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Management Pubblico
Modulo II – Prof. Francesco Merloni
APPROFONDIMENTI PER LO STUDIO INDIVIDUALE
IL FASCICOLO CONTIENE I SEGUENTI SAGGI/ARTICOLI/DOCUMENTI:
• Guido Sirianni, PROFILI COSTITUZIONALI. UNA NUOVA LETTURA DEGLI
ARTICOLI 54, 97 E 98 DELLA COSTITUZIONE
• Bernardo Giorgio Mattarella, DOVERI DI COMPORTAMENTO
• Pietro Barrera, RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE DEI DIPENDENTI PUBBLICI
• Francesco Merloni, INCARICHI SUCCESSIVI ALLA CESSAZIONE DELLA FUNZIONE
(i saggi sono tratti dal volume “La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, a cura di F.
Merloni – L. Vandelli, Passigli editore, di imminente pubblicazione per i Quaderni di Astrid”)
• Enrico Carloni , LA “CASA DI VETRO” E LE RIFORME. MODELLI E PARADOSSI
DELLA TRASPARENZA AMMINISTRATIVA (in Diritto Pubblico, 2009, n. 3)
• Commissione indipendente per la Valutazione, l’Integrità e la Trasparenza CIVIT, Delibera n. 105/2010_ Linee guida per la predisposizione del
Programma triennale per la trasparenza e l’integrità
• Francesco Merloni,
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI NEL
PLURALISMO AMMINISTRATIVO
• Benedetto Ponti, TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
(gli ultimi due saggi sono tratti dal volume “Il regime dei dati pubblici. Esperienze europee e
ordinamento nazionale”, a cura di B. Ponti, Maggioli, 2008)
Guido Sirianni
PROFILI COSTITUZIONALI. UNA NUOVA LETTURA
DEGLI ARTICOLI 54, 97 E 98 DELLA COSTITUZIONE
1. L’etica pubblica nella Costituzione repubblicana
La diffusione della corruzione, per le sue caratteristiche qualitative e quantitative, evidenzia uno stato di sofferenza che coinvolge l’intero assetto istituzionale.
È dunque naturale di cercare nella Costituzione una guida capace di orientare le condotte pubbliche e private volte a contrastare efficacemente i processi corruttivi.
La Carta costituzionale non si sottrae al problema della etica
pubblica, ma lo affronta in modo originale, nella prospettiva di
una democrazia pluralista.
L’etica pubblica non viene infatti dalla Carta assunta, in una
prospettiva di stampo liberale, come una mera condizione di sistema presupposta o immanente, pre-giuridica e pre-costituzionale,
né viene considerata come il prodotto automatico della osservanza
delle leggi, adeguatamente sanzionato. Parimenti è del tutto estranea alla Carta ogni concezione autoritaria od organicistica di una
etica pubblica scaturente dall’abbattimento dei confini tra privato
e pubblico, evocatrice di funesti scenari di «Stato etico».
Nella prospettiva repubblicana, l’ordinamento democratico
non può né disinteressarsi, né imporre una etica pubblica, ma
deve tuttavia promuoverla, assumendola come un valore essenziale sociale e costituzionale di responsabilità personale, integrato
nel sistema dei valori costituzionali, e conferendo ad essa la forma, variamente atteggiata, del dovere civico.
Lo snodo del programma di promozione dell’etica pubblica
repubblicana, considerata per l’aspetto che qui più interessa, è
rappresentato dall’art. 54 che, dopo aver prescritto ai cittadini
(ovviamente, ed a maggior ragione, anche ai cittadini investiti di funzioni pubbliche) il dovere di fedeltà alla Repubblica, e
di osservarne la Costituzione e le leggi), richiede ulteriormente
(comma secondo) a coloro cui sono affidate funzioni pubbliche
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«il dovere di adempierle con disciplina ed onore» e di prestare
giuramento, nei casi stabiliti dalla legge.
Tale precetto fondamentale, indirizzato ai funzionari, intesi in
senso allargato come coloro ai quali sono affidate funzioni pubbliche, non resta isolato, ma si integra con una serie di precetti
costituzionali ulteriori: in particolare, la diretta responsabilità dei
funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici (art. 28);
il dovere dei pubblici impiegati di essere all’esclusivo servizio della nazione (art. 98): il precetto per cui i pubblici uffici vanno organizzati in modo da assicurare il buon andamento e la imparzialità
dell’amministrazione (art. 97).
L’etica pubblica viene dunque promossa sia sotto il profilo soggettivo (la condotta personale prescritta agli agenti) sia sotto quello organizzativo (la organizzazione pubblica non deve fare velo
alla responsabilità, intesa in senso lato, degli agenti, ma viceversa,
deve fondarsi su tale responsabilità), nella prospettiva democratica di un ordinamento personalisticamente inteso nel quale sono i
cittadini che governano ed amministrano la collettività.
2. Le letture riduzionistiche del dovere di disciplina e onore
Il dovere di disciplina ed onore, pur così solennemente affermato dalla Carta, non ha tuttavia ricevuto una considerazione ed
una attenzione adeguata, come confermano sia la poca attenzione
della giurisprudenza, sia la frammentarietà – pur con importanti
eccezioni – della riflessione dottrinaria.
A ciò hanno concorso più circostanze. Certamente un ruolo
preponderante ha avuto il peso di una tradizione giuspositivistica, propensa a relegare ogni dimensione etica nell’ambito pregiuridico. Forti remore sono venute dalla preoccupazione di segno garantista che una qualificazione giuridicamente pregnante
ed espansiva del dovere di disciplina ed onore, potesse aprire il
varco a limitazioni del pieno godimento dei diritti riconosciuti ai
pubblici dipendenti nella loro qualità di cittadini, e soprattutto a
discriminazioni ideologiche, in una prospettiva di «democrazia
protetta» estranea all’impianto della Costituzione italiana. Il concreto prevalere, poi, nella vita politico-istituzionale, di un modello di democrazia che riservava ai partiti politici un forte, se non
debordante, ruolo di mediazione, ha infine alimentato un oggettivo disinteresse per la prospettiva di una maggiore responsabilizzazione individuale degli agenti pubblici, in una realtà dominata
da apparati e attori collettivi.
Tali elementi hanno spinto verso letture riduzioniste, che hanno di fatto spento le potenzialità innovative compresse nel precetto dettato dall’art. 54, co. 2.
Nella lettura prevalente (Mortati, Barile), il dovere si risolve in
un precetto etico, in un monito, certamente rilevante, ma di dubbia valenza giuridica, o in una sorta di poco utile «metadovere»
riassuntivo di doveri che trovano tuttavia in altre norme, costituzionali ed ordinarie, la loro fonte ed il loro limite. In ogni caso,
nella ricostruzione del significato dei termini di «disciplina» ed
«onore» si è optato (Lombardi, Ventura) per soluzioni di sostanziale continuità rispetto ai tradizionali assunti del diritto pubblico: il dovere, quando riferito ai dipendenti pubblici, non farebbe
che confermare la responsabilità disciplinare e il dovere di fedeltà
all’amministrazione prescritti nell’ordinamento del pubblico impiego (oltre che la responsabilità disciplinare, la norma avrebbe
addirittura costituzionalizzato un assetto organizzativo di tipo gerarchico). Ma, anche quando si indirizza al personale politico, il
dovere non aggiungerebbe nulla di nuovo, ribadendo, per un verso, un generico quanto innocuo precetto di onore, e per l’altro,
la soggezione alle blande prescrizioni disciplinari poste a presidio
del buon funzionamento di collegi ed assemblee.
Isolata è viceversa rimasta la lettura secondo la quale il dovere
di disciplina ed onore rappresenterebbe una fedeltà qualificata
(Lombardi), specificativa, per i funzionari, del generale dovere
di fedeltà alla Repubblica, destinata a ricevere applicazione da
parte del legislatore. Egualmente senza sviluppi diretti risulta la
prospettiva che riconosce nell’art. 54, co. 2, l’arco di volta di un
nuovo disegno organizzativo, radicalmente opposto a quello della tradizione, incardinato non più sulla figura dell’organo, ma su
quella dell’ufficio e del funzionario, inteso come colui che adempie una funzione pubblica disciplinatamente e cioè secondo regola, nell’ambito dell’ufficio (Marongiu).
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3. La «riscoperta» dell’articolo 54
Vari elementi inducono a riconsiderare il precetto di disciplina
ed onore, sottraendolo ad un lungo oblio. A fronte del dilagare
di fenomeni corruttivi, di malamministrazione e di malcostume,
ricompare con crescente frequenza, nel dibattito pubblico l’evocazione dell’art. 54, comma secondo, ogni qual volta si intende
richiamare l’esigenza che la condotta di coloro che sono investiti
di funzioni pubbliche, si ispiri a regole di decoro adeguate alla
fiducia in essi riposta, che vanno oltre l’ ossequio formale ed esteriore alle leggi. La dottrina, per parte sua, dimostra una rinnovata
attenzione al tema (v., da ultimo, i contributi raccolti in F. Merloni
e R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Franco
Angeli, 2009).
La «riscoperta» del dovere di disciplina ed onore acquista un
senso tanto più pregnante se essa non si esaurisce nel ribadire il
valore etico e civile del precetto, cosa oggettivamente incontestabile, o nel riferire, correttamente, al dovere di disciplina ed
onore, le prescrizioni di vario ordine ispirate da un intento di
moralizzazione della vita pubblica. La sfida sta nel verificare se
questo lascito costituzionale, dimenticato da decenni, può, una
volta liberato dalla polvere e dai pregiudizi che lo hanno coperto,
ritrovare la sua funzione precettiva e di indirizzo, in un contesto
ordinamentale che, nel frattempo, ha subito grandi trasformazioni nella direzione del decentramento e della autonomia. La strada
in questa direzione potrebbe essere meno certa che in passato: i
pregiudizi giuspositivistici si sono stemperati; le diffidenze garantistiche sono venute meno e vengono rimpiazzate dalla preoccupazione di porre rimedio alla crisi della responsabilità; è svanita
ogni pur relativa fiducia nella capacità dei partiti di ergersi come
garanti dell’etica del personale politico.
Alla ricerca di punti fermi, si può in primo luogo ritenere superata la questione relativa alla natura giuridica o meno del dovere
di disciplina ed onore. Esclusa la possibilità di considerarlo come
una mera ridondanza del testo costituzionale, resta piuttosto da
chiarire quale sia la portata del principio in questione.
Parimenti da respingere pare la lettura che riconosce nel dovere una mera sintesi verbale di altri doveri ed altri principi dettati
da altri precetti. In realtà tra l’art. 54, co. 2, e i precetti rivolti ora
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agli uffici, ora ai funzionari, dagli articoli 28, 97, 98 della Costituzione, esiste una indubbia continuità, nel senso che ciascuno di
essi presuppone ed implica l’esistenza degli altri (il pubblico impiegato non può essere all’esclusivo servizio della nazione se non
esercita le sue funzioni con disciplina ed onore e se l’ufficio in
cui opera non è ordinato in modo da assicurare buon andamento
ed imparzialità.). Questa circostanza non autorizza a ritenere che
ciascuno di tali principi possa essere considerato superfluo, perché immanente agli altri. Al contrario, si potrebbe sostenere che
l’art. 54, co. 2, anche in ragione della sua collocazione nell’ambito
dei rapporti politici, e per la sua consequenzialità logica rispetto al principio di eguaglianza dei cittadini nell’accesso agli uffici
ed alle cariche elettive, sancito dall’art. 51, possa rappresentare il
riferimento unificante dei disparati precetti costituzionali concernenti i doveri e le responsabilità dei funzionari.
Quale è, dunque il contenuto precettivo del dovere di disciplina ed onore? I termini, per la loro vaghezza, lasciano all’interprete uno spazio fin troppo esteso. Nell’intento di restringere il
campo, pare opportuno notare che, se il dovere di disciplina ed
onore si indirizza, per inequivoca volontà del Costituente, tanto
ai funzionari onorari, quanto ai pubblici impiegati, il contenuto
del medesimo dovere non può mutare o essere diversamente graduato per intensità, a seconda che esso riguardi gli uni o gli altri,
come viceversa è stato prospettato nelle ricostruzioni dottrinarie
prevalenti, ma deve restare sempre il medesimo. Se infatti, rompendo una tradizione di netta separazione, governanti e servitori
pubblici assumono la nuova comune veste di cittadini-funzionari,
ciò corrisponde alla precisa volontà di chiedere ad essi una pari
responsabilità, e soprattutto una responsabilità che si gioca non
più all’interno degli ordinamenti d’appartenenza, ma nel rapporto con la collettività.
La «disciplina» evocata dall’art. 54, co. 2, non può dunque essere appiattita nella responsabilità disciplinare interna a rapporti
più o meno intensi di supremazia speciale. Non avrebbe tuttavia
molto senso sostituire alla responsabilità disciplinare altri doveri
ed altri obblighi di contenuto specifico, compilandone una sorta
di elenco. Il dovere, sebbene si indirizzi alle persone dei funzionari, trova il suo nucleo nella affermazione di un principio che
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deve essere sviluppato negli ordinamenti attraverso una catena di
deliberazioni.
Riconsiderata in tale luce, la «disciplina» assume il senso più
arioso di regolarità, perizia, competenza, apprendimento (v. ad
vocem S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet,
1966). Essa, come suggerito da G. Marongiu, è «dovere obbiettivo ed insieme corredo personale delle attitudini per l’esercizio
del dovere». In ultima analisi, ciò che la Costituzione chiede ai
funzionari, è di essere capaci ed onesti. Non è cosa da poco: esigere capacità ed onestà, in cambio dell’affidamento ricevuto, è
qualcosa che va molto oltre il dovere di rispettare le leggi.
Il dovere di disciplina ed onore, inteso in questi termini, si configura come un principio direttivo indirizzato principalmente al
legislatore, da declinarsi in ogni momento del rapporto che unisce il cittadino e l’ufficio, e non solo limitatamente all’esercizio
della funzione: quindi nell’accesso agli uffici, la cui regolazione
deve corrispondere all’esigenza di ammettere i capaci e gli onesti,
nella condotta personale e, entro certi limiti, anche nei comportamenti immediatamente successivi alla cessazione della funzione.
Tale principio dovrebbe ovviamente trovare composizione e bilanciamento con altri principi, connessi ed opposti, assumendo
carattere parametrico nel giudizio di legittimità delle leggi che
disciplinano l’accesso alle cariche e lo stato giuridico dei funzionari.
In conclusione, la «riscoperta» dell’art. 54, co. 2, della Costituzione, essenziale per ridefinire in termini unitari una nozione di
funzione pubblica, nell’ambito di un assetto organizzativo pluralista e federalistico passa per una fase destruens relativamente
facile, diretta a sgomberare il campo da approcci che hanno in
passato relegato la norma in una condizione di marginalità, ed
una fase construens molto più difficile ed incerta, che richiede un
ruolo attivo del legislatore, della giurisprudenza e della dottrina,
in un percorso simile a quello che ha consentito, in epoca recente,
la emersione del principio di imparzialità e buon andamento.
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Bernardo Giorgio Mattarella
DOVERI DI COMPORTAMENTO
1. Introduzione
Una volta che un cittadino ha assunto una carica pubblica, egli
è soggetto a una serie di regole di comportamento, che nel loro
complesso costituiscono esplicazione della previsione fondamentale dell’art. 54 della Costituzione:
i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle, con disciplina ed onore.
Questa previsione, nella sua semplicità e con un linguaggio ormai un po’ fuori moda, è importante, perché distingue i funzionari pubblici, per un verso, dalla generalità dei cittadini e, per un
altro verso, dai lavoratori privati.
Dal primo punto di vista, tutti i cittadini – recita il primo comma dello stesso articolo – devono rispettare la Costituzione e le
leggi: non è poco ma, per i funzionari pubblici, non è tutto; i funzionari pubblici devono fare qualcosa di più, devono mettere una
particolare cura nell’adempimento della funzione loro affidata,
devono quasi essere di esempio per gli altri cittadini. Dal secondo
punto di vista, la previsione costituzionale fa sì che i doveri dei
funzionari pubblici non derivino solo da accordi, come i contratti
di lavoro, ma anche da determinazioni unilaterali contenuti in atti
come le leggi e i codici di comportamento, che danno contenuto
all’obbligo di comportarsi con disciplina e onore: non che i lavoratori privati non debbano comportarsi con disciplina e onore,
ma non hanno un obbligo costituzionale di farlo, i loro doveri
derivano solo dai loro contratti di lavoro.
L’art. 54 offre la base per la definizione degli speciali doveri dei
funzionari pubblici. Altre norme della Costituzione ne ispirano
il contenuto. Tra esse, in primo luogo, quelle che impongono a
questi soggetti di servire onestamente la Nazione. Questo termine
è usato in tre articoli della Costituzione: due di questi tre articoli servono ad assoggettare le due grandi categorie di funzionari
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pubblici – i politici e i dipendenti – al servizio dei cittadini. A
norma dell’art. 67,
ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le
sue funzioni senza vincolo di mandato.
A norma dell’art. 98, «i pubblici impiegati sono al servizio
esclusivo della Nazione». Entrambe le norme mirano a far sì che
la condotta dei funzionari pubblici, elettivi o di carriera che siano,
sia ispirata alla tutela dell’interesse generale e non alla tutela di
interessi di parte. Queste previsioni, quindi, servono a bilanciare
altre previsioni costituzionali, che potrebbero altrimenti giustificare parzialità e privilegi: per i politici, l’appartenenza a partiti
politici non deve far perdere di vista il dovere di servire tutti i
cittadini; per gli impiegati, il principio della responsabilità ministeriale non deve pregiudicare quello di imparzialità.
Se il primo dovere dei funzionari pubblici è quello di servire
i cittadini, non possono stupire previsioni come quella dell’art.
2, co. 1 e 5, del Codice di comportamento dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, a norma delle quali
il dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale
di servire esclusivamente la Nazione con disciplina ed onore e di
rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione
e
il comportamento del dipendente deve essere tale da stabilire un
rapporto di fiducia e collaborazione tra i cittadini e l’amministrazione. Nei rapporti con i cittadini, egli dimostra la massima disponibilità e non ne ostacola l’esercizio dei diritti.
Tutte le regole di comportamento, in effetti, possono essere ricondotte all’idea di servizio a favore dei cittadini.
Occorre, però, esaminare più nel dettaglio le regole di comportamento delle diverse categorie di funzionari pubblici. Queste
regole sono poste da molti atti di vario tipo e hanno ambiti di
applicazione diversi. Il modo migliore per esaminarle è considerare i diversi problemi ed esigenze, che esse mirano a risolvere o a
soddisfare. Ciò consentirà di verificare come le stesse esigenze si
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pongono spesso in modo analogo, e a volte in modo diverso, per le
diverse categorie di funzionari. Nelle pagine che seguono, dunque,
si esamineranno dapprima i diversi problemi che si pongono nella definizione delle regole di comportamento dei funzionari pubblici, valutando il modo in cui essi sono risolti nell’ordinamento
vigente. Successivamente, si proporrà un bilancio della disciplina
vigente, considerando i diversi atti normativi in cui le regole di
comportamento sono contenute. Saranno considerate le principali
categorie di funzionari pubblici: i politici, gli altri funzionari onorari, i dipendenti pubblici e, in particolare, i magistrati.
2. L’adeguatezza dell’impegno
Una prima esigenza, che le regole di condotta dei funzionari
pubblici devono tendere a soddisfare, è quella di assicurare un adeguato impegno, in termini di tempo e di energie, da parte del funzionario pubblico nello svolgimento dei compiti inerenti alla sua
funzione. Questa esigenza trova una enunciazione generale nell’art.
2, co. 3, del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici:
Nel rispetto dell’orario di lavoro, il dipendente dedica la giusta quantità di tempo e di energie allo svolgimento delle proprie
competenze, si impegna ad adempierle nel modo più semplice ed
efficiente nell’interesse dei cittadini e assume le responsabilità connesse ai propri compiti.
Ma, naturalmente, essa non riguarda solo i dipendenti, ma anche i funzionari onorari, come i titolari di cariche politiche.
L’obiettivo dell’impegno adeguato può essere conseguito con
diversi strumenti. Per i politici, lo strumento principale è l’incompatibilità, istituto che può servire a diversi scopi: oltre che a questo, in particolare, può servire a prevenire il conflitto di interessi.
L’incompatibilità può sussistere tra diverse cariche pubbliche o
tra cariche pubbliche e private.
Come è noto, nel nostro ordinamento la relativa disciplina è
risalente e inadeguata, in particolare per quanto riguarda i parlamentari: il loro elevato tasso di assenteismo dipende non solo
dalla dinamica dei rapporti tra Governo e Parlamento, che può
dare una sensazione di inutilità dei lavori parlamentari, ma anche
dalla quantità di ulteriori impegni politici e professionali dei par227
lamentari stessi. Mancano norme che regolino la possibilità dei
parlamentari di svolgere attività imprenditoriali e professionali.
Simili norme dovrebbero essere equilibrate e non troppo restrittive, per evitare di allontanare persone capaci dalla vita politica,
ma dovrebbero comunque assicurare un adeguato impegno nello svolgimento dell’attività politica. Vi sono, invece, norme che
limitano la possibilità di rivestire contemporaneamente diverse
cariche politiche, per esempio quella di parlamentare e di sindaco: ma si tratta di norme spesso violate, con la benedizione degli
organi parlamentari di controllo, a cui spetterebbe di farle rispettare. Sarebbe utile, quindi, da un lato, aggiornare la disciplina delle
incompatibilità dei parlamentari (e analogo discorso si potrebbe
fare per le Regioni e per gli enti locali, nel quadro delle rispettive
autonomie); dall’altro, affidare il controllo sul suo rispetto a un organo estraneo alla sfera politica e non governato da maggioranze politiche (per i membri del Parlamento potrebbe ben trattarsi della
Corte costituzionale, secondo una proposta spesso avanzata).
