Fabio Minazzi (Università degli Studi dell'Insubria) La Casa della Cultura quale laboratorio sociale aperto delle conoscenze Risposta alla prima domanda. A mio avviso il profondo rimescolamento del clima politico e culturale italiano contemporaneo ha tratto luogo da molteplici fattori - non solo internazionali e nazionali, ma anche strutturali, economico-sociali ed istituzionali - di lungo e breve periodo, che bisogna quindi avere l'accortezza di saper individuare nel loro preciso intreccio problematico. Il periodo tra il 1989-92 ha rappresentato un «periodo cerniera» certamente decisivo, in cui la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell'Urss si sono intrecciati, sul piano nazionale, con Tangentopoli e con Mani pulite: la genesi immediata dell'era berlusconiana va rintracciata proprio in questo preciso contesto, senza tuttavia dimenticare che la famosa «discesa in campo» di Silvio Berlusconi è scaturita soprattutto da un preciso e pressante problema: quello di evitare di dover rendere conto del suo precedente operato economico, svolto sotto la precisa tutela politica di un uomo come Bettino Craxi. Tuttavia, questo stesso preciso contesto politico nazionale, rinvia poi a molti altri, ancor più decisivi, nodi strutturali di lungo periodo i quali, a loro volta, hanno condizionato, spesso in modo eminentemente costitutivo, lo sviluppo storico complessivo di tutta la nostra situazione sociale, economica, politica e culturale contemporanea. D'altra parte, dietro e al di là di questo pur decisivo e preciso momento storico del 1989-92, occorre anche tener presenti alcuni storici sviluppi precedenti, che si sono tutti variamente dipanati nel corso di alcuni decenni. Nel breve spazio concesso in questa sede non è naturalmente possibile offrire una disamina completa, rigorosamente articolata, di tutte queste molteplici e contrastanti componenti storiche e sociali, ma si può tuttavia indicare perlomeno qualche elemento strategico che può essere utilizzato come un fecondo filo rosso per reagire, positivamente, al disastro nel quale oggi si vive. Da questo punto di vista, perlomeno a mio personale avviso, può allora essere interessante prendere le mosse proprio dai clamorosi ritardi della sinistra, che, non a caso, si trova in seria difficoltà ad affrontare, progettualmente, il momento presente. Da questo punto di vista risulta infatti difficile negare come la crisi contemporanea della sinistra sia il frutto composito dei seguenti elementi: a) del grave ritardo complessivo con il quale la sinistra non ha saputo studiare e capire, con la dovuta puntualità critica e l'indispensabile rigore di analisi, i profondi cambiamenti sociali, economici, scientifici e culturali, invero epocali, che si sono via via determinati negli ultimi decenni (non solo sul piano dell'economia mondiale, ma anche su quello dello stesso mondo civile contemporaneo); b) di un mancato ripensamento critico complessivo della propria storia, dei propri limiti e anche delle proprie precise e gravi responsabilità politiche, economiche, strategiche ed istituzionali, che derivano tutte da un'altrettanto precisa responsabilità culturale (anche, ma non solo, di un ceto politico trasformatosi in una vera e propria casta, costosissima, inutile e parassitaria); c) dell'incapacità di saper ricollegare, con limpida coerenza morale, la propria speranza utopica strategica - incardinata sulla volontà di creare un mondo più libero, più giusto, più democratico, più solidale e più rispettoso della libertà individuale e collettiva - ad una politica effettivamente in grado di lavorare, giorno dopo giorno, per questi obiettivi strategici di libertà, uguaglianza ed incremento della conoscenza; d) l'aver sistematicamente degratato la politica a miope tattica trasformistica compromissoria, che ha ucciso ogni autentica idealità animosa, accettando acriticamente i valori culturali della destra e del diffuso conservatorismo sociale e clericale, rinnegando le proprie stesse radici storiche e sociali. Se poi si affronta il problema del rimescolamento politico e culturale contemporaneo, prendendo le mosse dal piano specificatamente culturale, è agevole comprendere come per la sinistra, soprattutto per i politici di sinistra, la cultura sia sempre stata concepita, de facto, come una sorta di “fiore all'occhiello”, cui non è mai stato riconosciuto alcun effettivo