Management Pubblico Modulo II – Prof. Francesco Merloni APPROFONDIMENTI PER LO STUDIO INDIVIDUALE IL FASCICOLO CONTIENE I SEGUENTI SAGGI/ARTICOLI/DOCUMENTI: • Guido Sirianni, PROFILI COSTITUZIONALI. UNA NUOVA LETTURA DEGLI ARTICOLI 54, 97 E 98 DELLA COSTITUZIONE • Bernardo Giorgio Mattarella, DOVERI DI COMPORTAMENTO • Pietro Barrera, RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE DEI DIPENDENTI PUBBLICI • Francesco Merloni, INCARICHI SUCCESSIVI ALLA CESSAZIONE DELLA FUNZIONE (i saggi sono tratti dal volume “La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, a cura di F. Merloni – L. Vandelli, Passigli editore, di imminente pubblicazione per i Quaderni di Astrid”) • Enrico Carloni , LA “CASA DI VETRO” E LE RIFORME. MODELLI E PARADOSSI DELLA TRASPARENZA AMMINISTRATIVA (in Diritto Pubblico, 2009, n. 3) • Commissione indipendente per la Valutazione, l’Integrità e la Trasparenza CIVIT, Delibera n. 105/2010_ Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità • Francesco Merloni, COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI NEL PLURALISMO AMMINISTRATIVO • Benedetto Ponti, TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI (gli ultimi due saggi sono tratti dal volume “Il regime dei dati pubblici. Esperienze europee e ordinamento nazionale”, a cura di B. Ponti, Maggioli, 2008) Guido Sirianni PROFILI COSTITUZIONALI. UNA NUOVA LETTURA DEGLI ARTICOLI 54, 97 E 98 DELLA COSTITUZIONE 1. L’etica pubblica nella Costituzione repubblicana La diffusione della corruzione, per le sue caratteristiche qualitative e quantitative, evidenzia uno stato di sofferenza che coinvolge l’intero assetto istituzionale. È dunque naturale di cercare nella Costituzione una guida capace di orientare le condotte pubbliche e private volte a contrastare efficacemente i processi corruttivi. La Carta costituzionale non si sottrae al problema della etica pubblica, ma lo affronta in modo originale, nella prospettiva di una democrazia pluralista. L’etica pubblica non viene infatti dalla Carta assunta, in una prospettiva di stampo liberale, come una mera condizione di sistema presupposta o immanente, pre-giuridica e pre-costituzionale, né viene considerata come il prodotto automatico della osservanza delle leggi, adeguatamente sanzionato. Parimenti è del tutto estranea alla Carta ogni concezione autoritaria od organicistica di una etica pubblica scaturente dall’abbattimento dei confini tra privato e pubblico, evocatrice di funesti scenari di «Stato etico». Nella prospettiva repubblicana, l’ordinamento democratico non può né disinteressarsi, né imporre una etica pubblica, ma deve tuttavia promuoverla, assumendola come un valore essenziale sociale e costituzionale di responsabilità personale, integrato nel sistema dei valori costituzionali, e conferendo ad essa la forma, variamente atteggiata, del dovere civico. Lo snodo del programma di promozione dell’etica pubblica repubblicana, considerata per l’aspetto che qui più interessa, è rappresentato dall’art. 54 che, dopo aver prescritto ai cittadini (ovviamente, ed a maggior ragione, anche ai cittadini investiti di funzioni pubbliche) il dovere di fedeltà alla Repubblica, e di osservarne la Costituzione e le leggi), richiede ulteriormente (comma secondo) a coloro cui sono affidate funzioni pubbliche 129 «il dovere di adempierle con disciplina ed onore» e di prestare giuramento, nei casi stabiliti dalla legge. Tale precetto fondamentale, indirizzato ai funzionari, intesi in senso allargato come coloro ai quali sono affidate funzioni pubbliche, non resta isolato, ma si integra con una serie di precetti costituzionali ulteriori: in particolare, la diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici (art. 28); il dovere dei pubblici impiegati di essere all’esclusivo servizio della nazione (art. 98): il precetto per cui i pubblici uffici vanno organizzati in modo da assicurare il buon andamento e la imparzialità dell’amministrazione (art. 97). L’etica pubblica viene dunque promossa sia sotto il profilo soggettivo (la condotta personale prescritta agli agenti) sia sotto quello organizzativo (la organizzazione pubblica non deve fare velo alla responsabilità, intesa in senso lato, degli agenti, ma viceversa, deve fondarsi su tale responsabilità), nella prospettiva democratica di un ordinamento personalisticamente inteso nel quale sono i cittadini che governano ed amministrano la collettività. 2. Le letture riduzionistiche del dovere di disciplina e onore Il dovere di disciplina ed onore, pur così solennemente affermato dalla Carta, non ha tuttavia ricevuto una considerazione ed una attenzione adeguata, come confermano sia la poca attenzione della giurisprudenza, sia la frammentarietà – pur con importanti eccezioni – della riflessione dottrinaria. A ciò hanno concorso più circostanze. Certamente un ruolo preponderante ha avuto il peso di una tradizione giuspositivistica, propensa a relegare ogni dimensione etica nell’ambito pregiuridico. Forti remore sono venute dalla preoccupazione di segno garantista che una qualificazione giuridicamente pregnante ed espansiva del dovere di disciplina ed onore, potesse aprire il varco a limitazioni del pieno godimento dei diritti riconosciuti ai pubblici dipendenti nella loro qualità di cittadini, e soprattutto a discriminazioni ideologiche, in una prospettiva di «democrazia protetta» estranea all’impianto della Costituzione italiana. Il concreto prevalere, poi, nella vita politico-istituzionale, di un modello di democrazia che riservava ai partiti politici un forte, se non debordante, ruolo di mediazione, ha infine alimentato un oggettivo disinteresse per la prospettiva di una maggiore responsabilizzazione individuale degli agenti pubblici, in una realtà dominata da apparati e attori collettivi. Tali elementi hanno spinto verso letture riduzioniste, che hanno di fatto spento le potenzialità innovative compresse nel precetto dettato dall’art. 54, co. 2. Nella lettura prevalente (Mortati, Barile), il dovere si risolve in un precetto etico, in un monito, certamente rilevante, ma di dubbia valenza giuridica, o in una sorta di poco utile «metadovere» riassuntivo di doveri che trovano tuttavia in altre norme, costituzionali ed ordinarie, la loro fonte ed il loro limite. In ogni caso, nella ricostruzione del significato dei termini di «disciplina» ed «onore» si è optato (Lombardi, Ventura) per soluzioni di sostanziale continuità rispetto ai tradizionali assunti del diritto pubblico: il dovere, quando riferito ai dipendenti pubblici, non farebbe che confermare la responsabilità disciplinare e il dovere di fedeltà all’amministrazione prescritti nell’ordinamento del pubblico impiego (oltre che la responsabilità disciplinare, la norma avrebbe addirittura costituzionalizzato un assetto organizzativo di tipo gerarchico). Ma, anche quando si indirizza al personale politico, il dovere non aggiungerebbe nulla di nuovo, ribadendo, per un verso, un generico quanto innocuo precetto di onore, e per l’altro, la soggezione alle blande prescrizioni disciplinari poste a presidio del buon funzionamento di collegi ed assemblee. Isolata è viceversa rimasta la lettura secondo la quale il dovere di disciplina ed onore rappresenterebbe una fedeltà qualificata (Lombardi), specificativa, per i funzionari, del generale dovere di fedeltà alla Repubblica, destinata a ricevere applicazione da parte del legislatore. Egualmente senza sviluppi diretti risulta la prospettiva che riconosce nell’art. 54, co. 2, l’arco di volta di un nuovo disegno organizzativo, radicalmente opposto a quello della tradizione, incardinato non più sulla figura dell’organo, ma su quella dell’ufficio e del funzionario, inteso come colui che adempie una funzione pubblica disciplinatamente e cioè secondo regola, nell’ambito dell’ufficio (Marongiu). 131 3. La «riscoperta» dell’articolo 54 Vari elementi inducono a riconsiderare il precetto di disciplina ed onore, sottraendolo ad un lungo oblio. A fronte del dilagare di fenomeni corruttivi, di malamministrazione e di malcostume, ricompare con crescente frequenza, nel dibattito pubblico l’evocazione dell’art. 54, comma secondo, ogni qual volta si intende richiamare l’esigenza che la condotta di coloro che sono investiti di funzioni pubbliche, si ispiri a regole di decoro adeguate alla fiducia in essi riposta, che vanno oltre l’ ossequio formale ed esteriore alle leggi. La dottrina, per parte sua, dimostra una rinnovata attenzione al tema (v., da ultimo, i contributi raccolti in F. Merloni e R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Franco Angeli, 2009). La «riscoperta» del dovere di disciplina ed onore acquista un senso tanto più pregnante se essa non si esaurisce nel ribadire il valore etico e civile del precetto, cosa oggettivamente incontestabile, o nel riferire, correttamente, al dovere di disciplina ed onore, le prescrizioni di vario ordine ispirate da un intento di moralizzazione della vita pubblica. La sfida sta nel verificare se questo lascito costituzionale, dimenticato da decenni, può, una volta liberato dalla polvere e dai pregiudizi che lo hanno coperto, ritrovare la sua funzione precettiva e di indirizzo, in un contesto ordinamentale che, nel frattempo, ha subito grandi trasformazioni nella direzione del decentramento e della autonomia. La strada in questa direzione potrebbe essere meno certa che in passato: i pregiudizi giuspositivistici si sono stemperati; le diffidenze garantistiche sono venute meno e vengono rimpiazzate dalla preoccupazione di porre rimedio alla crisi della responsabilità; è svanita ogni pur relativa fiducia nella capacità dei partiti di ergersi come garanti dell’etica del personale politico. Alla ricerca di punti fermi, si può in primo luogo ritenere superata la questione relativa alla natura giuridica o meno del dovere di disciplina ed onore. Esclusa la possibilità di considerarlo come una mera ridondanza del testo costituzionale, resta piuttosto da chiarire quale sia la portata del principio in questione. Parimenti da respingere pare la lettura che riconosce nel dovere una mera sintesi verbale di altri doveri ed altri principi dettati da altri precetti. In realtà tra l’art. 54, co. 2, e i precetti rivolti ora 132 agli uffici, ora ai funzionari, dagli articoli 28, 97, 98 della Costituzione, esiste una indubbia continuità, nel senso che ciascuno di essi presuppone ed implica l’esistenza degli altri (il pubblico impiegato non può essere all’esclusivo servizio della nazione se non esercita le sue funzioni con disciplina ed onore e se l’ufficio in cui opera non è ordinato in modo da assicurare buon andamento ed imparzialità.). Questa circostanza non autorizza a ritenere che ciascuno di tali principi possa essere considerato superfluo, perché immanente agli altri. Al contrario, si potrebbe sostenere che l’art. 54, co. 2, anche in ragione della sua collocazione nell’ambito dei rapporti politici, e per la sua consequenzialità logica rispetto al principio di eguaglianza dei cittadini nell’accesso agli uffici ed alle cariche elettive, sancito dall’art. 51, possa rappresentare il riferimento unificante dei disparati precetti costituzionali concernenti i doveri e le responsabilità dei funzionari. Quale è, dunque il contenuto precettivo del dovere di disciplina ed onore? I termini, per la loro vaghezza, lasciano all’interprete uno spazio fin troppo esteso. Nell’intento di restringere il campo, pare opportuno notare che, se il dovere di disciplina ed onore si indirizza, per inequivoca volontà del Costituente, tanto ai funzionari onorari, quanto ai pubblici impiegati, il contenuto del medesimo dovere non può mutare o essere diversamente graduato per intensità, a seconda che esso riguardi gli uni o gli altri, come viceversa è stato prospettato nelle ricostruzioni dottrinarie prevalenti, ma deve restare sempre il medesimo. Se infatti, rompendo una tradizione di netta separazione, governanti e servitori pubblici assumono la nuova comune veste di cittadini-funzionari, ciò corrisponde alla precisa volontà di chiedere ad essi una pari responsabilità, e soprattutto una responsabilità che si gioca non più all’interno degli ordinamenti d’appartenenza, ma nel rapporto con la collettività. La «disciplina» evocata dall’art. 54, co. 2, non può dunque essere appiattita nella responsabilità disciplinare interna a rapporti più o meno intensi di supremazia speciale. Non avrebbe tuttavia molto senso sostituire alla responsabilità disciplinare altri doveri ed altri obblighi di contenuto specifico, compilandone una sorta di elenco. Il dovere, sebbene si indirizzi alle persone dei funzionari, trova il suo nucleo nella affermazione di un principio che 133 deve essere sviluppato negli ordinamenti attraverso una catena di deliberazioni. Riconsiderata in tale luce, la «disciplina» assume il senso più arioso di regolarità, perizia, competenza, apprendimento (v. ad vocem S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, 1966). Essa, come suggerito da G. Marongiu, è «dovere obbiettivo ed insieme corredo personale delle attitudini per l’esercizio del dovere». In ultima analisi, ciò che la Costituzione chiede ai funzionari, è di essere capaci ed onesti. Non è cosa da poco: esigere capacità ed onestà, in cambio dell’affidamento ricevuto, è qualcosa che va molto oltre il dovere di rispettare le leggi. Il dovere di disciplina ed onore, inteso in questi termini, si configura come un principio direttivo indirizzato principalmente al legislatore, da declinarsi in ogni momento del rapporto che unisce il cittadino e l’ufficio, e non solo limitatamente all’esercizio della funzione: quindi nell’accesso agli uffici, la cui regolazione deve corrispondere all’esigenza di ammettere i capaci e gli onesti, nella condotta personale e, entro certi limiti, anche nei comportamenti immediatamente successivi alla cessazione della funzione. Tale principio dovrebbe ovviamente trovare composizione e bilanciamento con altri principi, connessi ed opposti, assumendo carattere parametrico nel giudizio di legittimità delle leggi che disciplinano l’accesso alle cariche e lo stato giuridico dei funzionari. In conclusione, la «riscoperta» dell’art. 54, co. 2, della Costituzione, essenziale per ridefinire in termini unitari una nozione di funzione pubblica, nell’ambito di un assetto organizzativo pluralista e federalistico passa per una fase destruens relativamente facile, diretta a sgomberare il campo da approcci che hanno in passato relegato la norma in una condizione di marginalità, ed una fase construens molto più difficile ed incerta, che richiede un ruolo attivo del legislatore, della giurisprudenza e della dottrina, in un percorso simile a quello che ha consentito, in epoca recente, la emersione del principio di imparzialità e buon andamento. 134 Bernardo Giorgio Mattarella DOVERI DI COMPORTAMENTO 1. Introduzione Una volta che un cittadino ha assunto una carica pubblica, egli è soggetto a una serie di regole di comportamento, che nel loro complesso costituiscono esplicazione della previsione fondamentale dell’art. 54 della Costituzione: i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore. Questa previsione, nella sua semplicità e con un linguaggio ormai un po’ fuori moda, è importante, perché distingue i funzionari pubblici, per un verso, dalla generalità dei cittadini e, per un altro verso, dai lavoratori privati. Dal primo punto di vista, tutti i cittadini – recita il primo comma dello stesso articolo – devono rispettare la Costituzione e le leggi: non è poco ma, per i funzionari pubblici, non è tutto; i funzionari pubblici devono fare qualcosa di più, devono mettere una particolare cura nell’adempimento della funzione loro affidata, devono quasi essere di esempio per gli altri cittadini. Dal secondo punto di vista, la previsione costituzionale fa sì che i doveri dei funzionari pubblici non derivino solo da accordi, come i contratti di lavoro, ma anche da determinazioni unilaterali contenuti in atti come le leggi e i codici di comportamento, che danno contenuto all’obbligo di comportarsi con disciplina e onore: non che i lavoratori privati non debbano comportarsi con disciplina e onore, ma non hanno un obbligo costituzionale di farlo, i loro doveri derivano solo dai loro contratti di lavoro. L’art. 54 offre la base per la definizione degli speciali doveri dei funzionari pubblici. Altre norme della Costituzione ne ispirano il contenuto. Tra esse, in primo luogo, quelle che impongono a questi soggetti di servire onestamente la Nazione. Questo termine è usato in tre articoli della Costituzione: due di questi tre articoli servono ad assoggettare le due grandi categorie di funzionari 225 pubblici – i politici e i dipendenti – al servizio dei cittadini. A norma dell’art. 67, ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. A norma dell’art. 98, «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Entrambe le norme mirano a far sì che la condotta dei funzionari pubblici, elettivi o di carriera che siano, sia ispirata alla tutela dell’interesse generale e non alla tutela di interessi di parte. Queste previsioni, quindi, servono a bilanciare altre previsioni costituzionali, che potrebbero altrimenti giustificare parzialità e privilegi: per i politici, l’appartenenza a partiti politici non deve far perdere di vista il dovere di servire tutti i cittadini; per gli impiegati, il principio della responsabilità ministeriale non deve pregiudicare quello di imparzialità. Se il primo dovere dei funzionari pubblici è quello di servire i cittadini, non possono stupire previsioni come quella dell’art. 2, co. 1 e 5, del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, a norma delle quali il dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire esclusivamente la Nazione con disciplina ed onore e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione e il comportamento del dipendente deve essere tale da stabilire un rapporto di fiducia e collaborazione tra i cittadini e l’amministrazione. Nei rapporti con i cittadini, egli dimostra la massima disponibilità e non ne ostacola l’esercizio dei diritti. Tutte le regole di comportamento, in effetti, possono essere ricondotte all’idea di servizio a favore dei cittadini. Occorre, però, esaminare più nel dettaglio le regole di comportamento delle diverse categorie di funzionari pubblici. Queste regole sono poste da molti atti di vario tipo e hanno ambiti di applicazione diversi. Il modo migliore per esaminarle è considerare i diversi problemi ed esigenze, che esse mirano a risolvere o a soddisfare. Ciò consentirà di verificare come le stesse esigenze si 226 pongono spesso in modo analogo, e a volte in modo diverso, per le diverse categorie di funzionari. Nelle pagine che seguono, dunque, si esamineranno dapprima i diversi problemi che si pongono nella definizione delle regole di comportamento dei funzionari pubblici, valutando il modo in cui essi sono risolti nell’ordinamento vigente. Successivamente, si proporrà un bilancio della disciplina vigente, considerando i diversi atti normativi in cui le regole di comportamento sono contenute. Saranno considerate le principali categorie di funzionari pubblici: i politici, gli altri funzionari onorari, i dipendenti pubblici e, in particolare, i magistrati. 2. L’adeguatezza dell’impegno Una prima esigenza, che le regole di condotta dei funzionari pubblici devono tendere a soddisfare, è quella di assicurare un adeguato impegno, in termini di tempo e di energie, da parte del funzionario pubblico nello svolgimento dei compiti inerenti alla sua funzione. Questa esigenza trova una enunciazione generale nell’art. 2, co. 3, del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici: Nel rispetto dell’orario di lavoro, il dipendente dedica la giusta quantità di tempo e di energie allo svolgimento delle proprie competenze, si impegna ad adempierle nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini e assume le responsabilità connesse ai propri compiti. Ma, naturalmente, essa non riguarda solo i dipendenti, ma anche i funzionari onorari, come i titolari di cariche politiche. L’obiettivo dell’impegno adeguato può essere conseguito con diversi strumenti. Per i politici, lo strumento principale è l’incompatibilità, istituto che può servire a diversi scopi: oltre che a questo, in particolare, può servire a prevenire il conflitto di interessi. L’incompatibilità può sussistere tra diverse cariche pubbliche o tra cariche pubbliche e private. Come è noto, nel nostro ordinamento la relativa disciplina è risalente e inadeguata, in particolare per quanto riguarda i parlamentari: il loro elevato tasso di assenteismo dipende non solo dalla dinamica dei rapporti tra Governo e Parlamento, che può dare una sensazione di inutilità dei lavori parlamentari, ma anche dalla quantità di ulteriori impegni politici e professionali dei par227 lamentari stessi. Mancano norme che regolino la possibilità dei parlamentari di svolgere attività imprenditoriali e professionali. Simili norme dovrebbero essere equilibrate e non troppo restrittive, per evitare di allontanare persone capaci dalla vita politica, ma dovrebbero comunque assicurare un adeguato impegno nello svolgimento dell’attività politica. Vi sono, invece, norme che limitano la possibilità di rivestire contemporaneamente diverse cariche politiche, per esempio quella di parlamentare e di sindaco: ma si tratta di norme spesso violate, con la benedizione degli organi parlamentari di controllo, a cui spetterebbe di farle rispettare. Sarebbe utile, quindi, da un lato, aggiornare la disciplina delle incompatibilità dei parlamentari (e analogo discorso si potrebbe fare per le Regioni e per gli enti locali, nel quadro delle rispettive autonomie); dall’altro, affidare il controllo sul suo rispetto a un organo estraneo alla sfera politica e non governato da maggioranze politiche (per i membri del Parlamento potrebbe ben trattarsi della Corte costituzionale, secondo una proposta spesso avanzata). Migliore di quella relativa ai parlamentari, anche se incompleta sotto il profilo dei controlli e delle sanzioni, è la disciplina delle incompatibilità dettata per i membri del Governo dalla legge n. 215 del 2004. Si tratta della nota legge Frattini sul conflitto di interessi, legge fasulla e votata all’inefficacia per quanto riguarda il conflitto di interessi, ma utile per la disciplina dell’incompatibilità. Si tratta, peraltro, di una disciplina dettata allo scopo di preservare l’indipendenza dei ministri più che allo scopo di assicurarne un impegno adeguato. Il Parlamento non si preoccupa molto di questo problema, con riferimento ai propri componenti, e non se ne è preoccupato molto neanche per i componenti dei consigli e delle giunte regionali. I principi dettati dalla legge n. 165 del 2001, emanata in attuazione dell’art. 122 della Costituzione, infatti, sono molto ragionevoli, in generale e – in particolare – con riferimento all’incompatibilità. Ma anche questa disciplina dell’incompatibilità è volta a far sì che le leggi regionali assicurino l’indipendenza dei politici regionali, piuttosto che l’adeguatezza del loro impegno. Eppure, come per i parlamentari nazionali, ci si dovrebbe almeno porre il problema di assicurare che per i consiglieri e gli assessori regionali la relativa carica sia l’impegno primario, e non un titolo onorifico o una 228 prebenda. Naturalmente, possono ben essere le singole Regioni a farsi carico di questa esigenza. Lo stesso può dirsi per il personale politico degli enti locali: la pur analitica disciplina delle incompatibilità, contenuta nel testo unico degli enti locali (decreto legislativo n. 267 del 2000) è finalizzata a garantirne l’indipendenza da interessi esterni (e in questa chiave se ne dirà in seguito) e non a imporre loro un certo impegno. In questo caso, peraltro, la scelta legislativa appare ragionevole: sia perché nella maggior parte degli enti locali l’impegno degli amministratori non è tale da escludere altre attività lavorative (né lo è di regola la loro retribuzione), sia perché gli enti di maggiori dimensioni, per i quali il problema può porsi, possono ben provvedere con i propri statuti e regolamenti. Non a caso, il testo unico contempla sia l’ipotesi di aspettativa, sia i permessi retribuiti per gli amministratori locali che abbiano rapporti di lavoro dipendente. Per quanto riguarda gli altri funzionari onorari, è difficile fare un discorso unitario, per via della loro eterogeneità. Molti incarichi in enti e organi pubblici costituiscono esplicazione di attività professionale, quindi l’esclusione di altre attività professionali è difficilmente proponibile. Per altri, come quelli in molte autorità indipendenti, vi sono divieti di svolgimento di altre attività, che sembrano dettati più a tutela dell’indipendenza (per prevenire i conflitti di interessi) che dell’efficienza. Colpisce, però, l’eterogeneità della disciplina, anche tra diverse autorità indipendenti: si confronti, per esempio, la disciplina rigorosa dettata per i componenti delle autorità di regolazione dei servizi pubblici, quella opposta dettata per i componenti della Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e quella intermedia dettata più recentemente per la Commissione per la valutazione, l’integrità e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche. Occorrerebbe estendere alcune regole essenziali di incompatibilità, già previste per alcune autorità indipendenti, alle altre. Sarebbe ragionevole anche stabilire una correlazione tra retribuzione e impegno nella carica, richiedendo un impegno esclusivo per gli incarichi con retribuzioni al di sopra di un certo limite. Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, il problema è normalmente risolto vietando ulteriori attività lavorative e richiedendo la 229 preventiva autorizzazione per le attività occasionali: nel pubblico impiego, la regola è quella dell’esclusività, salvo le ipotesi marginali di impiego a tempo determinato e categorie particolari, come quella dei professori universitari a tempo definito, che rinunciano a una quota della propria retribuzione in cambio della libertà di svolgere un’attività professionale. Si tratta di un sistema alquanto rigido, che comporta costi burocratici non irrilevanti in termini di procedure di autorizzazione e controllo. Ma si tratta forse di una scelta necessaria, in difetto di meccanismi incentivanti volti a promuovere efficacemente l’impegno dei dipendenti: esso potrebbe essere reso più elastico, lasciando ai dipendenti maggiore libertà nell’uso del proprio tempo libero, se il sistema di valutazione e di premi all’efficienza garantisse comunque un impegno adeguato da parte dei dipendenti. Per quanto riguarda, in particolare, i magistrati, il problema si pone raramente, perché le norme – a tutela della loro indipendenza – impongono un regime molto restrittivo, che rende molto improbabile che le loro altre attività, eventualmente autorizzate, richiedano un impegno tale da pregiudicare lo svolgimento delle loro funzioni. Al contrario, le attività spesso svolte, come quella scientifica e un limitato impegno didattico, possono avere effetti positivi su di esso. Un’eccezione riguarda probabilmente alcune ipotesi relative ai magistrati amministrativi, il cui impegno didattico ed editoriale assume a volte dimensioni tali da far dubitare di quale sia la loro attività prevalente e da temere l’aggiramento del divieto di svolgere attività d’impresa. Sebbene la ricchezza di esperienze dei suoi componenti sia sempre stata un punto di forza della magistratura ordinaria, servirebbero regole più stringenti e maggiore vigilanza sul loro rispetto. 3. L’efficienza Naturalmente, non basta dedicare la giusta quantità di tempo ed energie allo svolgimento della propria funzione: occorre anche impiegarli proficuamente, svolgendo la funzione stessa in modo efficiente. L’efficienza dei politici nello svolgimento delle loro funzioni, per ovvie ragioni, non è facilmente misurabile, né è bene che sia 230 misurata da soggetti diversi dagli elettori, anche perché i parametri utilizzati – per esempio il numero di proposte di legge o di mozioni presentate – sono per lo più ingannevoli. Ci sono, naturalmente, regole di comportamento inerenti allo svolgimento dei lavori degli organi politici (per esempio, leggere ciò che si firma) e ai rapporti con gli elettori (per esempio, rispondere alle lettere), ma non è certo il caso di controllare il loro rispetto. È giusto, però, che i politici stessi, di propria iniziativa o su impulso dei partiti, informino gli elettori dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, anche in relazione ai propri programmi elettorali. Dove non bastano i rapporti personali, la rete internet offre molti strumenti per farlo: siti, blog, newsletters e simili. Da questo punto di vista, è auspicabile che siano i partiti politici a chiedere ai propri rappresentanti di adottare simili strumenti di trasparenza e ad offrire loro il proprio supporto, in modo che l’efficienza dei politici sia, se non misurata, apprezzata dagli elettori. Lo stesso ragionamento può valere per molti altri funzionari onorari, il cui operato può essere valutato dai soggetti che li eleggono o nominano, oltre agli strumenti di controllo a volte previsti per i singoli organi, come la decadenza per la mancata adozione di determinati atti o per la ripetuta assenza alle riunioni di un organo collegiale. Per altre categorie di funzionari pubblici, come quelli legati da un rapporto di lavoro con un’amministrazione, l’attività è meno libera e l’efficienza è più facilmente declinabile in norme organizzative e anche in norme di condotta, come quelle contenute nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che richiedono al dipendente innanzitutto di essere realmente al servizio dei cittadini: il dipendente limita gli adempimenti a carico dei cittadini e delle imprese a quelli indispensabili e applica ogni possibile misura di semplificazione dell’attività amministrativa, agevolando, comunque, lo svolgimento, da parte dei cittadini, delle attività loro consentite, o comunque non contrarie alle norme giuridiche in vigore (art. 2, co. 6). Ulteriori previsioni sono più genericamente volte a promuovere l’efficienza: 231 salvo giustificato motivo, non ritarda né affida ad altri dipendenti il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spettanza; nel rispetto delle previsioni contrattuali, il dipendente limita le assenze dal luogo di lavoro a quelle strettamente necessarie (art. 10, co. 1 e 2). Si tratta di previsioni che traducono in norme di comportamento individuale principi e regole relativi all’organizzazione e al funzionamento delle amministrazioni. Poiché, poi, il buon funzionamento delle amministrazioni richiede il rispetto delle rispettive competenze e dei relativi principi costituzionali, è altresì stabilito che, nello svolgimento dei propri compiti, il dipendente rispetta la distribuzione delle funzioni tra Stato ed enti territoriali. Nei limiti delle proprie competenze, favorisce l’esercizio delle funzioni e dei compiti da parte dell’autorità territorialmente competente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati (art. 2, co. 7). A differenza di quello dei politici, il rendimento dei dipendenti pubblici può non solo essere declinato in norme più specifiche, ma anche soggetto a controlli, il cui esito può avere rilievo su diversi piani, compreso quello della retribuzione e della responsabilità disciplinare, soprattutto a seguito della riforma operata dal decreto legislativo n. 150 del 2009. Il Codice di comportamento, sia pure con espressioni che andrebbero aggiornate a quelle usate da questo decreto, si preoccupa di tradurre anche questa esigenza in regole di comportamento: il dirigente ed il dipendente forniscono all’ufficio interno di controllo tutte le informazioni necessarie ad una piena valutazione dei risultati conseguiti dall’ufficio presso il quale prestano servizio. L’informazione è resa con particolare riguardo alle seguenti finalità: modalità di svolgimento dell’attività dell’ufficio; qualità dei servizi prestati; parità di trattamento tra le diverse categorie di cittadini e utenti; agevole accesso agli uffici, specie per gli utenti disabili; semplificazione e celerità delle procedure; osservanza dei termini prescritti per la conclusione delle procedure; sollecita risposta a reclami, istanze e segnalazioni (art. 13). 232 Per quanto riguarda i magistrati, infine, il tema dell’efficienza è ovviamente delicato, sia perché la misurazione del rendimento della relativa attività è difficile, sia perché essa va operata in modo da garantirne l’indipendenza. La tutela dell’indipendenza, negli ultimi decenni, ha fatto premio sull’esigenza di garanzia. È probabile ed auspicabile che in futuro le norme e gli organi di governo si facciano maggiormente carico di questa esigenza. Il tema, peraltro, va al di là dell’oggetto di questo scritto. 4. L’imparzialità L’imparzialità è evidentemente un principio fondamentale, enunciato dall’art. 97 della Costituzione, per i dipendenti pubblici. Nella normale condotta del dipendente, si traduce soprattutto nella parità di trattamento, alla quale è dedicato l’art. 13 del Codice di comportamento: il dipendente, nell’adempimento della prestazione lavorativa, assicura la parità di trattamento tra i cittadini che vengono in contatto con l’amministrazione da cui dipende. A tal fine, egli non rifiuta né accorda ad alcuno prestazioni che siano normalmente accordate o rifiutate ad altri. Il dipendente si attiene a corrette modalità di svolgimento dell’attività amministrativa di sua competenza, respingendo in particolare ogni illegittima pressione, ancorché esercitata dai suoi superiori. Per i magistrati, naturalmente, l’imparzialità assume un significato ancora più forte. Essa non assume lo stesso valore, invece, per i politici. Non che essi possano fare favoritismi o disparità di trattamento nel disporre di risorse pubbliche. Essi, però, nell’adozione delle loro decisioni, devono ovviamente operare scelte, sulla base di orientamenti legittimamente «di parte». Anche i politici, peraltro, devono rispettare l’imparzialità delle pubbliche amministrazioni e, quindi, astenersi da pressioni indebite su di esse e da condotte da «partito di occupazione», secondo la felice espressione di Leopoldo Elia. Il concetto è ben espresso dall’art. 78, co. 1, del testo unico degli enti locali: Il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle proprie 233 funzioni, deve essere improntato all’imparzialità e al principio di buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori […] e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni. Da questo punto di vista, le norme che consentono forme di spoils system favoriscono oggettivamente comportamenti contrari al principio di imparzialità: a tutela dell’imparzialità amministrativa, esse andrebbero combattute, sia al livello legislativo sia al livello di regole di comportamento dei politici. Per gli altri funzionari onorari, l’imparzialità si pone in termini variabili, ma spesso in termini più simili a quelli propri dei dipendenti pubblici che a quelli propri dei politici, dato che le cariche da essi ricoperte sono spesso cariche di governo in amministrazioni pubbliche. Ciò vale a maggior ragione, naturalmente, per i componenti delle autorità indipendenti, per i quali l’esigenza di imparzialità si pone in modo simile a come per i magistrati. 5. L’indipendenza Le attività ulteriori rispetto allo svolgimento della funzione pubblica, che il funzionario svolga, possono costituire un problema anche se esse non lo impegnano a tal punto da distrarlo dalla funzione stessa (problema di cui al par. 2). Esse possono, infatti, legarlo professionalmente a soggetti, i cui interessi siano in conflitto con quelli pubblici o, comunque, siano affetti dalla sua attività di rilievo pubblicistico, generando la tentazione di favoritismi e scambi di favori. Ciò, ovviamente, può determinare condizionamenti che compromettono la sua indipendenza nello svolgimento della funzione. Anche questo problema si pone per tutte le categorie di funzionari pubblici. Per quanto riguarda i politici, anche in questo caso il rimedio principale è l’istituto dell’incompatibilità, utilizzato per le diverse categorie di titolari di cariche politiche. Per i parlamentari, come già rilevato, la disciplina è del tutto antiquata. Per i membri del Governo, la disciplina è migliore, vietando lo svolgimento di attività imprenditoriali e professionali. Essa, peraltro, è, come già accennato, incompleta sotto il profilo dei controlli e delle sanzioni. La legge attribuisce agli organi dei relativi ordi234 namenti professionali il compito di far valere il divieto di esercizio di attività professionali e all’Autorità garante della concorrenza e del mercato quelli di accertare la sussistenza di situazioni di incompatibilità e di promuovere la rimozione o la decadenza dalla carica o ufficio incompatibile, la sospensione del rapporto di impiego incompatibile e la sospensione dall’iscrizione in albi e registri professionali. Queste previsioni possono evitare che il titolare di cariche di governo abbia incarichi pubblici incompatibili e svolga attività professionali incompatibili, ma non possono impedire di svolgere attività di impresa: di fronte al titolare di cariche di governo che mantenga la qualità di imprenditore o una carica in una società per azioni, l’Autorità antitrust non sembra avere armi. Occorrerebbe introdurre sanzioni per l’inosservanza del divieto di svolgere attività private incompatibili con la carica pubblica: sia agendo sul versante pubblico (con la decadenza dalla carica di governo o con l’invalidità degli atti compiuti e la responsabilità civile di chi li avesse posti in essere), sia agendo su quello privato (con sanzioni pecuniarie a carico dell’impresa, con la revoca o sospensione dell’autorizzazione o della concessione amministrativa, sulla base della quale essa svolgesse eventualmente la propria attività, con la decadenza dalla carica eventualmente ricoperta dall’interessato in una società). Molte di queste sanzioni potrebbero essere irrogate da organi giurisdizionali e, quindi, la loro applicazione sarebbe stata in buona parte sottratta alle influenze politiche. Per quanto riguarda il personale politico delle Regioni, la già citata legge quadro n 165 del 2004 pone alcuni semplici e buoni principi, stabilendo che l’incompatibilità va prevista dalle leggi regionali: in caso di conflitto tra le funzioni svolte dal Presidente o dagli altri componenti della Giunta regionale o dai consiglieri regionali e altre situazioni o cariche, comprese quelle elettive, suscettibile, anche in relazione a peculiari condizioni delle Regioni, di compromettere il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ovvero il libero espletamento della carica elettiva; … in caso di conflitto tra le funzioni svolte dal Presidente o dagli altri componenti della Giunta regionale o dai consiglieri regionali e le 235 funzioni svolte dai medesimi presso organismi internazionali o sopranazionali; ed eventualmente in caso di lite pendente con la Regione. Alcune buone regole sono poste anche per gli amministratori locali. L’art. 78 del relativo testo unico stabilisce che i componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato; al sindaco ed al presidente della Provincia, nonché agli assessori ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza dei relativi Comuni e Province. Per gli altri funzionari onorari, anche in questo caso, è difficile fare un discorso generale, perché le regole variano da ente a ente e da autorità ad autorità. Ma si può notare una lacuna particolarmente grave, che riguarda il personale degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e degli organi di vertice di altri enti. Essi occupano posizioni di grande rilievo e delicatezza, con funzioni di decisione e di mediazione di interessi, ma non ci sono regole volte a tutelare la loro indipendenza da questi interessi e neanche forme di incompatibilità: non è raro che essi abbiano, contemporaneamente, anche altri incarichi e neanche che svolgano attività professionali, che possono facilmente generale conflitti di interessi. È un aspetto di una carenza più generale, a cui occorrerebbe porre rimedio: occorre definire in via generale i doveri dei titolari e degli addetti agli uffici di staff dei vertici delle amministrazioni. Va ancora osservato che l’indipendenza del pubblico funzionario può essere messa in pericolo non solo dallo svolgimento di attività ulteriori rispetto allo svolgimento delle funzioni d’ufficio, ma anche da altri fattori, come la partecipazione ad associazioni, operanti nell’ambito di interesse dell’amministrazione e la ricezione di regali o ospitalità da parte di soggetti interessati, con i quali egli ha rapporti per ragioni d’ufficio. Come dimostrato dalla 236 cronaca recente, le norme al riguardo sono carenti, in particolare per i politici, e sarebbero quanto mai opportune. Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, vi sono le regole del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici: in ordine alla partecipazione ad associazioni, esso impone obblighi di trasparenza, stabilendo che il dipendente comunica al dirigente dell’ufficio la propria adesione ad associazioni ed organizzazioni, anche a carattere non riservato, i cui interessi siano coinvolti dallo svolgimento dell’attività dell’ufficio, salvo che si tratti di partiti politici o sindacati; e tutela la libertà di associazione, prevedendo che il dipendente non costringe altri dipendenti ad aderire ad associazioni ed organizzazioni, né li induce a farlo promettendo vantaggi di carriera (art. 4). In ordine alla ricezione di regali, il Codice prevede che il dipendente non accetta da soggetti diversi dall’amministrazione retribuzioni o altre utilità per prestazioni alle quali è tenuto per lo svolgimento dei propri compiti d’ufficio e non accetta incarichi di collaborazione con individui od organizzazioni che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico in decisioni o attività inerenti all’ufficio (art. 7); non chiede, per sé o per altri, né accetta, neanche in occasione di festività, regali o altre utilità salvo quelli d’uso di modico valore, da soggetti che abbiano tratto o comunque possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio; non chiede, per sé o per altri, né accetta, regali o altre utilità da un subordinato o da suoi parenti entro il quarto grado. Il dipendente non offre regali o altre utilità ad un sovraordinato o a suoi parenti entro il quarto grado, o conviventi, salvo quelli d’uso di modico valore (art. 3). 237 Infine, l’indipendenza del funzionario richiede che egli sia disinteressato, nel senso proprio del termine: che egli non abbia interessi, coinvolti nella propria attività, diversi da quello pubblico, che deve perseguire. Finora si è fatto riferimento a ipotesi in cui il funzionario è esposto all’influenza di interessi altrui. Ma a turbare il corretto svolgimento delle sue funzioni può essere anche un interesse proprio del funzionario: questa è l’ipotesi del conflitto di interessi. In questa sede, peraltro, non ci si sofferma su questo tema, per il quale si rinvia al relativo contributo. 6. Trasparenza e riservatezza Una serie di problemi ulteriori, inerenti ai rapporti tra funzionari pubblici e cittadini, riguarda l’uso delle informazioni delle quali i primi siano in possesso per ragioni d’ufficio. Il problema si pone in termini molto diversi per i politici e per gli altri funzionari pubblici, per via della concezione tradizionale basata sul principio di responsabilità ministeriale, in base alla quale i politici rispondono ai cittadini dell’operato delle amministrazioni, mentre i dipendenti sono tenuti al segreto nei confronti dei cittadini, dovendo invece fornire tutte le informazioni richieste ai vertici politici. Questa concezione si è a lungo tradotta in un’assenza di regole relative ai politici e in un obbligo di segreto a carico dei dipendenti. La situazione è però mutata, per un verso, a causa della diffusione di obblighi di trasparenza a carico dei politici e, per un altro verso, per l’affermarsi del principio della trasparenza amministrativa. La trasparenza imposta ai politici – in particolare ai parlamentari – riguarda non lo svolgimento delle loro funzioni, ma essenzialmente informazioni relative ai loro redditi e ai loro interessi finanziari. Esse vengono periodicamente pubblicate, anche se sotto questo aspetto, in Italia, il livello di trasparenza è ben più basso di quello imposto ai parlamentari di ordinamenti come gli Usa, la Germania e il Regno Unito. Non vi sono, invece previsioni sulla trasparenza dell’attività inerente allo svolgimento del mandato elettivo, che peraltro è in gran parte pubblica. Norme in materia di trasparenza degli interessi finanziari e di informazioni come i redditi, gli incarichi e il curriculum vitae sono 238 state introdotte, negli ultimi anni, anche per varie categorie di dipendenti pubblici, in particolare per quelli di livello dirigenziale. Da ultimo, il decreto legislativo n. 150 del 2009 ha stabilito che alcune informazioni, come i curricula e le retribuzioni dei dirigenti, siano pubblicati sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione. Peraltro, il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici prevede già obblighi di trasparenza, per tutti i dipendenti e, in particolare, per i dirigenti: per i primi è stabilito l’obbligo di informare il dirigente dell’ufficio dei rapporti di collaborazione retribuiti dell’ultimo quinquennio, con particolare riferimento a quelli intercorsi con soggetti che abbiano interessi in attività o decisioni inerenti alle pratiche a lui affidate; per i secondi è previsto l’obbligo di comunicare all’amministrazione, prima di assumere le proprie funzioni, le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possano porlo in conflitto di interessi con la funzione pubblica che svolge e dichiara se ha parenti entro il quarto grado o affini entro il secondo, o conviventi che esercitano attività politiche, professionali o economiche che li pongano in contatti frequenti con l’ufficio che egli dovrà dirigere o che siano coinvolte nelle decisioni o nelle attività inerenti all’ufficio (art. 5). Nel complesso, i pubblici funzionari devono accettare un sacrificio per la loro riservatezza, una minore tutela dei loro dati personali. Questo sacrificio è giustificato alla luce degli art. 54, 67 e 98 della Costituzione: i pubblici funzionari devono comportarsi «con disciplina e onore» e devono essere pronti ad accettare controlli sull’adempimento di questi doveri; essi sono «al servizio della Nazione» e devono sottoporsi al controllo dei cittadini. Più in generale, la trasparenza amministrativa ha determinato un progressivo spostamento del confine tra l’area coperta dall’obbligo del segreto d’ufficio e quella coperta dal diritto alla trasparenza. La relativa previsione del testo unico sul pubblico impiego del 1957 è stata riformulata, come è noto, in occasione dell’introduzione della disciplina del diritto d’accesso nel 1990. La sua portata è ulteriormente ridotta, ovviamente, dalle previsioni della legge n. 15 e del decreto legislativo n. 150 del 2009, in materia di «accessibilità totale», cioè di pubblicità, delle informazioni ine239 renti all’organizzazione e all’attività amministrativa. Anche questa evoluzione trova un riscontro nel Codice di comportamento, a norma del quale il dipendente favorisce l’accesso degli stessi alle informazioni a cui abbiano titolo e, nei limiti in cui ciò non sia vietato, fornisce tutte le notizie e informazioni necessarie per valutare le decisioni dell’amministrazione e i comportamenti dei dipendenti (art. 2, co. 5). Le informazioni amministrative, peraltro, continuano a dover essere utilizzate solo nell’interesse dei cittadini e non per altri scopi: il Codice ricorda infatti che «il dipendente […] non utilizza a fini privati le informazioni di cui dispone per ragioni di ufficio» (art. 2, co. 4). La trasparenza, infine, riguarda non solo i contenuti delle comunicazioni ai cittadini, ma anche i modi di essa: è per questo che, sempre a norma del Codice di comportamento, il dipendente, «nella redazione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni il dipendente adotta un linguaggio chiaro e comprensibile» (art. 11, co. 4). 7. L’immagine dell’amministrazione Nei rapporti tra i funzionari pubblici e i cittadini, c’è l’esigenza di fornire ai secondi le informazioni necessarie, ma c’è anche l’esigenza di non distorcere la percezione dell’amministrazione e di non danneggiarne ingiustificatamente l’immagine. Un’ulteriore area di doveri dei funzionari pubblici, di conseguenza, attiene alla cura dell’immagine esterna dell’amministrazione. Questi doveri possono esplicarsi in regole inerenti ai rapporti con i cittadini, ai rapporti con la stampa e anche alla vita privata. La loro violazione può non essere sanzionata, ma può anche essere sanzionata pesantemente, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte dei Conti in materia di responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione. Per i funzionari onorari, peraltro, il dovere di custodire l’immagine dell’amministrazione non si traduce in specifici obblighi di comportamento: per essi, di regola, il danno all’immagine dell’amministrazione assume rilievo solo in seguito alla commissione 240 di reati ed è, quindi, la conseguenza della violazione di norme penali e non di specifiche norme volte a tutelare questo valore. Per i dipendenti pubblici, invece, vi sono regole specifiche, contenute nei Codici di comportamento. Per quanto riguarda lo svolgimento delle mansioni, il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici stabilisce che il dipendente in diretto rapporto con il pubblico presta adeguata attenzione alle domande di ciascuno e fornisce le spiegazioni che gli siano richieste in ordine al comportamento proprio e di altri dipendenti dell’ufficio. Nella trattazione delle pratiche egli rispetta l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto motivando genericamente con la quantità di lavoro da svolgere o la mancanza di tempo a disposizione (art. 11, co. 1). Si tratta, come è evidente, di previsioni volte a promuovere non solo il corretto funzionamento delle amministrazioni, ma anche la percezione di esso. Nella stessa prospettiva può essere valutata la previsione secondo la quale il dipendente non prende impegni né fa promesse in ordine a decisioni o azioni proprie o altrui inerenti all’ufficio, se ciò possa generare o confermare sfiducia nell’amministrazione o nella sua indipendenza ed imparzialità (art. 11, co. 3). L’immagine dell’amministrazione può essere lesa anche dai comportamenti riprovevoli dei pubblici funzionari nella vita privata. Si tratta peraltro, come è facile intuire, di un aspetto particolarmente delicato e difficile da disciplinare, per diverse ragioni: perché regole di condotta nella vita privata determinano pur sempre un’intromissione del datore di lavoro pubblico nell’attività extralavorativa del funzionario; perché simili regole possono essere espressione di un approccio moralistico o paternalistico alla condotta dei funzionari pubblici, che può non essere condiviso; perché valutare la correttezza dei comportamenti privati, e quindi le relative violazioni, è molto più difficile che valutare la correttezza del comportamento in servizio, e rischia di tradursi in valutazioni arbitrarie. Occorre però ricordare la specificità dei funzionari pubblici e del loro statuto giuridico: quanto mai opportuno, al riguardo, è il 241 richiamo al dovere di comportarsi con onore, richiesto dall’art. 54 della Costituzione. Il bilanciamento tra queste opposte esigenze non è facile. Non a caso, regole di comportamento dettagliate si hanno solo per determinate categorie di dipendenti pubblici, come quelli appartenenti ai corpi militari, i quali sono sottoposti a una disciplina più rigorosa. Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, invece, si limita a porre un divieto di approfittare indebitamente della propria posizione: nei rapporti privati, in particolare con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, non menziona né fa altrimenti intendere, di propria iniziativa, tale posizione, qualora ciò possa nuocere all’immagine dell’amministrazione (art. 9). Un ultimo problema, inerente ai rapporti esterni e all’immagine dell’amministrazione, attiene ai rapporti con la stampa. Anche a questo riguardo, ci sono esigenze diverse da contemperare, essendo coinvolti la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa. Anche a questo riguardo, non vi sono regole per i politici, per i quali i rapporti con la stampa e la facoltà di critica costituiscono elementi essenziali dello svolgimento delle funzioni d’ufficio. Ve ne sono, invece, nei codici di comportamento, che bilanciano variamente gli interessi in gioco: quello generale dei dipendenti pubblici è abbastanza liberale, stabilendo che salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione. Il dipendente tiene informato il dirigente dell’ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa (art. 11, co. 2). Per i magistrati ordinari, il codice etico dell’Associazione nazionale magistrati privilegia ancora più decisamente la libertà del magistrato di avere rapporti con la stampa rispetto all’esigenza di riservatezza: il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio. Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di ga- 242 rantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati. Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa (art. 6). Ben più rigoroso, per esempio, è il codice etico dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, secondo il quale il dipendente non intrattiene rapporti con gli organi di stampa. Nel caso in cui sia destinatario di richieste di informazioni o chiarimenti da parte di organi di stampa, ne informa tempestivamente il responsabile dell’ufficio presso il quale presta servizio (art. 8). 8. Il giuramento All’inizio di questo contributo si è fatto riferimento all’art. 54 della Costituzione, come fondamento di un corpo di principi e regole di comportamento peculiari dei pubblici funzionari, che li distinguono rispetto agli altri cittadini e, in particolare, dai lavoratori del settore privato. La formulazione dell’art. 54 è completata dalla previsione secondo la quale i funzionari pubblici prestano giuramento nei casi previsti dalla legge. Si tratta di una previsione coerente con quell’idea: il giuramento può costituire un momento solenne, nel quale il funzionario si fa esplicitamente carico di questa peculiarità e dello status particolare che consegue all’assunzione di una carica pubblica e che lo distingue dagli altri cittadini. Si tratta di un ulteriore obbligo, strumentale alle regole di comportamento proprie del funzionario, che gli può essere imposto: coerentemente, la Costituzione pone una riserva di legge sulle relative previsioni. Attualmente non esiste una previsione legislativa generale al riguardo, ma solo previsioni relative a singole categorie di funzionari, come i ministri e i magistrati. In un disegno di legge recentemente presentato al Parlamento, peraltro, il Governo ha ipotizzato che tutti i dipendenti pubblici, all’atto della prima assunzione in un’amministrazione pubblica, prestino un giuramento di fedeltà. Si tratta di una proposta che può essere valutata favorevolmente: 243 4. Interessi organizzati, lobbying e decisione pubblica di Enrico Carloni 1. Etica, corruzione e interesse pubblico In un saggio tra i più citati nella letteratura giuridica statunitense dell’ultimo ventennio, Cass R. Sunstein lamentava la diffusa, forte insoddisfazione per la governance democratica statunitense, e questo in conseguenza dei problemi “produced by the existence of interest groups, or ‘factions’, and their influence over the political process”1. Il problema delle lobbies, che nella dottrina statunitense è spesso ricondotto alla posizione di Madison rispetto agli interessi parziali2, è, oggi, di non secondaria rilevanza, come ci dimostra l’attenzione che al tema è stata posta nel corso dell’ultima campagna presidenziale statunitense e quindi già nei primi interventi di Barack Obama successivi alla vittoria elettorale3. Si tratta di una questione, come sarà più chiaro nel prosieguo, che è, però, tanto evidente quanto spesso estranea al dibattito pubblico e trascurata 1 Cfr. C. R. Sunstein, “Interest Groups in American Public Law”, Stanford Law Review, 1985-1986, 29. 2 Nella letteratura statunitense sul lobbying è frequentemente ripresa (vedi da ultimo esempio A. S. Krishnakumar, “Towards a Madisonian, Interest-Group-Based, Approach to Lobbying Regulation”, Ala. Law Rev., 2006-2007, 513) la posizione di James Madison rinvenibile in particolare nel Federalist Paper, n. 10, che, nel criticare le “fazioni” e i gruppi portatori di interessi particolari, sosteneva che ci sono due metodi per risolvere il problema (“the one, by removing its causes; the other, by controlling its effects”), salvo poi riconoscere l’impossibilità, e indesiderabilità, della prima soluzione, per concludere quindi che “the regulation of these various and interfering interests forms the principal task of modern legislation”. Il collegamento con le posizioni medisoniane è evidente, in particolare, in D. B. Truman, The Governmental Process: Political Interests and Public Opinion, New York, 1951. 3 Si veda, in particolare, il discorso del 28 febbraio 2009 (cosiddetto “‘so am I’ speech”, perché si chiude appunto con la rivendicazione di un diverso rapporto con gli interessi organizzati nel promuovere riforme di interesse generale). La questione del peso eccessivo delle lobbies nella politica americana è stato peraltro ricorrente nel corso della campagna elettorale anche nei discorsi del candidato repubblicano J. McCain. 108 dalla stessa dottrina giuridica italiana (peraltro in questo distratta dalle anomalie italiane riferibili alla diversa ma non distante questione del conflitto di interessi4): da un lato presumendola confinata in ordinamenti diversi da quello nazionale, dall’altro, e in ogni caso, assumendola circoscritta alle deliberazioni del Parlamento o, al più, alle decisioni del Governo. Entrambi questi assunti sono, però, errati: il fatto che un fenomeno non sia regolato non significa che non esista (come, peraltro, ci dimostrano anche dati empirici)5, mentre attenti studi sulle agenzie e sulle autorità di regolazione hanno da tempo mostrato l’importanza del fenomeno a livello di decisioni amministrative6. Al pari della corruzione7, e persino più di questa in vari ordinamenti tra cui il nostro, il conflitto tra interessi e la cattura dell’interesse pubblico finisce per essere un clandestin administratif8 di cui talvolta si ignora l’esistenza, ma che più spesso è semplicemente occultato, “rimosso” come fatto problematico, tanto dai protagonisti che dalla stessa opinione pubblica (o, almeno, da parti significative di questa). Se accogliamo il modello “principale-agente”, proposto frequentemente 4 Si veda, in tal senso, l’attenzione assolutamente prevalente, giustificata appunto dalla specificità dell’esperienza italiana, che, tra le varie problematiche relative alla “cattura” dell’azione pubblica al servizio di interessi parziali è dedicata, nella dottrina giuridica italiana, alla questione del conflitto tra interessi propri del funzionario ed esercizio della funzione pubblica (in questo senso per esempio i diversi contributi in S. Cassese, B. G. Mattarella (a cura di), Democrazia e cariche pubbliche, Bologna, 1996). Segnali di attenzione alla problematica dei gruppi di pressione possono, però, rinvenirsi nella dottrina giuspubblicistica: si veda in questo senso Aa. Vv., Rappresentanza politica. Gruppi di pressione. Elites al potere (atti del convegno di Caserta, 6-7 maggio 2005), Torino, 2006. 5 Si pensi all’esperienza comunitaria, dove pure in assenza di una disciplina legislativa organica, si ravvisa la presenza di un numero ingente di lobbisti (cfr. infra, par. 4). 6 Si veda, in particolare, le analisi sul rapporto tra interessi e amministrazioni di regolazione nel quadro degli studi sulla regulatory capture (a partire dal saggio di G. J. Stigler, “The Theory of Economic Regulation”, Bell Journ. of Econ. and Management Science, 1971, 3). 7 Intesa in senso ampio e non limitata alla specifica ipotesi penale. Di corruzione, la dottrina sociologica, politologica e giuridica si è occupata con una certa intensità soprattutto nel periodo immediatamente successivo al cosiddetto “fenomeno Tangentopoli”: cfr. M. D’Alberti, R. Finocchi (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, Bologna, 1994; F. Cazzola, L’Italia del pizzo, Torino, 1993; D. Della Porta, A. Vannucci, Corruzione politica e amministrazione pubblica, Bologna, 1994; la recente riemersione dell’attenzione al tema nella letteratura scientifica è, unitamente ad altri più specifici indicatori, quali quelli di Transparency International, il segnale di un problema tutt’altro che superato nello scenario italiano. 8 L’espressione è di J. Tulard e G. Thuillier, “Administration et corruption”, La Revue Administrative, 1993, 272. 109 in ambito sociologico9 e ripreso anche dalla dottrina giuridica10, per illustrare le dinamiche fisiologiche o patologiche che si sviluppano entro le organizzazioni complesse, e in particolare nelle istituzioni pubbliche, il rilievo della pressione degli interessi organizzati si pone però nitidamente al centro delle questioni di etica pubblica. Il che è tanto più vero quanto più si colleghi l’etica pubblica al “servizio alla nazione”, a sua volta inteso come perseguimento dell’interesse generale11. Lo sviamento dell’azione pubblica da tale finalità ultima, attraverso la cattura dei decisori pubblici da parte di interessi parziali organizzati è, allora, ascrivibile alla dimensione patologica della corruzione, nell’accezione larga che di questa si dà nelle scienze sociali: l’agente, così facendo, tradisce infatti il proprio principale o finisce per porsi al servizio di due padroni, uno manifesto e uno occulto12. Al pari dei conflitti di interesse, assistiamo a condotte che possono porre in crisi la funzionalizzazione dell’azione pubblica alla cura dell’interesse generale, ma la cui esistenza, ed evidenza, finisce per mettere in crisi la stessa nozione di interesse pubblico, specie allorché si voglia tenere ferma l’idea rousseauiana della legge come coincidente con la volontà generale, espressione e traduzione di questa (e, quindi, dell’interesse generale come coincidente con le statuizioni del legislatore). Si tratta di problematiche di indubbio rilievo, che finiscono per toccare valori fondamentali e per porre in evidenza una serie di nervi scoperti dei sistemi democratici contemporanei. La diffusa percezione della perdita dell’orizzonte del bene comune in una serie di decisioni pubbliche asservite a interessi particolari determina in ultima istanza la delegittimazione delle stesse istituzioni rappresentative. Si tratta di fenomeni che però si sviluppano in uno spazio non privo di ambiguità, dal momento che il confine tra il legittimo confronto con istanze meritevoli di attenzione e asservimento a volontà parziali è, in concreto, di non sempre agevole delimitazione. 