Migliore di quella relativa ai parlamentari, anche se incompleta
sotto il profilo dei controlli e delle sanzioni, è la disciplina delle
incompatibilità dettata per i membri del Governo dalla legge n.
215 del 2004. Si tratta della nota legge Frattini sul conflitto di
interessi, legge fasulla e votata all’inefficacia per quanto riguarda
il conflitto di interessi, ma utile per la disciplina dell’incompatibilità. Si tratta, peraltro, di una disciplina dettata allo scopo di
preservare l’indipendenza dei ministri più che allo scopo di assicurarne un impegno adeguato.
Il Parlamento non si preoccupa molto di questo problema, con
riferimento ai propri componenti, e non se ne è preoccupato molto neanche per i componenti dei consigli e delle giunte regionali. I
principi dettati dalla legge n. 165 del 2001, emanata in attuazione
dell’art. 122 della Costituzione, infatti, sono molto ragionevoli, in
generale e – in particolare – con riferimento all’incompatibilità.
Ma anche questa disciplina dell’incompatibilità è volta a far sì che
le leggi regionali assicurino l’indipendenza dei politici regionali,
piuttosto che l’adeguatezza del loro impegno. Eppure, come per
i parlamentari nazionali, ci si dovrebbe almeno porre il problema
di assicurare che per i consiglieri e gli assessori regionali la relativa carica sia l’impegno primario, e non un titolo onorifico o una
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prebenda. Naturalmente, possono ben essere le singole Regioni a
farsi carico di questa esigenza.
Lo stesso può dirsi per il personale politico degli enti locali:
la pur analitica disciplina delle incompatibilità, contenuta nel testo unico degli enti locali (decreto legislativo n. 267 del 2000) è
finalizzata a garantirne l’indipendenza da interessi esterni (e in
questa chiave se ne dirà in seguito) e non a imporre loro un certo impegno. In questo caso, peraltro, la scelta legislativa appare
ragionevole: sia perché nella maggior parte degli enti locali l’impegno degli amministratori non è tale da escludere altre attività
lavorative (né lo è di regola la loro retribuzione), sia perché gli
enti di maggiori dimensioni, per i quali il problema può porsi,
possono ben provvedere con i propri statuti e regolamenti. Non a
caso, il testo unico contempla sia l’ipotesi di aspettativa, sia i permessi retribuiti per gli amministratori locali che abbiano rapporti
di lavoro dipendente.
Per quanto riguarda gli altri funzionari onorari, è difficile fare
un discorso unitario, per via della loro eterogeneità. Molti incarichi in enti e organi pubblici costituiscono esplicazione di attività
professionale, quindi l’esclusione di altre attività professionali è
difficilmente proponibile. Per altri, come quelli in molte autorità
indipendenti, vi sono divieti di svolgimento di altre attività, che
sembrano dettati più a tutela dell’indipendenza (per prevenire i
conflitti di interessi) che dell’efficienza. Colpisce, però, l’eterogeneità della disciplina, anche tra diverse autorità indipendenti: si
confronti, per esempio, la disciplina rigorosa dettata per i componenti delle autorità di regolazione dei servizi pubblici, quella
opposta dettata per i componenti della Commissione di garanzia
sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e quella intermedia
dettata più recentemente per la Commissione per la valutazione, l’integrità e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche.
Occorrerebbe estendere alcune regole essenziali di incompatibilità,
già previste per alcune autorità indipendenti, alle altre. Sarebbe
ragionevole anche stabilire una correlazione tra retribuzione e impegno nella carica, richiedendo un impegno esclusivo per gli incarichi con retribuzioni al di sopra di un certo limite.
Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, il problema è normalmente risolto vietando ulteriori attività lavorative e richiedendo la
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preventiva autorizzazione per le attività occasionali: nel pubblico
impiego, la regola è quella dell’esclusività, salvo le ipotesi marginali di impiego a tempo determinato e categorie particolari, come
quella dei professori universitari a tempo definito, che rinunciano
a una quota della propria retribuzione in cambio della libertà di
svolgere un’attività professionale. Si tratta di un sistema alquanto
rigido, che comporta costi burocratici non irrilevanti in termini di
procedure di autorizzazione e controllo. Ma si tratta forse di una
scelta necessaria, in difetto di meccanismi incentivanti volti a promuovere efficacemente l’impegno dei dipendenti: esso potrebbe
essere reso più elastico, lasciando ai dipendenti maggiore libertà
nell’uso del proprio tempo libero, se il sistema di valutazione e di
premi all’efficienza garantisse comunque un impegno adeguato
da parte dei dipendenti.
Per quanto riguarda, in particolare, i magistrati, il problema
si pone raramente, perché le norme – a tutela della loro indipendenza – impongono un regime molto restrittivo, che rende molto
improbabile che le loro altre attività, eventualmente autorizzate,
richiedano un impegno tale da pregiudicare lo svolgimento delle
loro funzioni. Al contrario, le attività spesso svolte, come quella
scientifica e un limitato impegno didattico, possono avere effetti
positivi su di esso. Un’eccezione riguarda probabilmente alcune
ipotesi relative ai magistrati amministrativi, il cui impegno didattico ed editoriale assume a volte dimensioni tali da far dubitare
di quale sia la loro attività prevalente e da temere l’aggiramento
del divieto di svolgere attività d’impresa. Sebbene la ricchezza di
esperienze dei suoi componenti sia sempre stata un punto di forza
della magistratura ordinaria, servirebbero regole più stringenti e
maggiore vigilanza sul loro rispetto.
3. L’efficienza
Naturalmente, non basta dedicare la giusta quantità di tempo
ed energie allo svolgimento della propria funzione: occorre anche
impiegarli proficuamente, svolgendo la funzione stessa in modo
efficiente.
L’efficienza dei politici nello svolgimento delle loro funzioni,
per ovvie ragioni, non è facilmente misurabile, né è bene che sia
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misurata da soggetti diversi dagli elettori, anche perché i parametri utilizzati – per esempio il numero di proposte di legge o di
mozioni presentate – sono per lo più ingannevoli. Ci sono, naturalmente, regole di comportamento inerenti allo svolgimento dei
lavori degli organi politici (per esempio, leggere ciò che si firma)
e ai rapporti con gli elettori (per esempio, rispondere alle lettere),
ma non è certo il caso di controllare il loro rispetto. È giusto, però,
che i politici stessi, di propria iniziativa o su impulso dei partiti,
informino gli elettori dell’attività svolta e dei risultati conseguiti,
anche in relazione ai propri programmi elettorali. Dove non bastano i rapporti personali, la rete internet offre molti strumenti
per farlo: siti, blog, newsletters e simili. Da questo punto di vista,
è auspicabile che siano i partiti politici a chiedere ai propri rappresentanti di adottare simili strumenti di trasparenza e ad offrire loro
il proprio supporto, in modo che l’efficienza dei politici sia, se non
misurata, apprezzata dagli elettori.
Lo stesso ragionamento può valere per molti altri funzionari
onorari, il cui operato può essere valutato dai soggetti che li eleggono o nominano, oltre agli strumenti di controllo a volte previsti
per i singoli organi, come la decadenza per la mancata adozione
di determinati atti o per la ripetuta assenza alle riunioni di un
organo collegiale.
Per altre categorie di funzionari pubblici, come quelli legati da
un rapporto di lavoro con un’amministrazione, l’attività è meno
libera e l’efficienza è più facilmente declinabile in norme organizzative e anche in norme di condotta, come quelle contenute nel
Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che richiedono
al dipendente innanzitutto di essere realmente al servizio dei cittadini:
il dipendente limita gli adempimenti a carico dei cittadini e delle
imprese a quelli indispensabili e applica ogni possibile misura di
semplificazione dell’attività amministrativa, agevolando, comunque, lo svolgimento, da parte dei cittadini, delle attività loro consentite, o comunque non contrarie alle norme giuridiche in vigore
(art. 2, co. 6).
Ulteriori previsioni sono più genericamente volte a promuovere l’efficienza:
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salvo giustificato motivo, non ritarda né affida ad altri dipendenti
il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spettanza;
nel rispetto delle previsioni contrattuali, il dipendente limita le assenze dal luogo di lavoro a quelle strettamente necessarie (art. 10,
co. 1 e 2).
Si tratta di previsioni che traducono in norme di comportamento individuale principi e regole relativi all’organizzazione e al
funzionamento delle amministrazioni.
Poiché, poi, il buon funzionamento delle amministrazioni richiede il rispetto delle rispettive competenze e dei relativi principi costituzionali, è altresì stabilito che,
nello svolgimento dei propri compiti, il dipendente rispetta la distribuzione delle funzioni tra Stato ed enti territoriali. Nei limiti
delle proprie competenze, favorisce l’esercizio delle funzioni e dei
compiti da parte dell’autorità territorialmente competente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati (art. 2, co. 7).
A differenza di quello dei politici, il rendimento dei dipendenti
pubblici può non solo essere declinato in norme più specifiche,
ma anche soggetto a controlli, il cui esito può avere rilievo su
diversi piani, compreso quello della retribuzione e della responsabilità disciplinare, soprattutto a seguito della riforma operata dal
decreto legislativo n. 150 del 2009. Il Codice di comportamento,
sia pure con espressioni che andrebbero aggiornate a quelle usate
da questo decreto, si preoccupa di tradurre anche questa esigenza
in regole di comportamento:
il dirigente ed il dipendente forniscono all’ufficio interno di controllo tutte le informazioni necessarie ad una piena valutazione dei
risultati conseguiti dall’ufficio presso il quale prestano servizio.
L’informazione è resa con particolare riguardo alle seguenti finalità:
modalità di svolgimento dell’attività dell’ufficio; qualità dei servizi
prestati; parità di trattamento tra le diverse categorie di cittadini
e utenti; agevole accesso agli uffici, specie per gli utenti disabili;
semplificazione e celerità delle procedure; osservanza dei termini
prescritti per la conclusione delle procedure; sollecita risposta a
reclami, istanze e segnalazioni (art. 13).
232
Per quanto riguarda i magistrati, infine, il tema dell’efficienza
è ovviamente delicato, sia perché la misurazione del rendimento della relativa attività è difficile, sia perché essa va operata in
modo da garantirne l’indipendenza. La tutela dell’indipendenza,
negli ultimi decenni, ha fatto premio sull’esigenza di garanzia. È
probabile ed auspicabile che in futuro le norme e gli organi di governo si facciano maggiormente carico di questa esigenza. Il tema,
peraltro, va al di là dell’oggetto di questo scritto.
4. L’imparzialità
L’imparzialità è evidentemente un principio fondamentale,
enunciato dall’art. 97 della Costituzione, per i dipendenti pubblici. Nella normale condotta del dipendente, si traduce soprattutto
nella parità di trattamento, alla quale è dedicato l’art. 13 del Codice di comportamento:
il dipendente, nell’adempimento della prestazione lavorativa, assicura la parità di trattamento tra i cittadini che vengono in contatto
con l’amministrazione da cui dipende. A tal fine, egli non rifiuta né
accorda ad alcuno prestazioni che siano normalmente accordate
o rifiutate ad altri. Il dipendente si attiene a corrette modalità di
svolgimento dell’attività amministrativa di sua competenza, respingendo in particolare ogni illegittima pressione, ancorché esercitata
dai suoi superiori.
Per i magistrati, naturalmente, l’imparzialità assume un significato ancora più forte.
Essa non assume lo stesso valore, invece, per i politici. Non
che essi possano fare favoritismi o disparità di trattamento nel
disporre di risorse pubbliche. Essi, però, nell’adozione delle loro
decisioni, devono ovviamente operare scelte, sulla base di orientamenti legittimamente «di parte». Anche i politici, peraltro, devono rispettare l’imparzialità delle pubbliche amministrazioni e,
quindi, astenersi da pressioni indebite su di esse e da condotte da
«partito di occupazione», secondo la felice espressione di Leopoldo Elia. Il concetto è ben espresso dall’art. 78, co. 1, del testo
unico degli enti locali:
Il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle proprie
233
funzioni, deve essere improntato all’imparzialità e al principio di
buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le
funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori […] e
quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni.
Da questo punto di vista, le norme che consentono forme di
spoils system favoriscono oggettivamente comportamenti contrari
al principio di imparzialità: a tutela dell’imparzialità amministrativa, esse andrebbero combattute, sia al livello legislativo sia al
livello di regole di comportamento dei politici.
Per gli altri funzionari onorari, l’imparzialità si pone in termini
variabili, ma spesso in termini più simili a quelli propri dei dipendenti pubblici che a quelli propri dei politici, dato che le cariche
da essi ricoperte sono spesso cariche di governo in amministrazioni pubbliche. Ciò vale a maggior ragione, naturalmente, per i
componenti delle autorità indipendenti, per i quali l’esigenza di
imparzialità si pone in modo simile a come per i magistrati.
5. L’indipendenza
Le attività ulteriori rispetto allo svolgimento della funzione
pubblica, che il funzionario svolga, possono costituire un problema anche se esse non lo impegnano a tal punto da distrarlo
dalla funzione stessa (problema di cui al par. 2). Esse possono,
infatti, legarlo professionalmente a soggetti, i cui interessi siano
in conflitto con quelli pubblici o, comunque, siano affetti dalla sua attività di rilievo pubblicistico, generando la tentazione di
favoritismi e scambi di favori. Ciò, ovviamente, può determinare
condizionamenti che compromettono la sua indipendenza nello
svolgimento della funzione.
Anche questo problema si pone per tutte le categorie di funzionari pubblici. Per quanto riguarda i politici, anche in questo caso
il rimedio principale è l’istituto dell’incompatibilità, utilizzato per
le diverse categorie di titolari di cariche politiche. Per i parlamentari, come già rilevato, la disciplina è del tutto antiquata.
Per i membri del Governo, la disciplina è migliore, vietando lo
svolgimento di attività imprenditoriali e professionali. Essa, peraltro, è, come già accennato, incompleta sotto il profilo dei controlli
e delle sanzioni. La legge attribuisce agli organi dei relativi ordi234
namenti professionali il compito di far valere il divieto di esercizio
di attività professionali e all’Autorità garante della concorrenza
e del mercato quelli di accertare la sussistenza di situazioni di
incompatibilità e di promuovere la rimozione o la decadenza
dalla carica o ufficio incompatibile, la sospensione del rapporto
di impiego incompatibile e la sospensione dall’iscrizione in albi
e registri professionali. Queste previsioni possono evitare che il
titolare di cariche di governo abbia incarichi pubblici incompatibili e svolga attività professionali incompatibili, ma non possono
impedire di svolgere attività di impresa: di fronte al titolare di
cariche di governo che mantenga la qualità di imprenditore o una
carica in una società per azioni, l’Autorità antitrust non sembra
avere armi. Occorrerebbe introdurre sanzioni per l’inosservanza
del divieto di svolgere attività private incompatibili con la carica pubblica: sia agendo sul versante pubblico (con la decadenza
dalla carica di governo o con l’invalidità degli atti compiuti e la
responsabilità civile di chi li avesse posti in essere), sia agendo su
quello privato (con sanzioni pecuniarie a carico dell’impresa, con
la revoca o sospensione dell’autorizzazione o della concessione
amministrativa, sulla base della quale essa svolgesse eventualmente la propria attività, con la decadenza dalla carica eventualmente
ricoperta dall’interessato in una società). Molte di queste sanzioni
potrebbero essere irrogate da organi giurisdizionali e, quindi, la
loro applicazione sarebbe stata in buona parte sottratta alle influenze politiche.
Per quanto riguarda il personale politico delle Regioni, la già
citata legge quadro n 165 del 2004 pone alcuni semplici e buoni
principi, stabilendo che l’incompatibilità va prevista dalle leggi
regionali:
in caso di conflitto tra le funzioni svolte dal Presidente o dagli altri
componenti della Giunta regionale o dai consiglieri regionali e altre
situazioni o cariche, comprese quelle elettive, suscettibile, anche in
relazione a peculiari condizioni delle Regioni, di compromettere
il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ovvero il
libero espletamento della carica elettiva;
…
in caso di conflitto tra le funzioni svolte dal Presidente o dagli altri
componenti della Giunta regionale o dai consiglieri regionali e le
235
funzioni svolte dai medesimi presso organismi internazionali o sopranazionali;
ed eventualmente in caso di lite pendente con la Regione.
Alcune buone regole sono poste anche per gli amministratori
locali. L’art. 78 del relativo testo unico stabilisce che
i componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare
attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel
territorio da essi amministrato;
al sindaco ed al presidente della Provincia, nonché agli assessori
ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti
o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza dei relativi
Comuni e Province.
Per gli altri funzionari onorari, anche in questo caso, è difficile
fare un discorso generale, perché le regole variano da ente a ente
e da autorità ad autorità. Ma si può notare una lacuna particolarmente grave, che riguarda il personale degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e degli organi di vertice di altri enti. Essi
occupano posizioni di grande rilievo e delicatezza, con funzioni
di decisione e di mediazione di interessi, ma non ci sono regole
volte a tutelare la loro indipendenza da questi interessi e neanche
forme di incompatibilità: non è raro che essi abbiano, contemporaneamente, anche altri incarichi e neanche che svolgano attività
professionali, che possono facilmente generale conflitti di interessi. È un aspetto di una carenza più generale, a cui occorrerebbe
porre rimedio: occorre definire in via generale i doveri dei titolari e
degli addetti agli uffici di staff dei vertici delle amministrazioni.
Va ancora osservato che l’indipendenza del pubblico funzionario può essere messa in pericolo non solo dallo svolgimento di
attività ulteriori rispetto allo svolgimento delle funzioni d’ufficio,
ma anche da altri fattori, come la partecipazione ad associazioni,
operanti nell’ambito di interesse dell’amministrazione e la ricezione di regali o ospitalità da parte di soggetti interessati, con i
quali egli ha rapporti per ragioni d’ufficio. Come dimostrato dalla
236
cronaca recente, le norme al riguardo sono carenti, in particolare
per i politici, e sarebbero quanto mai opportune.
Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, vi sono le regole del
Codice di comportamento dei dipendenti pubblici: in ordine alla
partecipazione ad associazioni, esso impone obblighi di trasparenza, stabilendo che
il dipendente comunica al dirigente dell’ufficio la propria adesione
ad associazioni ed organizzazioni, anche a carattere non riservato, i
cui interessi siano coinvolti dallo svolgimento dell’attività dell’ufficio, salvo che si tratti di partiti politici o sindacati;
e tutela la libertà di associazione, prevedendo che
il dipendente non costringe altri dipendenti ad aderire ad associazioni ed organizzazioni, né li induce a farlo promettendo vantaggi
di carriera (art. 4).
In ordine alla ricezione di regali, il Codice prevede che il dipendente
non accetta da soggetti diversi dall’amministrazione retribuzioni o
altre utilità per prestazioni alle quali è tenuto per lo svolgimento
dei propri compiti d’ufficio
e
non accetta incarichi di collaborazione con individui od organizzazioni che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico in decisioni o attività inerenti all’ufficio (art. 7);
non chiede, per sé o per altri, né accetta, neanche in occasione di
festività, regali o altre utilità salvo quelli d’uso di modico valore,
da soggetti che abbiano tratto o comunque possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio;
non chiede, per sé o per altri, né accetta, regali o altre utilità da un
subordinato o da suoi parenti entro il quarto grado. Il dipendente
non offre regali o altre utilità ad un sovraordinato o a suoi parenti
entro il quarto grado, o conviventi, salvo quelli d’uso di modico
valore (art. 3).
237
Infine, l’indipendenza del funzionario richiede che egli sia disinteressato, nel senso proprio del termine: che egli non abbia interessi, coinvolti nella propria attività, diversi da quello pubblico,
che deve perseguire. Finora si è fatto riferimento a ipotesi in cui il
funzionario è esposto all’influenza di interessi altrui. Ma a turbare
il corretto svolgimento delle sue funzioni può essere anche un
interesse proprio del funzionario: questa è l’ipotesi del conflitto
di interessi. In questa sede, peraltro, non ci si sofferma su questo
tema, per il quale si rinvia al relativo contributo.
6. Trasparenza e riservatezza
Una serie di problemi ulteriori, inerenti ai rapporti tra funzionari pubblici e cittadini, riguarda l’uso delle informazioni delle
quali i primi siano in possesso per ragioni d’ufficio. Il problema
si pone in termini molto diversi per i politici e per gli altri funzionari pubblici, per via della concezione tradizionale basata sul
principio di responsabilità ministeriale, in base alla quale i politici
rispondono ai cittadini dell’operato delle amministrazioni, mentre i dipendenti sono tenuti al segreto nei confronti dei cittadini,
dovendo invece fornire tutte le informazioni richieste ai vertici
politici. Questa concezione si è a lungo tradotta in un’assenza di
regole relative ai politici e in un obbligo di segreto a carico dei
dipendenti. La situazione è però mutata, per un verso, a causa
della diffusione di obblighi di trasparenza a carico dei politici e,
per un altro verso, per l’affermarsi del principio della trasparenza
amministrativa.
La trasparenza imposta ai politici – in particolare ai parlamentari – riguarda non lo svolgimento delle loro funzioni, ma essenzialmente informazioni relative ai loro redditi e ai loro interessi finanziari. Esse vengono periodicamente pubblicate, anche se sotto
questo aspetto, in Italia, il livello di trasparenza è ben più basso
di quello imposto ai parlamentari di ordinamenti come gli Usa, la
Germania e il Regno Unito. Non vi sono, invece previsioni sulla
trasparenza dell’attività inerente allo svolgimento del mandato
elettivo, che peraltro è in gran parte pubblica.
