c’è stata una fase di stordimento dovuto a una sorta di contraccolpo con una realtà della quale si erano disabituati (la routine quotidiana). Questo è rispecchiabile nel modello a fasi di Hartsough e Myers (1985) che descrive le reazioni psicologiche degli operatori dell’emergenza in un intervento critico. La fase di allarme comincia nel momento in cui vi è la comunicazione di un evento da parte della centrale. Nella fase di mobilitazione vi è una rapida attivazione psicofisiologica e la formazione di aspettative e rappresentazioni cognitive volte a indurre azioni corrette ed efficaci. Successivamente, nella fase dell’azione, gli operatori si dedicano con grande dispendio di energie all’intervento per il tempo necessario. Infine, la fase di smobilitazione riguarda il ritorno alla normale routine lavorativa e sociale. Con questo progetto si è pensato di valorizzare il contributo di ciascun operatore, attraverso uno spazio di discussione, al fine di promuovere una crescita professionale rispetto all’esperienza vissuta in Abruzzo, ma anche di migliorare le abilità relazionali con le persone delle zone colpite da una calamità secondi i principi base di quello che viene chiamato “Primo Soccorso Psicologico” (Pietrantoni, Prati, & Palestini, 2008) allo scopo di formare gli operatori per interventi futuri. Le testimonianze riportate in questo contributo sono una parte di quello che è emerso nel corso degli incontri, ma sono comunque importanti per comprendere come anche il soccorritore possa essere travolto da emozioni intense che non riesce a gestire con i mezzi personali di adattamento di cui dispone. È stata, questa, un’esperienza importante perché mi ha permesso di confrontarmi con una realtà diversa dalla mia (come il terremoto Umbria-Marche del 1997) e ha rappresentato uno spunto per eventuali corsi di formazione rivolti agli operatori dell’emergenza su quelle che vengono chiamate “competenze non tecniche”, ovvero tutte quelle abilità cognitive, emotive, comportamentali e interpersonali che non sono specifiche dell’expertise tecnica di una professione, ma che sono allo stesso modo importanti nella riuscita delle pratiche operative (Pietrantoni & Prati, 2009). 13 bibliografia Castelli, C., & Sbattella, F. (2003), Psicologia dei disastri. Interventi relazionali in contesti di emergenza, Carocci Editore, Roma. Catufi, V., Prati, G., & Pietrantoni, L. (2010), Competenze relazionali nel lavoro della Polizia Locale in situazioni di disastro. Lezioni dal terremoto dell’Abruzzo, in «N&A mensile italiano del soccorso», 19(209), 16-17. Grignani, M. (1999), Il terremoto invisibile. Le reazioni psicologiche alla catastrofe. Studi e informazioni, a. XI-XII, nn. 31-32, 1998-1999-Irres. Hartsough, D. M., & Myers, D. G. (1985), Disaster work and mental health: Prevention and control of stress among workers, Rockville, Md., National Institute of Mental Health, «DHHS» Publication n. ADM 85-1422, 1-44. Pietrantoni, L. & Prati, G. (2009), Psicologia dell’emergenza, Il Mulino, Bologna. Pietrantoni, L., Prati, G. & Palestini, L. (2008), Il Primo Soccorso Psicologico nelle maxi-emergenze e nei disastri. Un manuale operativo, Clueb, Bologna. Prati, G., Catufi, V, Pietrantoni, L., Baldassarri, E., & Monti, M. (2010), Competenze relazionali nel lavoro di Protezione Civile. Lessons learned dal terremoto dell’Abruzzo. Rapporto finale del percorso formativo, Protezione Civile del Comune di Bologna, Bologna. Orizzonti nuovi Stefano Oronzo-Enrico Iraso* pratica sportiva compulsiva e dipendenze comportamentali: un’analisi psico-sociale 14 Abstract Numerosi studi hanno dimostrato che l’attività fisica e sportiva sono fonti inesauribili di benefici psicofisici. Tuttavia, per alcune persone l’esercizio fisico può divenire un’ossessione, nota come dipendenza da esercizio compulsivo (exercise addiction). Tale dipendenza consiste nel meccanismo di auto costrizione degli individui a estremizzare il valore dei benefici dell’attività fisica, ovvero sportiva, senza la minima considerazione dei possibili ostacoli e conseguenti rischi. Non è infatti irrilevante il numero di coloro che si sottopongono quotidianamente a continue ed estenuanti sessioni d’allenamento, travalicando i limiti del buon senso e della resistenza fisica, alla ricerca della forma perfetta o di una modalità per compensare carenze e tematiche irrisolte a livello personale e sociale. Gli aspetti pervasivi del fenomeno sono messi in relazione con l’eventuale co-presenza di disturbi * Psicologo alimentari, modificazioni caratteriali e sindrome da overtraining (sovrallenamento), condizione assai pericolosa che, se non opportunamente rilevata e curata, costituisce un serio rischio per la salute dell’atleta. In tale ultima prospettiva, da diversi anni è emersa la cosiddetta sindrome di Highlander o dell’immortalità, che è una malattia caratterizzata dall’inasprimento del senso della competizione, autostima e sensazione di benessere che colpisce, in prevalenza, gli individui dai 40 anni in su. 1. Lo scenario - 1.1. Da tempo libero a tempo disponibile - 1.2. Lo sport quale bisogno competitivo - 2. Lo sport come dipendenza e l’esercizio compulsivo - 2.1. Le 4 dimensioni della “dipendenza da sport” - 2.2. La sindrome da overtraining (OTS) - 2.3. Disturbi alimentari e l’exercise addiction 3. L’approccio psicologico - 4. Sport come droga: l’approccio neurobiologico - 5. Oltre la dipendenza: il Disturbo Ossessivo Compulsivo - 5.1. La sindrome di Highlander - bibliografia siti internet consultati 1. Lo scenario Durante il secolo scorso si è assistito a un forte incremento della pratica sportiva, in relazione alle mutate condizioni di vita, al maggior tempo libero a disposizione e alla sensibilità emergente verso tematiche correlate all’attenzione per il proprio corpo. Lo sport, da pratica elitaria, è divenuto oggi pratica di massa: se da una parte nascono continuamente palestre e centri sportivi iperattrezzati in grado di offrire agli atleti un programma completo di addestramento, dall’altra sempre più si incontrano singoli individui o gruppi che spontaneamente praticano sport in contesti non strutturati (jogging, ciclismo e, sulle spiagge, windsurf, beach volley e via discorrendo). Basta inoltre recarsi negli iperstore dedicati, anch’essi in forte espansione, per notare come l’offerta di articoli sportivi stenti talvolta a soddisfare la crescente richiesta di strumenti e abbigliamento tecnico e specializzato che proviene trasversalmente da una popolazione variegata, senza significative variazioni in ordine età o sesso. La pratica sportiva, al pari di tutte le attività umane, risponde a diverse esigenze e spesso non scaturisce da una motivazione univoca. Si può fare sport per il proprio benessere psicofisico, per divertimento, per spirito di competizione, per guadagnare, per aumentare il proprio appeal sessuale, per scaricare l’aggressività, per perdere peso, per socializzare, per passare il tempo, per incrementare la massa muscolare, per rimanere giova- ni e performanti, per scopo medico e curativo, e la lista potrebbe essere ben più lunga. Si deve quindi considerare che, dietro al “fare sport”, esiste una congerie variegata di spinte individuali, alcune palesi, altre meno, che possono presentarsi singolarmente, o più spesso, in combinazione tra loro. 1.1. Da tempo libero a tempo disponibile Il concetto di tempo ha avuto nel corso della storia dell’umanità, un importante influsso sull’evoluzione della società e dei suoi costumi, in particolare relativamente al concetto di beni e consumi. La sua concezione ha influenzato, da un lato, la riformulazione delle modalità di reperimento dei beni; dall’altro, la ripartizione delle risorse temporali attraverso la pianificazione del tempo libero. A partire dal ’900, per mezzo dello sviluppo dell’industrializzazione e dalla nascita della società di massa, la crescita del benessere sociale ha determinato la facilità di reperimento delle risorse, aumentando a dismisura e rimodulando l’offerta di tempo libero giornaliera. Quello che una volta era il tempo “libero”, è divenuto, da un lato, tempo pianificato, in ragione di una disponibilità eccessiva rispetto alla sua reale domanda; dall’altro, tempo disponibile indifferentemente nell’arco di un giorno o addirittura dell’intero anno solare. La sua percezione ha abbandonato il carattere della residualità rispetto al lavoro, il quale permeava i contenuti massima- 15 16 li dell’organizzazione sociale. Il tempo libero è oggi legato alla persona, dotato di una propria specifica identità, nel quale costruire anche la propria identità sociale. È un luogo creativo dell’individualità, in cui i settori del ludens e del ristoro psico-fisico trovano una collocazione ripensata a seconda dei modelli di interpretazione sociale. La diversità dei bisogni di cui diviene contenitore è talmente eterogenea, da non rispecchiare i classici postulati della società, che vede oggi protagonisti del tempo libero tutte le categorie dell’organizzazione sociale, tutte le fasce di età, gruppi sociali e sessi differenti. In definitiva, è divenuto terreno adatto a creare la propria identità sociale. Un “luogo” nel quale non solo recuperare ma anche costruire. In tale contesto, l’attività fisica e la pratica sportiva sono divenute sia un indicatore di uno stile che un modo di vivere il tempo libero nel pieno accoglimento degli stereotipi sportivi quali l’agonismo e la competizione. 