Antropologia filosofica

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Antropologia filosofica
1. Cos’è l’antropologia filosofica?
2. Quando nasce?
3. Quali sono i suoi principali orientamenti?
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1. Che cos’è l’antropologia filosofica?
L’antropologia filosofica è quella disciplina che ha come oggetto l’“uomo”.
Essa rappresenta l’ambito della riflessione dell’uomo su stesso
L’uomo con le sue motivazioni, le sue mete, i suoi sistemi di valori, i suoi atteggiamenti.
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Scrive Groethuysen nella sua Antropologia filosofica: «La domanda che si pone il filosofo non è:
“Da dove sono venuto e dove vado?”, ma “Chi sono?” o piuttosto : “Che cosa sono?”» (tr. it. p. 12).
“La mia domanda si sposta sulla natura, su ciò che caratterizza l’uomo, sulla coscienza dell’io. E, da
ogni parte, qualcosa mi spinge a oltrepassare i modi spontanei di rappresentare le cose create
dall’esperienza umana. Ma dove sto io in tutto questo? Io, che volevo conoscere me stesso?”
(Groethuysen, Antropologia filosofica).
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L’antropologia filosofica si pone dunque il problema dell’uomo nella sua idealità, dell’uomo così
come deve essere. L’antropologia filosofica è la scienza fondamentale dell’essenza e della struttura
eidetica dell’uomo, del rapporto che essa ha con i diversi regni naturali e con il principio di tutte le
cose (M. Scheler, La posizione).
La domanda che l’antropologia filosofica si pone rispetto all’uomo richiede allora un mutamento di
prospettiva rispetto a quella che si pongono le altre discipline tra l’Ottocento e il Novecento.
Antropologia e religione
- L’antropologia come disciplina autonoma nasce nell’Ottocento e la sua origine deriva dalla messa
in discussione della centralità di Dio e della prospettiva religiosa. In opposizione alla religione
nell’Ottocento viene infatti introdotta l’antropologia intesa come dottrina dell’uomo indipendente
da Dio (Kierkegaard, Nietzsche, Feuerbach).
- Anche la religione si era posta il problema dell’uomo come creatura, ma con un rimando ad un dio
creatore e ad una dimensione trascendente che conferiva il vero senso alla vita dell’uomo. Rispetto
alla religione la filosofia si pone il problema non più dell’esperienza di vita dell’uomo, ma della
conoscenza dell’uomo di se stesso. Questa consapevolezza si sviluppa compiutamente nel
Novecento, appunto nell’antropologia filosofica.
Le immagini dell’uomo
Leggere Pansera p. 3 “L’uomo ha da sempre …”
Ma mai come nel ‘900 le concezioni sull’essenza e l’origine dell’uomo sono state così incerte,
indefinite e molteplici. Ripercorrere quindi le autoimmagini che l’uomo ha dato di sé nel corso dei
secoli potrebbe aiutare la moderna antropologia filosofica a illuminare a situazione attuale. Max
Scheler uno dei padri fondatori della moderna antropologia individua 5 figure-tipo, 5 autoimmagini
che nella storia l’uomo ha dato di se stesso:
- l’homo religiosus;
- l’homo sapiens;
- l’homo faber;
- l’homo dionysiacus;
1
-
l’homo creator.
1. l’homo religiosus trae origine dalle sacre scritture ed è caratterizzato da un profondo senso
di angoscia, ansia, insoddisfazione, derivanti dal mito della caduta e del peccato originale; in
questa specifica idea del mondo di tipo giudaico-cristiana l’uomo è caduto nel paradosso che
se da una parte rappresenta il ritratto di Dio, dall’altra è gravato dalla colpa. Perciò non è
l’uomo il signore della storia, ma Dio. si tratta quindi di una storia divina, non si può parlare
in questo caso di secolarizzazione (come accadrà successivamente). L’uomo e la storia sono
ancora ancorati a Dio. antropologia e filosofia della storia non si sono ancora emancipate
dalla teologia;
2. l’homo sapiens, che deriva dal mondo greco, il cui elemento distintivo rispetto agli animali è
la ragione. Il logos è il principium individuationis dell’essere umano. Il logos è la proprietà
caratteristica dell’uomo, assolutamente irriducibile e incompatibile con le altre che
caratterizzano gli animali. L’uomo domina su tutto il creato in funzione del suo essere figlio
di Dio e quindi somigliante ad esso. L’uomo possiede perciò una scintilla divina che rimane
costante nel divenire storico.