Norme in materia di trasparenza degli interessi finanziari e di
informazioni come i redditi, gli incarichi e il curriculum vitae sono
238
state introdotte, negli ultimi anni, anche per varie categorie di dipendenti pubblici, in particolare per quelli di livello dirigenziale.
Da ultimo, il decreto legislativo n. 150 del 2009 ha stabilito che
alcune informazioni, come i curricula e le retribuzioni dei dirigenti, siano pubblicati sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione. Peraltro, il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici prevede già obblighi di trasparenza, per tutti i dipendenti e,
in particolare, per i dirigenti: per i primi è stabilito l’obbligo di
informare il dirigente dell’ufficio dei rapporti di collaborazione
retribuiti dell’ultimo quinquennio, con particolare riferimento a
quelli intercorsi con soggetti che abbiano interessi in attività o decisioni inerenti alle pratiche a lui affidate; per i secondi è previsto
l’obbligo di comunicare all’amministrazione, prima di assumere
le proprie funzioni,
le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possano
porlo in conflitto di interessi con la funzione pubblica che svolge e
dichiara se ha parenti entro il quarto grado o affini entro il secondo, o conviventi che esercitano attività politiche, professionali o
economiche che li pongano in contatti frequenti con l’ufficio che
egli dovrà dirigere o che siano coinvolte nelle decisioni o nelle attività inerenti all’ufficio (art. 5).
Nel complesso, i pubblici funzionari devono accettare un sacrificio per la loro riservatezza, una minore tutela dei loro dati
personali. Questo sacrificio è giustificato alla luce degli art. 54,
67 e 98 della Costituzione: i pubblici funzionari devono comportarsi «con disciplina e onore» e devono essere pronti ad accettare
controlli sull’adempimento di questi doveri; essi sono «al servizio
della Nazione» e devono sottoporsi al controllo dei cittadini.
Più in generale, la trasparenza amministrativa ha determinato
un progressivo spostamento del confine tra l’area coperta dall’obbligo del segreto d’ufficio e quella coperta dal diritto alla trasparenza. La relativa previsione del testo unico sul pubblico impiego
del 1957 è stata riformulata, come è noto, in occasione dell’introduzione della disciplina del diritto d’accesso nel 1990. La sua
portata è ulteriormente ridotta, ovviamente, dalle previsioni della
legge n. 15 e del decreto legislativo n. 150 del 2009, in materia di
«accessibilità totale», cioè di pubblicità, delle informazioni ine239
renti all’organizzazione e all’attività amministrativa. Anche questa evoluzione trova un riscontro nel Codice di comportamento,
a norma del quale il dipendente
favorisce l’accesso degli stessi alle informazioni a cui abbiano titolo
e, nei limiti in cui ciò non sia vietato, fornisce tutte le notizie e informazioni necessarie per valutare le decisioni dell’amministrazione e i comportamenti dei dipendenti (art. 2, co. 5).
Le informazioni amministrative, peraltro, continuano a dover
essere utilizzate solo nell’interesse dei cittadini e non per altri scopi: il Codice ricorda infatti che «il dipendente […] non utilizza a
fini privati le informazioni di cui dispone per ragioni di ufficio»
(art. 2, co. 4).
La trasparenza, infine, riguarda non solo i contenuti delle comunicazioni ai cittadini, ma anche i modi di essa: è per questo
che, sempre a norma del Codice di comportamento, il dipendente, «nella redazione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni il dipendente adotta un linguaggio chiaro e comprensibile»
(art. 11, co. 4).
7. L’immagine dell’amministrazione
Nei rapporti tra i funzionari pubblici e i cittadini, c’è l’esigenza di fornire ai secondi le informazioni necessarie, ma c’è anche
l’esigenza di non distorcere la percezione dell’amministrazione e
di non danneggiarne ingiustificatamente l’immagine. Un’ulteriore
area di doveri dei funzionari pubblici, di conseguenza, attiene alla
cura dell’immagine esterna dell’amministrazione. Questi doveri
possono esplicarsi in regole inerenti ai rapporti con i cittadini, ai
rapporti con la stampa e anche alla vita privata. La loro violazione può non essere sanzionata, ma può anche essere sanzionata
pesantemente, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte
dei Conti in materia di responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione.
Per i funzionari onorari, peraltro, il dovere di custodire l’immagine dell’amministrazione non si traduce in specifici obblighi
di comportamento: per essi, di regola, il danno all’immagine dell’amministrazione assume rilievo solo in seguito alla commissione
240
di reati ed è, quindi, la conseguenza della violazione di norme
penali e non di specifiche norme volte a tutelare questo valore.
Per i dipendenti pubblici, invece, vi sono regole specifiche,
contenute nei Codici di comportamento. Per quanto riguarda lo
svolgimento delle mansioni, il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici stabilisce che
il dipendente in diretto rapporto con il pubblico presta adeguata
attenzione alle domande di ciascuno e fornisce le spiegazioni che
gli siano richieste in ordine al comportamento proprio e di altri
dipendenti dell’ufficio. Nella trattazione delle pratiche egli rispetta
l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto motivando genericamente con la quantità di lavoro da svolgere o la
mancanza di tempo a disposizione (art. 11, co. 1).
Si tratta, come è evidente, di previsioni volte a promuovere non
solo il corretto funzionamento delle amministrazioni, ma anche la
percezione di esso. Nella stessa prospettiva può essere valutata la
previsione secondo la quale
il dipendente non prende impegni né fa promesse in ordine a decisioni o azioni proprie o altrui inerenti all’ufficio, se ciò possa generare o confermare sfiducia nell’amministrazione o nella sua indipendenza ed imparzialità (art. 11, co. 3).
L’immagine dell’amministrazione può essere lesa anche dai
comportamenti riprovevoli dei pubblici funzionari nella vita privata. Si tratta peraltro, come è facile intuire, di un aspetto particolarmente delicato e difficile da disciplinare, per diverse ragioni: perché regole di condotta nella vita privata determinano pur
sempre un’intromissione del datore di lavoro pubblico nell’attività extralavorativa del funzionario; perché simili regole possono
essere espressione di un approccio moralistico o paternalistico
alla condotta dei funzionari pubblici, che può non essere condiviso; perché valutare la correttezza dei comportamenti privati, e
quindi le relative violazioni, è molto più difficile che valutare la
correttezza del comportamento in servizio, e rischia di tradursi in
valutazioni arbitrarie.
Occorre però ricordare la specificità dei funzionari pubblici e
del loro statuto giuridico: quanto mai opportuno, al riguardo, è il
241
richiamo al dovere di comportarsi con onore, richiesto dall’art. 54
della Costituzione. Il bilanciamento tra queste opposte esigenze
non è facile. Non a caso, regole di comportamento dettagliate
si hanno solo per determinate categorie di dipendenti pubblici,
come quelli appartenenti ai corpi militari, i quali sono sottoposti
a una disciplina più rigorosa. Il Codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, invece, si limita a porre un divieto di approfittare indebitamente della propria posizione:
nei rapporti privati, in particolare con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, non menziona né fa altrimenti intendere, di
propria iniziativa, tale posizione, qualora ciò possa nuocere all’immagine dell’amministrazione (art. 9).
Un ultimo problema, inerente ai rapporti esterni e all’immagine dell’amministrazione, attiene ai rapporti con la stampa. Anche
a questo riguardo, ci sono esigenze diverse da contemperare, essendo coinvolti la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa. Anche a questo riguardo, non vi sono regole per i
politici, per i quali i rapporti con la stampa e la facoltà di critica
costituiscono elementi essenziali dello svolgimento delle funzioni
d’ufficio. Ve ne sono, invece, nei codici di comportamento, che
bilanciano variamente gli interessi in gioco: quello generale dei
dipendenti pubblici è abbastanza liberale, stabilendo che
salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni
a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini, il dipendente si astiene
da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione. Il dipendente tiene informato il dirigente
dell’ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa (art. 11,
co. 2).
Per i magistrati ordinari, il codice etico dell’Associazione nazionale magistrati privilegia ancora più decisamente la libertà del
magistrato di avere rapporti con la stampa rispetto all’esigenza di
riservatezza:
il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio. Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio e
ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di ga-
242
rantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto
di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini,
evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali
riservati o privilegiati. Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio
e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli
altri mezzi di comunicazione di massa (art. 6).
Ben più rigoroso, per esempio, è il codice etico dell’Autorità
garante per la concorrenza e il mercato, secondo il quale
il dipendente non intrattiene rapporti con gli organi di stampa. Nel
caso in cui sia destinatario di richieste di informazioni o chiarimenti da parte di organi di stampa, ne informa tempestivamente il
responsabile dell’ufficio presso il quale presta servizio (art. 8).
8. Il giuramento
All’inizio di questo contributo si è fatto riferimento all’art. 54
della Costituzione, come fondamento di un corpo di principi e
regole di comportamento peculiari dei pubblici funzionari, che
li distinguono rispetto agli altri cittadini e, in particolare, dai lavoratori del settore privato. La formulazione dell’art. 54 è completata dalla previsione secondo la quale i funzionari pubblici
prestano giuramento nei casi previsti dalla legge. Si tratta di una
previsione coerente con quell’idea: il giuramento può costituire
un momento solenne, nel quale il funzionario si fa esplicitamente
carico di questa peculiarità e dello status particolare che consegue
all’assunzione di una carica pubblica e che lo distingue dagli altri
cittadini. Si tratta di un ulteriore obbligo, strumentale alle regole
di comportamento proprie del funzionario, che gli può essere imposto: coerentemente, la Costituzione pone una riserva di legge
sulle relative previsioni.
Attualmente non esiste una previsione legislativa generale al
riguardo, ma solo previsioni relative a singole categorie di funzionari, come i ministri e i magistrati. In un disegno di legge recentemente presentato al Parlamento, peraltro, il Governo ha ipotizzato
che tutti i dipendenti pubblici, all’atto della prima assunzione in
un’amministrazione pubblica, prestino un giuramento di fedeltà.
Si tratta di una proposta che può essere valutata favorevolmente:
243
4. Interessi organizzati,
lobbying e decisione pubblica
di Enrico Carloni
1. Etica, corruzione e interesse pubblico
In un saggio tra i più citati nella letteratura giuridica statunitense dell’ultimo ventennio, Cass R. Sunstein lamentava la diffusa, forte insoddisfazione per la governance democratica statunitense, e questo in conseguenza
dei problemi “produced by the existence of interest groups, or ‘factions’,
and their influence over the political process”1. Il problema delle lobbies,
che nella dottrina statunitense è spesso ricondotto alla posizione di Madison
rispetto agli interessi parziali2, è, oggi, di non secondaria rilevanza, come ci
dimostra l’attenzione che al tema è stata posta nel corso dell’ultima campagna presidenziale statunitense e quindi già nei primi interventi di Barack
Obama successivi alla vittoria elettorale3.
Si tratta di una questione, come sarà più chiaro nel prosieguo, che è, però, tanto evidente quanto spesso estranea al dibattito pubblico e trascurata
1
Cfr. C. R. Sunstein, “Interest Groups in American Public Law”, Stanford Law Review,
1985-1986, 29.
2
Nella letteratura statunitense sul lobbying è frequentemente ripresa (vedi da ultimo
esempio A. S. Krishnakumar, “Towards a Madisonian, Interest-Group-Based, Approach to
Lobbying Regulation”, Ala. Law Rev., 2006-2007, 513) la posizione di James Madison rinvenibile in particolare nel Federalist Paper, n. 10, che, nel criticare le “fazioni” e i gruppi portatori di interessi particolari, sosteneva che ci sono due metodi per risolvere il problema (“the
one, by removing its causes; the other, by controlling its effects”), salvo poi riconoscere
l’impossibilità, e indesiderabilità, della prima soluzione, per concludere quindi che “the regulation of these various and interfering interests forms the principal task of modern legislation”.
Il collegamento con le posizioni medisoniane è evidente, in particolare, in D. B. Truman, The
Governmental Process: Political Interests and Public Opinion, New York, 1951.
3
Si veda, in particolare, il discorso del 28 febbraio 2009 (cosiddetto “‘so am I’ speech”,
perché si chiude appunto con la rivendicazione di un diverso rapporto con gli interessi organizzati nel promuovere riforme di interesse generale). La questione del peso eccessivo delle
lobbies nella politica americana è stato peraltro ricorrente nel corso della campagna elettorale anche nei discorsi del candidato repubblicano J. McCain.
108
dalla stessa dottrina giuridica italiana (peraltro in questo distratta dalle
anomalie italiane riferibili alla diversa ma non distante questione del conflitto di interessi4): da un lato presumendola confinata in ordinamenti diversi da quello nazionale, dall’altro, e in ogni caso, assumendola circoscritta
alle deliberazioni del Parlamento o, al più, alle decisioni del Governo. Entrambi questi assunti sono, però, errati: il fatto che un fenomeno non sia regolato non significa che non esista (come, peraltro, ci dimostrano anche
dati empirici)5, mentre attenti studi sulle agenzie e sulle autorità di regolazione hanno da tempo mostrato l’importanza del fenomeno a livello di decisioni amministrative6.
Al pari della corruzione7, e persino più di questa in vari ordinamenti tra
cui il nostro, il conflitto tra interessi e la cattura dell’interesse pubblico finisce per essere un clandestin administratif8 di cui talvolta si ignora
l’esistenza, ma che più spesso è semplicemente occultato, “rimosso” come
fatto problematico, tanto dai protagonisti che dalla stessa opinione pubblica
(o, almeno, da parti significative di questa).
Se accogliamo il modello “principale-agente”, proposto frequentemente
4
Si veda, in tal senso, l’attenzione assolutamente prevalente, giustificata appunto dalla
specificità dell’esperienza italiana, che, tra le varie problematiche relative alla “cattura” dell’azione pubblica al servizio di interessi parziali è dedicata, nella dottrina giuridica italiana,
alla questione del conflitto tra interessi propri del funzionario ed esercizio della funzione
pubblica (in questo senso per esempio i diversi contributi in S. Cassese, B. G. Mattarella (a
cura di), Democrazia e cariche pubbliche, Bologna, 1996). Segnali di attenzione alla problematica dei gruppi di pressione possono, però, rinvenirsi nella dottrina giuspubblicistica:
si veda in questo senso Aa. Vv., Rappresentanza politica. Gruppi di pressione. Elites al potere (atti del convegno di Caserta, 6-7 maggio 2005), Torino, 2006.
5
Si pensi all’esperienza comunitaria, dove pure in assenza di una disciplina legislativa
organica, si ravvisa la presenza di un numero ingente di lobbisti (cfr. infra, par. 4).
6
Si veda, in particolare, le analisi sul rapporto tra interessi e amministrazioni di regolazione nel quadro degli studi sulla regulatory capture (a partire dal saggio di G. J. Stigler,
“The Theory of Economic Regulation”, Bell Journ. of Econ. and Management Science,
1971, 3).
7
Intesa in senso ampio e non limitata alla specifica ipotesi penale. Di corruzione, la
dottrina sociologica, politologica e giuridica si è occupata con una certa intensità soprattutto nel periodo immediatamente successivo al cosiddetto “fenomeno Tangentopoli”: cfr.
M. D’Alberti, R. Finocchi (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, Bologna, 1994;
F. Cazzola, L’Italia del pizzo, Torino, 1993; D. Della Porta, A. Vannucci, Corruzione politica e amministrazione pubblica, Bologna, 1994; la recente riemersione dell’attenzione
al tema nella letteratura scientifica è, unitamente ad altri più specifici indicatori, quali
quelli di Transparency International, il segnale di un problema tutt’altro che superato
nello scenario italiano.
8
L’espressione è di J. Tulard e G. Thuillier, “Administration et corruption”, La Revue
Administrative, 1993, 272.
109
in ambito sociologico9 e ripreso anche dalla dottrina giuridica10, per illustrare le dinamiche fisiologiche o patologiche che si sviluppano entro le organizzazioni complesse, e in particolare nelle istituzioni pubbliche, il rilievo
della pressione degli interessi organizzati si pone però nitidamente al centro
delle questioni di etica pubblica. Il che è tanto più vero quanto più si colleghi l’etica pubblica al “servizio alla nazione”, a sua volta inteso come perseguimento dell’interesse generale11.
Lo sviamento dell’azione pubblica da tale finalità ultima, attraverso la
cattura dei decisori pubblici da parte di interessi parziali organizzati è, allora, ascrivibile alla dimensione patologica della corruzione, nell’accezione
larga che di questa si dà nelle scienze sociali: l’agente, così facendo, tradisce infatti il proprio principale o finisce per porsi al servizio di due padroni,
uno manifesto e uno occulto12.
Al pari dei conflitti di interesse, assistiamo a condotte che possono porre in crisi la funzionalizzazione dell’azione pubblica alla cura dell’interesse
generale, ma la cui esistenza, ed evidenza, finisce per mettere in crisi la
stessa nozione di interesse pubblico, specie allorché si voglia tenere ferma
l’idea rousseauiana della legge come coincidente con la volontà generale,
espressione e traduzione di questa (e, quindi, dell’interesse generale come
coincidente con le statuizioni del legislatore). Si tratta di problematiche di
indubbio rilievo, che finiscono per toccare valori fondamentali e per porre
in evidenza una serie di nervi scoperti dei sistemi democratici contemporanei. La diffusa percezione della perdita dell’orizzonte del bene comune in
una serie di decisioni pubbliche asservite a interessi particolari determina in
ultima istanza la delegittimazione delle stesse istituzioni rappresentative.
Si tratta di fenomeni che però si sviluppano in uno spazio non privo di
ambiguità, dal momento che il confine tra il legittimo confronto con istanze
meritevoli di attenzione e asservimento a volontà parziali è, in concreto, di
non sempre agevole delimitazione.
9
Da ultimo in questo senso si veda D. Della Porta, A. Vannucci, Mani impunite, RomaBari, 2007.
10
B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit., passim.
11
Cfr. F. Merloni, nel saggio che introduce questo lavoro. Il riferimento è in particolare
agli artt. 54, comma 2, e 98, comma 1, della Costituzione.
12
Cfr. A. Claisse, “Conflitto di interessi e funzioni governative: analisi comparata”, in S.
Cassese, B. G. Mattarella, Democrazia e cariche pubbliche, cit., 13. Lo stesso Claisse riscontra
in questa nozione l’eco del classico ammonimento a “non servire due padroni” (“Mai sopra il
trono si vede più di un padrone: per quanto sia grande esso non può sorreggerne due”: Racine,
La Tebaide, a. IV, s. 3). Un richiamo che, peraltro, troviamo già in Matteo (6, 24), e che è frequentemente registrato tra le sentenze medioevali (Walther, 16405, 16406, 16346m 16416,
16446): cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano, 1991.
110
2. La partecipazione dei portatori di interessi e i gruppi di pressione
Cogliere il fenomeno del lobbying unicamente attraverso una chiave di
lettura negativa non consente di inquadrare correttamente la questione del
ruolo che i gruppi di pressione svolgono, e sono chiamati a svolgere, nei
moderni sistemi democratici, per l’efficienza ed efficacia degli stessi processi decisionali pubblici, e non permette, d’altro canto, di collocarli correttamente quali manifestazione, fisiologica seppure non priva di rischi,
dello stesso pluralismo sociale13.
Come spesso accade è, infatti, necessario fare delle distinzioni: il che
in questo casi è doppiamente utile. Per un verso occorre delimitare con
maggiore precisione il lobbying nel novero dei fenomeni di partecipazione attiva dei portatori di interessi14, per un altro è altrettanto utile distinguere le diverse realtà (fisiologiche e patologiche) che possiamo ricondurre alle attività di rappresentanza di interessi organizzati e di “pressione”
sui decisori pubblici.
È stato detto che il lobbying è un precipitato, un effetto collaterale e
inevitabile della stessa democrazia pluralistica15. L’interesse pubblico nasce, in ultima istanza, nel confronto tra interessi, e l’ordinamento non può
predeterminare tutti i possibili assetti, né escludere in via assoluta gli interessi dal percorso che conduce alla decisione pubblica. Questo è particolarmente vero a livello amministrativo, ma non di meno a livello di scelte
legislative è evidente che nei sistemi democratici la partecipazione attiva, il
confronto con i destinatari delle scelte, la possibilità di presentare istanze e
13
Graziano, in particolare, sottolinea l’esigenza di mostrare non solo i lati “oscuri”
del fenomeno, ma anche gli aspetti (positivi) spesso sottaciuti, quali “il rapporto lobbiessocietà civile; l’apporto che le lobbies interessatamente recano al processo decisionale
pubblico; la ridefinizione a cui inducono dell’idea di interesse generale” (così G. Graziano, Le lobbies, Roma-Bari, 2002, V; in materia cfr. Id., Lobbying, pluralismo, democrazia, Roma, 1995).
14
Già A. De Tocqueville, La democrazia in America (Milano, 1999) ravvisava
l’importanza delle associazioni, in particolar modo per la funzione che queste svolgono nei
confronti del potere politico, limitando la dittatura della maggioranza e, così facendo, assicurarando le libertà individuali (per esempio, ivi, 201 ss.).
15
Sull’inevitabilità delle fazioni e delle organizzazioni portatrici di interessi parziali
nelle democrazie pluraliste, si veda per tutti D. B. Truman, The Governmental Process, cit.,
passim. Le dinamiche della “rivincita degli interessi” (particolari) sulla teorica della democrazia come cura dell’interesse generale, come ben rimarca N. Bobbio (Il futuro della democrazia, Torino, 1991, 11-13), è evidente e ha portato a categorie interpretative della realtà
contemporanea come società neocorporativa: cfr. M. Maraffi (a cura di), La società neocorporativa, Bologna, 1981.