1.2. Lo sport quale bisogno competitivo Uno degli elementi caratterizzanti la moderna idea di sport è l’agon, la competizione. Attraverso il perfezionamento delle proprie capacità, in rapporto con la prestazione dell’altro/avversario, si cerca di raggiungere l’alto rendimento in competizioni sportive sistematiche e organizzate. In linea teorica, il confrontarsi con l’avversario per misurare le proprie capacità è uno degli elementi princi- pali senza cui non sarebbe possibile parlare di competizione sportiva. Da tale elemento nasce la consapevolezza dell’importanza dell’altro, dell’avversario che, mancando, non renderebbe possibile il confronto. Il cosiddetto bisogno competitivo che un individuo può dimostrare necessariamente deve far fronte a tale connotazione. La degenerazione di tale concetto tuttavia è cosa semplice. In tale contesto sussiste la distinzione tra: a) sport professionistico e spettacolare b) sport dilettantistico comunque volto alla prestazione c) sport amatoriale comunque competitivo È ormai da tutti condiviso l’importante ruolo che svolgono l’educazione fisica e lo sport nell’ambito dell’educazione, non tanto per le opportunità che offrono di confrontarsi sul piano fisico, ma perché forniscono reali occasioni di reciproca collaborazione e arricchimento formativo, soprattutto, quando si basano sui veri valori della cultura motoria che del bisogno competitivo cerca di dare una soddisfazione paradigmatica. Dalla prima Olimpiade dell’era moderna (1896) nel rispetto dei principi del dilettantismo, della lealtà e della fratellanza, e nell’osservanza del motto coniato da De Coubertain “Più che vincere è importante partecipare”, le Olimpiadi (tranne che nei periodi delle guerre mondiali), sono state sempre effettuate, ogni 4 anni, in paesi diversi. Con il trascorrere degli anni alle Olimpiadi si sono aggiunte altre manifestazioni volte a recuperare e coniugare i valori dell’agonismo con quelli dell’amicizia e della pace. Dopo la I guerra mondiale, tuttavia, al carattere educativo dell’attività fisica e sportiva si è aggiunta, quasi sostituendolo, un’eccessiva caratterizzazione dello spirito competitivo. A ciò ha fatto seguito in maniera naturale l’aspetto spettacolare affidato alle varie discipline, generando, in modo esplicito o nascosto, una degenerazione del professionismo. È nata così la corsa al record, al primato, alla lotta contro l’avversario e contro il cronometro o contro la misura. Il bisogno competitivo ha avuto una soddisfazione non incline alle premesse. Lo sport professionistico, caratterizzato da attività spettacolari, possedendo di per sé potenzialità educative soprattutto a livello di emulazione, si svuota di ogni valore culturale quando si lascia vincolare da criteri di produttività e interesse economico perseguendo l’obiettivo della prestazione, del record, della vittoria e del relativo guadagno. C’è, in definitiva, uno stravolgimento dei valori e delle finalità dello sport stesso. Il professionismo, dunque, utilizzato come mezzo di guadagno e di successo, tende a stravolgere la funzione sociale dello sport tendendo ad appagare il bisogno competitivo in maniera distorta. L’esasperata logica di mercato, anche se non comprende tutte le discipline sportive, tende a trasformare lo sport in uno spettacolo in cui l’atleta finisce per svolgere un vero e proprio lavoro da affrontare secondo le regole del professionismo, caratterizzato principalmente da esasperate procedure tecnico-agonistiche e da comportamenti omologati sempre meno rispondenti a uno specifico profilo socioculturale. Alcuni sport sono rimasti legati allo spirito dilettantistico, mentre altri, che per molti decenni hanno rispecchiato la specificità di singole culture (anglosassone, latino-americana, italiana, francese...) si sono svuotati nel tempo della specifica dimensione culturale locale. Ormai sono sempre più numerose le presenze di atleti di cultura diversa che riescono a confrontarsi su un piano di parità con tutti gli altri campioni, anche in sport che in passato sembravano essere una prerogativa di determinate culture. A contribuire spesso all’eccessiva spettacolarizzazione dello sport sono, sicuramente, i mezzi di comunicazione di massa che, in base all’interesse economico sollevato, contribuiscono in maniera determinante a confezionare l’evento sportivo come un prodotto da vendere nel modo migliore. Nel dualismo tra professionismo e dilettantismo si insinua il cosiddetto sport amatoriale diretto a una pratica sportiva in cui le finalità sociali dovrebbero essere predominanti su quelle legate alla prestazione, al risultato; tuttavia, spesso anche in tale ambito la logica della prestazione agonistica domina sul ludens. 2. Lo sport come dipendenza e l’esercizio compulsivo In tempi relativamente recenti, la co- 17 18 munità scientifica si è spesso confrontata sul tema delle cosiddette “nuove dipendenze” o dipendenze comportamentali, che comprendono una vasta gamma di situazioni, quali il gioco d’azzardo, la dipendenza da internet, lo shopping compulsivo, la dipendenza da sesso, da lavoro e da cibo, solo per citarne alcune. Se a livello di importanti strumenti diagnostici quali il DSM1, le uniche dipendenze riconosciute sono tuttora quelle causate dall’assunzione di sostanze2, la complessità della vita quotidiana e il nevroticismo che l’accompagna, nonché l’evidenza empirica e il sorgere numeroso di terapie mirate e gruppi di autoaiuto, testimoniano che le nuove dipendenze rappresentano una vera e propria emergenza sociale e non già l’invenzione alla moda di sociologi e giornalisti à la page. È facile evidenziare come sia le dipendenze comportamentali che quelle determinate dall’uso di sostanze presentano una matrice comune che implica: a) impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento (compulsività); b) sensazione crescente di tensione che precede l’inizio del comportamento (craving); c) piacere e sollievo durante la messa in atto del comportamento; d) percezione di perdita di controllo; e) persistenza del comportamento nonostante la sua associazione con conseguenze negative. La dipendenza da sport nei paesi anglosassoni3 può essere considerata una forma di dipendenza psicologica e/o fisiologica da un programma di esercizio fisico in vista di un obiettivo atletico o sportivo. L’individuo non è semplicemente desideroso di tornare ad allenarsi: non può farne a meno! Letteralmente, vive il periodo intercorrente tra un allenamento e l’altro come un tempo sospeso, inutile e fastidioso. La sua mente è completamente concentrata su quello che farà nella prossima sessione sportiva, e in tale contesto gli allenamenti divengono quotidiani e i pomeriggi in palestra si allungano considerevolmente. L’impegno è massimo per contrastare l’affaticamento cui il corpo va incontro e ai persistenti segnali di stanchezza si ovvia raddoppiando gli sforzi. L’allenamento è al primo posto nella scala dei valori individuali e in alcuni casi si rischia l’overtraining syndrome (vedi oltre). Lo sport diviene così una vera e propria ossessione dannosa per la salute, che travalica gli scopi precipui di una sana attività fisica e la sua stessa ragion d’essere (lo sport deve essere al servizio dell’uomo e del suo Manuale Diagnostico e Statico dei Disturbi Mentali, attualmente giunto alla quarta redazione revisionata e molto usato in ambito psichiatrico. 2 Suddivise in Disturbi da Uso di Sostanze (Dipendenza da Sostanza e Abuso di Sostanze) e Disturbi Indotti da Sostanze. 3 Altri sinonimi usati sono sport addiction, compulsive exercise, exercise dependance. 