Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica?

Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica?
(Planck, Heisenberg, Einstein)
1 - Introduzione
Con il positivismo di Comte il lungo cammino di svincolo della scienza dalla teologia
e dalla metafisica, iniziato con Galileo, si compie radicalizzandosi e addirittura
capovolgendosi: la scienza è assolutizzata, resa unico strumento per la conoscenza
della realtà, strumento unico per la realizzazione del progetto di cambiamento totale
della società. Il metodo induttivo-sperimentale è l’unico, secondo i positivisti, che
permetta una conoscenza certa ed esaustiva della realtà “positiva”: della natura
quantitativamente e meccanicisticamente intesa, quindi “ridotta”, non considerata in
tutti i suoi fattori. Ambedue i capisaldi del positivismo: la concezione “positiva” della
natura e il metodo d’indagine induttivo entrano in crisi tra ‘800 e ‘900, infatti la
filosofia e la scienza ( ma anche la letteratura, l’arte, lo sviluppo economicosociale…) mostreranno che la realtà è talmente varia, vasta, imprevedibile, inusitata
e complessa da non essere totalmente, definitivamente ed ottimisticamente
inquadrabile, determinabile e oggettivabile e che il metodo o i metodi di conoscenza
si rapportano unicamente a modelli interpretativi, ipotetici e, magari, statisticamente
probabili e comunque incessantemente ed inevitabilmente soggetti alla
“falsificabilità” (K. Popper), quasi garanzia della loro “scientificità”, come d’altronde
sembra essere evidente nella storia della scienza. E, d’altra parte, che il soggetto non
è neutro e asettico ma determinante protagonista nell’approccio conoscitivo della
realtà, smontando, inoltre, il “mito”, l’illusione e l’ingenuo ottimismo di un
progresso lineare ed infinito. Cadeva la pretesa scientistica del positivismo di
presentare la scienza come certezza gnoseologica assoluta e definitiva di fronte ad
una realtà ontologicamente molteplice ed eterogenea, la cui conoscenza comportava
metodi e approcci molteplici ed eterogenei.
In tale contesto problematico esamineremo dal punto di vista della filosofia della
scienza le riflessioni di alcuni scienziati-epistemologi: M. Planck, W. Heisenberg e
A. Einstein che hanno gradualmente smontato le certezze positivistiche inserendosi in
un contesto culturale già avviato scientificamente (anche se non esplicitamente in
funzione anti-positivista) dalla riflessione sulle “geometrie non euclidee” e
filosoficamente (in funzione esplicitamente anti-positivista) dal neo-criticismo e dallo
spiritualismo di H. Bergson.
2 – La rivoluzione quantistica: l’indeterminismo e la natura della realtà
La teoria quantistica della materia distrusse completamente l’edificio della fisica
classica e sostituì il determinismo con l’indeterminismo, la spiegazione causale con la
spiegazione probabilistica e introdusse l’osservatore come soggetto non passivo nelle
leggi della fisica e di fronte ad una realtà che si impone nella sua imprevedibilità.
1
Max Planck (1858-1947. Teoria dei quanti 1900)
Planck dimostrò che lo scambio energetico tra materia e radiazione avviene in modo
discreto e non in modo continuo come si era fino ad allora supposto. L’energia viene
assorbita o irradiata secondo quantità definite e i loro multipli esatti dette quanta.