111
l’esigenza che queste siano tenute in considerazione costituiscono elementi
non eludibili16.
Interessi e decisione pubblica, sono, cioè, consustanziali l’un l’altra, e
la scelta definisce di per sé un’opzione in ordine a un determinato assetto di
interessi17.
Sotto un diverso punto di vista, dal momento che i pubblici poteri svolgono una funzione centrale e pervasiva rispetto alla distribuzione e redistribuzione di ricchezza, diviene inevitabile che, da un lato, gli interessi privati
premano sul decisore pubblico e, dall’altro, che lo stesso decisore pubblico
possa essere portato a privilegiare decisioni coerenti con determinati assetti
degli interessi. Questo fenomeno è nella natura stessa delle istituzioni, dell’amministrazione contemporanea e del pluralismo sociale: gli interessi si
organizzano, cercano e talora trovano tutela nella legge, in macrodecisioni
pubbliche18 che costituiranno poi la cornice di interventi più puntuali, in
microdecisioni che intervengono in contesti e casi specifici.
Né, d’altra parte, è possibile risolvere il problema a monte, inibendo le
dinamiche partecipative che si pongono sempre più, anzi, al centro delle procedure di allocazione e della stessa legittimazione delle istituzioni19. Se la
partecipazione svolge, a un tempo e con minore o maggiore pregnanza di una
di queste dimensioni nei diversi casi, una funzione di conoscenza, di garanzia
e di legittimazione20, prescindere dal contributo degli interessati è pregiudi16
Il riconoscimento della funzione positiva del lobbying in un sistema democratico
aperto e partecipato è evidente nei principali documenti in materia della Commissione europea, per tutti il Libro verde. Iniziativa europea per la trasparenza, COM(2006)194 def., del
maggio 2006, dove troviamo affermati tanto l’esigenza di apertura che “ha sempre rappresentato il principio guida della Commissione nei contatti con i rappresentanti dei gruppi di
interesse” (ivi, 3), quanto il riconoscimento del fatto che “il lobbismo rappresenta una componente legittima dei sistemi democratici” e “i lobbisti possono contribuire a richiamare
l’attenzione delle istituzioni europee su alcuni problemi importanti” (ivi, 5).
17
In merito, e con riferimento alla dimensione amministrativa del problema, fondamentale il lavoro di M. S. Giannini (Il potere discrezionale della pubblica amministrazione.
Concetti e problemi, Milano, 1939, spec. 72-80). Più recentemente, la problematica del rapporto tra interessi e azione/organizzazione amministrativa è al centro della costruzione teorica di G. Rossi, Diritto amministrativo, I, Principi, Milano, 2005, spec. 67 ss. (cui rinviamo
per ulteriori riferimenti bibliografici).
18
Tematiche, queste, su cui restano rilevanti gli stimoli di M. Cammelli, Politica e apparati nella mediazione degli interessi, relazione al Convegno del Gruppo S. Martino, Torino, 15 aprile 2005.
19
Questioni che, a livello sociologico e politologico, rinviano agli studi sui processi decisionali inclusivi e al dibattito sulla democrazia deliberativa. In merito cfr. L. Bobbio, A più
voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali
inclusivi, Napoli, 2004.
20
Come rileva S. Cassese, si richiede la partecipazione dei privati all’azione pubblica per
112
zievole per lo stesso interesse pubblico, oltre che per i diritti e i beni della
vita dei destinatari delle decisioni pubbliche. Il che, si noti, è tanto vero che
paiono sempre più ingiustificate quelle previsioni normative che continuano
a limitare gli spazi di partecipazione trasparente in presenza di procedure per
l’adozione di atti a contenuto generale o normativo, come se il particulier
potesse incidere solo su questioni puntuali, mentre le determinazioni a contenuto generale dovessero essere preservate nella loro purezza in termini di
rappresentazione non parzialmente condizionata dell’interesse generale.
In questo senso va letta la ricorrente critica alle esclusioni operate dalla
legge 241/1990 agli istituti partecipativi in presenza di procedimenti volti
all’adozione di atti non a contenuto puntuale21: una carenza solo in parte
compensata da tutta una serie di previsioni speciali o a valenza territoriale,
prime tra tutte quelle in campo urbanistico22.
Una carenza che, si noti, diviene assolutamente insostenibile nel momento in cui la stessa competenza all’adozione di atti normativi sfugge talora ai modelli tradizionali in cui si poneva come precipitato della legittimazione democratica: in tali ipotesi, deve intervenire necessariamente una
legittimazione procedimentale attraverso dinamiche partecipative23.
3. Il lobbying: alla ricerca di una definizione
Giunti a questo punto della riflessione, risulta necessario, per procedere
oltre, dare una più precisa definizione dei fenomeni dei quali ci si ripromotivi diversi “Il primo è quello di consentire all’amministrazione una migliore conoscenza dei
fatti e degli interessi sui quali essa deve basare le sue scelte. Il secondo è quello di permettere al
privato di far valere i suoi diritti fin dalla fase preparatoria della decisione, oltre che nell’eventuale giudizio che sorga a sèguito di un ricorso successivo. Il terzo è quello di assicurare il
coinvolgimento dei privati interessati nel processo decisionale” (cfr. Id., “La partecipazione dei
privati alle decisioni pubbliche. Saggio di diritto comparato”, Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 13).
21
Sul punto, si veda più ampiamente infra, par. 6.
22
Quello del governo del territorio e della pianificazione urbanistica è uno degli ambiti
più sensibili, a livello di amministrazioni locali, per quanto attiene alla problematica del
confronto con gli interessi. In materia, si veda M. Morisi, S. Passigli, Amministrazioni e
gruppi di interesse nella trasformazione urbana, Bologna, 1994 e, più recentemente, L. Casini, L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio, Milano, 2006.
23
Il riferimento è alla giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, per la quale
l’esercizio di poteri regolatori da parte di soggetti posti al di fuori della tradizionale tripartizione dei poteri e al di fuori del circuito di responsabilità delineato dall’art. 95 della Costituzione, è “compensato” dall’esistenza di strumenti di partecipazione dei soggetti interessati,
in varia misura sostitutivo della dialettica propria delle strutture rappresentative (così da ultimo TAR Lombardia, Milano, III, 10 aprile 2009, n. 3239).
113
mette di indagare l’assetto positivo e i modelli di regolazione, vale a dire
quelli che si intende ricompresi nel concetto di lobbying. Il tema è oggetto
da tempo di attenzione dalla dottrina: esiste una significativa letteratura
comparata sul tema, in particolare grazie alle riflessioni intorno al sistema
statunitense24 e più recentemente a quello comunitario25, ed è ampia la letteratura sociologica e politologica26.
Una definizione può quindi essere proposta anzitutto attingendo agli
autori che più a fondo hanno investigato il fenomeno.
In questo senso, con prima approssimazione, si intende per lobby il
gruppo portatore dell’interesse o della causa da tutelare, per lobbista il personale interno o esterno all’organizzazione attraverso cui si attua la rappresentanza, per lobbying (o lobbismo) “l’insieme delle tecniche o attività che
consente la rappresentanza politica degli interessi”27. Il termine è, peraltro,
ormai ampiamente entrato a far parte del linguaggio corrente28.
Se confrontiamo questa definizione con quella contenuta nella disciplina
statunitense, la più ampia e organica (in particolare il Lobbying Disclosure
Act del 1995), che intende il contatto lobbistico come quelle comunicazioni
volte alla formulazione o adozione di progetti di legge e atti legislativi (federali), di regolamenti amministrativi o di altri programmi o alla presa di posizione governative, alla negoziazione di contratti, al rilascio di sovvenzioni,
prestiti, autorizzazioni, alla ratifica senatoriale di nomine governative, appare
chiaro il fatto che il lobbying è in ultima istanza una forma di comunicazione
politica (rivolta all’interno del sistema, anziché al pubblico) che non ha però
a oggetto unicamente il processo legislativo29. Si noti, in questo senso, che
24
La letteratura giuridica statunitense sul tema del lobbying è estesissima: ci sia consentito rinviare ai riferimenti in A. S. Krishnakumar, “Towards a Madisonian, InterestGroup-Based, Approach to Lobbying Regulation”, cit., 514.
25
Si veda, in particolare, T. Checcoli, “Il fenomeno del lobbying negli Stati Uniti e nell’Unione europea”, Quad. cost., n. 4, 2006; S. Panebianco, Il lobbying europeo, Milano,
2000; G. Pizio Ammassari, L’Europa degli interessi. Rappresentanza e lobbying nell’Unione
Europea, Trieste, 2004.
26
Si veda, in questo senso, D. B. Truman, The Governmental Process, cit.; L. Graziano,
Le lobbies, cit.; Id., Lobbying, pluralismo, democrazia, cit.; M. Fotia, Le lobby in Italia.
Gruppi di pressione e potere, Roma, 2002; L. Fiorentino, K. il lobbista. Introduzione al
principio di democrazia partecipativa, Napoli, 2007.
27
Cfr. L. Graziano, Le lobbies, cit., spec. 22.
28
Tanto che ritroviamo termini come lobby o espressioni italiane da questo derivate
(lobbismo, lobbista) nei dizionari italiani (si veda per esempio G. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1996, ad vocem) a intendere il “gruppo di pressione in
grado di influenzare a proprio vantaggio l’attività dei legislatori e le decisioni dei governanti” (ivi, 1103) e le relative attività.
29
In ambito comunitario, nel quadro dell’iniziativa europea per la trasparenza, si intende
114
precedenti regolazioni aventi a oggetto le sole dinamiche parlamentari e portate a escludere la dimensione “amministrativa” del lobbying, hanno mostrato
l’impraticabilità della distinzione fra attività legislativa e non legislativa come confine per inquadrare o meno il fenomeno30.
Vero è, peraltro, che se correttamente e complessivamente inquadrato,
il lobbying ricomprende attività diverse dalla sola pressione informale sui
decisori pubblici: l’attività lobbistica si nutre, anzitutto, dell’accesso a informazioni privilegiate, è un’attività di scambio in primo luogo di tipo
conoscitivo31. Rientrano nel fenomeno attività dirette a influenzare i decisori in modo diretto, ma anche per via indiretta tramite la mobilitazione
delle basi associative e dell’opinione pubblica (grass roots lobbying)32,
mentre un passaggio significativo del processo di influenza sui decisori
passa per momenti distanti dalla specifica scelta pubblica, quali il finanziamento delle campagne elettorali33. A fronte di un così ampio raggio di
attività, è chiaro che l’idea risalente di un contatto lobbistico di tipo informale e strettamente contiguo alle dinamiche dello scambio corrotto è
non solo inesatta, ma riduttiva e non utile nella prospettiva di una disciplina del fenomeno.
A livello italiano, pure in assenza di una legge volta a regolare compiutamente questa attività, è interessante la definizione che accompagnava
il concetto di “rappresentanza di interessi particolari” nel forse più noto, ma
non per questo più fortunato, tentativo di disciplina italiana, il cosiddetto
per lobbying le attività poste in essere con l’obiettivo di influenzare il processo decisionale
delle istituzioni comunitarie (cfr. Libro verde. Iniziativa europea per la trasparenza, cit.).
30
Il riferimento è al Federal Regulation of Lobbying Act del 1946. Sul punto si veda L.
Graziano, Le lobbies, cit., 86-88 e cfr. infra, par. 4.
31
In questo senso costituiscono confine delle legittime attività di lobbying tutte quelle
previsioni volte ad assicurare il riserbo dei funzionari pubblici rispetto ai processi decisionali in corso (vedi infra, par. 7). Il rapporto tra potere e informazione è ben segnalato, tra gli
altri, da A. Orsi Battaglini, L’astratta e infeconda idea, ora in Scritti giuridici, Milano, 2007,
1350, che evidenzia quindi come “nella logica del potere sia lecito acquisirla solo in quanto
si sia coinvolti nel suo esercizio, nel suo sistema di relazioni”: da ciò discende come non sia
tanto l’effettiva capacità di tenere il riserbo, quanto l’opposta opzione in favore di una piena
trasparenza un meccanismo già particolarmente incisivo di contenimento delle pressioni indebite e di riequilibrio democratico.
32
In argomento vedi, per esempio, G. Graziano, Le lobbies, cit., 35-37.
33
Sul dibattito statunitense, legato in particolare ai costi delle campagne elettorali e al
peso dei gruppi di interesse nel finanziamento della politica specie attraverso i PACs (Political Action Committees), M. Jezer, E. Miller, “Money Politics. Compaign Finance and the
Subversion of American Democracy”, Notre Dame Journal of Law, Ethics & Public Policy,
1994, 467. Nel contesto italiano, regole minime di trasparenza e limiti di spesa in campo
elettorale sono state previste dalla legge 515/1993 (si veda in particolare l’art. 7).
115
“DDL Santagata”34. In questo progetto, l’intervento normativo risulta rivolto a coloro che rappresentano, direttamente o per conto di portatori di
interessi particolari35, presso i “decisori pubblici” (membri del Governo,
componenti degli uffici di diretta collaborazione governativi, dirigenti generali e vertici delle autorità indipendenti)36 e presso i membri del Parlamento “interessi leciti di rilevanza non generale, anche di natura non economica, al fine di incidere su processi decisionali in atto, ovvero di avviare
nuovi processi decisionali pubblici”37.
Nel novero delle dinamiche partecipative, la caratteristica specifica del
lobbying è quindi la presenza di un’attività organizzata, volta a influire su
rilevanti processi decisionali politici o amministrativi. Variano, però, i confini “legali” del fenomeno a seconda delle specifiche esperienze, come sarà
peraltro più chiaro nel prosieguo grazie a un confronto con le principali
esperienze comparate. Resta, non di meno, come elemento ricorrente, la
percezione negativa di queste attività, viste come forme prevalentemente
predatorie38 e questo invero più a livello diffuso che avendo a riferimento
gli stessi decisori pubblici39. Una distonia tra percezione popolare e percezione da parte degli attori, che giustifica la ricorrente riconduzione di questi
fenomeni, negli studi dei processi degenerativi delle istituzioni pubbliche,
nel novero della cosiddetta “corruzione grigia”, attingendo qui alle categorie ben evidenziate da Heidenheimer molti anni addietro40.
34
A. S. 1866, recante “Disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi particolari”,
presentato il 31 ottobre 2007.
35
Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b, con l’espressione “portatori di interessi particolari”
si intendono i datori di lavoro o i committenti dei “rappresentanti di interessi particolari”.
36
Si noti che la categoria dei “decisori pubblici” è quindi assolutamente trasversale rispetto alle tradizionali categorizzazioni dei funzionari pubblici, talché il confronto con la problematica del rapporto con lobbisti attraversa tanto l’etica del personale burocratico, del personale politico statale, del personale di diretta collaborazione, dei verttici di autorità indipendenti.
37
Processi decisionali pubblici sono intesi, in particolare, “i procedimenti di formazione degli atti normativi e degli atti amministrativi generali” (cfr. art. 2, comma 2, lett. d).
38
Così L. Graziano, Le lobbies, cit., 3.
39
Si noti, peraltro, la crescente tendenza da parte dei rappresentanti di interessi a legittimarsi attraverso una autorappresentazione che passa per espressioni meno caratterizzate: in
particolare è sempre più diffuso l’utilizzo dell’espressione “relazioni pubbliche” a intendere
un insieme più ampio ma ricomprendente le attività di lobbying (in questo senso, la principale associazione italiana di categoria, la Ferpi, definisce attività professionale di relazioni
pubbliche quella volta a sviluppare “sistemi di relazione con i pubblici influenti”, quindi non
solo con il decisore pubblico ma anche le attività rivolte al pubblico: cfr. art. 1 dello Statuto,
in www.ferpi.it).
40
A. J. Heidenheimer, Political Corruption. Readings in Comparative Analysis, New
York, 1970, e, più recentemente, Id., “Perspectives on the perception of corruption”, in A. J.
116
4. La regolazione del lobbying nello scenario comparato
La questione della disciplina dell’attività di lobbying ha due implicazioni, una sociale (come riconoscimento e legittimazione della professione di rappresentanza di interessi), una giuridica (come possibilità di prevedere regole di trasparenza, obblighi di dichiarazione, diritti e doveri dei
lobbisti). Nello scenario comparato, si confrontano due distinti approcci
al problema, che possiamo sinteticamente indicare come modello statunitense (di hard regulation) e modello comunitario (di soft regulation),
mentre risulta peraltro prevalente la tendenza a trascurare specifici e organici interventi in materia.
L’attività di rappresentanza di interessi a livello politico trova, nell’ordinamento statunitense, una specifica e forte copertura costituzionale
nel primo emendamento della Costituzione, ai sensi del quale “il Congresso
non farà alcuna legge […] che limiti il diritto delle persone a riunirsi pacificamente e a rivolgere petizioni al Governo per riparare ai torti subiti”.
Nello scenario di un fondamento quale libertà costituzionale, il legislatore
americano è stato però il primo a intervenire con una regolazione organica
dell’attività (il Federal Regulation of Lobbying Act del 1946)41: una disciplina che a lungo si è posta come solitario punto di riferimento nel contesto
comparato e che è stata più volte modificata, fino alla sua riforma nel 1995
(con il Lobbying Disclosure Act).
Una disciplina, quest’ultima, che dopo poco più di un decennio è stata
quindi profondamente novellata sul finire della Presidenza di G. W. Bush,
sulla base di un testo largamente condiviso tra Democratici e Repubblicani42. L’Honest Leadership and Open Government Act del 2007, ha, in particolare, ampliato gli oneri di registrazione e trasparenza dell’attività di lobbying, e ha riformato, in senso restrittivo, la disciplina relativa al revolving
doors, oltre a una ampia serie di previsioni puntuali.
Heidenheimer et al. (a cura di), Political Corruption. A Handbook, New Brunswick, 1989,
32 passim. Questa tassonomia è stata ripresa, tra gli altri, da Y. Meny, La corruption de la
Republique, Paris, 1993.
41
Una previsione dichiarata legittima, ma corretta, dalla Corte suprema nella sentenza
United States vs Harriss, 447 U.S. 612, del 1954.
42
Precede l’adozione della legge, ma tiene conto dei lavori parlamentari in materia,
A. S. Krishnakumar, “Towards a Madisonian, Interest-Group-Based, Approach to Lobbying Regulation”, cit., 513 ss., che illustra ampiamente gli aspetti critici del Lobbying
Disclosure Act. Le trasformazioni del fenomeno anche alla luce dell’evoluzione delle dinamiche politiche, e le esigenze di riforma connesse, sono ben illustrate da T. M. Susman,
“Lobbying in the 21st Century. Reciprocity and the Need for Reform”, Adm. Law Rev.,
2006, spec. 744-746.
117
Il Titolo II della legge, recante “Full Public Disclosure of Lobbying”,
contiene numerose previsioni volte a rendere effettivo il controllo democratico sulle attività dei gruppi di pressione. Al centro dell’impianto regolatorio restano gli obblighi di dichiarazione e registrazione, corretti in senso
restrittivo rispetto alle disposizioni del Lobbying Disclosure Act, in più
parti emendato specie attraverso la previsione di più incisive sanzioni civili
e penali, l’adozione di più stringenti meccanismi di controllo, la disponibilità on-line dei registri e delle dichiarazioni, oltre all’intensificazione della
frequenza delle dichiarazioni43.
La normativa ha previsto, però, anche una riforma dei lavori parlamentari, tanto alla Camera dei Rappresentanti che al Senato, e ha fissato
più penetranti sanzioni non solo per i lobbisti ma anche per i parlamentari44.
Si noti, peraltro, che l’Act del 2007 si rivolge non solo ai lobbisti e ai
membri del Congresso, ma anche ai funzionari parlamentari e al personale
di diretta collaborazione del Senato.
Sulla scorta dell’esperienza statunitense, vari Paesi si sono dotati di
strumenti legislativi dedicati a disciplinare il fenomeno45. Pur senza arrivare
all’ampiezza dell’impianto normativo statunitense, si rinvengono nello scenario comparato interessanti regolazioni volte in particolare a evidenziare
l’attività dei gruppi di pressione mediante istituti di accreditamento e obblighi di registrazione46. L’adozione di regole volte a disciplinare il rapporto
tra decisori politici e interessi organizzati è, peraltro, promosso a livello di
organizzazioni sopranazionali e di convenzioni internazionali47.
Un modello decisamente alternativo rispetto a quello statunitense è, altresì, è quello comunitario, dove l’impianto regolatorio è molto più sfumato
e questo certo non per la ridotta rilevanza quantitativa e qualitativa del fenomeno. Alcune indagini riferiscono la presenza, presso le istituzioni co43
Si aggiungono a questo, tra l’altro, alla fissazione di divieti puntali e previsioni relative alle attività di rappresentanza di alcuni interessi meritevoli di regole apposite.
44
Si veda la significativa “loss of pensions accrued during service as a Member of
Congress for abusing the public trust”: Titolo IV, Sezione 401.
45
Una panoramica ampia e aggiornata è rinvenibile nel documento OECD, Lobbyists,
Governments and Public Trust: Building a Legislative Framework for Enhancing Transparency and Accountability in Lobbying, agosto 2008, che si sofferma in modo particolarmente
attento sulle esperienze di Canada e Polonia.
46
In Germania, dal 1972, si prevede l’onere di registrazione preventiva, con obblighi di
dichiarazione relativi agli specifici interessi rappresentati e loro pubblicazione, per le associazioni che intendono intervenire nel procedimento legislativo (cfr. OECD, Lobbyists, Governments and Public Trust, cit., 44).
47
Sul ruolo della dimensione sopranazionale nel contrasto dei fenomeni di maladministration, nel loro complesso, cfr. S. Bonfigli, infra.
