germania - Materiali su Berlino Est

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A EST DI BERLINO
Parte III
GERMANIA/GERMANIE
A EST DI BERLINO
L’ARTE
DI NON AMARSI
di
Andrea TARQUINI
La Germania unita non ha ancora unito i tedeschi. Malgrado
i successi economici, incentivati dagli enormi trasferimenti
finanziari dall’Ovest all’Est, fra Ossis e Wessis prevalgono
le recriminazioni. Passeggiando nel melting pot berlinese.
S
1.
UL KURFÜRSTENDAMM, IL NEOCLASSICO,
sempre splendido e immarcescibile centro di Berlino Ovest, a prima vista tutto
sembra rimasto come prima. Palazzi che evocano Avenue Foch a Parigi o Oxford
Street a Londra, ovunque ordine e pulizia alla tedesca, passanti turisti e poliziotti
tutti sorridenti e cortesi. Dieci chilometri più a est, anche la Frankfurter Allee (si
chiamò Stalinallee fino alla morte del tiranno nel 1953) è rimasta almeno nell’architettura quella che era «prima»: mastodontidici palazzi grattacielo staliniani e case d’abitazione smisurate, entrambi i tipi d’edifici ti ricordano subito quelli sulla
Sadovaja a Mosca o nei centri «rivisti» sovieticamente di Kiev e Minsk. In mezzo,
c’è Mitte: l’antica Unter den Linden prussiana che la dittatura «quasi» non toccò
tentando di legittimarsi, «quasi» si fa per dire: sulla piazza del Lustgarten resta il
grande buco, la macchia bianca imposta dal bolscevismo e dall’occupazione sovietica nel cuore della Germania. Il Palazzo imperiale non c’è più, lo demolirono i
comunisti nel 1953, pochi mesi prima della grande rivolta, come «simbolo dello
sfruttamento». Anche il Palast der Republik, l’orrido monolito in vetrocemento che
simboleggiò il potere di Erich Honecker e fu costruito sulle rovine del palazzo del
Kaiser, è stato demolito dopo la riunificazione. A pochi passi, la Friedrichstrasse è
rinata, è tornata shopping lane come negli anni Venti. Ma è tutta ricostruita-postmoderna, lontana anni luce dalla patina genuina d’antico ben tenuta del centro di
Berlino Ovest.
A Berlino Ovest la borghesia era sopravvissuta, a est del Muro no, questo lo
vedi subito. Oggi, la prima similitudine che ti salta agli occhi o che ascolti, se passeggi prima sul Kurfürstendamm poi su Friedrichstrasse o a Unter den Linden, l’unico dato davvero comune che sia insieme quotidiano e profondo, riguarda i visitatori stranieri e i residenti stranieri nelle due Berlino. In entrambe quelle che sono
ancora le due Berlino, nei negozi scritte e sorrisi delle commesse ti dicono non so-
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lo «we speak English» o «on parle français» ma anche «My govorëm po russkij», «parliamo russo». L’ex potenza occupante dello stalinismo e di Brežnev, l’antica potenza orientale che con Pietro il Grande e Caterina ammirava il modello prussiano, è
tornata nel quotidiano. Simbolo di nuove ricchezze e contraddizioni irrisolte.
Eccoci qui nella città chiave dell’Europa che cambia: la geopolitica e le sue
scosse e i terremoti, qui a Berlino, ti investono nel piccolo dettaglio quotidiano come un vento e una visione a ogni angolo, più che ovunque altrove. Ed ecco la prima chiave per capire cosa resta dell’Est, e quanto sia compiuta o incompiuta,
vent’anni dopo, la riunificazione tedesca.