L’energia di un quantum dipende dalla frequenza (v) e da una costante (h) poi detta di
Planck (E=hv). La luce, allora, non poteva essere intesa come un’onda continua di
energia, ma come una corrente discontinua, la cui struttura e la cui
spiegazione,quindi, sono date dal modello corpuscolare e non ondulatorio. Ne deriva
che i fenomeni naturali procedono in modo discontinuo non meccanicisticamente
continuo ed uniforme in un rapporto naturale di causa-effetto (meccanica di Newton)
e secondo una concezione corpuscolare della materia e non ondulatoria come invece
nell’ elettromagnetismo di Maxwell. La realtà, allora, non si presenta più secondo
quella unitarietà, quella oggettività, quella unilateralità, quella univocità con cui
pretendeva il Positivismo. Anche perché come si poteva conciliare l’adozione per la
spiegazione di alcuni fenomeni fisici del modello corpuscolare e di altri del modello
ondulatorio? (problema affrontato intorno al 1930 da N. H. Bohr con il Principio di
complementarietà). Era la realtà fondamentalmente incomprensibile e sfuggente nella
sua complessità oppure i nostri metodi e/o i nostri mezzi tecnici inadatti a
comprenderla? L’esito, in Planck, non è scettico, certo : “Non siamo noi che creiamo
il mondo esterno perché ci fa comodo, ma è il mondo esterno che ci si impone con
violenza elementare”1, ma è un mondo esterno certamente non impenetrabile nei suoi
particolari, anche se, visto il suo incessante proporsi e riproporsi e il suo pluralismo
realistico, è ingenuo pretendere una rappresentazione esauriente e completa. Tuttavia
ciò non impedisce la continua ricerca dal “relativo all’assoluto” contro, appunto, ogni
forma di scetticismo gnoseologico: “Concluderò con una domanda assai ovvia ma
imbarazzante – afferma Planck – Chi ci garantisce che un concetto, a cui oggi
ascriviamo un carattere assoluto, non si rivelerà relativo domani, e non dovrà cedere
il posto a un concetto assoluto più alto? La risposta non può essere che una sola:
nessuno al mondo può offrire una garanzia di tal genere. Anzi, possiamo essere sicuri
che l’assoluto vero e proprio non sarà mai afferrato. L’assoluto è una meta ideale che
abbiamo sempre dinanzi a noi senza poterla mai raggiungere. Sarà questo forse un
pensiero che ci turba, ma a cui ci dobbiamo adattare […] Spingersi verso questa meta
sempre innanzi e sempre più dappresso è il vero sforzo costante di ogni scienza, e
possiamo dire con Lessing che non il possesso della verità, ma la lotta vittoriosa per
conquistarla fa la felicità dello scienziato; perché ogni sosta stanca e finisce per
snervare […] Dal relativo all’assoluto”2.
1
2
M .PLANCK, La conoscenza del mondo fisico, tr. it., Boringhieri, Torino 1964, p. 172.
Ibidem, p.174.
2
Se Planck mette in crisi soprattutto la pretesa positivistica dell’oggettività e della
unitarietà della realtà , Heisenberg ripercorre tale criticità sottoponendo la presunta
oggettività della realtà all’interazione con il soggetto e allo strumento con cui la si
misura che diventano parte integrante del fenomeno stesso considerato, in una
dimensione ontologicamente diversa della realtà determinata da un approccio
gnoseologicamente diverso con la stessa.
Werner Heisenberg (1901-1976). Con il Principio di indeterminazione (1927)
viene ribadita l’insufficienza del principio di causalità a spiegare i fenomeni della
micro-fisica (come aveva sostenuto Planck), infatti nella fisica atomica l’energia
luminosa impiegata per osservare i fenomeni (e che non può mai scendere al di sotto
di una quantità minima o quantum) tende a modificare i fenomeni stessi in modo
imprevedibile. Ne deriva che è impossibile determinare, nello stesso tempo, la
posizione di una particella e la sua velocità, in quanto ogni osservazione volta a
determinare la velocità di una particella modifica la posizione di questa e , viceversa,
ogni determinazione della posizione modifica la velocità. La posizione e la velocità di
una particella sono, quindi, in correlazione inversa. Quanto più si cerca di
determinare l’una tanto meno si riesce a determinare l’altra, poichè l’osservatore ( e
questo è l’aspetto epistemologicamente nuovo rispetto a Planck) induce
modificazioni nell’oggetto osservato. Tutto ciò che si può fare è determinare il campo
delle probabilità che la particella si trovi in un luogo anziché in un altro, oppure abbia
una velocità invece che un’altra. Perciò sul comportamento futuro di una particella si
possono fare solo delle previsioni probabili in base a calcoli statistici. E ciò non per
difficoltà tecnico-metodologiche ma dettate dalla natura stessa della realtà fisica in se
stessa e rispetto all’azione gnoseologica del soggetto. Per cui se in Logica stabiliamo
che ogni A implica B, nella Fisica di Heisenberg dato A non è detto si abbia
necessariamente B, perché non siamo in grado di determinare A in maniera assoluta e
definitiva (come pretendeva il positivismo), ogni A è sempre diverso da tutti gli altri
A. E’ probabile statisticamente che dato A si abbia B, ma non necessario: “Nella
moderna teoria dei quanti – sottolinea Heisenberg – questo concetto di possibilità
assume una nuova veste: è formato quantitativamente come una probabilità e
sottomesso a leggi naturali esprimibili matematicamente. Le leggi naturali formulate
in termini matematici non determinano più qui i fenomeni stessi, ma la loro
possibilità, la probabilità che succeda qualcosa”3. Quindi contro ogni causalismo,
meccanicismo e determinismo nella natura della scienza positivista: la natura non è
un tutto uniforme, omogeneo, certo e quindi definibile una volta per tutte. Anche
perché la conoscenza di un dato (e quindi il metodo d’indagine), 1)da un lato risulta
da una “selezione” fra una “quantità di possibilità” del soggetto e le implicazioni di
questa data conoscenza A risulteranno anch’esse una “selezione” fra diverse
possibilità e non dalla totalità di esse e, inoltre, non può essere escluso che alla
determinazione delle conseguenze di un fenomeno A concorrano elementi da noi
trascurati e che quindi tali conseguenze siano qualcosa di diverso da B; 2) dall’altro