ruolo sociale e politico. Il che ha costituito, nuovamente, uno sbaglio e una miopia strategica di lungo periodo. Errore concretizzatosi nell'abbandono, più o meno sistematico, della scuola italiana ad una deriva di grave lassismo e degrado complessivo (finanziario, educativo, formativo et similia) che poi, inevitabilmente, si è anche tradotto in un preciso esito sociale e politico negativo (e invero catastrofico per la sinistra). In sintesi brevissima: la perdita dell'egemonia nelle scuole e il loro conseguente abbandono sociale ha comportato, inevitabilmente, la perdita di contatto con la società e, conseguentemente, l'incapacità di comprendere la vita quotidiana effettiva della stragrande maggioranza della popolazione. Non per nulla oggi la maggioranza dei politici di sinistra non percepisce neppure la drammatica situazione di sfruttamento sistematico dei precari che, come categoria sociale, sono sempre più diffusi, ma del tutto “invisibili” e anche “incomprensibili” per le forze politiche di sinistra (e anche per quelle sindacali che si occupano dei soli "garantiti"). In questa situazione lo sbandamento dei più, usciti spesso da scuole che non formano e non educano, rappresenta una deriva sociale inevitabile, sulla quale si è innestata e ha prolificato a più non posso l'«educazione» televisiva di massa, assieme a quella del tempo libero alienato delle nostre società di massa, che hanno inevitabilmente preparato e fecondato, diffusamente, il terreno per il successo e l'egemonia del populismo berlusconiano. In questa precisa prospettiva il cambiamento del lessico politico contemporaneo costituisce l'indice profondo di questo duraturo sommovimento sociale, dal quale la sinistra rimane inevitabilmente esclusa e sistematicamente sbertucciata. In termini più generali: la sinistra ha sistematicamente rimosso il problema della verità, quello della conoscenza e della moralità dal suo orizzonte politico, riducendo la sua politica alla riproduzione sociale dei propri ceti politici (costosi, parassitari e sistematicamente privi di una seria e rigorosa preparazione professionale, dediti solo alla propria “partenogenesi” politica di casta di privilegiati). Questa sinistra non può che perdere sistematicamente il contatto con la gente comune (quella che lavora per vivere) e condannarsi, così, ad un destino di progressiva marginalità sociale e civile. La politica, priva di conoscenza, si riduce infatti a “politichese”, a gergo incomprensibile, mentre le stesse idealità strategiche delle libertà e dell'uguaglianza, vengono sistematicamente abbandonate, in nome di un “realismo” esangue, che insegue acriticamente l'avversario (basterebbe pensare al sostanziale abbandono del laicismo, del progetto di una fiscalità equa e rigorosa, del problema della giusitizia e della responsabilità penale dei giudici, della difesa della scuola pubblica e della sanità pubblica, a quello stesso del federalismo, che la sinistra ha conclucato per anni). Tutti questi molteplici, miopi e diffusi "realismi" celano solo l'attaccamento duraturo degli esponenti di sinistra ai propri privilegi di casta. Risposta alla seconda domanda. Alla luce di quanto si è accennato nella precedente considerazione risulta allora agevole comprendere come un primo rimedio, di lungo periodo, a questa complessa deriva sociale e politica del tutto negativa, debba essere individuato nel saper rimettere al centro strategico dell'azione e della riflessione politica della sinistra italiana il problema dell'istruzione, della scuola, dell'università, del sapere, della conoscenza e della stessa formazione sociale rigorosa e diffusa. Ma questo impegnativo obiettivo implica, poi, la capacità di saper rimettere al centro della propria riflessione politica la conoscenza, la verità, lo studio e il rigore morale, combattendo e cambiando, ab imis fundamentis, tutto un ceto politico che, continuamente, si auto-riproduce senza alcun pudore civile (in genere cambiano sempre i nomi, ma non cambiano mai gli uomini e anche le famiglie allargate), senza avere mai rapporti, reali, effettivi e diretti (idest vissuti sulla propria pelle, svolgendo un lavoro quotidiano, come tutti gli altri cittadini), con il mondo produttivo e del lavoro quotidiano del nostro paese. Occorre pertanto sostituire i “politici di professione”, con i politici che provengono direttamente dal mondo del lavoro