commentary Commentary, 29 giugno 2015 LA RISPOSTA IRANIANA AL CALIFFATO, TRA MILIZIE E SETTARISMO ANNALISA PERTEGHELLA a conquista di Mosul da parte di IS e la successiva proclamazione del Califfato, nel giugno 2014, hanno indotto l’Iran a rivedere la propria strategia nell’area mediorientale, spostando in parte l’attenzione dallo scenario siriano a quello iracheno. Per comprendere la strategia dell’Iran nei confronti di IS in questo ultimo anno è però necessario capire che cosa l’Iraq rappresenta per l’Iran. L ©ISPI2015 Per rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro. Solo se si analizza la storia – non solo recente – delle relazioni tra Iran e Iraq è possibile comprendere come uno dei primi obiettivi che guidano l’azione iraniana sia impedire che l’Iraq torni a essere una minaccia. Non essendo questa la sede per un’analisi approfondita della storia delle relazioni tra i due paesi, ci si limiterà a ricordare che l’Iraq ha più volte rappresentato un vicino ingombrante per l’Iran, come testimoniato dalla già presente rivalità tra l’impero ottomano, che controllava l’area mesopotamica, e l’impero persiano safavide. Ma tensioni si sono presentate anche dopo la formazione dell’Iraq moderno (1920), per poi culminare nella lunga guerra Iran-Iraq (1980-1988), la cui importanza è stata fondamentale per cementificare la Repubblica islamica nel suo primo decennio di vita, ma la cui pesante ombra si staglia tutt’oggi sulle relazioni tra Iran e i paesi dell’area1. A partire dal 2003, quando grazie al controverso intervento statunitense Saddam viene stato rimosso dal potere, Teheran ha intravisto la possibilità di trasformare il nemico storico in un partner e, se possibile, in un alleato. Ecco che allora tra gli obiettivi iraniani in Iraq si è aggiunto quello di utilizzare il paese per accrescere la propria influenza sull’area, dotando di un tassello in più l’asse Teheran-Damasco che dal 1979 permette all’Iran di proiettare la propria influenza sul Levante arabo, ar- 1 Se, da un lato, la guerra ha creato nel paese un potente effetto di rally around the flag, anche grazie a una sapiente narrazione che vedeva ad esempio l’utilizzo di termini quali “sacra difesa”, “guerra imposta” per connotare il combattimento, dall’altro lato essa ha inflitto un pesantissimo trauma nella psiche collettiva della nazione. Si pensi ai giovanissimi soldati mandati al fronte, spesso al solo scopo di perlustrare le aree minate, con al collo le chiavi del paradiso, corredo indispensabile del martire sciita che s'immola nella lotta contro lo Yazid del momento, Saddam Hussein, che con il beneplacito dei paesi coinvolti e nell’indifferenza della comunità internazionale non ha esitato a compiere atti al di fuori del diritto internazionale, quali l’uso di armi chimiche dagli ovvi effetti letali. Annalisa Perteghella, ISPI Research Assistant. 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI. Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. commentary rivando in Palestina (tramite alleanze tattiche con movimenti quali Hamas e Palestinian Jihad, oggi però messe in discussione dalla crisi siriana) e in Libano (tramite Hezbollah, milizia istituzionalizzatasi in partito)2. nettamente meno prono a Teheran, ha cercato in questi mesi di accrescere il potere delle istituzioni, anche a scapito del proprio potere personale, per cercare di favorire una maggiore emancipazione del paese da Teheran. Ma il rovesciamento del regime di Saddam ha creato anche dei rischi per Teheran: nel 2003, con le forze a guida statunitense presenti in Iraq e Afghanistan, Teheran ha sperimentato un rinnovato senso di accerchiamento, temendo altresì di diventare il successivo paese a conoscere il regime change su iniziativa occidentale, ma anche che l’Iraq diventasse uno stabile alleato degli Usa e che l’instaurazione della democrazia nuocesse al messaggio della Repubblica islamica, diminuendone l’appeal, già scarso sui paesi dell’area. Il dilagare dello Stato Islamico rappresenta poi una minaccia per i luoghi santi dello sciismo in terra irachena, della cui protezione l’Iran sente di essere investito. In Iraq, culla dello sciismo, riposano buona parte degli imam, a partire da Ali, la cui tomba è custodita all’interno del complesso di Najaf; Husayn e i martiri di Kerbala, sepolti nell’omonima località; Ali al-Hadi e Hasan al-Askari, decimo e undicesimo imam, a Samarra; Musa al-Kadim e Muhammad al-Taqi, settimo e nono imam, nella moschea al-Khadimiya a Baghdad. Oltre al forte portato simbolico vi è una componente economica non indifferente, rappresentata dai proventi derivanti dai flussi pressoché ininterrotti di pellegrini. Semplificando, è possibile affermare che l’obiettivo dell’Iran per l’Iraq post-Saddam sia stato quello di contribuire a mantenere un paese non troppo forte (dunque non in grado di nuocere) né troppo debole (cioè tale da non rappresentare una potenziale fonte di instabilità per i propri confini). Ma soprattutto vi è la componente securitaria. Teheran guarda con estrema preoccupazione all’avvicinarsi dello Stato Islamico ai propri confini. Per scongiurare questo pericolo, ma anche più banalmente per scongiurare la conquista di ulteriore territorio da parte dei guerriglieri del