9 Da ultimo in questo senso si veda D. Della Porta, A. Vannucci, Mani impunite, RomaBari, 2007. 10 B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit., passim. 11 Cfr. F. Merloni, nel saggio che introduce questo lavoro. Il riferimento è in particolare agli artt. 54, comma 2, e 98, comma 1, della Costituzione. 12 Cfr. A. Claisse, “Conflitto di interessi e funzioni governative: analisi comparata”, in S. Cassese, B. G. Mattarella, Democrazia e cariche pubbliche, cit., 13. Lo stesso Claisse riscontra in questa nozione l’eco del classico ammonimento a “non servire due padroni” (“Mai sopra il trono si vede più di un padrone: per quanto sia grande esso non può sorreggerne due”: Racine, La Tebaide, a. IV, s. 3). Un richiamo che, peraltro, troviamo già in Matteo (6, 24), e che è frequentemente registrato tra le sentenze medioevali (Walther, 16405, 16406, 16346m 16416, 16446): cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano, 1991. 110 2. La partecipazione dei portatori di interessi e i gruppi di pressione Cogliere il fenomeno del lobbying unicamente attraverso una chiave di lettura negativa non consente di inquadrare correttamente la questione del ruolo che i gruppi di pressione svolgono, e sono chiamati a svolgere, nei moderni sistemi democratici, per l’efficienza ed efficacia degli stessi processi decisionali pubblici, e non permette, d’altro canto, di collocarli correttamente quali manifestazione, fisiologica seppure non priva di rischi, dello stesso pluralismo sociale13. Come spesso accade è, infatti, necessario fare delle distinzioni: il che in questo casi è doppiamente utile. Per un verso occorre delimitare con maggiore precisione il lobbying nel novero dei fenomeni di partecipazione attiva dei portatori di interessi14, per un altro è altrettanto utile distinguere le diverse realtà (fisiologiche e patologiche) che possiamo ricondurre alle attività di rappresentanza di interessi organizzati e di “pressione” sui decisori pubblici. È stato detto che il lobbying è un precipitato, un effetto collaterale e inevitabile della stessa democrazia pluralistica15. L’interesse pubblico nasce, in ultima istanza, nel confronto tra interessi, e l’ordinamento non può predeterminare tutti i possibili assetti, né escludere in via assoluta gli interessi dal percorso che conduce alla decisione pubblica. Questo è particolarmente vero a livello amministrativo, ma non di meno a livello di scelte legislative è evidente che nei sistemi democratici la partecipazione attiva, il confronto con i destinatari delle scelte, la possibilità di presentare istanze e 13 Graziano, in particolare, sottolinea l’esigenza di mostrare non solo i lati “oscuri” del fenomeno, ma anche gli aspetti (positivi) spesso sottaciuti, quali “il rapporto lobbiessocietà civile; l’apporto che le lobbies interessatamente recano al processo decisionale pubblico; la ridefinizione a cui inducono dell’idea di interesse generale” (così G. Graziano, Le lobbies, Roma-Bari, 2002, V; in materia cfr. Id., Lobbying, pluralismo, democrazia, Roma, 1995). 14 Già A. De Tocqueville, La democrazia in America (Milano, 1999) ravvisava l’importanza delle associazioni, in particolar modo per la funzione che queste svolgono nei confronti del potere politico, limitando la dittatura della maggioranza e, così facendo, assicurarando le libertà individuali (per esempio, ivi, 201 ss.). 15 Sull’inevitabilità delle fazioni e delle organizzazioni portatrici di interessi parziali nelle democrazie pluraliste, si veda per tutti D. B. Truman, The Governmental Process, cit., passim. Le dinamiche della “rivincita degli interessi” (particolari) sulla teorica della democrazia come cura dell’interesse generale, come ben rimarca N. Bobbio (Il futuro della democrazia, Torino, 1991, 11-13), è evidente e ha portato a categorie interpretative della realtà contemporanea come società neocorporativa: cfr. M. Maraffi (a cura di), La società neocorporativa, Bologna, 1981. 111 l’esigenza che queste siano tenute in considerazione costituiscono elementi non eludibili16. Interessi e decisione pubblica, sono, cioè, consustanziali l’un l’altra, e la scelta definisce di per sé un’opzione in ordine a un determinato assetto di interessi17. Sotto un diverso punto di vista, dal momento che i pubblici poteri svolgono una funzione centrale e pervasiva rispetto alla distribuzione e redistribuzione di ricchezza, diviene inevitabile che, da un lato, gli interessi privati premano sul decisore pubblico e, dall’altro, che lo stesso decisore pubblico possa essere portato a privilegiare decisioni coerenti con determinati assetti degli interessi. Questo fenomeno è nella natura stessa delle istituzioni, dell’amministrazione contemporanea e del pluralismo sociale: gli interessi si organizzano, cercano e talora trovano tutela nella legge, in macrodecisioni pubbliche18 che costituiranno poi la cornice di interventi più puntuali, in microdecisioni che intervengono in contesti e casi specifici. Né, d’altra parte, è possibile risolvere il problema a monte, inibendo le dinamiche partecipative che si pongono sempre più, anzi, al centro delle procedure di allocazione e della stessa legittimazione delle istituzioni19. Se la partecipazione svolge, a un tempo e con minore o maggiore pregnanza di una di queste dimensioni nei diversi casi, una funzione di conoscenza, di garanzia e di legittimazione20, prescindere dal contributo degli interessati è pregiudi16 Il riconoscimento della funzione positiva del lobbying in un sistema democratico aperto e partecipato è evidente nei principali documenti in materia della Commissione europea, per tutti il Libro verde. Iniziativa europea per la trasparenza, COM(2006)194 def., del maggio 2006, dove troviamo affermati tanto l’esigenza di apertura che “ha sempre rappresentato il principio guida della Commissione nei contatti con i rappresentanti dei gruppi di interesse” (ivi, 3), quanto il riconoscimento del fatto che “il lobbismo rappresenta una componente legittima dei sistemi democratici” e “i lobbisti possono contribuire a richiamare l’attenzione delle istituzioni europee su alcuni problemi importanti” (ivi, 5). 17 In merito, e con riferimento alla dimensione amministrativa del problema, fondamentale il lavoro di M. S. Giannini (Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetti e problemi, Milano, 1939, spec. 72-80). Più recentemente, la problematica del rapporto tra interessi e azione/organizzazione amministrativa è al centro della costruzione teorica di G. Rossi, Diritto amministrativo, I, Principi, Milano, 2005, spec. 67 ss. (cui rinviamo per ulteriori riferimenti bibliografici). 18 Tematiche, queste, su cui restano rilevanti gli stimoli di M. Cammelli, Politica e apparati nella mediazione degli interessi, relazione al Convegno del Gruppo S. Martino, Torino, 15 aprile 2005. 19 Questioni che, a livello sociologico e politologico, rinviano agli studi sui processi decisionali inclusivi e al dibattito sulla democrazia deliberativa. In merito cfr. L. Bobbio, A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, Napoli, 2004. 20 Come rileva S. Cassese, si richiede la partecipazione dei privati all’azione pubblica per 112 zievole per lo stesso interesse pubblico, oltre che per i diritti e i beni della vita dei destinatari delle decisioni pubbliche. Il che, si noti, è tanto vero che paiono sempre più ingiustificate quelle previsioni normative che continuano a limitare gli spazi di partecipazione trasparente in presenza di procedure per l’adozione di atti a contenuto generale o normativo, come se il particulier potesse incidere solo su questioni puntuali, mentre le determinazioni a contenuto generale dovessero essere preservate nella loro purezza in termini di rappresentazione non parzialmente condizionata dell’interesse generale. In questo senso va letta la ricorrente critica alle esclusioni operate dalla legge 241/1990 agli istituti partecipativi in presenza di procedimenti volti all’adozione di atti non a contenuto puntuale21: una carenza solo in parte compensata da tutta una serie di previsioni speciali o a valenza territoriale, prime tra tutte quelle in campo urbanistico22. Una carenza che, si noti, diviene assolutamente insostenibile nel momento in cui la stessa competenza all’adozione di atti normativi sfugge talora ai modelli tradizionali in cui si poneva come precipitato della legittimazione democratica: in tali ipotesi, deve intervenire necessariamente una legittimazione procedimentale attraverso dinamiche partecipative23. 3. Il lobbying: alla ricerca di una definizione Giunti a questo punto della riflessione, risulta necessario, per procedere oltre, dare una più precisa definizione dei fenomeni dei quali ci si ripromotivi diversi “Il primo è quello di consentire all’amministrazione una migliore conoscenza dei fatti e degli interessi sui quali essa deve basare le sue scelte. Il secondo è quello di permettere al privato di far valere i suoi diritti fin dalla fase preparatoria della decisione, oltre che nell’eventuale giudizio che sorga a sèguito di un ricorso successivo. Il terzo è quello di assicurare il coinvolgimento dei privati interessati nel processo decisionale” (cfr. Id., “La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche. Saggio di diritto comparato”, Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 13). 21 Sul punto, si veda più ampiamente infra, par. 6. 22 Quello del governo del territorio e della pianificazione urbanistica è uno degli ambiti più sensibili, a livello di amministrazioni locali, per quanto attiene alla problematica del confronto con gli interessi. In materia, si veda M. Morisi, S. Passigli, Amministrazioni e gruppi di interesse nella trasformazione urbana, Bologna, 1994 e, più recentemente, L. Casini, L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio, Milano, 2006. 23 Il riferimento è alla giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, per la quale l’esercizio di poteri regolatori da parte di soggetti posti al di fuori della tradizionale tripartizione dei poteri e al di fuori del circuito di responsabilità delineato dall’art. 95 della Costituzione, è “compensato” dall’esistenza di strumenti di partecipazione dei soggetti interessati, in varia misura sostitutivo della dialettica propria delle strutture rappresentative (così da ultimo TAR Lombardia, Milano, III, 10 aprile 2009, n. 3239). 113 mette di indagare l’assetto positivo e i modelli di regolazione, vale a dire quelli che si intende ricompresi nel concetto di lobbying. Il tema è oggetto da tempo di attenzione dalla dottrina: esiste una significativa letteratura comparata sul tema, in particolare grazie alle riflessioni intorno al sistema statunitense24 e più recentemente a quello comunitario25, ed è ampia la letteratura sociologica e politologica26. Una definizione può quindi essere proposta anzitutto attingendo agli autori che più a fondo hanno investigato il fenomeno. In questo senso, con prima approssimazione, si intende per lobby il gruppo portatore dell’interesse o della causa da tutelare, per lobbista il personale interno o esterno all’organizzazione attraverso cui si attua la rappresentanza, per lobbying (o lobbismo) “l’insieme delle tecniche o attività che consente la rappresentanza politica degli interessi”27. Il termine è, peraltro, ormai ampiamente entrato a far parte del linguaggio corrente28. Se confrontiamo questa definizione con quella contenuta nella disciplina statunitense, la più ampia e organica (in particolare il Lobbying Disclosure Act del 1995), che intende il contatto lobbistico come quelle comunicazioni volte alla formulazione o adozione di progetti di legge e atti legislativi (federali), di regolamenti amministrativi o di altri programmi o alla presa di posizione governative, alla negoziazione di contratti, al rilascio di sovvenzioni, prestiti, autorizzazioni, alla ratifica senatoriale di nomine governative, appare chiaro il fatto che il lobbying è in ultima istanza una forma di comunicazione politica (rivolta all’interno del sistema, anziché al pubblico) che non ha però a oggetto unicamente il processo legislativo29. Si noti, in questo senso, che 24 La letteratura giuridica statunitense sul tema del lobbying è estesissima: ci sia consentito rinviare ai riferimenti in A. S. Krishnakumar, “Towards a Madisonian, InterestGroup-Based, Approach to Lobbying Regulation”, cit., 514. 25 Si veda, in particolare, T. Checcoli, “Il fenomeno del lobbying negli Stati Uniti e nell’Unione europea”, Quad. cost., n. 4, 2006; S. Panebianco, Il lobbying europeo, Milano, 2000; G. Pizio Ammassari, L’Europa degli interessi. Rappresentanza e lobbying nell’Unione Europea, Trieste, 2004. 26 Si veda, in questo senso, D. B. Truman, The Governmental Process, cit.; L. Graziano, Le lobbies, cit.; Id., Lobbying, pluralismo, democrazia, cit.; M. Fotia, Le lobby in Italia. Gruppi di pressione e potere, Roma, 2002; L. Fiorentino, K. il lobbista. Introduzione al principio di democrazia partecipativa, Napoli, 2007. 27 Cfr. L. Graziano, Le lobbies, cit., spec. 22. 28 Tanto che ritroviamo termini come lobby o espressioni italiane da questo derivate (lobbismo, lobbista) nei dizionari italiani (si veda per esempio G. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1996, ad vocem) a intendere il “gruppo di pressione in grado di influenzare a proprio vantaggio l’attività dei legislatori e le decisioni dei governanti” (ivi, 1103) e le relative attività. 29 In ambito comunitario, nel quadro dell’iniziativa europea per la trasparenza, si intende 114 precedenti regolazioni aventi a oggetto le sole dinamiche parlamentari e portate a escludere la dimensione “amministrativa” del lobbying, hanno mostrato l’impraticabilità della distinzione fra attività legislativa e non legislativa come confine per inquadrare o meno il fenomeno30. Vero è, peraltro, che se correttamente e complessivamente inquadrato, il lobbying ricomprende attività diverse dalla sola pressione informale sui decisori pubblici: l’attività lobbistica si nutre, anzitutto, dell’accesso a informazioni privilegiate, è un’attività di scambio in primo luogo di tipo conoscitivo31. Rientrano nel fenomeno attività dirette a influenzare i decisori in modo diretto, ma anche per via indiretta tramite la mobilitazione delle basi associative e dell’opinione pubblica (grass roots lobbying)32, mentre un passaggio significativo del processo di influenza sui decisori passa per momenti distanti dalla specifica scelta pubblica, quali il finanziamento delle campagne elettorali33. A fronte di un così ampio raggio di attività, è chiaro che l’idea risalente di un contatto lobbistico di tipo informale e strettamente contiguo alle dinamiche dello scambio corrotto è non solo inesatta, ma riduttiva e non utile nella prospettiva di una disciplina del fenomeno. A livello italiano, pure in assenza di una legge volta a regolare compiutamente questa attività, è interessante la definizione che accompagnava il concetto di “rappresentanza di interessi particolari” nel forse più noto, ma non per questo più fortunato, tentativo di disciplina italiana, il cosiddetto per lobbying le attività poste in essere con l’obiettivo di influenzare il processo decisionale delle istituzioni comunitarie (cfr. Libro verde. Iniziativa europea per la trasparenza, cit.). 30 Il riferimento è al Federal Regulation of Lobbying Act del 1946. Sul punto si veda L. Graziano, Le lobbies, cit., 86-88 e cfr. infra, par. 4. 31 In questo senso costituiscono confine delle legittime attività di lobbying tutte quelle previsioni volte ad assicurare il riserbo dei funzionari pubblici rispetto ai processi decisionali in corso (vedi infra, par. 7). Il rapporto tra potere e informazione è ben segnalato, tra gli altri, da A. Orsi Battaglini, L’astratta e infeconda idea, ora in Scritti giuridici, Milano, 2007, 1350, che evidenzia quindi come “nella logica del potere sia lecito acquisirla solo in quanto si sia coinvolti nel suo esercizio, nel suo sistema di relazioni”: da ciò discende come non sia tanto l’effettiva capacità di tenere il riserbo, quanto l’opposta opzione in favore di una piena trasparenza un meccanismo già particolarmente incisivo di contenimento delle pressioni indebite e di riequilibrio democratico. 32 In argomento vedi, per esempio, G. Graziano, Le lobbies, cit., 35-37. 33 Sul dibattito statunitense, legato in particolare ai costi delle campagne elettorali e al peso dei gruppi di interesse nel finanziamento della politica specie attraverso i PACs (Political Action Committees), M. Jezer, E. Miller, “Money Politics. Compaign Finance and the Subversion of American Democracy”, Notre Dame Journal of Law, Ethics & Public Policy, 1994, 467. Nel contesto italiano, regole minime di trasparenza e limiti di spesa in campo elettorale sono state previste dalla legge 515/1993 (si veda in particolare l’art. 7). 115 “DDL Santagata”34. In questo progetto, l’intervento normativo risulta rivolto a coloro che rappresentano, direttamente o per conto di portatori di interessi particolari35, presso i “decisori pubblici” (membri del Governo, componenti degli uffici di diretta collaborazione governativi, dirigenti generali e vertici delle autorità indipendenti)36 e presso i membri del Parlamento “interessi leciti di rilevanza non generale, anche di natura non economica, al fine di incidere su processi decisionali in atto, ovvero di avviare nuovi processi decisionali pubblici”37. Nel novero delle dinamiche partecipative, la caratteristica specifica del lobbying è quindi la presenza di un’attività organizzata, volta a influire su rilevanti processi decisionali politici o amministrativi. Variano, però, i confini “legali” del fenomeno a seconda delle specifiche esperienze, come sarà peraltro più chiaro nel prosieguo grazie a un confronto con le principali esperienze comparate. Resta, non di meno, come elemento ricorrente, la percezione negativa di queste attività, viste come forme prevalentemente predatorie38 e questo invero più a livello diffuso che avendo a riferimento gli stessi decisori pubblici39. Una distonia tra percezione popolare e percezione da parte degli attori, che giustifica la ricorrente riconduzione di questi fenomeni, negli studi dei processi degenerativi delle istituzioni pubbliche, nel novero della cosiddetta “corruzione grigia”, attingendo qui alle categorie ben evidenziate da Heidenheimer molti anni addietro40. 34 A. S. 1866, recante “Disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi particolari”, presentato il 31 ottobre 2007. 35 Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b, con l’espressione “portatori di interessi particolari” si intendono i datori di lavoro o i committenti dei “rappresentanti di interessi particolari”. 36 Si noti che la categoria dei “decisori pubblici” è quindi assolutamente trasversale rispetto alle tradizionali categorizzazioni dei funzionari pubblici, talché il confronto con la problematica del rapporto con lobbisti attraversa tanto l’etica del personale burocratico, del personale politico statale, del personale di diretta collaborazione, dei verttici di autorità indipendenti. 37 Processi decisionali pubblici sono intesi, in particolare, “i procedimenti di formazione degli atti normativi e degli atti amministrativi generali” (cfr. art. 2, comma 2, lett. d). 38 Così L. Graziano, Le lobbies, cit., 3. 39 Si noti, peraltro, la crescente tendenza da parte dei rappresentanti di interessi a legittimarsi attraverso una autorappresentazione che passa per espressioni meno caratterizzate: in particolare è sempre più diffuso l’utilizzo dell’espressione “relazioni pubbliche” a intendere un insieme più ampio ma ricomprendente le attività di lobbying (in questo senso, la principale associazione italiana di categoria, la Ferpi, definisce attività professionale di relazioni pubbliche quella volta a sviluppare “sistemi di relazione con i pubblici influenti”, quindi non solo con il decisore pubblico ma anche le attività rivolte al pubblico: cfr. art. 1 dello Statuto, in www.ferpi.it). 40 A. J. Heidenheimer, Political Corruption. Readings in Comparative Analysis, New York, 1970, e, più recentemente, Id., “Perspectives on the perception of corruption”, in A. J. 116 4. La regolazione del lobbying nello scenario comparato La questione della disciplina dell’attività di lobbying ha due implicazioni, una sociale (come riconoscimento e legittimazione della professione di rappresentanza di interessi), una giuridica (come possibilità di prevedere regole di trasparenza, obblighi di dichiarazione, diritti e doveri dei lobbisti). Nello scenario comparato, si confrontano due distinti approcci al problema, che possiamo sinteticamente indicare come modello statunitense (di hard regulation) e modello comunitario (di soft regulation), mentre risulta peraltro prevalente la tendenza a trascurare specifici e organici interventi in materia. L’attività di rappresentanza di interessi a livello politico trova, nell’ordinamento statunitense, una specifica e forte copertura costituzionale nel primo emendamento della Costituzione, ai sensi del quale “il Congresso non farà alcuna legge […] che limiti il diritto delle persone a riunirsi pacificamente e a rivolgere petizioni al Governo per riparare ai torti subiti”. Nello scenario di un fondamento quale libertà costituzionale, il legislatore americano è stato però il primo a intervenire con una regolazione organica dell’attività (il Federal Regulation of Lobbying Act del 1946)41: una disciplina che a lungo si è posta come solitario punto di riferimento nel contesto comparato e che è stata più volte modificata, fino alla sua riforma nel 1995 (con il Lobbying Disclosure Act). Una disciplina, quest’ultima, che dopo poco più di un decennio è stata quindi profondamente novellata sul finire della Presidenza di G. W. Bush, sulla base di un testo largamente condiviso tra Democratici e Repubblicani42. L’Honest Leadership and Open Government Act del 2007, ha, in particolare, ampliato gli oneri di registrazione e trasparenza dell’attività di lobbying, e ha riformato, in senso restrittivo, la disciplina relativa al revolving doors, oltre a una ampia serie di previsioni puntuali. Heidenheimer et al. (a cura di), Political Corruption. A Handbook, New Brunswick, 1989, 32 passim. Questa tassonomia è stata ripresa, tra gli altri, da Y. Meny, La corruption de la Republique, Paris, 1993. 41 Una previsione dichiarata legittima, ma corretta, dalla Corte suprema nella sentenza United States vs Harriss, 447 U.S. 612, del 1954. 42 Precede l’adozione della legge, ma tiene conto dei lavori parlamentari in materia, A. S. Krishnakumar, “Towards a Madisonian, Interest-Group-Based, Approach to Lobbying Regulation”, cit., 513 ss., che illustra ampiamente gli aspetti critici del Lobbying Disclosure Act. Le trasformazioni del fenomeno anche alla luce dell’evoluzione delle dinamiche politiche, e le esigenze di riforma connesse, sono ben illustrate da T. M. Susman, “Lobbying in the 21st Century. Reciprocity and the Need for Reform”, Adm. Law Rev., 2006, spec. 744-746. 117 Il Titolo II della legge, recante “Full Public Disclosure of Lobbying”, contiene numerose previsioni volte a rendere effettivo il controllo democratico sulle attività dei gruppi di pressione. Al centro dell’impianto regolatorio restano gli obblighi di dichiarazione e registrazione, corretti in senso restrittivo rispetto alle disposizioni del Lobbying Disclosure Act, in più parti emendato specie attraverso la previsione di più incisive sanzioni civili e penali, l’adozione di più stringenti meccanismi di controllo, la disponibilità on-line dei registri e delle dichiarazioni, oltre all’intensificazione della frequenza delle dichiarazioni43. La normativa ha previsto, però, anche una riforma dei lavori parlamentari, tanto alla Camera dei Rappresentanti che al Senato, e ha fissato più penetranti sanzioni non solo per i lobbisti ma anche per i parlamentari44. Si noti, peraltro, che l’Act del 2007 si rivolge non solo ai lobbisti e ai membri del Congresso, ma anche ai funzionari parlamentari e al personale di diretta collaborazione del Senato. Sulla scorta dell’esperienza statunitense, vari Paesi si sono dotati di strumenti legislativi dedicati a disciplinare il fenomeno45. Pur senza arrivare all’ampiezza dell’impianto normativo statunitense, si rinvengono nello scenario comparato interessanti regolazioni volte in particolare a evidenziare l’attività dei gruppi di pressione mediante istituti di accreditamento e obblighi di registrazione46. L’adozione di regole volte a disciplinare il rapporto tra decisori politici e interessi organizzati è, peraltro, promosso a livello di organizzazioni sopranazionali e di convenzioni internazionali47. Un modello decisamente alternativo rispetto a quello statunitense è, altresì, è quello comunitario, dove l’impianto regolatorio è molto più sfumato e questo certo non per la ridotta rilevanza quantitativa e qualitativa del fenomeno. Alcune indagini riferiscono la presenza, presso le istituzioni co43 Si aggiungono a questo, tra l’altro, alla fissazione di divieti puntali e previsioni relative alle attività di rappresentanza di alcuni interessi meritevoli di regole apposite. 44 Si veda la significativa “loss of pensions accrued during service as a Member of Congress for abusing the public trust”: Titolo IV, Sezione 401. 45 Una panoramica ampia e aggiornata è rinvenibile nel documento OECD, Lobbyists, Governments and Public Trust: Building a Legislative Framework for Enhancing Transparency and Accountability in Lobbying, agosto 2008, che si sofferma in modo particolarmente attento sulle esperienze di Canada e Polonia. 46 In Germania, dal 1972, si prevede l’onere di registrazione preventiva, con obblighi di dichiarazione relativi agli specifici interessi rappresentati e loro pubblicazione, per le associazioni che intendono intervenire nel procedimento legislativo (cfr. OECD, Lobbyists, Governments and Public Trust, cit., 44). 47 Sul ruolo della dimensione sopranazionale nel contrasto dei fenomeni di maladministration, nel loro complesso, cfr. S. Bonfigli, infra. 118 munitarie, di circa quindicimila lobbisti48, soggetti con competenze e profili diversi (consulenti, avvocati, associazioni, imprese, enti non governativi) che agiscono al fine di influenzare i processi normativi dell’Unione49. Per quanto la questione del rapporto con i portatori di interessi parziali sia al centro di significative riflessioni, e si ponga tra i profili significativi della complessiva governance comunitaria50, i meccanismi sin qui adottati sono essenzialmente di soft regulation. Un’accelerazione nella regolazione del fenomeno, e un approccio per quanto possibile organico, si collega da ultimo all’Iniziativa europea per la trasparenza51, avviata nel 2005 e sviluppata nel Libro verde del 200652, nel quadro della quale sono stati previsti tanto un codice di condotta53 per i lobbisti quanto un registro ad adesione volontaria per i gruppi di pressione operanti in seno alla Commissione, che si aggiunge all’analogo registro previsto sin dal 1996 nell’ambito del Parlamento europeo. Pure a fronte delle iniziative comuni delle due istituzioni, volte all’adozione di un registro comune a natura obbligatoria, la cui esigenza pare confermata dalla distanza tra il numero stimato di rappresentanti 48 Dati che possono ricavarsi dal cosiddetto “Rapporto Stubb” (“Relazione sull’elaborazione di un quadro per le attività dei rappresentanti di interessi presso le istituzioni europee”, 2007/2115/INI, della Commissione per gli affari costituzionali, relatore A. Stubb, 2 aprile 2008). 49 Queste analisi mostrano, peraltro, una varietà di approcci, che variano in primo luogo a seconda che l’attività si riferisca ai lavori della Commissione, del Parlamento, o del Consiglio, e che si sviluppano tanto a livello di singoli membri, di staff, comitati, che indirettamente, mediante pressioni sui governi nazionali (cfr., per esempio G. Giordano, Le lobbies, cit.). 50 Alcune iniziative della Commissione attuate nel quadro del Libro bianco sulla governance europea anticipano gli specifici interventi in materia di trasparenza e rapporto con gli interessi poi sviluppati con l’Iniziativa europea per la trasparenza (IET), si pensi in particolare alla “Previsione di requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate”, COM(2002)704, che sviluppa il principio del Libro bianco per il quale “la maggiore partecipazione comporta una maggiore responsabilità”. Sul diritto di partecipazione alla definizione delle politiche legislative e amministrative come “terza generazione” del diritto di partecipazione (dopo quelle del diritto a essere sentiti e del diritto alla trasparenza), F. Bignami, “Tre generazioni di diritti di partecipazione nei procedimenti amministrativi”, in F. Bignami, S. Cassese (a cura di), Il procedimento amministrativo nel diritto europeo, Milano, 2004, 88 ss. 51 L’Iniziativa europea per la trasparenza è una delle strategie percorse dalla Commissione per rafforzare la legittimazione delle istituzioni dell’Unione, attraverso più interventi, relativi non solo alla trasparenza delle attività di rappresentanza di interessi, ma anche alla trasparenza nell’utilizzo di fondi comunitaria, all’adozione di regole e standard etici per i funzionari, all’accesso ai documenti. 52 Commissione europea, Libro verde. Iniziativa europea per la trasparenza, cit. 53 Si tratta di un testo molto breve, peraltro, che contiene essenzialmente disposizioni di principio: Comunicazione della Commissione, A Framework for Relations with Interest Representatives (Register and Code of Conduct), COM(2008)323 final, del maggio 2008. 119 di interessi particolari operanti in ambito comunitario e quello degli iscritti ai registri volontari, il passaggio a forme più rigide di regolazione del fenomeno sembra, al momento, segnare il passo54. 5. L’esperienza italiana: l’assenza di regole specifiche Il dato da cui muovere nell’analisi dell’esperienza italiana è, in primo luogo, quello dell’assenza di una regolamentazione organica, pure a fronte dei numerosi tentativi in tal senso avviati a livello parlamentare. Il già ricordato ddl Santagata, nella relazione illustrativa, ricorda ben 30 progetti di legge in tal senso a partire dal 194855, cui si aggiungono lo stesso progetto del Governo Prodi e, quindi, vari disegni già presentati nel corso della XVI legislatura56. Dati, questi, che già di per sé confortano l’idea di una rilevanza del tema, così come suffragano le critiche e mettono in luce le carenze del sistema italiano: di nuovo, come in altri casi, la storia della corruzione in Italia appare essere la storia dei rimedi non cercati, delle cure non trovate57. Una valutazione, questa, che trova conferma nel fallimento dell’interessante progetto Santagata58 e non viene smentita dalle pure significative regolazioni poste in essere in alcune esperienze regionali59. 54 Una spinta al rafforzamento delle regole in materia pare derivare soprattutto dal Parlamento: si veda in questo senso la già citata Relazione del 2 aprile 2008, cosiddetto “rapporto Stubb”, sulla cui base è stata adotta una Risoluzione del Parlamento sull’elaborazione di un quadro per le attività dei rappresentanti di interesse presso le istituzioni europee (2007/2115 (INI)), 8 maggio 2008, che contiene una serie di inviti e indirizzi alla Commissione nel senso di un rafforzamento della disciplina in materia. 55 Si contano 25 progetti fino alla XIV legislatura e ben 5 nella XV: si cfr. la “Relazione illustrativa” al citato ddl Santagata. Si noti, peraltro, che l’esigenza di una disciplina del lobbying era stata segnalata tra gli interventi prioritari dalla Commissione speciale per l’esame dei progetti di legge recanti misure di prevenzione e repressione dei fenomeni di corruzione, istituita dalla Camera dei deputati con deliberazione del settembre 1996 (sulle iniziative istituzionali di contrasto alla maladministration promosse nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, si veda l’ampia rassegna in B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit., 24). 56 Tra i disegni di legge presentati nel corso della XVI legislatura, oltre ad alcuni rivolti a un approccio più ampio al tema dell’etica pubblica, che toccano anche la tematica del lobbying, ne troviamo due direttamente volti alla disciplina del fenomeno (AC 1584, AS 1448). 57 Così R. Brancoli, Il Ministero dell’onestà, Milano, 1993. 58 Il progetto di legge, presentato nell’ottobre del 2007, prevedeva un ruolo rilevante per il CNEL. Elementi significativi erano date dalla previsione di appositi codici di condotta per le attività di rappresentanza di interessi particolari, dalla presentazione di rapporti annuali sulle attività svolte, da obblighi di registrazione e da meccanismi di trasparenza. 59 Si veda la legge regionale della Toscana, 5/2002, e la legge regionale del Molise, 24/2004, entrambe relative al rapporto con gli interessi del Consiglio regionale. 120 Appare esserci, però, dietro questo sostanziale vuoto regolatorio, non solo l’inerzia, ma anche l’ombra di impostazioni ideologiche di fondo, che peraltro non sono passate indenni attraverso le fasi di sviluppo delle istituzioni democratiche. Da un lato l’idea già ricordata, risalente e comune nelle esperienze continentali, di una rappresentanza politica che agisce in nome di una volontà generale e, al tempo stesso, la traduce in atti che ne sono diretta espressione. Dall’altro l’idea che la porta di comunicazione con gli interessi particolari, la sede in grado di assicurarne l’accesso alla decisione pubblica non prima di averne operato una mediazione e inserimento in una prospettiva collettiva, fosse da riconoscere (in esclusiva) ai partiti politici. In questo senso, la finzione di irrilevanza giuridica del tema, che ha accompagnato vari aspetti relativi al rapporto tra politica e società60, deve fare i conti con la crisi dei partiti di massa tradizionali che porta con sé l’effetto di “eliminare, o ridimensionare il ruolo di un diaframma razionalizzatore e regolarizzatore del rapporto tra interessi (soprattutto economici) e personale politico”61. L’assenza di una disciplina dedicata produce, in effetti, più disfunzioni: impedisce al lobbista di uscire dall’ombra (problema cui solo in parte riescono a dare risposta i tentativi di autoregolamentazione delle associazioni ESPONENZIALI?? dei rappresentanti di interessi)62 e quindi di porsi come trasparente portatore di interessi meritevoli di attenzione, supporta l’idea di un fenomeno che si muove ai margini della legge approfittando delle mancanze normative, non consente di ergere confini atti a contenere il lobbying entro una dimensione fisiologica. In termini regolatori, poi, in assenza di specifiche disposizioni legislative rivolte ai soggetti che si relazionano con i decisori pubblici, il contenimento delle degenerazioni finisce per essere affidato in larga parte a meccanismi repressivi di tipo penale, per le ipotesi più gravi, o per essere affidato alle regole, deboli63, volte ad assicurare l’“eticità” delle condotte dei funzionari pubblici. 60 Il riferimento è in particolare alla dimensione della comunicazione politica, dove questa espressione è utilizzata in modo ricorrente dalla dottrina a giustificare la sostanziale assenza di regole, non a caso fino al 1993 (si cfr. G. Gardini, Le regole dell’informazione, Milano, 2005). 61 Così G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi. Alla ricerca di nuovi istituti, Napoli, 2008, 18, che prosegue riconoscendo che ciò comporta che “tematiche come il conflitto di interessi e quello della commistione tra interessi privati e funzione pubbliche e del lobbying assumano una evidenza del tutto nuova nel dibattito pubblico” (ivi, 19). 62 Nel campo delle relazioni pubbliche, possono rinvenirsi numerosi codici di autoregolamentazione (un elenco dei codici vigenti, a livello nazionale ed europeo, si trova in www.ferpi.it). 63 Si veda in questo lavoro, diffusamente, le riflessioni di F. Merloni, R. Cavallo Perin, G. Sirianni. 121 Quella del lobbying risulta essere, in questo scenario, una regolazione prevalentemente indiretta, in cui la disciplina si ricava a contrario, seguendo le norme poste a presidio della correttezza dell’azione pubblica e dei comportamenti dei decisori pubblici. Le regole che possono trovare applicazione in modo ampio, prescindendo quindi dalle norme di status di specifiche categorie di personale, e che risultano in grado di assicurare la funzionalizzazione delle condotte alla cura dell’interesse pubblico, da un lato, e il contenimento del ruolo e dell’incidenza di interessi parziali nel processo di formazione delle decisioni pubbliche, sono scarne e spesso solo indirettamente o limitatamente applicabili a ipotesi quali quelle sin qui illustrate. Si pensi, in questo senso, in primo luogo alle norme penalistiche: i reati di corruzione64 e abuso di ufficio65 solo in casi estremi (e in particolare in caso di diretto vantaggio economico per il funzionario infedele) si applicano alle attività di lobbying, senza che possano trovare applicazione in presenza di comportamenti più sfumati e sfuggenti66. Si tratta, in ogni caso, di regole che sono rilevanti sia per definire i limiti della “zona grigia” in cui si muove l’azione del lobbista, sia perché applicabili ai funzionari pubblici complessivamente intesi, seguendo in questo l’estensione della nozione penalistica di pubblico ufficiale67. Altre regole, di portata ampia ma più circoscritta, operano per la funzione pubblica in presenza dell’istituto dell’obbligo di astensione. In questo caso, però, così come accade per la disciplina del conflitto di interessi (che, a sua volta, sconta però un campo di applicazione ancora più circoscritto), la regola è posta in primo luogo come limite per l’ingresso di interessi pro64 Tanto il reato di corruzione per un atto d’ufficio (art. 318 c.p.), che quello di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) possono riferirsi a forme patologiche di lobbismo. 65 L’art. 323 c.p., anche dopo la riforma del 1997 che ne ha ristretto il campo di applicazione, continua a sanzionare condotte che, in violazione di leggi o regolamenti […] intenzionalmente procurano un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto, e quindi è suscettibile di riferirsi a ipotesi nelle quali l’azione pubblica si “piega” a favore di interessi privati. 66 Si noti, altresì, come in altri ordinamenti si sia operato nel senso di prevedere specifiche fattispecie penali in grado di meglio contenere le degenerazioni della pressione di interessi, si pensi in particolare al delitto di trafic d’influence, che ha trovato recentemente sviluppo in vari ordinamenti ed è previsto tanto dalla Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa (art. 12), che dalla Convenzione ONU contro la corruzione (art. 18): sul punto vedi G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi, cit. 67 Ai sensi dell’art. 357 c.p., e quindi quanto agli effetti della legge penale “sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giurisdizionale o amministrativa”. 122 pri del funzionario nel processo decisionale, piuttosto che come ostacolo per una indebita valorizzazione delle pressioni di terzi interessati. In questo scenario di fondo, stante l’assenza di regole specifiche e la debolezza o limitata applicabilità di regole e principi generali, il contenimento del fenomeno del lobbying entro confini tollerabili è affidato a un insieme di norme e istituti di variabile applicabilità, e di varia portata. Cercando di inquadrare queste previsioni entro uno schema descrittivo, possiamo fare riferimento a una dimensione relativa ai processi decisionali, e quindi all’attività, e a una inerente all’organizzazione, entro la quale ultima possiamo ricomprendere tanto le problematiche relative alle soluzioni organizzative che quelle di status dei funzionari pubblici. Queste dimensioni del problema (procedurale e organizzativo, a sua volta inteso in senso oggettivo e soggettivo) si muovono spesso in modo indipendente, tanto che nel caso concreto possiamo assistere a un cumulo di meccanismi di salvaguardia, come anche alla loro assenza. 6. (segue) Le regole sui processi decisionali e sull’attività dei poteri pubblici Il primo insieme di regole si riferisce all’attività che il decisore è chiamato a svolgere e, quindi, alle procedure formalizzate relative al processo decisionale: l’obbligo di astensione già richiamato si muove in questa dimensione, unitamente a una serie di norme e principi che si collegano alla natura della funzione (legislativa o amministrativa, formalmente amministrativa ma sostanzialmente normativa, amministrativa volta all’adozione di atti generali o di atti puntuali) o alla specifica funzione amministrativa svolta (e, quindi, alle specifiche regole procedurali previste, come per esempio in campo ambientale piuttosto che urbanistico). Non è qui possibile entrare nelle regole speciali e settoriali, mentre si può articolare qualche riflessione in ordine ai principali meccanismi che paiono idonei ad assicurare che l’attività sia svolta nel rapporto corretto con gli interessi, sia escludendone l’ingresso nello scenario decisionale ove necessario, sia, soprattutto, assicurandone la trasparenza e garantendone il corretto bilanciamento. È chiaro, peraltro, che un approccio di questo tipo porta con sé il rischio di un ampliamento eccessivo, e scientificamente poco significativo, del campo di analisi, dal momento che gran parte degli istituti di diritto pubblico e amministrativo potrebbero, latu senso, essere inscritti nel novero dei meccanismi di funzionalizzazione al perseguimento e alla cura dell’interesse pubblico. 123 Al cuore di queste tematiche si collocano, però, le previsioni volte a formalizzare e rendere trasparente il confronto con gli interessi organizzati, vale a dire con interessi non meramente individuali e nel contesto del processo volto all’adozione di una decisione pubblica rilevante. A livello di procedimento legislativo, la “solitudine” del decisore è esclusa da principi di rango costituzionale, quali il valore che è riconosciuto ai partiti68 e alle associazioni, la possibilità di iniziativa legislativa riconosciuta a un gruppo di cittadini, oltre alla centrale previsione contenuta nell’art. 5069, che di fatto fornisce una chiara copertura costituzionale all’intervento dei portatori di interessi70. La “giusta distanza” e il contenimento del ruolo degli interessi parziali passa, d’altro canto, attraverso regole quali quelle di trasparenza e pubblicità dei lavori, nonché attraverso la previsione del divieto di mandato imperativo, così come sviluppato in sede di regolamenti parlamentari. Si tratta, in ogni caso, di regole e istituti che non si pongono in modo specifico quali tentativi di contenimento del lobbying e, quindi, a impedire la “cattura” del legislatore: in effetti, pure a fronte di previsioni che in qualche modo incidono su queste relazioni con i portatori di interessi, le regole in esame non paiono in grado di incidere significativamente su quelle relazioni e quei condizionamenti che, più che nelle aule parlamentari si realizzano nelle anticamere, nei corridoi, nelle lobbies appunto71. Posto che il rapporto con gli interessi è un dato ineliminabile dei sistemi democratici, cui sempre più difficilmente può sfuggire l’azione pubblica, normativa ma anche amministrativa, diviene decisivo il disvelamento del ruolo degli interessi nella costruzione della decisione. In questo senso, riflettere sulla capacità di un sistema di rendere manifeste le pressioni e, così facendo, di legittimarne il contributo alla scelta pubblica e, a un tempo, 68 Si noti, peraltro, che i partiti politici, rispetto alle altre associazioni e ai soggetti espressione di interessi organizzati, hanno una “visione parziale, perché di parte, ma totale”, perché politicamente portatrice di una propria visione dell’interesse generale (V. Crisafulli, “I partiti nella Costituzione”, in Aa. Vv., Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costituente, II, Firenze, 1969, 118). 69 “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. 70 Qui è evidente l’affinità con la previsione statunitense contenuta nell’ultima parte del Primo emendamento della Costituzione. 71 L’etimologia del termine è, peraltro, controversa: dalla metà del seicento con lobby si inizia a indicare l’anticamera della Camera dei Comuni inglese e, quindi, è utilizzato per riferirsi agli spazi del Parlamento utilizzati dai rappresentanti di interessi per contattare i membri dell’assemblea (in questo senso, vedi, per esempio, G. Mazzei, Lobby della trasparenza, Roma, 2003, 15). 124 di contenerne le possibili degenerazioni, significa riflettere su una delle parole chiave che ricorrono nel dibattito contemporaneo sulle istituzioni democratiche: la trasparenza72. I meccanismi idonei a rendere possibile questa duplice azione, di legittimazione e limitazione, sono numerosi, e passano attraverso la formalizzazione delle dinamiche partecipative, la pubblicità di documenti e sedute, la conoscibilità della decisione nel suo farsi e degli atti adottati e della loro motivazione, la disclosure sugli interessi del decisore. Se poniamo attenzione all’azione amministrativa, la problematica del rapporto con interessi “forti” e il rischio che questi siano indebitamente sovrarappresentati73 nella scelta pubblica chiama in causa, sotto un’angolazione specifica, il principio di imparzialità come valore di fondo dell’agire pubblico, che trova traduzioni diverse ma si pone unitariamente a presidio dell’attività del personale politico e di quello amministrativo74. Il procedimento determina le condizioni di formalizzazione e perciò di emersione, prima ancora che di partecipazione, degli interessi75. Larga parte dei meccanismi procedimentali, nel momento in cui aprono il processo decisionale al contributo formalizzato dei portatori di interessi metaindividuali, favoriscono la riduzione di spazi di intervento opaco, determinano un ambiente in cui la pressione può realizzarsi alla luce del sole. Se questo è vero, però, diviene tanto più incongrua, e foriera di risvolti negativi, la ricordata 72 Il tema è, da ultimo, ampiamente sviluppato in F. Merloni (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008. Per una riflessione sui meccanismi della trasparenza e sul loro ruolo nella prospettiva della correttezza dell’azione pubblica, ci sia consentito rinviare a E. Carloni, Gli strumenti della trasparenza nel sistema amministrativo italiano e la sua effettività: forme di conoscibilità, quantità e qualità delle informazioni, ivi, 369 ss. 73 È una problematica, questa, che accompagna la riflessione sugli istituti partecipativi: come rimarca M. D’Alberti, “La visione e la voce: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi”, Riv. trim. dir. pubb., 2000, 30: la partecipazione è presa d’atto dell’“oggettiva pluralità di istanze e di interessi, i cui portatori vengono legittimati a intervenire nelle procedure amministrative”, ma nondimeno “la pluralità di interessi ha finito spesso per risolversi nella disuguaglianza fra amministrati, nella persistenza di privilegi di pochi fra loro, nella maggiore capacità di negoziazione dei gruppi meglio organizzati”. Sui rischi della partecipazione strumentale agli interessi più forti, si veda già M. Nigro, “Il nodo della partecipazione”, Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 3165; e F. Levi, “Partecipazione e organizzazione”, Riv. trim. dir. pubb., 1977, 1625. Una tematica, questa, già approfondita nell’esperienza americana da R. B. Stewart, “The Reformation of American Administrative Law”, Harward Law Rev., 1975, 1669. 74 In tal senso, si vedano le considerazioni di F. Merloni, G. Sirianni, A. Gualtieri in questo lavoro. 75 Sul procedimento amministrativo come luogo per la formazione graduale e trasparente della decisione pubblica, cfr. A. Police, La predeterminazione della decisione amministrativa, Napoli, 1998; A. Sandulli, “Il procedimento amministrativo”, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Parte generale, II, Milano, 2000, 927 ss. 125 esclusione delle procedure volte all’adozione di atti generali e a contenuto normativo dal campo di applicazione degli istituti partecipativi76. Riecheggiano, in effetti, nell’esperienza delle procedure amministrative italiane, sia pure quale frutto di una distinzione non esplicitata, categorie quali quelle dei procedimenti regulatory o adjudication77: i primi, nel caso italiano, tendenzialmente e però poco comprensibilmente sottratti a istituti partecipativi di tipo generale, i secondi altresì sorretti da meccanismi di giustizia nell’amministrazione e di coinvolgimento (quasi necessario78) dei portatori di interessi (propri, ma anche diffusi, collettivi e pubblici). È però ai primi, più che ai secondi, che si rivolgono i gruppi di pressione, tanto che la mancata formalizzazione di dinamiche partecipative porta, in caso di interventi di regolazione o provvedimenti di tipo generale, con sé il rischio non già di una assenza della partecipazione degli interessi, ma piuttosto quello dell’opacità delle dinamiche partecipative. Quelle sin qui introdotte non sono, però, che alcune delle problematiche rilevanti in tema di rapporto tra interessi organizzati e azione amministrativa. Se cogliamo l’azione lobbistica non solo come pressione, ma anche come contributo decisionale, e quindi riflettiamo come sin qui si è cercato di argomentare sul ruolo conoscitivo che è proprio dei portatori di interessi organizzati, ne discende che il processo decisionale pubblico è tanto più in 76 Per il Consiglio di Stato, a.g., 17 febbraio 1987, n. 7, riportato in F. Trimarchi (a cura di), Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell’amministrazione, Milano, 1990, 202, il fondamento di una simile opzione è quello di “sottrarre, per ragioni pratiche, atti di vasta portata e di applicazione generalizzata, alla troppo penetrante ingerenza di una molteplicità di interessati, al di là delle garanzie predisposte dalle singole leggi di settore”. Una simile esclusione doveva risultare compensata dalla previsione dell’istituto dell’inchiesta pubblica per i procedimenti caratterizzati da estesi interessi partecipativi, la quale è stata però eliminata nel testo approvato della legge 241/1990. Sul punto, e per più ampi riferimenti, cfr. C. Cudia, “La partecipazione ai procedimenti di pianificazione territoriale tra chiunque e interessato”, Dir. pubbl., 2008, 263 ss. 77 Per un inquadramento di tali modelli, e di queste categorie nell’esperienza americana, si veda G. Napolitano (a cura di), Diritto amministrativo comparato, Milano, 2007, spec. 110 ss.; su queste tematiche e per una ricostruzione dei modelli di partecipazione in ambito comparato, cfr. S. Cassese, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche, cit., spec. 20 ss. 78 Il “quasi” è legato in particolare alla controversa previsione contenuta nell’art. 21 octies. In ordine a questa previsione, cfr. L. Ferrara, “La partecipazione tra ‘illegittimità’ e ‘illegalità’. Considerazioni sulla disciplina dell’annullamento non pronunciabile”, Dir. amm., 2008, 103; D. Sorace, “Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo”, Dir. pubbl., 2007, 385; in una prospettiva ampia, con una ricostruzione della problematica teorica del formalismo e dei vizi formali vedi, S. Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio, Torino, 2006. 126 grado di relazionarsi correttamente con le lobbies quanto più è autonomo dal punto di vista della capacità di acquisire informazioni, elaborare strategie, studiare la fattibilità e la ricaduta delle scelte che si intende assumere79. I pubblici poteri, detto altrimenti, trovano in primo luogo nella loro autonomia conoscitiva la salvaguardia dal rischio di una cattura da parte delle expertises dei gruppi di pressione80. L’impoverimento delle competenze tecniche a livello ministeriale81, la debolezza conoscitiva delle sedi normative non statali, finiscono per predeterminare una sudditanza conoscitiva dei decisori pubblici agli interessi organizzati, come è evidenziato dall’analisi delle procedure decisionali in seno alle istituzioni europee e in particolare a livello parlamentare82, e come è rimarcabile a livello di consigli regionali, dove l’ampliamento delle competenze legislative non è stato accompagnato di norma da un potenziamento delle strutture conoscitive e dove le previsioni di numerosi statuti aprendo a contributi conoscitivi esterni (tramite audizioni, indagini conoscitive, interventi di rappresentanti di gruppi organizzati) attivano nel procedimento legislativo regionale rilevanti momenti istruttori “nei quali le lobby trovano utile e agevole inserirsi”83. 7. (segue) I modelli organizzativi e le regole di status Per quanto attiene alla problematica, non meno ampia, delle soluzioni organizzative volte a limitare e contenere la pressione dei gruppi di interesse sulla decisione pubblica, occorre segnalare come sia una caratteristica 79 Si noti, peraltro, che uno dei più incisivi argomenti a favore del lobbying è, appunto, quello di consentire a chi meglio conosce un fenomeno di contribuire a determinarne la regolazione. In questo senso, vedi in particolare T. Sowell, Knowledge and Decision, New York, 1996. Come l’amministrazione forma le sue “verità”, rimanda, d’altra parte, alla stessa idea di amministrazione che abbiamo, come segnala M. Cammelli, “Attività conoscitiva e organizzazione della pubblica amministrazione”, in M. Cammelli, M. P. Guerra (a cura di), Informazione e funzione amministrativa, Rimini, 1997, 393. 80 L’ingresso formalizzato degli interessi, intesi anche come contributo di expertise alla formazione della decisione, è legato anzitutto a istituti quali le indagini conoscitive e le audizioni parlamentari. 81 Cfr. E. Gustapane, “La crisi dei corpi tecnici dello Stato”, in M. D’Alberti, R. Finocchi (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, cit., 213. Sul punto, cfr. gli ulteriori riferimenti e le notazioni in B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit., spec. 34. 82 Come è ben evidenziato, tra gli altri, da L. Giordano, Le lobbies, cit. 83 Così M. Fotia, Le lobby in Italia, cit., 40, cui si rinvia per l’ampia analisi del rapporto tra lobbies e strutture assembleari (commissioni parlamentari, gruppi consiliari ecc.). 127 dei sistemi contemporanei il tentativo di individuare modalità alternative di interlocuzione con gli interessi, rispetto a quelle proprie del circuito di responsabilità politica e politico-amministrativa, in specie in presenza di posizioni particolarmente forti e di decisioni che con maggiore rilevanza possono toccare interessi sensibili, specie economici84. I meccanismi della distinzione e quelli della separazione85, tra politica e amministrazione e però, con questo, in certa misura anche tra interessi e decisori, possono quindi essere collocati in un ideale continuum che segna stadi progressivi di allontanamento dagli interessi. La distinzione, quale soluzione tipicamente italiana che prevede l’affidamento di compiti diversi ed esclusivi, ma interrelati, alla politica e alla burocrazia86, crea un allontanamento tra criteri generali e scelta puntuale, tra indirizzi e loro attuazione, e così facendo determina un ambiente meno favorevole per la pressione indebita degli interessi, sia pure solo e nella misura in cui tale distinzione di spazi decisionali sia reale e non solo formale87. Diversamente, il modello della distinzione finisce per fornire garanzie inferiori, e non superiori, rispetto al tradizionale modello weberiano di amministrazione88, dove la responsabilità politica svolge anche una funzione di trasparenza che si perde a fronte di un disallineamento tra potere decisionale reale (che resta in mano alla politica) e potere decisionale formale (che le riforme degli anni Novanta del secolo scorso vogliono ormai univocamente, per le decisioni puntuali, in capo alla dirigenza)89. L’indipendenza, unitamente alle figure analoghe in cui questa varia quanto a gradazione di concentrazione, è però indubitabilmente la soluzio84 Sul rilievo che, in tali ipotesi, assume la posizione individuale di indipendenza del funzionario, cfr. B. Ponti, infra. 85 Per una definizione dei due concetti nell’esperienza italiana, vedi F. Merloni, “Amministrazione neutrale e amministrazione imparziale (a proposito dei rapporti tra politica e amministrazione)”, Dir. pubbl., 1999, 717 ss. 86 F. Merloni, Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Bologna, 2006; G. Gardini, L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione: organizzazione e ruolo della dirigenza pubblica nell’amministrazione contemporanea, Milano, 2003. 87 Cfr. i meccanismi di aggiramento ben illustrati in F. Merloni, Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, cit. 88 Il modello, per il quale cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tubingen, 1922, trad. it. Economia e società, a cura di P. Rossi, Milano, 1961, 324; la sua evoluzione nell’ordinamento italiano può ben ricavarsi da S. Battini, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Padova, 2000. 89 Sulla posizione della dirigenza nel quadro delle riforme degli anni Novanta, quanto a poteri, capacità e rapporti con i vertici politici, cfr. F. Merloni, A. Pioggia, R. Segatori, L’amministrazione sta cambiando?, Milano, 2009, e ivi spec. i contributi di A. Pioggia, B. Ponti, G. D’Alessio. 128 ne organizzativa più rilevante quanto a tentativi di fornire una risposta all’esigenza che sempre più si avverte di un rafforzamento, un ispessimento, dei confini tra sfere diverse, in primis tra quelle del potere economico e del potere politico90. Il proliferare91 di authorities chiamate a intervenire con poteri di regolazione e governo, a salvaguardia di interessi pubblici e privati di rilievo costituzionale92, caratterizzate dalla sottrazione all’indirizzo politico governativo e da competenze tecniche93, ha connotato varie esperienze, tra cui quella italiana in particolare sul finire del ventesimo secolo94. Si noti, peraltro, che pure a fronte di una categoria ampia ed eterogenea, il tratto distintivo dell’indipendenza è stato visto come connaturato al modello, e inteso non solo come sottrazione all’indirizzo politico, ma anche come “indipendenza dai gruppi di pressione, capacità di resistere alla cattura da parte di imprese regolate”95. Meccanismi e soluzioni di indubbio rilievo, ma da utilizzare con attenzione: anche prescindendo per il momento da valutazioni in ordine alla tollerabilità democratica della proliferazione di questi soggetti regolatori, l’esperienza statunitense ha già mostrato tanto le potenzialità che le criticità del modello, specie se teniamo a mente le analisi sulla regulatory capture96. Dal momento che le amministrazioni indipendenti derivano la loro legittimazione proprio dalla loro, vera o presunta, capacità di distanziarsi dagli interessi sui quali incidono, questa problematica diviene decisiva e non è un caso se è proprio attingendo all’esperienza delle autorithies che possiamo rinvenire la più significativa attenzione alle regole di status, dei vertici e del personale di questi apparati. 90 Il riferimento è alla costruzione teorica di M. Walzer, Sfere di giustizia, Milano, 1987 (e. orig. Spheres of Justice. A Defense of Pluralism and Equality, New York, 1983). 91 A. Predieri parlerà, al riguardo, de L’erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze, 1997. 92 Si veda C. Franchini, “Le autorità amministrative indipendenti”, Riv. trim. dir. pubbl., 1988, 550 ss. 93 Cfr. in questo senso, tra gli altri, M. De Benedetto in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, I, Milano, 2006, 587. 94 Le prime iniziative volte a introdurre strutture a più alto tasso di imparzialità si fanno risalire alla relazione di F. Piga, “Relazione della Commissione per la modernizzazione delle istituzioni. Riforma dell’amministrazione centrale”, Riv. trim. sc. amm., 1985, 115. 95 Così M. Di Benedetto, Autorità indipendenti, cit., 589. 96 In particolare, si veda G. J. Stigler, The Theory of Economic Regulation, cit., 3, e ancor più chiaramente, sul punto, R. A. Posner, “Theories of Economic Regulation”, Bell journ. of econ. and management science, 1974, 335 (per il quale “regulatory agencies come to be dominated by the industries regulated”). 129 Regole, queste, poste non solo da codici di condotta interni, ma spesso già affermate nelle leggi istitutive97. Nella “galassia” delle amministrazioni indipendenti e semi-indipendenti, pur a fronte di una significativa variabilità frutto dei differenti impianti normativi che reggono i diversi soggetti, ricorrono attente regole, rivolte di norma tanto ai membri quanto al personale delle autorità, che sviluppano in modo rigoroso i principi di imparzialità e di indipendenza come doveri dei funzionari. Nello specifico, poi, si rinvengono nei diversi codici etici norme in materia di rapporto con gli interessi organizzati: una questione decisiva, dal momento che tanto più il campo visuale delle autorità è ristretto, tanto più vi è il rischio di una cattura del regolatore da parte del regolato. Questa attenzione alla dimensione soggettiva del rapporto con gli interessi, e più in generale alla definizione di regole di condotta quali “precauzioni ausiliarie”98 a garanzia del perseguimento dell’interesse pubblico, decresce nel modello tradizionale di amministrazione, specie allorché si faccia riferimento ai funzionari a legittimazione politica. È possibile, in effetti, rinvenire una sorta di rapporto di proporzionalità inversa tra investitura politico-democratica dei funzionari pubblici e attenzione alla previsione di doveri volti ad assicurare un equilibrato rapporto con gli interessi. Attenzione che è, come visto, massima per i membri e il personale delle autorità (ed entro questa categoria è a sua volta indice della più o meno compiuta indipendenza dell’amministrazione interessata), limitata per il personale burocratico, esile per il personale di diretta collaborazione e il personale politico99. Per i dipendenti pubblici, per i quali trova applicazione il codice di comportamento100, il dovere costituzionale di esclusività nel servizio alla Nazione, che va correttamente inteso come piena dedizione alla cura dell’interesse generale, si traduce in una serie di principi e previsioni puntuali che in certa misura si pongono a presidio di un corretto rapporto con gli interessi: sono da 97 Sul punto si veda B. Ponti, in questo lavoro, cui ci sia consentito rinviare per l’analisi delle previsioni contenute nei diversi codici etici. 98 Il riferimento è di nuovo a J. Madison, Federalist Paper, n. 51 (in un passo spesso ripreso negli studi sull’etica pubblica): se gli uomini fossero angeli, o fossero governati da angeli, non ci sarebbero problemi, ma gli uomini non sono angeli, né lo sono i loro governanti, e “l’esperienza ha insegnato all’umanità che sono necessarie precauzioni ausiliarie”. 