1 benessere e non viceversa). La dipendenza da sport, ampiamente studiata in letteratura specialistica, può quindi essere descritta come una forma di attività fisica estrema, sia in frequenza che in durata, accompagnata da un’irresistibile coazione a ripetere e da possibili crisi di astinenza (Morgan, 1979). Cleere (2005) la descrive come una dipendenza psicologica e/o fisiologica da un programma di esercizio fisico che si caratterizza per la comparsa di sintomi d’astinenza dopo 24-36h di mancata pratica dell’attività sportiva. A tale proposito, già nel 1969, Little aveva evidenziato fenomeni di “dipendenza da sport” in uomini di mezza età che continuavano a praticare la corsa nonostante fossero infortunati. A riprova della pervasività del fenomeno, basti ricordare che nel 2006 si è tenuto a Montesilvano il Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria, avente per oggetto proprio le nuove dipendenze. In tale contesto è emerso come la dipendenza da sport colpisca circa 500.000 persone nel nostro Paese, circa il 10% degli assidui frequentatori di palestre. È altresì emerso come tale problematica si ricolleghi ad altre patologie e disagi psicologici, in primo luogo a disturbi dell’alimentazione nel 30% dei casi e disturbi della personalità a sfondo narcisistico. Ancora, dalla dipendenza da sport e dall’ossessione per la forma fisica e per l’allenamento all’assunzione di sostanze dopanti, in 4 Fonte: ANSA, 15 ottobre 2006. grado di incrementare massa muscolare e prestazioni, il passo è breve e si è evidenziato come circa il 3% delle persone dipendenti da sport finisca col fare uso di steroidi anabolizzanti, secondo i dati forniti dal Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Università di Siena e dal Dipartimento di Igiene dell’Università di Cagliari4. 2.1. Le 4 dimensioni della “dipendenza da sport” Approfonditi studi (Bomber D., Cockerill I.M., Rodgers S., Carroll D., 2003), partendo dalle narrazioni di atleti affetti da tale dipendenza, hanno consentito di enucleare le caratteristiche principali di questo disturbo, ricondotte poi a 4 categorie generali. È importante notare come non necessariamente debbano presentarsi tutte le quattro dimensioni, ma – relativamente alla gravità della situazione – già la compresenza di almeno 2 fattori su 4 possono connotare una dipendenza da sport. a) Funzionamento alterato (in almeno due aree tra le seguenti): - Psicologico: Incapacità a concentrarsi su altro a causa del pensiero ricorrente all’esercizio fisico; - Sociale o lavorativo: Problemi sociali, familiari e lavorativi connessi alla pratica sportiva; - Fisico: Sovrallenamento continuo nonostante infortuni o parere medico contrario; - Comportamentale: Comportamen- 19 20 to atletico inflessibile, stereotipato, esageratamente duro e autopunitivo. b) Sintomi di astinenza Disagio fisico o psicologico in relazione alla riduzione o cessazione delle abitudini di allenamento, oppure desiderio persistente di controllare o ridurre l’attività fisica praticata senza riuscirvi. c) Caratteristiche psicologiche e comportamentali tipiche dei soggetti dipendenti: - Tolleranza: Si aumenta progressivamente il grado di tolleranza agli sforzi fisici; - Eccesso di attività fisica: Problemi sociali, familiari e lavorativi connessi alla pratica sportiva, che diviene preminente rispetto ad altre aree di funzionamento e interesse; - Allenamento solitario: Si predilige l’allenamento solitario, in quanto la presenza di altre persone viene considerato un fattore di disturbo che distoglie dalla pratica sportiva; - Inganno: Si mente in merito alle caratteristiche prestazionali, quali durata dell’allenamento, km percorsi o entità dei carichi utilizzati; - Motivazioni ossessive: Controllo maniacale del peso, dell’immagine corporea, delle prestazioni, delle calorie bruciate e delle ore di sonno. 4) Presenza di disturbi alimentari Anoressia, bulimia o comportamenti di controllo alimentare (diete iper o ipoproteiche e assunzione integratori). È importante ribadire che con il termine “dipendenza da sport” non ci si riferisce semplicemente a un abuso quantitativo della forma fisica (in questo caso sarebbe più proprio parlare di “mania per lo sport”), ma a una ben precisa condizione clinica in cui sono presenti i sintomi tipici della dipendenza. 2.2. La sindrome da overtraining (OTS) Tra le conseguenze negative di una pratica sportiva errata ed esagerata vi è la sindrome da sovrallenamento, conosciuta come overtraining syndrome, intendendo con essa una condizione fisiologica di disequilibrio tra sforzo supportato e recupero fisiologico ed energetico. Ciò che caratterizza tale sindrome è il fatto che, contrariamente al comune affaticamento, transitorio e di breve durata, colui che ne è affetto presenta una condizione stabile e cronicizzata di stanchezza che non si può superare se non tramite una supercompensazione che preveda mesi di riposo. I sintomi principali sono costituiti da: - diminuzione della forza e prestazioni inferiori alla media, - difficoltà di recupero dagli allenamenti e dolori muscolari, - aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, - disturbi del sonno con difficoltà ad addormentarsi e risvegli notturni, - variazioni di ematocrito, tasso di emoglobina e livello di testosterone, - maggiore vulnerabilità a infezioni e disturbi gastrointestinali, - cambiamenti nello stato umorale a sfondo depressivo, - catabolismo muscolare e lesioni da sovraccarico, - riduzione dell’appetito e perdita di peso, - ingrossamento dei linfonodi. Indipendentemente dalle cause (semplicemente perché si è esagerato con gli allenamenti o perché si è in presenza di una vera e propria dipendenza, è importante che l’allenatore o il personal trainer si rendano conto immediatamente della situazione e intervengano con prontezza, onde evitare seri rischi per la salute dell’atleta. Ciò deve esser fatto imponendo innanzitutto un periodo di riposo, con una successiva graduale ripresa degli esercizi, alternando sessioni di allenamento più intense a periodi più blandi e variando il tipo di allenamento stesso, ma sempre dopo che si sia provveduto a un recupero completo, a livello fisiologico, dello stress fisico accumulato. Anche una dieta appropriata, con cibi sani e variati, è senz’altro di supporto in tali situazioni. La OTS è una sindrome seria ed è importante che l’atleta venga indirizzato dal suo medico per gli interventi del caso. A tale proposito è possibile effettuare test di laboratorio per la diagnosi da sovrallenamento, in grado di rilevare alcuni indicatori dell’OTS (glutammina sierica, dosaggio IgA salivari, velocità di sedimentazione, gammaglobuline, contenuto di creatinchinasi e di magnesio). Anche dal punto di vista psicologico si registrano significative variazioni nelle persone con sindrome da so- vrallenamento: il soggetto è distratto, scarsamente motivato e determinato, apatico e contemporaneamente presenta irritabilità e sbalzi d’umore. Egli nutre altresì bassa autostima e scarsa capacità di autovalutazione. Se non opportunamente trattato, il quadro psicologico esita nel rifiuto di allenarsi, qualora non siano presenti motivazioni diverse che sostengono l’impegno sportivo, quali la dipendenza psicologica. In quest’ultimo caso l’atleta potrebbe non volere o potere fermarsi, neppure di fronte all’evidenza del crollo fisico. L’intervento psicoterapeutico è, in questi casi, il trattamento d’elezione. 2.3. Disturbi alimentari e l’exercise addiction Abbiamo avuto modo di accennare al fatto che la dipendenza da sport è frequentemente associata a disturbi alimentari importanti, quale anoressia o bulimia e a comportamenti di controllo alimentare (come seguire strenuamente una dieta iper o ipoproteica e assumere determinati integratori). È importante anche rilevare che i disturbi alimentari, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, non riguardano unicamente la popolazione femminile, ma si presentano con elevata incidenza, almeno nel caso dello sport, anche tra gli uomini, sebbene con caratteristiche diverse (vedi bigoressia). L’anoressia e la bulimia nervose, che colpiscono prevalentemente le donne, sono finalizzate ad assumere un controllo pressoché to- 21 22 tale del proprio corpo, determinando e centellinando con precisione millimetrica la quantità di cibo e di calorie assunte. Ciò rimanda all’idea di un fisico etereo, impalpabile, che tanto più viene visto come bello e desiderabile quanto più è spogliato delle forme tipiche della femminilità. Spesso si è discusso se debba trattarsi di disturbi separati o se entrambi facciano parte di un’unica condizione patologica, la bulianoressia, ma volendo per comodità espositiva tenere distinte le due situazioni, si può affermare che, mentre nell’anoressia “pura” il controllo del peso corporeo avviene tramite l’assunzione di quantità estremamente modiche e scarsamente nutrienti di cibo, nella bulimia il mangiare (che può sconfinare anche in episodi di abbuffate senza controllo) viene compensato dal vomito autoindotto e dal frequente ricorso a lassativi che segue l’assunzione del cibo. Anche l’attività fisica, in tale contesto, serve a bruciare calorie e l’individuo oscilla tra due poli opposti, entrambi compulsivi; da un lato, la spinta a mangiare, anche quando non si vorrebbe o non si ha fame; dall’altro, la necessità impellente di praticare attività fisica (jogging, ginnastica aerobica o lunghe sessioni in palestra) per eliminare le calorie assunte, sino alla prossima abbuffata nel caso della bulimia, o per rispettare un rigido