I quattro punti fondamentali di questa concezione: 1. esiste nell’uomo la scintilla divina; 2.
quest’ultima e la potenza che ordina il caos hanno la stessa origine; 3. tale scintilla, anche
senza l’esperienza sensibile, può mostrare il proprio potere spirituale; 4. essa rimane
costante nel divenire storico. (Aristotele, Tommaso, Cartesio, Malebranche, Spinoza,
Leibniz, Kant);
3. l’homo faber, nato con la rivoluzione scientifica. Accanto all’immagine dell’homo sapiens si
affianca, a partire dall’età moderna, questa nuova immagine. L’uomo si distingue
dall’animale non più qualitativamente ma per il grado di sviluppo delle sue doti. L’homo
faber è privo di quella scintilla, non deriva da nessun principio metafisico, è quindi uguale
agli altri animali solo che è più sviluppato, c’e dunque solo una differenza di grado.
L’origine dell’homo faber è priva quindi di quella scintilla metafisica che lo distinguerebbe
dagli altri esseri viventi. Le sue capacità sono solo il risultato di uno sviluppo pronunciato
delle attitudini psichiche che incontriamo già negli animali superiori. Egli è dunque: 1.
l’animale che usa simboli; 2. l’animale che si serve di utensili; 3. l’animale cerebrale. Non
esiste nlla nell’uomo, dal punto di vista morfologico, fisiologico, organico, che non sia
presente anche nei vertebrati superiori, né alcun principio poietico o psichico che gli
appartenga esclusivamente (Democrito, Lucrezio, Bacone, Hume, Comte, Spencer, Mill,
Lamarck, Darwin, ma anche poi Hobbes, Machaivelli, Schopenhauer, Feuerbach, Nietzsche,
Adler, Freud).
Queste immagini hanno in comune la fiducia nel progresso della storia umana, nell’evolversi della
storia dell’uomo e della società verso forme di organizzazione sempre più elevate. Le altre due
rompono con questa concezione.
4. l’homo dionysiacus sostituisce alle immagini precedenti convinte in un progresso della
storia, l’idea di una necessaria decadenza dell’uomo. Questa teoria umilia l’immagine che
dell’uomo è stata data dalla concezione dell’homo sapiens; l’uomo anche se sano nel corpo,
è malato. Egli è lo schiavo della corteccia. Il pensiero e la ragione possono aiutarlo a
surrogare i suoi istinti deboli e insufficienti, ma non ne riusciranno ad evitare la decadenza.
Egli infatti rappresenta una impasse nella catena evolutiva, l’uomo non può più procedere
oltre ed è quindi destinato all’estinzione. Il problema fondamentale dell’uomo è l’aver
accresciuto in maniera morbosa la coscienza di se stesso. L’uomo può creare opere d’arte,
alimentare la ricerca scientifica, ma ciò non gli consentirà di uscire dal vicolo cieco in cui si
trova, di superare la malattia che costituisce l’essenza della sua vita. Anche la libertà di
scelta è in realtà una copertura rispetto alla sua mancanza di direzione, alla sua indecisione.
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Tutte le istituzioni dell’uomo sono solo dei surrogati che vengono in aiuto ad una razza
biologicamente destinata all’estinzione. La storia dell’uomo ne indica la graduale
decadenza. Il passaggio dalla spontaneità istintuale alla volontà cosciente, dalla comunità
alla società, dalla magia alla tecnica, dalla metafisica alla scienza segna ineluttabilmente la
direzione del cammino dell’umanità. In questa concezione dell’uomo la vita viene separata
dalla ragione. Lo spirito qui appare come ciò che distrugge la vita, come un demone
irriducibile alla ragione. L’uomo dionisiaco si oppone pertanto all’uomo sapiens e all’uomo
apollineo della Grecia, di cui è l’antitesi. Il suo scopo è una ricerca dell’originario slancio
vitale di contro alla spiritualità che ha usurpato la vita, per ritrovare l’unità perduta.
(Nietzsche, Bergson, Freud, Lessing).