99 Tematiche, queste, per le quali si veda ampiamente, infra, i contributi di G. Sirianni, e F. Merloni. La limitata attenzione italiana alla regolazione etica delle condotte dei funzionari non professionali è rimarcata da B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit. 100 Cfr. infra R. Cavallo Perin. Sul ruolo e la portata del codice, vedi già B. G. Mattarella, “I codici di comportamento”, Riv. giur. lav., 1996, 275 ss.; E. Carloni, “Ruolo e natura dei c.d. ‘codici etici’ delle amministrazioni pubbliche”, Dir. pubbl., 2002, 319. 130 intendersi in questo senso tanto l’art. 2 (in cui l’espressione “conflitti di interesse” pare suscettibile di interpretazione ampia101), che, in modo più puntuale, l’art. 3, relativo a regali e altre utilità102, oltre a varie disposizioni che si riferiscono tanto all’obbligo di astensione103, alla trasparenza negli interessi finanziari, alle attività collaterali104. È però soprattutto nell’art. 8, “Imparzialità”, che si esplicita come dovere del dipendente quello di “assicurare la parità di trattamento tra i cittadini”, e questo “respingendo in particolare ogni illegittima pressione”105. Significativa è, infine, anche la previsione contenuta nell’art. 11, che vieta di assumere impegni relativi all’attività del proprio ufficio, laddove questo possa “generare o confermare sfiducia nell’amministrazione o nella sua indipendenza e imparzialità”106. Esiste, in sostanza, un insieme non scarno di doveri dei dipendenti pubblici che qualificano il corretto adempimento della prestazione in termini di cura esclusiva dell’interesse pubblico: i limiti del sistema discendono, piuttosto, dalla ridotta incisività, dall’eccessiva estensione quanto a destinatari di tali previsioni, dal problematico raccordo con i meccanismi della responsabilità disciplinare e infine dalla scarsa prassi applicativa delle sanzioni inerenti alla violazione dei doveri107. 101 Fino a ricomprendervi la soggezione a interessi non necessariamente propri del soggetto. L’art. 2, comma 2, del Codice di comportamento vigente prevede, in particolare, che “Il dipendente mantiene una posizione di indipendenza, al fine di evitare di prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni, anche solo apparenti, di conflitto di interessi”. 102 Art. 3: “Il dipendente non chiede, per sé o per altri, né accetta, neanche in occasione di festività, regali o altre utilità salvo quelli d’uso di modico valore, da soggetti che abbiano tratto o comunque possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio”. 103 Una previsione, questa contenuta nell’art. 6, che si riferisce però in larga parte all’ipotesi di conflitto tra interessi propri del dipendente o di suoi congiunti e funzione pubblica assegnata. Sul punto vedi M. Consito, in questo lavoro. 104 In questo senso, si veda il comma 1 dell’art. 7, “Il dipendente non accetta da soggetti diversi dall’amministrazione retribuzioni o altre utilità per prestazioni alle quali è tenuto per lo svolgimento dei propri compiti d’ufficio”, ma soprattutto il comma 2, “Il dipendente non accetta incarichi di collaborazione con individui o organizzazioni che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico in decisioni o attività inerenti all’ufficio”. 105 Cfr. i commi 1 e 2 dell’art. 8. Sul punto, vedi amplius M. Consito, infra. 106 Così l’art. 12, comma 3. Una previsione, questa, che conferma l’attenzione che in ambito pubblico deve essere prestata ai conflitti tra interessi, anche solo apparenti (in questo senso, cfr. D. F. Thompson, “Paradossi dell’etica della pubblica amministrazione”, Probl. pubbl. amm., 1994). Questa previsione è, in particolare, attentamente esaminata da D. Casalini, infra. 107 Su questi temi, si veda specialmente R. Cavallo Perin, B. Gagliardi e M. Consito, in questo lavoro. 131 Per il personale politico e di diretta collaborazione, la questione diviene più sfuggente, dal momento che le regole di status idonee a contenere possibili distorsioni e “parzialità” nel rapporto con gli interessi risultano deboli, pur dovendosi ritenere applicabile anche ai funzionari onorari e ai decisori politici il dovere costituzionale di imparzialità108. Qui, in effetti, diviene necessario riflettere sulla responsabilità del personale politico complessivamente intesa: responsabilità che è giuridica, in alcuni casi109, ma più spesso politica e in questo contesto la correttezza delle condotte è anche frutto del sistema di valori condivisi a livello di elites e di partiti politici110, della capacità dell’opinione pubblica di conoscere e premiare o sanzionare le condotte, avendo a riferimento la cura dell’interesse generale. 108 Come ravvisa F. Merloni, in questo lavoro, “essi devono assumere decisioni rilevanti che già toccano direttamente interessi, anche importanti, quando adottano atti normativi o atti amministrativi generali, così come spetta a essi fare in modo che gli atti di indirizzo che adottano ricevano un’attuazione imparziale (gli atti devono contenere già le condizioni della loro attuazione imparziale)”. 109 Si noti che l’allora Presidente del Consiglio C. A. Ciampi, nel presentare il suo Governo al Parlamento, il 6 maggio 1993, annunciava tra i punti programmatici, l’adozione di codici di condotta per tutto il personale pubblico, sia esso elettivo o di carriera. 110 In questo senso risultano di interesse le regole interne ai partiti politici, quale il Codice etico recentemente approvato in seno al Partito democratico (sul quale si veda le notazioni di G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi, cit.). 132 Pietro Barrera RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE DEI DIPENDENTI PUBBLICI 1. La responsabilità disciplinare come strumento di contrasto della corruzione e della malamministrazione L’esercizio del «potere disciplinare» può contribuire all’azione di prevenzione e contrasto della corruzione negli uffici pubblici, e in generale dei fenomeni di «mala amministrazione»? La risposta non può che essere positiva: è una leva parziale, limitata (non tocca la sfera politica), ma ha il pregio di chiamare in causa la responsabilità individuale di ogni dirigente e dipendente pubblico, e di segnalare comportamenti che – senza (ancora) violare la legge penale – creano però l’humus favorevole per deviazioni ben più gravi. In questo senso può essere accolta con favore l’enfasi che la c.d. «riforma Brunetta» riserva alla materia. Questa del resto è una delle «chiavi di lettura» dell’intero disegno riformatore: a fronte di una diagnosi severa – una pubblica amministrazione sfibrata dal diffuso malcostume individuale – il legislatore propone una strategia a tutto campo volta a rafforzare la responsabilità dei singoli. Da un lato l’inedita (almeno per il personale di qualifica non dirigenziale) attenzione alla misurazione e valutazione della performance individuale e alla correlata gestione dei sistemi premianti (fino a prescrivere che sia destinata «alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo»); dall’altro – appunto – il nuovo vigore del potere disciplinare. Insomma, carota e bastone. È lecito dubitare di un approccio concettuale che finisce per far coincidere il successo di una grande organizzazione con la somma dell’impegno dei componenti, sottovalutando il peso di altri «fattori» – dalla funzionalità dell’organizzazione alla qualità della formazione – e tuttavia, a fronte di un generalizzato «allentamento» delle regole, pur vigenti (e talora severe), ben si comprende la sollecitazione per un «nuovo clima». Le disposizioni in materia disciplinare del d.lgs. 150/2009 non impongono infatti nuovi precetti comportamentali, né tutto sommato aggravano le sanzioni in modo par245 ticolarmente rilevante. Hanno piuttosto l’obiettivo di restituire effettività al potere disciplinare e alle correlate responsabilità, per scongiurare una distanza troppo grande tra il codice disciplinare formale e quello reale. Si spiega così l’attenzione prevalente alle disposizioni procedurali, più che alle norme sostanziali, e l’insieme dei precetti (innovativi) volti a responsabilizzare i dirigenti titolari del potere disciplinare. Quando poi – in modo episodico e senza alcuna ambizione di esaustività – l’accento si sposta sul diritto sostanziale, balza agli occhi un limite forte, del resto già esplicito nella legge delega: la preoccupazione che domina l’impianto normativo è la lotta all’assenteismo, al «fannullonismo», insomma ai comportamenti connotati da un «non fare», piuttosto che dal «fare male» o fare in modo lesivo di (altri) diritti e interessi individuali e collettivi. È il punto su cui dobbiamo concentrare l’attenzione. 2. La responsabilità disciplinare tra legge e contrattazione collettiva L’intervento «pesante» del legislatore obbliga però ad una riflessione preliminare. Più di un commentatore si è chiesto se in questa, come in altre materie affrontare dal riformatore del 2009, la (sostanziale) rilegificazione ne abbia mutato i paradigmi, fino a porre serie questioni di ordine costituzionale. C’è da dubitare, in particolare, dell’attualità e della correttezza dell’inclusione della responsabilità disciplinare nell’ordinamento civile, e non nell’organizzazione amministrativa (…) soprattutto perché le disposizioni (del d.lgs. 150/2009, ndr.) descrivono, per i dipendenti pubblici, un quadro normativo alquanto diverso da quello della responsabilità disciplinare dei dipendenti privati (1). Insomma, come per altre parti del «decreto Brunetta», è possibile che ad un certo punto «la quantità diventi qualità», e cioè (1) B.G. Mattarella, «La responsabilità disciplinare», in Giornale di diritto amministrativo, n. 1/2010, 37. 246 il numero e la rilevanza delle disposizioni «speciali», rivolte al solo settore del lavoro pubblico, finiscano per rompere l’unitarietà dell’ordinamento civile, che ovviamente ammette specifiche discipline per diversi settori, ma sempre ancorate ad un ceppo comune di regole e valori riconducibili ai principi lavoristi della Costituzione. Per questo la dottrina da tempo aveva segnalato come, in regime di contrattualizzazione, i contratti collettivi soli possono individuare le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni (tant’è vero che) anche le norme del codice di comportamento sono assistite da sanzioni disciplinari solo se l’Aran riesce ad imporne il recepimento nei contratti collettivi (2). Il dubbio è rafforzato dalla discutibile previsione posta al primo comma dell’art. 40/165, secondo cui, in materia disciplinare, «la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge» (non ha quindi potenzialità innovatrici, sia pure nel rispetto di norme «inderogabili» ex artt. 1339 e 1419 c.c.). La risposta «tecnica» del legislatore fa leva su quelle norme del codice civile. Se infatti resta vero che «i rapporti individuali di lavoro (…) sono regolati contrattualmente» e che spetta alla contrattazione collettiva determinare «i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro», non muta il fondamento civilistico della responsabilità disciplinare (con la conseguente devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative). Le nuove numerose disposizioni legislative (l’art. 55 del d.lgs. 165 è sostituito da ben dieci nuovi articoli!) non concretizzano insomma una rilegificazione (intesa come «ri-pubblicizzazione») della materia, ma – qualificandosi espressamente come «disposizioni a carattere imperativo» (l’art. 55.1 richiama proprio gli artt. 1339 e 1419, co. 2) – si limitano a fissare i capisaldi inderogabili dalla regolazione contrattuale. Il problema deve però essere impostato diversamente. Si può dire (chi scrive ne è convinto) che le sacrosante preoccupazioni (2) S. Battini, «Rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni», in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, 4825. 247 del legislatore, derivanti dalle sconfortanti esperienze passate, potevano essere affrontate con una maggiore e più coerente determinazione delle parti pubbliche nella definizione e nella gestione delle norme contrattuali. Si poteva (si doveva) concretizzare la responsabilità disciplinare anche per i dirigenti; si dovevano definire procedimenti più snelli, efficaci, rigorosi; in alcuni casi era anche possibile, e per qualche verso doveroso, tornare sul codice disciplinare sostanziale, alla luce di nuove patologie e nuove sensibilità (3). Insomma, gli obiettivi perseguiti dal legislatore potevano essere raggiunti anche sul tavolo contrattuale, con un pizzico di volontà e di determinazione in più, senza rischiare di compromettere l’equilibrio legge/contratto, e conseguentemente il riferimento alla materia dell’ordinamento civile. 3. I caratteri specifici della responsabilità disciplinare nel settore pubblico Restavano però, e restano comunque, almeno due profili che oggettivamente distinguono la materia disciplinare nel settore pubblico, ancorché contrattualizzato, da quanto avviene nell’ambito delle imprese private. Il primo profilo è di natura sostanziale. La remota stagione della concezione «pubblicistica», quando il potere disciplinare appariva come estrinsecazione della posizione di «supremazia speciale» dell’amministrazione e della simmetrica «soggezione speciale» dei dipendenti pubblici (4), non era segnata solo da una pervicace cultura autoritaria. Si fondava piuttosto su una nozione alta e nobile dei doveri spettanti a quanti ricoprono uffici pubblici o esercitano pubbliche funzioni. Del resto, non è proprio l’articolo 54 della Costituzione a ricordare (anche) ai funzionari pubblici il dovere di adempiere le funzioni loro affidate «con disciplina ed onore»? È il solo articolo – insieme agli artt. 105 e (3) Una prova, pur limitata, è stata data dal recente CCNL per i dirigenti del comparto Regioni – enti locali (22.2.2010): il negoziato tra le parti, avviato ben prima – e «a prescindere» – della «riforma Brunetta», aveva già posto le premesse di una prima definizione della responsabilità disciplinare dei dirigenti, con qualche spunto interessante proprio per i temi qui trattati. (4) C. De Marco, «Il potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato», in Giustizia Amministrativa Siciliana, 1998, n. 3, 906 e ss. 248 107 sulla responsabilità disciplinare dei magistrati – a segnalare un profilo di responsabilità diverso e ulteriore rispetto alla triade evocata dall’art. 28 («penale, civile e amministrativa»); una responsabilità di condotta, di comportamento, persino di «stile». Dobbiamo leggere quel richiamo come una mera esortazione retorica, o c’è (si vuole) qualcosa di più? Riflessioni analoghe, e ancor più puntuali, si possono sviluppare a partire da altre norme costituzionali. A lungo si è discusso sul «servizio esclusivo della Nazione» cui l’art. 98 chiama gli «impiegati pubblici». Sovente è stato banalizzato, riferendolo semplicemente alla esclusività del rapporto di lavoro; altre volte è stato letto come reiterazione enfatica del precetto di imparzialità dell’art. 97 (la Nazione = tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua) (5). Chi ne ha richiamato l’origine storica, nel dibattito della Costituente, vi ha colto uno dei più solidi fondamenti del principio di distinzione tra funzioni politiche e gestione amministrativa, in opposizione alla subordinazione (politica e giuridica) al regime pro tempore che il fascismo aveva imposto a tutti i dipendenti pubblici (6). Ma anche dietro a quelle brevi parole c’è qualcosa di più: c’è l’immagine del «servitore dello Stato», del civil servant, di colui che non può, non deve (e non vuole) «servire Dio e Mammona» (7). Può non piacere il richiamo ad una «particolare devozione verso lo Stato (8)», ma certamente c’è il richiamo a tutta intera la tavola dei valori costituzionali (9). (5) Sul nesso tra «servizio esclusivo della Nazione» e principio costituzionale di imparzialità, cfr. Corte cost., n. 103/2007; cfr. inoltre F. Bassanini, «Indirizzo politico, imparzialità della Pubblica amministrazione e autonomia della dirigenza», relazione al convegno Il ruolo del dirigente quale garante dell’imparzialità amministrativa, Firenze, 13 giugno 2008. (6) Cfr. C. Pinelli, «Commento all’art. 98, 1° comma», in Commentario della Costituzione, fondato da G Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna, Zanichelli, 1994, 412 ss. (7) Matteo, 6,24; Luca, 16,13. (8) Così G. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, Giuffrè, 1967, 176. (9) C. De Fiores, «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione? Brevi considerazione sulla dimensione costituzionale del pubblico impiego tra privatizzazione del rapporto di lavoro e revisione del titolo V», in Diritto pubblico, n. 1/2006, 149 ss. 249 Era dunque comprensibile, e non il semplice retaggio di antiquate concezioni dello Stato, la nozione pubblicistica della responsabilità disciplinare, che ne rintracciava il fondamento in un insieme di «doveri speciali» gravanti sul dipendente pubblico in ragione della sua specialissima relazione con le istituzioni pubbliche, con il maneggio di beni e risorse della collettività, con l’esercizio di funzioni capaci di incidere in misura rilevante sui diritti e gli interessi degli altri cittadini. C’era però anche il rovescio della medaglia. La coppia «supremazia-soggezione speciale» consentiva infatti una sostanziale indeterminatezza del potere punitivo e sembrava autorizzare un controllo generalizzato sulla sfera personale – la vita privata – dei lavoratori pubblici. Com’è evidente, il problema non era solo il rischio di una grave e illegittima compressione di diritti e libertà (civili, sindacali, politiche) dei dipendenti pubblici, in spregio ad altre non meno importanti norme costituzionali (2, 3, 21, 39, 49, 97: lo stesso terzo comma dell’art. 98, per quanto è dato di leggervi in controluce), ma una generale subordinazione degli apparati professionali della p.a. al potere (politico), sia pure mediata dal richiamo ai doveri costituzionali. Insomma, la «speciale devozione per lo Stato», come fondamento della responsabilità disciplinare, poteva tradursi (e non di rado si tradusse), per aberrante eterogenesi dei fini, in una minaccia permanente sulla «missione di imparzialità» che la Costituzione stessa assegna ai «professionisti dell’amministrazione». 4. Responsabilità disciplinare e doveri di comportamento Per questo è stata giusta, opportuna, necessaria l’innovazione portata dalla «contrattualizzazione» del lavoro pubblico, anche per il profilo particolare che qui esaminiamo. Ma quei valori, quei «doveri pubblici» che abbiamo ricordato, debbono per questo sparire dall’orizzonte, tornando nel limbo delle proclamazioni retoriche? Le cronache giudiziarie ci ricordano che l’attenzione ai valori dell’imparzialità e del buon andamento, della legalità e della correttezza dell’azione amministrativa, non è mai troppa. Se mai c’è stato, non è certo questo il momento per abbassare la guardia, per banalizzare il richiamo ai valori costituzionali: 2, 54, 97, 98… Non c’è contraddizione con il fondamento civilisti250 co e contrattuale della responsabilità, se la parte datoriale – che in questo ambito rappresenta (deve rappresentare) gli interessi pubblici – ha ben chiari gli obiettivi da raggiungere nella definizione del codice disciplinare. Se pone insomma come contenuto necessario del contratto individuale di lavoro il rispetto di norme comportamentali (non solo, ovviamente, per i profili di rilevanza penale) coerenti con lo statuto della funzione pubblica. In parte ciò si realizza con la definizione unilaterale del Codice di comportamento (art. 54, del d.lgs. 165), ma paradossalmente il suo valore appariva più netto nella vecchia formulazione del terzo comma dell’art. 55 («ferma restando la definizione dei doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento…»). Ci dobbiamo insomma rammaricare che molti «codici» contrattuali e le stesse «norme imperative» stabilite dal d.lgs. 150 dedicano scarsa attenzione a quella tavola dei valori: bene combattere l’assenteismo, giustissimo il rigore contro i «fannulloni», ma siamo sicuri che solo queste siano le patologie gravi e più diffuse nelle amministrazioni pubbliche? Non è un po’ triste e singolare, e sintomo di una insufficiente meditazione ed organicità nella elaborazione delle norme legislative, che, poche settimane dopo l’entrata in vigore della tanto attesa legge per la «ottimizzazione del lavoro pubblico», con un altro provvedimento, si suggerisce di reintrodurre il giuramento di fedeltà (alla Repubblica, alla Costituzione e alle leggi, ai doveri dell’ufficio e al «pubblico bene»), per tutti i dipendenti della pubblica amministrazione (10)? Il punto, insomma, sta nell’ordine delle priorità che l’autore – sia esso il legislatore, o il tavolo del contratto nazionale – pone al centro del codice disciplinare. L’accettazione di doni inusuali o imbarazzanti da parte di imprese o cittadini che intrattengono (o desiderano intrattenere!) rapporti con l’amministrazione, l’uso «privatistico» di beni pubblici, la gestione opaca di procedimenti che dovrebbero essere votati alla più scrupolosa imparzialità (si tratti del concorso pubblico per le assunzioni, o di una gara (10) Art. 21, d.d.l. A.C. 3209, recante Disposizioni in materia di semplificazione dei rapporti della Pubblica amministrazione con cittadini e imprese e delega al Governo per l’emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche e per la codificazione in materia di pubblica amministrazione. 251 d’appalto, o della concessione di contributi o sussidi), la gestione sapiente delle informazioni di cui si dispone nell’ufficio per favorire questo o quello: sono comportamenti considerati dai codici disciplinari, sanzionati con la dovuta gravità, anche quando non raggiungono la soglia della responsabilità penale? Qualche novità, importante e positiva, si è registrata nel primo CCNL sottoscritto dopo la riforma (peraltro ad esito di trattative cominciate da tempo) (11): forse è la prova che buone innovazioni si potevano ottenere anche sul tavolo negoziale. Tuttavia, se quella disattenzione sui profili etici dei comportamenti c’è stata – come dubitarne? – non sembrano adeguati né l’approccio unilaterale (la legge, il codice di comportamento approvato-imposto dall’amministrazione), né l’approccio negoziale (i codici disciplinari fin qui definiti dai contratti). Forse è giunto il momento di alzare il tiro, di sollecitare una riflessione ampia, che coinvolga insieme la politica, i dirigenti e dipendenti pubblici, le organizzazioni sindacali, ma anche i cittadini organizzati, le associazioni, i movimenti civici. Un buon banco di prova potrebbe essere l’impegno per una «revisione condivisa» proprio del codice di comportamento di cui all’art. 54 del d.lgs. 165. Se è vero – è un’altro dei tratti caratterizzanti della riforma – che il coinvolgimento della «cittadinanza attiva» è l’unica risorsa disponibile per rompere i rischi di autoreferenzialità delle dinamiche interne alla p.a., perché non lanciare (e accettare) la stessa sfida sul piano dei codici di comportamento? Codici, al plurale, perché l’iniziativa dovrebbe diffondersi ad ogni livello, prendendo sul serio il percorso già indicato dai commi 5, 6 e 7 del medesimo art. 54. Perché il legislatore del 2009, così attento alla responsabilità disciplinare, non ha dedicato alcuna attenzione a quell’articolo? Probabilmente lo riteneva scontato, poco incisivo, o inutilmente declamatorio. Se così fosse, non è forse il momento giusto per renderne più stingenti ed efficaci i precetti, con un rigoroso impianto sanzionatorio? (11) Ci si riferisce al CCNL dell’area della dirigenza del comparto Regioni ed enti locali, sottoscritto definitivamente il 22 febbraio 2010: per la prima volta è stato definito il «codice disciplinare» dei dirigenti, raccogliendo il (blando) invito dell’art. 21/165; non a caso il CCNL è diventato subito il punto di riferimento insuperabile per i contratti della dirigenza di ogni altro comparto. 252 È però vero che una riflessione ampia e aperta su cosa si debba considerare «anti-etico» nella vita delle amministrazioni pubbliche potrebbe riservare qualche sorpresa: ci si dovrebbe misurare su valori condivisi (o prevalenti) in una società inquieta, preoccupata, spesso corporativizzata e segnata da paure irrazionali e da pulsioni individualiste, in cui la ricerca (e offerta) di favori troppo spesso sopravanza la rivendicazione (e la tutela) dei diritti. Ma hic rodhus hic salta: se non si costruisce un solido consenso sociale intorno ad alcuni valori, è vana la speranza di imporli d’imperio a milioni di dipendenti pubblici! 5. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare L’ultimo profilo su cui conviene prestare attenzione (e qui invece la risposta del decreto 150 è sostanzialmente convincente) riguarda l’obbligatorietà dell’azione disciplinare. Nel settore privato – è stato scritto – il potere disciplinare è liberamente esercitabile dal datore di lavoro, con i limiti eventualmente posti dai contratti collettivi e nel rispetto dei principi elaborati dalla giurisprudenza mentre «nel settore pubblico il suo esercizio è spesso doveroso» perché non risponde (soltanto) ad una logica aziendalistica, ma – almeno in parte – alla logica pubblicistica del perseguimento di interessi generali (12). La differenza è importante: il datore di lavoro pubblico non può, non ha il diritto di disinteressarsi del buon andamento dell’«azienda», perché non è sua, perché è un «bene pubblico», non può dimenticare i valori che (anche) il potere disciplinare dovrebbe presidiare, né può trascurare il principio di imparzialità nella gestione di quel potere («nell’impiego privato la scelta datoriale di sanzionare o meno il lavoratore è discrezionale, nei limiti del divieto di discriminazioni e del rispetto della parità di trattamento» (13)). (12) B.G. Mattarella, La responsabilità disciplinare, cit. (13) L. Busico, «La responsabilità dei pubblici dipendenti ed il potere di- 253 Ne consegue la doverosità giuridica (e non solo l’opportunità sul piano dell’efficienza dell’azione amministrativa) di assicurare l’effettività della responsabilità disciplinare, anzitutto imponendo ai dirigenti di esercitare il potere datoriale loro assegnato ogni volta che se ne verifichino i presupposti. Le scelte operate dal legislatore – rafforzare i poteri disciplinari spettanti a ciascun dirigente, e gravarlo di una specifica responsabilità in ordine al loro effettivo esercizio – vanno nella giusta direzione, e si possono collegare al dovere di concorrere «alla definizione di misure idonee a prevenire e contrastare i fenomeni di corruzione e a controllarne il rispetto da parte dei dipendenti». Resta il sapore agro di una minaccia («punisci o sarai punito», sembra recitare l’art. 55-sexies, co. 3, del d.lgs. 165), ma non è sbagliato il principio: è sbagliata semmai l’immagine che può derivarne, di un dirigente teso ad essere soprattutto il «custode e controllore» dei dipendenti, piuttosto che il leader, l’animatore e il promotore dell’impegno collettivo di tutti i collaboratori. sciplinare», in http://www.diritto.it, 5.11.2009; cfr. inoltre Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.2.2007, n. 536: «il ragionamento in base al quale viene individuata la sanzione da applicare nei confronti di un dipendente pubblico (…) Deve tener conto anche della necessità di punire equamente tutti i responsabili, proporzionalmente con le rispettive colpe». 254 Francesco Merloni INCARICHI SUCCESSIVI ALLA CESSAZIONE DELLA FUNZIONE 1. Introduzione Lo svolgimento di incarichi successivi al termine di svolgimento della funzione affidata è rilevante ai fini della garanzia dell’imparzialità. Due i profili più rilevanti: a) Il c.d. pantouflage, cioè lo svolgimento di incarichi, pubblici e privati, che possano far dubitare del precedente esercizio imparziale della funzione; b) il rientro nell’amministrazione, in particolare l’affidamento di funzioni amministrative che richiedono imparzialità, dopo aver svolto funzioni politiche o fiduciarie (o in imprese private). 2. Lo svolgimento di incarichi dopo la cessazione della funzione Sotto il primo profilo una particolare attenzione è stata dedicata al fenomeno nell’ordinamento francese con riferimento ai funzionari professionali. Si è adottata una legislazione restrittiva quanto alla possibilità di distacco di funzionari presso imprese private nel corso della carriera, ma soprattutto si è introdotto il principio del «delai de viduité» (letteralmente «lutto vedovile»), cioè del necessario rispetto di un congruo periodo di tempo (cinque anni) tra la cessazione del servizio presso l’amministrazione e lo svolgimento di incarichi presso imprese private che essi abbiano, in servizio, controllato o sovvenzionato. Un sistema analogo può essere adottato anche da noi, adattando i periodi all’importanza delle funzione pubblica esercitata (o del concorso dato all’esercizio della funzione) Tra le imprese private vanno ricomprese anche gli enti pubblici economici e le società in controllo pubblico, da un lato perché esse sono imprese private come le altre e quindi portatrici di interessi che per il regolatore o il sovvenzionatore sono sempre 255 interessi particolari; dall’altro perché particolarmente delicato è il rapporto tra amministrazioni e enti o società da esse controllati. Il fenomeno della cattura del regolatore (di un servizio pubblico ad esempi) da parte del regolato è particolarmente grave in questi casi. Ma il tema, a ben vedere, tocca anche i titolari di organi politici o i soggetti con incarichi fiduciari. Tutti questi funzionari sono in grado di orientare l’esercizio delle funzioni loro affidate, in prevalenza di indirizzo, ma in qualche caso anche di gestione, a favore di interessi particolari. Ministri, assessori, parlamentari o consiglieri, presidenti di enti pubblici quando passano a svolgere incarichi in imprese private (anche a controllo pubblico) pregiudicano anch’essi l’affidamento che il cittadino ha nella loro imparzialità. 3. Il rientro nell’amministrazione Quanto al secondo profilo, si tratta di rivedere con attenzione tutti i casi nei quali un funzionario professionale, dopo aver svolto un incarico di natura politica o fiduciaria debba rientrare nell’amministrazione per svolgervi funzioni che invece presuppongono un maggiore grado di imparzialità. Un funzionario che abbia ricoperto la carica di assessore ovvero una carica fiduciaria in un’amministrazione o in un ente pubblico o in una società in controllo pubblico può non apparire così imparziale rispetto all’appartenenza politica che con quell’incarico ha mostrato. Lo stesso vale per il funzionario professionale che abbia svolto, per un periodo, incarichi in imprese private, se il suo rientro nell’amministrazione avvenisse in uffici che esercitano poteri di controllo o di contribuzione economica sulla impresa nella quale ha operato. In questi casi, qualora non sussistano più gravi cause che impongono la cessazione dal servizio, in generale si può ricorrere a rimedi analoghi a quelli individuati per il pantouflage: la fissazione di adeguati periodi di «raffreddamento» (o di «lutto vedovile») nei quali a questi funzionari posso essere conferite solo funzioni che non richiedono particolari gradi di imparzialità (compiti di staff per chi rientra provenendo da incarichi politici o fiduciari; compiti in settori e per funzioni pubbliche del tutto lontane dal settore di interesse curato, per chi proviene da incarichi in imprese private); periodi decorsi i quali il funzionario può vedersi 256 assegnate funzioni gestionali e amministrative senza pregiudicare la sua immagine di imparzialità. 4. L’applicazione delle regole e il relativo controllo In questo campo (ma il discorso può essere esteso ad altri strumenti) si tratta di stabilire in che modo fissare le regole, anche al fine di renderne non troppo rigida l’applicazione. Si potrebbe pensare alla legge per fissare i principi generali, anche perché ogni limitazione delle posizione di libertà dei funzionari è soggetta a riserva di legge, rinviando la individuazione dei singoli casi e delle sanzioni a normativa secondaria. Utile si può rivelare, poi, una costante opera di interpretazione e adeguamento dei comportamenti e dei casi, con una commissione nazionale (si potrebbe pensare alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (1)) che svolgesse i compiti delle Commission de déontologie francesi, dando consigli alle amministrazioni sull’esistenza effettiva di casi di pantouflage, ovvero sui regolamenti da adottare per prevenire questi fenomeni. (1) Prevista dalla legge n. 150 del 2009 e poi istituita dal d.lgs. n. 150 del 2009. 257 La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa* ENRICO CARLONI SOMMARIO: Introduzione; 1. La trasparenza e i modelli nel prisma delle riforme amministrative; 2. Il modello delle intenzioni: il diritto all’informazione; 3. Il modello realizzato: l’accesso ai documenti e la sua evoluzione; 3.1. L’accesso senza trasparenza; 4. Il nuovo modello: la pubblicità (on line) delle informazioni; 4.1. La “Operazione trasparenza” e la riforma “Brunetta”; 4.3. I rischi insiti nel nuovo modello; 5. L’opacità della trasparenza; 6. Indicazioni conclusive. Introduzione Ad un ventennio dall’approvazione della legge sul procedimento, che si è posta come punto di arrivo, in quanto rivolta a definire su nuove basi il rapporto tra amministrazione e cittadino, e come punto di partenza, di una nuova (e progressivamente fin troppo abusata) centralità della legge nel riformare il sistema pubblico, la forza espansiva e culturale di quella riforma sembra segnare il passo, mentre nuovi e continui interventi normativi ne appannano il disegno.1 Le parole d’ordine (partecipazione, semplificazione, trasparenza, solo a porre attenzione ad altrettanti Capi della legge del 1990) della legge sono attuali oggi come ieri, ma mutano spesso in modo significativo gli istituti chiamati a realizzarle, mentre assistiamo da un lato alla proliferazione di principi generali sull’attività che si muovono al di fuori della legge sul procedimento2 e, dall’altro, all’introduzione di regole settoriali3 ed alla complessiva perdita di un modello di regolazione dell’azione pubblica. Riprendendo le parole di Palma, il legislatore «insegue, non sempre in modo soddisfacente, il ritmo esasperante delle avvertite esigenze di modifiche» dell’amministrazione pubblica4, e questo è evidente prestando * In corso di pubblicazione in Studi in onore di Giuseppe Palma. 1 Cfr. B.G. MATTARELLA, Le dieci ambiguità della l. n. 15 del 2005, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, 821. 2 Basti pensare, per quello che qui più direttamente interessa, alla definizione di trasparenza amministrativa nella l. 15 del 2009, od al fatto che il regime di generale conoscibilità dei “dati pubblici” è affermato nel Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. n. 82 del 2005). 3 Si v. la disciplina delle conferenze di servizi, ed in particolare alle previsioni di cui agli artt. 14 bis (in materia di opere pubbliche), 14 quinquies (in materia di finanza di progetto) della legge n. 241 del 1990. 4 Cfr. G. PALMA, Pagina introduttiva, in G. CLEMENTE DI SAN LUCA (a cura di), La nuova disciplina dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, Torino, Giappichelli, 2006, p. 7. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 1 attenzione ad una legge che, più di altre, dovrebbe avere caratteri di stabilità, quale quella recante le norme generali sull’azione amministrativa. Col rischio, evidente, di far dire troppo e troppo poco alla legge n. 241 del 1990, che sempre meno riesce a porsi come parametro culturale di riferimento, come d’altro canto solo in parte sin qui è riuscita a fare. L’amministrazione di oggi non appare, d’altra parte, necessariamente più efficace efficiente economica di quella di ieri, o più trasparente: basti pensare, per un verso, al fatto che dell’amministrazione «ordinaria» si sente sempre più spesso di dover fare a meno allorché si vogliono realizzare interventi5, per l’altro al fatto che la rinnovata esplosione di fenomeni di corruzione appare il sintomo di un malessere diffuso nel sistema pubblico.6 Se l’amministrazione di oggi è profondamente diversa da quella di un ventennio addietro, il miraggio della trasparenza amministrativa, per quello che più direttamente interessa nell’ottica di questo lavoro, continua a porsi davanti al legislatore, che sembra inseguirlo anche se in modo spesso confuso, ed al cittadino, che in questa confusione rischia di perdersi. Il modello riformatore che aveva ispirato la legge del 1990 e che in questa aveva trovato un parziale sviluppo ha cessato di porsi come riferimento interpretativo, mentre solo in controluce appare possibile leggere il nuovo modello di amministrazione trasparente frutto della stratificazione di successivi e non sempre organici interventi del legislatore.7 5 Come si ricava chiaramente dall’espansione del fenomeno delle c.d. «emergenze» e dall’ampliamento del ruolo del ruolo del servizio di protezione civile: per un inquadramento del fenomeno, cfr. A. FIORITTO, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzie, Bologna, Il Mulino, 2008. La “fuga dalla normalità” è evidente nella vicenda dei rifiuti campani (sulla quale si v. per tutti F. MERLONI, Ragionando sui rifiuti campani e dintorni: Stato e Regioni tra la continua emergenza e l’impossibile normalità, in Le Regioni, 2007, pp. 925 ss. 6 Già prima dei più recenti scandali, era avvertito un aumento dei fenomeni di corruzione (si v. ad es. i rapporti di Transparency International, che con specifica attenzione allo stato della corruzione politico-amministrativa percepita in particolare dagli operatori economici elabora annualmente degli indici, tra i quali in particolare il Corruption Perceptions Index –CPI: informazioni e documenti, al riguardo, sono reperibili nel sito dell’associazione, www.transparency.org). La percezione dell’attuale gravità della situazione è ormai largamente diffusa, come conferma la numerosa letteratura in materia (per tutti, cfr. D. DELLA PORTA, A. VANNUCCI, Mani impunite, Roma-Bari, Laterza, 2008) e non appare casuale la rinnovata attenzione della dottrina ai temi dell’etica pubblica (cfr. F. MERLONI, R. CAVALLO PERIN (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, F. Angeli, 2009; B.G. MATTARELLA, Le regole dell’onestà, Bologna, Il Mulino, 2007) e della corruzione (per tutti, P. DAVIGO, G. MANNOZZI, La corruzione in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2007). 7 La trasparenza «più che rappresentare un istituto giuridicamente preciso, riassume un modo di essere dell’amministrazione, un obiettivo un parametro cui commisurare lo E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 2 L’ultima stagione di riforme, che si lega al Ministro per la pubblica amministrazione Renato Brunetta, giunge quindi a coronamento di queste dinamiche, rispetto alle quali si pone in termini assolutamente coerenti: è chiara la spinta riformatrice, meno lo è l’idea di amministrazione che sta (dovrebbe stare) dietro a questi interventi. E’ evidente l’accelerazione, meno la direzione di un cambiamento che pure si avverte come necessario.8 Risulta, a questo punto, utile riflettere sui caratteri che va assumendo la trasparenza amministrativa, ed è questo lo scopo di questo lavoro. In primo luogo ciò comporta l’esigenza di ritornare sui modelli che hanno caratterizzato e caratterizzano l’evoluzione della c.d. «casa di vetro» nel nostro paese, anche attingendo ad esperienze comparate. In secondo luogo da ciò discende l’opportunità di segnalare una serie di paradossi che stanno connotando la via italiana alla conoscibilità dell’azione amministrativa. Infine, da ciò deriva la possibilità di delineare quelle che paiono le più significative, ancorché spesso problematiche, linee di sviluppo. Se è cambiato il sistema amministrativo, in un ventennio è cambiato non meno il contesto, in primo luogo tecnologico, dell’azione pubblica, con profondi effetti in termini di conoscibilità: è questo un dato di fondo dal quale occorre muovere sin dalla premessa, ma se «Internet changes everything»9 non per questo bisogna trascurare le dinamiche del segreto e svolgimento dell’azione amministrativa»: così R. VILLATA, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. proc. amm., 1987, p. 528. La dottrina in materia di trasparenza e diritto di accesso è notoriamente estesa: per lo stato di questo rapporto prima delle riforme del 2005, cfr. i diversi contributi in G. ARENA, (a cura di), L’accesso ai documenti amministrativi, Bologna, Il Mulino, 1991 (ed in particolare ID., La trasparenza amministrativa ed il diritto di accesso ai documenti amministrativi, ivi, pp. 15 ss.); ID., Trasparenza amministrativa, in Enc. giur., XXXI, Roma, Ist. Enc.It., 1995, p. 1; A. ROMANO TASSONE, Considerazioni in tema di diritto di accesso, in Scritti Silvestri, Milano, Giuffré, 1992; C. MARZUOLI, Diritto d’accesso e segreto di ufficio, in M. CAMMELLI, M. P. GUERRA (a cura di), Informazione e funzione amministrativa, Rimini, Maggioli, 1997, pp. 257 ss.; L.A. MAZZAROLLI, L’accesso ai documenti della pubblica amministrazione. Profili sostanziali, Padova, Cedam, 1998; C.E. GALLO, S. FOÀ, Accesso agli atti amministrativi, in Dig. disc. pubbl., Agg., Torino, Utet, 2000, pp. 1 ss.; M.A. SANDULLI, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., Agg. IV, Milano, Giuffré, 2000, p. 1 ss.; A. SIMONATI, L’accesso amministrativo e la tutela della riservatezza, Trento, Univ. degli studi, 2002. In materia, per un inquadramento complessivo del fenomeno nelle sue diverse angolazioni e per ulteriori riferimenti, si v. ora F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffré, 2008. 8 Individua, da ultimo, una serie di disfunzioni nelle dinamiche riformatrici italiane L. TORCHIA (a cura di), Il sistema amministrativo italiano, Bologna, Il Mulino, 2009 (cap. XI, a cura di M. SAVINO), pp. 425 ss. 9 Per quanto si tratti di un’espressione ricorrente, il riferimento, in particolare, è a S.M. JOHNSON, The Internet Changes Everything: Revolutionizing Public Participation and Access to E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 3 dell’opacità. Non paiono sufficienti le innovazioni tecnologiche, né si sono sempre rivelate adeguate quelle normative, a far venire meno quel velo dell’anonimato che, come ben segnalava Palma nelle sue Lezioni, «ha da sempre occultato agli occhi del cittadino il reale funzionamento della pubblica amministrazione».10 Detto in altri termini, quella della trasparenza troppo spesso è apparsa un’idea «astratta»11, disattesa proprio da quegli istituti che avrebbero dovuto assicurarla, il che è solo uno dei numerosi paradossi della via italiana alla trasparenza. 1. La trasparenza e i modelli nel prisma delle riforme amministrative Nel momento in cui la trasparenza si pone al centro del dibattito politico, anche sulla scorta di attenti approfondimenti che già avevano colto le linee di sviluppo sulle quali ora si inseriscono le recenti riforme, può risultare di una qualche utilità riflettere non solo sul modello di conoscibilità pubblica che emerge dalla densa trama degli interventi legislativi dell’ultimo quinquennio, ma più complessivamente sui modelli, auspicati, predicati ed inseguiti nell’arco del ventennio riformatore di cui si è detto in apertura. Assistiamo, da questo punto di vista, alla successione di almeno tre modelli: quello del diritto all’informazione (che ha ispirato la legge sul procedimento ma solo in parte ha trovato lì realizzazione), quello del diritto di accesso (a sua volta significativamente mutato con la riforma del 2005), ed ora quello della «accessibilità totale»12, della dissemination attraverso la rete, che emerge da ultimo, con forza ancorché a margine della disciplina generale del procedimento. 1. Il modello delle intenzioni: il diritto all’informazione Il primo modello del quale tenere, pure brevemente, conto, è quello del freedom of information, del diritto all’informazione: un diritto generalizzato di accedere a fonti conoscitive, non collegato a specifiche situazioni di legittimazione, proprio del cittadino in quanto tale. E’, come noto, il modello che troviamo realizzato negli Stati Uniti, attraverso il Freedom of Information Act e le successive modifiche: l’area della conoscibilità è Government Information Through the Internet, in www.law.mercer.edu/elaw/inter2.htm (1997). 10 Così G. PALMA, Itinerari di diritto amministrativo. Lezioni 1993-1994, Padova, Cedam, 1996, p. 306. 11 Il riferimento è evidentemente ad A. ORSI BATTAGLINI, “L’astratta e infeconda idea”. Disavventure dell’individuo nella cultura giupubblicistica, in Quaderni fiorentini, 1988, pp. 569 ss., ora in ID., Scritti giuridici, Milano, 2007, pp. 1309 ss. 12 Cfr. l. n. 15 del 2009; d.lgs. n. 150 del 2009, su cui infra, par. 4. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 4 generale, l’accesso è riconosciuto ad any person, ma al fianco di quest’area di piena trasparenza si articola un sistema di «eccezioni», che consentono di limitare la conoscibilità di una serie di informazioni e documenti. Un approccio, questo, che prevede il diritto di richiedere informazioni (e non necessariamente documenti13) senza che intervengano limitazioni di carattere soggettivo (c.d. accesso open to all)14: ogni informazione è suscettibile di costituire oggetto della libertà di informazione, fatte salve le specifiche eccezioni previste dal legislatore. Si noti, peraltro, che la capacità di questo strumento di garantire un effettivo controllo democratico sul sistema pubblico si lega in modo significativo all’ampiezza delle exemptions. In questo senso risulta esemplare l’esperienza inglese, dove la legislazione del freedom of information si accompagna ad un sistema di eccezioni particolarmente ampio.15 Questo modello si era posto come riferimento fondamentale nei lavori della c.d. Commissione Nigro16, e di questo retaggio possono trovarsi alcune tracce nella legge sulle autonomie locali del 199017 e nella coeva nella legge sul procedimento: si pensi, in quest’ultima, al riconoscimento 13 La definizione di “documento amministrativo”, per quanto ampia, non permette di disancorare gli elementi conoscitivi dal loro supporto (il contenuto dal contenitore, per dirla diversamente). Da prospettive diversa (quella del riutilizzo dei documenti/dati pubblici, da una parte, quella dell’accessibilità/riservatezza, dall’altra) la questione del rapporto tra dati e documenti è ben evidenziata, in termini critici, da B. PONTI, Titolarità e riutilizzo dei dati pubblici, in B. PONTI (a cura di), Il regime dei dati pubblici, Rimini, Maggioli, 2008, spec. pp. 217 ss., e da E. MENICHETTI, Accessibilità e tutela della riservatezza, ivi, spec. pp. 184-187. 14 Negli Stati Uniti, l’espressione open government è solita riferirsi ad un “quartetto” di provvedimenti normativi approvati nell’arco di un decennio e più volte modificati (FOIA, del 1966; Federal Advisory Committee Act, del 1972; Privacy Act, del 1974; Government in the Sunshine Act, del 1976) 15 Sul modello inglese, cfr. N. TURCHINI, Trasparenza e accesso nell’esperienza inglese, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., pp. 499 ss. e, più ampiamente, P. BIRKINSHAW, Government & Information: The Law Relating to Access, Disclosure and their Regulation, Haywards Heath, Tottel Publishing, 2005. 16 La legge, come noto, derivava dai lavori della commissione presieduta da M.S. Giannini, costituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, e più precisamente dalla sottocommissione diretta da M. Nigro (per indicazioni più dettagliate, v. C. FRANCHINI, La relazione governativa sulla delegificazione e sulla modernizzazione delle istituzioni, in Riv.trim.dir.pubbl., 1985, pp. 304 ss.). L’importanza del riferimento del FOIA nell’elaborazione della disciplina italiana del diritto di accesso è ricordata, da ultimo, da G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffré, 2008, p. 31. 17 Cfr. G. SCIULLO, Sintonie e dissonanze fra le l. 8 giugno 1990, n. 142, e 7 agosto 1990, n. 241: riflessioni sull’autonomia normativa locale, in Foro amm., 1990, pp. 2220 ss.; per una ricostruzione sistematica della dottrina e della giurisprudenza in materia di accesso alle informazioni locali, si v. ora il commento all’art. 10 del Tuel di L. VANDELLI, E. BARUSSO, Autonomie locali: disposizioni generali, soggetti, Rimini, Maggioli, 2004, pp. 420 ss. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 5 a «chiunque» del diritto di accedere ai documenti (un’affermazione, però, subito stemperata, nella legge n. 241, non solo dal collegamento con una situazione giuridicamente rilevante, ma anche dall’esigenza di motivare l’istanza, che non compariva nell’originario testo prodotto dalla Commissione).18 Come rimarcato da Arena è attraverso l’ingresso di una dimensione soggettiva (non più il cittadino in quanto tale, ma l’interessato a tutela di proprie situazioni giuridiche), peraltro rimessa all’apprezzamento dell’amministrazione, che si è realizzato il cambiamento di modello: un cambiamento frutto non tanto e non solo della legge sul procedimento, ma certo delle sue ambiguità e dell’attuazione che ne è stata fatta, a livello normativo19 e giurisprudenziale.20 Si tratta di approdi che evidentemente hanno spinto l’esperienza italiana lontano dal solco statunitense, dove l’evoluzione della normativa in materia di libertà di informazione si era sviluppata attraverso correzioni successive di segno diametralmente opposto, tramite l’eliminazione di ogni ambiguità ed ogni spazio di discrezionalità dell’amministrazione nel valutare la posizione del richiedente.21 E’ peraltro interessante ritornare sulle obiezioni che vent’anni addietro giustificarono la scelta di prevedere un modello di accesso legato al possesso di una posizione giuridicamente rilevante, e di converso l’opzione sfavorevole ad ipotesi di accesso generalizzato: le difficoltà organizzative, il carattere “troppo avanzato” di una simile previsione (col rischio di una “obsolescenza per eccesso di progresso”), di fatto impraticabile in assenza di una adeguata informatizzazione dell’amministrazione.22 Tutte obiezioni che sono, o dovrebbero essere Cfr. G. ARENA, La trasparenza amministrativa ed il diritto di accesso ai documenti amministrativi, in G. ARENA (a cura di), L’accesso ai documenti amministrativi, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 33. 19 Il riferimento è, in particolare, al primo regolamento sull’accesso, il dPR n. 352 del 1992. 20 Per una ricostruzione di questo percorso giurisprudenziale, ci sia consentito rinviare a E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa: dall’accesso ai documenti alla disponibilità delle informazioni, in Diritto pubblico, n. 2, 2005, pp. 573 ss.; cfr. cfr. A. CORPACI, Spunti critici sulla giurisprudenza applicativa della legge sul procedimento amministrativo, in Diritto pubblico, n. 1, 1995, pp. 185 ss. 21 Il passaggio decisivo è in questo senso rinvenibile nella riforma del FOIA operata intorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, per lo studio della quale resta fondamentale G. ARENA, La legge sul diritto all’informazione e la pubblicità degli atti dell’amministrazione negli Stati Uniti, in Politica del diritto, n. 3, 1978, pp. 279 ss. 22 Tutti riferimenti legati al dibattito parlamentare dell’epoca, più ampiamente riportati in G. ARENA, La trasparenza amministrativa e il diritto di accesso ai documenti, cit., pp. 33-34. Si noti che il collegamento tra diritto di accesso ed informatizzazione era ben presente anche al Consiglio di Stato, che in sede di parere sul disegno di legge (Ad. Gen., parere 19 febbraio 1987, in Foro It., 1988, P. III, pp. 22 ss.) rinveniva come limite della 18 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 6 oramai superate, senza che però sia stata messa in discussione quella scelta nell’evoluzione della disciplina diritto di accesso ai documenti. 2. Il modello realizzato: l’accesso ai documenti e la sua evoluzione La disciplina del 1990 nel segnare l’abbandono della logica del segreto in favore di un’opposta logica della trasparenza, secondo la formula spesso usata se non abusata nell’enfatizzare la legge sul procedimento a mo’ di spartiacque del sistema pubblico nel suo complesso, portava però con sé profili contraddittori, capaci di condizionarne lo sviluppo. La legge recava, infatti, in sé elementi idonei a ridurne la portata, dal momento che introducendo l’idea di subordinare la conoscenza all’esigenza motivata di salvaguardare specifiche situazioni giuridicamente protette orientava già in modo deciso il diritto di accesso a strumento di difesa di quelle stesse situazioni, piuttosto che a strumento di garanzia della correttezza dell’azione amministrativa.23 Si trattava di un esito non scontato, tenuto conto del collegamento molto forte che la stessa legge operava tra diritto di accesso e trasparenza amministrativa: è al fine di assicurare quest’ultima, e di favorire lo svolgimento imparziale dell’attività amministrativa, che il legislatore riconosce, a chiunque vi abbia interesse, il diritto di accedere ai documenti. Ciò premesso, il modello verso cui si orienta quindi con decisione il sistema italiano è, sin dalla legge sul procedimento, quello, largamente diffuso specie negli ordinamenti dell’Europa continentale, del diritto di accesso condizionato, riconosciuto non ad ogni cittadino ma solo in presenza di specifiche condizioni di legittimazione.24 Queste condizioni, nell’esperienza italiana, sono non solo la situazione giuridicamente rilevante/tutelata, ma soprattutto l’avere un interesse diretto, concreto ed disciplina proposta il fatto che questa non teneva conto «(o tener conto in maniera adeguata) […] dei nuovi strumenti informatici (che pur ottengono sempre più larga applicazione nell’amministrazione)» (ivi, 42). 23 Per Arena, l’accesso «pensato in origine come un nuovo diritto non solo egoistico, come diritto cioè ad essere informati non solo nel proprio interesse, ma nel più generale interesse alla trasparenza dell’azione amministrativa, ha finito così con il diventare nel corso degli anni semplicemente un’arma in più per gli amministrati da usare contro l’amministrazione» (G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, cit., p. 31). 24 Per quanto si assista, nello scenario comparato, alla proliferazione di legislazioni sull’accesso ad informazioni, genericamente definite leggi sul freedom of information (per una panoramica complessiva, cfr. J.M. ACKERMAN, I.E. SANDOVAL-BALLESTEROS, The global explosion of Freedom of Information Acts, in Administrative Law Review, 2006, 58), queste regolazioni solo in parte possono essere ricondotte al modello americano del FOIA. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 7 attuale alla conoscenza di uno specifico documento, sottoposto all’apprezzamento dell’amministrazione. Dalla trama, densa, delle condizioni di legittimazione richieste, così come desumibili dal testo originario della legge, rafforzate dalla giurisprudenza ed in sede regolamentare, ed ora pietrificate dalla riforma del 200525, emerge un nuovo senso complessivo da riconoscersi all’istituto del diritto di accesso. In questa prospettiva, le profonde modifiche testuali operate dalla legge n. 15 del 2005 sono variamente colte dalla dottrina (in termini critici, spesso, ma non meno frequentemente come semplice chiarificazione di uno stato della disciplina già acquisito), e segnano in ogni caso il punto di arrivo di un percorso di progressiva espulsione dei tratti residui del modello di accesso che come detto era nelle originarie intenzioni del processo riformatore di un quindicennio prima. Queste modifiche determinano il venir meno di incertezze ed ambiguità, collegando il diritto di accesso in modo diretto ed esclusivo all’esigenza di tutelare specifiche situazioni giuridiche. Non solo il diritto di accesso ai documenti perde le tracce residue dell’originario modello ispiratore, ma finisce per collocarsi in una posizione di retroguardia26 anche ponendo attenzione al modello dell’accesso condizionato proprio di altre esperienze, quale quella francese. Un modello nel quale, nella sostanza (e di là dalle affermazioni enfatiche ma vuote che tendono ad occultarla), la regola risulta l’inaccessibilità, salvo che si dimostri la propria legittimazione.27 La possibilità di accedere a documenti (e non anche ad informazioni), le restrizioni alla legittimazione (ai soli interessati), la limitazione dell’accesso a determinate tipologie e categorie di documenti od in presenza di interessi pubblici e privati contrapposti, sono tutti tratti che accomunano il modello28, entro il quale le varie esperienze si muovono modulando diversamente limiti e condizioni di legittimazione all’accesso. 25 Le scelte del legislatore, sin dal 1990 ed ancor più nella l. 15 del 2005, «hanno impedito al diritto di accesso di svolgere quel ruolo fondamentale per la trasparenza amministrativa che il disegno di legge Nigro aveva prefigurato per tale istituto» (G. ARENA, ult.op.cit., p. 31). 26 Si cfr. A. SANDULLI, L’accesso ai documenti amministrativi, in Giorn. dir. amm., 2005, p. 494 (che parla di «controriforma»). 27 Cfr. G. NAPOLITANO, Diritto amministrativo comparato, Milano, Giuffré, 2007, p. 165. Si noti che questo trova conferma, nell’esperienza italiana, nella formulazione del segreto di ufficio così come risultante alla luce dell’art. 28 della l. 241 del 1990 (il segreto di ufficio, in sostanza, cessa di essere un concetto indeterminato, ma residua quale regola di ordine generale). 28 L’analogia tra l’esperienza italiana e quella francese è data, inoltre, da tratti parzialmente assimilabili quanto a sedi deputate a garantire e tutelare il diritto (CADA e E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 8 2.1. L’accesso senza trasparenza Queste notazioni ci conducono ad un primo paradosso che connota la via italiana alla trasparenza: ci troviamo di fronte a un diritto29 (all’accesso), , che finisce spesso per non esser funzionale alle esigenze di conoscibilità che ne hanno giustificato la previsione. A chi serve il diritto di accesso? A vent’anni dall’adozione dell’istituto, a cinque dalla sua riforma, la domanda che si poneva Romano Tassone rimane di attualità.30 Il fatto è che per via interpretativa ed attuativa in un prima fase, direttamente per via legislativa poi31, l’istituto dell’accesso ha perso per strada gran parte dei suoi potenziali utilizzatori: da qui l’emergere, con la legge n. 15 ed il successivo DPR 184 del 2006, dell’immagine suggestiva di una «casa dai vetri oscurati».32 L’identificazione dei soggetti del diritto (in quanto interessati) è operata infatti in senso restrittivo, ancorché in linea con gli orientamenti della giudice amministrativo in Francia, Commissione per l’accesso e giudice amministrativo in Italia). Sul punto, più diffusamente, si v. G. NAPOLITANO, ult.op.cit., pp. 164-169. 29 Senza qui voler entrare, peraltro, nell’annosa questione della natura giuridica (diritto, appunto, o interesse legittimo) del diritto di accesso: la questione non può dirsi ancora risolta data l’oscillazione della giurisprudenza (sul punto, si v. le argomentazioni a favore della tesi dell’interesse legittimo, Cons. Stato, Ad. Plen., 24 giugno 1999, n. 16; ma in senso contrario ad es. Cons. Stato. 27 maggio 2003, n. 2938). I giudici di Palazzo Spada, tornati sulla questione dopo la riforma del 2005 (che offre argomenti ulteriori a supporto della tesi del “diritto”) in sede di Adunanza plenaria (n. 6 e 7 del 2006), hanno ritenuto di risolvere (o aggirare) la questione qualificando il diritto di accesso come situazione giuridica di carattere strumentale (a diritti e interessi). 30 Il riferimento è a A. ROMANO TASSONE, A chi serve il diritto di accesso? Riflessioni su legittimazione e modalità di esercizio del diritto di accesso nella l. n.241 del 1990, in Dir. amm., n. 2, 1995, pp. 315 ss. 31 Cfr. S. FIORENZANO, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi dopo la legge 11 febbraio 2005 n. 15: nuove regole sostanziali e giustiziali, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., pp. 463 ss.; su questo percorso evolutivo ci sia consentito rinviare a E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa cit., pp. 573 ss. 32 A. SANDULLI, La casa dai vetri oscurati: i nuovi ostacoli all’accesso ai documenti, in Giorn. dir. amm., n. 6, 2007, p. 669 (lo stesso Sandulli, nel commentare il d.P.R. n. 184, titola ivi efficacemente “Un regolamento antiquato segue una riforma deludente”). Sul nuovo regolamento, che ha sostituito il DPR n. 352 del 1992, si v. F. PUBUSA, Prime considerazioni sul DPR 12 aprile 2006, n. 184, regolamento per l’esercizio del diritto di accesso, in Diritto e processo amministrativo, n. 1, 2007, pp. 199 ss., nonché AA.VV., Il regolamento sull’accesso ai documenti amministrativi. Commento al DPR 12 aprile 2006, n. 184, Milano, Giuffré, 2006. In merito alla rinnovata disciplina del diritto di accesso, cfr. M.T. SEMPREVIVA, Il nuovo volto dell’accesso ai documenti amministrativi, in F. CARINGELLA, D. DE CAROLIS, M.T. SEMPREVIVA (a cura di), Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le legge n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, Giuffré, 2005; G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Diritto di accesso e interesse pubblico, Napoli, ESI, 2006. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 9 giurisprudenza, rispetto alla precedente formulazione: ecco quindi che il legislatore fa propria l’esigenza di un interesse «concreto e personale, e cioè immediatamente riferibile al soggetto che pretende di conoscere i documenti e specificatamente inerente alla situazione da tutelare».33 Ci troviamo, dunque, di fronte ad un interesse non solo diretto e concreto, ma attuale34, «direttamente collegato al documento»: tutte previsioni che richiedono e giustificano spazi di manovra dell’amministrazione nel negare l’ostensione del documento richiesto. L’espresso limite all’utilizzabilità dell’accesso in funzione di controllo generalizzato35 sull’operato delle pubbliche amministrazioni, cui si affianca con la riforma del 2005 il venir meno di un diretto collegamento tra accesso e trasparenza già nella stessa formulazione del diritto, sono tutti elementi che confermano la tesi della disarticolazione del rapporto tra trasparenza ed accesso. Sia in termini testuali, che sostanziali, è chiara l’opzione verso una fuoriuscita della trasparenza dal campo visuale del diritto di accesso ai documenti: una traccia dell’antico modello rimane, ma è sfumata, quasi impercettibile, per quanto capace di produrre alcune affermazioni della dottrina36, del giudice amministrativo37 e della stessa 33 Così TAR Lazio, III Ter, 15.1.2003, n. 126. Cfr. V. CERULLI IRELLI, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2008, p. 343. 34 Si noti che alcune posizioni giurisprudenziali, ante riforma, ammettevano altresì “tra i titoli legittimanti all’esercizio del diritto di accesso anche posizione di interesse non attuali, ma che possano concretizzarsi e specificarsi proprio a seguito ed i forza degli elementi di conoscenza acquisibili” (Cons. Stato, IV, 4 giugno 1996, n. 820). 