programma autoimposto di controllo alimentare nell’anores- sia. Per quanto riguarda i maschi, è stata ultimamente portata alla ribalta della cronaca una nuova forma patologica, la bigoressia5 o “anoressia inversa” che colpisce in netta prevalenza gli atleti impegnati in discipline che comportano accrescimento muscolare, come nel sollevamento pesi e nel body-building. Tale condizione fu descritta per la prima volta dallo psichiatra Harrison Pope nel suo libro Il complesso di Adone (1993) dove sono raccolte le storie di giovani atleti americani disposti a tutto pur di aumentare la propria massa muscolare. È questa una modalità di comportamento patologico che agisce esattamente al contrario dell’anoressia (da cui l’aggettivo “inversa”). Infatti, se nell’anoressia ci si vede sempre troppo grassi, nella bigoressia ci si vede costantemente gracili e il timore prevalente è quello di perdere massa muscolare, di diventare troppo magri e muscolarmente sottosviluppati. Per compensare tale timore l’individuo si sottopone a lunghe sessioni d’allenamento, con carichi via via ingravescenti. L’alimentazione, o sarebbe meglio dire la sovralimentazione, è parte integrante di tale programma d’allenamento e ben presto si passa dall’assunzione di micidiali cocktail proteici, all’uso di pasticche e integratori (purtroppo) facilmente reperibili sul mercato, sino all’assunzione di steroidi anabolizzanti. Secondo dati recenti, questa sindrome pare colpire circa il 10% dei body builder e dei sollevatori di peso6. Come nel caso della bulianoressia, anche nella bigoressia è dato riscontrare un’erronea percezione del proprio corpo alla fonte del disturbo, una sorta di dismorfismo corporeo a base psicogena che rende l’individuo incapace di osservare se stesso con la necessaria oggettività7 e soprattutto di rendersi conto del superamento dei criteri minimi di buon senso, esponendosi a seri rischi per la propria salute. Non meno importante appare in questi casi il frequente ricorso al doping, cioè all’utilizzo di sostanze farmacologiche al solo scopo di sconfiggere la fatica e migliorare le prestazioni. 3. L’approccio psicologico Una delle cose che lo psicologo dello sport deve chiedersi, nel momento in cui viene segnalato un problema di dipendenza, è capire da cosa esso possa scaturire. Come in tutte le dipendenze, esistono meccanismi difensivi e compensatori che distolgono l’attenzione (trovando una soluzione solo temporanea che finisce per aggravare il problema) da tematiche irrisolte o problematiche profonde in cui l’individuo si dibatte. La “dipendenza” permette di catalizzare la propria attenzione e la propria energia psichica verso un Andersen e altri (1995); Ravaldi e altri (2003). Indipendentemente dal peso corporeo e dall’effettiva massa muscolare, egli si continuerà a vedere sempre eccessivamente grasso o eccessivamente magro. 6 Etimologicamente, il neologismo deriva dalla parola inglese “big” (grande) e dal latino “orex” (appetito), a indicare proprio la “fame di grossezza”. 5 obiettivo che diviene primario e sovra-ordinato rispetto ad altri obiettivi della propria esistenza, che vengono declassati a fatti di minor rilevanza. In altri termini, se vi è un’insoddisfazione profonda, o una sensazione d’inferiorità ricollegabile ad alcune aree della nostra vita (matrimonio, lavoro, status acquisito, opportunità e mete raggiunte, ma anche autostima e frustrazioni), la dipendenza può agire come un parafulmine o un potente magnete, in grado di attrarre a sé l’attenzione e la dedizione del soggetto. È quindi un “sintomo”, la cui funzione (patogenica) è quella di mettere in secondo piano problemi che andrebbero affrontati e che rimangono invece sullo sfondo. Una “medicina di pronto soccorso psicologica” che si rivela inadeguata e dannosa. Tuttavia, anche i sintomi hanno una loro leggibilità e una loro coerenza interna e nel caso dell’exercise addiction, uno dei possibili motivi per cui l’individuo giunge a sviluppare una vera e propria ossessione per il proprio corpo e lo sport potrebbe risiedere in un’inferiorità percepita, ora o in passato, a livello fisico. Parimenti, e in senso contrario, lo sport potrebbe rappresentare l’unica area in cui l’individuo è riuscito a ottenere una certa visibilità e competenza, e questo lo porterebbe a iperinvestire proprio in quell’area in cui, poten- 7 23 24 zialmente, si è sentito più forte e gratificato. Un terapia psicologica mirata deve innanzitutto portare il soggetto a confrontarsi con la sua dipendenza, a prendere atto che un problema esiste e che non si tratta di una semplice esagerazione. In questa prima fase è importante riuscire a concordare con il terapeuta modalità comportamentali diverse da quelle abituali, con limiti precisi che il soggetto non deve superare, stabilendo, così, clausole di salvaguardia per la salute fisica e psichica dell’atleta. Fondamentale in tale fase, ai fini dell’evoluzione e del successo della terapia, è capire le modalità d’invio: in altri termini, chi sia il “committente” dell’intervento. Accade infatti che spesso sia il coach stesso o il personal trainer a richiedere la consulenza al professionista per un determinato soggetto, tanto più se il terapeuta è “disponibile” all’interno della struttura sportiva. In questo caso, spesso potremmo trovarci di fronte a persone totalmente ignare del problema, che si presentano al colloquio più per assecondare l’allenatore e per curiosità personale che per affrontare e sviscerare un problema così serio. L’atteggiamento sarà quindi diffidente, resistente, spesso sarcastico (“non capisco dosa debba fare io qui e perché mi hanno consigliato di fare questo colloquio”) e svalutante nei confronti dell’operatore (“tanto io a queste cose non ci credo”, “è solo un’inutile perdita di tempo e non ne ho bisogno”). Ciò, per certi versi, è insito nello stesso disturbo dipendente; possiamo infatti considerare la dipendenza come una difesa e uno spostamento d’attenzione dai problemi che non si vogliono affrontare; in questo senso la dipendenza serve a “proteggere” l’individuo dall’irruzione sul “palcoscenico della sua coscienza” di tematiche spiacevoli e insopportabili e fin quando non vi è sostegno terapeutico e non si è instaurato un buon rapporto con lo psicologo, basato sulla reciproca fiducia e sulla consapevolezza che non si sarà lasciati soli quando questi problemi emergeranno, difficilmente il soggetto “mollerà” le sue difese. Inoltre, è tipico del comportamento dipendente operare un sistematico diniego della dipendenza stessa, come ben sa chi si è occupato di soggetti con problemi correlati all’assunzione di droghe o alcool. Il soggetto nega decisamente di avere un problema e svaluta costantemente l’importanza delle sue condotte dipendenti (“è solo che voglio tornare in forma presto”, “forse avrò un pochino esagerato ma non capisco proprio dove sia il problema”). A questo “muro” che l’individuo dipendente erige, si ovvia conquistandone la fiducia e la disponibilità al cambiamento, attraverso un vero e proprio processo maieutico che porterà l’individuo a guardarsi dal di dentro, a gettare la maschera ed essere autentico con se stesso e con il terapeuta. Difficilmente ciò potrà accadere nel primo incontro, in cui si possono però gettare le basi per ottenere la disponibilità dell’individuo a un confronto aperto e sincero per verificare l’esistenza di un eventuale problema e solo dopo porre in essere opportune manovre terapeutiche. Successivamente, ed è questo il fulcro del lavoro terapeutico, si dovranno scandagliare le aree del significato (quale senso riveste per il soggetto l’eccellere in una disciplina sportiva, la spinta ad avere un fisico sempre più rispondente a determinati canoni e criteri) e del disagio (quali mancanze – reali o presunte – l’individuo tende a colmare o a compensare attraverso la pratica sportiva compulsiva?). I risultati di tale indagine non possono essere generalizzati, ma saranno pertinenti alle singole problematiche individuali. Ognuno di noi è latore di lacune e nodi irrisolti inerenti il passato, il presente e le aspettative future. Ciò che ci spinge da percorsi diversi a giungere a esiti analoghi e talvolta a perdere la capacità di vivere la vita nella sua immediatezza e quotidianità è parte di quel bagaglio unico e irripetibile che costituisce la propria individualità e che rende conto della varietà e della ricchezza del nostro essere “umani”, così differenti eppure così simili al nostro prossimo. Una volta affrontati e conosciuti i motivi di insoddisfazione, si procederà alla terza e ultima fase della terapia, quella della propositività e delle nuove decisioni da prendere in merito alla propria vita. Infatti, la comprensione di ciò che causa disagio può non portare alcun frutto di per sé, se non facciamo sì che tale consapevolezza diventi poi lo sprone e il punto di partenza per porre in essere cambiamenti de- cisivi nel nostro modo di gestire la vita e considerare noi stessi e se non si procede a una riformulazione degli obiettivi, ponendoli in ordine di priorità. Si andrà quindi a ricercare un nuovo equilibrio, proprio a partire da quegli elementi che, sottaciuti, tanto disagio hanno creato in passato. La pratica sportiva, che esercitata compulsivamente aveva il solo scopo di celare e allontanare problemi importanti non dovrà certo essere abbandonata. Essa è stata e rimane un valore per l’individuo che tanto tempo ed energie vi ha dedicato, ma dovrà essere ridimensionata e riportata entro limiti normali, affinché torni a essere quello che sarebbe dovuto essere: un modo per esprimere la propria personalità e la propria competitività, un momento da dedicare a se stessi e al proprio corpo, una modalità sana per rilassarsi e caricarsi. 