5. l’homo creator è un’immagine del tutto nuova. La base di questa teoria è il rifiuto di ogni
religiosità, inteso come postulato della libertà e della responsabilità. È l’estensione della
teoria del superuomo. L’ateismo da esso postulato non è legato all’indimostrabilità
dell’esistenza di Dio, ma muove dal presupposto che un Dio non può né deve esistere se
vogliamo postulare una vera libertà e responsabilità dell’uomo. (Hartmann, Sartre). Dove
c’è un Dio l’uomo non sarà, infatti, mai libero di progettare il proprio il proprio destino.
Queste 5 immagini dell’uomo mostrano come, da sempre, la filosofia ha tracciato un’immagine
dell’uomo, essa però si trovava all’interno di una concezione sistematica più generale.
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2. Quando nasce l’antropologia filosofica?
La nascita delle varie discipline che studiavano l’uomo sotto diversi aspetti: la biologia, la
psicologia, la sociologia, l’etnologia, la filosofia aveva perso l’uomo come oggetto di indagine.
La nascita dell’antropologia filosofica segna dunque il riconoscimento di questo fatto e insieme la
volontà di non rinunciare a una sintesi e ad una reinterpretazione delle conoscenze fornite dalle
scienze nuove.
Ma perché per parlare di antropologia filosofica bisogna arrivare ai tempi recenti?
Da sempre infatti la filosofia ha offerto le diverse immagini dell’uomo soffermandosi sul pensiero
umano (logica), sull’azione dell’uomo (etica) sul posto dell’uomo nella natura (fisica) e sul tutto
dell’essere (metafisica).
La novità dell’antropologia filosofica consiste nella ricerca di strumenti metodologici e tematici che
consentono di parlare di antropologia nel senso moderno della parola.
La nuova antropologia nasce in seguito ad un nuovo e rivoluzionario orientamento che si verifica
tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, in riferimento a tre punti di trasformazione fondamentali che
mutano l’autopercezione dell’uomo, a tre umiliazioni inflitte all’uomo:
1. la sostituzione della teoria geocentrica con quella eliocentrica (Copernico)
2. la centralità di una considerazione biologica della costituzione dell’uomo e quindi della sua
collocazione nella grande catena dell’evoluzione biologica e della sua considerazione di
essere naturale distinto dagli altri tipi di animali solo per una differenza di grado (Darwin)
3. la scoperta dell’inconscio da parte di Freud rende fragile la valutazione interiore dell’uomo.
Questi sviluppi pur essendo importanti nella comprensione dell’uomo mettono in crisi l’uomo e la
sua autoimmagine, facendogli avvertire il bisogno della costruzione di una visione unico a partire
dai brandelli n cui era stata smembrata la sua figura. L’uomo doveva difendere la propria posizione
particolare a partire da qualche altro punto di vista.
Di qui la nascita della nuova antropologia filosofica finalizzata alla costruzione di una “immagine
globale” dell’uomo. Il primo a porsi questo obiettivo è Max Scheler.
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L’uomo si è da sempre soffermato sulle sue caratteristiche fisiche e mentali, sui suoi rapporti con la
natura, sulle linee direttive del suo sviluppo biologico, psicologico, sociale e spirituale. Queste
immagini che l’uomo ha dato di sé lungo la storia sono importanti, ma come punto di partenza per
elaborare una nuova riflessione intorno all’uomo. Ora l’antropologia, tenendo conto sia dello
sviluppo delle scienze che dell’esigenza filosofica deve lavorare ad una nuova antropologia che
pone al centro delle sue indagini un uomo aperto, polisemantico, variabile e plurale, ma pur sempre
questione cruciale di ogni ricerca umana.
Biologia, psicologia, linguistica, sociologia, economia, cultura hanno lavorato all’approfondimento
di specifiche e separate sezioni dell’unica totalità dell’individuo, l’analisi di “fette” della
complessità della “realtà uomo”. Occorre a questo punto parlare dell’uomo operando una sintesi,
integrando e armonizzando i risultati delle indagini scientifiche per ricomporre in unità i molteplici
risultati che sono arrivate da queste indagini scientifiche specifiche.
Da questa esigenza muove l’antropologia filosofica contemporanea.
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L’antropologia filosofica nasce dunque con lo scopo di cogliere e pensare l’essere umano nella sua
interezza, integrando i risultati delle indagini scientifiche sull’uomo, per giungere a dare di lui una
immagine sintetica.
Gli esiti della prima guerra mondiale conducono quindi ad un rinnovato interesse rispetto all’uomo,
questo punto consente inoltre alla filosofia di fare il suo ritorno sulla scena delle riflessioni del
pensiero, dopo essere stata scacciata per alcuni decenni dal dominio delle scienze positive.