3
W. HEISENBERG, Discussione sulla fisica moderna, tr. it., Einaudi, Torino 1959, p. 142.
3
non si tratta più di costruire deterministicamente un’immagine presunta vera ed
assoluta della natura, ma di costruire un’immagine del nostro libero rapporto con la
natura, anche perché nell’osservazione dei fenomeni interviene un elemento che non
è preso in considerazione: l’interazione fra soggetto ed oggetto che fa venir meno il
sostegno di un sistema di riferimento assoluto e in questo si nota lo studio critico di
Heisenberg sugli “a priori” kantiani, sulle idee platoniche, e soprattutto il rapporto
critico con la fisica di Einstein sulla presunta “oggettività” della natura nella sua
totalità: “Se si può parlare – afferma Heisenberg - di un’immagine della natura
propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta più propriamente di
un’immagine della natura, ma di una immagine del nostro rapporto con la natura.
L’antica suddivisione del mondo in un accadimento obiettivo nello spazio e nel
tempo da una parte, e l’anima, in cui tale accadimento si rispecchierebbe, dall’altra, la
distinzione cartesiana, cioè, tra la res cogitans e la res extensa, non può più servire
come punto di partenza della scienza moderna. Obiettivo di questa scienza è piuttosto
la rete delle relazioni tra uomo e natura, la rete delle connessioni per cui noi, come
esseri viventi dotati di corpo, dipendiamo dalla natura come sue parti, e nello stesso
tempo, come uomini, la rendiamo oggetto del nostro pensiero e della nostra azione.
La scienza non sta più come spettatrice davanti alla natura, ma riconosce se stessa
come parte di quel muto interscambio tra uomo e natura. Il metodo scientifico che
procede isolando, spiegando e ordinando i fenomeni diviene consapevole dei limiti
che gli derivano dal fatto che il suo intervento modifica e trasforma il suo oggetto, dal
fatto cioè che il metodo non può più separarsi dall’oggetto. L’immagine scientifica
dell’universo cessa quindi di essere una vera e propria immagine della natura” 4. E’ il
problema stesso della verità e della validità assoluta di un determinato modello di
spiegazione ad essere sollevato dalla scienza e dall’epistemologia di Heisenberg. Si
tratta allora di individuare leggi sempre più generali che riescano a mettere in
relazione fra loro tutti i possibili fenomeni dell’esperienza con la consapevolezza,
tuttavia, che la ricerca scientifica, è costretta a delimitare, man mano che procede, il
campo della loro validità, riconoscendo, da un lato, che non esiste la neutralità del
soggetto rispetto alla realtà (indeterminazione gnoseologica), anche perchè è sempre
la teoria che precede l’osservazione (contro l’esclusività e le pretese gnoseologiche
del metodo induttivo dei positivisti, aspetto quest’ultimo, ma solo quest’ultimo, che
avvicina Heisenberg all’epistemologia di Einstein); e, dall’altro, neppure l’
oggettività assoluta della realtà rispetto al soggetto (come invece vedremo in
Einstein) e rispetto a se stessa.