«My govorëm po russkij», oppure qualche volta anche «mowimy po polsku»,
parliamo polacco. Le borghesie e i nuovi ceti emergenti dell’Europa senza frontiere o quasi (le comunità russa e polacca contano ognuna oltre duecentomila residenti nella capitale, quasi quanto i turchi e ben di più dei circa seimila italiani) si
mescolano a Berlino come in nessun altro luogo del Vecchio Continente. Sono
passati vent’anni, ma l’ex città divisa dal Muro ne ha fatta di strada. Berlino Ovest
ha rinunciato per amore e per forza al suo ruolo di vetrina dell’Occidente, paga le
tasse (ancora sotto shock dopo decenni di esenzione) come il resto della Repubblica Federale. Berlino Est ha incassato il colpo dei costi economici e sociali della
riunificazione tra una delle economie più efficienti del mondo, quella della Bundesrepublik, e la DDR che secondo il tagliente, spietato ma preciso ex cancelliere
Helmut Schmidt era in fondo «un Mezzogiorno senza mafia». In entrambe le parti
della città si vive questo nuovo ruolo di melting pot mitteleuropeo, di hub geopolitico tra Unione Europea e Russia, ma senza avere in pugno tutti i mezzi e la volontà politica di esercitare questa maggiore potenza.
Oltre duecentomila, forse trecentomila, abbiamo visto, sono i russi di Berlino.
Circa duecentomila i polacchi. In maggioranza lavoratori qualificati, tecnici, laureati, designer, artisti, piccoli o medi imprenditori, insomma non immigrazione povera. Il che vuol dire che la capitale è l’unica città della Repubblica Federale dove
russi e polacchi sono quasi quanti i turchi, la più numerosa comunità di immigrati
in Germania. Solo a Berlino, russi e polacchi si sentono minoranza come ebrei, irlandesi e cinesi di Chinatown a New York e non più immigrati, sensazione che nel
resto della Germania unita hanno appunto solo i cittadini della Repubblica di Turchia. Aggiungiamo la comunità ebraica berlinese, divenuta la più numerosa e vivace di tutta la Germania grazie alla nuova diaspora da est, più cechi, slovacchi, ungheresi, ucraini. E così melting pot, il concetto che definisce New York o Londra,
dopo la riunificazione è diventato una parola tradotta in tedesco: «Schmelztiegel», il
calderone in cui tutti si fondono.
Schmelztiegel della Mitteleuropa, e insieme città ancora divisa: questa è Berlino oggi, specchio geopolitico delle contraddizioni ma anche dei successi della
Germania unita, vent’anni dopo. Il Muro scomparso senza violenza vent’anni fa
sopravvive nella geografia politica disegnata dalle libere elezioni. Se guardiamo a
qualsiasi mappa dei risultati delle ultime elezioni politiche federali del 27 settembre scorso, che mostri la città (che come è noto è anche un Bundesland, uno dei
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sedici Stati della Federazione) divisa da un Bezirk (distretto) all’altro. Il confine
delle scelte ripercorre quasi esattamente la frontiera blindata scomparsa dei Vopos, delle torri di guardia e dei congegni automatici di sparo: all’Ovest, hanno
stravinto la CDU di Angela Merkel e la FDP di Guido Westerwelle, a Est la Linke,
la sinistra radicale dei postcomunisti Gregor Gysi, Lothar Bisky e Hans Modrow e
dell’ex socialdemocratico rivale irriducibile di Gerhard Schröder, Oskar Lafontaine, vola sopra tutti.
«Il Muro nelle teste», è la sgradevole, forse un po’ razzista, abusata, trita e ritrita
eppure efficace espressione che meglio d’ogni altra descrive questa realtà. Più di
ogni statistica sulle differenze nel tenore di vita, più di ogni tentativo poco rilevante di contare quante BMW, Mercedes o Audi o case in proprietà ci siano a Berlino
Est rispetto a Berlino Ovest. La differenza tra quanti possiedono una sei cilindri o
un appartamento da una parte o dall’altra dell’ex Muro è esigua, non basta a definire la persistente differenza di Weltanschauung tra due mondi porta a porta.