Ora ritorna l’indagine sull’uomo che nella prima metà del 900 avrà una duplice caratterizzazione:
da un lato l’indagine esistenziale, a partire dall’interrogazione diretta sul valore della vita umana e
sul suo significato profondo; dall’altro l’antropologia filosofica, un’interrogazione indiretta, perché
non interroga direttamente l’uomo, ma cerca di trarre delle conclusioni attraverso una
interpretazione filosofica di tutti i risultati raggiunti dalle altre scienze dell’uomo e che cerca di
stabilire quale sia l’uomo, la sua natura, il suo posto nel mondo.
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Questa ricomposizione di tutti i frammenti che le altre scienze offrono dell’uomo non può essere
compiuta attraverso un atto scientifico, cioè da una teoria che trae il suo supporto dall’esperienza,
ma si tratta di un atto filosofico, cioè nell’interpretazione e nell’attribuzione di significato e di
valore.
La ricostruzione di questa unità dei risultati provenienti dalle diverse scienze presuppone la capacità
di interpretare i risultati e di farli convergere sotto un unico punto di vista. Questa impostazione
metodologica ci porta già sulla strada dell’ermeneutica.
Per l’antropologia possiamo parlare non solo di circolo ermeneutico, ma più propriamente di circolo
antropologico, in cui si parte dall’uomo concreto, successivamente determinato, che sperimenta e
conosce se stesso nel mondo e che pone domande sulla vita dell’uomo. Non possiamo saltare oltre
noi stessi. Il circolo antropologico si muove tra due poli, da un lato l’uomo nella sua concretezza,
dall’altro le considerazioni delle scienze sull’uomo: l’antropologia filosofica ha bisogno di
entrambi.
Ogni conoscenza presuppone non una tabula rasa ma da pre-conoscenze, pre-giudizi, dei quali non
possiamo liberarci. Nel caso dell’antropologia questa pre-comprensione nasce dai risultati delle
ricerche scientifiche sull’uomo e l’insieme delle pre-comprensioni potrebbe essere individuato nella
tradizione filosofico-culturale in cui diversi studiosi si collocano. A conoscere se stesso è sempre
l’uomo concreto. Non possiamo saltare oltre noi stessi. Non possiamo riflettere su di noi astraendoci
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dalla nostra esistenza concreta, per collocarci in un puro io penso. Ogni filosofo che si interroga
sull’uomo è sempre collocato in un momento storico, in una data esperienza, in un dato orizzonte di
comprensione.
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Caratteristiche della nuova antropologia filosofica :
- posto centrale e prioritario dell’uomo;
- analisi dell’uomo a partire dal legame con le scienze e non a partire da una logica deduzione da un
sistema filosofico già costituito;
- aspirazione ad una “oggettività” pari a quella delle altre scienze.
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3. Orientamenti principali della nuova antropologia filosofica:
1. un’antropologia dei fondatori
2. una socio-culturale
3. una biologica
4. una psicologica
5. una come critica della società
6. una teologica
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I fondatori dell’a.f.
1. L’antropologia dei fondatori è fortemente condizionata dalla filosofia, che gioca un ruolo
preponderante nel rapporto con le scienze e nel tratteggiare di conseguenza un’immagine
dell’uomo.
2. L’antropologia socio-culturale si sofferma con maggiore attenzione sulla storia culturale,
sulla sociologia, sull’uomo e le sue opere, sull’antropologia culturale e sulla filosofia della
storia. Questo orientamento ha studiato in particolare le società più sviluppate e cercato di
mettere in evidenza la molteplicità e la multiformità piuttosto che l’uniformità della natura
umana, conducendo uno studio comparativo delle società complesse (George H. Mead,
Sombart, Luhmann).
3. L’antropologia filosofico-biologica si sofferma invece sul modo di vivere innato delle
specie animali e quindi anche di quella umana (Adolf Portmann, von Uexkuell). L’essere
umano sarebbe distinto dagli animali in virtù della correlazione tra fattori biologici ereditari
e processi socioculturali, un intreccio che consente un’ ”apertura indeterminata”
all’ambiente , rispetto al rigido determinismo del mondo animale.