3 – La teoria della relatività e il mistero della comprensibilità del
mondo
Albert Einstein (1879-1955. Teoria della relatività ristretta 1905, generale 1916)
Infatti ciò che lega pensiero ed esperienza, soggetto e realtà è un atto di intuizione
che si manifesta attraverso la creazione di “sistemi di concetti”, prodotto arbitrario
dell’uomo: si tratta di una proposta di interpretazione del mondo, in cui (come
4
W. HEISENBERG, Natura e fisica moderna, tr. It., Garzanti, Milano 1985, pp. 54-55.
4
rileverà Popper) può non essere estranea la metafisica o, comunque, suggestioni
extrascientifiche. La verità di un sistema (o teoria scientifica) non è data dalla
necessità-universalità newtoniano-kantiana degli “a priori” (spazio-tempo-categorie),
ma dalla sempre più maggiore completezza con cui il sistema-teoria è possibile
coordinarlo con la totalità dell’esperienza. E ciò perché, secondo Einstein, “il mistero
più grande è che il mondo sia comprensibile, cioè che il pensiero sia in grado di
fornire un ordine alle esperienze sensoriali”5. Per questo, allora, nel procedere
scientifico: “Tutto ciò che è necessario – afferma Einstein – è l’enunciazione di un
gruppo di regole, poiché senza tali regole l’acquisizione della conoscenza nel senso
desiderato sarebbe impossibile. Si può paragonare tale situazione a quella di un
gioco: se pur le regole sono arbitrarie, solo il loro rigore e la loro inflessibile
applicazione rende possibile il gioco. La loro determinazione, tuttavia, non sarà mai
definitiva. Essa risulterà valida solo per un particolare campo di applicazione”6. E’
quindi necessaria l’enunciazione di un gruppo di regole, un sistema di concetti, ma
con la consapevolezza che sono arbitrarie, con la consapevolezza che solo la loro
rigorosa applicazione rende possibile il gioco (conoscenza del mondo) e altrettanto
con la consapevolezza che la loro arbitrarietà e la loro “rischiosità” gnoseologica ci
consente di essere pronti a cambiarle (apre la strada al falsificazionismo per
ammissione dello stesso Popper7) quando il “gioco”, (la realtà-mondo da conoscere)
sia cambiato o i giocatori siano cambiati o gli stessi giocatori vogliano giocare con
nuove più precise e più complesse regole. E ciò non implica la supposizione di un
mondo senza regole e l’inutilità di formulare sistemi di regole. Certo è altrettanto
evidente che non esistono le forme a priori definitive e universali di Kant: spazio e
tempo assumono valore relativo al “gioco” che si sta giocando: il tempo misurato da
qualcuno che si muove alla velocità della luce non è uguale a quello misurato da
qualcun altro che rimanga fermo sulla terra. Egli respinge ogni definizione di
“lunghezza” e di “intervallo temporale” che non sia suscettibile di controllo empirico,
tuttavia le lunghezze e gli intervalli temporali non sono grandezze assolute perché
dipendenti dall’osservatore che le misura, dipendono dalla sua velocità relativa al
corpo su cui si vogliono fare delle misure. Spazio e tempo non sono più due concetti
separati, l’uno dipende dall’altro in un continuo fatto da tre dimensioni spaziali e una
temporale, e inoltre il tempo diventa relativo al sistema di riferimento.
La “relatività” di Einstein non ha nulla a che fare con il “relativismo” filosofico o con
lo scetticismo: è vero che l’aspirazione all’”assoluto”gnoseologico non implica che
sia raggiungibile, ma la consapevolezza della irraggiungibilità non deve distogliere
dalla ricerca scientifica, che procede secondo modelli interpretativi(sistemi di
concetti, gruppo di regole, o selezione di possibilità come in Heisenberg) sempre
pronta a modificarli, cambiarli, specificarli secondo la variabilità interpretativa con
cui si pone il soggetto verso l’oggetto (aspetto che accomuna sostanzialmente
Einstein alla fisica quantistica), ma pure secondo la varietà e l’imprevedibilità con cui
si presenta l’oggetto al soggetto. Aspetto quest’ultimo più consono all’epistemologia
5
A. EINSTEIN, Pensieri degli anni difficili, tr. it., Boringhieri, Torino 1974, p.52.
Ibidem, pp.37-38.