2. Fin qui Berlino vent’anni dopo, tornata capitale della Germania unita. Solo
in parte, la città tornata metropoli della Mitteleuropa è specchio dello stato e delle
contraddizioni della riunificazione tedesca. Se dalle immagini in strada dell’accattivante melting pot passiamo alla macroeconomia, la realtà è ambivalente, e questa
ambivalenza pesa sulla geopolitica e sulla strategia della Germania post-Muro. Gli
umori prevalenti sono ancora quelli di due ideologie separate, di due identità nazionali diverse. Come se non bastasse l’effetto del federalismo postbellico che l’Ovest vincitore ha di fatto imposto all’Est sconfitto, annesso e salvato così dalla miseria: ogni tedesco, come hanno detto tutti i cancellieri importanti da Adenauer a
Kohl, o istintivamente o perché glielo raccomandano scuola e potere politico, si
sente prima europeo, poi cittadino del suo Bundesland, poi cittadino della Bundesrepublik. Identità nazionale insomma già debole in partenza, prima del 1989. Ciò
nonostante che, notava in settembre la Neue Zürcher Zeitung, nessun’altra regione
del mondo abbia avuto un trasferimento di risorse e ricchezza paragonabile a
quello che la Bundesrepublik, cioè in sostanza il ricco Ovest, ha concesso ai «fratelli poveri» dell’ex DDR: 110 miliardi di euro l’anno dal 1990 a oggi, cioè oltre
1.600 miliardi. Ciò che vuol dire, ogni anno, l’ammontare tradotto in valore reale a
prezzi correnti dell’intero Piano Marshall con cui Washington salvò l’Europa occidentale nel dopoguerra. O in altri termini di paragone, circa due terzi del prodotto
interno lordo annuo dell’intera Germania, oppure ancora (cifra totale) grosso modo l’intero debito pubblico della Bundesrepublik. Molto, troppo secondo alcuni,
eppure non basta, o almeno finora non è bastato.
I dati economici basilari parlano da soli. La produttività media del lavoro in
Germania orientale è appena il 72% di quella della vecchia Bundesrepublik. Una
differenza comparabile divide ancora salari e stipendi dell’Ovest e dell’Est, in una
situazione di «gabbie salariali» di fatto ma non dichiarate. Il tasso di disoccupazione, in media, cioè se prendiamo in considerazione tutti e cinque i nuovi Bundesländer senza calcolare le differenze tra loro, tra Sassonia e Turingia relavitamente
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ricchi e i più poveri Brandeburgo, Sassonia-Anhalt, Meclemburgo-Pomerania Anteriore, è doppio all’Est rispetto che all’Ovest. E la maggioranza della Germania
orientale, vent’anni dopo, vive, lavora, risparmia e realizza profitti o utili solo grazie all’enorme transfer di risorse deciso e attuato dall’Ovest. Pagato solo in parte
dal «Solidaritätszuschlag» – l’addizionale Irpef che certo tutti i contribuenti, anche
gli Ossis (cittadini dell’ex DDR) versano all’erario – ma soprattutto dal debito pubblico federale. Il quale così per anni ha sforato di gran lunga i limiti posti dal Patto
di stabilità e dal Trattato di Maastricht (le àncore di stabilità della Ue e dell’euro volute dalla Bundesbank e dal governo Kohl) ben prima dell’effetto devastante della
crisi finanziaria ed economica internazionale.
«Ma è stato sbagliato soprattutto avere e nutrire, prima, all’inizio, aspettative
troppo ottimiste», replica il liberale Karl-Heinz Paqué, economista a Magdeburgo,
ex ministro dell’Economia dello Stato di Sassonia-Anhalt. Secondo lui, non poteva
andare meglio: per 40 anni, la DDR ha ingannato il mondo e anche l’ingenua
Bonn con conti falsati, dati sulla crescita del prodotto interno lordo (pil) calcolati
in base al cambio ufficiale tra il marco federale e quello dell’Est. E avallando per
successi globali dell’export quelli che in realtà erano solo frutti obbligati del lavoro
della DDR per la potenza geopoliticamente dominante di allora, l’occupante coloniale sovietico. Venuta d’improvviso la riunificazione, sparita l’Urss, la maggioranza delle aziende tedesco-orientali hanno perso all’improvviso, vent’anni fa o poco
meno, ogni competitivitià fittizia o reale e ogni ragione d’essere.
La «partenza a freddo», come la definisce Hans Werner Sinn dell’istituto Ifo di
Monaco, uno dei più autorevoli economisti tedeschi, non avrebbe potuto andare
meglio. Anche perché, secondo lui, la scelta di Helmut Kohl, con la riunificazione,
di imporre una parità di cambio uno a uno tra marco federale e marco dell’Est «è
stata forse socialmente giusta, ma ha talmente rincarato il costo del lavoro all’Est da
condannare molte, troppe aziende locali al fallimento».