4. L’antropologia filosofica psicologica presta invece maggiore attenzione alle dottrine
psicologiche e psicoanalitiche con l’idea che soprattutto da esse possa emergere un’adeguata
immagine dell’uomo. A partire da Freud questa impostazione si fonda sulla convinzione che
tratto peculiare dell’uomo sia la sua capacità di staccarsi dal piano istintuale e di realizzare
faticosamente se stesso sul piano culturale e sociale. Questo scontro dovrebbe rendere
l’uomo capace di rinunciare ai suoi istinti in funzione del vivere sociale, ma tale processo
risulta più complicato quanto più la struttura sociale si fa sofisticata, cosicché aumenta la
quantità di coloro che vivono disagi, la nevrosi e il disadattamento diventano le
caratteristiche dell’uomo contemporaneo (Freud, Fromm, Binswanger).
5. La teoria critica della società che ruota introno alla scuola di Francoforte si sofferma
sull’analisi della natura umana nella sua specificità, essa è costituita da 3 elementi: a)
l’analisi della crisi della società attuale che deriva dalla sua incapacità di soddisfare i veri
bisogni dell’uomo, di realizzare pienamente la sua natura; b) individuazione delle cause che
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hanno contribuito a determinarla; c) ricerca dei rimedi per uscirne. La possibilità di trovare
dei rimedi a questa situazione di crisi, di alienazione e estraniazione dell’individuo,
comporta innanzitutto una definizione di che cosa sia l’uomo. Per i francofortesi l’uomo è
un valore essenziale in sé che si realizza nella storia. Le sue caratteristiche sono
l’individualità, la socialità e la storicità. Non si tratta dunque di un’essenza metafisica
dell’uomo, ma dell’uomo nel suo concreto farsi che è sempre un farsi nella storia.
L’immagine dell’uomo non deve più essere ricercata nel confronto con gli altri esseri
viventi, e con la divinità, ma a partire dal complesso intreccio tra individuo e società.
6. L’antropologia filosofico-teologica definisce l’uomo in funzione del suo rapporto con Dio.
Punto di partenza è la convinzione che solo in funzione del trascendente possa emergere la
vera immagine dell’uomo. Tutto ciò che è legato all’uomo è subordinato all’opera di Dio.
(Buber, Bultmann, Barth).
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Il Methodenstreit.
La discussione intorno all’antropologia filosofica si pone anche in un altro contesto molto
importante ed è la polemica sul metodo diffusa in Germania verso la fine dell’800 e che aveva
l’obiettivo di legittimare il metodo delle scienze dello spirito accanto a quello delle scienze della
natura.
È possibile costruire una scienza dell’uomo che sia universale e rigorosa senza avere ad oggetto
l’uomo come fenomeno oggettivabile, ma l’uomo nella sua totalità e individualità? Da questa
domanda muovono i filosofi che alla fine del XIX secolo cercano di offrire una scienza dell’uomo.
Spiegare in base a leggi, come quella di causalità o a statistiche lasciava infatti inesorabilmente
fuori la X propria di ogni esistenza, e che caratterizza l’irripetibilità propria di ogni uomo, per
cogliere la quale occorre dunque introdurre un altro metodo d’indagine.
1857 Droysen, nel Sommario di istorica introduce il concetto di comprensione come tipico della
conoscenza storica. “Nel percepire l’urlo dell’angoscia noi risentiamo l’angoscia di chi urla”. Se si
provasse a spiegare tali fenomeni in termini quantificabili, si finirebbe col perdere l’individualità
dell’uomo.
1883 Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, distingue i due ambiti in base all’oggetto: la
natura o lo spirito. Secondo Dilthey mentre le scienze naturali procedono seguendo il metodo
induttivo, di causa-effetto, per arrivare poi alla totalità, le scienze dello spirito al contrario partono
dalla totalità della coscienza per arrivare, attraverso un metodo deduttivo, alla descrizione della
coscienza stessa nelle sue parti.
È Dilthey per primo ad introdurre la distinzione tra il comprendere e lo spiegare.
Essi sono posti l’uno accanto all’altro, si completano a vicenda, e possono essere applicati sono ad
ambiti circoscritti dello psichico. Soprattutto sulla scorta di Dilthey, Max Weber e il primo Husserl,
Jaspers, attraverso il comprendere e l’impostazione fenomenologica, offre un’alternativa alla via di
ricerca fino ad allora impiegata, dello spiegare scientifico, approdando così ad un dualismo
metodologico.
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