118
munitarie, di circa quindicimila lobbisti48, soggetti con competenze e profili
diversi (consulenti, avvocati, associazioni, imprese, enti non governativi)
che agiscono al fine di influenzare i processi normativi dell’Unione49. Per
quanto la questione del rapporto con i portatori di interessi parziali sia al
centro di significative riflessioni, e si ponga tra i profili significativi della
complessiva governance comunitaria50, i meccanismi sin qui adottati sono
essenzialmente di soft regulation. Un’accelerazione nella regolazione del
fenomeno, e un approccio per quanto possibile organico, si collega da ultimo all’Iniziativa europea per la trasparenza51, avviata nel 2005 e sviluppata
nel Libro verde del 200652, nel quadro della quale sono stati previsti tanto
un codice di condotta53 per i lobbisti quanto un registro ad adesione volontaria per i gruppi di pressione operanti in seno alla Commissione, che si aggiunge all’analogo registro previsto sin dal 1996 nell’ambito del Parlamento europeo. Pure a fronte delle iniziative comuni delle due istituzioni,
volte all’adozione di un registro comune a natura obbligatoria, la cui esigenza pare confermata dalla distanza tra il numero stimato di rappresentanti
48
Dati che possono ricavarsi dal cosiddetto “Rapporto Stubb” (“Relazione sull’elaborazione di un quadro per le attività dei rappresentanti di interessi presso le istituzioni
europee”, 2007/2115/INI, della Commissione per gli affari costituzionali, relatore A. Stubb,
2 aprile 2008).
49
Queste analisi mostrano, peraltro, una varietà di approcci, che variano in primo luogo a
seconda che l’attività si riferisca ai lavori della Commissione, del Parlamento, o del Consiglio,
e che si sviluppano tanto a livello di singoli membri, di staff, comitati, che indirettamente, mediante pressioni sui governi nazionali (cfr., per esempio G. Giordano, Le lobbies, cit.).
50
Alcune iniziative della Commissione attuate nel quadro del Libro bianco sulla governance europea anticipano gli specifici interventi in materia di trasparenza e rapporto con gli
interessi poi sviluppati con l’Iniziativa europea per la trasparenza (IET), si pensi in particolare
alla “Previsione di requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate”,
COM(2002)704, che sviluppa il principio del Libro bianco per il quale “la maggiore partecipazione comporta una maggiore responsabilità”. Sul diritto di partecipazione alla definizione
delle politiche legislative e amministrative come “terza generazione” del diritto di partecipazione (dopo quelle del diritto a essere sentiti e del diritto alla trasparenza), F. Bignami, “Tre
generazioni di diritti di partecipazione nei procedimenti amministrativi”, in F. Bignami, S. Cassese (a cura di), Il procedimento amministrativo nel diritto europeo, Milano, 2004, 88 ss.
51
L’Iniziativa europea per la trasparenza è una delle strategie percorse dalla Commissione per rafforzare la legittimazione delle istituzioni dell’Unione, attraverso più interventi,
relativi non solo alla trasparenza delle attività di rappresentanza di interessi, ma anche alla
trasparenza nell’utilizzo di fondi comunitaria, all’adozione di regole e standard etici per i
funzionari, all’accesso ai documenti.
52
Commissione europea, Libro verde. Iniziativa europea per la trasparenza, cit.
53
Si tratta di un testo molto breve, peraltro, che contiene essenzialmente disposizioni di
principio: Comunicazione della Commissione, A Framework for Relations with Interest Representatives (Register and Code of Conduct), COM(2008)323 final, del maggio 2008.
119
di interessi particolari operanti in ambito comunitario e quello degli iscritti
ai registri volontari, il passaggio a forme più rigide di regolazione del fenomeno sembra, al momento, segnare il passo54.
5. L’esperienza italiana: l’assenza di regole specifiche
Il dato da cui muovere nell’analisi dell’esperienza italiana è, in primo luogo, quello dell’assenza di una regolamentazione organica, pure a fronte dei
numerosi tentativi in tal senso avviati a livello parlamentare. Il già ricordato ddl
Santagata, nella relazione illustrativa, ricorda ben 30 progetti di legge in tal
senso a partire dal 194855, cui si aggiungono lo stesso progetto del Governo
Prodi e, quindi, vari disegni già presentati nel corso della XVI legislatura56.
Dati, questi, che già di per sé confortano l’idea di una rilevanza del tema, così come suffragano le critiche e mettono in luce le carenze del sistema italiano: di nuovo, come in altri casi, la storia della corruzione in Italia
appare essere la storia dei rimedi non cercati, delle cure non trovate57. Una
valutazione, questa, che trova conferma nel fallimento dell’interessante
progetto Santagata58 e non viene smentita dalle pure significative regolazioni poste in essere in alcune esperienze regionali59.
54
Una spinta al rafforzamento delle regole in materia pare derivare soprattutto dal Parlamento: si veda in questo senso la già citata Relazione del 2 aprile 2008, cosiddetto
“rapporto Stubb”, sulla cui base è stata adotta una Risoluzione del Parlamento sull’elaborazione di un quadro per le attività dei rappresentanti di interesse presso le istituzioni
europee (2007/2115 (INI)), 8 maggio 2008, che contiene una serie di inviti e indirizzi alla
Commissione nel senso di un rafforzamento della disciplina in materia.
55
Si contano 25 progetti fino alla XIV legislatura e ben 5 nella XV: si cfr. la “Relazione
illustrativa” al citato ddl Santagata. Si noti, peraltro, che l’esigenza di una disciplina del lobbying era stata segnalata tra gli interventi prioritari dalla Commissione speciale per l’esame
dei progetti di legge recanti misure di prevenzione e repressione dei fenomeni di corruzione,
istituita dalla Camera dei deputati con deliberazione del settembre 1996 (sulle iniziative
istituzionali di contrasto alla maladministration promosse nel corso degli anni Novanta del
secolo scorso, si veda l’ampia rassegna in B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit., 24).
56
Tra i disegni di legge presentati nel corso della XVI legislatura, oltre ad alcuni rivolti
a un approccio più ampio al tema dell’etica pubblica, che toccano anche la tematica del lobbying, ne troviamo due direttamente volti alla disciplina del fenomeno (AC 1584, AS 1448).
57
Così R. Brancoli, Il Ministero dell’onestà, Milano, 1993.
58
Il progetto di legge, presentato nell’ottobre del 2007, prevedeva un ruolo rilevante
per il CNEL. Elementi significativi erano date dalla previsione di appositi codici di condotta
per le attività di rappresentanza di interessi particolari, dalla presentazione di rapporti annuali sulle attività svolte, da obblighi di registrazione e da meccanismi di trasparenza.
59
Si veda la legge regionale della Toscana, 5/2002, e la legge regionale del Molise,
24/2004, entrambe relative al rapporto con gli interessi del Consiglio regionale.
120
Appare esserci, però, dietro questo sostanziale vuoto regolatorio, non
solo l’inerzia, ma anche l’ombra di impostazioni ideologiche di fondo, che
peraltro non sono passate indenni attraverso le fasi di sviluppo delle istituzioni democratiche. Da un lato l’idea già ricordata, risalente e comune nelle
esperienze continentali, di una rappresentanza politica che agisce in nome di
una volontà generale e, al tempo stesso, la traduce in atti che ne sono diretta
espressione. Dall’altro l’idea che la porta di comunicazione con gli interessi
particolari, la sede in grado di assicurarne l’accesso alla decisione pubblica
non prima di averne operato una mediazione e inserimento in una prospettiva
collettiva, fosse da riconoscere (in esclusiva) ai partiti politici. In questo senso, la finzione di irrilevanza giuridica del tema, che ha accompagnato vari
aspetti relativi al rapporto tra politica e società60, deve fare i conti con la crisi
dei partiti di massa tradizionali che porta con sé l’effetto di “eliminare, o ridimensionare il ruolo di un diaframma razionalizzatore e regolarizzatore del
rapporto tra interessi (soprattutto economici) e personale politico”61.
L’assenza di una disciplina dedicata produce, in effetti, più disfunzioni:
impedisce al lobbista di uscire dall’ombra (problema cui solo in parte riescono a dare risposta i tentativi di autoregolamentazione delle associazioni
ESPONENZIALI?? dei rappresentanti di interessi)62 e quindi di porsi come
trasparente portatore di interessi meritevoli di attenzione, supporta l’idea di
un fenomeno che si muove ai margini della legge approfittando delle mancanze normative, non consente di ergere confini atti a contenere il lobbying
entro una dimensione fisiologica. In termini regolatori, poi, in assenza di
specifiche disposizioni legislative rivolte ai soggetti che si relazionano con
i decisori pubblici, il contenimento delle degenerazioni finisce per essere
affidato in larga parte a meccanismi repressivi di tipo penale, per le ipotesi
più gravi, o per essere affidato alle regole, deboli63, volte ad assicurare
l’“eticità” delle condotte dei funzionari pubblici.
60
Il riferimento è in particolare alla dimensione della comunicazione politica, dove
questa espressione è utilizzata in modo ricorrente dalla dottrina a giustificare la sostanziale
assenza di regole, non a caso fino al 1993 (si cfr. G. Gardini, Le regole dell’informazione,
Milano, 2005).
61
Così G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi. Alla ricerca di nuovi
istituti, Napoli, 2008, 18, che prosegue riconoscendo che ciò comporta che “tematiche come
il conflitto di interessi e quello della commistione tra interessi privati e funzione pubbliche e
del lobbying assumano una evidenza del tutto nuova nel dibattito pubblico” (ivi, 19).
62
Nel campo delle relazioni pubbliche, possono rinvenirsi numerosi codici di autoregolamentazione (un elenco dei codici vigenti, a livello nazionale ed europeo, si trova in
www.ferpi.it).
63
Si veda in questo lavoro, diffusamente, le riflessioni di F. Merloni, R. Cavallo Perin,
G. Sirianni.
121
Quella del lobbying risulta essere, in questo scenario, una regolazione
prevalentemente indiretta, in cui la disciplina si ricava a contrario, seguendo le norme poste a presidio della correttezza dell’azione pubblica e dei
comportamenti dei decisori pubblici.
Le regole che possono trovare applicazione in modo ampio, prescindendo quindi dalle norme di status di specifiche categorie di personale, e
che risultano in grado di assicurare la funzionalizzazione delle condotte
alla cura dell’interesse pubblico, da un lato, e il contenimento del ruolo e
dell’incidenza di interessi parziali nel processo di formazione delle decisioni pubbliche, sono scarne e spesso solo indirettamente o limitatamente
applicabili a ipotesi quali quelle sin qui illustrate. Si pensi, in questo senso, in primo luogo alle norme penalistiche: i reati di corruzione64 e abuso
di ufficio65 solo in casi estremi (e in particolare in caso di diretto vantaggio economico per il funzionario infedele) si applicano alle attività di
lobbying, senza che possano trovare applicazione in presenza di comportamenti più sfumati e sfuggenti66. Si tratta, in ogni caso, di regole che sono rilevanti sia per definire i limiti della “zona grigia” in cui si muove
l’azione del lobbista, sia perché applicabili ai funzionari pubblici complessivamente intesi, seguendo in questo l’estensione della nozione penalistica di pubblico ufficiale67.
Altre regole, di portata ampia ma più circoscritta, operano per la funzione pubblica in presenza dell’istituto dell’obbligo di astensione. In questo
caso, però, così come accade per la disciplina del conflitto di interessi (che,
a sua volta, sconta però un campo di applicazione ancora più circoscritto),
la regola è posta in primo luogo come limite per l’ingresso di interessi pro64
Tanto il reato di corruzione per un atto d’ufficio (art. 318 c.p.), che quello di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) possono riferirsi a forme patologiche di lobbismo.
65
L’art. 323 c.p., anche dopo la riforma del 1997 che ne ha ristretto il campo di applicazione, continua a sanzionare condotte che, in violazione di leggi o regolamenti […]
intenzionalmente procurano un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto, e
quindi è suscettibile di riferirsi a ipotesi nelle quali l’azione pubblica si “piega” a favore
di interessi privati.
66
Si noti, altresì, come in altri ordinamenti si sia operato nel senso di prevedere specifiche fattispecie penali in grado di meglio contenere le degenerazioni della pressione di interessi, si pensi in particolare al delitto di trafic d’influence, che ha trovato recentemente sviluppo in vari ordinamenti ed è previsto tanto dalla Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa (art. 12), che dalla Convenzione ONU contro la corruzione (art. 18): sul punto
vedi G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi, cit.
67
Ai sensi dell’art. 357 c.p., e quindi quanto agli effetti della legge penale “sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giurisdizionale o
amministrativa”.
122
pri del funzionario nel processo decisionale, piuttosto che come ostacolo
per una indebita valorizzazione delle pressioni di terzi interessati.
In questo scenario di fondo, stante l’assenza di regole specifiche e la
debolezza o limitata applicabilità di regole e principi generali, il contenimento del fenomeno del lobbying entro confini tollerabili è affidato a un
insieme di norme e istituti di variabile applicabilità, e di varia portata. Cercando di inquadrare queste previsioni entro uno schema descrittivo, possiamo fare riferimento a una dimensione relativa ai processi decisionali, e
quindi all’attività, e a una inerente all’organizzazione, entro la quale ultima
possiamo ricomprendere tanto le problematiche relative alle soluzioni organizzative che quelle di status dei funzionari pubblici.
Queste dimensioni del problema (procedurale e organizzativo, a sua
volta inteso in senso oggettivo e soggettivo) si muovono spesso in modo
indipendente, tanto che nel caso concreto possiamo assistere a un cumulo di
meccanismi di salvaguardia, come anche alla loro assenza.
6. (segue) Le regole sui processi decisionali e sull’attività dei poteri pubblici
Il primo insieme di regole si riferisce all’attività che il decisore è chiamato a svolgere e, quindi, alle procedure formalizzate relative al processo
decisionale: l’obbligo di astensione già richiamato si muove in questa dimensione, unitamente a una serie di norme e principi che si collegano alla
natura della funzione (legislativa o amministrativa, formalmente amministrativa ma sostanzialmente normativa, amministrativa volta all’adozione di
atti generali o di atti puntuali) o alla specifica funzione amministrativa svolta (e, quindi, alle specifiche regole procedurali previste, come per esempio
in campo ambientale piuttosto che urbanistico).
Non è qui possibile entrare nelle regole speciali e settoriali, mentre si
può articolare qualche riflessione in ordine ai principali meccanismi che
paiono idonei ad assicurare che l’attività sia svolta nel rapporto corretto con
gli interessi, sia escludendone l’ingresso nello scenario decisionale ove necessario, sia, soprattutto, assicurandone la trasparenza e garantendone il
corretto bilanciamento. È chiaro, peraltro, che un approccio di questo tipo
porta con sé il rischio di un ampliamento eccessivo, e scientificamente poco
significativo, del campo di analisi, dal momento che gran parte degli istituti
di diritto pubblico e amministrativo potrebbero, latu senso, essere inscritti
nel novero dei meccanismi di funzionalizzazione al perseguimento e alla
cura dell’interesse pubblico.
123
Al cuore di queste tematiche si collocano, però, le previsioni volte a
formalizzare e rendere trasparente il confronto con gli interessi organizzati,
vale a dire con interessi non meramente individuali e nel contesto del processo volto all’adozione di una decisione pubblica rilevante.
A livello di procedimento legislativo, la “solitudine” del decisore è
esclusa da principi di rango costituzionale, quali il valore che è riconosciuto ai partiti68 e alle associazioni, la possibilità di iniziativa legislativa
riconosciuta a un gruppo di cittadini, oltre alla centrale previsione contenuta nell’art. 5069, che di fatto fornisce una chiara copertura costituzionale
all’intervento dei portatori di interessi70. La “giusta distanza” e il contenimento del ruolo degli interessi parziali passa, d’altro canto, attraverso
regole quali quelle di trasparenza e pubblicità dei lavori, nonché attraverso la previsione del divieto di mandato imperativo, così come sviluppato
in sede di regolamenti parlamentari. Si tratta, in ogni caso, di regole e
istituti che non si pongono in modo specifico quali tentativi di contenimento del lobbying e, quindi, a impedire la “cattura” del legislatore: in
effetti, pure a fronte di previsioni che in qualche modo incidono su queste
relazioni con i portatori di interessi, le regole in esame non paiono in grado di incidere significativamente su quelle relazioni e quei condizionamenti che, più che nelle aule parlamentari si realizzano nelle anticamere,
nei corridoi, nelle lobbies appunto71.
Posto che il rapporto con gli interessi è un dato ineliminabile dei sistemi democratici, cui sempre più difficilmente può sfuggire l’azione pubblica, normativa ma anche amministrativa, diviene decisivo il disvelamento
del ruolo degli interessi nella costruzione della decisione. In questo senso,
riflettere sulla capacità di un sistema di rendere manifeste le pressioni e, così facendo, di legittimarne il contributo alla scelta pubblica e, a un tempo,
68
Si noti, peraltro, che i partiti politici, rispetto alle altre associazioni e ai soggetti
espressione di interessi organizzati, hanno una “visione parziale, perché di parte, ma totale”,
perché politicamente portatrice di una propria visione dell’interesse generale (V. Crisafulli,
“I partiti nella Costituzione”, in Aa. Vv., Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costituente, II, Firenze, 1969, 118).
69
“Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti
legislativi o esporre comuni necessità”.
70
Qui è evidente l’affinità con la previsione statunitense contenuta nell’ultima parte del
Primo emendamento della Costituzione.
71
L’etimologia del termine è, peraltro, controversa: dalla metà del seicento con lobby si
inizia a indicare l’anticamera della Camera dei Comuni inglese e, quindi, è utilizzato per
riferirsi agli spazi del Parlamento utilizzati dai rappresentanti di interessi per contattare i
membri dell’assemblea (in questo senso, vedi, per esempio, G. Mazzei, Lobby della trasparenza, Roma, 2003, 15).
124
di contenerne le possibili degenerazioni, significa riflettere su una delle parole chiave che ricorrono nel dibattito contemporaneo sulle istituzioni democratiche: la trasparenza72. I meccanismi idonei a rendere possibile questa
duplice azione, di legittimazione e limitazione, sono numerosi, e passano
attraverso la formalizzazione delle dinamiche partecipative, la pubblicità di
documenti e sedute, la conoscibilità della decisione nel suo farsi e degli atti
adottati e della loro motivazione, la disclosure sugli interessi del decisore.
Se poniamo attenzione all’azione amministrativa, la problematica del
rapporto con interessi “forti” e il rischio che questi siano indebitamente sovrarappresentati73 nella scelta pubblica chiama in causa, sotto un’angolazione specifica, il principio di imparzialità come valore di fondo dell’agire pubblico, che trova traduzioni diverse ma si pone unitariamente a
presidio dell’attività del personale politico e di quello amministrativo74. Il
procedimento determina le condizioni di formalizzazione e perciò di emersione, prima ancora che di partecipazione, degli interessi75. Larga parte dei
meccanismi procedimentali, nel momento in cui aprono il processo decisionale al contributo formalizzato dei portatori di interessi metaindividuali,
favoriscono la riduzione di spazi di intervento opaco, determinano un ambiente in cui la pressione può realizzarsi alla luce del sole. Se questo è vero,
però, diviene tanto più incongrua, e foriera di risvolti negativi, la ricordata
72
Il tema è, da ultimo, ampiamente sviluppato in F. Merloni (a cura di), La trasparenza
amministrativa, Milano, 2008. Per una riflessione sui meccanismi della trasparenza e sul
loro ruolo nella prospettiva della correttezza dell’azione pubblica, ci sia consentito rinviare a
E. Carloni, Gli strumenti della trasparenza nel sistema amministrativo italiano e la sua effettività: forme di conoscibilità, quantità e qualità delle informazioni, ivi, 369 ss.
73
È una problematica, questa, che accompagna la riflessione sugli istituti partecipativi:
come rimarca M. D’Alberti, “La visione e la voce: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi”, Riv. trim. dir. pubb., 2000, 30: la partecipazione è presa d’atto dell’“oggettiva pluralità di istanze e di interessi, i cui portatori vengono legittimati a intervenire
nelle procedure amministrative”, ma nondimeno “la pluralità di interessi ha finito spesso per
risolversi nella disuguaglianza fra amministrati, nella persistenza di privilegi di pochi fra
loro, nella maggiore capacità di negoziazione dei gruppi meglio organizzati”. Sui rischi della
partecipazione strumentale agli interessi più forti, si veda già M. Nigro, “Il nodo della partecipazione”, Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 3165; e F. Levi, “Partecipazione e organizzazione”, Riv. trim. dir. pubb., 1977, 1625. Una tematica, questa, già approfondita nell’esperienza
americana da R. B. Stewart, “The Reformation of American Administrative Law”, Harward
Law Rev., 1975, 1669.
74
In tal senso, si vedano le considerazioni di F. Merloni, G. Sirianni, A. Gualtieri in
questo lavoro.
75
Sul procedimento amministrativo come luogo per la formazione graduale e trasparente della decisione pubblica, cfr. A. Police, La predeterminazione della decisione amministrativa, Napoli, 1998; A. Sandulli, “Il procedimento amministrativo”, in S. Cassese (a cura
di), Trattato di diritto amministrativo, Parte generale, II, Milano, 2000, 927 ss.
125
esclusione delle procedure volte all’adozione di atti generali e a contenuto
normativo dal campo di applicazione degli istituti partecipativi76. Riecheggiano, in effetti, nell’esperienza delle procedure amministrative italiane, sia
pure quale frutto di una distinzione non esplicitata, categorie quali quelle
dei procedimenti regulatory o adjudication77: i primi, nel caso italiano, tendenzialmente e però poco comprensibilmente sottratti a istituti partecipativi
di tipo generale, i secondi altresì sorretti da meccanismi di giustizia nell’amministrazione e di coinvolgimento (quasi necessario78) dei portatori di
interessi (propri, ma anche diffusi, collettivi e pubblici). È però ai primi,
più che ai secondi, che si rivolgono i gruppi di pressione, tanto che la mancata formalizzazione di dinamiche partecipative porta, in caso di interventi
di regolazione o provvedimenti di tipo generale, con sé il rischio non già di
una assenza della partecipazione degli interessi, ma piuttosto quello dell’opacità delle dinamiche partecipative.