Non c’era altra scelta, ribattono alla Konrad-Adenauer-Haus, la sede della direzione CDU nel quartiere Tiergarten di Berlino, a un passo dalla Siegessäule, la colonna della vittoria eretta dal Kaiser dopo Sedan. L’alternativa, dicono i nipoti di
Kohl anche sotto Angela Merkel, sarebbe stata affrontare un’emigrazione interna in
massa dall’Est all’Ovest. E comunque, notano, nel complesso la riunificazione ha
un bilancio positivo: la ex DDR è oggi un territorio «a pelle di leopardo». Ci sono
oggi, nell’ex DDR, aree dove non vivono quasi più giovani ma solo pochi pensionati. Nell’insieme dell’ex DDR quasi un quinto delle case e appartamenti è vuoto,
senza inquilini o proprietari o aspiranti tali. Ma con queste realtà di deserto lasciato
dal postcomunismo – un deserto molto più pesante rispetto alle società vicine, Polonia, Cechia o Slovacchia, dove dopo l’89 hanno dovuto fare da soli, senza l’aiuto
del ricco fratello dell’Ovest – coesistono realtà nuove di sviluppo. Se passeggi nel
centro di Jena, l’antica città-madre della Zeiss, in Turingia, ti senti quasi al Quartier
Latin, vista la vivacità dell’ambiente studentesco. E tocchi con mano la prosperità
della new economy, delle tecnologie di punta, della biomedica e dell’aerospaziale,
tornate qui in forza dopo l’89. A Lipsia, vedi la prosperità e la voglia di cultura por-
A EST DI BERLINO
BERLINO DIVISA
Checkpoint solo per tedeschi
F. Havel
Checkpoint aperti
a tedeschi e a non tedeschi
Quartier generale
Quartier generale interalleato
REINICKENDORF
Confine della città
Muro di Berlino
PANKOW
Settore francese
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Chausseestrasse Bornholmer Strasse
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BERLINO
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Percorso del Muro
nel centro di Berlino
fino al 1989
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BERLINO SENZA MURO
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Resti del Muro di Berlino
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L’ARTE DI NON AMARSI
tata dal reddito e dal ritrovato spirito borghese, che investimenti giganti di Porsche
o BMW, o di colossi americani, britannici, asiatici e francesi hanno reso possibile.
Nel Brandeburgo, l’antico cuore della Prussia, aerospaziale e comparti di punta
dell’ecoenergia (dall’eolico al fotovoltaico) ti fanno sentire in certi angoli di California o di Giappone. Attorno a Dresda, capitale della Sassonia, la microelettronica attraversa un boom che resiste alla crisi mondiale.
«Tutto sommato il bilancio economico dell’Est si lascia raccontare come storia
di un successo», afferma Steffen Uhlmann della Süddeutsche Zeitung, il quotidiano
liberal di Monaco che non è certo sospetto di simpatie acritiche verso l’èra Kohl o
la CDU-CSU. Insomma, siamo ben lontani dal Mezzogiorno, o anche dal Nord povero del Regno Unito. Eppure ciò non basta a unificare un paese, non serve a
creare una percezione o un’idea-forza omogenea degli interessi geopolitici e strategici. In questo senso, la caduta del Muro non ha saputo produrre lo stato d’animo collettivo di «nascita di una nazione».
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3. Vent’anni dopo, domina la delusione, a Est come a Ovest. Sembra un paradosso: il paese, cioè la Germania, che da un punto di vista geopolitico, economico, diplomatico, militare ha teoricamente guadagnato più di ogni altro in Europa
dalla fine dei blocchi, è deluso della svolta, non ha alcuna spinta d’entusiasmo. La
delusione è forte soprattutto all’Est: solo 46 tedeschi orientali su 100, secondo un
sondaggio dell’istituto demoscopico Forsa, dicono di ritenere che oggi la loro esistenza quotidiana sia migliore rispetto a quella dell’epoca della guerra fredda, e
un quarto di loro pensa che vada peggio. All’Ovest, gli ottimisti sono ancora meno, appena il 40%. Rispetto all’euforia della notte magica in cui Berlino Est piegata dalla storia decise di aprire i varchi del Muro, sembrano passati anni luce nelle
menti. E non basta nemmeno la crisi finanziaria ed economica internazionale a
spiegare un altro dato rivelatore del pessimismo dominante dei tedeschi: 44 cittadini dell’Ovest su 100, e 46 Ossis su 100, guardano con allarme alle conseguenze
future della riunificazione. E la percentuale di tedeschi contraria a ogni ruolo internazionale di prima classe del paese e favorevole a un ritiro al più presto dall’Afghanistan e da altre missioni militari internazionali è più alta all’Est che all’Ovest: una debole identità nazionale indebolisce anche l’identificazione con valori
costitutivi e scelte dell’Occidente.