4. Sport come droga: l’approccio neurobiologico Molti studiosi hanno tentato di dare una spiegazione della dipendenza da sport anche a partire dai meccanismi neurofisiologici che l’intensa pratica sportiva produce. Questi si integrano e interagiscono col quadro psicologico senza contraddirlo, ma anzi completandolo. La conoscenza di questi meccanismi ci consente di cogliere appieno la complessità multidimensionale del fenomeno e per tale motivo è utile darne alcuni cenni in questa sede. Alla base di tali considerazioni vi è il fatto innegabile che l’attività 25 26 sportiva produce effetti benefici sul corpo (a livello osteoartromuscolare e cardiaco) e sulla mente (a livello di neurotrasmettitori cerebrali che inducono un senso di benessere). È oramai accertato in letteratura medica che l’attività fisica, soprattutto aerobica, attivi la produzione endogena di beta-endorfine, sostanze chimiche dall’effetto analogo agli oppiodi esogeni (come eroina e morfina). Un esercizio intenso produce un’alta disponibilità di tali sostanze che oltre una certa soglia possono attivare dipendenza e la conseguente carenza delle stesse sostanze (dovuta a riposo o tempi di recupero prolungati) induce una sindrome da astinenza che porta a riprendere e mantenere costantemente alta l’attività fisica per rendere elevato il tasso di endocannabinoidi. Come nella dipendenza da sostanze, l’atleta scivola progressivamente lungo un piano inclinato che lo porta ad aumentare sempre più lo sforzo e la pratica sportiva, al fine di ripristinare e mantenere elevati livelli di benessere, a scapito dello stress cui sottopone il proprio fisico e dell’esclusione o riduzione progressiva, dalla propria vita, di tutte quelle aree estranee allo sport (famiglia, lavoro, svago e via discorrendo.). È altresì appurato che l’esercizio fisico comporta alterazioni nella produzione di noradrenalina, serotonina e dopamina; in particolare, l’esercizio fisico continuativo si correla a un incremento della noradrenalina e dei suoi metaboliti in aree cerebrali quali l’ippocampo e la corteccia frontale; sono queste aree critiche implicate nella percezione del benessere e nei processi d’attivazione in grado di fronteggiare ansia e depressione. L’attività fisica prolungata agirebbe su due fronti distinti ma sinergici: da una parte favorendo la produzione di tali neurotrasmettitori, dall’altra rallentandone i tempi di decadimento. In particolare, la serotonina, nota anche come “ormone del buonumore”, è un neurotrasmettitore sintetizzato nel cervello e in altri tessuti a partire da un amminoacido essenziale, il triptofano, la cui disponibilità aumenta con l’esercizio fisico. È degno di nota il fatto che l’esercizio fisico continuativo, come nei maratoneti, aumenti la quantità di triptofano libero plasmatico in misura maggiore rispetto ad attività fisiche anche intense ma non prolungate nel tempo. Eviteremo di inoltrarci oltre in una discussione che rischia di diventare troppo tecnica. Qui conta rilevare che la pratica sportiva compulsiva può essere il prodotto di una assuefazione alle molecole del benessere che con lo sport vengono prodotte. Se le sensazioni piacevoli associate al rilascio di tali sostanze sono sempre più ricercate dall’atleta, che si abitua progressivamente a livelli via via più alti di tali metaboliti, si può innescare un processo di escalation, come nelle tossicodipendenze, che porta l’individuo a impegnarsi sempre più strenuamente nella pratica sportiva, per mantenere elevati livelli di benessere ed evitare le fasi “down”, dovute al brusco decadimento dei metaboliti cerebrali stessi. In effetti, chi non ha mai avuto modo, parlando con un amico “fissato” per l’esercizio fisico, di sentirsi dire che saltare un pomeriggio di allenamenti lo porta a “stare male”? 5. Oltre la dipendenza: il Disturbo Ossessivo Compulsivo Per completezza, riportiamo in quest’ultimo paragrafo un differente punto di vista sull’eziologia e sulla caratterizzazione del comportamento sportivo compulsivo. Sino a ora esso è stato, a nostro avviso correttamente, inquadrato all’interno del quadro clinico delle cosiddette “nuove dipendenze”. Tuttavia, alcuni autori hanno voluto evidenziare correlazioni col Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), come descritto dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV TR). Nel DSM, il Disturbo Ossessivo Compulsivo, rientrante nella categoria dei Disturbi d’Ansia, è definito come segue: a) ossessioni e compulsioni. Ossessioni definite da 1), 2), 3), e 4): 1) pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia e disagio marcati; 2) i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale; 3) la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni; 4) la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessive sono un prodotto della propria mente. Compulsioni come definite da 1) e 2): 1) comportamenti ripetivi o azioni mentali che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione, o secondo regole che devono essere applicate rigidamente; 2) i comportamenti e le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio, o a prevenire alcuni eventi o situazioni temute; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi. b) In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli; c) Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di 1 ora al giorno) o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo o con le attività sociali usuali. In effetti, alcuni aspetti della pratica sportiva compulsiva presentano analogie e assonanze con i sintomi del DOC, in particolare per quanto riguarda le compulsioni. Tuttavia, pare che le analogie siano da considerarsi più apparenti che reali. Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, l’ossessione si presenta sotto forma di pensieri o preoccupazioni spiacevoli che affiorano continuamente alla coscienza, 27 28 nonostante l’individuo cerchi costantemente di tenerli alla larga e di liberarsene, riconoscendone, più o meno marcatamente, l’irragionevolezza. La compulsione è inizialmente una risposta, di tipo rituale, finalizzata proprio a tenere a bada il pensiero o la preoccupazione persistente, anche se ben presto si slega dalla sequenza originale e comincia a vivere di vita propria. Ad esempio, l’ossessione di contrarre malattie può portare al comportamento compulsivo di lavarsi le mani continuamente. Al principio è una reazione, sebbene inappropriata, alla paura di contagiarsi con batteri patogeni, ma ben presto l’individuo non può farne a meno e si sente (parzialmente) tranquillizzato soltanto nell’immediatezza dell’atto compulsivo, seppure per breve tempo. La paura di ammalarsi e il continuo lavarsi le mani, una volta strettamente consequenziali, divengono comportamenti paralleli e coesistenti. L’individuo riconosce sempre, ovviamente, un legame tra le due situazioni, ma non può esimersi dal mettere in atto l’una e l’altra. Riepilogando, nel Disturbo ossessivo Compulsivo abbiamo le seguenti caratteristiche: a) l’ossessione è un pensiero spiacevole ed intrusivo, che si presenta automaticamente e persistentemente alla mente dell’individuo, irrompendo improvvisamente nel flusso dei pensieri o rendendo impossibile il non pensarci; b) il comportamento compulsivo è il tentativo di tenere a bada un pensiero ossessivo, ponendo in essere azioni che dovrebbero neutralizzarlo in modo quasi magico. La compulsione è, infatti, in prima battuta un tentativo di neutralizzare lo sfondo ossessivo. Applicando tale descrizione al comportamento di persone affette da sport compulsivo, possiamo ora evidenziare significative dissonanze: a) in primo luogo, in chi presenta exercise addiction, il pensiero ossessivo (devo fare pratica, mi devo allenare) è sì dominante, ma, soprattutto inizialmente, non si presenta con le caratteristiche della spiacevolezza. L’individuo vuole fare sport e ritiene tale condizione una sua libera scelta. Un’altra fondamentale differenza è che non ci si trova in presenza di