Quelle sin qui introdotte non sono, però, che alcune delle problematiche rilevanti in tema di rapporto tra interessi organizzati e azione amministrativa.
Se cogliamo l’azione lobbistica non solo come pressione, ma anche
come contributo decisionale, e quindi riflettiamo come sin qui si è cercato
di argomentare sul ruolo conoscitivo che è proprio dei portatori di interessi
organizzati, ne discende che il processo decisionale pubblico è tanto più in
76
Per il Consiglio di Stato, a.g., 17 febbraio 1987, n. 7, riportato in F. Trimarchi (a cura
di), Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell’amministrazione, Milano, 1990, 202, il fondamento di una simile opzione è quello di “sottrarre, per
ragioni pratiche, atti di vasta portata e di applicazione generalizzata, alla troppo penetrante
ingerenza di una molteplicità di interessati, al di là delle garanzie predisposte dalle singole
leggi di settore”. Una simile esclusione doveva risultare compensata dalla previsione dell’istituto dell’inchiesta pubblica per i procedimenti caratterizzati da estesi interessi partecipativi, la quale è stata però eliminata nel testo approvato della legge 241/1990. Sul punto, e
per più ampi riferimenti, cfr. C. Cudia, “La partecipazione ai procedimenti di pianificazione
territoriale tra chiunque e interessato”, Dir. pubbl., 2008, 263 ss.
77
Per un inquadramento di tali modelli, e di queste categorie nell’esperienza americana, si veda G. Napolitano (a cura di), Diritto amministrativo comparato, Milano,
2007, spec. 110 ss.; su queste tematiche e per una ricostruzione dei modelli di partecipazione in ambito comparato, cfr. S. Cassese, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche, cit., spec. 20 ss.
78
Il “quasi” è legato in particolare alla controversa previsione contenuta nell’art. 21
octies. In ordine a questa previsione, cfr. L. Ferrara, “La partecipazione tra ‘illegittimità’ e
‘illegalità’. Considerazioni sulla disciplina dell’annullamento non pronunciabile”, Dir.
amm., 2008, 103; D. Sorace, “Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo”, Dir. pubbl., 2007, 385; in una prospettiva ampia, con una ricostruzione della problematica teorica del formalismo e dei vizi formali vedi, S. Civitarese Matteucci, La forma presa
sul serio, Torino, 2006.
126
grado di relazionarsi correttamente con le lobbies quanto più è autonomo
dal punto di vista della capacità di acquisire informazioni, elaborare strategie, studiare la fattibilità e la ricaduta delle scelte che si intende assumere79.
I pubblici poteri, detto altrimenti, trovano in primo luogo nella loro autonomia conoscitiva la salvaguardia dal rischio di una cattura da parte delle
expertises dei gruppi di pressione80.
L’impoverimento delle competenze tecniche a livello ministeriale81, la
debolezza conoscitiva delle sedi normative non statali, finiscono per predeterminare una sudditanza conoscitiva dei decisori pubblici agli interessi
organizzati, come è evidenziato dall’analisi delle procedure decisionali in
seno alle istituzioni europee e in particolare a livello parlamentare82, e come
è rimarcabile a livello di consigli regionali, dove l’ampliamento delle competenze legislative non è stato accompagnato di norma da un potenziamento delle strutture conoscitive e dove le previsioni di numerosi statuti
aprendo a contributi conoscitivi esterni (tramite audizioni, indagini conoscitive, interventi di rappresentanti di gruppi organizzati) attivano nel procedimento legislativo regionale rilevanti momenti istruttori “nei quali le
lobby trovano utile e agevole inserirsi”83.
7. (segue) I modelli organizzativi e le regole di status
Per quanto attiene alla problematica, non meno ampia, delle soluzioni
organizzative volte a limitare e contenere la pressione dei gruppi di interesse sulla decisione pubblica, occorre segnalare come sia una caratteristica
79
Si noti, peraltro, che uno dei più incisivi argomenti a favore del lobbying è, appunto,
quello di consentire a chi meglio conosce un fenomeno di contribuire a determinarne la regolazione. In questo senso, vedi in particolare T. Sowell, Knowledge and Decision, New
York, 1996. Come l’amministrazione forma le sue “verità”, rimanda, d’altra parte, alla stessa
idea di amministrazione che abbiamo, come segnala M. Cammelli, “Attività conoscitiva e
organizzazione della pubblica amministrazione”, in M. Cammelli, M. P. Guerra (a cura di),
Informazione e funzione amministrativa, Rimini, 1997, 393.
80
L’ingresso formalizzato degli interessi, intesi anche come contributo di expertise alla
formazione della decisione, è legato anzitutto a istituti quali le indagini conoscitive e le audizioni parlamentari.
81
Cfr. E. Gustapane, “La crisi dei corpi tecnici dello Stato”, in M. D’Alberti, R. Finocchi (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, cit., 213. Sul punto, cfr. gli ulteriori riferimenti e le notazioni in B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit., spec. 34.
82
Come è ben evidenziato, tra gli altri, da L. Giordano, Le lobbies, cit.
83
Così M. Fotia, Le lobby in Italia, cit., 40, cui si rinvia per l’ampia analisi del rapporto
tra lobbies e strutture assembleari (commissioni parlamentari, gruppi consiliari ecc.).
127
dei sistemi contemporanei il tentativo di individuare modalità alternative di
interlocuzione con gli interessi, rispetto a quelle proprie del circuito di responsabilità politica e politico-amministrativa, in specie in presenza di posizioni particolarmente forti e di decisioni che con maggiore rilevanza possono toccare interessi sensibili, specie economici84.
I meccanismi della distinzione e quelli della separazione85, tra politica e
amministrazione e però, con questo, in certa misura anche tra interessi e
decisori, possono quindi essere collocati in un ideale continuum che segna
stadi progressivi di allontanamento dagli interessi.
La distinzione, quale soluzione tipicamente italiana che prevede
l’affidamento di compiti diversi ed esclusivi, ma interrelati, alla politica e
alla burocrazia86, crea un allontanamento tra criteri generali e scelta puntuale, tra indirizzi e loro attuazione, e così facendo determina un ambiente
meno favorevole per la pressione indebita degli interessi, sia pure solo e
nella misura in cui tale distinzione di spazi decisionali sia reale e non solo
formale87. Diversamente, il modello della distinzione finisce per fornire garanzie inferiori, e non superiori, rispetto al tradizionale modello weberiano
di amministrazione88, dove la responsabilità politica svolge anche una funzione di trasparenza che si perde a fronte di un disallineamento tra potere
decisionale reale (che resta in mano alla politica) e potere decisionale formale (che le riforme degli anni Novanta del secolo scorso vogliono ormai
univocamente, per le decisioni puntuali, in capo alla dirigenza)89.
L’indipendenza, unitamente alle figure analoghe in cui questa varia
quanto a gradazione di concentrazione, è però indubitabilmente la soluzio84
Sul rilievo che, in tali ipotesi, assume la posizione individuale di indipendenza del
funzionario, cfr. B. Ponti, infra.
85
Per una definizione dei due concetti nell’esperienza italiana, vedi F. Merloni,
“Amministrazione neutrale e amministrazione imparziale (a proposito dei rapporti tra politica e amministrazione)”, Dir. pubbl., 1999, 717 ss.
86
F. Merloni, Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Bologna, 2006; G.
Gardini, L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione: organizzazione e ruolo della
dirigenza pubblica nell’amministrazione contemporanea, Milano, 2003.
87
Cfr. i meccanismi di aggiramento ben illustrati in F. Merloni, Dirigenza pubblica e
amministrazione imparziale, cit.
88
Il modello, per il quale cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tubingen, 1922,
trad. it. Economia e società, a cura di P. Rossi, Milano, 1961, 324; la sua evoluzione nell’ordinamento italiano può ben ricavarsi da S. Battini, Il rapporto di lavoro con le pubbliche
amministrazioni, Padova, 2000.
89
Sulla posizione della dirigenza nel quadro delle riforme degli anni Novanta, quanto a
poteri, capacità e rapporti con i vertici politici, cfr. F. Merloni, A. Pioggia, R. Segatori,
L’amministrazione sta cambiando?, Milano, 2009, e ivi spec. i contributi di A. Pioggia, B.
Ponti, G. D’Alessio.
128
ne organizzativa più rilevante quanto a tentativi di fornire una risposta all’esigenza che sempre più si avverte di un rafforzamento, un ispessimento,
dei confini tra sfere diverse, in primis tra quelle del potere economico e del
potere politico90.
Il proliferare91 di authorities chiamate a intervenire con poteri di regolazione e governo, a salvaguardia di interessi pubblici e privati di rilievo
costituzionale92, caratterizzate dalla sottrazione all’indirizzo politico governativo e da competenze tecniche93, ha connotato varie esperienze, tra cui
quella italiana in particolare sul finire del ventesimo secolo94. Si noti, peraltro, che pure a fronte di una categoria ampia ed eterogenea, il tratto distintivo dell’indipendenza è stato visto come connaturato al modello, e inteso non solo come sottrazione all’indirizzo politico, ma anche come
“indipendenza dai gruppi di pressione, capacità di resistere alla cattura da
parte di imprese regolate”95.
Meccanismi e soluzioni di indubbio rilievo, ma da utilizzare con attenzione: anche prescindendo per il momento da valutazioni in ordine alla tollerabilità democratica della proliferazione di questi soggetti regolatori,
l’esperienza statunitense ha già mostrato tanto le potenzialità che le criticità
del modello, specie se teniamo a mente le analisi sulla regulatory capture96.
Dal momento che le amministrazioni indipendenti derivano la loro legittimazione proprio dalla loro, vera o presunta, capacità di distanziarsi dagli interessi sui quali incidono, questa problematica diviene decisiva e non
è un caso se è proprio attingendo all’esperienza delle autorithies che possiamo rinvenire la più significativa attenzione alle regole di status, dei vertici e del personale di questi apparati.
90
Il riferimento è alla costruzione teorica di M. Walzer, Sfere di giustizia, Milano, 1987
(e. orig. Spheres of Justice. A Defense of Pluralism and Equality, New York, 1983).
91
A. Predieri parlerà, al riguardo, de L’erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze, 1997.
92
Si veda C. Franchini, “Le autorità amministrative indipendenti”, Riv. trim. dir. pubbl.,
1988, 550 ss.
93
Cfr. in questo senso, tra gli altri, M. De Benedetto in Dizionario di diritto pubblico, a
cura di S. Cassese, I, Milano, 2006, 587.
94
Le prime iniziative volte a introdurre strutture a più alto tasso di imparzialità si fanno
risalire alla relazione di F. Piga, “Relazione della Commissione per la modernizzazione delle
istituzioni. Riforma dell’amministrazione centrale”, Riv. trim. sc. amm., 1985, 115.
95
Così M. Di Benedetto, Autorità indipendenti, cit., 589.
96
In particolare, si veda G. J. Stigler, The Theory of Economic Regulation, cit., 3, e ancor più chiaramente, sul punto, R. A. Posner, “Theories of Economic Regulation”, Bell
journ. of econ. and management science, 1974, 335 (per il quale “regulatory agencies come
to be dominated by the industries regulated”).
129
Regole, queste, poste non solo da codici di condotta interni, ma spesso
già affermate nelle leggi istitutive97. Nella “galassia” delle amministrazioni
indipendenti e semi-indipendenti, pur a fronte di una significativa variabilità frutto dei differenti impianti normativi che reggono i diversi soggetti,
ricorrono attente regole, rivolte di norma tanto ai membri quanto al personale delle autorità, che sviluppano in modo rigoroso i principi di imparzialità e di indipendenza come doveri dei funzionari. Nello specifico, poi, si
rinvengono nei diversi codici etici norme in materia di rapporto con gli interessi organizzati: una questione decisiva, dal momento che tanto più il
campo visuale delle autorità è ristretto, tanto più vi è il rischio di una cattura del regolatore da parte del regolato.
Questa attenzione alla dimensione soggettiva del rapporto con gli interessi, e più in generale alla definizione di regole di condotta quali “precauzioni ausiliarie”98 a garanzia del perseguimento dell’interesse pubblico, decresce nel modello tradizionale di amministrazione, specie allorché si faccia riferimento ai funzionari a legittimazione politica.
È possibile, in effetti, rinvenire una sorta di rapporto di proporzionalità
inversa tra investitura politico-democratica dei funzionari pubblici e attenzione alla previsione di doveri volti ad assicurare un equilibrato rapporto
con gli interessi. Attenzione che è, come visto, massima per i membri e il
personale delle autorità (ed entro questa categoria è a sua volta indice della
più o meno compiuta indipendenza dell’amministrazione interessata), limitata per il personale burocratico, esile per il personale di diretta collaborazione e il personale politico99.
Per i dipendenti pubblici, per i quali trova applicazione il codice di comportamento100, il dovere costituzionale di esclusività nel servizio alla Nazione,
che va correttamente inteso come piena dedizione alla cura dell’interesse generale, si traduce in una serie di principi e previsioni puntuali che in certa misura si pongono a presidio di un corretto rapporto con gli interessi: sono da
97
Sul punto si veda B. Ponti, in questo lavoro, cui ci sia consentito rinviare per l’analisi
delle previsioni contenute nei diversi codici etici.
98
Il riferimento è di nuovo a J. Madison, Federalist Paper, n. 51 (in un passo spesso
ripreso negli studi sull’etica pubblica): se gli uomini fossero angeli, o fossero governati da
angeli, non ci sarebbero problemi, ma gli uomini non sono angeli, né lo sono i loro governanti, e “l’esperienza ha insegnato all’umanità che sono necessarie precauzioni ausiliarie”.
99
Tematiche, queste, per le quali si veda ampiamente, infra, i contributi di G. Sirianni, e
F. Merloni. La limitata attenzione italiana alla regolazione etica delle condotte dei funzionari
non professionali è rimarcata da B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, cit.
100
Cfr. infra R. Cavallo Perin. Sul ruolo e la portata del codice, vedi già B. G. Mattarella, “I codici di comportamento”, Riv. giur. lav., 1996, 275 ss.; E. Carloni, “Ruolo e natura
dei c.d. ‘codici etici’ delle amministrazioni pubbliche”, Dir. pubbl., 2002, 319.
130
intendersi in questo senso tanto l’art. 2 (in cui l’espressione “conflitti di interesse” pare suscettibile di interpretazione ampia101), che, in modo più puntuale, l’art. 3, relativo a regali e altre utilità102, oltre a varie disposizioni che si
riferiscono tanto all’obbligo di astensione103, alla trasparenza negli interessi
finanziari, alle attività collaterali104. È però soprattutto nell’art. 8, “Imparzialità”, che si esplicita come dovere del dipendente quello di “assicurare la
parità di trattamento tra i cittadini”, e questo “respingendo in particolare ogni
illegittima pressione”105. Significativa è, infine, anche la previsione contenuta
nell’art. 11, che vieta di assumere impegni relativi all’attività del proprio ufficio, laddove questo possa “generare o confermare sfiducia nell’amministrazione o nella sua indipendenza e imparzialità”106.
Esiste, in sostanza, un insieme non scarno di doveri dei dipendenti
pubblici che qualificano il corretto adempimento della prestazione in termini di cura esclusiva dell’interesse pubblico: i limiti del sistema discendono,
piuttosto, dalla ridotta incisività, dall’eccessiva estensione quanto a destinatari di tali previsioni, dal problematico raccordo con i meccanismi della
responsabilità disciplinare e infine dalla scarsa prassi applicativa delle sanzioni inerenti alla violazione dei doveri107.
101
Fino a ricomprendervi la soggezione a interessi non necessariamente propri del soggetto. L’art. 2, comma 2, del Codice di comportamento vigente prevede, in particolare, che
“Il dipendente mantiene una posizione di indipendenza, al fine di evitare di prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni, anche solo apparenti, di conflitto di interessi”.
102
Art. 3: “Il dipendente non chiede, per sé o per altri, né accetta, neanche in occasione
di festività, regali o altre utilità salvo quelli d’uso di modico valore, da soggetti che abbiano
tratto o comunque possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio”.
103
Una previsione, questa contenuta nell’art. 6, che si riferisce però in larga parte all’ipotesi di conflitto tra interessi propri del dipendente o di suoi congiunti e funzione pubblica assegnata. Sul punto vedi M. Consito, in questo lavoro.
104
In questo senso, si veda il comma 1 dell’art. 7, “Il dipendente non accetta da soggetti
diversi dall’amministrazione retribuzioni o altre utilità per prestazioni alle quali è tenuto per
lo svolgimento dei propri compiti d’ufficio”, ma soprattutto il comma 2, “Il dipendente non
accetta incarichi di collaborazione con individui o organizzazioni che abbiano, o abbiano
avuto nel biennio precedente, un interesse economico in decisioni o attività inerenti all’ufficio”.
105
Cfr. i commi 1 e 2 dell’art. 8. Sul punto, vedi amplius M. Consito, infra.
106
Così l’art. 12, comma 3. Una previsione, questa, che conferma l’attenzione che in
ambito pubblico deve essere prestata ai conflitti tra interessi, anche solo apparenti (in
questo senso, cfr. D. F. Thompson, “Paradossi dell’etica della pubblica amministrazione”,
Probl. pubbl. amm., 1994). Questa previsione è, in particolare, attentamente esaminata da
D. Casalini, infra.
107
Su questi temi, si veda specialmente R. Cavallo Perin, B. Gagliardi e M. Consito, in
questo lavoro.
131
Per il personale politico e di diretta collaborazione, la questione diviene
più sfuggente, dal momento che le regole di status idonee a contenere possibili distorsioni e “parzialità” nel rapporto con gli interessi risultano deboli, pur dovendosi ritenere applicabile anche ai funzionari onorari e ai decisori politici il dovere costituzionale di imparzialità108. Qui, in effetti, diviene
necessario riflettere sulla responsabilità del personale politico complessivamente intesa: responsabilità che è giuridica, in alcuni casi109, ma più spesso politica e in questo contesto la correttezza delle condotte è anche frutto
del sistema di valori condivisi a livello di elites e di partiti politici110, della
capacità dell’opinione pubblica di conoscere e premiare o sanzionare le
condotte, avendo a riferimento la cura dell’interesse generale.
108
Come ravvisa F. Merloni, in questo lavoro, “essi devono assumere decisioni rilevanti che già toccano direttamente interessi, anche importanti, quando adottano atti normativi o atti amministrativi generali, così come spetta a essi fare in modo che gli atti di indirizzo
che adottano ricevano un’attuazione imparziale (gli atti devono contenere già le condizioni
della loro attuazione imparziale)”.
109
Si noti che l’allora Presidente del Consiglio C. A. Ciampi, nel presentare il suo Governo al Parlamento, il 6 maggio 1993, annunciava tra i punti programmatici, l’adozione di
codici di condotta per tutto il personale pubblico, sia esso elettivo o di carriera.
110
In questo senso risultano di interesse le regole interne ai partiti politici, quale il Codice etico recentemente approvato in seno al Partito democratico (sul quale si veda le notazioni di G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi, cit.).
132
Pietro Barrera
RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE
DEI DIPENDENTI PUBBLICI
1. La responsabilità disciplinare come strumento di contrasto
della corruzione e della malamministrazione
L’esercizio del «potere disciplinare» può contribuire all’azione
di prevenzione e contrasto della corruzione negli uffici pubblici,
e in generale dei fenomeni di «mala amministrazione»? La risposta non può che essere positiva: è una leva parziale, limitata (non
tocca la sfera politica), ma ha il pregio di chiamare in causa la responsabilità individuale di ogni dirigente e dipendente pubblico,
e di segnalare comportamenti che – senza (ancora) violare la legge
penale – creano però l’humus favorevole per deviazioni ben più
gravi. In questo senso può essere accolta con favore l’enfasi che
la c.d. «riforma Brunetta» riserva alla materia. Questa del resto
è una delle «chiavi di lettura» dell’intero disegno riformatore: a
fronte di una diagnosi severa – una pubblica amministrazione sfibrata dal diffuso malcostume individuale – il legislatore propone
una strategia a tutto campo volta a rafforzare la responsabilità dei
singoli. Da un lato l’inedita (almeno per il personale di qualifica
non dirigenziale) attenzione alla misurazione e valutazione della performance individuale e alla correlata gestione dei sistemi
premianti (fino a prescrivere che sia destinata «alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio
complessivo»); dall’altro – appunto – il nuovo vigore del potere
disciplinare. Insomma, carota e bastone. È lecito dubitare di un
approccio concettuale che finisce per far coincidere il successo
di una grande organizzazione con la somma dell’impegno dei
componenti, sottovalutando il peso di altri «fattori» – dalla funzionalità dell’organizzazione alla qualità della formazione – e tuttavia, a fronte di un generalizzato «allentamento» delle regole,
pur vigenti (e talora severe), ben si comprende la sollecitazione
per un «nuovo clima». Le disposizioni in materia disciplinare del
d.lgs. 150/2009 non impongono infatti nuovi precetti comportamentali, né tutto sommato aggravano le sanzioni in modo par245
ticolarmente rilevante. Hanno piuttosto l’obiettivo di restituire
effettività al potere disciplinare e alle correlate responsabilità, per
scongiurare una distanza troppo grande tra il codice disciplinare
formale e quello reale. Si spiega così l’attenzione prevalente alle
disposizioni procedurali, più che alle norme sostanziali, e l’insieme dei precetti (innovativi) volti a responsabilizzare i dirigenti
titolari del potere disciplinare. Quando poi – in modo episodico
e senza alcuna ambizione di esaustività – l’accento si sposta sul
diritto sostanziale, balza agli occhi un limite forte, del resto già
esplicito nella legge delega: la preoccupazione che domina l’impianto normativo è la lotta all’assenteismo, al «fannullonismo»,
insomma ai comportamenti connotati da un «non fare», piuttosto
che dal «fare male» o fare in modo lesivo di (altri) diritti e interessi individuali e collettivi. È il punto su cui dobbiamo concentrare
l’attenzione.