35 Conclusione, questa, cui era peraltro già pervenuta la giurisprudenza (ad esempio, Cons. Stato, V, n. 3798 del 2002: «il diritto di accesso agli atti non può comportare un controllo generalizzato ed indiscriminato sull’operato della p.a., controllo che, come tale, non rientra nelle finalità garantistiche previste dalla norma»), che aveva escluso la configurabilità di una sorta di azione popolare volta a verificare l’operato delle pubbliche amministrazioni: (cfr. Cons. Stato, IV, 15 novembre 2004, n. 7412). Sul punto v. ora l’art. 23, co. 3, della legge 241, così come modificato dall’art. 16 della legge n. 15 del 2005. 36 In questo senso, cfr. G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Diritto di accesso e interesse pubblico, passim; anche dopo le recenti riforme, per G. ARENA, Trasparenza amministrativa, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, cit., p. 5950 «il diritto di accesso è uno degli istituti giuridici, forse il principale, mediante il quale si può realizzare la trasparenza amministrativa». In senso opposto, tra gli altri B.G. MATTARELLA, Le dieci ambiguità della l. n. 15 del 2005, cit., 821; ancora più nettamente PAOLANTONIO, L’accesso alla documentazione amministrativa, in F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2008, p. 244, «l’istituto dell’accesso non è espressione […] del principio di trasparenza». 37 Da ultimo, sembra convalidare la tesi della fuoriuscita del diritto di accesso dal novero degli strumenti della trasparenza Cons. Stato, VI, 11 maggio 2007, n. 2314, mentre in direzione opposta (confermandone quindi la valenza proprio in questa prospettiva non meramente individualistica) TAR Campania, Napoli, Sez. V, 15 marzo 2007, n. 2177; in giurisprudenza il legame è rimarcato, recentemente, da TAR Lazio, Roma, I, 5 novembre 2008, n. 9637, FA-TAR, 2008, 3046. Vero è, peraltro, che la E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 10 Corte costituzionale38 che continuano a mantenere (o ritenere) vivo (sia pure in termini astratti) il collegamento tra diritto di accesso ed esigenze di controllo democratico sull’esercizio del potere. Il senso di questo ripiegamento individualista del diritto di accesso può essere verosimilmente colto nell’affermazione, forte e progressiva, di un altro principio e valore di rilievo costituzionale, strutturalmente portato ad incidere, limitandoli, sui processi conoscitivi, specie se generalizzati: la tutela della riservatezza. L’emersione della privacy, cui la legge del 1990 già prestava attenzione ma poi oggetto di una regolazione penetrante ed incisiva39, è la ragione, o comunque l’occasione, che giustifica la scelta di concentrare le facoltà conoscitive in capo ad un numero circoscritto di individui, quelli portatori di esigenze di conoscibilità non generiche ma funzionali alla salvaguardia e protezione di propri interessi meritevoli di attenzione. Assistiamo, allora, al difficile combinarsi della legge sulla trasparenza e di quella sulla riservatezza, prima, e quindi alla definizione di un equilibrio delicato e composito, che si modula in favore dell’accesso ai documenti ma porta con sé la limitazione del novero dei legittimati all’accesso. Ci troviamo di fronte, in sostanza, in primo luogo ad uno strumento di tutela del singolo, ad una facoltà strumentale alla salvaguardia di altre situazioni individuali protette dall’ordinamento, ad un «congegno»40 funzionale alla difesa in primo luogo di istanze egoistiche. Si tratta di una prospettiva comunque indubbiamente rilevante, di giustizia nell’amministrazione, capace di assicurare, però solo indirettamente ed incidentalmente, una forma di controllo sull’operato dell’amministrazione. 3. Il nuovo modello: la pubblicità (on line) delle informazioni giurisprudenza del Consiglio di Stato è da un lato molto netta nell’affermare il rapporto di principio tra accesso e trasparenza (ex multis la recente Cons. Stato, IV, 22 marzo 2007, n. 1393 che afferma limpidamente questo collegamento funzionale), ma dall’altro è altrettanto decisa nell’indebolire la portata pratica di questo principio, limitando per quanto possibile un utilizzo non egoistico dello strumento. 38 Cfr. Corte cost., n. 104 del 2006. 39 Su rapporto tra riservatezza ed accesso alla luce della disciplina della privacy (l. 675 del 1996 ed ora d.lgs. n. 196 del 2003, c.d. Codice della privacy) v. ora E. MENICHETTI, La conoscenza dei dati: tra trasparenza e privacy, ed E. PAPINI, Trasparenza e privacy nelle decisioni del Garante, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit. (rispettivamente, pp. 283 ss. e 309 ss.): 40 Di “congegni” funzionali alla trasparenza parla Palma, prestando però attenzione in particolare alla figura del responsabile del procedimento (G. PALMA, Itinerari di diritto amministrativo, cit., p. 307. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 11 La coerenza di sistema di una riforma, quella del 2005, che afferma con maggiore enfasi la trasparenza quale principio generale dell’azione amministrativa, proprio nel momento in cui riduce lo spazio di operatività a tal fine del suo principale strumento, il diritto di accesso, va colta allora guardando oltre, ed a fianco, della legge sul procedimento.41 Gli strumenti chiamati ad assicurare la trasparenza, da intendersi non solo quale principio guida ma anche quale condizione di complessiva conoscibilità dell’organizzazione e dell’azione dei pubblici poteri, vanno allora ricercati in modo ampio, senza fissare un’attenzione esclusiva, od eccessiva, al Capo V della legge n. 241 del 1990. In questa prospettiva il disegno acquista, se non nitore, certo una sua comprensibilità, sia pure tra incertezze ed ambiguità. La disciplina che consente di prefigurare l’emersione di un nuovo modello di trasparenza, che si affianca a quello precedente, e che però appare idoneo ad assicurare rinnovate dinamiche di conoscibilità, è quella contenuta nel Codice dell’amministrazione digitale.42 Il d.lgs. n. 82 del 2005, modificato già nel 2006 ed ora in via di ulteriore riforma43, è un punto di snodo nella transizione verso un nuovo modello di trasparenza44 per almeno tre ordini di ragioni. Il primo, l’affermazione di un principio generale di conoscibilità delle informazioni “non riservate per espressa previsione di legge”, che sancisce il definitivo tramonto del segreto quale regola idonea a reggere invia generale l’operato delle amministrazioni pubbliche: si tratta di una conclusione cui la dottrina già era giunta sulla base dei principi costituzionali (di imparzialità, democraticità, libertà di espressione) e che aveva trovato nella legge n. 241 una prima, sia pure parziale, affermazione, ma che risulta ora fissata in modo chiaro quale regola di tipo generale. La regola della piena conoscibilità di ogni informazione Cfr. E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa, cit. Su cui, in generale, E. CARLONI (a cura di), Codice dell’amministrazione digitale, Rimini, Maggioli, 2005 e, dopo il decreto correttivo del 2006, cfr. ATELLI-ATERNO-CACCIARI, Codice dell’amministrazione digitale. Commentario, Roma, 2008 43 Il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo di riforma del Codice nella riunione del 19 febbraio 2010. 44 Un modello che viene definito a livello dottrinale come trasparenza “ex ante” (A. CERRILLO I MARTINEZ, E-Información: hacia una nueva regulación del acceso a la información, in Revista Internet, Derecho y Política, 2005, 14) o trasparenza on line , che presuppone la continua diffusione attraverso mezzi elettronici di informazioni relative all’organizzazione ed all’attività della pubblica amministrazione: cfr. E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza, cit., passim; D. HEALD, Varieties of Transparency, in C. HOOD, D. HEALD (a cura di), Transparency. The key to better governance?, Oxford, Oxford University Press, 2006, 32); B.G. MATTARELLA, Profili Generali, in F. MANGARO, A. ROMANO TASSONE (a cura di), I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d’informazione, Torino, Giappichelli, 12 ss. ); F. MERLONI, Introduzione all’eGovernment, Torino, Giappichelli, 2005, 127 ss.). 41 42 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 12 non riservata per specifica scelta del legislatore ridisegna in qualche modo la stessa portata del segreto di ufficio.45 Il secondo, la scelta dello strumento della disseminazione attraverso la rete Internet (o, usando il linguaggio più tradizionale scelto dal legislatore, la pubblicazione nel sito istituzionale) a fianco, ed in luogo, di quello dell’accesso ai documenti. Le potenzialità della rete per la conoscibilità delle informazioni pubbliche46 era ormai entrato nella pratica amministrativa, prima, e nello spettro visuale del legislatore, poi: per quanto non sia assente l’idea di un utilizzo delle tecnologie dell’informazione per l’esercizio per via telematica del diritto di accesso, è chiara l’opzione in favore di uno spazio di piena pubblicità, di un’area che è pubblica perché «accessibile a tutti, nello stesso senso in cui parliamo di pubbliche piazze».47 Si tratta di una scelta in parte anticipata dalla legge n. 150 del 2000, che nel disciplinare le attività di informazione e di comunicazione48 aveva individuato nelle reti civiche uno strumento idoneo ad assicurare una più ampia conoscibilità dell’attività e dei servizi delle amministrazioni pubbliche, che però trova nel Codice dell’amministrazione digitale la sua chiara, ancorché non soddisfacente in termini qualitativi e quantitativi, affermazione. Questa impostazione, radicata nell’art. 54 del Cad dove troviamo un primo, sia pure inappagante49, decalogo della trasparenza on line, ha mostrato nel corso del quinquennio successivo una formidabile vitalità e forza espansiva. La pubblicità assicurata dalla pubblicazione di atti e notizie non era certo ignota al diritto amministrativo, ma quella che nel 1990 appariva, almeno nella prospettiva della trasparenza, come una misura di conoscibilità secondaria50 ha trovato nell’evoluzione 45 Nel senso che definisce, per il funzionario, un’area di legittima attività informativa, non dipendente dal modulo conoscitivo del diritto di accesso. Sul segreto di ufficio, si v. ora il commento all’art. 28 della l. 241 del 1990 in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffré, in corso di stampa. 46 Cfr. F. VENTURINI, I. Conoscibilità, disponibilità e ruolo di Internet, in P. CAVALERI, F. VENTURINI (a cura di), Documenti e dati pubblici sul web. Guida all’informazione di fonte pubblica in rete, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 23 ss. 47 J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, ed. it. Roma-Bari, 2005, p. 4. 48 Cfr. G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, Rimini, Maggioli, ed. 2004; T. KRASNA (a cura di), Informazione e comunicazione della p.a. dopo la legge n. 150/2000, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2003. 49 V. E. MENICHETTI, Accessibilità e tutela della riservatezza, in Il regime dei dati pubblici (a cura di) PONTI, Rimini, 2008, p. 181; cfr. ID., Capo V, Sezione I – Dati delle pubbliche amministrazioni, in E: CARLONI (a cura di), Codice dell’amministrazione digitale, Rimini, Maggioli, 2005, p. 315. 50 Almeno a dar retta alla pubblicistica in materia di trasparenza, che tradizionalmente concentra la sua attenzione sullo strumento dell’accesso (ampiamente sul punto ci sia consentito rinviare a E. CARLONI, Gli strumenti della trasparenza nel sistema amministrativo E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 13 tecnologica un formidabile alleato: ecco allora affermato l’obbligo di pubblicare in rete tutti i documenti per i quali la legge n. 241 già disponeva obblighi di pubblicità secondo le modalità tradizionali previste dai singoli ordinamenti (atti normativi, atti a contenuto generale, piani e programmi), ma anche numerose informazioni sulle procedure e sull’organizzazione.51 Il terzo, l’attenzione al tema della qualità delle informazioni diffuse in rete52, non solo alla loro (come detto non ancora soddisfacente) quantità.53 In questo senso, appare di particolare rilievo la previsione, contenuta nello stesso art. 54 del Cad, dell’obbligo per le amministrazioni pubbliche di garantire la conformità all’originale delle informazioni delle quali si dà diffusione attraverso il sito istituzionale.54 Il tema della qualità dei dati di fonte pubblica, che trova peraltro emersione in una serie significativa di disposizioni settoriali e trasversali (si pensi alla disciplina dell’informazione statistica, dell’informazione ambientale, ma soprattutto al regime del trattamento dei dati personali) e che conosce nello scenario comparato compiute, rilevanti (e problematiche) regolazioni, come avviene negli Stati Uniti con l’Information Quality Act55, inizia quindi a trovare all’incrocio con la italiano e la sua effettività: forme di conoscibilità, quantità e qualità delle informazioni, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., p. 352 et passim). 51 In E. CARLONI, ult.op.cit., pp. 372 ss., una proposta di classificazione degli strumenti di trasparenza: qui si indicano come “misure di conoscenza” quelle attività in cui la produzione e diffusione di informazioni sono direttamente ed espressamente orientate alla trasparenza. Rientrano in quest’ambito, oltre a quanto sin qui detto, informazioni sullo stato dell’ambiente, obblighi di disclosure, dati sulla spesa pubblica (cfr. ivi, p. 375) 52 Cfr. F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, cit. 14; M. PRAT, The more closely we are watched, the better we behave, in D. HOOD, C. HEALD (a cura di), Transparency. The key to better governance?, cit., p. 91. 53 Il tema della qualità dell’informazione è presente, a livello dottrinale, già in A. MELONCELLI, L’informazione amministrativa, Rimini, Maggioli, 1983. In materia, cfr. F. VENTURINI (L’informazione pubblica dalla carta al web, in P. CAVALIERI,F. VENTURINI, Documenti e dati pubblici sul web cit., spec. pp. 34 ss.) per il quale il requisito fondamentale, dell’affidabilità delle informazioni on line, è dato da completezza, integrità, integrazione, ricercabilità, aggiornamento). Si noti che per D. MCQUAIL, Media performance. Mass Communication and the Public Interest, London, Sage Publ., 1992, trad it. I media in democrazia, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 213 ss.; i tre aspetti essenziali che qualificano “la notizia come informazione” sono la fattualità, l’accuratezza e la completezza (ivi, spec. pp. 243 ss.). 54 Su questa garanzia di “qualità”, cfr. E. MENICHETTI, ult.op.cit., pp. 320 ss.; cfr. E. CARLONI, La qualità delle informazioni pubbliche. Il modello italiano nella prospettiva comparata, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1, 2009, pp. 155 ss. 55 Il Federal Data Quality Act del 2000 (sezione 515, P.L. 106-554), definisce la qualità delle informazioni come utilità, obiettività ed integrità. Per una prospettiva ampia della problematica, si v. U. GASSER (cur.), Information quality regulation: foundations, perspectives and applications, Schulthess, Baden Baden, 2004, nonché il numero speciale dell’International Journal Studies in Communication Sciences, n. 2, 2004 (in particolare, si v., ivi, E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 14 disciplina dell’eGovernment una regolazione parzialmente organica. L’influsso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è, da questo punto di vista, formidabile anche ponendo attenzione alla dimensione (interna) di circolazione interamministrativa di dati e informazioni: l’esigenza di coordinare banche dati e basi di dati, di utilizzare informazioni residenti in altre amministrazioni in modo non mediato, porta con sé forti spinte alla standardizzazione degli elementi conoscitivi e delle modalità di diffusione ed organizzazione56, all’oggettivizzazione dei caratteri della conoscenza pubblica.57 3.1. La “Operazione trasparenza” e la riforma “Brunetta” La prospettiva aperta dal Codice dell’amministrazione digitale, attraverso la previsione di un elenco di contenuti obbligatori per i siti delle amministrazioni statali, è stata ampiamente, anche se con scarsa sistematicità, percorsa dal legislatore nel corso degli ultimi anni. Una tendenza, che, recentemente, vede la sua più chiara manifestazione nelle riforme promosse dal Ministro Renato Brunetta e, in questo quadro, nella legge n. 69 del 2009, nella legge n. 15 del 2009 e nel conseguente d.lgs. n. 150 dello stesso anno. Per quanto l’intervento del Ministro della pubblica amministrazione appaia decisivo, in termini quantitativi e qualitativi (specie per la più chiara consapevolezza nell’uso dello strumento e nella ricerca di un suo utilizzo effettivo), ci troviamo di fronte ad una tendenza che caratterizza la recente evoluzione del sistema pubblico e che attraversa le ultime tre Legislature. Nelle Leggi finanziarie per il 200758, 200859 e 200960, troviamo numerosi obblighi di pubblicazione, nel sito web delle amministrazioni pubbliche, il saggio introduttivo di M. HELFERT, U. GASSER, M.J. EPPLER, Information quality: organizational, technological, and legal perspectives); A. CERRILLO I MARTÍNEZ, A. GALÁN GALÁN, Qualitat i responsabilitat en la difusió d´informació pública a Internet, Barcelona, Generalitat de Catalunya, 2007. 56 Cfr. ora le Linee guida per i siti web della PA, adottate ai sensi dell’art. 4 della Direttiva 8/09 del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione (versione provvisoria del 9 marzo 2010, in www.innovazione.gov.it). 57 Tendenza che si lega strettamente a quella della perdita di strumentalità: cfr. F. MERLONI, Sull’emergere della funzione di informazione nelle pubbliche amministrazioni, in ID. (a cura di), L’informazione delle pubbliche amministrazioni, Rimini, Maggioli, 2002, pp. 15 ss.; M.P. GUERRA, Funzione conoscitiva e pubblici poteri, Milano, 1996, passim. 58 Legge 296 del 2006, art. 1, co. 593, che prevede la pubblicità delle retribuzioni per i dirigenti e i titolari di incarichi pubblici, tramite i siti web delle amministrazioni; si v. però anche i co. 587 e 591, che disciplinano la pubblicazione dei dati relativi alle partecipazioni delle amministrazioni pubbliche a società e consorzi, indicando la ragione sociale, le quote, la durata dell’impegno, gli impegni gravanti sul bilancio dell’ente pubblico, i rappresentanti, il loro trattamento economico: in questo caso la E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 15 di dati di tipo organizzativo e relativi al personale ed all’utilizzo delle risorse pubbliche. E’ marcata, d’altra parte, anche nella legislazione di settore, la tendenza a fare ampio ricorso a doveri di pubblicazione di dati e informazioni nei siti informatici delle pubbliche amministrazioni, sia in funzione di servizio61 che di trasparenza. 62 Si tratta, come è evidente, di interventi privi di una loro sistematicità, che vanno però a delineare “per accumulo” un patrimonio conoscitivo pubblico, reso disponibile a chiunque mediante pubblicazione in Internet di documenti dotati o meno di autonomo valore giuridico e di dati ed informazioni. Il limite del diritto di accesso dato dalla sua connessione a “documenti” (sia pure da intendersi in senso ampio, non solo come documenti cartacei), che caratterizzava anche le tradizionali forme di pubblicazione, non si presenta nella nuova dimensione della pubblicità tramite reti informatiche. Assistiamo, in altri termini, all’emersione anche nell’ambito della conoscibilità delle informazioni, al pari di quanto avviene in quella della interconnessione e dell’interoperabilità, dell’accesso interamministrativo telematico e della consultazione di banche e basi di dati63, della “logica dei dati”: ci troviamo, cioè, di fronte al fluire di unità pubblicità si intende assicurata non direttamente, ma a cura del Dipartimento della funzione pubblica, nel proprio sito web. 59 Legge 244 del 2007, co. 44, relativo a contratti e consulenze, dei quali si dispone in particolare la “pubblicazione sul sito web dell’amministrazione o del soggetto interessato” dei provvedimenti completi di indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato. 60 Facciamo riferimento qui, in effetti, soprattutto alla c.d. Manovra d’estate (d.l. 112 del 2008, conv. in l. 133 del 2008), che non è propriamente una Legge finanziaria per quanto ne abbia sostanzialmente assorbito gran parte dei tradizionali contenuti. Il co. 233 dell’art. 2 è, in questo quadro, significativo perché collega l’ammissibilità di procedure semplificate di cessione di immobili da parte dell’Agenzia del Demanio alla pubblicazione degli avvisi e degli atti relativi nel sito web dell’amministrazione. 61 Basti pensare, in questo senso, ai requisiti di trasparenza che le Università sono tenute a rispettare, attraverso la pubblicazione nei propri siti web di un gran numero di informazioni relative all’organizzazione della didattica, all’offerta formativa, al personale docente (si v. l’art. 2 del D.M. 31 ottobre 2007, n. 544 e le Indicazioni operative contenute nella Nota 9 dicembre 2009, n.253). 62 In tal senso si v. ad esempio il Codice dei contratti pubblici, che prevede tanto la pubblicazione nei siti delle singole stazioni appaltanti (v. es. art. 3, co. 35), che in un apposito sito costituito presso l’Osservatorio. 63 L’accesso interamministrativo, disciplinato a partire dal DPR n. 445 del 2002, consente una «acquisizione diretta di informazioni da parte dell’amministrazione procedente su documenti giacenti nel sistema informativo dell’amministrazione certificante» (così A. MASUCCI, Informatica pubblica, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, cit., IV, p. 3120: su queste problematiche, si v. ampiamente M.P. GUERRA, Circolazione dell’informazione e sistema informativo pubblico: profili giuridici dell’accesso interamministrativo telematico. Tra testo unico sulla documentazione amministrativa e codice dell’amministrazione digitale, in Diritto Pubblico, n. 2, 2005, pp. 525 ss.; G. CAMMAROTA, E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 16 conoscitive elementari, aggregate in risposta a specifici obblighi di divulgazione e suscettibili di successive operazioni di elaborazione e rielaborazione, anche (e proprio) nella prospettiva di un controllo diffuso e generalizzato sull’operato delle amministrazioni pubbliche. Questa tendenza viene, come anticipato, intercettata ed energizzata nel corso dell’ultima Legislatura, attraverso politiche volte in primo luogo ad assicurare che le informazioni delle quali il legislatore aveva disposto la pubblicità on line (è questa, in sostanza, la portata della c.d. Operazione trasparenza così come inizialmente promossa dal Ministro per la pubblica amministrazione). Da ultimo, però, significativi interventi normativi hanno, questa volta in modo abbastanza organico e senz’altro consapevole, inteso ampliare il novero delle informazioni delle quali deve essere assicurata la piena conoscibilità tramite la pubblicazione nei siti web. La c.d. riforma Brunetta, dal nome del Ministro proponente, dedica una particolare attenzione a tali obblighi di conoscibilità, sia attraverso la legge n. 15 del 2009 (ed il successivo d.lgs. n. 150 del 2009)64 che, soprattutto, attraverso la legge n. 6965 dello stesso anno. Ecco, quindi, l’obbligo per le amministrazioni di rendere noti, attraverso i propri siti internet, informazioni relative ai dirigenti (curriculum vitae, retribuzione, recapiti istituzionali) e i tassi di assenza e di presenza del personale.66 Non si tratta più solo di informazioni di tipo organizzativo, ma di dati (spesso appositamente raccolti ed aggregati) che si presumono idonei a rappresentare in modo significativo l’efficienza e l’imparzialità di un’amministrazione, la sua capacità di utilizzare correttamente le risorse pubbliche. Si pensi, in questo senso, ad altre previsioni, distribuite qua e là nelle riforme del 2009: la pubblicità sui dati relativi alla «tempestività nei pagamenti»67; l’ammontare dei premi collegati alla performance, dati relativi grado di differenziazione nell’utilizzo della premialità sia per i dirigenti sia per i dipendenti, le retribuzioni dei dirigenti con specifica evidenza delle componenti legate alla valutazione di risultato, gli incarichi Circolazione cartacea e circolazione telematica delle certezze pubbliche. Accertamento d'ufficio ed acquisizione d’ufficio, in Foro amministrativo: TAR, n. 11, 2004. 64 Sul punto, cfr. D. SARCONE, Dalla «casa di vetro» alla «home page»: la «trasparenza amministrativa» nella legge 15/2009 e nel suo decreto attuativo, in Amministrativamente (www.amministrativamente.it), 30.11.2009 65 Recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile 66 Art. 21, co. 1, della legge n. 69, questi ultimi aggregati per ciascun ufficio dirigenziale. 67 Art. 23, co. 5, L. 69: ogni amministrazione pubblica determina e pubblica, con cadenza annuale, nel proprio sito internet «un indicatore dei propri tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, denominato «indicatore di tempestività dei pagamenti», nonché «i tempi medi di definizione dei procedimenti e di erogazione dei servizi con riferimento all'esercizio finanziario precedente». E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 17 conferiti68; i dati sui quali si basano le valutazioni «affinché possano essere oggetto di autonoma analisi ed elaborazione».69 La connotazione sistematica di questi interventi è confermata dall’attenzione che viene dedicata ai caratteri delle informazioni diffuse, spesso al fine di assicurarne non solo la facile reperibilità70 ma anche la raffrontabilità71. Ma è decisiva, nel segnare l’acquisita consapevolezza dello strumento e l’enucleazione di un nuovo modello di riferimento, la definizione che lo stesso legislatore fornisce della trasparenza, che è intesa «come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti internet delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta in proposito dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei princìpi di buon andamento e imparzialità».72 Il decreto n. 150 del 2009 conferma appieno questa impostazione, collegando espressamente la disseminazione on line di determinate informazioni al fine di assicurare un controllo diffuso sull’operato delle pubbliche amministrazioni «anche a garanzia della legalità».73 Merita di essere segnalato (per quanto si tratti di un testo assolutamente provvisorio) come il recente d.d.l. di contrasto ai fenomeni di corruzione faccia largo ricorso all’istituto della pubblicità tramite siti istituzionali.74 E’ uno sviluppo, questo, che merita di essere approfondito quanto a implicazioni (e possibili complicazioni) sottostanti, ma che si segnala Cfr. art. 11, co. 8 del d.lgs. n. 150 del 2009. Legge n. 15 del 2009, art. 4, co. 2, lett. h), pt. 1. 70 Per gran parte di queste informazioni si prevede espressamente la loro collocazione in un’area specifica del sito web, denominata Trasparenza, valutazione e merito. 71 Si v. la circolare n.3 del 2009 del Dipartimento per la funzione pubblica; si noti che per permettere la standardizzazione dei dati da pubblicare, si prevede che tutti gli Uffici interessati dalla rilevazione possano utilizzare una procedura per la compilazione on line dei curriculum dirigenti. 72 L. 15 del 2009, art. 4, co. 7. 73 Art. 1, co. 2, d.lgs. n. 150 del 2009. 74 Anche qui la trasparenza dell’attività amministrativa «è assicurata attraverso la pubblicazione sui siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione» (si v. l’art. 1 del d.d.l., Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei ministri del 1 marzo 2010). 68 69 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 18 quale modello in via di significativa diffusione (e regolazione) anche nello scenario comparato.75 3.2. I pregi della “accessibilità” totale La scelta, che come evidenziato pare chiara nell’evoluzione legislativa anche se non altrettanto bene esplicitata, di spostare il baricentro della trasparenza dal diritto di accesso alla pubblicità on line, porta con sé una serie di questioni problematiche che si esaltano quanto più questo spostamento sia inteso in termini radicali. Fatta questa premessa, che evidentemente condiziona complessivamente il discorso, è indubbio che il modello della trasparenza-pubblicità presenta (almeno potenzialmente) indubbi pregi che, senza pretesa di esaustività, possono essere ricondotti: a) al fatto di consentire una conoscenza diffusa, da parte del “chiunque”, anche a prescindere dal suo coinvolgimento nel rapporto con l’amministrazione; b) al fatto di costituire un patrimonio conoscitivo suscettibile di successive elaborazioni e, come tale, idoneo a produrre conoscenze nuove, diverse, ulteriori ed inattese; c) al fatto di generare una conoscenza che è diretta, immediata, agevole, curiosity oriented, non filtrata da interventi e mediazioni dell’amministrazione. Perché possa sviluppare le proprie potenzialità, il modello richiede evidentemente di essere sviluppato con attenzione, perché trovandoci di fronte a informazioni che il legislatore individua come “a conoscibilità necessaria”, diviene decisivo poter disporre di informazioni di quantità e qualità adeguata: mutuando la terminologia da quella della pubblicità commerciale, è evidente ad esempio che una comparazione ha senso se i dati rispetto ai quali è operata sono riferiti a caratteristiche essenziali, pertinenti e rappresentative76, od altresì è evidente che l’informazione ha 75 Va segnalato, infatti, come vari paesi, quali Francia (si v. L. CLUZEL-MÉTAYER, Le service public et l'exigence de qualità, Paris, Dallow. 2006), Spagna (cfr. J. VALERO TORRIJOS, Acceso a los servicios y a la información por medios electrónicos, in E. GAMERO CASADO, J. VALERO TORRIJOS (a cura di), La Ley de Administración electrónica, Cizur Menor, Thomson-Aranzadi, 2007) e Stati Uniti (cfr. A. FROST, Restoring faith in government: transparency reform in the United States and the European Union, in European Public Law, 2003, 9) hanno approvato regolazioni che, disciplinano la diffusione di informazioni attraverso strumenti elettronici. Per una panoramica ampia, che tiene conto anche delle esperienze britannica e tedesca (oltre che di quelle italiana, spagnola e francese, cui già si è fatto cenno), si v. B. PONTI (a cura di), Il regime dei dati pubblici. Esperienze europee e ordinamento nazionale, Rimini, Maggioli, 2008, ed ivi, in particolare, i contributi di P. SUCEVIC, P. BIRKINSHAW, M. EIFERT, A. CERRILLO MARTINEZ, E. MENICHETTI. 76 Si v. l’art. 13 del Codice di autodisciplina pubblicitaria. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 19 senso se relativa alle «caratteristiche principali» e non vi sono «omissioni ingannevoli».77 Rispetto ai vantaggi, cui si è fatto cenno, alcune brevi notazioni. Il primo di questi pregi, che potremmo definire dell’informazione del cittadino in quanto tale, merita specifica attenzione perché, anche in termini culturali rimanda ad un’idea di amministrazione che non sembra altrimenti aver trovato nello sviluppo dell’ordinamento un’adeguata valorizzazione. Merita risalto, al riguardo, il fatto che la migliore dottrina da tempo ha evidenziato che nell’ottica della trasparenza amministrativa risultano decisive le dinamiche informative che, essendo riconducibili a chiunque, rendono possibile processi conoscitivi sottratti «a logiche di mediazione e di scambio».78 Il secondo, dato dalla prefigurazione di un vero e proprio giacimento conoscitivo, è un aspetto che non sfugge alle intenzioni del legislatore, che in taluni casi parla espressamente di forme diffuse di controllo, di «successive elaborazioni». Questo aspetto chiama direttamente in causa una serie di sedi deputate istituzionalmente a svolgere un ruolo di mediazione conoscitiva: i centri di ricerca, le associazioni di consumatori ed utenti dei servizi pubblici, i giornalisti e gli organi di informazione. E’ appena il caso di segnalare il fatto che l’iniziativa Federal register 2.079 è stata accompagnata dalla quasi immediata costituzione di gruppi ed organismi incaricati di investigare, rielaborare e semplificare l’accesso a questa massa di informazioni spesso grezze.80 Il terzo, della facile accessibilità ed usabilità, dipende in parte da accorgimenti tecnici (quale il rispetto di regole di usabilità, l’indicizzazione da parte dei motori di ricerca81) ed in parte dalla facile reperibilità delle informazioni (che in alcuni casi il legislatore ed il Si v. gli artt. 21 e 22 del Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005 e s.m.). A. ORSI BATTAGLINI, L’astratta e infeconda idea, cit., 1367. Sulla pubblicità come diritto riconosciuto a chiunque, cfr. C. MARZUOLI, La trasparenza come diritto civico alla pubblicità, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, cit., pp. 45 ss.; C. CUDIA, Trasparenza amministrativa e pretesa del cittadino all'informazione, in Dir.pubbl., 2007, pp. 99 ss. 79 Che a sua volta si inquadra nella c.d. Open Government Initiative della presidenza Obama (i documenti in merito sono reperibili all’indirizzo www.whitehouse.gov/Open). 80 Ad esempio, il Center for Information Technology di Princeton ha immediatamente attivato un progetto, Fedthread.org, che consente di commentare, segnalare ed annotare il Federal register. Un’altra organizzazione ha creato un software che agevola la ricerca nella banca dati (Public.Resource.org), mentre GovPulse rende possibile visualizzare il Federal Register per argomento o località, in modo da mostrare più facilmente gli interventi governativi ad effetto settoriale o locale. 81 Cfr. S. ACAR, J. M. ALONSO, K. NOVAK, Improving access to government through better use of the web: W3C Interest Group, Note 12 May 2009 (in www.w3.org/TR /2009/NOTEegov-improving-20090512/); indicazioni specifiche in questo senso sono presenti nelle recenti (e già ricordate) Linee guida per i siti web della PA. 77 78 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 20 Ministro per la pubblica amministrazione si preoccupano di garantire). Per i cittadini c.d. native internet82 si tratta evidentemente non solo di una conoscenza che è semplice reperire, ma esattamente di quel tipo di conoscenza che sono abituati ad utilizzare, raccogliere e manipolare. L’agevole reperibilità, il superamento del request-and-wait-for-a-responseapproach83, consentono una fruizione diffusa e rendono possibile l’interventi spontanei, in funzione di prima mediazione, quali la segnalazione di taluni dati, la condivisione di determinate informazioni, l’apertura di dibattiti su specifici temi anche di interesse circoscritto (e quindi facilmente non suscettibili di attrarre l’attenzione di mediatori istituzionali). 4.3. I rischi insiti nel nuovo modello. Il modello, così come le sue linee di sviluppo, deve confrontarsi non solo con gli indubbi vantaggi, ma anche con i possibili rischi che l’idea di una trasparenza assicurata dalla «accessibilità totale» porta con sé. L’espressione già di per sé evoca l’idea di un sistema nel quale talune informazioni circolano nella rete svincolate da ogni limite, un’area di totale trasparenza e, per ciò stesso, di completo controllo da parte di chiunque. Così descritto, il modello può rimandare in primo luogo alle teorizzazioni distopiche che hanno ben rappresentato i rischi che le tecnologie divengano strumento di controllo piuttosto che di libertà, consentendo anche la completa conoscenza di informazioni private in quanto connesse all’esercizio di funzioni pubbliche. Non intendo, in realtà, dedicare particolare attenzione a quest’immagine, sia perché la privacy ha sin troppi difensori, e viene spesso usata per impedire la trasparenza piuttosto che per garantire la tutela dell’individuo, sia perché concordo profondamente con chi ha evidenziato, da tempo, che nel sistema pubblico la regola deve comunque essere quella della trasparenza, residuando alla riservatezza il ruolo di eccezione (che è esattamente l’opposto di quanto dovrebbe avvenire nell’ambito privato).84 Vero è, però, che taluni eccessi del legislatore giustificano una qualche apprensione: appare in effetti decisamente esorbitante la scelta Si v. J. PALFREY, U. GASSER, Nati con la rete, Milano, Rizzoli, 2009. Un approccio che è il “tallone d’Achille” delle dinamiche conoscitive per M. HERZ, Law lags behind: FOIA and affirmative disclosure of information, in Cardozo Public Law, Policy and Ethics Journal, 2009, pp. 585 ss. e che in un ceto senso è stato reso obsoleto da Internet (cfr. D.C. VLADECK, Information access-surveying the current legal landscape of federal right-to-know laws, in Texas Law Review, 2008, spec. pp. 1792-1793). 84 Barile; in termini non dissimili, P. Marsocci evidenzia che “l’agire in pubblico risulta, infatti, la caratteristica privilegiata per mantenere viva la distinzione fra poteri pubblici e poteri privati” (Introduzione, in P. MARSOCCI (a cura di), “Esporre” la democrazia. Profili giuridic della comunicazione del Governo, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 7). 82 83 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 21 non già di considerare prevalenti le esigenze di conoscibilità rispetto a quelle di riserbo in ordine a specifici aspetti inerenti alla vita professionale di un dipendente pubblico, ma addirittura di eliminare dall’ambito di protezione della legislazione in materia di dati personali «le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale».85 Si tratta di un esito paradossale, se pensiamo al fatto che la massima trasparenza viene prevista in un ambito, quello inerente al rapporto di lavoro del dipendente di amministrazione pubblica, che si muove di norma in una dimensione eminentemente privatistica, di modo che ci troviamo di fronte ad un rapporto inversamente proporzionale tra potere (che è assente) e conoscibilità (che è massima). I rischi con i quali ci confrontiamo, ciò premesso, attengono alla qualità e quantità delle informazioni disponibili, e quindi alla loro adeguatezza ed obiettività, e perciò in primo luogo alla possibilità che le attività di informazione scivolino nella comunicazione86, nella propaganda, nella pubblicità.87 Non meno rilevante è, però, la questione della loro completezza e significatività e, di conseguenza, del rischio che messo «au grand jour»88 un pezzo dell’amministrazione, le condotte improprie, le inefficienze, la maladministration89 si spostino semplicemente là dove la luce non solo è meno intensa, ma rischia di essere assente. Mantenendo l’immagine dell’edificio, propria dell’idea della «casa di vetro», potremmo parlare di stanze in ordine (quelle aperte alle visite), ma oltre la porta L’art. 4 co. 9 ha, infatti, espressamente inserito questa previsione nella stessa disciplina della privacy, aggiungendola all’articolo 1, comma 1, del Codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. 86 Si v. la distinzione tra “informazione” e “comunicazione” amministrativa proposta dalla dottrina, dove la seconda è intesa come attività diretta a modificare comportamenti, per quanto si ravvisi come informazione e comunicazione siano in un continuum (si cfr. G. ARENA, La funzione pubblica di comunicazione, in ID. (a cura di), La funzione di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, spec. p. 46; F. MERLONI, Sull’emergere della funzione di informazione, cit., spec. p. 34). La l. 150 del 2000 distingue, altresì, tra attività di informazione ed attività di comunicazione sulla base di criteri diversi (sul punto cfr. G. GARDINI, Le regole dell’informazione, Milano, B. Mondadori, 2009, pp. 243 ss.). 87 Nel senso di pubblicità commerciale , quali attività dirette a condizionare il comportamento del destinatario tramite una rappresentazione favorevole del “prodotto”. 88 Facendo riferimento all’espressione di Maurice JOLY (Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu ou la politique de Machiavel au XIXe siecle par un contemporain, Bruxelles, s.e., 1868, p. 25): «mais comme la publicité est de l’essence des pays libres, toutes ces institutions ne pourraint vivre longtemps si elles ne fonctionnaient au grand jour». 89 Cfr. S. CASSESE, “Maladministration” e rimedi, in Foro italiano, V, 1992, pp. 247 ss. 85 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 22 chiusa, là dove non c’è il rischio di ricevere ospiti, può regnare la massima confusione.90 5. L’opacità della trasparenza Sono notazioni, queste, che già ci pongono di fronte al potenziale distorcente che è insito nella trasparenza, e nei suoi strumenti. Che la trasparenza possa produrre opacità appare a prima vista davvero paradossale, ma riflettendo intorno alla metafora dell’illuminazione non appare irragionevole pensare al fatto che la luce, se eccessiva, possa abbagliare, o che l’immagine possa risultare sovraesposta e quindi incomprensibile.91 La trasparenza, a ben vedere, può produrre opacità (vale a dire limitare, o comunque non favorire l’effettiva conoscenza) in modi diversi, secondo dinamiche diverse. Può determinare disorientamento, frutto dell’eccesso di informazioni: un’opacità per confusione. L’informazione utile, interessante, è resa disponibile, ma è difficilmente compresa nella sua portata perché inframmezzata a numerosi elementi privi di interesse. Senza arrivare a dire che less is better92, è però evidente che la conoscenza che il cittadino è in grado di maturare rispetto ad un fenomeno amministrativo non necessariamente è proporzionale alla quantità di informazioni disponibili. Si tratta di una questione che può essere ben compresa solo riflettendo sulle pagine e pagine di contratti e consulenze rese disponibili da amministrazioni di medio-grande dimensione sulla scorta dell’Operazione trasparenza: un complesso di dati ed elementi conoscitivi che finisce per occultare le poche informazioni davvero significative. Potremmo dire, in altri termini, che anche la trasparenza è suscettibile di una certa usura da inflazione, ed il cittadino può verosimilmente risultare interessato ad un numero finito di informazioni. Non appare invece tollerabile l’argomento della opacità pro democrazia, nel senso che limitare la 90 Riprendendo una citazione già riportata da G. ARENA (Trasparenza amministrativa, in Dizionario di diritto pubblico, cit., 5945), la verità va cercata «non in piena luce, ma nella zona in cui necessariamente giocano luce ed ombra»: P.A. ROVATTI, Sulla “verità” della metafora, in AutAut, 220-221, 1997, p. 2. 91 F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in F. MERLONI(a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., spec. 14. Sui “rischi” ed i limiti della trasparenza, connessi in particolare ai caratteri del “messaggio” (spesso dai contenuti scarsamente informativi), si cfr. M. FENSTER, The Opacity of Transparency, in Iowa Law Review, 2006, spec. pp. 921 ss. 92 Alcuni argomenti a supporto di questa tesi in G. NAPOLITANO, L’attività informativa della pubblica amministrazione: ‘less is better’, in F. MANGANARO, A. ROMANO TASSONE (a cura di), I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d'informazione, Torino, Giappichelli, 2005. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 23 conoscenza pubblica sul funzionamento reale delle istituzioni possa essere inteso come funzionale alla protezione della dignità e credibilità delle strutture democratiche.93 Si tratta infatti, come credo evidente, di una china scivolosa che conduce agevolmente a quelle categorie del segreto e della menzogna utile (che non dovrebbero trovare spazio in un sistema in cui la sovranità appartiene al popolo) che sono, a loro volta, «il prologo ad una farsa, o ad una tragedia».94 La trasparenza può però produrre opacità, anche attraverso dinamiche diverse: perché può, ad esempio, falsare la comprensione dei cittadini e dell’opinione pubblica, sulla base di una presunzione non necessariamente corrispondente al vero tra informazione significativa ed informazione disponibile. Un rischio, questo, che appare presente anche nelle riforme che stanno interessando il sistema pubblico italiano. E’ evidente la tentazione di ricorrere ad informazioni di più facile reperibilità in luogo di altre di più complessa ricostruzione, il che può condurre ad una rappresentazione inesatta, e fuorviante, della realtà e quindi distorcere le dinamiche dell’accountability. La trasparenza può determinare, inoltre, una sorta di sviamento del cittadino, attratto dalle numerose informazioni disponibili e con ciò distratto rispetto ad altri fenomeni che si sviluppano parallelamente, ma senza analoghi tassi di trasparenza. Questo effetto è tanto più marcato quanto più si ammettono aree di eccezione rispetto alle regole di trasparenza, e quanto più si nasconde l’estensione di quest’area. La scarsa trasparenza dei segreti (che, a sua volta, può essere considerato un paradossale corollario alle questioni sin qui tratteggiate) produce l’errata percezione del buon funzionamento di talune realtà delle quali altresì, semplicemente, mancano informazioni ed adeguate misure di conoscenza. Si tratta di un fenomeno che l’ordinamento italiano ben conosce, basti pensare al fatto che un pezzo rilevante dell’amministrazione si muove in uno spazio sottratto all’incidenza dei principali strumenti di trasparenza, come avviene per il sistema, oramai dilatatosi oltre ogni tollerabilità, delle c.d. emergenze. La progressiva espansione delle aree del segreto, riferite alle vicende dove più forte è l’esercizio di poteri pubblici e dove più ingente è l’impiego di Per quanto la conoscenza di alcune informazioni possa non giovare alla fiducia nel funzionamento delle istituzioni democratiche, sembra preferibile mantenere una ampia trasparenza e circolazione delle informazioni (in questo senso, si v. la Lectio magistralis su Il web e la trasparenza tra ideali e realtà di Lawrence Lessig dell’Università di Harvard, tenuta l’11 marzo 2010 presso la Camera dei Deputati). 94 V. J. MADISON («a popular government without popular information or the means of acquiring it, is but a Prologue to Farce, or a Tragedy, or perhaps both» (Letter from James Madison to W.T. Barry, August 4, 1822). Si noti che il riferimento a Madison caratterizza il dibattito americano sul Freedom of Information Act. 93 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 24 risorse, mette evidentemente in forte discussione la credibilità complessiva delle operazioni di c.d. trasparenza: il rischio è quello di un sistema incoerente, nel quale vicende di irrisoria valenza vengono esposte alla luce più abbagliante, mentre questioni di ben altro conto sono risolte in stanze deliberatamente lasciate prive di ogni illuminazione. Senza che sia possibile sviluppare qui adeguatamente il tema, deve infine essere segnalata un’ultima, formidabile, dinamica di opacità. Merita attenzione, infatti, il fatto che l’uso delle tecnologie dell’informazione, in assenza di interventi di riequilibrio (volti ad appianare i digital divides95 o a limitarne gli effetti in termini di accesso alla conoscenza), può creare nuove asimmetrie informative, tra “connessi e non”, nuove opacità diseguali, determinando con ciò nuovi limiti alla stessa trasparenza.96 6. Indicazioni conclusive L’evoluzione del sistema italiano mostra, in sostanza, il succedersi di strumenti chiamati ad assicurare la trasparenza: a prima vista, il diritto di accesso ha passato il testimone alla pubblicazione on line di dati ed informazioni. In questi termini, le prospettive della trasparenza non appaiono brillanti, dal momento che per quanto idoneo ad assicurare una rilevante conoscibilità dell’azione e (soprattutto) dell’organizzazione pubblica97, la pubblicità presenta dei limiti interni che ne condizionano l’operatività. La funzione di trasparenza assicurabile dalle dinamiche informative spontaneamente attivate dal singolo, insita nel modello del diritto di accesso e del freedom of information, rimane in un certo senso insostituibile: crea una condizione di complessiva (ancorché potenziale) illuminazione, una potenziale visibilità degli angoli più reconditi dell’amministrazione, salvo che “un superiore, pubblico interesse non imponga un segreto Sul tema, e per ulteriori riferimenti, v. per tutti D. DONATI, Digital divide e promozione della diffusione delle ICT, in F. MERLONI (a cura di), Introduzione all’eGovernment, cit., pp. 209 ss. 96 Come nota Margetts in assenza di adeguate “pre-condizioni” (e quindi, in particolare, in presenza di divides culturali e tecnologici) a, l’impatto delle Ict può limitare la trasparenza (H. MARGETTS, Transparency and digital government, in C. HOOD, D. HEALD (a cura di), Transparency. The key to better governance? Oxford: Oxford University, 2006, 206; V. Zeno-Zencovich, Il diritto ad essere informati quale elemento del rapporto di cittadinanza, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2006, pp. 1 ss. 97 In merito, cfr. A. PIOGGIA, La trasparenza dell’organizzazione e della gestione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, in La trasparenza amministrativa (a cura di) MERLONI, Milano, 2008, 693. 95 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 25 momentaneo”.98 In termini diversi, può ravvisarsi come la trasparenza sia un modo di essere dell’amministrazione che richiede, per la sua realizzazione, sia strumenti di macro-informazione (quale la pubblicità ed ora disponibilità tramite i siti web) che di micro-informazione.99 In altri termini, fintanto che (e nella misura in cui) resta possibile un esercizio del diritto di accesso funzionale, sia pure mediatamente, alle esigenze di trasparenza (come conoscibilità e controllo democratico sull’uso del potere), l’equilibrato bilanciamento dei diversi strumenti ed il loro affiancamento sembra senz’altro suscettibile di una valutazione largamente positiva. Il problema, come accennato, è che nell’esperienza italiana assistiamo più ad una sostituzione che ad una integrazione di strumenti: una tendenza che trova un parziale freno in una serie di discipline speciali che si pongono a cavallo tra gli strumenti più propriamente di giustizia nell’amministrazione (quale pare sempre più essere il diritto di accesso ai documenti) e quelli di conoscibilità diffusa (quale è, appunto, la pubblicità di dati e documenti). Pensiamo, in questo senso, al complessivo regime dell’informazione ambientale (dove si fa largo uso di forme attive di dissemination e si prevede un diritto di accesso particolarmente ampio)100, al diritto di accesso endoprocedimentale, all’accesso alle informazioni locali. La tendenza ad accomunare, quanto a limiti e regime, questi diversi modelli di accesso101 all’accesso così come disciplinato dal Capo V della legge n. 241 del 1990 è, in questo senso, da valutare in termini critici, perché idonea a produrre e rafforzare una “polarizzazione” di strumenti che non risponde alle istanze di buon andamento, imparzialità, cura esclusiva dell’interesse pubblico, democraticità ed eguaglianza che sono radicate nel nostro impianto costituzionale. 98 Così F. TURATI, che proseguiva affermando come, al di là di questa ipotesi, “la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro” (in Atti del Parlamento Italiano, Camera dei deputati, sess. 1904-1908, 17 giugno 1908, p. 22962). 99 Per la distinzione tra macroinformazione e microinformazione, v. ora B.G. MATTARELLA, Informazione amministrativa, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, Milano, 2006, IV, spec. pp. 3127-3129. 100 P. SIRACUSANO, La pubblicità e il principio di trasparenza nella materia della tutela dell’ambiente e del territorio, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., pp. 587 ss. 101 Esemplare, nell’esplicitare questa tendenza, una certa giurisprudenza in materia di segreto di ufficio, che trae dalla previsione dell’art. 28 della legge n. 241 del 1990, la convinzione della legittima “compressione” del segreto solo in presenza del diritto di accesso ai documenti (ritendo leso l’obbligo al segreto dal fatto di aver dato seguito a richieste di accesso di tipo diverso non riconducibili nel solco del “modello” fissato dal Capo V della legge sul procedimento): cfr. TAR Piemonte, Torino, II, n. 1693 del 2001 (relativa all’esercizio del diritto di accesso da parte di un consigliere comunale, che come noto gode di speciali prerogative conoscitive). E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 26 Il modello statunitense si pone, nuovamente, quale utile parametro: capace di sviluppare azioni idonee ad intercettare le potenzialità conoscitive proprie delle tecnologie dell’informazione, come è ora con la Open Government Initiative102 ma già con l’eFoia103, di combinare forme di pubblicità e di libertà di accesso, come è avvenuto tramite l’integrazione del Sunshine Act nell’impianto del FOIA, senza per questo depotenziare la capacità conoscitiva realizzata dall’esercizio del freedom of information.104 In conclusione, anche la comparazione ci mostra, a prendere sul serio la trasparenza amministrativa, l’esigenza di introdurre strumenti nuovi (quali quelli resi possibili dalle tecnologie dell’informazione) senza abbandonare, ma anzi aggiornando, quelli d’antan. Ben vengano, quindi, regole volte ad assicurare la “totale accessibilità” di determinate informazioni, ma oltre a suggerire maggiore sistematicità (banalmente: aggiungendo i nuovi contenuti obbligatori di trasparenza nell’art. 54 del Codice dell’amministrazione digitale), pare auspicabile (da parte del legislatore) un ritocco alla disciplina vigente del diritto di accesso e (da parte degli interpreti) una maggiore cautela nell’utilizzare il regime del diritto di accesso ai documenti per limitare moduli conoscitivi (quali l’accesso in funzione partecipativa105, l’accesso alle informazioni locali e L’Open Government Initiative, già menzionata, si basa in particolare sulla messa a disposizione on line del patrimonio conoscitivo del Federal register (si v. www.data.gov.us), e si sviluppa attraverso una politica di trasparenza esplicitata nella direttiva presidenziale dell’8 dicembre 2009 (Memorandum for the heads of executive departments and agencies, in www.whitehouse.gov/Open). 103 La disciplina EFOIA prevede che le informazioni ritenute di interesse generale siano rese disponibili in appositi spazi informatici (c.d. “electronic reading rooms): in merito, v. già M. E. TANKERSLEY, How the electronic freedom of information act amendments of 1996 update public access for the information age, in Administrative Law Review, 1998, pp. 50 ss.; da ultimo M. HERZ, Law lags behind: FOIA and affirmative disclosure of information, cit., pp. 587 ss.; merita peraltro attenzione il fatto che numerose amministrazioni federali non hanno effettivamente predisposto proprie “electronic reading rooms” (NATIONAL SECURITY ARCHIVE, File Not Found: 10 Years After E-FOIA, Most Federal Agencies Are Delinquent, 2007, reperibile all’indirizzo www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/ NSAEBB216/index.htm). 104 Negli Stati Uniti, l’espressione open government è solita riferirsi ad un “quartetto” di provvedimenti normativi approvati nell’arco di un decennio (F.o.i.a., del 1966; Federal Advisory Committee Act, del 1972; Privacy Act, del 1974; Government in the Sunshine Act, del 1976); cfr. R.K. BERG, S.H. KLITZMAN, G.J. EDLES, An Interpretive Guide to the Government in the Sunshine Act, Washington DC, American Bar Association ed., 2005 105 Questo approccio interpretativo tende, quindi, la rimarcare, anziché attenuare il solco che esiste tra l’accesso previsto dall’art. 10 e quello disciplinato dagli artt. 22 e ss. della legge 241: da un lato, in effetti, se è vero che l’art. 10 disciplina una specie del diritto di accesso di cui all’art. 22 e ss. (“diverso per presupposti, finalità e soggetti titolari”: TAR Lombardia, Brescia, 7 novembre 1991, n. 809), dall’altro questo diritto non è volto tanto ad assicurare la trasparenza, ma va colto “quale garanzia propedeutica nell’ottica di un pieno funzionamento della regola partecipativa” (Cons. 102 E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 27 financo lo stesso diritto di accesso del consigliere comunale106), che andrebbero piuttosto preservati nella loro capacità di assicurare non solo la tutela del singolo, ma un significativo controllo sull’azione pubblica.107 Stato, VI, 27 febbraio 2003, n. 1116: sul punto cfr. V. CERULLI IRELLI, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2006, p. 337). 106 TAR Piemonte, Torino, II, n. 1693 del 2001. 107 Più corretto, a mio avviso, non solo parlare di “diritti” di accesso (in questo senso cfr. M. OCCHIENA, Accesso agli atti amministrativi, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, cit., I, pp. 57 ss.; ID., I diritti di accesso dopo la riforma della legge n. 241/1990, in F. MANGANARO, A. ROMANO TASSONE, I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d’informazione, cit., pp. 145 ss.; e già A. BARTOLINI, Pubblicità delle informazioni e diritti di accesso, in B. CAVALLO (a cura di), Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 201 ss.), ma anche trarre da questa “diversità” conseguenze significative in termini di limiti alla loro “omologabilità”. Spunti in tal senso discendono anche dal fatto che se il diritto di accesso “esterno” della legge n. 241 è un “livello essenziale”, allora le diverse ipotesi di accesso o sono rimesse alle fonti di autonomia perché queste assicurino livelli ulteriori di tutela (e quindi, ad esempio, la disciplina del TUEL è da considerarsi superata, compressa come è tra livelli essenziali statali e fonti di autonomia territoriale), o sono altresì, come qui si suggerisce, da considerarsi diverso “livello essenziale” corrispondente ad un diverso diritto (che non è quello alla tutela delle proprie situazioni giuridiche, ma quello alla salubrità ambientale, alla partecipazione locale, e così via). Sul punto, ci sia consentito rinviare a E. CARLONI, Diritti di accesso e livelli essenziali delle prestazioni, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, n. 1-2, 2008, pp. 45 ss. E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010) 28 Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche 1 - DELIBERA N. 105/2010 (*) - Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (articolo 13, comma 6, lettera e, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150) 2 – ALLEGATO – Esempio di struttura della sezione del sito “Trasparenza, valutazione e merito” approvata nella seduta del 14 ottobre 2010 (*) Versione integrata dalla correzione apportata in data 11 novembre 2010 - http://www.civit.it/?p=2603 LA COMMISSIONE VISTO l’articolo 13, comma 6, lett. e) e comma 8 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 e la delibera n. 105/2010 del 23 settembre 2010 con cui la Commissione ha approvato il testo provvisorio da sottoporre a consultazione, avente ad oggetto le Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità; RILEVATO che sono stati invitati a fornire eventuali osservazioni e proposte: • • • • • • • • • • • Il Garante per la protezione dei dati personali; L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture; Il Dipartimento della Funzione pubblica; La Ragioneria dello Stato; Digit PA; La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi; UPI; ANCI; Le Parti sociali rappresentate nel CNEL; I Componenti degli organismi indipendenti di valutazione; Le Associazioni dei consumatori ed utenti; VISTE le osservazioni pervenute alla Commissione a seguito della pubblica consultazione e adottate le integrazioni ritenute opportune; DELIBERA di approvare il seguente testo delle Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità. 2 Indice: Finalità delle linee guida ......................................................................................................................4 1. Cosa si intende per trasparenza....................................................................................................4 1.1. Integrità e doveri di comportamento dei titolari di funzioni pubbliche ................................5 1.2. Trasparenza e performance ...................................................................................................6 2. Ambito soggettivo di applicazione delle linee guida ...................................................................7 3. Ambito oggettivo e limiti alla pubblicità dei dati ........................................................................7 3.1. Protezione dei dati personali .................................................................................................7 3.2. Limiti derivanti dalla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi ..........................9 4. Redazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ...........................................9 4.1. Requisiti di forma................................................................................................................11 4.1.1. Indicazioni relative alla pubblicazione on line ............................................................11 4.1.2. Indicazioni relative alla pubblicazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità....................................................................................................................................14 4.1.3. Modalità di attuazione e termine di adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità..............................................................................................................16 4.1.4. Strutture competenti.....................................................................................................17 4.2. Pubblicazione on line dei dati .............................................................................................18 4.3. Ulteriori iniziative ...............................................................................................................21 4.4. Posta elettronica certificata (PEC) ......................................................................................22 5. Giornate della trasparenza..........................................................................................................23 6. Attività di verifica e vigilanza della Commissione....................................................................23 3 Finalità delle linee guida Con la presente delibera, la Commissione, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, lettera e), e comma 8 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, adotta le linee guida per la predisposizione, ad opera di ogni singola amministrazione, del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, di cui all’articolo 11, commi 2 e 8, lettera a), del decreto. La Commissione, attraverso un’apposita Sezione per l’integrità nelle amministrazioni pubbliche, verifica l’effettiva adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e vigila sul rispetto degli obblighi in materia di trasparenza da parte di ciascuna amministrazione. Nel contesto della finalità istituzionale di promuovere la diffusione nelle pubbliche amministrazioni della legalità e della trasparenza, nonché lo sviluppo di interventi a favore della cultura dell’integrità (articolo 13, comma 8, del decreto), sono state già adottate alcune “prime linee di intervento per la trasparenza e l’integrità” (delibera n. 6 del 25 febbraio 2010), al fine di verificare il rispetto dei già previsti obblighi di trasparenza, di stabilire un rapporto di informazione e collaborazione con le amministrazioni interessate e di avviare i processi di formazione ed elaborazione degli strumenti generali previsti dalla legge. Le presenti linee guida costituiscono, pertanto, una fase ulteriore di attuazione della disciplina della trasparenza, nell’ambito di un più ampio e graduale processo, cui seguiranno ulteriori iniziative e interventi. Esse indicano il contenuto minimo e le caratteristiche essenziali del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, a partire dalla indicazione dei dati che devono essere pubblicati sul sito istituzionale delle amministrazioni e delle modalità di pubblicazione. La Commissione si riserva di fornire ulteriori indirizzi e documentazione di supporto operativo (ad esempio, glossario, risposte a quesiti di rilevanza generale, ecc.). 