e dalla società civile, determinando un profondo ricambio generazionale. Per questa ragione occorre iniziare a studiare la società contemporanea, ponendo al centro della propria riflessione politica e civile la vita effettiva della gente, i loro problemi, le loro aspettative, la loro stessa, sempre più diffusa, precarietà economico-sociale, sapendo affrontare tutti i più diversi problemi, con competenza e con un realismo positivo, critico e propositivo. In questa prospettiva, per esempio, la tradizionale (e indecente) “spartizione” politica delle cariche sociali, ampiamente condivisa e praticata dalla sinistra, dovrebbe essere combattuta senza quartiere, alla luce del sole, chiedendo di rimettere al centro delle nomine le competenze (e non le affiliazioni politiche o partitiche), onde avere sempre più medici competenti, primari degni del loro ruolo, dirigenti all'altezza della propria carica, insegnanti preparati, funzionari al servizio dei cittadini e non proprietari dei loro uffici, etc.). Il rapporto tra cultura e politica deve così essere rifondato profondamente, mettendo al centro della propria azione sociale la conoscenza che deve diventare motore di un'azione politica innovativa, in grado di saldare le competenze con le speranze sociali diffuse, proprio perché l'utopia può essere efficace motore della storia solo se scaturisce da un approfondimento critico del sapere e da una progressiva e continua dilatazione delle stesse libertà civili e sociali. Risposta alla terza domanda. La Casa della Cultura deve continuare il suo impegno culturale e civile onde trasformarsi, sempre più, in un laboratorio di riflessione critica, di conoscenza e di discussione aperta, in grado di porre sempre più al centro della propria azione culturale lo studio e l'approfondimento di molteplici tematiche (economiche, filosofiche, scientifiche, tecnologiche, artistiche, sociali, letterarie, musicali, architettoniche, sociologiche, storiche, poetiche, religiose, istituzionali, etc.). Nella convinzione radicata che il sapere e le competenze debbano sempre costituire l'asse fondamentale lungo il quale si può e si deve innestare l'azione civile e politica più fruttuosa e lungimirante. In questa prospettiva bisogna allora avere anche il coraggio di promuovere, con decisione, le nuove leve della ricerca, dello studio e della riflessione, aprendosi alle università, alle scuole, ai centri di ricerca e a tutte quelle realtà interessate a riflettere, con rigore, sulla nostra società e le sue contraddizioni. Meno teatro spettacolare (con i soliti noti trasformisti) e più ricerca, soda e rigorosa: questo potrebbe essere il coraggioso programma di una Casa della cultura che si trasforma in un laboratorio aperto di discussione critica e di riflessione permanente, in grado anche di rimettere al centro dell'agenda politica della sinistra i problemi della cultura, delle riforme e della formazione sociale diffusa. Penso, insomma, ad una Casa della Cultura che sulla propria bandiera dovrebbe scrivere due sole parole, verità e libertà. Sono questi, del resto, gli stessi valori civili costitutivi di fondo che hanno animato anche la straordinaria stagione resistenziale e che hanno infine indotto uomini preziosi come Parri e Banfi a fondare, nella Milano distrutta del dopoguerra, la Casa della Cultura, nella precisa convinzione, civile e culturale, animosa e speranzosa, che solo lo studio, serio e rigoroso, costituisca il vero argomento per poter prendere la parola in uno spazio prezioso che si configura, appunto, come una ”casa della cultura”. Rilanciare su questo preciso piano strategico la Casa della Cultura significa, allora, rilanciare la perenne validità di questo fondamentale insegnamento resistenziale, che ci induce a guardare, con fiducia e slancio, anche al prossimo futuro, proprio perché si radica in una lotta di civiltà che coincide con la stessa storia umana e il suo complesso incivilimento. Del resto già Immanuel Kant considerava, giustamente, autentico «terrorismo morale» l'interpretazione della storia come regresso e decadenza. E una poetessa banfiana come Daria Menicanti ci ricordava che «l'attesa è la sola passione che faccia vivere e resistere»: ma le aspettative che ci fanno vivere e reagire intelligentemente sono soprattutto quelle nutrite «del fertile dubbio/volto sempre alle maturanti ascese/alle improvvise invenzioni».