2. La responsabilità disciplinare tra legge e contrattazione collettiva
L’intervento «pesante» del legislatore obbliga però ad una riflessione preliminare. Più di un commentatore si è chiesto se in
questa, come in altre materie affrontare dal riformatore del 2009,
la (sostanziale) rilegificazione ne abbia mutato i paradigmi, fino a
porre serie questioni di ordine costituzionale. C’è da dubitare, in
particolare, dell’attualità e della
correttezza dell’inclusione della responsabilità disciplinare nell’ordinamento civile, e non nell’organizzazione amministrativa (…)
soprattutto perché le disposizioni (del d.lgs. 150/2009, ndr.) descrivono, per i dipendenti pubblici, un quadro normativo alquanto
diverso da quello della responsabilità disciplinare dei dipendenti
privati (1).
Insomma, come per altre parti del «decreto Brunetta», è possibile che ad un certo punto «la quantità diventi qualità», e cioè
(1) B.G. Mattarella, «La responsabilità disciplinare», in Giornale di diritto
amministrativo, n. 1/2010, 37.
246
il numero e la rilevanza delle disposizioni «speciali», rivolte al
solo settore del lavoro pubblico, finiscano per rompere l’unitarietà dell’ordinamento civile, che ovviamente ammette specifiche
discipline per diversi settori, ma sempre ancorate ad un ceppo
comune di regole e valori riconducibili ai principi lavoristi della Costituzione. Per questo la dottrina da tempo aveva segnalato
come, in regime di contrattualizzazione, i contratti collettivi
soli possono individuare le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni (tant’è vero che) anche le norme del codice di comportamento sono assistite da sanzioni disciplinari solo se l’Aran riesce ad
imporne il recepimento nei contratti collettivi (2).
Il dubbio è rafforzato dalla discutibile previsione posta al primo comma dell’art. 40/165, secondo cui, in materia disciplinare,
«la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge» (non ha quindi potenzialità innovatrici, sia pure nel rispetto di norme «inderogabili» ex artt. 1339 e
1419 c.c.).
La risposta «tecnica» del legislatore fa leva su quelle norme
del codice civile. Se infatti resta vero che «i rapporti individuali
di lavoro (…) sono regolati contrattualmente» e che spetta alla
contrattazione collettiva determinare «i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro», non muta il fondamento civilistico della responsabilità disciplinare (con la conseguente
devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative). Le
nuove numerose disposizioni legislative (l’art. 55 del d.lgs. 165 è
sostituito da ben dieci nuovi articoli!) non concretizzano insomma una rilegificazione (intesa come «ri-pubblicizzazione») della
materia, ma – qualificandosi espressamente come «disposizioni a
carattere imperativo» (l’art. 55.1 richiama proprio gli artt. 1339
e 1419, co. 2) – si limitano a fissare i capisaldi inderogabili dalla
regolazione contrattuale.
Il problema deve però essere impostato diversamente. Si può
dire (chi scrive ne è convinto) che le sacrosante preoccupazioni
(2) S. Battini, «Rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni», in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, 4825.
247
del legislatore, derivanti dalle sconfortanti esperienze passate, potevano essere affrontate con una maggiore e più coerente determinazione delle parti pubbliche nella definizione e nella gestione
delle norme contrattuali. Si poteva (si doveva) concretizzare la
responsabilità disciplinare anche per i dirigenti; si dovevano definire procedimenti più snelli, efficaci, rigorosi; in alcuni casi era
anche possibile, e per qualche verso doveroso, tornare sul codice disciplinare sostanziale, alla luce di nuove patologie e nuove
sensibilità (3). Insomma, gli obiettivi perseguiti dal legislatore
potevano essere raggiunti anche sul tavolo contrattuale, con un
pizzico di volontà e di determinazione in più, senza rischiare di
compromettere l’equilibrio legge/contratto, e conseguentemente
il riferimento alla materia dell’ordinamento civile.
3. I caratteri specifici della responsabilità disciplinare nel settore
pubblico
Restavano però, e restano comunque, almeno due profili che
oggettivamente distinguono la materia disciplinare nel settore
pubblico, ancorché contrattualizzato, da quanto avviene nell’ambito delle imprese private.
Il primo profilo è di natura sostanziale. La remota stagione
della concezione «pubblicistica», quando il potere disciplinare
appariva come estrinsecazione della posizione di «supremazia
speciale» dell’amministrazione e della simmetrica «soggezione
speciale» dei dipendenti pubblici (4), non era segnata solo da una
pervicace cultura autoritaria. Si fondava piuttosto su una nozione
alta e nobile dei doveri spettanti a quanti ricoprono uffici pubblici o esercitano pubbliche funzioni. Del resto, non è proprio
l’articolo 54 della Costituzione a ricordare (anche) ai funzionari pubblici il dovere di adempiere le funzioni loro affidate «con
disciplina ed onore»? È il solo articolo – insieme agli artt. 105 e
(3) Una prova, pur limitata, è stata data dal recente CCNL per i dirigenti del
comparto Regioni – enti locali (22.2.2010): il negoziato tra le parti, avviato ben
prima – e «a prescindere» – della «riforma Brunetta», aveva già posto le premesse di una prima definizione della responsabilità disciplinare dei dirigenti, con
qualche spunto interessante proprio per i temi qui trattati.
(4) C. De Marco, «Il potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato»,
in Giustizia Amministrativa Siciliana, 1998, n. 3, 906 e ss.
248
107 sulla responsabilità disciplinare dei magistrati – a segnalare
un profilo di responsabilità diverso e ulteriore rispetto alla triade
evocata dall’art. 28 («penale, civile e amministrativa»); una responsabilità di condotta, di comportamento, persino di «stile».
Dobbiamo leggere quel richiamo come una mera esortazione
retorica, o c’è (si vuole) qualcosa di più? Riflessioni analoghe, e
ancor più puntuali, si possono sviluppare a partire da altre norme
costituzionali. A lungo si è discusso sul «servizio esclusivo della
Nazione» cui l’art. 98 chiama gli «impiegati pubblici». Sovente è
stato banalizzato, riferendolo semplicemente alla esclusività del
rapporto di lavoro; altre volte è stato letto come reiterazione enfatica del precetto di imparzialità dell’art. 97 (la Nazione = tutti i
cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua) (5). Chi ne
ha richiamato l’origine storica, nel dibattito della Costituente, vi
ha colto uno dei più solidi fondamenti del principio di distinzione
tra funzioni politiche e gestione amministrativa, in opposizione
alla subordinazione (politica e giuridica) al regime pro tempore
che il fascismo aveva imposto a tutti i dipendenti pubblici (6). Ma
anche dietro a quelle brevi parole c’è qualcosa di più: c’è l’immagine del «servitore dello Stato», del civil servant, di colui che
non può, non deve (e non vuole) «servire Dio e Mammona» (7).
Può non piacere il richiamo ad una «particolare devozione verso
lo Stato (8)», ma certamente c’è il richiamo a tutta intera la tavola
dei valori costituzionali (9).
(5) Sul nesso tra «servizio esclusivo della Nazione» e principio costituzionale
di imparzialità, cfr. Corte cost., n. 103/2007; cfr. inoltre F. Bassanini, «Indirizzo
politico, imparzialità della Pubblica amministrazione e autonomia della dirigenza», relazione al convegno Il ruolo del dirigente quale garante dell’imparzialità
amministrativa, Firenze, 13 giugno 2008.
(6) Cfr. C. Pinelli, «Commento all’art. 98, 1° comma», in Commentario della
Costituzione, fondato da G Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna, Zanichelli, 1994, 412 ss.
(7) Matteo, 6,24; Luca, 16,13.
(8) Così G. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano,
Giuffrè, 1967, 176.
(9) C. De Fiores, «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione? Brevi considerazione sulla dimensione costituzionale del pubblico impiego
tra privatizzazione del rapporto di lavoro e revisione del titolo V», in Diritto
pubblico, n. 1/2006, 149 ss.
249
Era dunque comprensibile, e non il semplice retaggio di antiquate concezioni dello Stato, la nozione pubblicistica della responsabilità disciplinare, che ne rintracciava il fondamento in un
insieme di «doveri speciali» gravanti sul dipendente pubblico in
ragione della sua specialissima relazione con le istituzioni pubbliche, con il maneggio di beni e risorse della collettività, con l’esercizio di funzioni capaci di incidere in misura rilevante sui diritti e
gli interessi degli altri cittadini. C’era però anche il rovescio della
medaglia. La coppia «supremazia-soggezione speciale» consentiva infatti una sostanziale indeterminatezza del potere punitivo e
sembrava autorizzare un controllo generalizzato sulla sfera personale – la vita privata – dei lavoratori pubblici. Com’è evidente,
il problema non era solo il rischio di una grave e illegittima compressione di diritti e libertà (civili, sindacali, politiche) dei dipendenti pubblici, in spregio ad altre non meno importanti norme
costituzionali (2, 3, 21, 39, 49, 97: lo stesso terzo comma dell’art.
98, per quanto è dato di leggervi in controluce), ma una generale
subordinazione degli apparati professionali della p.a. al potere
(politico), sia pure mediata dal richiamo ai doveri costituzionali.
Insomma, la «speciale devozione per lo Stato», come fondamento
della responsabilità disciplinare, poteva tradursi (e non di rado
si tradusse), per aberrante eterogenesi dei fini, in una minaccia
permanente sulla «missione di imparzialità» che la Costituzione
stessa assegna ai «professionisti dell’amministrazione».
4. Responsabilità disciplinare e doveri di comportamento
Per questo è stata giusta, opportuna, necessaria l’innovazione
portata dalla «contrattualizzazione» del lavoro pubblico, anche
per il profilo particolare che qui esaminiamo. Ma quei valori, quei
«doveri pubblici» che abbiamo ricordato, debbono per questo
sparire dall’orizzonte, tornando nel limbo delle proclamazioni
retoriche? Le cronache giudiziarie ci ricordano che l’attenzione
ai valori dell’imparzialità e del buon andamento, della legalità e
della correttezza dell’azione amministrativa, non è mai troppa.
Se mai c’è stato, non è certo questo il momento per abbassare
la guardia, per banalizzare il richiamo ai valori costituzionali: 2,
54, 97, 98… Non c’è contraddizione con il fondamento civilisti250
co e contrattuale della responsabilità, se la parte datoriale – che
in questo ambito rappresenta (deve rappresentare) gli interessi
pubblici – ha ben chiari gli obiettivi da raggiungere nella definizione del codice disciplinare. Se pone insomma come contenuto
necessario del contratto individuale di lavoro il rispetto di norme
comportamentali (non solo, ovviamente, per i profili di rilevanza
penale) coerenti con lo statuto della funzione pubblica. In parte
ciò si realizza con la definizione unilaterale del Codice di comportamento (art. 54, del d.lgs. 165), ma paradossalmente il suo valore
appariva più netto nella vecchia formulazione del terzo comma
dell’art. 55 («ferma restando la definizione dei doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento…»). Ci dobbiamo
insomma rammaricare che molti «codici» contrattuali e le stesse
«norme imperative» stabilite dal d.lgs. 150 dedicano scarsa attenzione a quella tavola dei valori: bene combattere l’assenteismo,
giustissimo il rigore contro i «fannulloni», ma siamo sicuri che
solo queste siano le patologie gravi e più diffuse nelle amministrazioni pubbliche? Non è un po’ triste e singolare, e sintomo di una
insufficiente meditazione ed organicità nella elaborazione delle
norme legislative, che, poche settimane dopo l’entrata in vigore
della tanto attesa legge per la «ottimizzazione del lavoro pubblico», con un altro provvedimento, si suggerisce di reintrodurre il
giuramento di fedeltà (alla Repubblica, alla Costituzione e alle
leggi, ai doveri dell’ufficio e al «pubblico bene»), per tutti i dipendenti della pubblica amministrazione (10)?
Il punto, insomma, sta nell’ordine delle priorità che l’autore
– sia esso il legislatore, o il tavolo del contratto nazionale – pone
al centro del codice disciplinare. L’accettazione di doni inusuali
o imbarazzanti da parte di imprese o cittadini che intrattengono
(o desiderano intrattenere!) rapporti con l’amministrazione, l’uso
«privatistico» di beni pubblici, la gestione opaca di procedimenti che dovrebbero essere votati alla più scrupolosa imparzialità
(si tratti del concorso pubblico per le assunzioni, o di una gara
(10) Art. 21, d.d.l. A.C. 3209, recante Disposizioni in materia di semplificazione dei rapporti della Pubblica amministrazione con cittadini e imprese e delega al
Governo per l’emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche
e per la codificazione in materia di pubblica amministrazione.
251
d’appalto, o della concessione di contributi o sussidi), la gestione
sapiente delle informazioni di cui si dispone nell’ufficio per favorire questo o quello: sono comportamenti considerati dai codici
disciplinari, sanzionati con la dovuta gravità, anche quando non
raggiungono la soglia della responsabilità penale? Qualche novità,
importante e positiva, si è registrata nel primo CCNL sottoscritto
dopo la riforma (peraltro ad esito di trattative cominciate da tempo) (11): forse è la prova che buone innovazioni si potevano ottenere anche sul tavolo negoziale. Tuttavia, se quella disattenzione sui
profili etici dei comportamenti c’è stata – come dubitarne? – non
sembrano adeguati né l’approccio unilaterale (la legge, il codice
di comportamento approvato-imposto dall’amministrazione), né
l’approccio negoziale (i codici disciplinari fin qui definiti dai contratti). Forse è giunto il momento di alzare il tiro, di sollecitare
una riflessione ampia, che coinvolga insieme la politica, i dirigenti
e dipendenti pubblici, le organizzazioni sindacali, ma anche i cittadini organizzati, le associazioni, i movimenti civici. Un buon
banco di prova potrebbe essere l’impegno per una «revisione
condivisa» proprio del codice di comportamento di cui all’art. 54
del d.lgs. 165. Se è vero – è un’altro dei tratti caratterizzanti della
riforma – che il coinvolgimento della «cittadinanza attiva» è l’unica risorsa disponibile per rompere i rischi di autoreferenzialità
delle dinamiche interne alla p.a., perché non lanciare (e accettare)
la stessa sfida sul piano dei codici di comportamento? Codici, al
plurale, perché l’iniziativa dovrebbe diffondersi ad ogni livello,
prendendo sul serio il percorso già indicato dai commi 5, 6 e 7 del
medesimo art. 54. Perché il legislatore del 2009, così attento alla
responsabilità disciplinare, non ha dedicato alcuna attenzione a
quell’articolo? Probabilmente lo riteneva scontato, poco incisivo,
o inutilmente declamatorio. Se così fosse, non è forse il momento
giusto per renderne più stingenti ed efficaci i precetti, con un rigoroso impianto sanzionatorio?
(11) Ci si riferisce al CCNL dell’area della dirigenza del comparto Regioni ed
enti locali, sottoscritto definitivamente il 22 febbraio 2010: per la prima volta è
stato definito il «codice disciplinare» dei dirigenti, raccogliendo il (blando) invito dell’art. 21/165; non a caso il CCNL è diventato subito il punto di riferimento
insuperabile per i contratti della dirigenza di ogni altro comparto.
252
È però vero che una riflessione ampia e aperta su cosa si debba
considerare «anti-etico» nella vita delle amministrazioni pubbliche potrebbe riservare qualche sorpresa: ci si dovrebbe misurare
su valori condivisi (o prevalenti) in una società inquieta, preoccupata, spesso corporativizzata e segnata da paure irrazionali e da
pulsioni individualiste, in cui la ricerca (e offerta) di favori troppo
spesso sopravanza la rivendicazione (e la tutela) dei diritti. Ma hic
rodhus hic salta: se non si costruisce un solido consenso sociale
intorno ad alcuni valori, è vana la speranza di imporli d’imperio a
milioni di dipendenti pubblici!
5. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare
L’ultimo profilo su cui conviene prestare attenzione (e qui invece la risposta del decreto 150 è sostanzialmente convincente)
riguarda l’obbligatorietà dell’azione disciplinare.
Nel settore privato – è stato scritto – il potere disciplinare è liberamente esercitabile dal datore di lavoro, con i limiti eventualmente
posti dai contratti collettivi e nel rispetto dei principi elaborati dalla giurisprudenza
mentre «nel settore pubblico il suo esercizio è spesso doveroso»
perché
non risponde (soltanto) ad una logica aziendalistica, ma – almeno
in parte – alla logica pubblicistica del perseguimento di interessi
generali (12).
La differenza è importante: il datore di lavoro pubblico non
può, non ha il diritto di disinteressarsi del buon andamento dell’«azienda», perché non è sua, perché è un «bene pubblico», non
può dimenticare i valori che (anche) il potere disciplinare dovrebbe presidiare, né può trascurare il principio di imparzialità nella
gestione di quel potere («nell’impiego privato la scelta datoriale di
sanzionare o meno il lavoratore è discrezionale, nei limiti del divieto di discriminazioni e del rispetto della parità di trattamento» (13)).
(12) B.G. Mattarella, La responsabilità disciplinare, cit.
(13) L. Busico, «La responsabilità dei pubblici dipendenti ed il potere di-
253
Ne consegue la doverosità giuridica (e non solo l’opportunità sul
piano dell’efficienza dell’azione amministrativa) di assicurare l’effettività della responsabilità disciplinare, anzitutto imponendo ai
dirigenti di esercitare il potere datoriale loro assegnato ogni volta
che se ne verifichino i presupposti. Le scelte operate dal legislatore – rafforzare i poteri disciplinari spettanti a ciascun dirigente, e
gravarlo di una specifica responsabilità in ordine al loro effettivo
esercizio – vanno nella giusta direzione, e si possono collegare al
dovere di concorrere «alla definizione di misure idonee a prevenire e contrastare i fenomeni di corruzione e a controllarne il rispetto da parte dei dipendenti». Resta il sapore agro di una minaccia
(«punisci o sarai punito», sembra recitare l’art. 55-sexies, co. 3,
del d.lgs. 165), ma non è sbagliato il principio: è sbagliata semmai l’immagine che può derivarne, di un dirigente teso ad essere
soprattutto il «custode e controllore» dei dipendenti, piuttosto
che il leader, l’animatore e il promotore dell’impegno collettivo
di tutti i collaboratori.
sciplinare», in http://www.diritto.it, 5.11.2009; cfr. inoltre Consiglio di Stato,
Sez. VI, 12.2.2007, n. 536: «il ragionamento in base al quale viene individuata la
sanzione da applicare nei confronti di un dipendente pubblico (…) Deve tener
conto anche della necessità di punire equamente tutti i responsabili, proporzionalmente con le rispettive colpe».
254
Francesco Merloni
INCARICHI SUCCESSIVI
ALLA CESSAZIONE DELLA FUNZIONE
1. Introduzione
Lo svolgimento di incarichi successivi al termine di svolgimento
della funzione affidata è rilevante ai fini della garanzia dell’imparzialità.
Due i profili più rilevanti:
a) Il c.d. pantouflage, cioè lo svolgimento di incarichi, pubblici e
privati, che possano far dubitare del precedente esercizio imparziale della funzione;
b) il rientro nell’amministrazione, in particolare l’affidamento di
funzioni amministrative che richiedono imparzialità, dopo aver
svolto funzioni politiche o fiduciarie (o in imprese private).
2. Lo svolgimento di incarichi dopo la cessazione della funzione
Sotto il primo profilo una particolare attenzione è stata dedicata al fenomeno nell’ordinamento francese con riferimento ai
funzionari professionali.
Si è adottata una legislazione restrittiva quanto alla possibilità
di distacco di funzionari presso imprese private nel corso della
carriera, ma soprattutto si è introdotto il principio del «delai de viduité» (letteralmente «lutto vedovile»), cioè del necessario rispetto di un congruo periodo di tempo (cinque anni) tra la cessazione
del servizio presso l’amministrazione e lo svolgimento di incarichi
presso imprese private che essi abbiano, in servizio, controllato o
sovvenzionato. Un sistema analogo può essere adottato anche da
noi, adattando i periodi all’importanza delle funzione pubblica
esercitata (o del concorso dato all’esercizio della funzione)
Tra le imprese private vanno ricomprese anche gli enti pubblici economici e le società in controllo pubblico, da un lato perché esse sono imprese private come le altre e quindi portatrici di
interessi che per il regolatore o il sovvenzionatore sono sempre
255
interessi particolari; dall’altro perché particolarmente delicato è
il rapporto tra amministrazioni e enti o società da esse controllati.
Il fenomeno della cattura del regolatore (di un servizio pubblico ad
esempi) da parte del regolato è particolarmente grave in questi casi.
Ma il tema, a ben vedere, tocca anche i titolari di organi politici
o i soggetti con incarichi fiduciari. Tutti questi funzionari sono in
grado di orientare l’esercizio delle funzioni loro affidate, in prevalenza di indirizzo, ma in qualche caso anche di gestione, a favore
di interessi particolari. Ministri, assessori, parlamentari o consiglieri, presidenti di enti pubblici quando passano a svolgere incarichi in imprese private (anche a controllo pubblico) pregiudicano
anch’essi l’affidamento che il cittadino ha nella loro imparzialità.