1. Cosa si intende per trasparenza Nella predisposizione delle presenti linee guida e conseguentemente dei programmi triennali, assume rilievo centrale la nuova nozione di trasparenza introdotta nell’ordinamento dall’articolo 11 del d. lg. n. 150 del 2009. La trasparenza “è intesa come accessibilità totale (…) delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione (…)” (articolo 11, comma 1). Si tratta di una nozione diversa da quella contenuta negli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, che disciplina la distinta fattispecie del diritto di accesso ai documenti amministrativi, qualificato dalla titolarità di un interesse azionabile dinanzi al giudice (art. 116 cod. proc. amm.) e sottoposto a una specifica e differente disciplina che trova la propria fonte nella richiamata legge n. 241 del 1990, la quale istituisce altresì la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi (art. 27, come sostituito dall’art. 18 della legge 11 febbraio 2005, n. 15), definendone le attribuzioni. L’accessibilità totale presuppone, invece, l’accesso da parte dell’intera collettività a tutte le “informazioni pubbliche”, secondo il paradigma della “libertà di informazione” dell’open government di origine statunitense. Una tale disciplina è idonea a radicare, se non sempre un diritto in senso tecnico, una posizione qualificata e diffusa in capo a ciascun cittadino, rispetto all’azione 4 delle pubbliche amministrazioni, con il principale “scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità” (articolo 11, comma 1, del decreto). Significativa della richiamata differenza di ratio e di conseguente regolamentazione, tra disciplina della trasparenza e disciplina sull’accesso, è la disposizione di cui all’articolo 24, comma 3, della l. n. 241 del 1990, secondo cui “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, laddove, come si è detto, ai sensi dell’articolo 11, comma 1, del d. lg. n. 150 del 2009, la trasparenza è finalizzata proprio a forme diffuse di controllo sociale dell’operato delle pubbliche amministrazioni e delinea, quindi, un diverso regime di accessibilità alle informazioni. Corollario di tale impostazione legislativa della disciplina della trasparenza è la tendenziale pubblicità di una serie di dati e notizie concernenti le pubbliche amministrazioni e i suoi agenti, che favorisca un rapporto diretto tra la singola amministrazione e il cittadino. Il principale modo di attuazione di una tale disciplina è la pubblicazione sui siti istituzionali di una serie di dati. L’individuazione di tali informazioni si basa, innanzitutto, su precisi obblighi normativi, in parte previsti dal d. lg. n. 150 del 2009, in parte da altre normative vigenti. Inoltre, una tale individuazione tiene conto della generale necessità del perseguimento degli obiettivi di legalità, sviluppo della cultura dell’integrità ed etica pubblica, nonché di buona gestione delle risorse pubbliche. In conclusione, il sistema attuale delinea una nozione di trasparenza che si muove su tre piani mobili tra loro collegati: una posizione soggettiva garantita al cittadino, un risultato che le pubbliche amministrazioni sono chiamate a perseguire, uno strumento di gestione della res publica per garantire il “miglioramento continuo” nell’uso delle risorse e nell’erogazione dei servizi al pubblico. 1.1. Integrità e doveri di comportamento dei titolari di funzioni pubbliche Con riferimento alla legalità e alla cultura dell’integrità, la pubblicazione di determinate informazioni pubbliche risulta strumentale alla prevenzione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni. In questo senso, è riconoscibile un legame di tipo funzionale tra la disciplina della trasparenza e quella della lotta alla corruzione, del resto ricavabile, innanzitutto, dalla Convenzione Onu contro la corruzione del 31 ottobre 2003, ratificata dall’Italia con legge 3 agosto 2009, n. 116, che in molti suoi articoli (7, 8, 9, 10 e 13) fa espresso richiamo alla trasparenza. Anche documenti internazionali, adottati in sede sia OCSE, sia GRECO (“Gruppo di Stati contro la Corruzione”, nell’ambito del Consiglio d’Europa), confermano il collegamento tra le due discipline. La trasparenza è, dunque, il mezzo attraverso cui prevenire e, eventualmente, disvelare situazioni in cui possano annidarsi forme di illecito e di conflitto di interessi. Da qui la rilevanza della pubblicazione di alcune tipologie di dati relativi, da un lato, ai dirigenti pubblici, al personale non dirigenziale e ai soggetti che, a vario titolo, lavorano nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, dall’altro, a sovvenzioni e benefici di natura economica elargiti da soggetti pubblici, nonché agli acquisti di beni e servizi. Dalle precedenti considerazioni è ricavabile, peraltro, il collegamento tra la materia della trasparenza e la più generale previsione del dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche di adempiere alle stesse “con disciplina e onore” (articolo 54, comma 2, della Costituzione). In questa prospettiva vanno richiamati l’insieme dei principi e delle norme di comportamento corretto in seno alle amministrazioni. Pertanto, gli obblighi di trasparenza risultano correlati a un siffatto novero di principi e regole nella misura in cui il loro adempimento è volto alla rilevazione di ipotesi di maladministration e alla loro consequenziale eliminazione. Anche la pubblicazione dei codici di 5 comportamento sui siti istituzionali delle singole amministrazioni si inserisce nella logica dell’adempimento di un obbligo di trasparenza. 1.2. Trasparenza e performance La trasparenza presenta un duplice profilo: in primo luogo, come si è detto e come si preciserà in seguito, un profilo “statico”, consistente essenzialmente nella pubblicità di categorie di dati attinenti alle pubbliche amministrazioni per finalità di controllo sociale. Il profilo “dinamico” della trasparenza è invece direttamente correlato alla performance. La pubblicità dei dati inerenti all’organizzazione e all’erogazione dei servizi al pubblico, infatti, si inserisce strumentalmente nell’ottica di fondo del “miglioramento continuo” dei servizi pubblici, connaturato al ciclo della performance anche grazie al necessario apporto partecipativo dei portatori di interesse (stakeholder). Per quanto attiene al buon andamento dei servizi pubblici e alla corretta gestione delle relative risorse, la pubblicazione on line dei dati consente a tutti i cittadini un’effettiva conoscenza dell’azione delle pubbliche amministrazioni, con il fine di sollecitare e agevolare modalità di partecipazione e coinvolgimento della collettività. In quest’ottica, la disciplina della trasparenza costituisce, altresì, una forma di garanzia del cittadino, in qualità sia di destinatario delle generali attività delle pubbliche amministrazioni, sia di utente dei servizi pubblici. La pubblicazione di determinate informazioni, infine, è un’importante spia dell’andamento della performance delle pubbliche amministrazioni e del raggiungimento degli obiettivi espressi nel più generale ciclo di gestione della performance. Con riferimento a quest’ultimo, occorre sottolineare che il Programma della trasparenza, da un lato, rappresenta uno degli aspetti fondamentali della fase di pianificazione strategica all’interno del ciclo della performance, dall’altro, permette di rendere pubblici agli stakeholder di riferimento, con particolare attenzione agli outcome e ai risultati desiderati/conseguiti, i contenuti del Piano e della Relazione sulla performance. Il Programma triennale della trasparenza, pertanto, deve porsi in relazione al ciclo di gestione della performance e deve di conseguenza consentire la piena conoscibilità di ogni componente del Piano e dello stato della sua attuazione. Soprattutto a questi fini rileva la pubblicazione dei Piani e delle Relazioni sulla performance, dello stesso Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, nonché dei dati sull’organizzazione, sui procedimenti e sulla gestione delle risorse strumentali, sulla gestione dei servizi pubblici, sullo stato dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni e sulle buone prassi. L’attuazione della disciplina della trasparenza non si esaurisce nella pubblicazione on line di dati, ma prevede ulteriori strumenti. L’articolo 11, comma 2, del d. lg. n. 150 del 2009, infatti, fa riferimento a “iniziative” volte a garantire un adeguato livello di trasparenza nonché a favorire la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità. In tale prospettiva, vanno lette le “apposite giornate della trasparenza” di cui al comma 6 dell’articolo 11 e gli adempimenti della posta elettronica certificata di cui al precedente comma 5. In conclusione, merita di essere sottolineato che l’attuazione della disciplina della trasparenza richiede un concorso di azioni positive a carico delle singole amministrazioni, ma anche dei soggetti tenuti alla vigilanza (ovvero OIV, dirigente referente, Commissione, si vedano i paragrafi 4.1.4 e 6), consistenti nell’immediata osservanza dei puntuali obblighi attualmente vigenti, nell’adozione e nell’applicazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, nel quale, 6 anche alla luce delle presenti linee guida, devono essere incluse ulteriori iniziative volte a promuovere la trasparenza e la cultura dell’integrità. 2. Ambito soggettivo di applicazione delle linee guida Le presenti linee guida trovano applicazione nei confronti delle aziende e amministrazioni dello Stato anche a ordinamento autonomo, delle agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, degli enti pubblici nazionali nonché degli enti territoriali, nei limiti di cui all’articolo 16 del d. lg. n. 150 del 2009 e con riferimento al comma 1 e 3 dell’articolo 11, salva l’applicazione delle altre previsioni di cui all’articolo 11 a seguito delle intese di cui all’articolo 13, comma 2, del d. lg. n. 150 del 2009. Ne consegue che, in attesa della stipulazione di dette intese, che consentiranno l’adattamento della disciplina della trasparenza alla realtà delle singole amministrazioni locali, le regioni e gli enti locali sono tenuti a garantire la massima trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione della performance, garantendo l’accessibilità totale, attraverso la pubblicazione anche sul sito istituzionale delle informazioni concernenti i dati analiticamente indicati nel comma 1 dell’articolo 11 e ferma restando l’applicazione di quanto previsto dall’articolo 21 della legge 18 giugno 2009, n. 69. La disciplina della trasparenza rientra nei livelli essenziali delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione, oggetto della competenza esclusiva del legislatore statale. L’attuazione di tale disciplina richiede, infatti, modalità tendenzialmente uniformi in ciascuna amministrazione su tutto il territorio nazionale. Le presenti linee guida costituiscono, altresì, un parametro di riferimento per quei soggetti pubblici non contemplati dal d. lg. n. 150 del 2009 e per quei soggetti comunque erogatori di servizi pubblici, che ritengano, nella propria autonomia, di poter adottare strumenti di pubblicità idonei a realizzare gli obiettivi di trasparenza e integrità, in relazione ai propri apparati organizzativi e alle proprie attività, coerentemente con le previsioni di legge e con gli obblighi auspicabilmente presenti nei contratti di servizio o altri strumenti equipollenti. 3. Ambito oggettivo e limiti alla pubblicità dei dati 3.1. Protezione dei dati personali La pubblicazione sui siti istituzionali di alcune tipologie di dati, come evidenziato, rappresenta la principale forma di attuazione della trasparenza ai sensi dell’articolo 11, comma 1, del d. lg. n. 150 del 2009. Tuttavia, la pubblicazione on line delle informazioni deve rispettare alcuni limiti posti dalla legge. È necessario, innanzitutto, delimitare le sfere di possibile interferenza tra disciplina della trasparenza e protezione dei dati personali, in modo da realizzare un punto di equilibrio tra i valori che esse riflettono in sede di concreta applicazione. 7 L’importanza di un continuo bilanciamento tra tali principi e valori è messa in rilievo non solo nelle esperienze straniere più avanzate (si veda l’Open Government Plan statunitense 1 ), ma soprattutto dalla normativa europea (sul tema si veda la Direttiva CE n. 46 del 24 ottobre 1995 e, più specificamente, in relazione al rapporto tra tutela della riservatezza e comunicazioni elettroniche, la Direttiva CE n. 58 del 12 luglio 2002). Con riferimento all’impianto normativo nazionale, rileva l’articolo 1 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali, di seguito “Codice”), che statuisce: “Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano. Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale”. Da un punto di vista oggettivo, con riferimento al concetto di “prestazione”, la deroga prevista dall’articolo 1, comma 2, del Codice, unitamente al conseguente regime di pubblicità che ne deriva, è riferibile a tutti i dati che devono essere oggetto di pubblicazione on line secondo le presenti linee guida, in quanto, e soltanto nella misura in cui, essi costituiscono dati che, direttamente o indirettamente, attengono allo svolgimento della prestazione di chi sia addetto a una funzione pubblica. Sempre sul piano oggettivo, è da ritenersi, peraltro, riconducibile al termine “valutazione”, in primo luogo, ogni riferimento al concetto di performance, e relativa valutazione, contenuto nei titoli II e III del d. lg. n. 150 del 2009. Da un punto di vista soggettivo, l’espressione “chiunque sia addetto ad una funzione pubblica” ricomprende, tendenzialmente, tutti coloro che siano addetti ad una funzione pubblica, indipendentemente dalla posizione rivestita e dal titolo di legittimazione. Proprio in virtù della correlazione esistente tra tali soggetti, la pubblica amministrazione e lo svolgimento di una attività pubblica, devono essere resi accessibili i dati richiesti dalla legge e inerenti, per esempio a funzionari della pubblica amministrazione, dirigenti, titolari di posizioni organizzative, organi di indirizzo politico-amministrativo (si veda paragrafo 4.2). L’esigenza di assicurare una lettura “orientata” della citata disposizione sul piano costituzionale e comunitario induce a ritenere che il diritto dei cittadini di conoscere l’assetto strutturale e il modo di operare delle amministrazioni pubbliche e dei suoi agenti, finalizzato al conseguente controllo sociale sulla res publica, debba essere, comunque, conformato al rispetto del principio di proporzionalità (previsto dagli articoli 3 e 11 del Codice). Tale principio è volto a garantire che i dati pubblicati e i modi di pubblicazione siano pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità indicate dalla legge (paragrafo 4.2), nel rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati, anche alla luce delle delibere del Garante in materia di protezione dei dati personali, e comporta altresì la necessità di provvedere all’archiviazione dei dati non più aggiornati, con particolare riguardo ai dati informativi inerenti al personale (paragrafo 4.1.1). È per converso vero che, nel rispetto del principio di proporzionalità, tutti i dati personali attinenti allo svolgimento della prestazione di chi sia addetto a una funzione pubblica devono essere resi accessibili in attuazione della disciplina legislativa della trasparenza che, a sua volta, costituisce espressione di quei valori di buon andamento e imparzialità delle pubbliche amministrazioni, che trovano un tradizionale riconoscimento negli articoli 97, 98 nonché 3 della Costituzione. Per quanto riguarda i dati sensibili (articolo 4, comma 1, lettera d), del Codice) e i dati che prevedono implicazioni consimili (è, ad esempio, il caso dei dati inerenti a soggetti che si trovano in situazioni economiche disagiate o dei dati riguardanti soggetti appartenenti a categorie protette cui 1 L’Open Government plan, nel fornire indicazioni ad agenzie e dipartimenti in ordine allo sviluppo dei principi di trasparenza e di partecipazione / collaborazione da parte dei cittadini, specifica chiaramente che l’uso di Internet come strumento cardine di attuazione del principio di trasparenza e la piena accessibilità ai dati da parte dei cittadini devono risultare pienamente in accordo con i limiti e le garanzie previste in tema di protezione dei dati personali, di riservatezza, di sicurezza nazionale e di ogni altro obbligo di legge. 8 sono destinate agevolazioni e titoli di preferenza), il contemperamento può essere realizzato mediante specifiche modalità di protezione, quali la profilazione in forma anonima dei dati o l’inaccessibilità ai dati stessi da parte dei motori di ricerca, fermo restando comunque il generale divieto di pubblicare i dati idonei a rivelare lo stato di salute dei singoli interessati (articoli 22, comma 8; 65, comma 5; 68, comma 3, del Codice). 3.2. Limiti derivanti dalla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi Ferma restando la sostanziale differenza tra disciplina della trasparenza e quella sull’accesso ai documenti amministrativi, è da ritenere che alcuni limiti posti all’accesso dall’articolo 24 della l. n. 241 del 1990 siano riferibili anche alla disciplina della trasparenza, in quanto finalizzati alla salvaguardia di interessi pubblici fondamentali e prioritari rispetto al diritto di conoscere i documenti amministrativi. Tali limiti tassativi, riferibili pertanto anche alla disciplina della trasparenza, riguardano: i) i documenti coperti da segreto di stato e gli altri casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge; ii) i procedimenti previsti dal decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito dalla legge 15 marzo 1991, n. 82), recanti norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e di protezione di coloro che collaborano con la giustizia; iii) i procedimenti selettivi in relazione a documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi; iv) i documenti esclusi dal diritto di accesso in forza di regolamenti governativi, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 al fine di salvaguardare gli interessi menzionati dall’articolo 24 della legge n. 241 del 1990. Con riguardo alla facoltà di esclusione dell’accesso in via regolamentare, riferibili anche alla disciplina della trasparenza, occorrono alcune precisazioni. Se nessun dubbio, infatti, può sussistere circa la riferibilità anche alla disciplina della trasparenza dei casi di esclusione, finalizzata alla salvaguardia di interessi generali propri dello Stato (sicurezza interna ed esterna, politica valutaria e monetaria, ecc.), le altre ipotesi di esclusione, previste dalla stessa legge (ad esempio, la formazione degli atti generali) o in via regolamentare (ad esempio, la riservatezza delle persone con riferimento all’interesse professionale o finanziario), devono essere considerati alla luce della disciplina legislativa in materia di trasparenza e devono essere tali da non attenuare o addirittura vanificare la portata precettiva della stessa. Esemplificando, la protezione dell’interesse alla riservatezza finanziaria e professionale deve essere raccordata, sia pure nel rispetto del principio di proporzionalità, al dovere sopra descritto di rendere pubblici tutti i dati inerenti allo svolgimento della prestazione lavorativa di chi sia addetto a una funzione pubblica e, quindi, i dati concernenti i compensi da questi percepiti (e non anche, per esempio, la generale situazione patrimoniale familiare o personale) o la valutazione delle prestazioni rese da questi soggetti nell’ambito del processo di misurazione e valutazione delle pubbliche amministrazioni e dei suoi agenti. Nell’ipotesi in cui, per le ragioni prima indicate, i dati non vengano pubblicati sul sito, è necessario che la riconducibilità delle informazioni sottratte alla pubblicazione alle categorie di esclusione sopra individuate sia indicata sul sito medesimo. 4. Redazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità 9 Le presenti linee guida hanno lo scopo di offrire istruzioni sulla predisposizione delle parti del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, al fine di consentire l’adozione da parte delle amministrazioni di un modello dotato di requisiti minimi essenziali e che consenta la comparazione tra i dati pubblicati da diverse amministrazioni. Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità deve fare riferimento minimo alle seguenti dimensioni della trasparenza: 1. oggetto; 2. strumenti; 3. processo, comprensivo del coinvolgimento degli stakeholder. Il Programma dovrà essere strutturato nelle seguenti parti, a loro volta suscettibili di articolazioni più specifiche: 1. Selezione dei dati da pubblicare Questa sezione del Programma contiene l’elenco dei dati che saranno inseriti all’interno del sito. A tal riguardo, l’amministrazione deve tenere conto: • delle prescrizioni di legge in materia di trasparenza; • delle disposizioni in materia di dati personali, comprensive delle delibere dell’Autorità garante; • delle indicazioni riportate nelle presenti linee guida, in particolare nel paragrafo 4.2; • della natura dei propri settori di attività e dei propri procedimenti, al fine di individuare le aree più esposte a maggiore rischio di corruzione o semplicemente di cattiva gestione; 2. Descrizione delle modalità di pubblicazione on line dei dati In questa sezione devono essere indicate le attività inerenti alla predisposizione, modifica o integrazione della sezione “Trasparenza, valutazione e merito” per renderla coerente con quanto riportato nelle presenti linee guida, in particolare nei paragrafi 4.1.1 e 4.1.2. 3. Descrizione delle iniziative Questa sezione indica le iniziative previste per garantire: a. un adeguato livello di trasparenza, anche sulla base delle presenti linee guida; b. la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità. 4. Sezione Programmatica Questa sezione comprende: a. le modalità di attuazione e le azioni previste; b. i tempi di attuazione; c. le strutture competenti per le diverse fasi di elaborazione ed esecuzione del Programma; d. le risorse dedicate; e. gli strumenti di verifica dell’efficacia delle iniziative. 5. Collegamenti con il Piano della performance 10 In questa sezione sono indicati: a. gli obiettivi, gli indicatori e i target presenti nel Piano della performance in ambito di trasparenza; b. la trasparenza delle informazioni relative alla performance. 6. Descrizione del processo di coinvolgimento degli stakeholder. 7. Posta elettronica certificata (PEC) In questa sezione sono indicati: a. il livello di funzionamento della PEC; b. le eventuali azioni previste per l’adeguamento alla normativa. 8. Giornate della trasparenza. 4.1. Requisiti di forma 4.1.1. Indicazioni relative alla pubblicazione on line In questa sede sono riportate le indicazioni generali relative alle modalità di pubblicazione delle informazioni sui siti istituzionali delle amministrazioni, allo scopo di aumentarne il livello di trasparenza, facilitando la reperibilità e l’uso delle informazioni da parte dei cittadini. Si tratta, pertanto, di indicazioni relative agli adempimenti da adottare al fine di favorire l’accesso da parte dell’utenza, mentre per le modalità tecniche si fa riferimento alla documentazione dedicata allo scopo, tenendo in particolare conto le “Linee guida per i siti web della PA – art. 4 della Direttiva 8/09 del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione” (di seguito “Linee Guida Siti Web”), la cui versione più recente è stata pubblicata il 26 luglio 2010 sul sito del Ministero della pubblica amministrazione e innovazione (www.innovazionepa.gov.it). Le indicazioni sono suddivise in due sottoinsiemi: a) indicazioni relative al formato, che hanno lo scopo di favorire l’utilizzo delle informazioni e dei dati da parte degli utenti; b) indicazioni relative alla reperibilità, che hanno lo scopo di favorire la ricerca delle informazioni e dei dati. L’allegato alle presenti linee guida - Esempio di struttura della sezione del sito “Trasparenza, valutazione e merito” - contiene un modello esemplificativo di applicazione, al sito internet di una generica amministrazione delle indicazioni contenute in questo paragrafo. L’obiettivo di tale esempio è mostrare un concreto e semplice caso pratico al fine di chiarire i concetti espressi, e non fornire ulteriori specifiche rispetto a quelle contenute nelle presenti linee guida. a) Indicazioni relative al formato 11 La pubblicazione on line dovrà essere effettuata in coerenza con quanto riportato nel documento “Linee Guida Siti Web”, in particolare con le indicazioni, contenute nel suddetto documento, relative ai seguenti argomenti: • trasparenza e contenuti minimi dei siti pubblici; • aggiornamento e visibilità dei contenuti; • accessibilità e usabilità; • classificazione e semantica; • formati aperti; • contenuti aperti. Al fine di favorire il riuso e l’elaborazione delle informazioni e dei dati pubblicati sui siti web e ad aumentarne la qualità, le amministrazioni sono inoltre tenute a: 1) pubblicare le informazioni e i dati, indicati al paragrafo 4.2 delle presenti linee guida, nell’apposita sezione del sito istituzionale dell’amministrazione, di facile accesso e consultazione, denominata “Trasparenza, valutazione e merito”. Questa sezione dovrà essere raggiungibile da un link, chiaramente identificabile dall’etichetta “Trasparenza, valutazione e merito” posto nell’homepage del sito stesso; 2) organizzare la suddetta sezione “Trasparenza, valutazione e merito” in modo che i contenuti siano strutturati in coerenza con quanto indicato nel paragrafo 4.2 delle presenti linee guida. La sezione, quindi, dovrà essere divisa in macroaree, ognuna denominata come le categorie presenti nel paragrafo 4.2, ciascuna delle quali dovrà contenere una voce per ogni contenuto specifico appartenente alla categoria stessa. Facendo click sulle suddette voci, l’utente potrà avere accesso alle informazioni di interesse. L’ordine delle voci all’interno della sezione dovrà corrispondere a quello riportato nel paragrafo 4.2. Le voci dovranno essere previste anche se i rispettivi contenuti non sono stati ancora pubblicati: in tal caso, dovrà essere visualizzato un messaggio che indichi che i contenuti sono in via di pubblicazione e che riporti la data prevista di pubblicazione. All’interno della sezione “Trasparenza, valutazione e merito” dovrà essere presente, tra l’altro, il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e al relativo stato di attuazione (si veda a tal proposito il paragrafo 4.1.2); 3) garantire la tempestività della pubblicazione delle informazioni e dei dati e la trasparenza dei criteri di validità: ogni contenuto informativo dovrà essere corredato dalla storia delle revisioni, che contenga la data di pubblicazione e le caratteristiche di ogni revisione. A tal scopo, le informazioni superate e/o non più significative dovranno essere archiviate o eliminate, secondo le indicazioni contenute nelle “Linee Guida Siti Web” (in particolare, al paragrafo 3) e nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali. Particolare attenzione dovrà essere rivolta alla definizione dei criteri di validità e delle politiche di archiviazione dei dati, soprattutto per quanto attiene ai dati informativi relativi al personale (si veda a proposito il paragrafo 4.2); 4) contestualizzare chiaramente ogni contenuto informativo pubblicato (pagina web, file); in particolare dovranno essere indicati: o la tipologia delle informazioni contenute (in modo sintetico); o il periodo a cui le informazioni si riferiscono. Ad esempio, l’anno per quanto riguarda incarichi o compensi, la data di aggiornamento per quanto riguarda i curricula, ecc.; 12 o quale amministrazione (dipartimento, ufficio, ecc.) ha creato quel contenuto informativo e a quale amministrazione (dipartimento, ufficio, ecc.) quel contenuto si riferisce. In applicazione dei principi sopra esposti, i dati di contesto dovranno essere inseriti all'interno del contenuto informativo stesso. Ad esempio, l’anno cui si riferisce una tabella dovrà essere inserito nel file contenente la tabella e non solamente nella pagina web che ospita il link al file. Lo scopo della contestualizzazione è di garantire l’individuazione della natura dei dati e la validità degli stessi, anche se il contenuto informativo è reperito o letto al di fuori del contesto in cui è ospitato (sezione “trasparenza” del sito web dell'amministrazione). Questo rischio si può verificare quando l’accesso ai contenuti informativi avviene mediante motori di ricerca o anche attraverso siti dove sono ospitate copie dei contenuti stessi. In queste ipotesi, infatti, può risultare difficile accertare l’attualità dei contenuti, con l’ulteriore rischio di una lettura poco chiara dei dati. Pertanto, ogni file, oggetto di pubblicazione sui siti istituzionali ai sensi del successivo paragrafo 4.2, sarà prodotto tenendo conto di una sua possibile lettura in un altro contesto e in un momento futuro. La contestualizzazione è, quindi, essenziale al fine di caratterizzare compiutamente e senza errori il contenuto; 5) inserire all’interno della sezione “Trasparenza, valutazione e merito” strumenti di notifica degli aggiornamenti (ad esempio, “Really Simple Syndication - RSS”), sia a livello di intera sezione (viene notificato all’utente qualsiasi inserimento o modifica all’interno della sezione) sia a livello di singolo argomento (all’utente vengono notificati solo gli aggiornamenti relativi all’argomento/i selezionato/i); 6) pubblicare le informazioni e i documenti in formato aperto, in coerenza con le “Linee Guida Siti Web”. Dovranno essere inoltre pubblicati, sempre in formato aperto, i dati che sono alla base delle informazioni stesse (ad esempio, le tabelle contenute nei documenti). I dati dovranno essere: o pubblicati in almeno uno dei formati aperti indicati, ma preferibilmente in più formati (ad esempio, “eXtensible Markup Language” – XML, “Open Document Format” – ODF, ecc.); o corredati da eventuali file di specifica (ad esempio, XSD – XML Scheme Definition - per i file XML); o raggiungibili direttamente dalla pagina dove le informazioni di riferimento sono riportate; 7) pubblicare on line, nella sezione dedicata alla performance, i dati provenienti direttamente dalle proprie banche dati e legati ad aspetti di performance particolarmente rilevanti per gli stakeholder (qualora la singola amministrazione utilizzi un sistema informativo complesso ed evoluto). In particolare, sarebbe opportuno pubblicare, sottoforma di opportune interfacce, le indicazioni relative allo stato di raggiungimento dei target desiderati rispetto a obiettivi di particolare interesse; ciò in aggiunta alla possibilità di scaricare il Piano e la Relazione sulla performance; 8) garantire, all’interno della sezione del sito dedicata alla trasparenza, la possibilità agli utenti di fornire feedback e valutazioni relative alla qualità delle informazioni pubblicate (ad esempio nei termini di precisione, completezza, correttezza, tempestività), al fine di: o coinvolgere i cittadini nell’attività dell’amministrazione; o aiutare l’amministrazione nel compito di garantire la qualità delle informazioni rilevanti per gli utenti, grazie al controllo diffuso da parte di questi ultimi; 13 o diffondere nei cittadini la consapevolezza della disponibilità delle informazioni e dei meccanismi di funzionamento dell’amministrazione stessa. L’amministrazione è tenuta ad agire tempestivamente a fronte delle segnalazioni fornite dagli utenti. È raccomandato l’utilizzo di strumenti web 2.0, così come indicato nelle “Linee Guida Siti Web” (paragrafo 6.3) 2 . b) Indicazioni relative a classificazione, semantica e reperibilità delle informazioni Le informazioni e i dati indicati al paragrafo 4.2 dovranno essere pubblicati nel sito web dell’amministrazione in modo da favorire l’accesso e la reperibilità delle informazioni stesse da parte dell’utenza. Le amministrazioni dovranno attenersi alle indicazioni riportate nelle “Linee Guida Siti Web” (paragrafi 4.2 e 5.1) relative a reperibilità, classificazione e semantica delle risorse presenti sui siti. Si raccomanda l’assegnazione, alle risorse informative relative alla trasparenza, di metadati che le descrivano secondo lo “standard Dublin Core” (norma ISO 15836:200 – www.dublincore.org), al fine di consentirne l’identificazione univoca e stabile, di agevolarne la classificazione e di facilitarne la ricerca. Le “Linee Guida Siti Web” (paragrafo 4.2) riportano i dettagli dell’inserimento delle informazioni aggiuntive secondo lo “standard Dublin Core” e, per ogni contenuto minimo dei siti web istituzionali, specificano quali metadati devono essere associati al contenuto stesso (nella colonna “indicazioni reperibilità”). Per quei contenuti, indicati dalle presenti linee guida, che non corrispondono alle tipologie indicate nella Tabella “Contenuti minimi dei siti web istituzionali” (“Linee Guida Siti Web”, paragrafo 4.2 e tabella 5) o per i quali non sono presenti le indicazioni di reperibilità, si rinvia a successive indicazioni che verranno fornite riguardo ai metadati da associare. Naturalmente, l’attuale mancanza di indicazioni circa la formulazione dei metadati non esonera le amministrazioni dall’obbligo di provvedere alla pubblicazione dei contenuti di tutte le categorie di dati indicati nelle presenti linee guida. 4.1.2. Indicazioni relative alla pubblicazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità L’articolo 11, comma 8, del d. lg. n. 150 del 2009 prevede che nella sezione del sito web dell’amministrazione, denominata “Trasparenza, valutazione e merito”, deve essere pubblicato anche il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ed il relativo stato di attuazione. Al fine di favorire forme diffuse di controllo, la consultazione e la comprensione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità da parte dei cittadini, le amministrazioni dovranno: 2 L’evoluzione delle tecnologie web ha infatti messo a disposizione applicazioni (identificate genericamente con il termine “web 2.0”) che permettono un elevato livello di interazione tra un sito e i propri utenti, che non sono più unicamente consumatori delle informazioni presenti sul sito stesso, ma diventano invece contemporaneamente fruitori e creatori di contenuti, che a loro volta sono resi disponibili agli altri utenti. L’inserimento, quindi, all’interno del sito, di strumenti web 2.0 - forum, blog, social network, ecc. -, che abbiano la finalità di condividere informazioni e opinioni relative a tutti i vari aspetti della trasparenza, può rappresentare un punto di forza dell’amministrazione per quanto riguarda il coinvolgimento degli stakeholder di riferimento. Le “Linee Guida Siti Web” – paragrafo 6.3, sottolineano infatti come “il coinvolgimento dei cittadini per migliorare la gestione e la qualità dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione abbia come precondizione l’adozione dell’approccio web 2.0 per la comunicazione e la condivisione delle risorse on line”. 14 1) pubblicare il Programma (e i relativi aggiornamenti annuali) in almeno un formato aperto e standardizzato, secondo le indicazioni delle “Linee Guida Siti Web” (paragrafo 5.2). Le versioni del Programma degli anni precedenti vanno lasciate a disposizione sul sito e rese accessibili tramite link; 2) pubblicare periodicamente, almeno semestralmente, lo stato di attuazione del Programma, anch’esso in formato aperto e standard. Gli stati d’attuazione precedenti vanno lasciati a disposizione sul sito e resi accessibili tramite link dalla pagina dove è pubblicato il Programma triennale; 3) inserire sul sito, in coerenza con i documenti di cui ai punti precedenti, un prospetto riepilogativo che riporti in modo intuitivo le informazioni relative alle azioni del Programma e al relativo stato di attuazione, con particolare riferimento a quelle azioni che producano risultati che hanno impatto diretto e forniscono utilità agli stakeholder. Il prospetto riepilogativo dovrà: o essere realizzato in formato aperto, standard e facilmente interpretabile sia da un utente che da un programma software; o contenere almeno i seguenti dati: denominazione amministrazione; data di ultimo aggiornamento dello stato di attuazione; singole azioni del Programma e relativo stato di attuazione, secondo il modello descritto nella tabella che segue. Tabella 1: elementi relativi alle azioni del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità Elemento Descrizione elemento Esempio Descrizione azione Descrizione sintetica della azione. “Pubblicazione on line relativi agli dell’Amministrazione”. Eventuale Link azione Eventuale collegamento a una pagina in cui l’azione viene specificata e in cui vengono fornite informazioni aggiuntive. “www .nomeente.gov.it/trasparenza/ Data inizialmente prevista di raggiungimento Data in cui, secondo il Programma, l’azione produrrà il risultato. “01/03/2011” Data attualmente prevista di raggiungimento Eventuale data in cui, a fronte di uno slittamento dei tempi, attualmente si prevede che la azione produrrà il risultato. Nel caso in cui non siano previsti scostamenti, questa data corrisponde alla “Data inizialmente prevista di raggiungimento”. Nel caso in cui siano invece previsti scostamenti, l’elemento “Note relative allo scostamento” deve contenere una descrizione delle problematiche che hanno portato allo slittamento stesso. “01/04/2011” Note relative allo scostamento Descrizione delle problematiche che hanno portato a un eventuale slittamento dei tempi previsti. “Necessità di procedere a una nuova gara” Data effettiva di raggiungimento Data in cui la azione ha raggiunto il proprio risultato (se già raggiunto). “01/02/2011” Percentuale di completamento Percentuale di completamento della azione. “50%” Link risultato Collegamento a una pagina in cui viene mostrato all’utente il risultato raggiunto. La pagina può contenere direttamente tale risultato (nei casi ad esempio di pubblicazione on line di dati), oppure fornire informazioni relative all’attività svolta (ad esempio, documentazione, video e trascrizioni di conferenze). “www .nomeente.gov.it/trasparenza/ dei dati incarichi /azioni/incarichi”, che porta a una pagina descrittiva della azione. /incarichi/2010”, che porta ai dati relativi agli incarichi 2010. “www. nomeente.gov.it/eventi/ /eventotrasparenza2010…” 15 4) fornire, in coerenza a quanto indicato nel paragrafo 4.1.1, strumenti di notifica degli aggiornamenti (ad esempio, RSS) che permettano a un utente interessato di essere informato in seguito a ogni aggiornamento dei dati pubblicati relativi al Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (Programma, stato di attuazione, dati del prospetto riepilogativo). 4.1.3. Modalità di attuazione e termine di adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità L’articolo 11, comma 7, del d. lg. n. 150 del 2009 prevede che, nel Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, debbano essere specificate le modalità, i tempi di attuazione, le risorse dedicate e gli strumenti di verifica dell’efficacia delle iniziative volte alla promozione della trasparenza, della legalità e della cultura dell’integrità. Ogni amministrazione è tenuta ad adottare il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ed i suoi aggiornamenti annuali contestualmente alla redazione del Piano della performance e, comunque, entro e non oltre il 31 gennaio di ogni anno. Più in generale il Programma indica gli obiettivi di trasparenza di breve (un anno) e di lungo periodo (tre anni). Si tratta, infatti, di un Programma triennale “a scorrimento” idoneo a consentire il costante adeguamento del Programma stesso. Il Programma deve specificare i termini temporali entro i quali l’amministrazione prevede il raggiungimento di ciascun obiettivo di trasparenza nonché le eventuali note esplicative in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi nei termini originariamente previsti. Nel caso in cui l’attuazione delle misure, indicate dal documento stesso, richieda un significativo intervento di ristrutturazione del sito istituzionale tale da modificarne integralmente la struttura e il funzionamento, l’amministrazione dovrà, comunque, procedere in due fasi: - la prima consisterà nella tempestiva pubblicazione dei dati (di cui al successivo paragrafo 4.2), attraverso le modalità informatiche già in uso presso l’amministrazione, da effettuare entro tre mesi dalla adozione del Programma, considerato che le amministrazioni avrebbero già dovuto adempiere agli obblighi di trasparenza previsti dalla legge; - la seconda fase consisterà nell’adeguamento delle modalità di pubblicazione on line in conformità alle indicazioni contenute nei precedenti paragrafi 4.1.1 e 4.1.2 e nel Programma 3 , nonché nell’eventuale integrazione delle informazioni già pubblicate, da effettuare nei termini previsti dal Programma e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2011. Il Programma deve infine indicare: a) le risorse dedicate alla sua attuazione, con particolare riferimento alle risorse umane e strumentali utilizzate per il perseguimento degli obiettivi di trasparenza, nel rispetto del limite generale dell’invarianza della spesa, previsto dalla legge; b) i mezzi di promozione e diffusione all’interno e all’esterno dell’amministrazione, al fine di una piena conoscenza del Programma da parte sia dei cittadini, sia delle singole strutture dell’amministrazione chiamate a conseguire gli obiettivi di trasparenza; 3 Tali indicazioni temporali non escludono la possibilità per le amministrazioni di svolgere, in una fase successiva, attività di miglioramento e adeguamento tecnologico del sito web, al fine di incrementarne la fruibilità dei contenuti, tenuto altresì conto delle innovazioni tecnologiche che saranno in futuro eventualmente disponibili. 16 c) le modalità di effettuazione del monitoraggio relativo alla sua attuazione. L’amministrazione dovrà, infatti, attuare processi infrannuali di riscontro dell’efficacia del Programma, partendo dai quali procedere all’elaborazione di una relazione sullo stato di attuazione del Programma con cadenza semestrale. 4.1.4. Strutture competenti Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, come anticipato nel precedente paragrafo, dovrà fornire adeguate indicazioni in ordine alle risorse dedicate all’attuazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità stesso e, più in generale, al perseguimento degli obiettivi di trasparenza. L’articolo 15, comma 2, lettera d), del d. lg. n. 150 del 2009 prevede, innanzitutto, che sia l’organo di indirizzo politico-amministrativo di ciascuna amministrazione a definire il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e gli eventuali aggiornamenti annuali. Tale processo di definizione potrà estrinsecarsi in una forma di “regia” condivisa con l’Organismo indipendente di valutazione (OIV), tenuto conto del fatto che la legge considera questo organo “responsabile della corretta applicazione delle linee guida, delle metodologie e degli strumenti predisposti dalla Commissione”, nonché quale soggetto che “promuove e attesta l’assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza e all’integrità” (articolo 14, comma 4, lettere f ) e g), del d. lg. n. 150 del 2009). Sarà, quindi, compito dell’OIV esercitare un’attività di impulso e di attestazione dell’adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, con l’ausilio della struttura tecnica permanente. L’adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà prevedere un confronto con le associazioni rappresentate nel Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti, così come previsto dall’articolo 11, comma 2, del d. lg. n. 150 del 2009. La partecipazione degli stakeholder, infatti, consente di individuare profili di trasparenza che rappresentino un reale e concreto interesse per la collettività degli utenti; tale apporto, come già detto, risulta duplicemente vantaggioso in quanto contribuisce non solo a concentrare l’attenzione sui dati più rilevanti ai fini del controllo sociale, ma anche a consentire una corretta individuazione degli obiettivi strategici dei servizi pubblici con un’adeguata partecipazione dei cittadini (delibera n. 89 del 29 luglio 2010). Sarà inoltre necessario prevedere, in capo agli uffici competenti (ad esempio, Uffici Relazioni con il pubblico – URP e altri appositi sportelli di contatto e informazione per il pubblico, Uffici stampa, call center), adeguate funzioni di raccordo, informazione e raccolta di suggerimenti e commenti da parte del pubblico, da trasmettere all’interno dell’organizzazione secondo un approccio di tipo bottom up. Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà, infine, contenere la designazione di un dirigente che sia il referente non solo del procedimento di formazione, adozione e attuazione del Programma, ma dell’intero processo di realizzazione di tutte le iniziative volte, nel loro complesso, a garantire un adeguato livello di trasparenza, nonché la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità 4 . Tale responsabilità graverà sul referente come sopra indicato, unitamente al responsabile delle informazioni in relazione alle quali si sia verificata la violazione dell’obbligo di trasparenza. 4 A tal fine, il soggetto referente sarà responsabile altresì dei rapporti con gli stakeholder, in particolare dei rapporti con le associazioni dei consumatori, in modo da facilitare lo scambio di informazioni sulla buona gestione della pubblica amministrazione. 17 Tale designazione rileva sia ai fini dell’accountability interna in relazione all’effettivo adempimento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, sia dell’applicazione delle misure sanzionatorie previste dall’articolo 11, comma 9, del d. lg. n. 150 del 2009, in caso di mancata adozione e realizzazione del Programma o di mancato assolvimento degli obblighi di pubblicazione previsti dai precedenti commi 5 e 8. 4.2. Pubblicazione on line dei dati La nuova disciplina della trasparenza prevista dal d. lg. n. 150 del 2009 afferma, come già evidenziato nel paragrafo 1, il diritto dei cittadini a un’accessibilità totale alle informazioni pubbliche, per le quali non esistano specifici limiti previsti dalla legge (paragrafo 3.1). Questo obiettivo si rende attuabile prevalentemente 5 attraverso lo strumento dell’accesso telematico, quello in grado di meglio garantire accessibilità in modo diffuso. Si tratta di dati relativi alle risorse utilizzate dalle amministrazioni nell’espletamento delle proprie attività – la cui “buona gestione” dà attuazione al valore costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione – e che rivelano come vengono gestite tali risorse, a partire da quelle umane. È in quest’ottica che deve essere interpretata la previsione, ad esempio, della pubblicazione di curricula, retribuzioni ed altri dati relativi al personale degli uffici di supporto agli organi di indirizzo politico-amministrativo, di quello dirigenziale e di quello non dirigenziale delle pubbliche amministrazioni. I dati oggetto di interesse riguardano, quindi, il rapporto tra l’amministrazione e il dipendente pubblico o, più in generale, il soggetto legato a vario titolo con la stessa. In tal senso, come verrà evidenziato nel prosieguo, l’individuazione dei dati da pubblicare e dei soggetti cui i dati ineriscono, contenuta nell’elenco che segue, è volta a evitare inammissibili lacune nella trasparenza delle informazioni in questione. Per le stesse ragioni, oggetto di interesse sono anche i dati relativi all’organizzazione, alla performance e ai procedimenti, alle buone prassi e ai pagamenti, alle sovvenzioni. La conoscenza complessiva di questi dati fornisce, peraltro, rilevanti indicazioni in merito alla performance delle amministrazioni, da cui l’evidente collegamento instaurato dal d. lg. n. 150 del 2009 tra la disciplina della trasparenza e quella della performance oggetto di misurazione e valutazione. Il legislatore, infatti, nel perseguimento di tali obiettivi, ha previsto obblighi di pubblicazione on line di una lunga serie di dati 6 , dando luogo a una forte frammentazione della disciplina e, a volte, anche a sovrapposizioni tra le stesse previsioni. Si tratta di un quadro normativo estremamente ampio, di cui gli obblighi di pubblicazione previsti dal comma 8 dell’articolo 11 del d. lg. n. 150 del 2009 costituiscono soltanto una parte. In questo quadro rientrano: il decreto del Presidente della Repubblica 7 aprile 2000, n. 118; il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; il decreto del Presidente della Repubblica 23 aprile 2004, n. 108; il d. lg. 7 marzo 2005, n. 82; il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture); la l. n. n. 69 del 2009. Le presenti linee guida - e conseguentemente i Programmi triennali di ciascuna amministrazione - costituiscono, pertanto, un’importante opportunità di riordino e razionalizzazione dei vigenti obblighi di pubblicazione on line da parte delle amministrazioni. 5 L’accesso telematico dovrà infatti essere affiancato da più tradizionali strumenti di informazione (es. volantini informativi disponibili presso gli URP, comunicazioni affisse negli uffici comunali, ecc.), per garantire un supporto adeguato a chi su tutto il territorio nazionale non abbia, per diversi motivi, facile accesso al web. 6 E’ evidente che la pubblicazione dei dati già previsti dalla legge deve essere fatta indipendentemente dalla preventiva adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità. 18 L’individuazione dei dati (primari e di natura “accessoria”) oggetto di pubblicazione è stata, quindi, effettuata sulla base sia delle diverse disposizioni vigenti che prevedono obblighi di pubblicazione dei dati, sia della più generale esigenza, normativamente posta, di assicurare una totale trasparenza dell’azione amministrativa. Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà, dunque, contenere un’apposita sezione dedicata alla disciplina degli obblighi di pubblicazione on line dell’amministrazione, tenendo conto delle categorie di dati indicate dalle presenti linee guida. In altri termini, nella predisposizione di questa sezione del Programma triennale, le amministrazioni si dovranno attenere a quanto specificamente riportato dalle linee guida, in ordine all’individuazione dei dati che devono essere pubblicati sui siti istituzionali. Si precisa che gli obblighi di trasparenza, e quindi di pubblicazione dei dati relativi al personale delle amministrazioni si riferiscono a tutto il personale, comprendendovi il personale in regime di diritto pubblico (ivi compresi i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia), i dipendenti legati alle amministrazioni con contratto di diritto privato nonché quei soggetti terzi che entrano in rapporto con le amministrazioni con le modalità di seguito elencate. Categorie di dati e contenuti specifici: 1) Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e relativo stato di attuazione (articolo 11, comma 8, lettera a), del d. lg. n. 150 del 2009); 2) Piano e Relazione sulla performance (articolo 11, comma 8, lettera b), del d. lg. n. 150 del 2009); 3) Dati informativi sull’organizzazione e i procedimenti: a) informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione (organigramma, articolazione degli uffici, attribuzioni e organizzazione di ciascun ufficio anche di livello dirigenziale non generale, nomi dei dirigenti responsabili dei singoli uffici, nonché settore dell’ordinamento giuridico riferibile all’attività da essi svolta articolo 54, comma 1, lettera a), del d. lg. n. 82 del 2005); b) elenco completo delle caselle di posta elettronica istituzionali attive, specificando se si tratta di una casella di posta elettronica certificata (articolo 54, comma 1, lettera d), del d. lg. n. 82 del 2005); c) elenco delle tipologie di procedimento svolte da ciascun ufficio di livello dirigenziale non generale, il termine per la conclusione di ciascun procedimento ed ogni altro termine procedimentale, il nome del responsabile del procedimento e l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento finale (articolo 54, comma 1, lettera b), del d. lg. n. 82 del 2005); d) scadenze e modalità di adempimento dei procedimenti individuati ai sensi degli articoli 2 e 4 della l. n. 241 del 1990 (articolo 54, comma 1, lettera c), del d. lg. n. 82 del 2005); e) informazioni circa la dimensione della qualità dei servizi erogati (ai sensi dei principi di cui all’articolo 11 del d. lg. n. 150 del 2009 e delle indicazioni di cui alla delibera n. 88 del 24 giugno 2010); f) carta della qualità dei servizi alla cui emanazione sia tenuto il soggetto erogatore del servizio. 4) Dati informativi relativi al personale: 19 a) curricula e retribuzioni dei dirigenti, con specifica evidenza sulle componenti variabili della retribuzione e sulle componenti legate alla retribuzione di risultato (articolo 11, comma 8, lettere f) e g), del d. lg. n. 150 del 2009), indirizzi di posta elettronica, numeri telefonici ad uso professionale (articolo 21 della l. n. 69 del 2009), ruolo - data di inquadramento nella fascia di appartenenza o in quella inferiore, data di primo inquadramento nell’amministrazione, decorrenza e termine degli incarichi conferiti ex articolo 19, commi 3 e 4, del d. lg. n. 165 del 2001 (articolo 1, comma 7, del D.P.R. n. 108 del 2004); b) curricula dei titolari di posizioni organizzative (articolo 11, comma 8, lettera f), del d. lg. n. 150 del 2009); c) curricula, retribuzioni, compensi ed indennità di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico amministrativo e dei relativi uffici di supporto, ivi compresi, a titolo esemplificativo, i vertici politici delle amministrazioni, i capi di gabinetto e gli appartenenti agli uffici di staff e di diretta collaborazione nei ministeri; i titolari di altre cariche di rilievo politico nelle regioni e negli enti locali (articolo 11, comma 8, lettera h), del d. lg. n. 150 del 2009); d) nominativi e curricula dei componenti degli OIV e del Responsabile delle funzioni di misurazione della performance di cui all’articolo 14 7 (articolo 11, comma 8, lettera e), del d. lg. n. 150 del 2009); e) tassi di assenza e di maggiore presenza del personale distinti per uffici di livello dirigenziale (articolo 21 della l. n. 69 del 2009), nonché il ruolo dei dipendenti pubblici (articolo 55, comma 5, del D.P.R. n. 3 del 1957); f) retribuzioni annuali, curricula, indirizzi di posta elettronica, numeri telefonici ad uso professionale di segretari provinciali e comunali (articolo 21 della l. n. 69 del 2009); g) ammontare complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e l’ammontare dei premi effettivamente distribuiti (articolo 11, comma 8, lettera c), del d. lg. n. 150 del 2009); h) analisi dei dati relativi al grado di differenziazione nell’utilizzo della premialità, sia per i dirigenti sia per i dipendenti (articolo 11, comma 8, lettera d), del d. lg. n. 150 del 2009); i) codici di comportamento (articolo 55, comma 2, del d. lg. n. 165 del 2001 così come modificato dall’articolo 68 del d. lg. n. 150 del 2009); 5) Dati relativi a incarichi e consulenze: a) incarichi retribuiti e non retribuiti conferiti a dipendenti pubblici e ad altri soggetti (articolo 11, comma 8, lettera i), del d. lg. n. 150 del 2009 e articolo 53 del d. lg. n. 165 del 2001). Gli incarichi considerati sono: i) incarichi retribuiti e non retribuiti conferiti o autorizzati dalla amministrazione ai propri dipendenti in seno alla stessa amministrazione o presso altre amministrazioni o società pubbliche o private; ii) incarichi retribuiti e non retribuiti conferiti o autorizzati da una amministrazione ai dipendenti di altra amministrazione; iii) incarichi retribuiti e non retribuiti affidati, a qualsiasi titolo, da una amministrazione a soggetti esterni. In ordine a questa tipologia di informazioni è necessario indicare: soggetto incaricato, curriculum di tale soggetto, oggetto dell’incarico, durata dell’incarico, compenso lordo, soggetto conferente, modalità di selezione e di affidamento dell’incarico e tipo di rapporto, 7 Con il termine Responsabile delle funzioni di misurazione della performance si intende il Responsabile tecnico della funzione di misurazione della performance da individuarsi nel Responsabile della struttura tecnica permanente, il quale “deve possedere una specifica professionalità ed esperienza nel campo della misurazione della performance nelle amministrazioni pubbliche” (art. 14, comma 10 d. lg. 150 del 2009). 20 dichiarazione negativa (nel caso in cui l’amministrazione non abbia conferito o autorizzato incarichi). 6) Dati sulla gestione economico-finanziaria dei servizi pubblici: a) servizi erogati agli utenti finali e intermedi (ai sensi dell’articolo 10, comma 5, del d. lg. 7 agosto 1997, n. 279), contabilizzazione dei loro costi ed evidenziazione dei costi effettivi e di quelli imputati al personale per ogni servizio erogato, nonché il monitoraggio del loro andamento (articolo 11, comma 4, del d. lg. n. 150 del 2009), da estrapolare in maniera coerente ai contenuti del Piano e della Relazione sulla performance; b) contratti integrativi stipulati, relazione tecnico-finanziaria e illustrativa, certificata dagli organi di controllo, informazioni trasmesse ai fini dell’inoltro alla Corte dei Conti, modello adottato ed esiti della valutazione effettuata dai cittadini sugli effetti attesi dal funzionamento dei servizi pubblici in conseguenza della contrattazione integrativa (articolo 55, comma 4, del d. lg. n. 150 del 2009); c) dati concernenti consorzi, enti e società di cui le pubbliche amministrazioni facciano parte, con indicazione, in caso di società, della relativa quota di partecipazione nonché dati concernenti l’esternalizzazione di servizi e attività anche per il tramite di convenzioni. 7) Dati sulla gestione dei pagamenti: a) indicatore dei tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture (indicatore di tempestività dei pagamenti), nonché tempi medi di definizione dei procedimenti e di erogazione dei servizi con riferimento all’esercizio finanziario precedente (articolo 23, comma 5, della l. n. 69 del 2009). 8) Dati relativi alle buone prassi: a) buone prassi in ordine ai tempi per l’adozione dei provvedimenti e per l’erogazione dei servizi al pubblico (articolo 23, commi 1 e 2, della l. n. 69 del 2009). 9) Dati su sovvenzioni, contributi, crediti, sussidi e benefici di natura economica: a) istituzione e accessibilità in via telematica di albi dei beneficiari di provvidenze di natura economica (articoli 1 e 2 del D.P.R. n. 118 del 2000). 10) Dati sul “public procurement”: a) dati previsti dall’articolo 7 del d. lg. n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture). Si precisa che l’individuazione di tali dati, ai fini della loro pubblicazione, spetta all’Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Ferma la tassatività della previsione normativa dei dati di cui ai punti 4) e 5) nonché i limiti di cui alla protezione dei dati personali, le pubbliche amministrazioni potranno provvedere alla pubblicazione di ulteriori dati che siano utili a garantire un adeguato livello di trasparenza. 4.3. Ulteriori iniziative Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà, infine, contenere l’indicazione di una serie di iniziative volte, nel loro complesso, a garantire un adeguato livello di trasparenza, la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità (articolo 11, comma 2, del d. lg. n. 150 del 2009). 21 Si tratta di attività individuate dalle stesse amministrazioni sulla base delle caratteristiche, delle funzioni svolte e della propria organizzazione. La Commissione auspica l’adozione di alcuni strumenti quali, ad esempio quelli riportati nella seguente tabella. Tabella 2: iniziative volte a garantire trasparenza, legalità e sviluppo della cultura dell’integrità Iniziativa Destinatari Risultato Sessioni di formazione nell’ambito di quelle già previste da ogni pubblica amministrazione - in aula e a distanza (mediante piattaforme di web learning) in materia di trasparenza e integrità. Personale di ogni singola pubblica amministrazione. Acquisizione di nozioni e casi pratici che possano aiutare, in un’ottica preventiva e correttiva, ad individuare aree sensibili e comportamenti a rischio. Forum per la condivisione di best practice in materia di trasparenza e integrità. Personale che si occupa di trasparenza e integrità, in particolare enti di piccole dimensioni e poco strutturati. Mettere a disposizione idee, modelli, documenti da utilizzare per gli adempimenti previsti dalla legge in materia di trasparenza e integrità. Forme di comunicazione e coinvolgimento dei cittadini in materia di trasparenza e integrità (questionari, convegni, opuscoli). Cittadini e associazioni dei consumatori. a) Ottenere i feedback da parte degli utenti per individuare le aree a maggiore rischio di mancata trasparenza e integrità (questionari); b) Facilitare la reperibilità ed uso delle informazioni contenute nei siti delle pubbliche amministrazioni e il collegamento delle informazioni fornite ai servizi pubblici (opuscoli); c) Aumentare percezione dei miglioramenti dei servizi pubblici e degli sforzi posti in essere per ottenere i miglioramenti ottenuti e quelli in programma per il futuro (opuscoli, convegni). Creazione di spazi (ad esempio nella forma di FAQ o guide sintetiche) all’interno dei siti delle amministrazioni. Destinatari diretti: pubbliche amministrazioni. a) Dare spazio e rispondere ai suggerimenti e feedback pervenuti dal pubblico; Destinatari indiretti: cittadini. b) Eliminare la distanza tra cittadini e pubbliche amministrazioni. Creazione di una community mediante organizzazione di seminari, convegni, ecc. in materia di trasparenza e integrità per condividere esperienze, documenti, idee. Enti (pubbliche amministrazioni, associazioni, fondazioni, ecc.). Realizzazione di un network. 4.4. Posta elettronica certificata (PEC) Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità deve indicare quali sono le azioni e i relativi tempi previsti dalle amministrazioni ai fini dell’attuazione dell’articolo 11, comma 5, del d. lg. n. 150 del 2009, in materia di PEC. Più esattamente, deve essere esplicitato entro quale termine ogni singolo risultato, relativo all’attuazione di tale strumento, verrà raggiunto e in quale modo i cittadini potranno verificarne l’effettivo conseguimento, al fine del controllo diffuso dell’attuazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità. Al riguardo, rilevano i parametri generali di cui al precedente paragrafo 4.1.2. 