un “pensiero ossessivo”, quanto di un “desiderio continuo” che permea ogni fibra del nostro essere, nel qual caso, appunto, è più corretto parlare di dipendenza, come nelle persone che praticano sport compulsivamente o nel gioco d’azzardo; b) inoltre, se dovessimo applicare gli stilemi del DOC ai comportamenti sport-dipendenti, dovremmo considerare la pratica sportiva come una coercizione prodotta dal pensiero ossessivo, ma ciò è, nel caso di specie, non applicabile. Infatti, mentre nel DOC l’ossessione produce la compulsione, nella dipendenza è semmai il comportamento a divenire ossessione, con un processo completamente diverso. In altri termini, il DOC nasce da una paura, ha caratteristiche molto più rigide e stereotipate, soprattutto a livello di fantasie ossessive, che si presentano esagerate, illogiche e irrazionali. Per meglio chiarire quest’ultimo punto si potrebbe considerare la seguente situazione: un individuo comincia a nutrire un’autentica fobia per l’invecchiamento e nella sua mente si affaccia persistente e incontrollabile il pensiero di dover fare qualcosa per evitare che il suo fisico si inflaccidisca trasformandosi in una massa informe e gelatinosa. Non è una normale considerazione legata all’età che avanza, cosa che sarebbe appropriata e congrua, ma un vero e proprio delirio sulle tremende conseguenze cui andrebbe incontro se non cominciasse a dedicare ogni momento libero all’esercizio fisico. Tale pensiero quasi allucinatorio si riscontra nonostante l’individuo sia perfettamente in grado, a livello razionale, di effettuare un’efficace esame di realtà (“ho solo 50 anni, godo di buona salute, sono sempre stato in forma e quindi non mi dovrei preoccupare eccessivamente”). Esso è prodotto e mantenuto dalla paura che, a livello emotivo, disconferma e mette in dubbio quanto ritenuto a livello cognitivo e poiché le emozioni hanno un potere motivante, in positivo o in negativo, superiore a quello del pensiero, l’individuo non riuscirà a calmarsi se non agendo in modo da contrastare e neutralizzare la paura8 stessa. Ben presto il nostro cinquantenne metterebbe in atto un comportamento antagonista (praticare sport per difendersi dalla fobia dell’invecchiamento e dai pensieri a ciò collegati), rientrando di diritto nella casistica del Disturbo Ossessivo Compulsivo. Nel comportamento dipendente vi è, al contrario, una “volontà” (in origine) che ben presto si trasforma in una coazione incontrollabile. L’individuo, soprattutto all’inizio, sente di poter scegliere e soltanto dopo si rende conto di essere divenuto uno schiavo dei suoi stessi comportamenti. Quanto detto, utile ai fini di una diagnosi psicologica differenziale, rimarca il fatto che vi possano essere casi di DOC applicabili allo sport, ma evidenze cliniche attestano che la stragrande maggioranza dei casi di sport compulsivo siano da ascrivere a comportamenti di tipo “dipendente”. Tuttavia, non bisogna considerare questi ultimi meno pericolosi e invalidanti di altri disturbi psicologici e non è corretto vederli come semplici esagerazioni di menti leggermente esaltate: sono vere e proprie malattie che ogni anno devastano e mettono a rischio la vita di molte persone, costituendo un problema, altresì sociale, che sta emergendo in tutta la sua complessità. Basti pensare che il sistema limbico e tutto l’apparato emozionale è, in termini evolutivi, enormemente più antico – e quindi prevalente – rispetto allo sviluppo della corteccia cerebrale e del pensiero. 8 29 5.1. La sindrome di Highlander Un esempio tipico di DOC in ambito sportivo, che è emerso negli ultimi anni, è la cosiddetta sindrome di Highlander9 ovvero dell’immortalità. La sua essenza consiste nel colpire gli individui dai 40 in su, anche definiti atleti master, affetti da: a) un eccessivo senso della competizione fisica e sportiva; b) eccesso di autostima; c) percezione distorta del benessere post attività fisica ovvero sportiva. La sindrome scaturisce dall’eccesso di sforzo psico-fisico a cui alcuni individui si sottopongono pur di non rinunciare allo sport; in particolare, secondo diversi studi, sono esposti al rischio di tale malattia sia le persone sedentarie che tutti quegli atleti che in età giovanile hanno praticato attività sportiva con assiduità o a livello professionistico o semi-professionistico. Le conseguenze negative Dal punto di vista medico, gli effetti della sindrome interessano l’apparato muscoloscheletrico, l’apparato cardio-circolatorio e respiratorio, con conseguenze sovente anche gravi: da una gestibile aritmia al mortale rischio ischemico10. 30 bibliografia American Psychiatric Association, (2000), DSM-IV-TR, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Fourth Edition, Text Revision). Washington DC. Andersen, A.E., Barlett, S.J., Morgan, G. D., & Brownell, K. D. (1995), Weight loss, psychological and nutritional patterns in competitive male body builder, «International Journal of Eating Disorders», 18, 49-57. Baekland F., Exercise deprivation: sleep and psychological reactions, «Arch Gen Psychiatry», 1979; 22:36-369. Blake M.I., Stein E., Vomachka A.J., Effects of exercise training on brain opioid peptides and serum LH in female rats, «Peptides», 1984; 5, 953-958. Bomber D., Cockerill I.M., Rodgers S., Carroll D. 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Quando vedono qualcuno crollato a terra, o inchiodato da uno spasmo sui gradini di una chiesa? Dopo l’incontro restano immobili, con un’espressione di disagio, di paura o di stordimento. Ma il loro volto è cambiato, è come se fossero state fotografate da una luce accecante, scuotono la testa, parlano da sole, per un attimo anche la loro normalità sembra incrinata. Così hanno visto nel lampo di quella luce, quale paesaggio, quale specchio, quale verità insostenibile che dimenticheranno subito dopo, ma la cui immagine resterà per sempre, in qualche recesso buio del loro cuore, nella biblioteca in fiamme della loro vita? Stefano Benni - Achille piè veloce 32 Quale paesaggio? Quale specchio? Quale collegamento tra l’azione, il gesto, il movimento emotivo che osserviamo nell’altra persona e l’immagine di esso che di riflesso si imprime in noi? Il metterci in relazione con gli altri e la capacità di trasformare l’informazione, emozionale e non, proveniente dall’altro, in atti motori, ciò che ci lega all’azione ma anche ai sentimenti delle altre persone, presenta una base biologica e neurale localizzata nel Sistema dei Neuroni Specchio. Il gruppo di ricerca dell’Università di Parma guidato da Gallese e Rizzolatti agli inizi degli anni ’90 osservò nelle scimmie macaco un’attività neurale che coinvolgeva le stesse cellule in due tipi di operazioni: la prima è l’attivazione durante * Psicologa l’esecuzione di azioni dotate di significato; la seconda è rappresentata dalla loro reazione alla vista, o al suono, di quelle stesse azioni (Gallese et al., 1996). Venne così descritto, nel cervello delle scimmie, un gruppo di neuroni osservati nell’area premotoria F5 e, in seguito, anche nelle regioni del lobo parietale posteriore a essa connesse (Rizzolatti et al., 1996; Fogassi et al., 2005). I cosiddetti mirror neurons, o neuroni specchio, si attivano sia quando il macaco compie l’azione (ad esempio manipolare un oggetto, afferrarlo, posizionarlo, trattenerlo) sia quando osserva un suo simile compiere la stessa azione o quando a eseguire il gesto è un soggetto umano (il ricercatore) (Rizzolatti et al., 1996). In seguito, tecniche d’indagine non invasive quali PET RMI TMS EEG e MEG, hanno mostrato anche nell’uomo l’esistenza di una popolazione di neuroni specchio, localizzata nelle regioni parietali premotorie (Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001; Gallese, 2003; Rizzolatti e Craighero, 2004; Gallese, Keysers e Rizzolatti, 2004). Le ulteriori prove sperimentali evidenziarono anche la distinzione tra due tipi di neuroni specchio: quelli che si attivano per una determinata azione, come per esempio afferrare una tazza di caffè, e quelli che riconoscono l’intenzione del gesto, per cui afferrare la tazza per berla è diverso dall’afferrarla per riordinare. Ciò ha dimostrato che i neuroni specchio sono in grado, non solo di riconoscere e comprendere le azioni altrui, ma anche di cogliere le intenzioni che le hanno promosse (Fogassi et al. 2005; Iacoboni et al. 2005). Tali cellule, osservate nel circuito fronto-parietale, connettono il gesto al contesto, ovvero si attivano sulla base dell’azione prevista, tanto da non presentare l’elaborazione cerebrale per azioni insensate o incomprensibili. Ciò implica che siamo immediatamente e automaticamente in grado di comprendere ciò che l’altro fa o ha intenzione di fare: senza alcuno sforzo diviene possibile immedesimarci nell’altro. Queste cellule sono quindi in grado di agire, sentire, partecipare e imitare, in altre parole “rispecchiare” il significato delle esperienze altrui. Mediante la semplice connessione neurale avviene una comprensione diretta, dall’interno, la quale permette di distinguere, come affermano Gallese e colleghi (2006), tra una simulazione standard e una simulazione incarnata. La prima è caratterizzata da una volontà intenzionale di porsi nei panni dell’altro cercando di vedere le cose dalla sua prospettiva e riproponendosi mentalmente il suo stato emotivo, mentre la seconda non sottende alcuna inferenza o introspezione relativa agli stati mentali dell’altro, piuttosto si presenta come automatica e pre-riflessiva, senza bisogno di alcuna spiegazione. Quando osserviamo l’espressione facciale di un altro, e questa percezione ci conduce a identificare nell’altro un particolare stato affettivo, la sua emozione è ricostruita, esperita e perciò compresa direttamente attraverso una simulazione incarnata che produce uno stato corporeo condiviso dall’osservatore (Gallese, Migone e Eagle, 2006), il quale attiva a livello neurale gli stessi circuiti nervosi che ne controllano l’esecuzione attiva (Gallese, 2003). Un’ulteriore considerazione riguarda l’evoluzione del linguaggio, poiché se i neuroni specchio si sono evoluti favorendo l’imitazione e l’interazione, potrebbero costituire i precursori del linguaggio. Secondo quanto afferma Kohler, infatti, “la cosa interessante circa la scoperta dei neuroni specchio è che essi sono stati osservati in un’area cerebrale dei primati che sembra essere corrispondente all’area di Broca negli esseri umani” (Kohler et al., 2002) ovvero l’area 33 34 della corteccia più importante per il linguaggio nell’uomo. Ricollegando le diverse tappe che hanno segnato l’osservazione e la verifica empirica del Sistema dei Neuroni Specchio, emerge la portata di questa scoperta, che ha permesso ai ricercatori di descrivere un sostrato biologico della conoscenza esperienziale e dell’intersoggettività, ossia della possibilità per l’essere umano di apprendere dal suo simile e di riflettere le azioni, ma anche gli stati d’animo osservati nell’altro: una comprensione implicita delle azioni così come delle intenzioni e dei sentimenti altrui. Si tratta, quindi, di un meccanismo che si è mantenuto e perfezionato perché si è rivelato evolutivamente vantaggioso e fortemente adattivo per l’uomo, in quanto alla base della comunicazione e della vita di relazione: i neuroni specchio ci danno la possibilità di vivere con gli altri e di entrare in una relazione empatica in grado di accomunare gli stati emotivi, i sentimenti, il significato di azioni e comportamenti. Essi costituiscono una modalità di funzionamento di base del nostro cervello quando siamo impegnati in una qualsivoglia relazione interpersonale (Gallese, 2007). A questo punto non possiamo trascurare il fatto che la biologia ci ha selezionato per essere “animali sociali”. Lo stesso Iacoboni, il quale si è focalizzato sul ruolo dei neuroni specchio nel comportamento umano, afferma che “sono cellule cerebrali che sembrano essere specializzate nel comprendere la nostra condizione esistenziale e il nostro essere in relazione con gli altri. Dimostrano che non siamo strutturati come esseri soli, bensì abbiamo una base biologica, modellata attraverso l’evoluzione, che ci conduce a una profonda connessione reciproca con i nostri simili. La nostra neurobiologia (i neuroni specchio, nella fattispecie) ci vincola agli altri. I neuroni specchio sono la prova del modo più profondo che possiamo mettere in atto di interagire con gli altri e di capirli: dimostrano che l’evoluzione ci ha predisposti all’empatia, e dovrebbe essere questa l’idea guida sulla base della quale modellare la società in cui viviamo allo scopo di renderla migliore” (Iacoboni, 2008). Occorre quindi considerare i diversi risvolti applicativi a partire dall’idea che “la scoperta dei neuroni specchio non è la scoperta di un nuovo fenomeno clinico, ma solo dei possibili meccanismi neurali che possono far luce su fenomeni clinici già noti” (Gallese et al., 2006). Per cui l’imitazione, l’empatia, la comunicazione sociale e i risvolti clinici derivati sono ricollegabili alla presenza entro la specie umana di una connessione che permette alle persone di entrare in relazione al di là dell’elaborazione cognitiva, oltre l’idea che ciascuno debba teorizzare sugli stati d’animo altrui o ripercorrere mentalmente la concatenazione di gesti dell’altro per dedurne le intenzioni. Già nell’analisi della comunicazione non verbale si evidenzia come inconsapevolmente le persone imitano gli altri assumendone le posture, le espressioni facciali e ripetendone i gesti secondo quello che viene definito effetto camaleonte (Chartrand e Bargh, 1997), ovvero l’imitazione implicita ci permette di instaurare una relazione profonda con l’altro e risulta uno strumento di gradimento sociale che ci facilita nell’essere socialmente accettati. Nell’imitazione e nell’apprendimento imitativo si osserva, infatti, l’attivazione del Sistema dei Neuroni Specchio. Per ciò che riguarda l’empatia, definita da Kohut (1984) come attitudine a “pensare e sentire se stessi nella vita interiore di un’altra persona” implicando la capacità di esperire ciò che gli altri provano pur attribuendo tali esperienze agli altri e non a se stessi, con la scoperta dei neuroni specchio essa non costituisce semplicemente una predisposizione mentale o un atto di immedesimazione nelle esperienze altrui, ma acquista un carattere implicito e pre-cognitivo. Tale meccanismo speculare sembra attivarsi anche quando non siamo in condizione di assistere direttamente all’azione compiuta dall’altro, ma ne ascoltiamo la narrazione (Buccino et al., 2005). Perciò l’empatia si pone alla base della relazione e ancor più della relazione terapeutica: punto di partenza per una risposta coerente del terapeuta, sintonizzata al paziente e in grado, così, di rinforzare la sua sensazione di essere in connessione con l’altro; permette al paziente di chiarire e articolare meglio i propri sentimenti e contribuisce a rafforzare il suo senso di sé, a recuperare se stesso, a riflettere e a trasformare la propria esperienza. Il paziente fa esperienza di sé rappresentato con sicurezza nella mente del terapeuta, il che non solo lo aiuta a scoprire se stesso ma, ancor più, a scoprire se stesso nella mente dell’altro (Fonagy et al., 2002). Altri sviluppi importanti delle ricerche sui neuroni specchio riguardano la loro attivazione nei processi di comunicazione sociale e, quindi, un’eventuale applicazione nell’etica e nella politica, andando a riconsiderare la dimensione di reciprocità che ci lega all’altro e la costruzione del senso di identità sociale che ora può meglio definirsi come processo di co-costruzione, di tipo pre-verbale e pre-razionale, in quanto basato sulla comprensione immediata dell’altro come simile a noi. Infine, non si può trascurare l’interesse che la scoperta dei neuroni specchio ha assunto nella comprensione del disturbo autistico, in cui una disfunzione del Sistema Specchio sembra spiegare i diversi sintomi autistici (Ramachandran e Oberman, 2006; Gallese, Migone e Eagle, 2006), aprendo la strada alla diagnosi precoce e a nuove possibilità terapeutiche e riabilitative. In conclusione, alla rassegna dei diversi risvolti che hanno assunto le ricerche sul Sistema dei Neu- 35 roni Specchio e in considerazione delle ipotesi ancora in corso di sperimentazione, si realizza quanto già affermato da Vilayanur S. Ramachadran, ovvero che “i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il Dna è stato per la bio- 36 In fondo logia”. In altre parole, la comprovata presenza di un sistema neurale, quale quello dei Neuroni Specchio, dà sostanza e concretezza a molteplici teorizzazioni psicologiche alla base della pratica della nostra professione. bibliografia Buccino G., Riggio L., Melli G., Binkofski F., Gallese V., Rizzolatti G. (2005), Listening to action-related sentences modulates the activity of the motor system: a combined TMS and behavioral study, «Cog. Brain Res.», 24: 355-363. Chartrand T.L., Bargh J.A. (1999), The chameleon effect: The perception-behavior link and social interaction, «Journal of Personality and Social Psychology», 76: 893-910. 