Provando a tirare le somme, il bilancio dei vent’anni dalla caduta del Muro è
quello di una riunificazione incompiuta. Soprattutto, di una riunificazione vissuta
in due modi diversi – dai tedeschi dell’Ovest che l’hanno gestita e si sentono depauperati dai suoi costi, dai tedeschi dell’Est che si percepiscono come colonizzati
dai Wessis vincitori – come un successo poco amato. Poco amato dagli Ossis, che
continuano a emigrare in massa dall’ex DDR verso la vecchia Germania Ovest.
L’anno scorso, 136.500 di loro hanno lasciato la loro terra d’origine per trasferirsi
nei vecchi Bundesländer, mentre soltanto 85 mila Wessis si sono trasferiti per ragioni di lavoro all’Est. Il che vuol dire che nel 2008 l’ex Germania Est ha perso altri 51
mila abitanti, dopo il milione e centomila di cui si è impoverita dopo la riunifica-
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zione. Soprattutto giovani, élite e forza lavoro qualificata, sottolinea l’autorevole
istituto economico Ifo di Monaco di Baviera.
«Non esiste una realtà unica dell’Est», mette le mani avanti Alexander Kubis,
dello IWH, Institut für Wirtschaftsforschung di Halle (Est): in alcune regioni dell’ex DDR l’economia è all’avanguardia a livello mondiale. Eppure «l’Est resterà ancora dipendente dall’enorme transfer di risorse dall’Ovest». Anche per il crollo demografico, molto più drammatico nei cinque nuovi Bundesländer che non nella
vecchia Repubblica Federale. Insomma, addio a ogni euforia, vent’anni dopo.
Spesso, troppo spesso, gli Ossis, anche quando economicamente non hanno problemi, percepiscono se stessi e la loro parte della Germania unita come gli sconfitti dalla storia.
4. Gli errori e i limiti della leadership politica, e anche i limiti e i rovesci di medaglia del federalismo, hanno la loro parte in questo paradosso carico di tensioni
proiettate nel futuro tedesco. La «Repubblica di Bonn», nell’èra Kohl, non si preoccupò abbastanza di far crescere una nuova élite politica ed economica nell’ex
DDR, sostanzialmente annessa. Angela Merkel, dal 2005 cancelliera federale e
«donna più potente del mondo», appare in questo senso molto più eccezione che
regola. E troppo spesso, si legge anche su Der Spiegel o sulla Wirtschaftswoche, osservatori mediatici non sospetti di simpatia per le sinistre radicali, le grandi aziende
dell’Ovest hanno comprato le aziende orientali che la Treuhand (l’ente pubblico
per la transizione economica nella prima fase della riunificazione) vendeva o piuttosto svendeva, solo per chiuderle e intascare i sussidi.
Da Rostock a Jena, da Lipsia a Magdeburgo, storie del genere, di destini di migliaia di persone distrutti così, sui media, le tv e i siti online locali li leggi ogni giorno. «Colonialisti», «ieri la SED e i russi e oggi i Wessis». Percezioni corrette o luoghi
comuni che siano, sono frasi e convinzioni quotidiane a est dell’Elba. E se leggi i
media o ascolti in corridoio, off the records, i politici o le élite dell’Ovest, senti la
musica del contrappasso: vent’anni dopo, ci costano ancora troppo e per di più
sono ingrati. Rancori e arroganze contrapposte, ecco la sinergia negativa che appare a volte più forte del senso di unità nazionale. Nel complesso, la memoria collettiva dice che i tedeschi dell’Est e dell’Ovest sono uniti da una sola percezione: la
delusione per il bilancio dell’unità nazionale.