7
K. POPPER, La ricerca non ha fine(Autobiografia intellettuale), tr. it., Armando Editore, Roma 2002, p.51.
6
5
quantistica che a quella einsteiniana, infatti, secondo Einstein, la varietà della realtà
non significa caos, ma semplicità e ordine quasi di stampo neopitagorico: “Senza la
convinzione – sottolinea Einstein - che con le nostre costruzioni teoriche è possibile
raggiungere la realtà, senza convinzione nell’intima armonia del nostro mondo, non
potrebbe esserci scienza. Questa convinzione è, e sempre sarà, il motivo essenziale
della ricerca scientifica. In tutti i nostri sforzi, in ogni drammatico contrasto fra
vecchie e nuove interpretazioni riconosciamo l’eterno anelo d’intendere, nonché
l’irremovibile convinzione nell’armonia del nostro mondo, convinzione ognor più
rafforzata dai crescenti ostacoli che si oppongono alla comprensione”8. La
concezione della natura di Einstein è, quindi, realistica, in quanto considera la natura
un insieme di leggi ordinate, omogenee e invarianti indipendenti dall’osservatore,
mentre lo sono lo spazio e il tempo dei fenomeni relativi al moto in cui si trova un
determinato osservatore, per cui spazio e tempo sono le variabili di ogni sistema di
riferimento ma non la natura. Bisogna quindi scoprire le leggi della natura, anzi per
E. un’unica legge che governa la realtà e un’unica legge di lettura di tutta la realtà
nella sua oggettività (aspirazione metafisico-positivistica che diventerà il cruccio
epistemologico irrisolto della ricerca e di tutta la vita di Einstein): “Io credo –
afferma Einstein – che tutto obbedisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive
che cerco di cogliere per via furiosamente speculativa. Lo credo fermamente, ma
spero che qualcuno scopra una strada più realistica di quanto non abbia saputo fare io.
Nemmeno il grande successo iniziale della teoria dei quanti riesce a convincermi che
alla base di tutto vi sia la casualità”9. Per cui la relatività di Einstein rimane una teoria
deterministica ed Einstein è, per certi aspetti e quasi paradossalmente, uno degli
ultimi metafisici del determinismo: “Tutto è determinato[…] da forze sulle quali non
abbiamo controllo alcuno. Ciò vale per l’insetto come per le stelle. Uomini, vegetali e
polvere cosmica: tutti danziamo alla melodia di una musica misteriosa, suonata in
lontananza da un Pifferaio invisibile”.10 E ciò contro la presunta incompletezza, la
probabilità e il procedere statistico della fisica quantistica: “Io sono fermamente
convinto – asserisce Einstein – che il carattere essenzialmente statistico della teoria
quantistica contemporanea dev’essere attribuito unicamente al fatto che essa opera
con una descrizione incompleta dei sistemi fisici. A me sembra più naturale pensare
che una formulazione adeguata delle leggi dell’universo comporti l’uso di tutti gli
elementi concettuali necessari per una descrizione completa. Inoltre, non può certo
meravigliare che, usando una descrizione incompleta, da questa descrizione si
possano ottenere (essenzialmente) solo affermazioni di carattere statistico. Se dovesse
essere possibile avvicinarsi ad una descrizione completa, le leggi dovrebbero
probabilmente rappresentare altrettante relazioni fra tutti gli elementi concettuali di
questa descrizione, le quali non avrebbero in sé nulla a che fare con la statistica”11. In
tale contesto epistemologico si inserisce, allora, anche la specifica critica, di natura
EINSTEIN-INFELD, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, Torino 1965, p.300.
A. EINSTEIN, Lettere a Max Born del 4 dicembre 1926, in: A. EINSTEIN-M. BORN, Scienza e vita. Lettere 19161955, Einaudi, Torino 1973.
10
Da una dichiarazione di Einstein al “Saturday Evening Post” del 24 ottobre 1929. Cfr. R.W.Clark, Einstein, Rizzoli,
Milano 1976.
11
Einstein, scienziato e filosofo (a cura di P.A.Schlipp), Einaudi, Torino 1958, p.62.
8
9
6
metafisica, di Einstein ad Heisenberg ed in generale alla epistemologia della fisica
quantistica: in una lettera a Max Born conferma di considerare “degna di rispetto” la
meccanica quantistica, “ma una voce interiore mi dice che non è la chiave del
mistero. La teoria dà grandi frutti, ma non ci avvicina di sicuro ai segreti del Grande
Vecchio. In ogni caso sono convinto che Dio non giochi a dadi col mondo”12 e “Se
proprio ci sono costretto posso anche immaginarmi che Dio abbia creato un mondo
privo di leggi fisiche rigorose: il caos, insomma. Ma che ci siano leggi statistiche con
delle soluzioni determinate, cioè leggi che costringano Dio a lanciare i dadi in ogni
singola occasione, questo lo trovo molto sgradevole”.13
4 - Conclusioni
La natura è in qualche modo intelligibile, forse senza tale convinzione la scienza non
sarebbe possibile, è tuttavia ingenuo voler ritenere che la conoscenza scientifica
possa avere un valore in qualche modo esaustivo anche in ambiti limitati. Essa
procede per modelli che ci permettono di cogliere qualcosa di reale e di profondo
della realtà in cui viviamo e i modelli possono essere resi sempre più
gnoseologicamente adeguati rispetto ai nuovi orizzonti che la realtà incessantemente
e inusitatamente ci pone di fronte, ma sono appunto modelli ermeneutica e non
possono pretendere di raggiungere una conoscenza esauriente che, tra l’altro, potrà
anche dirsi definita ma non definitiva.