22 La previsione di una disciplina della PEC all’interno del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità è funzionale all’attuazione dei principi di trasparenza e risponde agli obblighi previsti dal legislatore anche in precedenti normative (articolo 6, comma 1, del d. lg. n. 82 del 2005, articoli 16, comma 8, e 16-bis, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e articolo 34, comma 1, della l. n. 69 del 2009). Ai fini di tale regolazione e dell’attuazione dello strumento, si rinvia alla dettagliata documentazione fornita da DigitPA (http://www.digitpa.gov.it/pec). 5. Giornate della trasparenza Ai sensi dell’articolo 11, comma 6, del d. lg. n. 150 del 2009, ogni amministrazione ha l’obbligo di presentare il Piano e la Relazione sulla performance, di cui all’articolo 10, comma 1, lettere a) e b) del medesimo decreto, alle associazioni di consumatori o utenti, ai centri di ricerca e a ogni altro osservatore qualificato, nell’ambito di apposite giornate della trasparenza senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà, pertanto, contenere la previsione di un’agenda di incontri, ai fini della presentazione del Piano e della Relazione sulla performance. Tali incontri potranno essere, inoltre, la sede opportuna per fornire informazioni sul Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, stante lo stretto collegamento tra la disciplina della trasparenza e quella della performance, nonché l’occasione per condividere best practice, esperienze e - una volta implementati i modelli e le indagini sul personale dipendente affidate agli OIV dall’articolo 14, comma 5, del d. lg. n. 150 del 2009 - i risultati delle rilevazioni relative al “clima” lavorativo, al livello dell’organizzazione del lavoro, oltre che al grado di condivisione del Sistema di valutazione. 6. Attività di verifica e vigilanza della Commissione Ai sensi dell’articolo 13, comma 8, del d. lg. n. 150 del 2009, la Commissione, attraverso la Sezione per l’integrità nelle amministrazioni pubbliche, verifica l’effettiva adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e vigila sul rispetto degli obblighi in materia di trasparenza da parte di ciascuna amministrazione. La Commissione dispone, pertanto, di un potere di controllo sugli adempimenti previsti dalla legge in materia di trasparenza nelle pubbliche amministrazioni e, a tal fine provvederà, nell’ambito della propria autonomia, ad adottare le necessarie misure organizzative. Al fine di una più efficace vigilanza sulle attività delle amministrazioni, la Commissione, in primo luogo, si avvarrà anche della cooperazione degli OIV delle singole amministrazioni, chiamati a promuovere e ad attestare l’assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza e all’integrità, ai sensi dell’articolo 14, comma 4, lettera g), del d. lg. n. 150 del 2009. Tali Organismi sono, pertanto, tenuti ad un costante aggiornamento della Commissione in ordine alle attività adottate dalle amministrazioni in materia di trasparenza, all’attuazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ed ai relativi sviluppi. Analogo apporto collaborativo potrà essere richiesto o spontaneamente fornito dalle associazioni rappresentative di cittadini e utenti. 23 Il tardivo o mancato rispetto dei contenuti delle presenti linee guida, nonché la tardiva o mancata adozione e attuazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e, più in generale, l’inadempimento degli obblighi in materia di trasparenza, sono oggetto sia di valutazione, sia di segnalazione da parte della Commissione. Se, a seguito delle opportune valutazioni, la Commissione riscontrasse la sussistenza di uno o più dei predetti inadempimenti, procederà ad apposita segnalazione all’organo di indirizzo politico-amministrativo dell’amministrazione inadempiente, responsabile per la definizione e gli aggiornamenti del Programma ai sensi dell’articolo 15, comma 2, lettera d), del d. lg. n. 150 del 2009, anche ai fini della sanzione di cui all’articolo 11, comma 9 del d. lg. n. 150 del 2009. La Commissione potrà, inoltre, effettuare segnalazioni delle amministrazioni inadempienti al Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione. Qualora le amministrazioni, a seguito delle segnalazioni della Commissione, non procedano al tempestivo assolvimento degli obblighi segnalati, la stessa potrà provvedere alla pubblicazione sul proprio sito istituzionale (www.civit.it) di tali rilievi con l’indicazione delle amministrazioni inadempienti. I risultati dell’attività di verifica e vigilanza della Commissione, oltre che pubblicati sul sito della Commissione, saranno anche oggetto della relazione annuale rivolta al Ministro per l’attuazione del Programma di governo, prevista dall’articolo 13, comma 9, del d. lg. n. 150 del 2009. Roma, 15 ottobre 2010 Il Presidente Antonio Martone 24 2 - Esempio di struttura della sezione del sito “Trasparenza, valutazione e merito” (allegato alla delibera n. 105 del 15 ottobre 2010) Introduzione Questo allegato alle “Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità” contiene un modello esemplificativo di applicazione delle indicazioni al sito internet di una generica amministrazione. L’obiettivo del modello non è fornire specifiche ulteriori rispetto a quelle contenute nel suddetto documento, ma solo chiarire i concetti espressi, in particolare all’interno del paragrafo “4.1 - I requisiti di forma”, mostrando un concreto e semplice caso di applicazione. E’ opportuno, infatti, che ogni amministrazione recepisca le indicazioni riportate nelle linee guida adattandole alla struttura del proprio sito, in modo da garantire la coerenza complessiva del sito stesso. Ad esempio, nel modello esemplificativo illustrato in questo allegato, il menù di sinistra è strutturato in due livelli. Questa non è una indicazione tassativa per le amministrazioni, in quanto nulla si dice nelle linee guida a riguardo. Lo stesso vale per le altre caratteristiche del modello esemplificativo che non rispecchiano una specifica indicazione delle linee guida, come il posizionamento degli elementi all’interno delle pagine, i formati aperti scelti, etc. L’allegato contiene la descrizione della struttura di alcune parti del sito, a partire dalla sezione “Trasparenza, valutazione e merito”, scendendo in profondità fino a mostrare la struttura di una pagina di livello ultimo relativa ai dati dei dirigenti. In questa pagina è possibile avere un’immagine dei concetti espressi nel paragrafo 4.1.1 delle linee guida. Viene infine mostrata la struttura della pagina contenente il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e il relativo stato di attuazione, al fine di chiarire le indicazioni riportate nel paragrafo 4.1.2 delle linee guida. All’interno del modello esemplificativo vengono usate le seguenti convenzioni: 1. la voce del menù di sinistra a cui si riferisce la pagina è evidenziata in azzurro; 2. le voci navigabili sono identificate dalla sottolineatura. Le pagine più ricche di elementi di interesse sono corredate da note esplicative. Per semplificare la comprensione, viene di seguito illustrata la gerarchia delle pagine riportate nel modello: 1. Sezione “Trasparenza, valutazione e merito” 1.1. Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e relativo stato di attuazione 1.2. Piano e relazione sulla performance 1.3. Dati sull’organizzazione e i procedimenti 1.4. Dati relativi al personale 1.4.1. Dati relativi ai dirigenti 1.4.2. Curricula dei titolari di posizioni organizzative 1.4.3. Dati del personale politico-amministrativo 1.4.4. Curricula degli OIV 1.4.5. Tassi di assenza e maggior presenza e ruolo 1.4.6. Dati relativi ai Segretari provinciali/comunali 1.4.7. Premi collegati alla performance 1.4.8. Differenziazione premialità 1.4.9. Codici di comportamento 25 1.5. Dati relativi a incarichi e consulenze 1.6. Dati sulla gestione economico-finanziaria dei servizi pubblici 1.7. Dati sulla gestione dei pagamenti 1.8. Dati relativi alle buone prassi 1.9. Dati su sovvenzioni, contributi, crediti, sussidi e benefici di natura economica 1.10. Dati sul public procurement Sezione 1 - Trasparenza, valutazione e merito Questa sezione è raggiungibile da un link, chiaramente identificabile dall’etichetta “Trasparenza, valutazione e merito” posto nell’homepage del sito. Testata del sito Voce1 Voce2 ‐ … Trasparenza, valutazione e merito • Programma trasparenza • Piano della performance • Organizzazione • Personale • Incarichi e consulenze • Gestione economico/ finanziaria • Gestione pagamenti • Buone prassi • Sovvenzioni e contributi • Public Procurement … ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ Trasparenza, valutazione e merito Programma triennale per la trasparenza e integrità e relativo stato di attuazione Piano della performance Dati sull’organizzazione e i procedimenti Dati relativi al personale Dati relativi a incarichi e consulenze Dati sulla gestione economico-finanziaria dei servizi pubblici Dati sulla gestione dei pagamenti Dati relativi alle buone prassi Dati su sovvenzioni, contributi, crediti, sussidi e benefici di natura economica Dati sul public procurement Menu VoceN 26 Sezione 1.4 - Dati relativi al personale Testata del sito Voce1 Dati relativi al personale Menu Voce2 … Trasparenza, valutazione e merito • Programma trasparenza • Piano della performance • Organizzazione • Personale • Incarichi e consulenze • Gestione economico/ finanziaria • Gestione pagamenti • Buone prassi • Sovvenzioni e contributi • Public Procurement ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ Dirigenti Titolari di posizioni organizzative Incarichi di indirizzo politico amministrativo Organismi Indipendenti di Valutazione Ruolo e tassi di assenza e maggior presenza Segretari provinciali/comunali Premi collegati alla performance Differenziazione premialità Codici di comportamento … VoceN 27 Sezione 1.4.1 - Dati relativi ai Dirigenti Testata del sito Voce1 Voce2 … Dirigente Trasparenza, valutazione e merito • Programma trasparenza • Piano della performance • Organizzazione • Personale • Incarichi e consulenze • Gestione economico/ finanziaria • Gestione pagamenti • Buone prassi • Sovvenzioni e contributi • Public Procurement … Menu Dati relativi ai dirigenti - 2010 Curricula, riferimenti e retribuzioni (PDF) Mario Bianchi Francesca Rossi … Retribuzione analitica XXX.XXX € Curriculum Tel Mail Link … … XXX.XXX € Link … … … … … … Dati analitici 2010 specifiche XSD XML – ODS – specifiche ODS Ruolo dei dirigenti (PDF) VoceN Storia delle revisioni Dati anni precedenti NOTE: - Link con il quale è possibile sottoscriversi al Feed RSS. PDF – Link al file PDF contenente le informazioni riportate. Il file deve essere contestualizzato (devono essere indicati la tipologia dei dati, il periodo e l’amministrazione di riferimento). Dati analitici 2010 – Elenco di link ai file contenenti i dati analitici che sono alla base delle informazioni riportate nella sezione. I file devono essere contestualizzati. XML - File XML contenente i dati analitici. XSD – File XSD che contiene la definizione del formato del file XML precedente. ODS – Foglio di calcolo in formato Open Document Format (ODF) contenente i dati analitici. Specifiche ODS – Spiegazione del formato, del significato, della struttura del file ODS precedente. Storia delle revisioni – Link a una pagina in cui viene riportata la storia delle revisioni dei documenti/dati inseriti. Dati anni precedenti – Link a una pagina contenente i dati degli anni precedenti. Partecipa – Link a spazi (forum, blog, ecc.) in cui gli utenti possono inserire feedback e valutazioni sulle informazioni inserite (richieste chiarimenti, segnalazioni relative alla completezza, correttezza, precisione, tempestività delle informazioni, ecc.) . 28 Sezione 1.1 - Programma triennale e stato di attuazione Testata del sito Voce1 Voce2 … Trasparenza, valutazione e merito ‐ ‐ Programma triennale per la trasparenza e integrità Programma 2011-2013 (PDF) Programmi anni precedenti Menu Stato di attuazione • Programma trasparenza • Piano della performance • Organizzazione • Personale • Incarichi e consulenze • Gestione economico/ finanziaria • Gestione pagamenti • Buone prassi • Sovvenzioni e contributi • Public Procurement ‐ ‐ Stato attuazione 1° semestre 2011 (PDF) Stati attuazione anni precedenti Prospetto riepilogativo ‐ Prospetto riepilogativo – 25/7/2011 … VoceN 29 Programma triennale – Prospetto riepilogativo Testata del sito Voce1 Prospetto riepilogativo programma trasparenza Menu Voce2 Nome Amministrazione – aggiornato il 25/7/2011 … Trasparenza, valutazione e merito • Programma trasparenza • Piano della performance • Organizzazione • Personale • Incarichi e consulenze • Gestione economico/ finanziaria • Gestione pagamenti • Buone prassi • Sovvenzioni e contributi • Public Procurement Descrizione azione … Link azione … … … … … Scarica in formato: XML – specifiche XSD ODS – specifiche ODS PDF Partecipa … VoceN Tabella 2: dettaglio prospetto riepilogativo Descrizione azione Link azione Pubblicazione dei dati in formato aperto Ristrutturazione del sito - Data raggiungim. inizialmente prevista 10/04/2011 Data raggiungim. attualmente prevista 10/04/2011 Note relative allo scostamento Data effettiva raggiungim. % completam. Link al risultato Nessuno scostamento 10/04/2011 100% - Documenti di progetto del nuovo sito - 1/10/2011 1/10/2011 Nessuno scostamento - 50% - 20/05/2011 20/05/2011 Nessuno scostamento 20/05/2011 100% Attivazione forum - 30/09/2011 15/12/2011 - 20% Giornata della trasparenza gennaio Programma della giornata 15/01/2011 15/01/2011 Ritardi nella progettazione Nessuno scostamento Link alla pagina elenco RSS - 15/01/2011 100% Giornata della trasparenza febbraio Programma della giornata 15/02/2011 20/02/2011 Sala non disponibile 20/02/2011 100% … … … … … … … Inserimento del RSS Feed nel sito Report, video e slide della giornata Report, video e slide della giornata … Roma, 15 ottobre 2010 Il Presidente Antonio Martone 30 Coordinamento e governo dei dati nel pluralismo amministrativo di FRANCESCO MERLONI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il pluralismo amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. – 3. La pluralità delle informazioni pubbliche (e delle loro utilizzazioni). – 4. Le attività conoscitive come funzioni implicite. – 5. Le tecnologie informatiche e la progressiva scomparsa delle attività conoscitive strumentali. – 6. Le attività conoscitive come funzioni ad elevato contenuto tecnico. – 7. Le attività conoscitive come funzioni finalizzate alla cura di interessi diversi. – 8. Il fondamento della regolazione unitaria statale. – 9. Contenuti del potere di coordinamento dei dati. – 9.1. La fissazione di regole nazionali uniformi. – 9.2. Le politiche di promozione di comportamenti omogenei. Il coordinamento per via normativa dei dati. – 9.3. Il coordinamento come definizione di politiche di promozione di comportamenti omogenei. Il coordinamento amministrativo dei dati. Ripartizione delle competenze e leale collaborazione. – 10. Le funzioni di garanzia. 1. Premessa La domanda alla quale questo contributo si propone di dare una risposta, sia pure schematica, è la seguente: secondo quali regole si distribuisce, in un sistema amministrativo pluralistico come quello italiano, il potere di gestire (di stabilire le regole di gestione de) i dati pubblici? Il tema è reso complicato non solo dalla complessità crescente del nostro sistema amministrativo, contrassegnato da numerosi livelli di governo e da numerosi e diversificati soggetti allo stesso livello di governo, ma soprattutto dal confluire intorno ai dati pubblici di interessi diversi e non facilmente componibili: gli interessi ad una utilizzazione riservata dei dati e gli opposti interessi ad una loro diffusione ampia, libera. Non è questa la sede per ritornare sulla nozione stessa di dato pubblico. Ci basta qui partire dalla constatazione che le pubbliche amministrazioni (più in generale le istituzioni pubbliche) rac- 154 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO colgono – in documenti dalla più diversa forma – delle informazioni, dei dati; e che questi dati, una volta raccolti e fissati nei documenti, possono acquisire un valore conoscitivo ulteriore, diverso da quello per il quale essi sono stati originariamente raccolti e conservati. Una amministrazione raccoglie informazioni utili all’adozione di un provvedimento, per esempio, di autorizzazione all’esercizio di un’attività commerciale. I dati raccolti in sede istruttoria sono utili ai fini della decisione, ma una volta che questa sia stata assunta, i dati possono essere utilizzati anche ad altri fini conoscitivi, di interesse della stessa amministrazione, di altre amministrazioni, della generalità dei cittadini. E a questo fine i dati possono essere sottoposti a processi di elaborazione (statistica, informatica) volti proprio ad attribuire ai dati il nuovo e diverso valore conoscitivo. Nell’esempio appena fatto i dati raccolti ai fini di un’autorizzazione commerciale possono essere utilizzati per favorire il controllo democratico dei cittadini sull’operato del Comune in materia di licenze commerciali, ovvero per favorire la conoscenza sul numero di esercizi in atto e sulle caratteristiche soggettive dei titolari delle autorizzazioni rilasciate. In rapporto a questi dati si confrontano interessi diversi, alcuni dei quali spingono per la restrizione dell’uso e altri verso la loro massima diffusione. In generale, tanto più i dati possono essere utilizzati per fini diversi da quelli originari, tanto più si pongono esigenze di superamento di interessi conservativi e proprietari delle amministrazioni che hanno raccolto o che comunque detengono i dati (attraverso la conservazione dei relativi documenti). Allorché si realizza la scissione tra “titolarità” (1) del dato e sua utilizzazione, si pone il tema della individuazione di un diverso (1) È significativo che ormai, anche in virtù dei processi di cui qui si discute (il decentramento di funzioni amministrative, il forte interscambio di informazioni consentito dalla rete di connettività) la disciplina più recente (in particolare il Codice per la protezione dei dati personali e il Codice dell’amministrazione digitale) parlino, a proposito del rapporto tra amministrazioni e informazioni/dati, di “titolarità” (dei dati o del trattamento dei dati). Del fenomeno e del significato della titolarità dei dati si occupa il saggio di B. PONTI, in questo volume. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 155 soggetto (rispetto all’amministrazione titolare) che presieda all’utilizzo (o alla fissazione delle sue regole). Così come si pone il problema della uniformità/omogeneità delle regole sulla utilizzazione dei dati pubblici, proprio perché esse sono al servizio di interessi generali che trascendono quelli curati dalle amministrazioni titolari del dato. Questo contributo si pone, quindi, l’obiettivo di ragionare sui limiti entro i quali è possibile curare interessi unitari e generali alla utilizzazione dei dati pubblici e sul livello di governo al quale si devono curare questi interessi unitari. 2. Il pluralismo amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione Il punto di partenza è, come si è detto, il pluralismo amministrativo. Il sistema amministrativo italiano non è facilmente classificabile, dal momento che in esso si mescolano tratti di accentuato centralismo e tratti di forte decentramento, il primo largamente praticato, anche in presenza di una distribuzione delle competenze amministrative a favore di enti territoriali dotati di autonomia, il secondo che resta per lo più nelle intenzioni del legislatore (costituzionale e ordinario) (2). Anche se il nostro sistema, soprattutto dopo l’entrata in vigore della modifica del Titolo V, Parte II della Costituzione, appare caratterizzato dal principio di sussidiarietà verticale e da ampie garanzie di autonomia (normativa e finanziaria), non sono mancate interpretazioni, anche della giurisprudenza costituzionale, a favore del mantenimento in capo allo Stato (che pure è solo uno dei soggetti costitutivi della Repubblica, con pari dignità istituzionale con gli altri livelli di governo) non solo di poteri normativi per materie riservate perché attinenti ad interessi unitari, ma anche di importanti funzioni amministrative, non (2) Vedi F. MERLONI, Il paradosso italiano: “federalismo” ostentato e centralismo rafforzato, in Le Regioni, n. 4/2005 e T. GROPPI, La riforma del Titolo V della costituzione tra attuazione e auto applicazione, in www.quadernicostituzionali.it. 156 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO solo nelle materie di competenza legislativa riservata, ma anche nelle materie di competenza legislativa regionale (3). In sintesi si può affermare che la pratica applicazione del nuovo sistema delineato con la riforma costituzionale del 2001 non è andata affatto, come da molti ipotizzato, verso un modello di tipo federale (caratterizzato dal ruolo costitutivo degli enti che si uniscono, si “federano”, in una entità superiore), bensì verso un sistema ancora fortemente guidato dalle scelte, dalle politiche adottate dallo Stato; con un ampliamento, moderato, delle capacità di attuazione delle politiche da parte degli enti territoriali (4). Questo ampliamento di capacità operativa degli enti territoriali si realizza con un maggiore decentramento di funzioni amministrative (a partire dal livello di governo più vicino ai cittadini, il Comune, e via via risalendo in rapporto al carattere unitario delle funzioni) e con una maggiore autonomia. In attesa di veder compiuto il processo di riconoscimento di una effettiva autonomia finanziaria (in rapporto alle funzioni amministrative attribuite, secondo il principio di integrale copertura con risorse autonome fissato dal nuovo art. 119, comma 4, della Costituzione), molti sottolineano il riconoscimento di autonomia normativa: statutaria, legislativa, regolamentare per le regioni, statutaria e regolamentare per gli enti locali. In realtà, in rapporto all’uso che gli enti territoriali hanno fin qui fatto di questa autonomia normativa si può concludere che lo scopo del suo riconoscimento non sta tanto nella differenziazione (5) delle politiche pubbliche o dei diritti riconosciuti ai cittadini, quanto nella possibilità di adottare soluzioni orga- (3) La sentenza n. 303 del 2003 è stata vista da molti come architrave di questa interpretazione e come soluzione adeguata, perché flessibile, a porre rimedio ad una errata ripartizione delle competenze. Per una critica vedi F. MERLONI, Infrastrutture, ambiente e governo del territorio, in Le Regioni, 2007, pp. 57 ss. (4) Per una ricognizione sistematica degli indirizzi della giurisprudenza costituzionale sull’attuazione della riforma del Titolo V, si v. i saggi raccolti nel volume A. PIOGGIA, L. VANDELLI (a cura di), La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, Bologna, 2006. (5) Sulla nozione di differenziazione nel nuovo quadro istituzionale, si veda E. CARLONI, Lo Stato differenziato, Torino, 2004. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 157 nizzative e procedurali differenziate, ma nel perseguimento di obiettivi e risultati largamente predeterminati dalla legge (ancora dalla legge statale). Rappresentazione plastica di questa interpretazione sono le due distinte serie di previsioni costituzionali: da un lato quelle che vogliono l’organizzazione pubblica come differenziabile (6), dall’altro quelle che riservano allo Stato materie attinenti interessi unitari trasversali e quindi relative anche a materie di competenza (anche “residuale”) delle Regioni (7). Allo Stato la possibilità di predeterminare dei risultati uniformi, a garanzia di diritti di uguaglianza dei cittadini della Repubblica, agli enti territoriali la possibilità di differenziare la risposta in termini organizzativi e funzionali. Pur con questi limiti, l’autonomia organizzativa garantita agli enti territoriali, con la protezione dell’autonomia normativa (8) dalle incursioni dello Stato, è in ogni caso significativamente superiore rispetto alla situazione precedente, nella quale prevaleva l’uniformità (9). (6) Si sottolineano a questo fine da un lato la riserva allo Stato della sola materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” (art. 117, comma, 2, lett. g)), che implica che l’organizzazione regionale è soggetta alla sola legislazione delle Regioni; e dall’altro il riconoscimento di autonomia normativa agli enti locali: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (art. 117, comma 6). (7) Tipica manifestazione di questo tipo di riserva è la disposizione dell’art. 117, comma 2, lett. m), che riserva alla competenza statale esclusiva la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. (8) La Corte costituzionale è intervenuta ripetutamente stabilendo la illegittimità costituzionale di norme statali che, con l’obiettivo di raggiungere altri obiettivi (in particolare obiettivi di coordinamento e risanamento della finanza pubblica) finivano per limitare eccessivamente l’autonomia organizzativa degli enti territoriali (in particolare delle Regioni): si v.no, ex multis, Corte Cost., n. 88/2006; n. 270/2005; n. 390/2004; n. 370/2003. (9) In particolare per gli enti locali, la legislazione statale – sulla base del vecchio art. 128 Cost. – dettava una disciplina di estremo dettaglio, anche dell’organizzazione interna. Ultimo lascito di questa tradizione uniformante della legge statale è il T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267). In questo senso vedi F. MERLONI, L’inutile riforma del 158 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO Anche quando garantisce interessi unitari (con legge, regolamenti, esercizio di funzioni amministrative riservate), lo Stato deve rispettare l’autonomia organizzativa degli enti territoriali, non può imporre soluzioni organizzative specifiche, a meno che non siano strettamente necessarie alla cura di quegli interessi unitari (da valutarsi secondo uno stretto scrutinio di proporzionalità). 3. La pluralità delle informazioni pubbliche (e delle loro utilizzazioni) Come si è detto, e come viene ormai largamente sottolineato, le pubbliche amministrazioni sono sicuramente nelle società contemporanee i maggiori produttori e comunque i maggiori detentori di informazioni. Queste informazioni sono detenute (attraverso la conservazioni dei relativi documenti) dalle amministrazioni per vari motivi: perché esse stesse le hanno raccolte o perché esse provvedono a raccogliere e conservare anche informazioni raccolte da altri soggetti, pubblici e privati. Le informazioni, dalla più semplice alla più elaborata, hanno un sicuro valore conoscitivo, sono utili alla conoscenza della realtà (attuale o passata, in prospettiva storica). Le attività di raccolta (o produzione) delle informazioni, di formazione e conservazioni di documenti, sono quindi attività conoscitive. Le informazioni (e le relative attività conoscitive) hanno un valore conoscitivo diverso. A questo fine si distinguono informazioni (e relative attività) di tipo strumentale e non strumentale (rilevanti di per sé). La strumentalità dello svolgimento delle attività conoscitive costituisce l’evento più noto e consolidato per le pubbliche amministrazioni. Basti pensare a tutti i casi in cui le informazioni/ dati sono raccolte in vista dell’esercizio di funzioni pubbliche, come: TUEL: per una legge generale sulle autonomie locali, in G. CLEMENTE DI SAN LUCA (a cura di), Nodi problematici e prospettive di riforma del Testo Unico degli Enti Locali, Torino, 2006. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 159 a) le informazioni/dati strumentali a decisioni (organizzative o di esercizio delle funzioni) dell’amministrazione che le ha prodotte (l’istruttoria del responsabile del procedimento come evento tipico di raccolta/produzione di informazioni/dati strumentali); b) le informazioni/dati strumentali ad altre amministrazioni, cioè utili a decisioni di soggetti diversi che se ne avvalgono (si pensi all’utilizzazione a fini di tutela ambientale di informazioni/dati sulla salute); c) le informazioni/dati utili per la regolazione dei rapporti tra le amministrazioni; si pensi al caso delle determinazioni statali di ripartizione delle risorse finanziarie tra le regioni per le quali sia necessario disporre di dati sulla situazione economica dei territori: i dati sono in possesso di diverse amministrazioni, non solo dello Stato. In altri casi le informazioni/dati perdono il rapporto di stretta strumentalità con l’esercizio di funzioni pubbliche per acquistare, anche attraverso processi di elaborazione dei dati di base, un valore conoscitivo autonomo, rilevante di per sé. Si pensi in particolare a: a) le informazioni/dati accessibili (a fini di tutela o di trasparenza) o rese pubbliche, con i limiti della riservatezza, pubblica e privata, perché di interesse generale; qui le attività conoscitive sono al servizio della conoscenza garantita, non più alle amministrazioni, ma ai cittadini, che le utilizzano per varie finalità: ancora di tipo strumentale, quando l’informazione/dato è utilizzata per tutelare un proprio interesse particolare (è la versione tutta italiana dell’accesso ai documenti amministrativi (10)), ovvero effettivamente generale (il cittadino usa le informazioni/ (10) Così come delimitato dalla legge n. 241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005. La dottrina ha ampiamente sottolineato come la restrizione dell’accesso alla sola garanzia di situazioni giuridiche soggettive coinvolte nel procedimento corrisponda ad una volontà di rafforzare la tutela degli interessi coinvolti, ma anche ad una contestuale volontà di impedire l’utilizzazione dell’accesso ai fini della trasparenza e del controllo democratico. E questo è avvenuto proprio quando le nuove tecnologie informatiche avrebbero consentito un accesso ben più ampio, senza più compromettere le esigenze di funzionalità dell’amministrazione. Ma sul punto, si v. il contributo di E. MENICHETTI, in questo volume. 160 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO dati ottenuti per esercitare un controllo democratico, diffuso, sull’operato dei titolari di funzioni pubbliche; b) le informazioni/dati riutilizzabili come risorsa economica. Molti dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, una volta raccolti e utilizzati per la finalità iniziale, debitamente elaborati, possono acquisire un valore anche economicamente rilevante, di interesse di soggetti privati che possono provvedere alla loro valorizzazione economica (11). 4. Le attività conoscitive come funzioni implicite Se riguardate sotto il profilo della competenza a svolgerle, le attività conoscitive presentano alcuni tratti interessanti. In primo luogo le attività conoscitive strettamente strumentali seguono, quanto alla competenza, il destino delle funzioni principali. Si possono cioè considerare come funzioni strumentali rispetto a quelle finali; ancora di più, come attività interne, consustanziali allo svolgimento delle funzioni finali. L’attività, istruttoria, di raccolta delle informazioni/dati per la decisione amministrativa è una forma dello stesso esercizio della funzione finale, da essa difficilmente distinguibile. Da qui la costruzione della teoria delle attività conoscitive come funzioni implicite, di cui nel nostro ordinamento abbiamo avuto una ampia applicazione per le attività statistiche (12). In quanto funzioni implicite, le attività conoscitive seguono il destino di quelle finali: se queste vengono conferite (per conferimento, a partire dalla legge n. 59 del 1997 si intende tanto l’attribuzione quanto la delega di funzioni) da un livello di governo all’altro, da un soggetto all’altro, sono conferite anche le funzioni conoscitive (13). (11) È il tema del riutilizzo dei dati pubblici, cui sono dedicati gran parte degli scritti di questo volume. (12) A.M. SANDULLI, A. BALDASSARE, Profili costituzionali della statistica in Italia, in Dir. Soc., 1973, pp. 118 ss. (13) Le funzioni conoscitive non sono ricordate tra le funzioni strumentali che seguono, secondo l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 112 del 1998, le funzioni finali. La elencazione delle funzioni strumentali (“le funzioni di organizzazione COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 161 Da qui due conseguenze rilevanti. Una sul rapporto di titolarità delle informazioni. Questa stretta compenetrazione tra attività conoscitive e funzioni finali, tipica delle informazioni strettamente strumentali, conduce quasi automaticamente a costruire il rapporto tra amministrazioni e informazioni detenute come un rapporto di tipo proprietario. Le informazioni fanno parte, naturalmente, del patrimonio delle amministrazioni. La seconda, sull’autonomia organizzativa e funzionale delle amministrazioni. Se sono strettamente strumentali o addirittura parte inscindibile dell’attività di esercizio delle funzioni proprie delle amministrazioni, queste possono organizzarne l’esercizio e lo svolgimento in autonomia, senza dover rispettare limiti o interventi di autorità superiori. Questo rapporto si attenua, però, quando le informazioni perdono il loro carattere solo strumentale per acquisire un valore conoscitivo autonomo, nelle direzioni prima esplorate: o un valore conoscitivo strumentale per altre amministrazioni (o comune a più amministrazioni) o un valore conoscitivo generale, non più strumentale, rilevante di per sé. È evidente che in questi casi la costruzione di un rapporto proprietario solo a favore delle amministrazioni che detengono le informazioni non regge più, anzi si pone come ostacolo alla circolazione delle informazioni tra amministrazioni e tra queste e i cittadini e come ostacolo alla loro utilizzazione da parte di soggetti diversi dall’amministrazione che ha raccolto/prodotto le informazioni o che comunque le detiene. Di questo si è preoccupato il legislatore all’atto di conferire nuove funzioni agli enti territoriali: l’art. 6 del d.lgs. n. 112 del 1998 garantisce la circolazione delle informazioni tra le amministrazioni (14) e, a questo fine, introduce esplicitamente il concetto di coordinamento delle informazioni. e le attività connesse e strumentali all’esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti”) comprende la “programmazione”, la “vigilanza”, l’“accesso al credito”, la “polizia amministrativa”, l’“adozione di provvedimenti contingibili e urgenti”, ma è chiaramente esemplificativa e non tassativa (“fra gli altri”). Possiamo quindi agevolmente considerarle tra le funzioni strumentali. (14) Art. 6 del d.lgs. n. 112 del 1998. 162 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO Altrettanto esplicito il Codice per l’amministrazione digitale, che rende chiaro: a) il dovere per tutte le amministrazioni di trattare (i dati sono “formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili”) le informazioni al fine di consentirne la “fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall’ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dai privati” (15); b) la sottoposizione dei dati che costituiscono “le basi di dati di interesse nazionale” a regole tecniche unitarie individuate dallo Stato (16). Se le informazioni hanno acquistano un valore conoscitivo autonomo, rilevante di per sé, ecco che si pongono nuovi problemi, tutti destinati ad avere un forte impatto sull’autonomia delle amministrazioni. Si tratta, infatti, di assicurare che le informazioni, fin dalla loro raccolta (fin dalla produzione dei documenti che le contengono), abbiano la necessaria qualità in vista della loro circolazione tra le amministrazioni, della loro diffusione, della loro fruizione e utilizzazione. Si tratta, poi, di superare tutti gli ostacoli che possano frapporsi alla circolazione, quali il riconoscimento di diritti di titolarità che vadano fino alla configurazione di diritti di proprietà esclusiva. In quanto parte del patrimonio pubblico, le informazioni sono soggette a regole di appartenenza e di tutela, ma sempre al fine di assicurarne, come per tutti i beni pubblici, la circolazione e la fruizione collettiva (17). (15) Art. 50 del Codice. (16) Art. 60 del Codice, che così recita: “le basi di dati di interesse nazionale costituiscono, per ciascuna tipologia di dati, un sistema informativo unitario che tiene conto dei diversi livelli istituzionali e territoriali e che garantisce l’allineamento delle informazioni” (comma 1). Il comma 2 dello stesso articolo affida ad un d.P.C.M. la individuazione delle basi di dati e delle “strutture responsabili della gestione operativa di ciascuna base di dati”. (17) Sulla progressiva evoluzione del regime dei beni pubblici, sempre meno agganciato al requisito della proprietà pubblica del bene, e sempre più dalla sua destinazione pubblica, si v. M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004, M. DUGATO, Il regime dei beni pubblici: dall’appartenenza al fine, in Valori e principi del regime repubblicano, 2. Diritti e libertà, (a cura di) S. LABRIOLA, Bari, 2006, pp. 219 ss.; V. CERULLI IRELLI, Utilizzazione economica e fruizione collettiva dei beni, in AA.VV., Titolarità pubblica e regolazione dei beni, Annuario AIPDA 2003, Milano, 2004; A. LOLLI, COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 163 La titolarità delle informazioni continua in questi casi ad avere rilevanza, ma soprattutto per individuare il soggetto cui spettano i doveri di conservazione e garanzia della qualità, assai più che i poteri di disposizione/cessione dei diritti di utilizzazione. Anche l’autonomia organizzativa e funzionale finisce per trovare dei limiti, se non nel senso dell’attribuzione ad autorità diverse della gestione delle informazioni, almeno nel senso del necessario rispetto di quelle regole organizzative e funzionali sullo svolgimento delle attività conoscitive che siano poste a garanzia dell’interesse generale alla fruizione e alla utilizzazione collettiva. 5. Le tecnologie informatiche e la progressiva scomparsa delle attività conoscitive strumentali Con la progressiva introduzione delle tecnologie informatiche le capacità di trattamento delle informazioni si ampliano in modo considerevole. Qualunque documento prodotto in formato elettronico contiene delle informazioni che possono essere isolate dal contesto del documento medesimo e assumere una vita autonoma, un valore conoscitivo in sé rilevante. Le informazioni isolate possono essere poi trattate ed elaborate fino ad entrare a far parte di autonomi patrimoni conoscitivi (banche dati, motori di ricerca). La distinzione prima adottata tra informazioni strumentali e non strumentali perde progressivamente significato: tutte le informazioni, anche quelle raccolte a fini strumentali, possono acquistare un valore autonomo. Tutte le informazioni, secondo il Codice dell’amministrazione digitale, sono destinate ad una fruizione e utilizzazione da parte di soggetti diversi dall’amministrazione che le hanno raccolte e conservate: altre amministrazioni (nei casi b) e c) del paragrafo 3), la generalità dei cittadini (per le informazioni strumentali di cui ai casi a), b) e c) e per le informazioni rese accessibili e pubbliche di cui al punto d), soggetti privati interessati ad utilizzare economicamente le informazioni e le loro elaborazioni (caso e)). Proprietà e potere nella gestione dei beni pubblici e dei beni di interesse pubblico, in Dir. amm., 1996. 164 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO Nessuna informazione esaurisce il suo valore conoscitivo all’interno dell’amministrazione che l’ha prodotta. Le tecnologie informatiche aprono la strada ad una vera rivoluzione, ponendo in discussione nozioni consolidate quali il rapporto proprietario ed esclusivo delle amministrazioni con le informazioni in loro titolarità e l’autonomia organizzativa e funzionale nell’esercizio delle attività conoscitive. Ci avviciniamo così alla risposta iniziale: quali poteri di coordinamento esterno possano essere esercitati nei confronti delle amministrazioni titolari delle informazioni, a quale livello di governo, da quale autorità. Prima di affrontare questi temi è utile una breve riflessione sui caratteri delle attività conoscitive e sui problemi che esse pongono sul versante della loro organizzazione e del loro svolgimento. 6. Le attività conoscitive come funzioni ad elevato contenuto tecnico Il primo carattere che tende a contrassegnare tutte le attività conoscitive è l’incremento del tasso di complessità tecnica. Con l’impiego delle tecnologie informatiche non esistono più attività conoscitive semplici. Anche la formazione di un documento semplice è soggetta a regole tecniche. Una modesta istruttoria o la formazione di un documento contenente un atto amministrativo elementare, di mera ricognizione di dati semplici e già noti, deve seguire regole tecniche di formazione del documento. Non solo le regole sul protocollo informatico o di classificazione del documento al fine di renderlo reperibile, ma le regole delle stessa confezione del documento al fine di rendere utilizzabili e fruibili le informazioni di base in esso contenute. Nella confezione di un atto occorrerà predisporre appositi campi per la introduzione dei dati e occorrerà seguire regole specifiche per evitare ogni errore, che potrebbe ripercuotersi sulla possibilità di estrarre dal documento le informazioni corrette o sulla validità conoscitiva delle elaborazioni da compiere sui dati per giungere ad informazioni a valore aggiunto (a valore autonomo). Se nel tradizionale lavoro istruttorio destinato ad essere conservato in documenti cartacei la rilevanza è tutta posta sulla COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 165 qualità intrinseca delle informazioni (il grado della loro certezza (18)) in rapporto alla decisione amministrativa da prendere; se eventuali errori formali non hanno rilievo e possono non condurre a conseguenze negative sulla decisione assunta (19), tutto questo scompare nel nuovo scenario della informatizzazione delle attività conoscitive e di formazione dei documenti amministrativi. Non solo ogni documento dovrà essere confezionato, ma ogni informazione dovrà esser registrata secondo regole assolutamente precise (anche un solo errore nella introduzione dei dati può alterare l’informazione). La complessità tecnica aumenta se si considerano le problematiche relative alla conservazione dei documenti, alla elaborazione dei dati, alla protezione della riservatezza, all’accesso e alla pubblicità. Il tratto tipico della statistica, l’applicazione di una tecnica definita alla raccolta e all’elaborazione dei dati, si estende ormai a tutte le fasi di gestione delle informazioni, a tutte le tecniche di gestione dei documenti e dei dati. La gestione dei documenti e delle informazioni diviene pertanto un’attività ad elevato contenuto tecnico, che deve seguire delle precise regole tecniche e deve essere svolta da personale competente, adeguatamente formato alla comprensione delle regole e alla loro applicazione pratica. L’elevato contenuto tecnico delle attività pone problemi nuovi, che saranno oggetto dei prossimi paragrafi. In particolare: quale debba esser il grado di uniformità delle regole tecniche e, corrispettivamente, se vi sia spazio per l’adozione di regole differenziate; ed inoltre, quale impatto le regole tecniche possano avere sull’organizzazione e sullo svolgimento delle attività conoscitive delle amministrazioni. (18) Vedi M.S. GIANNINI, Certezza pubblica, voce dell’Enc. Dir., Milano, 1960 e G. ARENA, Certezze pubbliche e semplificazione amministrativa, in G. ARENA, M. BOMBARDELLI, M.P. GUERRA, A. MASUCCI, La documentazione amministrativa, Rimini, 2001. (19) Sul nuovo art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005, la letteratura è già vastissima; per una ampia analisi, anche con rilevanti profili di tipo teorico, si veda S. CIVITARESE MATTEUCCI, La forma presa sul serio, Torino, 2006. 166 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 7. Le attività conoscitive come funzioni finalizzate alla cura di interessi diversi La seconda caratteristica generale delle attività conoscitive, destinata ad avere un notevole impatto sul tema della distribuzione delle competenze in materia di gestione dei dati, è la loro funzionalità alla cura di interessi generali diversi (in qualche caso contrapposti). Questi interessi generali sono oggetto di regolazione da parte di corpi normativi diversi (20) e tutti concorrenti a determinare regole di formazione, conservazione, elaborazione, diffusione, fruizione e (ri)utilizzazione delle informazioni raccolte dalle pubbliche amministrazioni. Qualche esempio sarà sufficiente a dimostrare il punto. In materia di formazione, conservazione ed elaborazione dei dati contenuti nei documenti informatici si sovrappongono regole (a contenuto tecnico sempre più elevato) strettamente informatiche (i linguaggi adottati, la scansione del documento ai fini della successiva elaborazione, la sicurezza sulla non modificabilità del documento e sulla sua conservazione elettronica, la garanzia sulla conformità del documento all’originale (21) e così via), regole archivistiche (protocollo, classificazione, conservazione del documento), regole statistiche (ai fini della elaborazione statistica dei dati). Già nelle fasi iniziali di formazione dei documenti pubblici le regole, di fonti diverse e spesso affidate a competenze professionali diverse, curano interessi diversi: l’interesse alla conservazione e alla reperibilità del documento, a sua volta strumentale all’interesse dell’amministrazione di ripercorrere le proprie decisioni o a estrapolare dati conoscitivi, ma anche all’interesse dello studioso (attuale e futuro) dell’amministrazione; l’interesse statistico a disporre di dati affidabili e agevolmente elaborabili. (20) Il fenomeno è stato già segnalato in F. MERLONI, Introduzione all’eGovernment. Pubbliche amministrazioni e società dell’informazione, Torino, 2005. In quella sede si è voluto sottolineare come la confluenza di formazioni diverse impedisce l’adozione di politiche unitarie di eGovernment. In questa sede il fenomeno è analizzato dal punto di vista delle informazioni pubbliche. (21) Cfr. l’art. 54, comma 4, del Codice dell’amministrazione digitale. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 167 In materia di interoperabilità, cioè di scambio delle informazioni tra amministrazioni (nelle forme consentite dal progresso tecnologico: invio attraverso la posta elettronica o accesso telematico diretto alle banche dati dell’amministrazione detentrice dei documenti), entrano in gioco interessi diversi: l’interesse dell’amministrazione alla conservazione, in sicurezza, dei propri documenti, e l’interesse delle altre amministrazioni ad acquisire quelle informazioni in modo rapido ed efficiente. L’interesse del cittadino a evitare di fornire alle amministrazioni informazioni di cui già dispongono e di ottenere più agevolmente informazioni in possesso non più delle singole amministrazioni individualmente, ma dell’intero sistema amministrativo interconnesso in rete. La interconnessione si presenta come soluzione funzionale all’interscambio di dati, ma anche alle esigenze di accesso e di pubblicità. In materia di accesso si aggiungono regole che disciplinano il diritto dei cittadini, in realtà dei soggetti titolari di un interesse qualificato (procedimentale, ovvero difensivo), di prendere visione del documento o di estrarne copia, anche mediante tecnologie informatiche (accesso telematico e download del documento). In tal modo si cura un interesse che, anche se fortemente delimitato dalla legge dal punto di vista della titolarità, si pone in senso opposto alle esigenze di riservatezza (pubblica) dell’amministrazione. Una stessa informazione pubblica dovrà essere trattata con tecniche che ne assicurino, al contempo, la fruibilità interna, da parte degli uffici dell’amministrazione, ed esterna, da parte di altre amministrazioni connesse in rete e del cittadino. Anche le esigenze di trasparenza introducono interessi nuovi e diversi. Se i documenti formati (delle informazioni raccolte) sono destinati ad essere resi pubblici, attraverso la garanzia di un accesso generalizzato ai documenti (facilitato dalla predisposizione di banche dati o di motori di ricerca), ovvero attraverso la loro diretta immissione nei siti, liberamente accessibili e interrogabili, delle pubbliche amministrazioni, si cura in tal modo l’interesse alla diffusione dei documenti, che entra in conflitto con le esigenze di riservatezza pubblica, ma può entrare in conflitto con gli interessi alla conservazione in sicurezza dei documenti (qualora l’accesso possa comportare rischi di modificazione del contenuto dei documenti). Dal punto di vista del documento (e delle informazioni in esso contenute) è evidente 168 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO che il sovrapporsi di questi diversi interessi comporta la contestuale sottoposizione a regole tecniche diverse: quelle destinate ad assicurare la conservazione e la riservatezza pubblica e quelle destinate alla diffusione. Regole che impongono particolari cure nella stessa fase di formazione del documento: è assai diverso se un documento viene formato in vista di una sua conservazione riservata (salva la sua conoscibilità futura, una volta conservato in archivi storici) o se esso viene formato in vista di una sua diffusione immediata (o comunque ravvicinata). Un ragionamento del tutto analogo può essere fatto in materia di protezione di dati personali. Le relative regole (22) sono fissate a tutela di un interesse (la riservatezza privata) che si contrappone sicuramente all’interesse di soggetti esterni a conoscere dati personali contenuti in documenti in possesso di amministrazioni pubbliche, che questo interesse sia curato nella forma dell’accesso o della pubblicità del documento. Come è noto (23), questi interessi si compongono in modo diverso, sulla base di principi introdotti da una copiosa giurisprudenza, con la prevalenza ora dell’uno (in generale l’accesso prevale, salvo che per i dati sensibili) ora dell’altro (la riservatezza tende a prevalere sulla trasparenza come controllo generalizzato). Ma possono anche essere curati congiuntamente se si adottano tecniche di formazione del documento che consentano la conoscenza solo di alcuni dati e non di altri. Tecniche che, se si vuole, comportano un’ulteriore complessità nella predisposizione degli atti. Vi è, poi, l’interesse al riutilizzo economico delle informazioni pubbliche di cui, qui, non ci occupiamo nel dettaglio (24), ma che comunque comporta effetti sulla cura di altri interessi in gioco. Il riutilizzo può, infatti, entrare in conflitto con le esigenze di conservazione in sicurezza dei documenti (la messa a disposizione dei documenti ai privati può comportare rischi di modificazione del loro contenuto), con le esigenze di riservatezza, sia pubblica (rischi di diffusione di documenti o di informazioni che dovrebbero restare riservati), che privata. (22) Dettate dal Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196 del 2003), ma ulteriormente specificate ad opera del Garante. (23) Si v. il saggio di E. MENICHETTI, in questo volume. (24) Si v. il saggio di B. PONTI, in questo volume. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 169 Vi è, infine, riassuntivamente, l’interesse generale alla qualità dei documenti e delle informazioni in essi contenute. Qualità che deve essere assicurata come rispetto di tutte le regole tecniche che assicurano la cura dei diversi interessi in gioco: qualità ai fini della conservazione in sicurezza, qualità ai fini della reperibilità, qualità ai fini delle elaborazioni cui sottoporre le informazioni, qualità ai fini dell’interscambio di documenti e dati, e così via. Ma vi sono qualità ulteriori, che devono essere assicurate ai documenti proprio in vista della loro immediata (o ravvicinata) diffusione, quali la “elevata usabilità”, la “completezza di informazione”, la “chiarezza di linguaggio”, l’“affidabilità”, la “semplicità di consultazione”, secondo i principi del Codice dell’amministrazione digitale (25). Di esse non ci occupiamo qui in modo specifico (26), limitandoci a sottolineare le conseguenze di un approccio di questo tipo. Se prima, nel contesto di una formazione cartacea dei documenti e di una loro conservazione riservata, a prevalere erano gli elementi dell’uso interno del documento, con la conseguenza che la qualità andava commisurata all’efficacia informativa del documento rispetto all’interesse curato (alla decisione da assumere), oggi occorre guardare anche alla qualità del documento in sé, alla sua capacità di trasmettere informazioni che siano nello stesso tempo affidabili e comprensibili. Affidabili nel senso che colui che accede al documento può contare sulla sua provenienza pubblica e sulla veridicità delle informazioni che sono in esse contenute. Comprensibili nel senso che il documento deve essere redatto avendo riguardo non solo al destinatario immediato (ad esempio il dirigente che deve assumere una decisione e adottare un provvedimento), ma anche alla molteplicità di destinatari ulteriori (per esempio al cittadino che accede ad un provvedimento inserito nel sito della pubblica amministrazione. Come si vede il sovrapporsi di nuove finalità, di nuovi interessi generali da curare ha effetti sulla formazione del documento, imponendo l’adozione di ulteriori regole tecniche (nella raccolta delle informazioni e nella rappresentazione, ai fini della comprensibilità). (25) Cfr. l’art. 53, comma 1 del Codice. (26) Si rinvia al saggio di E. CARLONI, in questo volume. 170 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 8. Il fondamento della regolazione unitaria statale Le informazioni pubbliche, in conclusione, stanno perdendo le caratteristiche proprietarie e di riservatezza a favore del loro massimo interscambio tra amministrazioni e della loro massima diffusione alla generalità dei cittadini. La cura di questi nuovi interessi generali, che si sovrappone ai contrapposti interessi alla gestione riservata dei documenti e delle informazioni, impone, come si è visto, l’adozione di regole nuove, quasi sempre ad elevato contenuto tecnico. Chi e come deve fissare queste nuove regole? Chi deve applicarle nella gestione dei documenti? Per rispondere al primo quesito si deve valutare il carattere proprio di queste regole. Ora non vi è dubbio che esse devono assicurare interessi generali che trascendono le competenze delle amministrazioni che formano i documenti (che raccolgono le informazioni). Se l’obiettivo è l’interscambio di informazioni tra amministrazioni in rete, è indispensabile assicurare che le informazioni siano omogenee, che abbiano lo stesso significato, che possano essere lette e comprese in modo uniforme dal più ampio numero di persone. Un dato relativo alla residenza di un cittadino, come risultante da un documento amministrativo (un certificato) deve avere lo stesso valore conoscitivo per tutti colori che lo utilizzano (ai diversi fini che abbiamo visto), amministrazioni diverse e cittadini. Se l’obiettivo è la pubblicità, i documenti devono avere lo stesso grado di qualità (soprattutto in termini di affidabilità e comprensibilità) per tutti i potenziali utilizzatori delle informazioni in esse contenute. Si impongono, quindi, regole (in gran parte tecniche) ad applicazione uniforme, così da garantire l’omogenea qualità delle informazioni. Così posto il problema, la ricerca del livello più adatto alla fissazione delle regole potrebbe non trovare limiti. Le informazioni ormai circolano in rete nel mondo globalizzato e le regole sulla qualità delle informazioni dovrebbero essere poste da autorità sovranazionali. A livello europeo il grado di interdipendenza degli interessi economici e di interscambio e collaborazione tra gli stati do- COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 171 vrebbe imporre regole quantomeno di livello comunitario (27), che non a caso sono fissate in alcuni settori dove più forte è la disciplina europea. Si pensi al settore dei contratti pubblici, dove le esigenze comunitarie di concorrenza delle imprese alle gare per l’affidamento dei contratti comportano l’adozione di regole comunitarie sulla pubblicità da assicurare ai bandi di gara e alle decisioni sull’affidamento dei contratti. A livello mondiale o europeo l’adozione di regole comuni per il trattamento e la gestione delle informazioni pubbliche non potrà, per un futuro prevedibilmente ancora lungo, che passare per forme di negoziazione internazionale tra stati, cui spetterà garantire al proprio interno il rispetto di regole così stabilite. Nell’ordinamento italiano abbiamo visto come processi di trasferimento di funzioni amministrative (soprattutto nelle versioni del decentramento dalle amministrazioni statali a quelle degli enti territoriali) abbiano comportato un’attenzione crescente all’attenuazione del rapporto proprietario tra amministrazioni e loro informazioni, a favore del principio dell’interscambio e della massima circolazione delle informazioni. Così come abbiamo visto che le esigenze di diffusione pubblica delle informazioni porta con sé l’introduzione di nuovi principi generali sulla qualità dei dati, che a loro volta impongono delle regole tecniche uniformi. Questa esigenza, che l’ordinamento ha assunto dapprima in via di legislazione ordinaria nella forma del coordinamento, è stato poi recepita nel nuovo testo costituzionale di modifica del Titolo V, nella forma dell’ormai nota formulazione dell’art. 117, comma 2, lettera r) che riserva allo Stato il “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale regionale e locale”. La scelta del legislatore costituente appare netta: proprio nel momento in cui si adotta un sistema complessivo di maggiore (27) Un primo, significativo intervento in questo senso è costituito dalla direttiva 2007/2/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un’infrastruttura per l’informazione territoriale nella Comunità europea (Inspire), con la quale – tra l’altro – sono state fissate le regole tecniche, vincolanti per gli Stati membri, finalizzate ad assicurare la disponibilità, la qualità, l’organizzazione, l’accessibilità e la condivisione delle informazioni territoriali detenute dalle autorità pubbliche. 172 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO autonomia degli enti territoriali e si riconoscono materie nelle quali lo Stato perde molte delle precedenti prerogative; allorché si rinuncia a riservare allo Stato un generale potere di indirizzo e coordinamento, a favore di più specifici poteri riservati allo Stato, in materie predeterminate e tassativamente elencate, a garanzie di interessi unitari non frazionabili, il coordinamento dei dati viene ricompreso tra le materie riservate, quindi tra gli interessi unitari che devono comunque essere garantiti, indipendentemente dal grado di autonomia riconosciuto agli enti territoriali nell’esercizio delle loro competenze. La riserva del coordinamento dei dati corrisponde bene al mutato orizzonte che abbiamo segnalato: le attività conoscitive, di raccolta delle informazioni in occasione dell’esercizio delle proprie funzioni (normative e amministrative) mantengono il loro carattere implicito e strumentale, ma le informazioni non sono più necessariamente di proprietà esclusiva delle amministrazioni che le hanno raccolte. Viene al contrario riconosciuto allo Stato un potere di fissare regole, di coordinamento, volte a garantire gli interessi pubblici generali che possono esser curati con l’interscambio tra amministrazioni e con la diffusione pubblica ai cittadini. Le diverse esigenze che abbiamo prima considerato e che possiamo definire in modo comprensivo come esigenze di qualità delle informazioni, sono esigenze di carattere unitario, devono essere garantite in modo uguale a tutti i cittadini della Repubblica. Anche in questo caso, come per la materia “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni”, il coordinamento appare rivolto a garantire un risultato (28), la qualità dei dati, che prescinde dalla loro titolarità. Si tratta, come è altrettanto evidente, di una materia “trasversale”, nel senso che il coordinamento ai fini della garanzia della qualità delle informazioni pubbliche riguarda tutte le informazioni comunque raccolte, relativamente a tutte le funzioni (28) Sulla nozione di coordinamento come risultato e come attività necessaria per conseguirlo vedi F. MERLONI, Per la definizione di una nuova nozione di coordinamento nell’amministrazione locale, in F. MERLONI (a cura di), La nuova provincia nella riforma del governo locale, in Quaderni delle autonomie, 1988. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 173 amministrative di competenza di amministrazioni statali, di Regioni ed enti locali, in tutte le materie di competenza statale e regionale (concorrente o “residuale”). Anche per questa via si attenua il rapporto di strumentalità tra attività conoscitive e funzioni amministrative finali, per esaltare il carattere interamministrativo delle informazioni pubbliche e, poi, la rilevanza autonoma, di per sé, delle informazioni e degli interessi generali che esse contribuiscono a curare. Solo una disciplina uniforme dell’esercizio, presso le singole amministrazioni, delle attività conoscitive garantisce che siano raggiunte le diverse finalità assunte dalle discipline di settore prima individuate (conservazione, qualità, trasparenza, riservatezza, riutilizzo). 9. Contenuti del potere di coordinamento dei dati 9.1. La fissazione di regole nazionali uniformi Se abbiamo compreso il fondamento di una “costituzionalizzazione” del principio di coordinamento statale dei dati pubblici (29), si tratta ora di comprendere i contenuti della nozione di coordinamento dei dati e i limiti che si devono ritenere posti all’esercizio delle relative attività. Nel coordinamento non vi è la centralizzazione delle attività conoscitive (non c’è un soggetto che svolge funzioni di raccolta e trattamento delle informazioni per tutte le amministrazioni, che sarebbe il capovolgimento, peraltro non necessario e materialmente impossibile, del principio delle funzioni implicite), ma la (29) In generale, per una lettura della riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione come “stabilizzazione” degli assetti conseguenti alle terza stagione del decentramento, inaugurata dalla l. 15 marzo 1997, n. 59, si v. F. PIZZETTI, La riforma del Titolo V tra resistenza al cambiamento e incompiutezza delle scelte, in Le istituzioni del federalismo, 2003, pp. 529 ss.; V. CERULLI IRELLI, Consolidamento delle riforme amministrative e innovazioni costituzionali: problemi attuativi e di integrazione, relazione al convegno Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione Roma, 31 gennaio 2002, Luiss Guido Carli – Centro di Ricerca sulle Amministrazioni Pubbliche “Vittorio Bachelet”. 