Colpa dell’Ovest, dicono gli Ossis: ci hanno colonizzato, hanno semplicemente trasposto il Grundgesetz (la Legge fondamentale della Repubblica Federale, una delle costituzioni più sintetiche e chiaramente democratiche del mondo)
alla nostra realtà. Colpa dell’Est, ribattono i Wessis: non sanno esprimere un’élite,
neanche vent’anni dopo, e continuano a mugugnare divorando intanto gli aiuti
federali. La verità spesso sta nel mezzo. Certo è che la Germania Ovest ha semplicemente incorporato la DDR, trasformandola in cinque Bundesländer supplementari, esportandovi la libertà, ma senza assumere alcuno dei suoi valori nel
nuovo contesto geopolitico e istituzionale. Ma è altrettanto vero che la società tedesco-orientale non ha saputo produrre, nei mesi caldi del 1989, nessuna espres-
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L’ARTE DI NON AMARSI
sione politica comparabile nemmeno alla lontana a quanto Solidarność nei suoi
diversi volti è stata in Polonia. La DDR ebbe i suoi Sakharov e i suoi Havel, ma
nessun Waĺ e˛sa, nessun Geremek e nessun Michnik o Mazowiecki. Per cui le manifestazioni spontanee, i «lunedì della democrazia» di Lipsia, gli appelli del Neues
Forum e delle Chiese per una DDR più democratica, mancavano tutti d’un progetto di largo respiro. Tutti quei movimenti sono stati travolti dalla riunificazione cui
all’inizio non pensavano.
Basta vedere il «who’s who» del potere politico ed economico della Germania,
prima potenza dell’Unione europea, per constatare oggi, vent’anni dopo, che l’ex
DDR, al contrario della Polonia, ma anche degli altri ex Stati satelliti dell’impero
sovietico, non ha saputo esprimere una sua classe politica né una sua élite economico-finanziaria. I partiti sono quasi tutti mutuati sul modello della vecchia Repubblica Federale, con l’eccezione della Linke, che non a caso vola cavalcando
malcontenti e delusioni. Le grandi aziende che creano una pur diffusa prosperità
e fanno rinascere i ceti medi all’Est tedesco, con poche eccezioni, sono tedescooccidentali o straniere. Fino all’apparente paradosso dei molti disoccupati tedesco-orientali che trovano lavoro appena oltre confine, a est, prima di tutto nella
dinamica Polonia.
L’incomprensione, e peggio ancora la mancanza di curiosità dell’Ovest ricco
verso l’Est «povero» e riconquistato nel 1989 alla sovranità nazionale, peggiorano il
quadro. La maggioranza degli abitanti della vecchia Repubblica Federale ancora
oggi non conosce l’ex DDR, non l’ha visitata, non ne sa nulla. Nelle scuole superiori di Monaco o Düsseldorf non è raro sentire ragazzi che pensano che il Muro di
Berlino sia stato costruito dagli Usa o da Hitler. Il federalismo, con l’autonomia assoluta degli Stati federati sui libri di testo, non aiuta, sebbene con grandi spese si
sia proceduto all’armonizzazione dei manuali di storia nelle scuole medie e superiori dell’Est e dell’Ovest. I fatti sono narrati ora senza censure, ma nelle famiglie
sopravvive spesso un’immagine del mondo risalente a prima dell’89. La differenza
è ancora più pesante, a volte, se confrontiamo la «Multikulti-Leitkultur», la cultura
politica multiculturale dell’Ovest, con la voglia ossessiva di identità nazionale dell’ex DDR: in Turingia, che pure è una parte ricca dell’Est, la CDU ha pagato cara la
scelta di mettere in lista alle recenti elezioni regionali un candidato di colore, cui
molti elettori hanno preferito i candidati della Linke, in odore di ex Stasi o no.
Mentre all’Ovest candidati multietnici sono normalità trasversale, bipartisan. Meglio rosso che nero, anziché «better red than dead», all’Est.