Per cui la scienza quindi è certezza, ma parziale: la scelta di un punto di vista
equivale a scegliere una particolare misura da fare con un apparato, e questo ci dà
sempre misure affidabili. Ciò non toglie che la realtà possa essere molto più ricca del
singolo punto di vista sia perché l’oggetto è a molte facce ( e un evento può essere
letto da versanti diversi già in ambito scientifico, ma, accanto ad una lettura
scientifica ci può essere una lettura metafisica, esistenziale, estetica…), sia perché
l’oggetto può essere celato in un contesto variabile, la cui variabilità molto a che fare
con ciò che è il soggetto e la sua visione della vita, ma: “Se ogni oggetto è così ricco
di punti di vista, per caso esso non è una nostra rappresentazione, una nostra
costruzione che varia a seconda della misura scelta (cioè della teoria a cui lo
assoggettiamo)? […] La migliore risposta mi sembra quella di un biologo
evoluzionista: la scimmia che non ha percezione obiettiva di dov’è il ramo dell’albero
non lascia eredità genetica, perché sbaglia la presa e si spiaccica al suolo. Allo stesso
modo, un essere umano che ritenesse il mondo una propria costruzione, non lascia
eredi perché nell’attraversare la strada non valuta aspetti obiettivi come la velocità e
la posizione dell’auto. E con questa affermazione di realismo della scienza credo di
poter concludere, facendo miei i seguenti versi di T.S.Eliot (Choruses from The
Rock):
Where is the wisdom
12
Ibidem, p.62.
Affermazione rivolta a J.Franck. Cfr. A.P.French (a cura di), Einstein: A Centenary Volume, Harvard University
Press, 1979, p. 37.
Pare che Niels Bohr (il principale esponente della scuola di Copenaghen), una figura particolarmente apprezzata da
Einstein, replicasse con tono irritato: “Lei deve smetterla di dettare a Dio quello che deve fare”
13
7
We have lost in knowlwdge?
Where is the knowledge
We have lost in information?”.14
Perciò la realtà che l’uomo incontra come dato gli si presenta di una ricchezza
misteriosamente inesauribile (Einstein), che richiede metodi di affronto diversi per
evitare pericolosi riduzionismi(Heisenberg). Alla pluralità di aspetti che la realtà
naturale presenta possono essere applicate forme diverse di conoscenza per
conseguire risultati “veri”, non in modo assoluto, ma relativamente (Planck) appunto
a quegli aspetti particolari, rilevati da ogni specifica disciplina, perché : “I limiti di un
discorso scientifico non significano che non c’è niente altro da dire, ma che accanto
ad un discorso fisico si può collocare legittimamente un discorso metafisico o un
discorso sapienziale […] in quanto un evento è sempre più ricco dei simboli
concettuali entro cui si tenta di imprigionarlo: c’è posto per diversi modi di lettura
perché approcci diversi usano strumenti diversi”15. “Ecco perché – rileva Agazzi – le
leggi fisiche sono sempre solo ‘approssimativamente vere’ in natura: ciò significa
semplicemente che esse sono ‘rigorosamente vere’ soltanto in quel determinato
modello ideale che si è costruito ritagliando e diffalcando il concreto nel modo che si
è detto, ma ogni situazione concreta è sempre più o meno diversa da quella
idealizzazione”16, anche perché: “Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne
sogni la tua filosofia, Orazio”(W. Shakespeare, Amleto 1, scena 5).
Dov’è la saggezza / che abbiamo perso nella conoscenza? / Dov’è la conoscenza / che abbiamo perso
nell’informazione? F.T.ARECCHI, La descrizione scientifica: modello o metafora del reale?, Nuova Secondaria, 15
febbraio 1992, 6.
15
F.T.ARECCHI-I.ARECCHI, I simboli e la realtà, Jaca Book, Milano 1990, p. 34.
16
E.AGAZZI, Lo statuto epistemologico delle scienze sperimentali, Nuova Secondaria, 15 febbraio 1989, 6.
14
8