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Oppure, prima ancora che una dedizione aziendale o sociale, che vede un essere devoti al mondo lavorativo o umano di cui si è parte, per alcuni diviene un egoistico e ristretto percorso volto al rimpinguare il proprio curriculum e la propria mente con informazioni, nozioni, conoscenze, credendo che l’accumulo comporti automaticamente non solo anche la qualità, ma anche * Psicologa il discernimento e l’elaborazione di quanto vissuto e assunto. Prima o poi, però, complici anche il ritmo sempre più serrato a cui si è chiamati nell’aggiornarsi, formarsi, in virtù della senescenza pressoché immediata di ogni acquisizione, e i limiti fisici, emotivi, energetici, mentali che ciascuno, prima o poi inevitabilmente raggiunge, questa rincorsa disperata e votata all’inevitabile fallimento, si arena. E anche laddove questo non dovesse accadere, l’insoddisfazione e la frustrazione di fondo che serpeggiano e aleggiano, e che giorno dopo giorno s’accrescono, prima o poi raggiungono una soglia tale da non poter più essere ignorate. Che cosa rende, in realtà, costantemente evanescente, irraggiungibile, non veramente soddisfacente l’esito finale del proprio lavoro e della propria formazione? Chi più, chi meno, siamo abituati a considerare la nostra vita privata e professionale come un percorso, un tragitto da un luogo 37 38 e un tempo verso un altro. Questo implica uno spostamento, ma anche delle modifiche interne ed esterne. Anche quando la meta viene raggiunta, non si riesce a definirla mai come ultima. Inevitabilmente ne sorge un’altra. E anche laddove si dovesse rinunciare al movimento, il permanere, o l’illusione che questo accada, non è parimenti soddisfacente. Spesso la vita personale e professionale è talmente orientata alla meta, che il percorso per raggiungerla passa in secondo piano. Tutta l’esistenza è sacrificata a un futuro non meglio precisato che, appena diviene presente, perde d’interesse in virtù di un rinnovato obiettivo futuro. E, così facendo, non si vive mai. Oppure, all’estremo opposto, talvolta si vive e si lavora per ri-creare qualcosa del passato. Si commisura ogni conseguimento alla luce di quel che è stato, mentre quel che è resta in ombra. E lo si perde. Se, al contrario, si cominciasse a concepire l’esistenza privata e lavorativa non come un processo, un andare verso, ma come uno stare, un essere già pienamente e perfettamente qui ed ora, la visione delle cose cambierebbe ampiamente. Si vivrebbe e si lavorerebbe in una dimensione di pienezza e di soddisfazione, istante per istante. Anche se di fondo vige una direzione, una bussola, un criterio di orientamento, non si rischierebbe d’investire e sacrificare il presente – unica possibilità di vita di cui si dispone – alla luce di qualcosa non meglio precisato nello spazio e nel tempo. Al limite, non esiste un percorso, ma un passo, in cui si è completamente immersi, a cui ne può seguire un altro, e via così. L’insieme di questi, solo a posteriori è in grado di segnare un passaggio. Ma questo ha senso solo se ci si volta, se si osserva dietro le proprie spalle. Purché non diventi un’abitudine, altrimenti si rischia di deviare la propria rotta e di perdere le occasioni e le opportunità, adesso. In quest’ottica, che senso ha parlare di ‘lavoro perfetto’, di prodotto o servizio perfetto? Un operato è già perfetto nel momento stesso in cui lo si esegue, quando si cerca di dare il meglio di se stessi, con gli strumenti di cui si dispone in quel preciso istante. Soprattutto quando perfetto si intende nella sua definizione etimologica, cioè che è perfettamente compiuto, che la sua natura è pienamente realizzata. Ogni istante presente rappresenta l’opportunità per manifestare e realizzare creativamente, concretamente e produttivamente la propria natura. Allo stesso modo, ben poco senso può avere definire un curriculum o un professionista perfetto, se non lo si considera, più correttamente, come una risorsa, un’opportunità che l’esistenza invia, e se si è in grado di compiere una scelta di cuore e di pancia, anziché di analisi razionale delle competenze, se ne saprà fare di sicuro tesoro e buon uso. Sull’umanità dei curanti Anna Fata note a margine del vivere una professione accanto alle persone Il mio percorso umano e professionale è iniziato una ventina d’anni fa. Ero molto, molto giovane. Ma, dentro, avevo già vissuto tanti conflitti, sofferenze, piccoli, grandi dolori che, prima o poi, chi più, chi meno, ciascuno di noi si trova a dover affrontare. Al di là dei titoli, degli onori e delle onorificenze, quel che mi ha segnata maggiormente in termini evolutivi sono stati gl’incontri con alcune persone di riferimento. Un po’ maestri, un po’ curanti, un po’ terapeuti, un po’ compagni, un po’ amici. Ma, prima di tutto, e soprattutto, umani, molto umani. Ho imparato tanto da loro. Forse perché non hanno mai preteso d’insegnarmi alcunché. Non si sono posti come profeti, né guru, come docenti, né asceti, ma semplicemente come persone con un po’ più d’anni e d’esperienza, su un medesimo piano umano rispetto al mio, pronti ad accogliere, rispettare e discutere quanto a mia volta potevo portare nel mio piccolo. Potrei citare un’infinità di scene istruttive ed eloquenti in tale processo. Ne porterò solo alcune a mo’ di esempio, che come tali mi hanno ispirata nel mio pormi professionale e hanno avvallato alcune convinzio- ni di fondo che nel corso degl’anni si sono approfondite e consolidate. Chi opera nell’ampio mondo professionale della cura, prima di tutto, ha qualcosa di se stesso da curare. Che poi, nella migliore delle ipotesi, si estende ad una cura verso il proprio prossimo, e, poi, all’umanità intera. In realtà, la distinzione è solo per convenzione. Si tratta di un percorso complesso, concatenato e in ampia parte sovrapposto tra cura di sé, dell’altro, del mondo. Ed è un processo che, verosimilmente, non ha mai fine finché siamo in questo corpo materiale. Ricordo uno dei miei due analisti – si trattava di un periodo in cui stavo effettuando ben due percorsi paralleli! – dopo alcuni anni di affiancamento, per motivi di salute, illustrati ed esplicitati, mi disse che non mi poteva più seguire. Al di là dell’iniziale senso di dispiacere, di scoramento e di abbandono che questa comunicazione evocò in me, quel che poi, a breve, scaturì in me fu un profondo senso di compassione per il suo stare male e di rispetto per un’umanità a suo modo fragile che in quella scena si stava svelando. 39 40 Quando, a distanza di anni, mi trovai io in quelle condizioni, di dover sospendere la mia attività per circa un mese per motivi di salute, mi trovai, senza esitazioni, a dichiarare apertamente ai miei clienti le ragioni di quella scelta. E quel che ne ricavai fu altrettanto rispetto, accoglienza, accettazione. Oltre a una maturazione interiore delle persone che passava attraverso una maggiore accettazione della loro stessa umanità e dei loro stessi limiti, ma che ha anche contribuito a rafforzare la loro capacità d’incedere, per un breve periodo, con le loro gambe senza eccessive difficoltà. Altra scena. Nei vari corsi e percorsi di formazione classica ci viene insegnato il distacco, la distanza, al limite della freddezza. Non ci sembra vero, molti di noi prendono tutto ciò alla lettera, e si celano dietro i loro titoli, ruoli, tecnicismi, cercando di mantenere una sorta di controllo e di potere che, in realtà, è alquanto precario e di sicuro deleterio per chi sta dall’altra parte. Non solo la dipendenza è sempre in agguato, ma quel processo di accettazione profonda, quel processo di umanizzazione che passa attraverso una completa manifestazione di sé, quasi paradossalmente, difficilmente riesce ad esplicarsi. Troppo spesso facciamo confusione tra il farsi coinvolgere e il farsi travolgere. Il coinvolgere è l’abbracciare, metaforico, simbolico, e, perché no, se necessario, a volte anche concreto, ed è funzionale e indispensabile a un rapporto di cura – e sottolineo di cura, intesa come avere a cuore –, mentre il travolgere è il farsi trascinare via, mai auspicabile, né raccomandabile. Troppo di frequente confondiamo questi due estremi. Ci arrocchiamo sulla difensiva. Siamo i primi a temere la nostra umanità. Chi, invece, vive il processo di cura come percorso verso una crescente umanizzazione sente che la sua personale sofferenza è uno strumento necessario quasi quanto quella altrui per entrare in sintonia con chi sta di fronte. Nella mia esperienza mi sono resa conto che le sedute meglio riuscite sono proprio quelle in cui riesco a farmi attraversare da tutto quel che c’è, di mio e dell’altro – facendo ben attenzione a tenere distinte le due percezioni – non trattenendo alcunché, né rifiutando alcuna cosa. La vera umanità passa attraverso il non avere timore di vivere, di essere quel che si è, di manifestarsi per quel che ci si sente dentro. Chi si rapporta a un curante che non ha vissuto tutto questo, o, meglio, che non sta vivendo un processo di questo tipo, che di fatto si prolunga per tutta la vita, non si potrà mai sentire accolto al cento per cento, potrà percepire capacità tecniche, preparazione, gentilezza, ma non quella cordialità che nasce dal cuore, non quella compassione che scaturisce dal portare insieme gli stessi pesi, che nascono da un vivere comune. Ogni persona che soffre e che gioisce sta vivendo la stessa cosa. Ed è sulla base di tutto questo che il processo di cura si esplica.