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5. Tutto negativo e insufficiente, dunque? No, sarebbe sbagliato. La voglia di
normalità, di bürgerliche Leitkultur, si diffonde anche nell’ex DDR. Soprattutto tra i
giovani, nati o cresciuti dopo l’89. Molti di loro alle ultime elezioni hanno votato
CDU o FDP. I migliori di loro vengono dall’Est profondo a studiare alle tre università di Berlino, la Freie (Ovest), la Technische (Ovest) e la Humboldt (Est). Tra di
loro, se ne sono sentiti parecchi dire prima del voto che in caso di sconfitta di Angela Merkel e Guido Westerwelle sarebbero emigrati. E dall’altra parte, nel «vec-
A EST DI BERLINO
chio» Ovest, la riunificazione, rivisitata vent’anni dopo, ha almeno portato nella coscienza collettiva l’idea di solidarietà necessaria. E così ha cominciato a sprovincializzare la Germania, a farla meno simile a un’immensa Svizzera.
Senza Berlino, senza la vivace capitale ancora divisa eppure unita per forza
nel quotidiano e luogo d’incontro presente delle due Germanie del passato, questo processo non sarebbe stato possibile. Il processo è in atto sotto i nostri occhi,
qui a Berlino dove la «multikulti-Gesellschaft» oltre al tedesco non parla soprattutto
turco come a Colonia ma insieme al turco parla russo e polacco, spesso con accento dell’emigrazione ebraica dall’ex Urss.
Il processo è in atto, è presto per prevederne qualsiasi esito. Salvo citare
quanto François Mitterrand disse dopo la riunificazione (frase che Helmut Kohl ricordò a Repubblica in un’intervista nel 1994): i tedeschi affrontano la crisi-shock
della riunificazione, sarà dura ma ne sapranno uscire, più forti di prima. E infine
ma non ultimo, su un aspetto-conseguenza della riunificazione sono almeno tutti
d’accordo: l’annessione di fatto di oltre 15 milioni di nuovi cittadini e di cinque
Bundesländer poveri e da sovvenzionare non ha soltanto restituito alla Germania
una piena sovranità territoriale. Le ha anche dato una massa critica e un mercato
interno di peso e valore nettamente superiori a quelli degli altri Grandi economici
e politici europei, consentendole di distanziarli definitivamente. Senza il compito
enorme (e costosissimo per il contribuente) di ricostruire da zero autostrade, ferrovie, aeroporti, rete telefonica, infrastrutture varie all’Est, il sistema industriale tedesco avrebbe avuto un feedback decisivo in meno, e sarebbe più debole.
Uno sguardo-rivisitazione della Germania, vista soprattutto qui da Berlino, qui
da Est, non può ignorare gli importantissimi apporti positivi dei «fratelli poveri» alla
tranquilla, viziata, efficiente e spesso provinciale Bundesrepublik. A cominciare dalla cultura: i migliori libri, come Der Turm di Uwe Tellkamp (una sorta di Buddenbrooks della borghesia di Dresda e del suo disperato, caparbio tentativo di resistere
al socialismo reale vivendo come in una nicchia) o le liriche di Juli Zeh, vengono
dall’ex DDR. I film che più fanno sorridere, come Goodbye Lenin, o che fanno pensare, come Le vite degli altri, vengono dall’Est annesso. Persino nella tv pubblica, la
cui informazione qui è di qualità a livello BBC, ha avuto un suo arricchimento con
l’arrivo dei giovani conduttori cresciuti nell’ex DDR. Grazie al loro sguardo critico,
formatosi grazie allo scetticismo indotto dal sistema totalitario crollato vent’anni fa.
E last but not least, ricordano al centro studi di Deutsche Bank o ai piani alti
di Daimler, Siemens, VW o BMW, la necessità improvvisa, dopo l’89, di fare i conti con l’emergenza dell’assorbimento dell’Est ha portato nella comoda democrazia
nata a Bonn valori e abitudini nuovi, moderni, meno provinciali e più globali:
flessibilità, prontezza di risposta all’imprevisto, spirito di sacrificio. Mentre l’ex
Germania Est è quasi l’unico ex territorio dell’impero sovietico dove populismo di
destra, estremismo xenofobo, razzismo,violenze e intolleranze, sono sì chiassosi e
pericolosi ma anche marginali, ben sotto la soglia del 5%, necessaria ad essere
eletti nel parlamento nazionale. Sebbene il voto di protesta esista eccome, e vada
tutto o quasi alla Linke.
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