califfo, è “costretta” a mantenere attivo e costantemente rifornito l’apparato di milizie che ormai da tempo combatte in terra irachena, pur con un intermezzo siriano. È difficile stimare i costi di un simile sforzo, ma se si considera che l’Iran è in questo momento sottoposto a un complesso regime di sanzioni internazionali, è possibile avere un’idea del peso che tale impegno comporta sul budget statale. Se si fa poi un confronto con il budget su cui può contare il grande nemico regionale, l’Arabia Saudita, si comprende come per l’Iran il tentativo di esercizio dell’egemonia regionale, che passa per il salvataggio dell’Iraq, comporti un prezzo molto alto. Per raggiungere questi obiettivi, Teheran ha adottato una strategia su più livelli, giocando sul piano politico, ma anche su quello economico e di sicurezza. Una pesante interferenza nel processo politico iracheno, l’instaurazione di forti relazioni economiche e, soprattutto, la creazione o il supporto a gruppi paramilitari creati allo scopo di alimentare il caos, hanno permesso all’Iran non di controllare, ma di esercitare un'inedita e pesante influenza sull’Iraq. ©ISPI2015 Tutto questo è stato messo in crisi dall’avvento dello Stato Islamico. La sostituzione di Nouri al-Maliki con Haider al-Abadi nell’agosto 2014, per quanto ufficialmente benedetta da Teheran, non è stata vista con favore. Al-Abadi, dello stesso partito di al-Maliki, ma 2 Le milizie che combattono IS: be careful what you wish for È il cosiddetto “arco sciita”, così definito da re Abdullah II di Giordania nel 2004. Altra espressione utilizzata per descrivere il La rapida avanzata di IS nel giugno 2014 ha indotto l’Iran a rivedere la propria politica di sostegno alle mi- riallineamento degli equilibri post-Saddam è quella di “revival sciita”, coniata dallo studioso Vali Nasr. Vali Nasr, "When the Shiites rise", Foreign Affairs, luglio/agosto, 2006. 2 commentary intelligence, consiglieri militari, armi e supporto logistico alle Pmu. lizie nell’area siro-irachena, nel senso di uno spostamento di forze dal territorio siriano – dove erano state inviate a combattere con il network Lafa (Liwa Abu al-Fadhal al-Abbas) a sostegno di Assad – a quello iracheno. La decisione iraniana è andata di pari passo con la costituzione da parte del governo iracheno delle Unità di mobilitazione popolare (Popular Mobilization Units, Pmu, o al-Hashd al-shabi), forze paramilitari formalmente poste sotto il controllo del governo iracheno, che pertanto rifiutano il sostantivo di “milizia”, ma che in realtà lo sono a tutti gli effetti. La legittimazione dell’arruolamento in queste forze fornita dall’ayatollah Ali al-Sistani, massima autorità religiosa dello sciismo, ha contribuito a ingrossare le fila dei combattenti. La forte impronta di Teheran sulle milizie che compongono le Pmu ha fatto inevitabilmente sìche, nonostante gli appelli di Sistani a combattere per l’Iraq e non per l’identità sciita, insieme ai combattimenti si riaccendesse il furore settario. Intere aree sono state sottoposte a pulizia etnica, soprattutto attorno a Baghdad, così come attorno a Diyala o, ancora, nel corridoio tra Baghdad e Samarra. Teheran ha cercato di mascherare il proprio intento settario creando all’interno delle Pmu milizie composte da minoranze, come i gruppi cristiani Kataib Babiliyoun e Kataib Rouh Allah Issa ibn Miriam, che nel disegno iraniano servirebbero a conferire una facciata di cross-settarismo alle Pmu e a espandere l’influenza iraniana oltre la base sciita. Ecco che allora all’interno delle Pmu si trovano a combattere sciiti iracheni mossi dal sacro dovere di difesa della propria patria, ma anche ex gruppi speciali a guida iraniana già attivi sullo scenario iracheno fin dai primi anni dopo la destituzione di Saddam, come le milizie Asaib ahl al-Haqq e Kataib Hezbollah, resesi responsabili dei più sanguinosi attacchi contro le forze Usa durante la guerra. In realtà, la stessa Teheran si trova a fare i conti con il frutto avvelenato del proprio operato. La politica di divide et impera fa sì che le tensioni interne alle Pmu siano all’ordine del giorno. Nel maggio scorso, ad esempio, miliziani di Kataib Hezbollah hanno attaccato gli uffici del Consiglio islamico supremo dell’Iraq (Isci) a Basra. Ma ancora più forte è l’interrogativo su che cosa accadrà se e quando la minaccia di IS sarà debellata. Se l’effetto dell’invito al combattimento di Sistani è destinato a venire meno una volta venuta meno la minaccia, così non si può dire per i gruppi manovrati da Teheran, che hanno già dimostrato notevole capacità di resilienza. Un interrogativo, quello su che cosa accadrà dopo il cessare dell’emergenza, che ci si dovrebbe porre se, come sembra, si intende continuare a fare affidamento sull’operato delle milizie per il contrasto di IS. ©ISPI2015 Formalmente le Pmu sono poste sotto il controllo di Falih al-Fayyadh, consigliere per la sicurezza nazionale iracheno. Nei fatti, però, sono coordinate sul campo da Jamal Jaafar Mohammad, nom de guerre Abu Mahdi al-Muhandis, leader di Kataib Hezbollah e braccio destro in territorio iracheno di Qassem Suleimani, a sua volta a capo delle brigate al Qods dell’Irgc iraniano. Proprio Irgc e Hezbollah libanese sono ritenuti fornire 3