174 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO centralizzazione di attività che producano il risultato della qualità (nei diversi significati fin qui illustrati) delle informazioni. Centralizzazione delle attività di produzione delle regole da impiegare nell’esercizio (autonomo, distribuito) delle attività conoscitive da parte delle amministrazioni nell’esercizio delle rispettive competenze amministrative finali. Centralizzazione di alcune attività amministrative volte a promuovere il rispetto delle regole uniformi di gestione delle informazioni. Centralizzazione di alcune attività di garanzia della qualità delle informazioni pubbliche. Quanto al primo punto (determinazione delle regole) la riserva in materia di coordinamento dei dati consente allo Stato di stabilire: a) le regole da rispettarsi nella formazione dei documenti e nel trattamento delle informazioni al fine di garantirne la qualità; b) le regole che predeterminano le competenze professionali necessarie al trattamento delle informazioni (archivistica, statistica, scienza della informazione e della comunicazione). Più delicato è stabilire se lo Stato, oltre che alle proprie amministrazioni (e agli enti pubblici nazionali) possa fissare direttamente dei vincoli di carattere organizzativo. In generale questo è escluso dal sistema istituzionale del Titolo V. Lo Stato fissa le regole al fine di garantire un risultato finale (la qualità dei dati), ma non interviene condizionando oltre lo stretto necessario l’autonomia organizzativa degli enti territoriali. Una volta stabiliti gli standard minimi di qualità delle attività conoscitive, con la fissazione di regole che derivano dall’applicazione di specifiche discipline scientifiche e tecniche e con l’imposizione di determinati standard di competenza professionale nel trattamento delle informazioni, è possibile spingersi più in là, fino a precostituire soluzioni organizzative predeterminate, (quali la necessaria costituzione di appositi uffici) o soluzioni procedimentali altrettanto predeterminate (quali l’adozione di moduli procedimentali uniformi)? In via generale la risposta è negativa (30), anche se significativo (30) In relazione al coordinamento statistico, cfr. Corte Cost., n. 17/2004 e n. 31/2005: la seconda sentenza, in particolare, ha stabilito che l’adozione di COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 175 è l’esempio della statistica cioè dell’unica funzione conoscitiva che, pur svolta in modo distribuito (ogni amministrazione cura le proprie attività statistiche), è stata oggetto di una forte sottoposizione a regole uniformi, con ricadute rilevanti sull’autonomia organizzativa: oltre all’adozione di tecniche di trattamento statistico dei dati, oltre all’imposizione di personale con competenze statistiche adeguate, si impone anche la costituzione di appositi uffici (di statistica) affidati alla responsabilità di personale con competenze statistiche (31). La formulazione normativa della lettera r) non fa distinzione tra coordinamento statistico e coordinamento di altro genere (informativo (32) e informatico), tanto da lasciare il dubbio che queste nuove tecniche di coordinamento si possano allineare al modello della statistica, che però è stato perfezionato in epoca anteriore alla riforma costituzionale nella quale la garanzia degli interessi unitari dello Stato è assicurata anche con soluzioni organizzativamente uniformi. È quindi legittimo sostenere sia che il modello della statistica possa essere rivisto nel senso di attenuare i vincoli di uniformità organizzativa per limitarsi alla garanzia del risultato in termini di qualità del dato statistico (comunque siano organizzate le relative attività), sia che i nuovi oggetti di coordinamento, le informazioni in generale e le tecnologie informatiche, non necessariamente debbano seguire il modello della statistica. regole e standard tecnologici in sede di esercizio del coordinamento informatico, quando arrivi ad incidere sull’autonomia organizzativa di regioni ed enti locali, è soggetta al principio di leale collaborazione, ed in particolare deve essere preceduto da un’intesa “forte” tra Stato ed enti territoriali. (31) Sul rilievo organizzativo del coordinamento della funzione statistica, sia consentito rinviare a F. MERLONI, Attività conoscitive delle amministrazioni pubbliche e statistica ufficiale. Problemi organizzativi e funzionali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1994, pp. 209 ss., ma si v. anche L. TORCHIA, Autonomia dei soggetti e funzionalità del sistema: condizioni di qualità dell’informazione statistica, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, pp. 643 ss.; F. GIGLIONI, Le soluzioni istituzionali alla qualità dell’informazione statistica, in Dir. pubbl., 2005, pp. 1028 ss. (32) Per la autonoma configurazione della funzione di coordinamento informativo, sui suoi contenuti ed i suoi limiti, si v. B. PONTI, I dati di fonte pubblica: coordinamento, qualità e riutilizzo, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008. 176 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 9.2. Le politiche di promozione di comportamenti omogenei. Il coordinamento per via normativa dei dati Con questi limiti di contenuto, si tratta di esaminare la configurazione, anche organizzativa e istituzionale, della funzione di coordinamento per via normativa. In questo settore la gran parte delle regole di fonte primaria è stata già fissata; essa potrà richiedere nel futuro degli aggiustamenti o anche delle sostanziali modifiche, ma nella fase attuale il più della legislazione in materia è stabilito (33). Più rilevante, invece, l’attuazione degli obiettivi fissati con legge attraverso normative di contenuto tecnico, da emanarsi o per via regolamentare o con norme tecniche direttamente operative. A tutti questi fini (proposte di eventuale aggiustamento/modifica della legislazione, proposte di regolamenti, adozione di norme tecniche operative) è necessaria una struttura servente ad elevata competenza tecnica. Non è questa la sede per una puntuale ricostruzione della vicenda della ricerca di una sede qualificata: l’istituzione dell’AIPA, la sua trasformazione (non meramente nominale) in CNIPA, passando per un Centro tecnico al servizio degli uffici governativi competenti per la promozione delle ICT nelle pubbliche amministrazioni. Una vicenda che ha dimostrato una doppia difficoltà: a) a costruire un struttura dotata, proprio perché destinata a svolgere compiti prevalentemente tecnici, di una sufficiente autonomia rispetto al governo centrale e di una sufficiente indipendenza rispetto ai rilevanti interessi economici in gioco; b) a costruire una struttura che non fosse la sola espressione del governo centrale, pur contribuendo allo svolgimento del compito, nazionale, del “coordinamento dei dati”. (33) Si fa riferimento, in modo particolare, a tre distinti gruppi di disciplina che fanno capo, rispettivamente: al Codice dell’amministrazione digitale (che, a seguito delle modifiche intervenute con il d.lgs. n. 159 del 2006, ingloba anche la parte normativa del sistema pubblico di connettività, elemento essenziale del coordinamento tecnico-informatico), al T.U. sulla documentazione amministrativa, in particolare le parti sopravvissute all’abrogazione, con particolare riguardo alla disciplina del protocollo informatico); alla disciplina della statistica di cui d.lgs. n. 322 del 1989. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 177 La funzione normativa tecnica si pone, cioè, come una funzione tipicamente imparziale e istituzionalmente condivisa. Il Codice dell’amministrazione digitale (art. 71) sembra preoccuparsi sia del secondo aspetto (la condivisione delle regole tecniche), sia del primo (l’autonomia della funzione tecnica). In esso troviamo infatti un procedimento di formazione delle regole tecniche fondato su decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza unificata e il Garante della privacy, previa acquisizione del parere obbligatorio del CNIPA (anche se finalizzato essenzialmente a garantire la coerenza con le regole tecniche sul sistema pubblico di connettività). Ma, come si è detto, le due cose stanno insieme. Se il coordinamento è compito riservato allo Stato, la sua organizzazione ben può avvenire in forme tali da coinvolgere al massimo grado le diverse amministrazioni pubbliche cui spetta la gestione dei documenti e delle informazioni pubbliche; sempre che l’impulso e la proposta provenga da sedi tecnicamente attrezzate. Un definitivo assetto dell’attuale soggetto statale, il CNIPA, potrebbe essere trovato in una amministrazione, con forti tratti di autonomia organizzativa e di indipendenza dei componenti degli organi, largamente partecipata dalle diverse amministrazioni; un’amministrazione di livello nazionale, ma “repubblicana” (rappresentativa dei soggetti costituenti la Repubblica, secondo l’art. 114 Cost.) che contribuisce a un coordinamento non unilaterale e gerarchico, ma condiviso. La definizione di norme tecniche destinate ad incidere sui modi di svolgimento dei compiti di gestione dei documenti e delle informazioni, non può che giovarsi della attiva partecipazione di soggetti in grado di rappresentare le esigenze, conoscitive e organizzative, del pluralismo amministrativo italiano. Si tratta di trovare soluzioni organizzative che consentano da un lato la condivisione delle scelte, ma dall’altro l’autonomia tecnica, l’imparzialità e, ove necessario, la capacità di superare eventuali impasse legate alla difficoltà di trovare il consenso. Il coordinamento dei dati, infatti, presuppone la distribuzione diffusa dei compiti di gestione dei dati medesimi. Ciò impone l’adozione di modelli organizzativi partecipati e di leale collaborazione. Questi vanno organizzati stabilmente, perché costante deve essere la ricerca dell’accordo. Se, però, questo fallisce, l’ultima parola resta dello Stato. 178 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 9.3. Il coordinamento come definizione di politiche di promozione di comportamenti omogenei. Il coordinamento amministrativo dei dati. Ripartizione delle competenze e leale collaborazione Nel potere di coordinamento sono, compresi, poi, compiti di tipo amministrativo, di promozione delle ICT nelle pubbliche amministrazioni. Come si è visto, l’introduzione delle tecnologie, il trattamento dei dati pubblici e la riorganizzazione delle amministrazioni costituiscono una politica unica e non scindibile. In questa prospettiva va salutata con favore la riunificazione in un solo ufficio centrale (presso il Ministro per le riforme e le innovazioni della pubblica amministrazione) delle funzioni che si comprendono sotto il nome di eGovernment. Le funzioni amministrative esercitabili a livello statale sono: a) le funzioni di coordinamento diretto delle politiche (ICT, trattamento delle informazioni e riorganizzazione delle procedure e degli uffici) delle amministrazioni statali; b) le funzioni di supporto al coordinamento normativo (soprattutto all’attività legislativa dello Stato); c) le funzioni di supporto delle politiche di promozione; d) le funzioni di finanziamento delle politiche di promozione. In particolare, per le ultime due funzioni, si tratta di promuovere comportamenti omogenei da parte dell’intero sistema amministrativo pluralistico. A questo fine alla organizzazione unificata dei compiti, che consente una visone integrata di una politica unitaria, deve corrispondere un capacità di forte raccordo con il sistema delle autonomie territoriali, attraverso le Conferenze operanti presso la presidenza del Consiglio. In questa direzione va il Codice dell’amministrazione digitale che, disciplinando (art. 14) i rapporti tra Stato, regioni e autonomie territoriali, fa della Conferenza unificata la sede per intese e accordi al fine di adottare “gli indirizzi utili per realizzare un processo di digitalizzazione dell’azione amministrativa coordinato e condiviso e per l’individuazione delle regole tecniche di cui all’art. 71” (34). (34) Dà molto rilievo al ruolo della Conferenza unificata D. MARONGIU, Il governo dell’informatica pubblica, Napoli, 2008. COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI 179 Come esempio di utilizzazione positiva degli strumenti di leale collaborazione si consideri la disciplina del Codice per la determinazione delle “basi di dati di interesse nazionale” (35). 10. Le funzioni di garanzia Accanto allo svolgimento di compiti, normativi e amministrativi, collegati al potere statale di coordinamento dei dati restano da organizzare, anche qui necessariamente a livello nazionale, le funzioni di garanzia. Si tratta di funzioni non collegate a “politiche” pubbliche, con due caratteristiche fondamentali: a) a tutela dei diritti dei cittadini, come alternativa all’affidamento alle autorità giurisdizionali, anche in virtù del carattere prevalentemente tecnico dei compiti di gestione e trattamento dei documenti e delle informazioni pubbliche; b) funzioni di garanzia indipendente da esercitarsi nei confronti delle pubbliche amministrazioni, di “tutte” le pubbliche amministrazioni. In questo settore il campo non è del tutto sgombro, esistono già dei soggetti indipendenti che svolgono compiti di tutela. In alcuni casi siamo di fronte a funzioni a presidio forte, mentre in altri la tutela è debole, se non addirittura assente. Nella prima categoria rientra senz’altro la tutela della privacy affidata ad un’Autorità (il Garante per la protezione dei dati personali) sicuramente dotata di indipendenza e di poteri effettivi e penetranti, ma soprattutto dotata di una consolidata competenza in materia di trattamento dei documenti e dei dati. Nella seconda (funzioni a presidio debole) troviamo l’accesso ai documenti amministrativi disciplinato dalla legge n. 241 del 1990. Il diritto all’accesso, oltre ad essere fortemente delimitato, sia oggettivamente che soggettivamente, dalla legge, trova una tutela quasi esclusivamente giurisdizionale (lo speciale procedimento davanti al giudice amministrativo) e non amministrativa. (35) All’art. 60, comma 3, si stabilisce che le basi di dati di interesse nazionale sono individuate con d.P.C.M., d’intesa con la Conferenza unificata e sentito il Garante per la protezione dei dati personali. 180 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO Opera, è vero, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, con poteri consultivi (a favore delle amministrazioni cui sono rivolte le richieste di accesso) e – più di recente – anche di carattere contenzioso: ma siamo lontani dal modello rappresentato dalla CADA francese o dall’Information Commissioner inglese, sia in termini di effettività delle decisioni e di poteri di disclosure, sia quanto alla collocazione istituzionale ed alla indipendenza dell’organo (36). Manca proprio un’autorità esperta in materia di trattamento dei documenti e delle informazioni (come il Garante della privacy), ma che operi nella direzione della messa a disposizione del cittadino delle informazioni piuttosto che della restrizione. Come esempio della terza categoria (funzioni senza presidio) troviamo settori ad importanza crescente: la pubblicità e la trasparenza, la qualità, il riutilizzo. In queste materie la disciplina vigente prevede comportamenti, vincoli, indirizzi per regolare e guidare l’attività delle amministrazioni titolari delle informazioni, ma senza che vi sia un soggetto, indipendente e efficace, in grado di dare una tutela effettiva ai diritti del cittadino, anche qui superando, se necessario, la volontà dell’amministrazione. Di qui è nata la proposta (37) per la costituzione di una “Autorità garante dell’informazione, della trasparenza e della riservatezza dei dati personali”. Non una nuova autorità, ma la trasformazione dell’attuale Garante della Privacy (di cui conserverebbe la acquisita capacità di trattamento dei dati) con l’attribuzione di compiti nuovi, anche opposti a quelli fin qui esercitati. Un’autorità, quindi, in grado di provvedere direttamente al bilanciamento tra gli opposti interessi connessi alla diffusione dei documenti e delle informazioni pubbliche. (36) In questo senso, da ultimo, si v. i rilievi di A. SANDULLI, La casa dai vetri oscurati: i nuovi ostacoli all’accesso ai documenti, in Gior. dir. amm., 2007, n. 6. (37) Vedi F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit. Titolarità e riutilizzo dei dati pubblici di BENEDETTO PONTI SOMMARIO: 1. Una premessa necessaria: il regime di appartenenza delle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni. – 1.1. Identificazione del bene oggetto della relazione di appartenenza, con riferimento alla disciplina del riutilizzo: l’informazione. – 1.2. Il regime di appartenenza: la titolarità dei dati pubblici. – 2. Le informazioni oggetto della disciplina sul riutilizzo. – 3. Natura del potere di “consentire” il riutilizzo. – 4. La disciplina del rapporto tra amministrazione cedente e soggetto riutilizzatore. – 4.1. I vincoli imposti alle attività poste in essere dai riutilizzatori. – 4.1.1. Segue: a tutela dei dati personali oggetto di riutilizzo – 4.1.2. Segue: a tutela della qualità dei dati oggetto di riutilizzo. – 4.2. Il contenuto del potere di “consentire” il riutilizzo. – 5. Il “costo” delle informazioni cedute a fini di riutilizzo. – 5.1. Il meccanismo di determinazione del prezzo delle informazioni e le politiche di valorizzazione del patrimonio informativo pubblico. – 5.2. Commercializzazione dei dati pubblici e statuto del “bene” informazione pubblica. – 5.3. L’impatto economico delle politiche tariffarie. – 6. L’amministrazione “monopolista” dell’informazione pubblica e gli istituti pro-concorrenziali nella disciplina del riutilizzo. – 7. Il riutilizzo di dati in formato digitale. 1. Una premessa necessaria: il regime di appartenenza delle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni La ricostruzione a sistema della disciplina delle modalità con le quali le amministrazioni mettono a disposizione le informazioni di cui sono titolari a fini di riutilizzo (1) richiede, in sede (1) Correttamente l’art. 2, comma 1, lett. e) del d.lgs. 36/2006 recante attuazione della direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti nel settore pubblico, definisce “riutilizzo”: “l’uso del dato di cui è titolare una pubblica amministrazione o un organismo di diritto pubblico, da parte di persone fisiche o giuridiche, a fini commerciali o non commerciali diversi dallo scopo iniziale per il quale il documento che lo rappresenta è stato prodotto nell’ambito dei fini istituzionali”. Meno correttamente, pertanto, l’art. 1, comma 1, individua 214 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO preliminare, un più complessivo inquadramento quanto al regime di “appartenenza” dei dati o, se si vuole, delle informazioni (2) detenute dalle pubbliche amministrazioni. Il riutilizzo, infatti, implica che i dati detenuti dalle amministrazioni pubbliche a fini istituzionali, siano messi a disposizione di altri soggetti, che li utilizzeranno a fini ulteriori e diversi rispetto ai fini istituzionali delle pubbliche amministrazioni. In questo rapporto, caratterizzato dal trasferimento di informazioni, le istituzioni pubbliche costituiscono il soggetto strutturalmente cedente: è pertanto evidente la necessità di chiarire la natura, ed i caratteri della relazione che intercorre tra p.a. cedente e la tipologia di beni ceduti (3) (i.e. le informazioni), sì da identificare correttamente l’oggetto del medesimo decreto nella disciplina delle “modalità di riutilizzo dei documenti contenenti dati pubblici nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico”. Infatti, le norme del d.lgs. n. 36 hanno ad oggetto non già le modalità di riutilizzo, quanto piuttosto regole e procedure attraverso cui le amministrazioni mettono a disposizione tali dati affinché altri possa riutilizzarli. (2) Si aderisce, qui, alla più ampia e consolidata opinione che considera il concetto di “dato” e quello di “informazione” qualitativamente omogenei, e che prospetta semmai (senza per altro definirla nei suoi confini) una distinzione (per l’ordine convenzionale) di carattere quantitativo: cfr. F. MERLONI, La documentazione amministrativa digitalizzata. Aspetti giuridici, in ID. (a cura di), Introduzione all’e-Government. Pubbliche amministrazioni e società dell’informazione, Torino, 2005, p. 97; G. FINOCCHIARO, La firma digitale, Bologna, 2000, p. 39. L’equivalenza dati-informazioni trova conferma, in termini positivi, all’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 193 Codice in materia di protezione dei dati personali (di seguito “Codice privacy”). Contra, cfr. A. MASUCCI, Il documento informatico. Lineamenti ricostruttivi della nozione e della disciplina, in Riv. dir. civ., 2004, n. 5, pp. 753-54. (3) In termini metodologici, è bene evidenziare da subito che le disposizioni del d.lgs. 36/2006 recante attuazione della direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti nel settore pubblico concorrono, in certa misura, alla stessa ridefinizione della relazione di appartenenza delle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, ed anzi proprio da queste si dovrà partire per identificare l’oggetto dell’indagine. Tuttavia, una ricognizione a più ampio spettro circa i caratteri di tale relazione appare comunque indispensabile, per due ordini di ragioni. In primo luogo, la disciplina del riutilizzo costituisce attuazione di una direttiva quadro europea: pertanto è necessario identificare i caratteri specifici in parte qua dell’ordinamento nazionale, al fine di cogliere gli adattamenti ed i condizionamenti che la disciplina di attuazione è destinata a subire a cagione della sua integrazione nel contesto ordinamentale domestico. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 215 l’ambiente giuridico all’interno del quale collocare ed interpretare la disciplina positiva del riutilizzo (4). 1.1. Identificazione del bene oggetto della relazione di appartenenza, con riferimento alla disciplina del riutilizzo: l’informazione Un primo elemento che è necessario chiarire concerne la stessa pertinenza e l’utilità, ai fini della ricostruzione della disciplina del riutilizzo, di una analisi che miri a chiarire i caratteri salienti del rapporto di appartenenza delle informazioni alle pubbliche amministrazioni. Le disposizioni rilevanti in materia, infatti, si prestano ad una ambiguità di fondo, che merita di essere immediatamente sciolta. Mentre, infatti, appare chiaro che oggetto del(l’attività in cui consisterà il) riutilizzo sono le informazioni (5), meno scontato – in prima battuta – è il fatto che esse costituiscano anche l’oggetto specifico del rapporto tra amministrazione cedente e soggetto riutilizzatore. Rileva, a questo proposito, l’impiego del termine “documento” per identificare l’entità che le pubbliche amministrazioni mettono a disposizione ai fini del riutilizzo (6). A seconda, infatti, del significato e della portata che In secondo luogo, la laconicità dei testi normativi di riferimento (sia la cornice comunitaria, che il dispositivo di attuazione nazionale) lasciano aperti all’interprete una serie di spazi che non possono essere correttamente riempiti se non in base ad una ricostruzione sistematica del quadro normativo sottostante. (4) Sulla necessità di chiarire preliminarmente natura, rilevanza e qualificazione giuridica degli interessi che legano un soggetto ad una informazione, al fine di fare luce sulle caratteristiche dei suoi rapporti giuridici come dante causa, si v. V. ZENO-ZENCOVICH, Cosa, ad vocem, in Dig. disc. priv., sez. civ., IV, pp. 452-453. (5) Cfr. le definizione di “riutilizzo” ai sensi del d.lgs. 36/2006 che fa riferimento “all’uso del dato” da parte dei soggetti riutilizzatori (art. 2, comma 1, lett. e), mentre questi ultimi sono identificati come coloro “che intendono riutilizzare dati delle pubbliche amministrazioni” (art. 5, comma 2); anche se non va sottaciuta l’asistematicità del legislatore che, invece, all’art. 1, fa riferimento al riutilizzo “di documenti” (commi 1 e 2), ovvero “di informazioni” (comma 4). (6) Infatti, sempre ai sensi del medesimo d.lgs., il soggetto cedente “rende disponibili i documenti al richiedente” (art. 5, comma 3), “mette a disposizione i documenti richiesti” ovvero “fornisce i documenti” (art. 6, comma 1 e 3) 216 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO si attribuiscono a tale termine, le conseguenze – in particolare per quanto concerne il regime di appartenenza, ma non solo – sono di non poco momento. Basti considerare che ai sensi del Codice dei beni culturali, i documenti (amministrativi), sia in quanto integrati in archivi delle pubbliche amministrazioni, sia come “singoli”, costituiscono beni inalienabili, appartenenti, a seconda dei casi, al demanio, o al patrimonio indisponibile, con una conseguente, chiara indicazione quanto al relativo regime di appartenenza (nel senso della proprietà pubblica in senso stretto) (7). Una via, utile a risolvere tale ambiguità, potrebbe essere quella di verificare se la disciplina giuridica del riutilizzo, nel momento in cui regola la fase di cessione, di messa a disposizione delle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, faccia riferimento alla necessaria intermediazione del contenente (la logica documento), ovvero direttamente al contenuto (la logica del dato), traendone le opportune conseguenze (8). Tuttavia questa strada presenta, a nostro avviso, due ordini di limiti. Il primo, di ordine positivo, risiede nella contraddittorietà del dato normativo: per un verso, oggetto della cessione sono ora i dati, ora i documenti (9); per altro verso, lo stesso termine “documento” viene utilizzato, di volta in volta, con riferimento a categorie di supporti idonei a dare rappresentazione (contenente), ovvero all’entità rappresentata (contenuto) (10). (7) Cfr. l’art. 54, comma 1, lett. d) e comma 2, lett. c) del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42; cfr. M. BOMBARDELLI, Documento amministrativo, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. CASSESE, Milano, 2006, p. 2024. (8) Sulla portata e le conseguenze di tale distinzione, con particolare riguardo alla tematica dell’accesso, si v. il contributo di E. MENICHETTI, in questo volume. (9) Ai riferimenti di cui alla precedente nota n. 4 (cessione/messa a disposizione di “documenti”), si contrappone il dato testuale di cui all’art. 50, comma 1 del 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale (di seguito CAD), dove sono i “dati” gestiti dalle amministrazioni ad essere messi a disposizione (anche) a fini di riutilizzo. (10) In linea generale, alla definizione di documento fatta propria dalla normativa nazionale (“la rappresentazione di atti, fatti e dati a prescindere dal supporto nella disponibilità della pubblica amministrazione”, art. 2, comma 1, lett. c), d.lgs. 36 del 2006), si contrappone quella comunitaria (“qualsiasi contenuto, a prescindere dal suo supporto”, art. 2, comma 3, lett. a) della direttiva 2003/98/CE). Peraltro, anche all’interno della stessa normativa nazionale, TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 217 Il secondo, di ordine sistematico, attiene alla stessa utilità di una alternativa informazioni/documenti. Per le ragioni che seguono. Certamente, non appare persuasiva l’opzione che, nel riconoscere nel documento il medium necessitato della trasmissione delle informazioni, identifichi in esso anche l’oggetto di tale transazione. Vale ad escludere tale opzione la conseguenza, palesemente assurda, per cui, quantomeno in ordine ai documenti cartacei (11), l’amministrazione dovrebbe – a tale fine – privarsi della proprietà del bene (12). D’altra parte, anche nel caso specifico in cui l’oggetto della trasmissione tra amministrazione ed il concetto di documento assume significati variabili: nell’art. 3, in cui sono identificati i documenti esclusi dall’applicazione della disciplina del riutilizzo, sono catalogati sia categorie di contenenti (lett. d)-g)), sia categorie dall’incerta natura (lett. a)-c)), sia categorie di contenuti (lett. h)). (11) Non appare, infatti, del tutto persuasiva la tesi di una applicabilità sic et simpliciter del regime di appartenenza dei documenti amministrativi cartacei a quelli informatici (come sembra proporre M. BOMBARDELLI, loc ulti. cit.), proprio in ragione delle peculiarità di questi ultimi; v. infra. (12) D’altra parte, la ratio che sottende alla inalienabilità dei documenti amministrativi (ed alla riconduzione di essi al demanio, ovvero al patrimonio indisponibile) non attiene alle esigenze di tutela e conservazione delle informazioni in essi contenute, ovvero non solo ad esse, quanto piuttosto alla conservazione del documento amministrativo come insieme strutturato di informazioni cristallizzate in un dato documento, storicamente e sistematicamente identificato. Rileva, in questo contesto, la tradizionale materialità del documento cartaceo in connessione con l’esigenza di tutela e conservazione di esso ai fini della sua perpetuazione come fonte di conoscenza. Non a caso, le preoccupazioni manifestate dalla scienza archivistica in ordine ai documenti informatici concernono specificamente l’immaterialità (o, più correttamente, la peculiare materialità) del supporto, con le conseguenze che ciò determina in ordine ai profili della loro tutela e conservazione (non solo dell’informazione in essi contenuta, ma del documento come insieme strutturato di contenuti). Sulla materialità, quale caratteristica necessitata dei beni culturali, si v. C. BARBATI, M CAMMELLI, G. SCIULLO, Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2006, p. 9; sugli archivi ed i problemi della conservazione dei documenti informatici, si.v. M. GUERCIO, La documentazione di fonte pubblica: dal punto di vista degli archivi, in MERLONI (a cura di), L’informazione delle pubbliche amministrazioni, Rimini, 2002, pp. 332 ss.; L. GIUVA, S. VITALI, I. ZANNI ROSIELLO, Il potere degli archivi, Milano, 2007; per una interessante e persuasiva ricostruzione dei caratteri della documentazione informatica, si v., da ultimo, R. BIANCHINI, Il documento informatico ed i fatti a necessaria documentazione digitale, in www. teutas.it, 2007. 218 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO interessato è pacificamente il documento, questa avviene per mezzo di estrazione di copia; ossia mediante un altro documento (sebbene di identico contenuto) rispetto a quello cui si fa richiesta di accesso (13). A differenza dell’esercizio del diritto di accesso, però, nel caso della cessione di informazioni/documenti a fini di riutilizzo, il soggetto “ricevente” è interessato non all’informazione in quanto strutturata e contenuta in un determinato documento amministrativo, ma all’informazione in quanto tale, per la sua capacità informativa intrinseca (14). Oggetto della transazione è, in altri termini, l’informazione nella usa essenzialità. Tuttavia, questa entità, per le sue caratteristiche proprie, ossia quale entità immateriale, non può essere comunicata se non tramite una qualche forma di concretizzazione/rappresentazione. Pertanto, se l’informazione è l’oggetto del rapporto, il suo trasferimento necessita di una qualche forma di rappresentazione, così che il documento torna in rilievo, ma (a questi fini) solamente nella sua indispensabile dimensione strumentale (15). Riepilogando: se è l’informazione ad essere oggetto del rapporto (mentre l’entità documentale assume nella vicenda una valenza solo strumentale) è in relazione all’informazione in quanto bene che pare utile delineare – ai fini di una ricostruzione dei profili giuridici del riutilizzo – il relativo regime di appartenenza (alle pubbliche amministrazioni). (13) È il caso del diritto di accesso, per il quale si rinvia al contributo di E. MENICHETTI, in questo volume. (14) Questa differenza sostanziale, fondamentale ai fini del nostro discorso, trova riscontro nella circostanza per cui mentre la richiesta di accesso va presentata “all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente” (art. 25, comma 2, legge 241/1990), le domande inerenti al riutilizzo vanno presentate al titolare del dato (art. 5, d.lgs. 36/2006). (15) Ciò che trova riscontro nell’ampiezza della definizione di “documento” ai fini del riutilizzo (cfr. art. 2, comma 1, lett. c) del d.lgs. 36/2006). Per la differenza tra il ruolo del documento come elemento che concorre ad integrare il valore (legale, certificativo, storico ecc.) di una determinata informazione, e il documento come mero strumento di esternazione di essa, e le conseguenze di tale differenza sul riutilizzo di informazioni diffuse dalle p.a., si v. Cons. St., sez. IV, 24 ottobre 1994, n. 823, nonché T.A.R. Lombardia, sez. III, 15 dicembre 1998, n. 2935. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 219 1.2. Il regime di appartenenza: la titolarità dei dati pubblici La ricostruzione dei tratti essenziali del regime di appartenenza alle pubbliche amministrazioni delle informazioni da esse detenute non può che muovere dai caratteri specifici del bene (l’informazione) oggetto del rapporto. Caratteri che si condensano nella natura incorporale dell’entità oggetto del rapporto. La non-corporalità o, secondo una terminologia più diffusa in letteratura, l’immaterialità dell’informazione comporta, infatti, una conseguenza essenziale: dal punto di vista strutturale, l’informazione è illimitatamente riproducibile (16). In ragione di tale caratteristica, essa si configura come bene strutturalmente non rivale, dal momento che il suo godimento (17) da parte di un soggetto non è incompatibile con il godimento altrui (18); in particolare perché detto godimento non determina il consumo o il deperimento del bene. Tali caratteristiche incidono in maniera determinante sul regime di appartenenza delle informazioni. In termini generali, è da escludersi l’esistenza di una clausola generale che consenta l’appropriazione o, in termini più generali, la rivendicazione di diritti di esclusiva sull’informazione in quanto tale (19). Il riconoscimento di tali pretese, infatti, è limitato e condizionato al verificarsi di ulteriori requisiti dell’informazione, relativi alla originalità/creatività dell’idea o della struttura di cui si compone l’informazione (20). Pertanto, al di fuori di questi casi, la pretesa (16) È agevole notare che questa caratteristica, propria dell’entità-informazione in quanto tale, è stata portata a frutto ed esaltata dall’avvento delle ICT, che hanno reso anche estremamente agevole, e non solo concretamente praticabile (e praticata), detta potenziale illimitata riproducibilità. (17) Per godimento si intende sia la diretta fruizione dell’informazione, in ragione della sua valenza informativa (rapporto tra soggetto e bene); sia l’uso o lo sfruttamento dell’informazione, che è una forma di godimento necessariamente indiretta e dinamica, attraverso la relazione con terzi (relazione tra soggetti); in questi termini D. MESSINETTI, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano, 1970, p. 59. (18) “beni suscettibili di godimento plurimo contestuale”, secondo D. MESSINETTI, Beni immateriali, Diritto privato, in Enc. Giur., V, Roma, 1988, p. 5. (19) In questi termini V. ZENO-ZENCOVICH, Cosa, cit., 454. (20) È il caso dei diritti di proprietà intellettuale, quali il diritto d’autore e la privativa industriale, il cui riconoscimento e la cui tutela sono subordinati ai connotati (aggiuntivi) di novità/originalità o novità/industrialità delle 220 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO ad un rapporto di appropriazione (con le connesse, tradizionali facoltà di detenere, godere e disporre in via esclusiva) dell’informazione appare priva di tutela, in termini generali (21). Può, invece, venire in rilievo il momento patologico della lesione dello ius excludendi, in tutti quei casi in cui l’ordinamento riconosce determinate forme di esclusività, finalizzate – però – alla tutela di interessi ulteriori (22): ciò che comporta piuttosto il consolidarsi informazioni. A conferma della tesi, si noti che il meccanismo alla base della proprietà intellettuale/industriale “non è altro che un sistema per introdurre nel sistema economico una scarsità artificiale di un bene non rivale e non escludibile come la conoscenza” (L. MARENGO, C. PASQUALI, L’economia dei diritti di proprietà nell’era di internet: alcuni paradossi e problemi, in A.C. AMATO MANGIAMELI (a cura di), Parola chiave: informazione. Appunti di diritto, economia e filosofia, Milano, 2004, p. 161). Circa la difficoltà di individuare, sulla base dell’analisi economica del diritto, il giusto punto di equilibrio in ordine al riconoscimento di diritti esclusivi sull’informazione, già H. DEMSETZ, Information and Efficiency: Another Viewpoint, in Journal of Law and Economics, 1969. Va segnalato che all’inizio del XXI secolo la classica prospettiva favorevole al riconoscimento di tali diritti, ispirata alla dottrina della Tragedy of Commons, pure ancora ampiamente dominante, è sottoposta a profonda critica, proprio a partire dalle caratteristiche intrinseche dell’informazione, come elemento base dell’economia della conoscenza: si v. M.A. HELLER, The Tragedy of the Anticommons, Harvard Law Review, January 1998, ed i contributi raccolti in J. BOYLE (a cura di), The Public Domain, in Law and Contemporary Problems, (66) Winter-Spring 2003 (v. anche infra). (21) D’altra parte, l’assenza di una clausola generale in ordine alla appropriabilità dell’informazione (in quanto tale) pare direttamente strumentale a non ostacolarne la più ampia e libera capacità di circolazione, soprattutto in un contesto tecnologico, economico e sociale che tende progressivamente ad abbattere i costi ed a potenziare la velocità e la capillarità di tale circolazione. Né va sottovalutato che tale caratteristica pare coerente con le finalità tutelate dall’art. 21 Cost. In termini positivi, l’assenza di tale clausola pare confermata, ad esempio, dall’art. 12, comma 2, lett. c), del r.d. 29 giugno 1939, n. 1127, in materia di brevetti per invenzioni industriali, secondo cui “non possono costituire oggetto di brevetto [...] le presentazioni di informazioni”, o, ancora, dagli artt. 2, 65, 66 e 101 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d’autore, dai quali si deduce che “la semplice informazione quando sia astratta dalla sua particolare espressione creativa o quando sia stata sin all’origine espressa senza alcuna creatività non può formare oggetto di diritto di autore ed è liberamente riproducibile”, L.C. UBERTAZZI, Raccolte elettroniche di dati e diritto d’autore, in Foro it., 1984, V, c. 26. (22) Si pensi alla inviolabilità delle comunicazioni personali e del domicilio, oppure alla riservatezza delle informazioni pertinenti ad un rapporto professionale (medico, avvocato, etc.), ed in generale alle diverse ipotesi di tutela del segreto o della riservatezza. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 221 di specifici doveri (di segretezza, riservatezza, non divulgazione, ecc.) in capo al detentore delle informazioni. Un secondo ordine di conseguenze, derivanti dalla natura immateriale e dei connessi caratteri della illimitata riproducibilità e della non rivalità del bene informazione, riguarda l’inadeguatezza non tanto del regime dei beni pubblici, quanto piuttosto della stessa ratio sottesa a detto regime (23), se riferita alle informazioni. In effetti, anche i più recenti istituti finalizzati alla conservazione della destinazione dei beni pubblici (24) appaiono comunque non congruenti, se non del tutto inadatti a fronte di beni strutturalmente non rivali (25). Così, se si guarda al regime di “appartenenza” pubblica delle informazioni, positivamente tradotto nella situazione della titolarità dei dati (26), ci si avvede che essa non appare caratterizzata, (23) Tradizionalmente, il regime speciale dei beni pubblici consiste “in una disciplina particolarmente protettiva dei medesimi beni, diretta ad assicurare che questi, direttamente ed immediatamente strumentali all’esercizio di diritti collettivi o di funzioni e servizi pubblici, si conservino integri e non siano sottratti alla loro destinazione istituzionale dalla stessa pubblica amministrazione o da soggetti terzi”, così M. RENNA, Beni pubblici, in Dizionario di diritto pubblico, cit., I, 715 (corsivi miei). (24) Se per effetto dei processi di privatizzazione (dei beni o degli enti proprietari), l’asse della specialità del regime va collocandosi non più sulla necessaria, formale e soggettiva “appartenenza” pubblica dei beni, ma piuttosto sulla sostanziale e oggettiva loro “destinazione pubblica” (si v. M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004, ma anche M. DUGATO, Il regime dei beni pubblici: dall’appartenenza al fine, in Valori e principi del regime repubblicano, 2. S. LABRIOLA (a cura di), Diritti e libertà, Bari, 2006, pp. 219 ss.), immutata resta la finalità delle misure dirette a garantire integrità dei beni e loro destinazione. (25) Pertanto, anche nell’ottica (che qui si condivide) per cui le informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, con le eccezioni del caso (si pensi ai dati personali), vadano trattate alla stregua di beni pubblici in senso oggettivo, ossia beni da destinare alla fruizione del pubblico (questione che però va risolta non in termini ideologici, ma alla stregua del diritto positivo), è evidente che sia il tradizionale schema della proprietà pubblica in senso stretto, sia il più attuale schema della destinazione pubblica non appaiono soluzioni adeguate, né pienamente soddisfacenti: ma, sul punto, v. infra, par. 5.2; sul passaggio del trattamento dai dati come proprietà delle p.a., ai dati della p.a come bene pubblico, e le connesse esigenze di un loro governo condiviso, si v. il contributo di F. MERLONI, in questo volume. (26) Con il termine “titolarità dei dati” si designa una situazione giuridica di detenzione qualificata dell’informazione da parte della singola amministra- 222 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO in quanto tale, da diritti potestativi di uso e di godimento esclusivo (o escludente), quanto piuttosto da specifiche situazioni di dovere. In particolare, accanto ai doveri di tutela della riservatezza (pubblica e privata), validi per determinate categorie di informazioni, la titolarità dei dati è positivamente caratterizzata dal generale dovere di mettere a disposizione delle (altre) componenti del sistema pubblico le informazioni detenute (27), cui si accompagnano significativi istituti e doveri strumentali (28). Si tratta di connotati peculiari che, come vedremo di qui a poco, trovano significativo riscontro nei dati positivi di regolazione del riutilizzo delle informazioni pubbliche. zione, non riconducibile alla mera detenzione di fatto (come, ad esempio, nel caso della detenzione di informazioni ambientali, ai sensi v. l’art. 2, comma 1, lett. c) del d.lgs. 19 agosto 2005, n. 195 recante Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale, che fa riferimento alla “informazione ambientale in possesso di una autorità pubblica in quanto dalla stessa prodotta o ricevuta o materialmente detenuta da persona fisica o giuridica per suo conto”): lo scarto tra (mera) detenzione e titolarità pare presupposto dall’art. 58, comma 1 del CAD, secondo cui “il trasferimento di un dato da un sistema informativo ad un altro non modifica la titolarità del dato”. La qualificazione giuridica della detenzione in termini di titolarità – funzionale alla imputazione delle situazioni di potere, facoltà e dovere sulle informazioni detenute, (v. infra) – è più volte richiamata nel CAD, ma (niente affatto casualmente) trova una sua definizione (solo) nel d.lgs. n. 36 del 2006 (cfr. l’art. 2, comma 1 lett. i): “titolare del dato: la pubblica amministrazione o l’organismo di diritto pubblico che ha originariamente formato per uso proprio o commissionato ad altro soggetto pubblico o privato il documento che rappresenta il dato”). (27) Cfr. art. 50, comma 2 del d.lgs. 7 maggio 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale (di seguito CAD), “Qualunque dato trattato da una pubblica amministrazione [...], è reso accessibile e fruibile alle altre amministrazioni quando l’utilizzazione del dato sia necessaria per lo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministrazione richiedente”. (28) Quali, ad esempio, il dovere in capo all’amministrazione titolare dei dati di predisporre, gestire ed erogare i servizi informatici necessari per rendere possibile l’utilizzo in via telematica dei dati da parte dei sistemi informatici delle altre amministrazioni (art. 50, comma 3 del CAD); le funzioni assicurate dal Sistema pubblico di connettività e le relative regole tecniche (artt. 71 ss. del CAD); l’istituto dell’accesso interamministrativo telematico come strumentale all’accertamento d’ufficio (artt. 58 e 60 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445). TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 223 2. Le informazioni oggetto della disciplina sul riutilizzo Al di là delle finalità perseguite dalla direttiva n. 98/2003, che si inserisce in un più ampio contesto di politiche comunitarie volte ad incentivare le dinamiche economiche ma anche i processi culturali, sociali ed istituzionali della c.d. ‘società della conoscenza’, l’effetto diretto della sua attuazione, con il d.lgs. n. 36 del 2006, consiste nella predisposizione di un quadro generale di principi e di regole in ordine alle modalità attraverso cui le pubbliche amministrazioni rendono disponibile e fruibile il loro patrimonio informativo all’esterno del sistema pubblico (29), in base alla considerazione che tale risorsa può rappresentare la base o una delle componenti per la realizzazione di utilità ulteriori. Si tratta di un effetto di non poco momento, se solo si considera che il nostro ordinamento non conosceva, in precedenza, nessuna disciplina generale della materia, e che le amministrazioni si regolavano per lo più ciascuna per proprio conto. Il primo elemento di rilievo di tale disciplina consiste nella perimetrazione, rispetto all’insieme complessivo delle informazioni detenute a vario titolo dalle amministrazioni, del sottoinsieme cui sono applicabili gli istituti finalizzati al riutilizzo. Tale delimitazione opera in due direzioni: 1) in positivo, individuando in termini generali l’oggetto della disciplina nei dati pubblici, ossia i dati “conoscibili da chiunque” (30); 2) in negativo, individuando esplicitamente le categorie di dati esclusi dal campo di applicazione della disciplina in oggetto. Detta delimitazione, in sostanziale accordo con le indicazioni della direttiva, è rivelatrice della incidenza del regime di apparte(29) Come si è già notato, la messa a disposizione delle informazioni all’interno del sistema pubblico in vista dell’assolvimento dei compiti istituzionali delle diverse articolazioni della Repubblica è retta dal principio di fruibilità e di leale collaborazione, di modo che la cessione delle informazioni a tali fini costituisce per le amministrazioni titolari un preciso dovere: v. M.P. GUERRA, Circolazione dell’informazione e sistema informativo pubblico: profili dell’accesso interamministrativo telematico, in Dir. pubbl., 2005, pp. 525 ss.; ed il contributo di F. MERLONI, in questo volume. (30) Cfr. art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. d) del d.lgs. 36/2006, che riproduce la definizione di “dato pubblico” già contemplata dal Codice dell’amministrazione digitale. 224 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO nenza sulla regolamentazione della cessione delle informazioni da parte delle amministrazioni. Infatti, entrambi i criteri di delimitazione valgono a sottrarre dal regime del(la cessione a fini di) riutilizzo quelle informazioni detenute dalle amministrazioni sulle quali insista una qualche ipotesi di diritto (di uso) esclusivo, ovvero qualche ragione escludente la loro (ulteriore, e diversa) conoscibilità. E così, tra i dati esplicitamente sottratti al regime del riutilizzo, si ritrovano quelli su cui terzi (31) o la stessa amministrazione (32) possano vantare diritti di proprietà intellettuale o industriale, ovvero doveri pubblici di conservazione/destinazione. E restano escluse anche quelle informazioni che sono presidiate da specifici regimi di conoscenza esclusiva in capo alle amministrazioni, per ragioni di (tutela della) riservatezza, sia pubblica che privata (33). Si noti, ciò non significa che per questo genere di informazioni sia, in ogni caso, preclusa la cessione a terzi, ma semplicemente che tale cessione (ove possibile) resterà soggetta a regole e condizioni differenti da quelle prescritte dalla disciplina sul riutilizzo (34). (31) Cfr. le ipotesi di cui all’art. 3, comma 1, lett. h). (32) Cfr. art. 3, comma 1, lett. b) (documenti/dati nella disponibilità delle emittenti di servizio pubblico per l’adempimento di un compito di radiodiffusione di servizio pubblico); lett. c): (documenti/dati nella disponibilità di istituti d’istruzione e di ricerca, scuole, università, archivi, biblioteche ed enti di ricerca, comprese le organizzazioni preposte al trasferimento dei risultati della ricerca); lett. d) (documenti/dati nella disponibilità di enti culturali quali musei, biblioteche, archivi, orchestre, teatri lirici, compagnie di ballo e teatri). (33) Cfr. art. 3, comma 1, lett. e) (informazioni coperte da segreto di stato); e lett. g) (documenti comunque sottratti al diritto di accesso, anche a tutela della vita privata e della riservatezza di terzi), ma soprattutto, per quanto concerne la tutela dei dati personali, la norma di salvaguardia, che fa salvi gli effetti della disciplina sulla protezione dei dati personali di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (cfr. art. 4, comma 1, lett a)). (34) È, cioè, evidente l’intento del legislatore di salvaguardare le prerogative delle diverse tipologie di proprietà intellettuale quali condizioni di accesso ai contenuti informativi che ricadano sotto questo genere di tutela. Ovvero, di fare salvi i limiti e le (stringenti) condizioni, in merito alla legittimazione del richiedente, alle finalità dell’utilizzo e al consenso dell’interessato, per quanto concerne la fruibilità di dati personali di terzi (con particolare riguardo ai dati sensibili e supersensibili), anche quando raccolti a fini statistici (cfr. art. 4, comma 1, lett f)). Ovvero, ancora, di preservare le peculiari modalità di fruizione di determinate tipologie di informazioni, già oggetto di una propria TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 225 Al netto delle categorie escluse, ci si avvede che il regime finalizzato alla fruibilità a fini di riutilizzo ha ad oggetto le (sole) informazioni sulle quali né terzi, né l’amministrazione stessa, possono vantare diritti di godimento o di uso esclusivi. Si aggiunga che la integrale salvaguardia della disciplina sul diritto d’autore (35) – anche con riguardo alle banche dati – fornisce elementi utili non a smentire, ma semmai a confermare tale conclusione (36). Una constatazione importante, come vedremo di qui a poco, ai fini della ricostruzione del ruolo e dei poteri dell’amministrazione “cedente”. Un’ultima notazione, ai fini della identificazione dell’oggetto del regime del riutilizzo, concerne invece il supporto documentale come medium necessario per la rappresentazione/cessione dell’informazione. Occorre sottolineare, infatti, che la dimensione documentale oltre che strumento necessitato, costituisce anche un limite nella individuazione delle informazioni pubbliche potenzialmente oggetto di riutilizzo, dal momento che la disciplina solleva l’amministrazione dall’onere di creare nuovi documenti (ovvero, di adattare in misura rilevante quelli già detenuti) al fine specifica disciplina, come nel caso dei dati della borsa continua nazionale del lavoro, dell’anagrafe del lavoratore e dei dati assunti in materia di certificazione dei contratti di lavoro, di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, esclusi dal regime del riutilizzo ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. f). (35) Cfr. l’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. 36/2006. (36) Infatti, anche ad ammettere che le amministrazioni siano in tutti i casi effettivamente titolari di un diritto d’autore sulle banche dati da esse costituite (poiché è dubbio che si possa riconoscere il requisito della originalità o della creatività della scelta e della disposizione delle informazioni – oggetto della tutela del diritto d’autore nel caso delle banche dati – quando essa risponda a requisiti e finalità stabiliti dall’ordinamento), tale diritto concerne la banca dati nel suo complesso in quanto creazione intellettuale, e non anche i dati in essa catalogati. Inoltre, la tutela specifica del diritto sui generis, che prescinde dal carattere dell’originalità delle modalità di raccolta, e che mira invece a tutelare l’investimento economico necessario alla costituzione della banca dati, e che consiste nella possibilità di vietare le operazioni di estrazione ovvero di reimpiego della totalità o di una parte sostanziale della stessa, significativamente non trova applicazione quando il costitutore sia una pubblica amministrazione (essendo tutelate solo le persone fisiche, le imprese e le società): cfr. artt. 64quinquies, 64-sexies, 102-bis e 102-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633 e s.m.i.; sul punto, si v. le considerazioni di D. REDOLFI e F. VEUTRO, La tutela giuridica delle banche dati della pubblica amministrazione, in www.interlex.it. 226 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO di soddisfare le richieste di riutilizzo. Pertanto, le informazioni saranno disponibili per il riutilizzo unicamente nelle strutture documentali in cui sono state raccolte (37). 3. Natura del potere di “consentire” il riutilizzo Nonostante una qualche ambiguità presente nel testo normativo, si può senz’altro affermare che la disciplina nazionale configura la messa a disposizione delle informazioni a fini di riutilizzo da parte del titolare dei dati come un’attività di carattere non doveroso. I dati che conducono a questa conclusione sono molteplici, e vanno esaminati separatamente. In termini testuali, l’art. 1, comma 2 è inequivocabile nell’affermare che: a) “le pubbliche amministrazioni e gli organismi di diritto pubblico non hanno l’obbligo di consentire il riutilizzo dei documenti” di cui dispongono; e che b) “la decisione di consentire o meno tale riutilizzo spetta all’amministrazione o all’organismo interessato, salvo diversa previsione di legge o di regolamento”. Esclusa, quindi, l’opzione della situazione di obbligo, resta da capire se il potere (38) che residua in capo all’amministrazione nel decidere se “consentire” il riutilizzo, vada configurato in termini di potere-dovere, ovvero nei termini di facoltà di scelta rimessa all’autonoma determinazione della stessa amministrazione, con evidenti conseguenze in ordine (37) Cfr. l’art. 6 del d.lgs. 36/2006. Si tratta, all’evidenza, di un principio a salvaguardia dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa (che, in questo senso, riproduce il limite sancito a proposito del diritto di accesso dall’art. 22, comma 4 della legge 241/1990), che tuttavia trova una minore giustificazione – su questo piano – dal momento che l’attività non costituisce un dovere dell’amministrazione, e che quest’ultima – in base dei criteri di tariffazione stabiliti al successivo art. 7 – potrebbe integralmente recuperare i costi aggiuntivi. Ad altri fini, però, tale limitazione si rivela decisiva, dal momento che fornisce un chiaro criterio che consente di distinguere la cessione di informazione a fini di riutilizzo da altre attività, poste in essere dalle stesse amministrazioni, che integrano un riutilizzo posto in essere dalla stessa amministrazione; ma sul punto, v. infra, par. 6. (38) La scelta rimessa all’amministrazione viene qualificata expressis verbis come esercizio di “potere” dal successivo comma 4 dell’art. 1. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 227 al regime applicabile all’esercizio di tale potere. Per concludere nel senso del riconoscimento di un potere di natura pubblicistica la sola finalizzazione, forse desumibile dal tenore dell’art. 1, comma 4 (39), non è, però elemento concludente, dal momento che – invece – è del tutto assente l’indicazione delle regole, dei principi e dei criteri volti a delimitare la discrezionalità della scelta in ordine all’an (40). Ciò che trova conferma nella clausola di rinvio ad ulteriori, specifici atti normativi al fine di regolare tale potere di scelta, al fine di sottrarlo alle amministrazioni (41); così come nella mancata previsione di rimedi avverso la decisione negativa dell’amministrazione (42). In questi termini, pertanto, la (39) “La finalità di rendere riutilizzabile il maggior numero di informazioni” appare, comunque, alquanto generica, inidonea a costituire ragione giustificatrice di una doverosità sull’an, tanto più che lo stesso comma 4 la collega strettamente alla necessità di assicurare condizioni eque, adeguate e non discriminatorie ai riutilizzatori (in una fase, quindi, successiva alla scelta sul se consentire o meno il riutilizzo). (40) Come già evidenziato, le numerose disposizioni presenti nel d.lgs. n. 36 del 2006 che impongono modalità eque e non discriminatorie nell’attività di cessione delle informazioni a fini di riutilizzo (v. infra) non sono idonee a condizionare la scelta relativa al se consentire il riutilizzo, in quanto la presuppongono come già avvenuta (in termini positivi). Tale scelta, quindi, “sembra, in effetti, configurarsi come esercizio di un indefinito potere autoritativo, più che come una funzione volta a realizzare gli obiettivi indicati dalla direttiva”, secondo I. D’ELIA, La diffusione e il riutilizzo dei dati pubblici. Quadro normativo comunitario e nazionale: problemi e prospettive, in Inf e dir., 2006, p. 44. (41) La direttiva, laddove chiarisce di non prescrivere l’obbligo di consentire il riutilizzo, ma di rimettere la decisione allo Stato membro o all’amministrazione interessata (considerando n. 9), evidentemente consente al legislatore nazionale di scegliere tra due opzioni radicalmente divergenti: ove sia lo Stato membro ad effettuare la scelta (positiva) di consentire il riutilizzo, per le amministrazioni la conseguente attività di cessione delle informazioni si configura, evidentemente, come doverosa; non così, nel caso contrario (ossia, quando lo Stato membro rimetta in toto la scelta sull’an all’amministrazione interessata). E questo secondo, pare proprio essere il caso della disciplina italiana. (42) La disciplina quadro comunitaria prescrive che le amministrazioni destinatarie di richiesta di riutilizzo esplicitino, in caso di rifiuto, le ragioni della decisione, indicando anche i mezzi di ricorso a disposizione del richiedente (cfr. art. 3, commi 3 e 4 della direttiva 2003/98/CE): ma nel decreto 36/2006 non c’è traccia di tutto ciò. Anche in questo caso, le uniche disposizioni in materia si occupano solo di regolare le procedure di presentazione della richiesta di riutilizzo, ovvero di prevedere l’indicazione dei mezzi di impugnazione delle licenze standard: tutte circostanze che presuppongono come già intervenuta 228 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO decisione rimessa alle amministrazioni titolari dei dati pare da ricondursi alla rispettiva autonoma potestà di scelta. Un secondo ordine di considerazioni, che porta ad escludere la doverosità dell’attività di cessione delle informazioni a fini di riutilizzo, è da ricondurre alla “signoria” esercitata su tale regime dalla disciplina nazionale del diritto di accesso (43). Si vuole, con ciò, sottolineare non solo che la disciplina del riutilizzo non è indifferente ai caratteri che connotano la disciplina del diritto di accesso, ma che questi secondi paiono condizionare in modo rilevante l’assetto della prima. In particolare, i peculiari requisiti di legittimazione (44) che caratterizzano il diritto di accesso domestico (45), sembrano costituire un ostacolo oggettivo alla configurazione in termini di doverosità dell’attività di cessione delle informazioni detenute dalle amministrazioni a fini di riutilizzo, per la semplice – ma decisiva – ragione che, per ragioni la scelta di consentire il riutilizzo (cfr. l’art. 5, comma 2: il fatto che la richiesta finalizzata ad ottenere i documenti a fini di riutilizzo vada formulata con “le modalità stabilite dal titolare del dato con proprio provvedimento”, è indice evidente che l’amministrazione in questione ha già assunto le preliminari determinazioni di mettere a disposizione le informazioni a fini di riutilizzo; lo stesso dicasi, in ordine alla previsione di cui all’art. 8. comma 1). (43) Sulla “signoria” del regime di accesso su quella del riutilizzo, nel contesto giuridico europeo, si v. anche B. PONTI, Il patrimonio informativo pubblico come risorsa: i limiti del regime italiano di riutilizzo dei dati delle pubbliche amministrazioni, in Dir. pubbl., n. 3, 2007, cui sia consentito di rinviare. (44) È noto che, nell’ordinamento italiano, il soggetto che intenda fare accesso ai documenti detenuti dalla pubblica amministrazione deve dimostrare il proprio “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”; ma sul punto si rinvia al contributo di E. MENICHETTI, in questo volume. (45) Sulla eccezionalità del caso italiano, quanto al requisito della legittimazione soggettiva quale presupposto per l’accesso ai documenti della pubblica amministrazione, si v. M. MCDONAGH, European access legislation: Consistence or Divergence?, in G. AICHOLZER, H. BURKERT (a cura di), Public sector information in the digital age, Cheltenham – Northampton, 2004, pp. 108 ss.; dove si sottolinea che in nessun paese europeo (tranne l’Italia e, per determinate categorie di documenti, la Grecia) è prescritta la dimostrazione di uno specifico interesse per ottenere informazioni o documenti dalle amministrazioni pubbliche. Per un approfondimento sulla disciplina del diritto di accesso in Francia, UK, Germania e Spagna, si rinvia ai saggi contenuti nella prima parte di questo volume. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 229 strutturali, la richiesta di riutilizzo non può essere vincolata alla dimostrazione di una condizione soggettiva legittimante (ulteriore, e diversa da quella, del tutto aspecifica, dell’interesse al riutilizzo). Di conseguenza, una disciplina che prevedesse la doverosità della cessione di informazioni (a fini di riutilizzo), si porrebbe in aperto contrasto con il regime italiano del diritto di accesso (quantomeno, nella sua attuale formulazione), finendo per sovvertirne la filosofia di fondo e gli specifici caratteri positivi (46). Tale prospettiva, però, pare preclusa dalla stessa direttiva 98/2003, laddove prescrive che la disciplina sul riutilizzo (adottata in sede di attuazione) debba basarsi sui regimi esistenti del diritto di accesso, senza modificarne i principi (47). Questa preferenza accordata ai regimi nazionali di accesso all’informazione pubblica, (46) Sul punto, è sufficiente constatare (in via ipotetica) che la configurazione come doverosa dell’attività di messa disposizione delle informazioni da parte delle amministrazioni a fini di riutilizzo, finirebbe per offrire ai richiedenti uno strumento più penetrante ed efficace di accesso all’informazione rispetto allo stesso diritto di accesso della legge 241/1990, dal momento che non sarebbe richiesta la dimostrazione della condizione di legittimazione soggettiva alla conoscenza delle informazioni richieste. Per fare un esempio concreto, si pensi alle numerose richieste di accesso che le associazioni di consumatori si sono viste respingere in ragione della carenza del requisito soggettivo, per eccessiva onerosità della richiesta o perché comportanti un controllo generalizzato sull’operato della p.a. (cfr., ad esempio, Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2007, n. 2314; Cons. St., sez. V, 25 settembre 2006, n. 5636; Cons. St., sez. VI, 10 febbraio 2006, n. 555). Si tratta di fattori ostativi che – a tutta evidenza – non possono operare nel caso del riutilizzo: oltre alla inconferenza della legittimazione soggettiva, anche la eccessiva onerosità parrebbe non deducibile (il riutilizzo non può che avere ad oggetto anche masse ingenti di documenti), così come pure il divieto di controllo generalizzato (le finalità del riutilizzo attengono, infatti, all’autonoma determinazione del richiedente/riutilizzatore, e rilevano – ma solo nella dimensione della loro natura commerciale/non commerciale – solo ai fini tariffari, v. infra). (47) Cfr. il considerando (9) della direttiva 2003/98/CE, che rende evidente la natura compromissoria della disciplina comunitaria, preoccupata di non mettere in discussione i regimi di accesso dei paesi membri, con particolare riferimento a quelli più restrittivi, come il nostro: “la presente direttiva si basa sui regimi di accesso esistenti negli Stati membri e non modifica le norme nazionali in materia di accesso ai documenti. Essa non si applica nei casi in cui i cittadini o le imprese, in virtù del pertinente regime di accesso, possono ottenere un documento solo se sono in grado di dimostrare un particolare interesse in proposito”. 230 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO ed il relativo effetto sulla disciplina positiva del riutilizzo trova una conferma significativa proprio nelle modalità di traduzione della disciplina quadro nei paesi in cui, diversamente dall’Italia, è consentito l’accesso generalizzato alle informazioni (ossia, laddove sono previsti unicamente limitazioni di carattere oggettivo, e non anche soggettivo, all’accesso). In tali contesti normativi, infatti, nulla osta a configurare come doverosa la cessione di informazioni a fini di riutilizzo (fatte salve le esclusioni previste dalla stessa direttiva), tant’è che – per fare un esempio – sia nel Regno Unito che in Francia sono stati predisposti strumenti giuridici volti a tutelare gli interessati al riutilizzo a fronte di ingiustificati dinieghi opposti dalle amministrazioni (48). Pertanto, al di là della esplicita clausola di salvaguardia (49), l’intero impianto del d.lgs. 36/2006 appare condizionato alla preservazione del regime di accesso domestico, con l’effetto di escludere il carattere doveroso dell’attività di cessione delle informazioni a fini di riutilizzo. Correlativamente, di fronte ad un potere delle amministrazioni di decidere sul se mettere a disposizione o meno le informazioni così configurato, la pretesa dei soggetti interessati a disporre delle informazioni detenute dalle amministrazioni a fini di riutilizzo risulta del tutto sprovvista di tutela giuridica (50). 4. La disciplina del rapporto tra amministrazione cedente e soggetto riutilizzatore Chiarito il punto circa l’an, si tratta ora di inquadrare i profili giuridici relativi al quomodo: ovvero i principi e gli istituti (48) Cfr. i contributi di P.J. BIRKINSHAW, A. HICKS e di P. SUCEVIC, nella prima parte di questo volume. Per la necessità di adattare il regime del riutilizzo al “two-step model” dell’accesso, caratteristico dell’ordinamento tedesco, si v. il contributo di M. EIFERT. (49) Cfr. l’art. 4, comma 1, lett. c) del d.lgs. 36/2006, che fa salva a tutti gli effetti la disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi, di cui al Capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241. (50) Sulla carenza di tutela dell’interesse al riutilizzo nel nostro ordinamento, anche a seguito dell’attuazione della direttiva 2003/98/CE, sia consentito rinviare ancora a B. PONTI, Il patrimonio informativo pubblico come risorsa, cit. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 231 che disciplinano le modalità con cui le amministrazioni (che abbiano deciso in questo senso) mettono a disposizione dei soggetti interessati al riutilizzo le informazioni di cui sono titolari; modalità che, in termini strutturali, può essere descritta come una rapporto di scambio, in termini di cessione di informazioni contro versamento di una tariffa. Un punto di rilievo attiene alla capacità dell’amministrazione di imporre, per via convenzionale, limiti e condizioni all’attività posta in essere dal soggetto riutilizzatore. Secondo lo schema teorico ricostruttivo in ordine ai caratteri propri dell’appartenenza all’amministrazione delle informazioni, e dal momento che il riutilizzo può avere ad oggetto solo dati pubblici, tale capacità – in assenza di un rapporto di esclusiva con l’informazione (51) – dovrebbe risultare inidonea a limitare/condizionare l’attività di (ri)uso/sfruttamento dell’informazione posta in essere dal riutilizzatore. Si tratta ora di esaminare i dati positivi che emergono dalla disciplina generale del riutilizzo, per verificare se e in che misura essi si discostino da questo impianto. 4.1. I vincoli imposti alle attività poste in essere dai riutilizzatori Ed invero alcuni elementi, di carattere prevalentemente testuale, sembrerebbero deporre nel senso di un significativo scostamento dal quadro di riferimento. Si allude, in modo particolare, all’uso dell’espressione “consentire il riutilizzo” (52), che parrebbe implicare un contenuto autorizzatorio nella decisione di mettere a disposizione le informazioni; una lettura che troverebbe conferma nel ricorso alla “licenza” quale tipologia contrattuale destinata a regolare il rapporto tra amministrazione cedente e riutilizzatore (53). Un’analisi più approfondita, tuttavia, conduce a conclusioni diverse, più aderenti al quadro teorico di base. (51) Come chiarito, supra, par. 1.2. (52) Cfr. l’art. 1, comma 2 del d.lgs. 36/2006. (53) Cfr. art. 1, comma lett. h); art. 5, comma 1; art. 8 del d.lgs. 36/2006; per questa opzione, ammessa in termini problematici, si v. C.M. CASCIONE, Il riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, in Dir. inf., 2005, p. 25. 232 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO In primo luogo, in passato la giurisprudenza non riconosceva all’amministrazione un potere di limitare/conformare l’attività di riutilizzo delle informazioni tratte da documenti amministrativi (pubblici) (54). Inoltre, la stessa ratio della disciplina comunitaria si oppone all’introduzione o alla giustificazione di una capacità di questo tipo. Infatti, l’intervento del legislatore comunitario è volto, sostanzialmente, ad impedire che le amministrazioni possano tradurre la rispettiva condizione (legale, ovvero di fatto) di “monopoliste” delle informazioni detenute in comportamenti idonei a distorcere o limitare la concorrenza nel mercato dei prodotti basati sull’informazione (55). Il divieto di comportamenti discriminatori o anticoncorrenziali (ad esempio, mediante l’imposizione di clausole di esclusiva) muove – cioè – in una direzione esattamente contraria a quella della rivendicazione di diritti di privativa sull’informazione da parte dell’amministrazione, sì che l’attuazione del quadro normativo comunitario non solo non ne supporta l’introduzione, ma impone (semmai) lo smantellamento di quelli già esistenti (56). (54) Cfr. Cons. St., sez. IV, 24 ottobre 2004, n. 823; T.A.R. Lombardia, Sez. III, 15 dicembre 1998, n. 2935. (55) Ma sul punto, v. infra, più ampiamente. (56) Cfr. T.A.R. Lazio, sez. II, 6 giugno 2006, n. 4339, con cui si è proceduto all’annullamento della convenzione tipo predisposta dall’Agenzia del Territorio per il riutilizzo delle informazioni ipo-catastali, previa disapplicazione della conforme legislazione nazionale. Tale disciplina (cfr, il testo originario dell’art. 1, comma 367-372 della la legge 30 dicembre 2004, n. 311, l. finanziaria 2005, per altro inopinatamente fatta salva dal d.lgs. 36/2006) stabiliva il divieto generalizzato di riutilizzo dei dati ipo-catastali, e ne subordinava la liceità alla stipula di una apposita convenzione con l’Agenzia del Territorio. Detta convezione (unitamente alla legislazione de qua, che già ne contemplava compiutamente il contenuto) è stata ritenuta incompatibile con la disciplina comunitaria laddove finiva per imporre al riutilizzatore la reiterazione del pagamento dei diritti dovuti per l’acquisizione dell’informazione in occasione di ciascun atto di riutilizzazione. Una clausola che, a tutta evidenza, importava la rivendicazione di un diritto esclusivo allo sfruttamento dell’informazione ceduta. In sede di revisione della disciplina legislativa (cfr. il testo dei comma 370-372 della l. 311/2004 come modificati dall’art. 1, comma 386 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, fin. 2007) tale meccanismo è stato modificato, in termini coerenti con la disciplina comunitaria. Da notare che, in questa seconda versione, la ratio del potere autorizzatorio al riutilizzo dei ipo-catastali TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 233 La capacità riconosciuta all’amministrazione di imporre condizioni e limitazioni ai riutilizzatori delle informazioni (tramite le licenze) non si configura, pertanto, come uno strumento utile a far valere pretese di diritto esclusivo, ma risponde a finalità diverse, strutturalmente connesse all’oggetto della cessione (i.e. i dati pubblici): la protezione dei dati personali e la salvaguardia della qualità dei dati ceduti a fini di riutilizzo. 4.1.1. Segue: a tutela dei dati personali oggetto di riutilizzo Le esigenze di tutela dei dati personali (detenuti e trattati dalle amministrazioni) incidono sul regime del riutilizzo secondo due distinte modalità, a seconda della tipologia di dati personali considerati. Quanto ai dati personali c.d. sensibili, essi dovrebbero risultare del tutto esclusi dal novero dei dati che possono essere ceduti a fini di riutilizzo. Questi, infatti, possono essere solo dati pubblici, ovvero “conoscibili da chiunque”, dai quali restano esclusi per definizione i dati “a conoscibilità limitata”, nel cui ambito certamente ricadono i dati sensibili (57). Quanto, invece, ai dati personali “comuni”, essi ricadono nell’ambito dei dati astrattamente riutilizzabili, ma anche per essi si pongono esigenze di tutela: se, infatti, la comunicazione di tali dati dall’amministrazione cedente al soggetto riutilizzatore si è ridotto al semplice accertamento del pagamento dei tributi dovuti (cfr. la circ. 29 dicembre 2006 dell’Agenzia del Territorio, ed il d.m. 6 luglio 2007 del Ministero delle Finanze). Per un inquadramento della vicenda relativa al riutilizzo dei dati catastali, si v. U. FANTIGROSSI, I dati pubblici tra Stato e mercato, in Amministrare, 2007. (57) Questa lettura, fondata sulla “sistematica” dei dati personali, trova puntuale riscontro nel Codice della privacy, che consente il trattamento dei dati sensibili (ivi compresa la cessione a terzi a fini di riutilizzo) solo “se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale sono specificati i tipi di dati che possono essere trattati e di operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite” (art. 20, comma 1), condizione non solo non assolta, ma radicalmente esclusa dal tenore del d.lgs. 36/2006. Ed anche il Garante si è espresso in questo senso, nel parere sullo schema del d.lgs. (cfr. provv. 27 novembre 2005). 234 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO pare compatibile con la disciplina della privacy (58), il problema si sposta sulle attività poste in essere in sede di riutilizzo di dati di provenienza pubblica. Rispetto alle comuni esigenze relative al trattamento dei dati, rilevano – in questo caso – la circostanza che i dati siano stati raccolti senza il consenso dell’interessato, ed il principio per cui il loro riutilizzo deve risultare compatibile con gli scopi che ne hanno giustificato la raccolta (59). A questo fine, la licenza di riutilizzo (60) rappresenta lo strumento attraverso il quale l’amministrazione è in grado di imporre al contraente/ riutilizzatore limiti e oneri idonei a fare fronte a queste esigenze, ora limitando il campo delle attività di riutilizzo (al limite, escludendo del tutto usi a fini commerciali), ora prescrivendo oneri informativi nei confronti degli interessati, ovvero regolamentando il riutilizzo incrociato di dati personali provenienti da una pluralità di fonti informative pubbliche. Senza trascurare la possibilità/opportunità di imporre alcuni requisiti ulteriori quanto alle misure di sicurezza da applicare al (61) trattamento. (58) Tale ipotesi di “trattamento”, anzi, pare espressamente legittimata dal Codice della privacy, nella misura in cui, in particolare, la stessa disciplina del riutilizzo ad opera del d.lgs. 36/2006 assolve al requisito previsto contemplato dall’art. 19, comma 3 del Codice, che ammettere “la comunicazione da parte di un soggetto pubblico a privati di dati personali diversi da quelli sensibili” quando essa è prevista da una norma di legge o di regolamento. (59) Cfr. Garante privacy, provv. 27 novembre 2005, che a questo riguardo richiama la necessità di tenere conto delle cautele previste dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R (91) 10 relativa alla comunicazione a terze persone dei dati a carattere personale detenuti da organismi pubblici. Si vedano, per una differente lettura, le osservazioni di V. ZENO ZENCOVICH, Uso a fini privati dei dati personali in mano pubblica, in Dir. Inf., 2003, p. 110, che giudica negativamente la possibilità di riutilizzo di dati personali anche comuni detenuti dalle pubbliche amministrazioni, in ragione della assoluta prevalenza delle esigenze di tutela delle riservatezza. (60) Cfr. art. 8, comma 2 del d.lgs. 36/2006. (61) Rispetto all’ipotesi in cui il riutilizzatore fosse da considerarsi come “incaricato” del trattamento (ai sensi dell’art. 4, comma 1 lett. h)) del Codice privacy, pare, infatti, da preferirsi l’opzione per cui il riutilizzatore costituisce un differente, autonomo titolare del trattamento, rispetto all’amministrazione cedente. In questo secondo caso, tuttavia, non varrebbe l’onere di rispettare le medesime misure di sicurezza predisposte dall’amministrazione cedente, cosicché le licenze potrebbero rappresentare lo strumento per imporre ai riutilizzatori il rispetto di requisti ed accorgimenti ulteriori rispetto al nucleo minimo imposto dal Codice. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 235 Come si vede, si tratta di uno spazio regolatorio particolarmente significativo, nel quale il ruolo delle licenze d’uso, sebbene non esclusivo (62), appare significativo per la sua adattabilità alle diverse categorie e tipologie di dati personali potenzialmente oggetto di riutilizzo. 4.1.2. Segue: a tutela della qualità dei dati oggetto di riutilizzo Una seconda finalità rimessa alle clausole formulate nelle licenze sul riutilizzo attiene alla esigenza che le attività di riutilizzo non determinino conseguenze negative sulla qualità dei dati (di fonte pubblica) (63). Tale questione rileva, ai nostri fini, sotto due distinti profili. Un primo profilo attiene all’esigenza, sistemica, di salvaguardia della integrità, correttezza ed esattezza dei dati pubblici, anche una volta che questi siano fuoriusciti dal settore pubblico. Tale esigenza, può trovare soluzione (sul piano convenzionale) anche nelle clausole volte a distribuire le responsabilità giuridiche per gli eventuali danni determinati in esito o in concorrenza alle attività di riutilizzo, in capo all’amministrazione cedente, ovvero al riutilizzatore. Utili a questo scopo sono le clausole che, oltre ad imporre il dovere di corretto uso dei documenti ceduti e di non alterazione delle informazioni, rendono obbligatoria la citazione della fonte pubblica delle informazioni (ri)utilizzate (64). (62) In ordine al trattamento da parte di terzi di dati personali provenienti da archivi, registri, elenchi, atti o documenti detenuti da soggetti pubblici, il Codice prevede la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta da parte dei soggetti riutilizzatori, tutt’ora allo studio del Garante (cfr. l’art. 61, comma 1 del Codice privacy). (63) Sulla esigenza di garanzia della qualità dei dati utilizzati dalle pubbliche amministrazioni, si rinvia al contributo di E. CARLONI, in questo volume. (64) In questo senso, si v.no le specifiche indicazioni contenute nella direttiva 2003/98/CE, al considerando (17), che tuttavia restano sottotraccia nella disciplina nazionale, anche per effetto del mancato coordinamento con il CAD, che invece dedica specifiche previsioni sia alla garanzia della qualità che al tema della responsabilità per le informazioni diffuse in rete; ma sul punto, si v., ancora, il contributo di E. CARLONI, in questo volume. 236 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 4.2. Il contenuto del potere di “consentire” il riutilizzo Concludendo sul punto, al netto delle esigenze di tutela dei dati personali e della qualità dei dati ceduti, il potere di “consentire” il riutilizzo consiste, in definitiva, nella facoltà di cedere a titolo oneroso le informazioni detenute ai soggetti che intendano riutilizzarle. Il presupposto del potere si fonda, dunque, unicamente sulla materiale disponibilità di dati pubblici in capo alle amministrazioni, e consiste – di conseguenza – nella materiale messa a disposizione di questi dati contro il versamento di una tariffa. A conferma del fatto che il nucleo del potere di consentire il riutilizzo consiste in ciò, si noti – per converso – che laddove la messa a disposizione delle informazioni costituisce un passaggio del tutto superfluo, poiché la loro materiale disponibilità è già realizzata per effetto (delle diverse forme) di pubblicazione, il riutilizzo di tali informazioni non è soggetto ad alcun potere autorizzatorio/conformativo da parte dell’amministrazione “pubblicante” (65). Ed anche il diverso criterio di tariffazione in relazione ad attività di riutilizzo di natura commerciale/non commerciale (su cui, v. subito infra) non vale quale presupposto autorizzatorio della relativa attività, ma solo quale meccanismo di imputazione in capo al riutilizzatore di una obbligazione pecuniaria differenziata, in relazione alla natura dell’attività posta in essere in sede di riutilizzazione (66). (65) Principio già da tempo affermato dalla giurisprudenza, e che trova una specifica conferma in relazione ai dati oggetto di pubblicazione obbligatoria sui siti delle istituzionali amministrazioni: questi dati, infatti, ai sensi dell’art. 54, comma 3 del Codice dell’amministrazione digitale “sono fruibili in rete gratuitamente e senza necessità di autenticazione informatica”. (66) Ciò anche nel caso in cui il riutilizzo a fini commerciali dei dati ipocatastali è sottoposto – almeno apparentemente – ad un potere autorizzatorio dell’amministrazione cedente: cfr. retro, nota n. 56. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 237 5. Il “costo” delle informazioni cedute a fini di riutilizzo 5.1. Il meccanismo di determinazione del prezzo delle informazioni e le politiche di valorizzazione del patrimonio informativo pubblico Il meccanismo di determinazione del “prezzo” da corrispondere alle amministrazioni per ottenere le informazioni da riutilizzare, costituisce un indicatore fondamentale per determinare non tanto la disciplina giuridica di questo istituto, quanto più complessivamente la politica pubblica in ordine alla valorizzazione del patrimonio informativo di cui le amministrazioni pubbliche dispongono in virtù della loro mission istituzionale. Sul punto, la normativa quadro comunitaria rimette quasi integralmente la scelta del criterio di tariffazione delle informazioni alla disciplina di attuazione degli Stati membri. In effetti, l’unica indicazione vincolante consiste nel sostanziale divieto di ricorrere al criterio di mercato – basato sull’incontro tra domanda e offerta – per la determinazione del prezzo delle informazioni cedute dalle amministrazioni (67). Per il resto, la direttiva si limita ad indicare le altre opzioni che residuano quanto alla determinazione delle tariffe, suggerendo una preferenza per il criterio del marginal cost recovery (68). Pertanto, consente che ciascuno (67) L’art. 6 della direttiva 2003/98/CE, infatti, impedisce che – in caso di cessione a titolo oneroso – il totale dei ricavi possa superare “i costi di raccolta, produzione, riproduzione e diffusione, maggiorati di un congruo utile sugli investimenti”: la determinazione di un tetto massimo al prezzo individuato per accumulo di elementi di costo, in effetti, pare escludere che il prezzo possa determinarsi in ossequio alle dinamiche di mercato, in considerazione del fatto che la sostanziale condizione monopolistica dell’amministrazione le consisterebbe – in questo secondo caso – di fissare un prezzo indipendentemente dalla (e comunque ben superiore alla) struttura dei costi. Unico elemento di incertezze, in questo caso, è costituito dalla estrema vaghezza del criterio “contro utile sugli investimenti”, che quindi consente comunque un ampio margine di manovra, indebolendo la capacità prescrittiva del vincolo. (68) Il considerando (14) della direttiva 2003/98/CE, oltre a lasciare liberi gli Stati di optare per criteri di tariffazione che spaziano dalla cessione a titolo gratuito fino al tetto massimo imposto dall’art. 6, incoraggia a rendere disponibili i documenti dietro versamento di un corrispettivo non superiore ai costi marginali di riproduzione e diffusione dei documenti, che costituisce 238 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO Stato membro possa determinare in maniera abbastanza libera la rispettiva politica di valorizzazione del patrimonio informativo. Un atteggiamento, questo, che è conseguenza della natura compromissoria dell’intervento legislativo comunitario, che se per un verso è ispirato dall’esperienza statunitense, dall’altro ha dovuto fare i conti con prassi amministrative molto diversificate dei paesi membri, molte delle quali si collocano sul polo opposto rispetto alla filosofia del marginal cost (69). Le politiche di valorizzazione del patrimonio informativo fronteggiano, in effetti, due opzioni fondamentali, a partire dalle politiche di prezzo adottate. Da una parte, mediante l’adozione di una politica finalizzata al solo recupero dei costi marginali di riproduzione e diffusione, la creazione di valore è sostanzialmente rimessa alle iniziative di commercializzazione di prodotti a valore aggiunto basati sul riutilizzo delle informazioni pubbliche; dall’altra, mediante l’adozione di criteri di tariffazione idonei a generare un utile per l’amministrazione cedente, una parte (consistente) della creazione di valore è da imputarsi direttamente all’attività di cessione delle informazioni da parte delle amministrazioni. Rispetto a queste variabili, è evidente che la scelta del legislatore nazionale si colloca chiaramente sul versante della valorizzazione del patrimonio informativo nei termini di diretta produzione di valore per le amministrazioni cedenti. Il criterio di tariffazione, infatti, è finalizzato non solo al recupero dei “costi di raccolta, di produzione, di riproduzione e diffusione”, ma anche ad ottenere un “utile” da determinare sulle spese per investimenti sostenute dalle Amministrazioni nel triennio precedente (70). Una il criterio di tariffazione generalmente adottato in applicazione del principio dell’open access statunitense. (69) In particolare, in molti paesi europei la commercializzazione delle informazioni è venuta costituendosi, nel tempo, quale canale significativo per il finanziamento delle attività istituzionali delle stesse amministrazioni: una esigenza che la direttiva non solo non vuole mettere in discussione, ma esplicitamente indica quale elemento che è lecito tenere in considerazione nella formulazione delle politiche tariffarie: cfr. considerando (14). (70) Cfr, l’art. 7, comma 2 del d.lgs. n. 36 del 2006; si noti che risultano elencate voci di costo ulteriori rispetto ai soli costi marginali di riproduzione/diffusione, dal momento che vengono inclusi anche i costi di raccolta/produzione, TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 239 opzione che pare confermata, ed anzi rafforzata, dal regime giuridico del riutilizzo, così come descritto più sopra. In effetti, dal momento che la scelta se cedere le informazioni viene rimessa alle amministrazioni, è evidente che una politica di prezzo che consente (rectius, prescrive (71)) alle stesse amministrazioni di ricavare da questa attività un utile può fungere da incentivo, tanto più che la concreta determinazione della tariffa è rimessa alla stessa amministrazione (72). Anche la differenziazione dei criteri di tariffazione, in relazione alla natura commerciale o non commerciale delle attività di riutilizzazione, contribuisce a confermare questa lettura. Infatti, per un verso la cessione di informazioni a fini non commerciali comporta comunque dei ricavi superiori ai costi marginali di riproduzione e diffusione (73); d’altro canto, laddove invece il riutilizzo è finalizzato alla produzione di valore (economico) aggiunto, il criterio di tariffazione imposto dal legislatore fa sì che l’amministrazione si collochi all’interno della catena di creazione del valore (trattenendone per sé una quota), in una prospettiva ben diversa da quella statunitense, in cui l’amministrazione favorisce tale dinamica, ma ne rimane fuori (74). che l’amministrazione ordinariamente deve affrontare per l’assolvimento dei suoi compiti istituzionali: segno che, per questa strada, il legislatore intende promuovere l’attivazione di una linea di autofinanziamento delle attività istituzionali delle p.a. Del tutto coerentemente con questa impostazione, ai sensi del successivo comma 5, gli introiti derivanti dalla riscossione di tali tariffe sono destinati a confluire nel bilancio delle amministrazioni cedenti. (71) Infatti, il tenore testuale della disciplina non sembra consentire alle amministrazioni di procedere alla determinazione del prezzo delle informazioni secondo criteri differenti rispetto a quelli contemplati all’art. 7. (72) L’individuazione delle tariffe, nel rispetto dei criteri fissati dal comma 2 è, infatti, rimessa alle determinazioni delle stesse amministrazioni cedenti: cfr. comma 1 e 6 dell’art. 7, d.lgs. 36/2006. Di esse va data pubblicità non solo mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (ovvero, mediante i rispettivi strumenti di pubblicità legale di livello regionale e locale), ma anche tramite il sito istituzionale delle amministrazioni interessate (cfr. comma 4) (73) Cfr. l’art. 7, comma 3 del d.lgs. 36/2006. (74) Per un inquadramento del modello statunitense, basato sulla cessione doverosa delle informazioni detenute in base al principio di recupero dei soli costi marginali di riproduzione/diffusione, si v., per tutti, R. GELLMAN, The American Model of Access and Dissemination of public Information, Stockolm, 1996. 240 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO Sebbene ancora incerta, lacunosa e poco strutturata, la politica nazionale di valorizzazione delle informazioni pubbliche pare, quindi, fortemente orientata nel senso della commercializzazione dei dati pubblici, ovvero della cessione a fini di riutilizzo come strumento (innanzitutto) di finanziamento delle amministrazioni cedenti (75), autorizzando così un comportamento sostanzialmente proprietario da parte dei pubblici poteri rispetto alle informazioni detenute, anche quando i caratteri del regime giuridico di appartenenza non giustificano affatto la rivendicazione di una pretesa all’appropriazione ed al conseguente sfruttamento economico di tale risorsa da parte delle amministrazioni titolari dei dati pubblici. Questa opzione si presta ad una serie di considerazioni, da svolgersi – seppure solo per cenni – su piani distinti: quello dello statuto giuridico dell’informazione pubblica, e quello dell’analisi dell’impatto economico delle politiche tariffarie. 5.2. Commercializzazione dei dati pubblici e statuto del “bene” informazione pubblica Sul piano dello statuto giuridico dell’informazione pubblica come bene, va sottolineato che questo orientamento si colloca all’interno di una più ampia dinamica – di carattere globale – tesa alla affermazione del principio (e dei conseguenti istituti) per cui il riconoscimento di diritti esclusivi sulle informazioni (rectius, su ogni frazione del percorso di produzione, riproduzione e diffusione dell’informazione) rappresenterebbe la soluzione più idonea a stimolare il progresso scientifico, l’accumulazione delle conoscenze e la crescita economia. Un indirizzo ideale, ma foriero di significativi effetti giuridici (sul piano globale, inter- (75) Tale opzione emerge chiaramente nel documento di studio che ha preceduto l’emanazione del d.lgs. n. 36 del 2006 (“Valorizzazione dell’informazione pubblica – Analisi strategica – Roma 21 ottobre 2004, in www.cnipa.it”). Ma ne è una testimonianza altrettanto, se non più eloquente – ad esempio – l’indicazione dell’obiettivo di sviluppare i prodotti ed i servizi offerti sul mercato al fine di incrementare ricavi e redditività, nel quadro delle strategie di azione oggetto della Convenzione tra il Ministero delle finanze e l’Agenzia del Territorio per il periodo 2006-2008 (v. all. A, area strategica 6). TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 241 nazionale ed interno), che – con un efficace richiamo all’istituto delle chiudende – è stato di recente descritto con l’immagine di un Second Enclosure Movement (76). Indirizzo sottoposto ad attento scrutinio, ed a numerose, significative critiche, soprattutto nella misura in cui si propone di applicare soluzioni escogitate per fare fronte alla c.d. Tragedy of Commons (77) ad un bene, l’informazione, che strutturalmente presenta caratteristiche del tutto dissimili ai commons tradizionalmente intesi, con particolare riferimento ai caratteri della non rivalità ed infinita riproducibilità delle informazioni, oltre alle peculiari dinamiche dei processi di produzione/accumulazione delle conoscenze (78); si sono segnalati così i rischi di una Tragedy of Anticommons (79). Anche la commercializzazione delle informazioni pubbliche (in luogo della loro piena fruibilità al costo marginale (80)) rappresenta, cioè, un aspetto di quella progressiva riduzione del Public Domain, che richiederebbe una giustificazione stringente, dal momento che le esigenze di garantire l’integrità del bene o la sua destinazione – come già evidenziato – non trovano soluzione nelle formule dell’appropriazione pubblica del bene (81), salvo a (76) Si v., sul punto, J. BOYLE, The Second Enclosure Movement and the construction of Public Domain, in Law & Cont. Probl., 2003, vol. 63, pp. 33 ss. (77) G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, in Science, 1968, vol. 162, pp. 1243 ss. (78) A cominciare dalle suggestioni di C. ROSE, The Comedy of the Commons: Custom, Commerce, and Inherently Public Property, in U. Chi. L. Rev., 1986, vol. 53 pp. 711 ss; ma v. anche M. MCKEAN, Success on the Commons: A Comparative Examination of Institutions for Common Property Resource Management, in J. of Theoretical Pol., 1992, vol. 4, pp. 247 ss.; E. OSTROM, Reformulating the Commons, Swiss Pol. Sci. Rev., 1999, vol. 6, pp. 29 ss. Come noto, un esempio particolarmente illuminante dei successi, anche economici, dei commons è costituito dalla dinamica evolutiva e dall’affermazione del software c.d. open source, su cui si v. L. LESSIG. The Future of Ideas: The Fate of the Commons in a Connected World, New York, 2001; e A. DI CORINTO, Revolution OS II. Software libero, proprietà intellettuale, cultura e politica, Milano, 2005. (79) Su cui, oltre ai saggi contenuti in J. BOYLE (a cura di), The Public Domain, in Law & Cont. Probl., 2003, vol. 63, si v. il fondamentale contributo di M.A. HELLER & R.S. EISENBERG, Can Patents Deter Innovation? The Anticommons in Biomedical Research, in Science, 1998, pp. 698 ss. (80) Costo marginale di riproduzione/diffusione che, per effetto della progressiva affermazione delle modalità di digitali di gestione dei dati pubblici, dovrebbe seguire una curva decrescente. (81) Cfr., retro, par. 1.2. 242 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO voler concludere – ma sarebbe paradossale – che le informazioni pubbliche (cioè quelle conoscibili da chiunque) detenute dalle pubbliche amministrazioni, non costituiscono – oggettivamente – beni pubblici (82). 5.3. L’impatto economico delle politiche tariffarie Un utile sistema per giustificare in termini comparativi la scelta di determinate politiche (83) di prezzo, consiste nel verificarne l’impatto economico: analisi condotte su molteplici casi consentono, infatti, di evidenziare alcuni dati empirici relativi alle diverse politiche tariffarie applicabili ai dati pubblici. Se, infatti, è astrattamente possibile prevedere che prezzi più elevati dell’informazione pubblica, determinino effetti depressivi sui mercati di prodotti informativi “a valle” (a causa del più elevato costo della materia prima) – con un effetto probabile quanto a dinamica del fatturato delle relative imprese (e conseguenti effetti sull’occupazione) – resta da verificare l’effetto netto sulle entrate del settore pubblico. Qui infatti, è lecito attendersi un effetto di compensazione tra le minori entrate – indirette – derivanti dalla tassazione dei prodotti informativi (IVA) ed il maggiore incasso – diretto – derivante dalle tariffe più elevate. Ebbene, anche da questo punto di vista una politica commerciale dei dati pubblici (ossia, volta a ricavare un utile) non appare comunque conveniente, perché tutti i casi osservati in letteratura indicano che le maggiori entrate dirette delle amministrazioni sono più che (82) Prospettiva che, per altro, appare incompatibile con l’altra finalità che sin dall’inizio ha animato l’iniziativa comunitaria (sebbene sia uscita complessivamente ridimensionata dal processo di elaborazione della direttiva 2003/98/CE, in ragione del suo carattere compromissorio), che ha visto nel riutilizzo (soprattutto in quello con finalità non commerciale) uno strumento ulteriore per ampliare il diritto alla conoscenza, presupposto basilare per lo sviluppo di una democrazia partecipata, consapevole ed informata: cfr. considerando (16). (83) Sulla utilità dell’analisi economica applicata alle politiche di regolazione, si v.no, da ultimo, i saggi raccolti nel volume AA.VV., Analisi economica e diritto amministrativo. Annuario AIPDA 2006, Milano, 2007, ed in particolare, sull’uso dei beni pubblici, cfr. G. NAPOLITANO, I beni pubblici e le “tragedie dell’interesse comune”, ivi, pp. 125 ss. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 243 compensate dalla depressione delle entrate indirette, per una serie di ragioni legate a caratteristiche intrinseche del mercato delle informazioni (quali, ad esempio, la elevata elasticità della domanda; la non rivalità del bene informazione) ed alla tendenza del settore pubblico a privilegiare, per questa via, pratiche anticompetitive (84). Ovviamente, questo approccio prende in considerazione l’impatto economico sul settore pubblico complessivamente inteso: è evidente, però, che un sistema che rimette alle singole amministrazioni sia la scelta se attivare o meno la cessione di dati a fini di riutilizzo, sia la scelta sulla politica di prezzo, finisce inevitabilmente per privilegiare la prospettiva dei profitti diretti delle singole amministrazioni (incentivando così l’atteggiamento proprietario nei confronti delle informazioni di cui sono titolari (85)), a discapito dell’interesse generale (nel duplice aspetto di un mercato delle informazioni più robusto, e di conseguenti maggiori entrate per l’erario). (84) Per una rassegna dei dati empirici, ed una approfondita analisi comparativa dell’impatto delle politiche di open access (no cost; marginal recovery cost) rispetto al Governamental commercialization approach (fully recovery cost), si v. P.N. Weiss, Border in Cyberspace: Conflicting Public Sector Information Policies and their Economic Impacts, in G. AICHOLZER, H. BURKERT (a cura di), Public sector information in the digital age, cit., pp. 137 ss. e bibliografia ivi citata, nonché PIRA, Commercial Exploitation of Europe’s Public Sector Information, Final Report to the European Commission, Directorate General for the Information Society, 2000; OECD, Digital Broadband Content: Public Sector Information and Content, 2006; BOOZ ALLEN & HAMILTON, La valorizzazione dei dati pubblici, 2006. (85) Si noti, per altro, che in questo modo si incentiva anche un atteggiamento schizofrenico delle amministrazioni, dal momento che i dati (di cui sono titolari) devono essere resi accessibili e fruibili per lo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministrazione richiedente, senza oneri a carico di quest’ultima (cfr. art. 50, comma 2 del Codice dell’amministrazione digitale; tant’è che lo scambio di dati scambiati tra amministrazioni a tali fini esplicitamente non costituisce riutilizzo: v. art. 10, comma 1 d.lgs. 36/2006), ma possono essere ceduti ai privati a titolo oneroso, in vista di un utile (in questo senso anche la direttiva n. 2003/98/CE, cfr. considerando (19): ciò che, in definitiva, può impedire o sensibilmente ritardare la diffusione di una condivisa cultura delle informazioni pubbliche quali beni pubblici, con effetti rilevanti anche in ordine alla effettiva fruizione dei dati all’interno del sistema pubblico (stante la tradizionale, radicata ritrosia delle p.a. italiane a condividere i dati). 244 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 6. L’amministrazione “monopolista” dell’informazione pubblica e gli istituti pro-concorrenziali nella disciplina del riutilizzo Il contributo più rilevante della disciplina quadro comunitaria in materia di riutilizzo dell’informazione pubblica consiste, certamente, nella sottoposizione dell’attività di cessione delle informazioni da parte delle amministrazioni a regole ed istituti volti ad impedire comportamenti anticoncorrenzali delle stesse amministrazioni. Rileva, in modo particolare, la condizione di monopolio di fatto (quando non anche di diritto) su una molteplicità di dati, sia in termini qualitativi che in termini quantitativi, che le amministrazioni raccolgono, ovvero producono, e conservano in ragione delle rispettive missioni istituzionali. La finalità di costituire le condizioni (anche ordinamentali) per la crescita ed il consolidamento di un mercato europeo dei prodotti informativi basati sul riutilizzo dei dati pubblici, che sorregge l’intervento comunitario in materia, necessitava di essere perseguita in primo luogo mediante una politica pro-concorrenziale idonea ad aprire il mercato a nuovi imprenditori, contribuendo contemporaneamente a contenere (o ridurre) le dinamiche di costo della materia prima. Quanto al secondo punto, sono già stati evidenziati i limiti della direttiva 98/2003, e della sua traduzione nell’ordinamento nazionale. Certamente più efficace, al contrario, il capitolo dedicato alle misure pro-concorrenziali, anche in ragione del vincolo imposto ai legislatori nazionali in ordine alla loro recezione. Le misure antidiscriminatorie e pro-concorrenziali previste dal d.lgs n. 36 del 2006 sono, sostanzialmente, di tre tipi (che ripropongono puntualmente le soluzioni prefigurate nella direttiva): a) il dovere di cedere le informazioni a tutti gli operatori di mercato interessati (ed in generale, a tutti coloro che le richiedano, anche per finalità non commerciali), una volta che sia stata assunta le decisione di consentire il riutilizzo (86); (86) L’art. 1, comma 2 del d.lgs. 36/2006 assicura, infatti, la parità di trattamento tra tutti i riutilizzatori, anche rispetto ai dati diffusi precedentemente all’adozione della disciplina de qua. Un concetto ribadito dal successivo art. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 245 b) il dovere di cedere le informazioni dello stesso tipo alle medesime condizioni (87); c) Il divieto di accordi di esclusiva, salvo il caso in cui tale accordo sia indispensabile per l’assolvimento di un servizio di interesse generale (88). Si tratta, a ben vedere, di strumenti tra i più classici utilizzati per la promozione di dinamiche concorrenziali in settori caratterizzati da condizioni di monopolio nella fornitura di c.d. essential facilities, cui è certamente assimilabile la condizione della p.a. nella cessione delle informazioni di cui è titolare (89). Tuttavia, si deve segnalare che il fronte della regolazione non è adeguata- 11, che ancora più esplicitamente stabilisce che “I documenti delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico possono essere riutilizzati da tutti gli operatori potenziali sul mercato, anche qualora uno o più soggetti stiano già procedendo allo sfruttamento di prodotti a valore aggiunto basati su tali documenti”. (87) A questo fine, risulta particolarmente efficace il ricorso alla predisposizione di licenze standard, che come tali prefigurano le condizioni che verranno imposte, in modo uniforme, a tutti i riutilizzatori (cfr. art. 2, comma 1, lett. h); art. 5, comma 1 e art. 8, comma 1). Da questo punto di vista, la stessa possibilità di aderire alle licenze mediante la compilazione di formulari resi disponibili sui siti delle amministrazioni titolari è una garanzia ulteriore della parità di trattamento, dal momento che configurano le licenze come veri e propri contratti per adesione, eliminando così anche la possibilità potenziale della stipulazione di clausole ad hoc (cfr. art. 8, comma 2) (88) Cfr. art. 11 d.lgs. 36/2006: la formula ricalca fedelmente il principio generale dell’ordinamento comunitario, in virtù del quale le deroghe all’applicazione delle regole della concorrenza sono ammesse solo ove siano indispensabili per il conseguimento di una specifica missione di interesse generale, codificato all’art. 86, comma 2 del Trattato CE. (89) Tradizionalmente, le condizioni per l’applicazione della essential facility doctrine, sono ravvisate 1) nel controllo monopolistico sulla risorsa da parte del titolare; 2) nella essenzialità della risorsa per lo svolgimento dell’attività da parte del richiedente; 3) nell’inesistenza di ragioni obiettive che giustifichino il rifiuto della richiesta da parte del titolare della risorsa. Sull’essential facility doctrine e sulla sua applicazione al caso del monopolio legale sui dati delle pubbliche amministrazioni, con particolare riguardo ai dati conservati nei registri immobiliari dell’Agenzia del Territorio, si v. C.E. MEZZETTI, Dati pubblici ed abuso di posizione dominante, nota a commento delle ordd. Trib. App. di Milano, 2 maggio e 5 luglio 2005, in Giur. It, III, 2006, pp. 549 ss., giurisprudenza e bibliografia ivi citata; un quadro interpretativo ripreso e ribadito anche dall’Autorità antitrust nazionale: cfr. AGMC, Segnalazione 5 dicembre 2006. 246 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO mente accompagnato da misure di informazione e promozione nei confronti dei soggetti interessati al riutilizzo (90). Inoltre, il disegno degli istituti pro-concorrenziali, affatto lineare per quanto concerne il rapporto soggetti pubblici cedenti (amministrazioni e organismi di diritto pubblico) e terzi riutilizzatori, risulta meno esplicito con riguardo alle attività di riutilizzo intraprese dalle stesse amministrazioni, anche per via delle lacune – sul punto – della disciplina positiva. Infatti, il legislatore si è limitato a sancire che, fuori dai casi in cui lo scambio tra amministrazioni è funzionale allo svolgimento dei rispetti compiti istituzionali, ed in particolare quando la cessione di dati prelude ad un (ri)utilizzo a fini commerciali da parte dell’amministrazione richiedente, si deve applicare la disciplina del riutilizzo (91): in questo modo, l’amministrazione che riutilizza a fini commerciali i dati di un’altra amministrazione viene collocata sul medesimo piano degli altri riutilizzatori. Quid iuris, nel caso in cui l’attività commerciale basa sul riutilizzo sia, invece, posta in essere dalla stessa amministrazione titolare dei dati? A differenza della disciplina quadro comunitaria (92), quella nazionale non affronta esplicitamente il tema, (90) Si segnalano infatti, per la loro debolezza, le soluzioni destinate a facilitare la ricerca e la individuazione degli assets di dati pubblici resi disponibili a fini di riutilizzo, ed i connessi strumenti di pubblicazione e diffusione delle relative meta-informazioni (cfr. il laconico testo dell’art. 9 del d.lgs. 36/2006), soprattutto se posti a confronto con l’organico e sistematico apparato di promozione del riutilizzo predisposto nel Regno Unito; sul punto, si v. il contributo di P.J. BIRKINSHAW, A. HICKS in questo volume; per un più puntuale confronto con la situazione italiana, sia consentito rinviare a B. PONTI, Il patrimonio informativo pubblico come risorsa: i limiti del regime italiano di riutilizzo dei dati delle pubbliche amministrazioni, cit. (91) Cfr. art. 10 e art. 2, comma 1, lett. f) del d.lgs. 36/2006: si noti la palese incogruenza con la ratio della norma, per cui all’art. 10, comma 2 si fa riferimento solo all’uso a fini commerciali da parte di una pubblica amministrazione (e non anche da parte di un organismo di diritto pubblico) dei dati di altra pubblica amministrazione (e, parimenti, non anche di un organismo di diritto pubblico). Una evidente “svista” del legislatore da correggersi in sede interpretativa, mediante l’estensione soggettiva della sua applicazione anche agli organismi di diritto pubblico. (92) Si v. il considerando (9) della direttiva 2003/98/CE, dove si precisa che “al fine di evitare sovvenzioni incrociate, il riutilizzo dovrebbe comprendere l’ulteriore uso di documenti all’interno della propria organizzazione per attività TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 247 che pure rappresenta un punto essenziale, per l’effettività della regolazione antidiscriminatoria. In assenza di tali indicazioni positive, troveranno applicazione diretta i principi e delle regole in materia di concorrenza, anche mediante la disapplicazione della normativa domestica di settore che con tali principi risulti in contrasto (93). In estrema sintesi, i contenuti precettivi di tali principi non precludono alle amministrazioni la possibilità di offrire sul mercato prodotti basati sul riutilizzo dei dati detenuti in virtù della rispettiva mission istituzionale, ma impongono l’adozione, da parte di queste ultime, di soluzioni operative e di trasparenza idonee ad evidenziare le condizioni economiche di tale riutilizzo (94), condizioni che devono essere garantite anche che esulano dall’ambito dei compiti di servizio pubblico. Le attività che esulano dai compiti di servizio pubblico comprenderanno, di norma, la fornitura dei documenti che sono prodotti e per i quali viene chiesto il pagamento di un corrispettivo in denaro esclusivamente su base commerciale e in concorrenza con altri sul mercato”. (93) Come nel caso della ripetuta disciplina nazionale sul riutilizzo dei dati catastali di cui all’art. 1, comma 367-374 della l. finanziaria 2005, fatta salva dal d.lgs. n. 36 del 2006, e pur tuttavia disapplicata, per contrasto con la direttiva 2003/98/CE, sia dal giudice amministrativo (cfr., supra, nota n. 56) che dal giudice ordinario (v. nota successiva). (94) Alla adozione di una contabilità separata, sia il legislatore che la giurisprudenza (soprattutto quella comunitaria) preferiscono di gran lunga la misura della separazione societaria, dal momento che quest’ultima: consente una più netta distinzione tra le attività che costituiscono l’assolvimento di un compito istituzionale da quelle caratterizzate dalla commercializzazione di prodotti informativi a valore aggiunto; costringe l’amministrazione ad evidenziare la ragione di scambio delle informazioni; favorisce la parità di trattamento con gli altri operatori del mercato. Questi principi hanno trovato specifica applicazione, con riguardo al mercato delle informazioni a valore aggiunto basate sul riutilizzo dei dati tratti dai registri immobiliari gestiti dall’Agenzia del territorio, sia in giurisprudenza (cfr., ex multis, ordd. App., Milano, 2 maggio e 5 luglio 2005, cit.; e – in relazione ai servizi di “monitoraggio immobiliare” offerti dall’Agenzia – cfr. ordd. App. Milano, 5 dicembre 2006; App. Brescia, 15 dicembre 2006; App. Trieste, 17 gennaio 2007; App. Venezia, 2 febbraio 2007; App. Bologna, 23 febbraio 2007) che in sede di regolazione del mercato (si v. AGMC, Segnalazione 5 dicembre 2006); che in sede legislativa (cfr. l’art. 8, comma 2-bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287 – sull’obbligo di separazione societaria dalle imprese che, per disposizioni di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato – nonché il d.lgs. 11 novembre 2003, n. 333 “Attuazione della direttiva 2000/52/CE, che modifica la direttiva 80/723/CEE relativa alla 248 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO agli altri operatori che in tale mercato operino o intendano operare. In questo senso, acquista un preciso rilievo la distinzione (per consistenza, forma, modalità di conservazione e di diffusione) tra le informazioni “materia prima” (ossia, le informazioni detenute dalle amministrazioni in ragione dello svolgimento di compiti istituzionali) e le informazioni come “prodotto finito” (ossia, le informazioni frutto di una rielaborazione non funzionale all’esercizio di compiti istituzionali, ma indirizzata ad attività di carattere sostanzialmente imprenditoriale). Alle prime, si applicherà il regime del riutilizzo; alle seconde – ove prodotte – dovrà corrispondere l’applicazione dei principi (e dei connessi obblighi) di parità di accesso alla materia prima (95). Rispetto a questo schema – di generale applicazione – merita qualche approfondimento la clausola che ammette gli accordi in via esclusiva, solo se detto accordo risulti necessario ai fini dell’erogazione di un servizio di interesse pubblico. La effettiva portata di questa deroga deve, infatti, fare i conti con le caratteristiche intrinseche del bene oggetto della regolazione, ovvero l’informazione, in modo particolare per quanto concerne la non rivalità della sua fruizione/sfruttamento. Se si muove da questo presupposto, è possibile verificare che l’accordo in via esclusiva potrà giustificarsi solo nella misura in cui il motivo di interesse pubblico perseguito dall’ordinamento consista nel fatto che le utilità prodotte in esito all’attività di riutilizzo debbano essere cedute ad un livello di prezzo inferiore a quello sostenibile dalle trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche”). Un significativo riscontro di questo approccio può, d’altro canto, essere reperito anche nella specifica disciplina sul riutilizzo, laddove vengono ricompresi nell’ambito dei soggetti pubblici cui si applica detta disciplina anche gli organismi di diritto pubblico “non aventi carattere commerciale o industriale”, e conseguentemente ne sono escluse “le imprese pubbliche” come definite proprio ai sensi d.lgs. 333/2003 (cfr. art. 2, comma lett. b) del d.lgs. 36/2006). (95) Per l’ampia e sistematica riflessione sulla distinzione tra “raw – unrefined informations” e “refined – value-added information’s product”, ed il relativo impatto sull’applicazione della disciplina comunitaria pro-concorrenziale in materia di riutilizzo a fini commerciali delle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, si segnala lo studio condotto con riferimento al mercato del Regno Unito dall’Office of Fare Trading, Commercial use of public information (CUPI), 2006. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 249 imprese in concorrenza tra loro sul mercato (96). Ciò che è possibile solo se: a) il terzo non svolge un’attività imprenditoriale in senso proprio; oppure b) l’amministrazione cedente si accolla una parte dei costi di produzione del servizio. In altri termini, l’accordo in via esclusiva si giustificherebbe solo in relazione all’esigenza ordinamentale di offrire al pubblico un servizio informativo a prezzi non concorrenziali, ovvero le condizioni che giustificano – più in generale – la assunzione diretta del servizio da parte dei poteri pubblici, ovvero la configurazione di un servizio pubblico in senso anche soggettivo. Nel caso sub a), ci troveremmo di fronte – più propriamente – ad una ipotesi di cessione di dati scambio dati all’interno del settore pubblico (97), o comunque ad una ipotesi di riutilizzo non commerciale (98). Nel caso sub b), la riserva in capo ad un soggetto (96) Infatti, al netto del costo delle informazioni cedute a fini di riutilizzo, qualora l’attività conseguente fosse economicamente sostenibile, ciò costituirebbe una ragione di per sé sufficiente a precludere accordi di esclusiva, in base della già evidenziata essential facilitiy doctrine. La riserva potrebbe, cioè, giustificarsi solo nel caso in cui il prodotto informativo rappresentasse il contenuto di atto di certezza pubblica (ovvero, un mercato istituzionalmente monopolizzato dalla pubblica amministrazione): ma allora non saremmo di fronte, per definizione, ad una attività commerciale. (97) Nel caso in cui il soggetto riutilizzatore fosse configurabile come organismo di diritto pubblico, come definito ai sensi dell’art. 1, comma 2 lett. b) del d.lgs. 36/2006. Per la applicazione ante litteram di questi principi al mercato nazionale delle informazioni pubbliche, si v. il caso dell’accordo in via esclusiva tra il sistema delle Camere di Commercio e la controllata INFOCAMERE per la gestione in esclusiva su base nazionale degli archivi camerali, finalizzato sia alla realizzazione degli archivi telematici, sia alla fornitura delle informazioni in essi contenute alle medesime Camere, alle altre p.a. e all’utenza privata, che l’AGCM ha ritenuto non lesiva della concorrenza dal momento che ha consentito di predisporre un più efficace e meno oneroso assolvimento dei compiti informativi istituzionalmente propri delle Camere di commercio. Il caso è significativo anche perché, diversamente, le condizioni di sostanziale esclusiva intercorrenti tra la stessa INFOCAMERE e la società (parimenti controllata) CERVED, in carenza di consimili esigenze, sono state ritenute incompatibili proprio alla luce della dottrina dell’essential facility; cfr. AGCM, provv. n. 5446 del 6 novembre 1997 INFOCAMERE-CERVED. (98) Nel caso (residuale) in cui il soggetto non risultasse in controllo pubblico equivalente. 250 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO imprenditoriale dell’attività di riutilizzo presupporrebbe invece, ancora in ossequio ai principi comunitari, l’assegnazione del servizio (pubblico) mediante gara, o comunque tramite procedura aperta e non discriminatoria. 7. Il riutilizzo di dati in formato digitale Le trasformazioni derivanti dall’applicazione sempre più massiccia delle ICT all’attività delle pubbliche amministrazioni costituiscono certamente il fattore evolutivo che ha maggiormente inciso sulla stessa configurazione del patrimonio informativo pubblico, nella misura in cui le dinamiche di “smaterializzazione” dell’informazione e di circolazione in rete hanno profondamente modificato le funzioni conoscitive delle amministrazioni, e le reciproche relazioni organizzative (99). D’altro canto, l’impiego delle ICT costituisce anche il fattore (tecnologico) essenziale che consente un più intenso, agevole ed efficace sfruttamento delle informazioni, così contribuendo in modo decisivo all’ampliamento degli spazi e delle opportunità del mercato dei prodotti e servizi a contenuto informativo, basati anche sul riutilizzo del “giacimento” di informazioni costituito dal patrimonio informativo pubblico (100). È evidente, pertanto, che nella prospettiva del(le opportunità di crescita e sviluppo connesse con il) riutilizzo, la disponibilità (99) Sul punto, si v. più ampiamente il contributo di F. MERLONI, in questo volume. (100) In effetti, la direttiva 2003/98/CE rappresenta solo un tassello della c.d. Strategia di Lisbona, con cui si è inteso porre al centro dei meccanismi di sviluppo e di coesione sociale dell’economia europea il fattore “conoscenza”, e che comprende – tra l’altro – anche investimenti e politiche finalizzati a potenziare sia l’infrastruttura delle comunicazioni elettroniche (si v. le linee di azione dei piani eEurope 2002 e 2005 e, da ultimo, i2010 Information Space, Innovation & Investment in R&D, Inclusion: con particolare riferimento ai progetti IDA e IDABC quanto allo sviluppo di infrastrutture ed protocolli di scambio tra amministrazioni) sia i contenuti (programmi eContent ed eContentplus), con l’obiettivo di contribuire alla creazione di uno “spazio europeo unico dell’informazione”; sul punto, si v. anche I. D’ELIA, La diffusione e il riutilizzo dei dati pubblici. Quadro normativo comunitario e nazionale: problemi e prospettive, cit., pp. 13 ss. TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI 251 di dati conservati, trattati e diffusi dalle amministrazioni in formato digitale è particolarmente importante, poiché rappresenta, di per sé, un valore aggiunto. Sul punto, sono opportune un paio di sottolineature. La disciplina sul riutilizzo (sia comunitaria, che nazionale) ha presente questa relazione (tra contenuti digitali e riutilizzo) (101), ma non “forza” la mano alle amministrazioni, lasciando che la messa a disposizione di dati in formato digitale (da parte di queste ultime, a fini di riutilizzo) costituisca il frutto della progressiva trasformazione in atto, e non il contenuto di una pretesa dei terzi interessati al riutilizzo (102): ciò che è particolarmente evidente nella disciplina nazionale (103), che pertanto – anche da questo punto di vista – colloca l’interesse al riutilizzo fuori dal novero dei diritti all’uso delle ICT di recente “proclamazione” (104). Se però dal piano generale – e veniamo al secondo aspetto – si scende a verificare alcune dinamiche settoriali dell’ordinamento, è possibile constatare alcune linee di tendenza che muovono “controcorrente”. Si nota, cioè, che la digitalizzazione dei contenuti, funzionale innanzitutto alla costituzione di patrimoni informativi pubblici condivisi da parte delle amministrazioni (105), si traduce anche nell’apertura ai terzi, cittadini ed imprese, di (tutti o di una parte significativa dei) servizi di accesso all’infor- (101) Cfr. i considerando (2) e (3) della direttiva 2003/98/CE. (102) Cfr. il considerando (13) della direttiva “Le possibilità di riutilizzo possono essere migliorate riducendo la necessità di digitalizzare documenti cartacei oppure di manipolare documenti elettronici per renderli compatibili fra loro. Pertanto, gli enti pubblici dovrebbero mettere a disposizione i documenti in qualsiasi lingua o formato preesistente” e solo “ove possibile e opportuno per via elettronica”. (103) Cfr. art. 5, comma 3 del d.lgs. 36/2006: “il titolare del dato [...] rende disponibili i documenti al richiedente, ove possibile in forma elettronica”. (104) Ovvero, il “diritto [di cittadini ed imprese] a richiedere ed ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni”, di cui agli artt. 3-11 del CAD, significativamente limitato – però – alle sole fattispecie contemplate nel Codice stesso: sul punto, sia consentito rinviare a B. PONTI, Commento agli art. 3-11, in E. CARLONI (a cura di), Il Codice dell’amministrazione digitale. Commento al d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Rimini, 2005, pp. 58 ss. (105) Secondo lo schema della costituzione delle basi di dati di interesse nazionale, di cui all’art. 60 del CAD. 252 PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO NAZIONALE mazione. Si è già segnalato il caso delle informazioni camerali; è il caso, ancora, della base dati catastale (che costituisce, insieme all’anagrafe, il caso pilota di realizzazione di una “base di dati di interesse nazionale”) (106); è il caso, questa volta sul piano comunitario, della “Infrastruttura per l’informazione territoriale nella Comunità europea” (c.d. Inspire) (107). Si tratta di segnali di una inversione di tendenza: in prospettiva, si può (forse) immaginare che la realizzazione di infrastrutture informative finalizzate alla più rapida, efficace e sicura condivisione dei dati all’interno del sistema pubblico costituisca anche lo strumento (ed il momento) per una effettiva apertura alla fruizione del patrimonio informativo pubblico anche al di fuori di esso. (106) La base di dati catastali, ai sensi dell’art. 59 del CAD, è una componente dei dati territoriali di interesse nazionale, la cui costituzione in repertorio nazionale dei dati territoriali, prevede la disciplina (tecnica) delle modalità di formazione, documentazione e scambio dei dati territoriali detenuti dalle singole amministrazioni competenti, nonché le regole ed i costi per l’utilizzo dei dati stessi da parte delle pubbliche amministrazioni centrali e locali e da parte dei privati. Ciò che ha condotto, per un verso, alla “Definizione delle regole tecnico economiche per l’utilizzo dei dati catastali per via telematica da parte dei sistemi informatici di altre amministrazioni, ai sensi dell’art. 59, comma 7-bis, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82” (funzionale, per altro, alla cessione ai comuni della gestione di alcune funzioni catastali); dall’altro, in esito ad una parallela, ma contestuale (e connessa) vicenda, ha portato alla definizione delle modalità di “Accesso al sistema telematico dell’Agenzia del territorio per la consultazione delle banche dati ipotecaria e catastale” da parte di privati ed imprese; determinazioni adottate – rispettivamente – con decreti del direttore dell’Agenzia del Territorio del 13 novembre e del 4 maggio 2007. (107) Cfr. direttiva 2007/2/CE del 14 marzo 2007, che mira a rendere omogenee le modalità di rappresentazione e di classificazione dell’informazione territoriale prodotta e gestita dai soggetti pubblici dei diversi Stati membri, a tutti i livelli di governo, ed a facilitare l’interoperabilità e lo scambio di tali dati, all’interno degli Stati membri, tra di essi, e con le istituzioni comunitarie. La direttiva (ri)colloca a livello comunitario la funzione di coordinamento tecnico informatico necessaria per assicurare l’interoperabilità e l’armonizzazione dei set di dati territoriali e dei servizi ad essi relativi; inoltre, impone agli Stati di predisporre e fornire on line servizi per la ricerca, la visualizzazione, il download e la conversione in altro formato di set di dati territoriali, servizi che devono essere fruibili dalle istituzioni pubbliche (interne, di altri Stati membri e comunitarie), ma anche dal pubblico (ed un nucleo minimo di essi deve essere accessibile gratuitamente).