3. Il rientro nell’amministrazione
Quanto al secondo profilo, si tratta di rivedere con attenzione
tutti i casi nei quali un funzionario professionale, dopo aver svolto
un incarico di natura politica o fiduciaria debba rientrare nell’amministrazione per svolgervi funzioni che invece presuppongono
un maggiore grado di imparzialità. Un funzionario che abbia ricoperto la carica di assessore ovvero una carica fiduciaria in un’amministrazione o in un ente pubblico o in una società in controllo
pubblico può non apparire così imparziale rispetto all’appartenenza politica che con quell’incarico ha mostrato. Lo stesso vale
per il funzionario professionale che abbia svolto, per un periodo,
incarichi in imprese private, se il suo rientro nell’amministrazione
avvenisse in uffici che esercitano poteri di controllo o di contribuzione economica sulla impresa nella quale ha operato.
In questi casi, qualora non sussistano più gravi cause che impongono la cessazione dal servizio, in generale si può ricorrere a
rimedi analoghi a quelli individuati per il pantouflage: la fissazione
di adeguati periodi di «raffreddamento» (o di «lutto vedovile»)
nei quali a questi funzionari posso essere conferite solo funzioni
che non richiedono particolari gradi di imparzialità (compiti di
staff per chi rientra provenendo da incarichi politici o fiduciari;
compiti in settori e per funzioni pubbliche del tutto lontane dal
settore di interesse curato, per chi proviene da incarichi in imprese private); periodi decorsi i quali il funzionario può vedersi
256
assegnate funzioni gestionali e amministrative senza pregiudicare
la sua immagine di imparzialità.
4. L’applicazione delle regole e il relativo controllo
In questo campo (ma il discorso può essere esteso ad altri strumenti) si tratta di stabilire in che modo fissare le regole, anche
al fine di renderne non troppo rigida l’applicazione. Si potrebbe
pensare alla legge per fissare i principi generali, anche perché ogni
limitazione delle posizione di libertà dei funzionari è soggetta a
riserva di legge, rinviando la individuazione dei singoli casi e delle
sanzioni a normativa secondaria.
Utile si può rivelare, poi, una costante opera di interpretazione e adeguamento dei comportamenti e dei casi, con una commissione nazionale (si potrebbe pensare alla Commissione per
la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni
pubbliche (1)) che svolgesse i compiti delle Commission de déontologie francesi, dando consigli alle amministrazioni sull’esistenza
effettiva di casi di pantouflage, ovvero sui regolamenti da adottare
per prevenire questi fenomeni.
(1) Prevista dalla legge n. 150 del 2009 e poi istituita dal d.lgs. n. 150 del
2009.
257
La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della
trasparenza amministrativa*
ENRICO CARLONI
SOMMARIO: Introduzione; 1. La trasparenza e i modelli nel prisma delle riforme
amministrative; 2. Il modello delle intenzioni: il diritto all’informazione; 3. Il modello
realizzato: l’accesso ai documenti e la sua evoluzione; 3.1. L’accesso senza trasparenza;
4. Il nuovo modello: la pubblicità (on line) delle informazioni; 4.1. La “Operazione
trasparenza” e la riforma “Brunetta”; 4.3. I rischi insiti nel nuovo modello; 5. L’opacità
della trasparenza; 6. Indicazioni conclusive.
Introduzione
Ad un ventennio dall’approvazione della legge sul procedimento, che si
è posta come punto di arrivo, in quanto rivolta a definire su nuove basi il
rapporto tra amministrazione e cittadino, e come punto di partenza, di
una nuova (e progressivamente fin troppo abusata) centralità della legge
nel riformare il sistema pubblico, la forza espansiva e culturale di quella
riforma sembra segnare il passo, mentre nuovi e continui interventi
normativi ne appannano il disegno.1 Le parole d’ordine (partecipazione,
semplificazione, trasparenza, solo a porre attenzione ad altrettanti Capi
della legge del 1990) della legge sono attuali oggi come ieri, ma mutano
spesso in modo significativo gli istituti chiamati a realizzarle, mentre
assistiamo da un lato alla proliferazione di principi generali sull’attività
che si muovono al di fuori della legge sul procedimento2 e, dall’altro,
all’introduzione di regole settoriali3 ed alla complessiva perdita di un
modello di regolazione dell’azione pubblica.
Riprendendo le parole di Palma, il legislatore «insegue, non sempre in
modo soddisfacente, il ritmo esasperante delle avvertite esigenze di
modifiche» dell’amministrazione pubblica4, e questo è evidente prestando
* In corso di pubblicazione in Studi in onore di Giuseppe Palma.
1 Cfr. B.G. MATTARELLA, Le dieci ambiguità della l. n. 15 del 2005, in Giornale di diritto
amministrativo, 2005, 821.
2 Basti pensare, per quello che qui più direttamente interessa, alla definizione di
trasparenza amministrativa nella l. 15 del 2009, od al fatto che il regime di generale
conoscibilità dei “dati pubblici” è affermato nel Codice dell’amministrazione digitale
(d.lgs. n. 82 del 2005).
3 Si v. la disciplina delle conferenze di servizi, ed in particolare alle previsioni di cui agli
artt. 14 bis (in materia di opere pubbliche), 14 quinquies (in materia di finanza di
progetto) della legge n. 241 del 1990.
4 Cfr. G. PALMA, Pagina introduttiva, in G. CLEMENTE DI SAN LUCA (a cura di), La nuova
disciplina dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, Torino,
Giappichelli, 2006, p. 7.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
1
attenzione ad una legge che, più di altre, dovrebbe avere caratteri di
stabilità, quale quella recante le norme generali sull’azione
amministrativa.
Col rischio, evidente, di far dire troppo e troppo poco alla legge n. 241
del 1990, che sempre meno riesce a porsi come parametro culturale di
riferimento, come d’altro canto solo in parte sin qui è riuscita a fare.
L’amministrazione di oggi non appare, d’altra parte, necessariamente più
efficace efficiente economica di quella di ieri, o più trasparente: basti
pensare, per un verso, al fatto che dell’amministrazione «ordinaria» si
sente sempre più spesso di dover fare a meno allorché si vogliono
realizzare interventi5, per l’altro al fatto che la rinnovata esplosione di
fenomeni di corruzione appare il sintomo di un malessere diffuso nel
sistema pubblico.6
Se l’amministrazione di oggi è profondamente diversa da quella di un
ventennio addietro, il miraggio della trasparenza amministrativa, per
quello che più direttamente interessa nell’ottica di questo lavoro,
continua a porsi davanti al legislatore, che sembra inseguirlo anche se in
modo spesso confuso, ed al cittadino, che in questa confusione rischia di
perdersi. Il modello riformatore che aveva ispirato la legge del 1990 e che
in questa aveva trovato un parziale sviluppo ha cessato di porsi come
riferimento interpretativo, mentre solo in controluce appare possibile
leggere il nuovo modello di amministrazione trasparente frutto della
stratificazione di successivi e non sempre organici interventi del
legislatore.7
5 Come si ricava chiaramente dall’espansione del fenomeno delle c.d. «emergenze» e
dall’ampliamento del ruolo del ruolo del servizio di protezione civile: per un
inquadramento del fenomeno, cfr. A. FIORITTO, L’amministrazione dell’emergenza tra
autorità e garanzie, Bologna, Il Mulino, 2008. La “fuga dalla normalità” è evidente nella
vicenda dei rifiuti campani (sulla quale si v. per tutti F. MERLONI, Ragionando sui rifiuti
campani e dintorni: Stato e Regioni tra la continua emergenza e l’impossibile normalità, in Le
Regioni, 2007, pp. 925 ss.
6 Già prima dei più recenti scandali, era avvertito un aumento dei fenomeni di
corruzione (si v. ad es. i rapporti di Transparency International, che con specifica
attenzione allo stato della corruzione politico-amministrativa percepita in particolare
dagli operatori economici elabora annualmente degli indici, tra i quali in particolare il
Corruption Perceptions Index –CPI: informazioni e documenti, al riguardo, sono reperibili
nel sito dell’associazione, www.transparency.org). La percezione dell’attuale gravità della
situazione è ormai largamente diffusa, come conferma la numerosa letteratura in
materia (per tutti, cfr. D. DELLA PORTA, A. VANNUCCI, Mani impunite, Roma-Bari,
Laterza, 2008) e non appare casuale la rinnovata attenzione della dottrina ai temi
dell’etica pubblica (cfr. F. MERLONI, R. CAVALLO PERIN (a cura di), Al servizio della
Nazione, Milano, F. Angeli, 2009; B.G. MATTARELLA, Le regole dell’onestà, Bologna, Il
Mulino, 2007) e della corruzione (per tutti, P. DAVIGO, G. MANNOZZI, La corruzione in
Italia, Roma-Bari, Laterza, 2007).
7 La trasparenza «più che rappresentare un istituto giuridicamente preciso, riassume un
modo di essere dell’amministrazione, un obiettivo un parametro cui commisurare lo
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
2
L’ultima stagione di riforme, che si lega al Ministro per la pubblica
amministrazione Renato Brunetta, giunge quindi a coronamento di
queste dinamiche, rispetto alle quali si pone in termini assolutamente
coerenti: è chiara la spinta riformatrice, meno lo è l’idea di
amministrazione che sta (dovrebbe stare) dietro a questi interventi. E’
evidente l’accelerazione, meno la direzione di un cambiamento che pure
si avverte come necessario.8
Risulta, a questo punto, utile riflettere sui caratteri che va assumendo la
trasparenza amministrativa, ed è questo lo scopo di questo lavoro. In
primo luogo ciò comporta l’esigenza di ritornare sui modelli che hanno
caratterizzato e caratterizzano l’evoluzione della c.d. «casa di vetro» nel
nostro paese, anche attingendo ad esperienze comparate. In secondo
luogo da ciò discende l’opportunità di segnalare una serie di paradossi
che stanno connotando la via italiana alla conoscibilità dell’azione
amministrativa. Infine, da ciò deriva la possibilità di delineare quelle che
paiono le più significative, ancorché spesso problematiche, linee di
sviluppo.
Se è cambiato il sistema amministrativo, in un ventennio è cambiato non
meno il contesto, in primo luogo tecnologico, dell’azione pubblica, con
profondi effetti in termini di conoscibilità: è questo un dato di fondo dal
quale occorre muovere sin dalla premessa, ma se «Internet changes
everything»9 non per questo bisogna trascurare le dinamiche del segreto e
svolgimento dell’azione amministrativa»: così R. VILLATA, La trasparenza dell’azione
amministrativa, in Dir. proc. amm., 1987, p. 528. La dottrina in materia di trasparenza e
diritto di accesso è notoriamente estesa: per lo stato di questo rapporto prima delle
riforme del 2005, cfr. i diversi contributi in G. ARENA, (a cura di), L’accesso ai documenti
amministrativi, Bologna, Il Mulino, 1991 (ed in particolare ID., La trasparenza
amministrativa ed il diritto di accesso ai documenti amministrativi, ivi, pp. 15 ss.); ID., Trasparenza
amministrativa, in Enc. giur., XXXI, Roma, Ist. Enc.It., 1995, p. 1; A. ROMANO TASSONE,
Considerazioni in tema di diritto di accesso, in Scritti Silvestri, Milano, Giuffré, 1992; C.
MARZUOLI, Diritto d’accesso e segreto di ufficio, in M. CAMMELLI, M. P. GUERRA (a cura di),
Informazione e funzione amministrativa, Rimini, Maggioli, 1997, pp. 257 ss.; L.A.
MAZZAROLLI, L’accesso ai documenti della pubblica amministrazione. Profili sostanziali, Padova,
Cedam, 1998; C.E. GALLO, S. FOÀ, Accesso agli atti amministrativi, in Dig. disc. pubbl., Agg.,
Torino, Utet, 2000, pp. 1 ss.; M.A. SANDULLI, Accesso alle notizie e ai documenti
amministrativi, in Enc. dir., Agg. IV, Milano, Giuffré, 2000, p. 1 ss.; A. SIMONATI, L’accesso
amministrativo e la tutela della riservatezza, Trento, Univ. degli studi, 2002. In materia, per
un inquadramento complessivo del fenomeno nelle sue diverse angolazioni e per
ulteriori riferimenti, si v. ora F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa,
Milano, Giuffré, 2008.
8 Individua, da ultimo, una serie di disfunzioni nelle dinamiche riformatrici italiane L.
TORCHIA (a cura di), Il sistema amministrativo italiano, Bologna, Il Mulino, 2009 (cap. XI, a
cura di M. SAVINO), pp. 425 ss.
9 Per quanto si tratti di un’espressione ricorrente, il riferimento, in particolare, è a S.M.
JOHNSON, The Internet Changes Everything: Revolutionizing Public Participation and Access to
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
3
dell’opacità. Non paiono sufficienti le innovazioni tecnologiche, né si
sono sempre rivelate adeguate quelle normative, a far venire meno quel
velo dell’anonimato che, come ben segnalava Palma nelle sue Lezioni, «ha
da sempre occultato agli occhi del cittadino il reale funzionamento della
pubblica amministrazione».10 Detto in altri termini, quella della
trasparenza troppo spesso è apparsa un’idea «astratta»11, disattesa proprio
da quegli istituti che avrebbero dovuto assicurarla, il che è solo uno dei
numerosi paradossi della via italiana alla trasparenza.
1. La trasparenza e i modelli nel prisma delle riforme amministrative
Nel momento in cui la trasparenza si pone al centro del dibattito politico,
anche sulla scorta di attenti approfondimenti che già avevano colto le
linee di sviluppo sulle quali ora si inseriscono le recenti riforme, può
risultare di una qualche utilità riflettere non solo sul modello di
conoscibilità pubblica che emerge dalla densa trama degli interventi
legislativi dell’ultimo quinquennio, ma più complessivamente sui modelli,
auspicati, predicati ed inseguiti nell’arco del ventennio riformatore di cui
si è detto in apertura.
Assistiamo, da questo punto di vista, alla successione di almeno tre
modelli: quello del diritto all’informazione (che ha ispirato la legge sul
procedimento ma solo in parte ha trovato lì realizzazione), quello del
diritto di accesso (a sua volta significativamente mutato con la riforma
del 2005), ed ora quello della «accessibilità totale»12, della dissemination
attraverso la rete, che emerge da ultimo, con forza ancorché a margine
della disciplina generale del procedimento.
1. Il modello delle intenzioni: il diritto all’informazione
Il primo modello del quale tenere, pure brevemente, conto, è quello del
freedom of information, del diritto all’informazione: un diritto generalizzato
di accedere a fonti conoscitive, non collegato a specifiche situazioni di
legittimazione, proprio del cittadino in quanto tale. E’, come noto, il
modello che troviamo realizzato negli Stati Uniti, attraverso il Freedom of
Information Act e le successive modifiche: l’area della conoscibilità è
Government Information Through the Internet, in www.law.mercer.edu/elaw/inter2.htm
(1997).
10 Così G. PALMA, Itinerari di diritto amministrativo. Lezioni 1993-1994, Padova, Cedam,
1996, p. 306.
11 Il riferimento è evidentemente ad A. ORSI BATTAGLINI, “L’astratta e infeconda idea”.
Disavventure dell’individuo nella cultura giupubblicistica, in Quaderni fiorentini, 1988, pp. 569 ss.,
ora in ID., Scritti giuridici, Milano, 2007, pp. 1309 ss.
12 Cfr. l. n. 15 del 2009; d.lgs. n. 150 del 2009, su cui infra, par. 4.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
4
generale, l’accesso è riconosciuto ad any person, ma al fianco di quest’area
di piena trasparenza si articola un sistema di «eccezioni», che consentono
di limitare la conoscibilità di una serie di informazioni e documenti.
Un approccio, questo, che prevede il diritto di richiedere informazioni (e
non necessariamente documenti13) senza che intervengano limitazioni di
carattere soggettivo (c.d. accesso open to all)14: ogni informazione è
suscettibile di costituire oggetto della libertà di informazione, fatte salve
le specifiche eccezioni previste dal legislatore.
Si noti, peraltro, che la capacità di questo strumento di garantire un
effettivo controllo democratico sul sistema pubblico si lega in modo
significativo all’ampiezza delle exemptions. In questo senso risulta
esemplare l’esperienza inglese, dove la legislazione del freedom of
information si accompagna ad un sistema di eccezioni particolarmente
ampio.15
Questo modello si era posto come riferimento fondamentale nei lavori
della c.d. Commissione Nigro16, e di questo retaggio possono trovarsi
alcune tracce nella legge sulle autonomie locali del 199017 e nella coeva
nella legge sul procedimento: si pensi, in quest’ultima, al riconoscimento
13 La definizione di “documento amministrativo”, per quanto ampia, non permette di
disancorare gli elementi conoscitivi dal loro supporto (il contenuto dal contenitore, per
dirla diversamente). Da prospettive diversa (quella del riutilizzo dei documenti/dati
pubblici, da una parte, quella dell’accessibilità/riservatezza, dall’altra) la questione del
rapporto tra dati e documenti è ben evidenziata, in termini critici, da B. PONTI, Titolarità
e riutilizzo dei dati pubblici, in B. PONTI (a cura di), Il regime dei dati pubblici, Rimini,
Maggioli, 2008, spec. pp. 217 ss., e da E. MENICHETTI, Accessibilità e tutela della
riservatezza, ivi, spec. pp. 184-187.
14 Negli Stati Uniti, l’espressione open government è solita riferirsi ad un “quartetto” di
provvedimenti normativi approvati nell’arco di un decennio e più volte modificati
(FOIA, del 1966; Federal Advisory Committee Act, del 1972; Privacy Act, del 1974;
Government in the Sunshine Act, del 1976)
15 Sul modello inglese, cfr. N. TURCHINI, Trasparenza e accesso nell’esperienza inglese, in F.
MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., pp. 499 ss. e, più ampiamente, P.
BIRKINSHAW, Government & Information: The Law Relating to Access, Disclosure and their
Regulation, Haywards Heath, Tottel Publishing, 2005.
16 La legge, come noto, derivava dai lavori della commissione presieduta da M.S.
Giannini, costituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, e più precisamente
dalla sottocommissione diretta da M. Nigro (per indicazioni più dettagliate, v. C.
FRANCHINI, La relazione governativa sulla delegificazione e sulla modernizzazione delle istituzioni,
in Riv.trim.dir.pubbl., 1985, pp. 304 ss.). L’importanza del riferimento del FOIA
nell’elaborazione della disciplina italiana del diritto di accesso è ricordata, da ultimo, da
G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, in F. MERLONI (a cura di), La
trasparenza amministrativa, Milano, Giuffré, 2008, p. 31.
17 Cfr. G. SCIULLO, Sintonie e dissonanze fra le l. 8 giugno 1990, n. 142, e 7 agosto 1990, n.
241: riflessioni sull’autonomia normativa locale, in Foro amm., 1990, pp. 2220 ss.; per una
ricostruzione sistematica della dottrina e della giurisprudenza in materia di accesso alle
informazioni locali, si v. ora il commento all’art. 10 del Tuel di L. VANDELLI, E.
BARUSSO, Autonomie locali: disposizioni generali, soggetti, Rimini, Maggioli, 2004, pp. 420 ss.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
5
a «chiunque» del diritto di accedere ai documenti (un’affermazione, però,
subito stemperata, nella legge n. 241, non solo dal collegamento con una
situazione giuridicamente rilevante, ma anche dall’esigenza di motivare
l’istanza, che non compariva nell’originario testo prodotto dalla
Commissione).18
Come rimarcato da Arena è attraverso l’ingresso di una dimensione
soggettiva (non più il cittadino in quanto tale, ma l’interessato a tutela di
proprie situazioni giuridiche), peraltro rimessa all’apprezzamento
dell’amministrazione, che si è realizzato il cambiamento di modello: un
cambiamento frutto non tanto e non solo della legge sul procedimento,
ma certo delle sue ambiguità e dell’attuazione che ne è stata fatta, a livello
normativo19 e giurisprudenziale.20 Si tratta di approdi che evidentemente
hanno spinto l’esperienza italiana lontano dal solco statunitense, dove
l’evoluzione della normativa in materia di libertà di informazione si era
sviluppata attraverso correzioni successive di segno diametralmente
opposto, tramite l’eliminazione di ogni ambiguità ed ogni spazio di
discrezionalità dell’amministrazione nel valutare la posizione del
richiedente.21
E’ peraltro interessante ritornare sulle obiezioni che vent’anni addietro
giustificarono la scelta di prevedere un modello di accesso legato al
possesso di una posizione giuridicamente rilevante, e di converso
l’opzione sfavorevole ad ipotesi di accesso generalizzato: le difficoltà
organizzative, il carattere “troppo avanzato” di una simile previsione (col
rischio di una “obsolescenza per eccesso di progresso”), di fatto
impraticabile in assenza di una adeguata informatizzazione
dell’amministrazione.22 Tutte obiezioni che sono, o dovrebbero essere
Cfr. G. ARENA, La trasparenza amministrativa ed il diritto di accesso ai documenti
amministrativi, in G. ARENA (a cura di), L’accesso ai documenti amministrativi, Bologna, Il
Mulino, 1991, p. 33.
19 Il riferimento è, in particolare, al primo regolamento sull’accesso, il dPR n. 352 del
1992.
20 Per una ricostruzione di questo percorso giurisprudenziale, ci sia consentito rinviare a
E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa: dall’accesso ai documenti alla
disponibilità delle informazioni, in Diritto pubblico, n. 2, 2005, pp. 573 ss.; cfr. cfr. A.
CORPACI, Spunti critici sulla giurisprudenza applicativa della legge sul procedimento amministrativo,
in Diritto pubblico, n. 1, 1995, pp. 185 ss.
21 Il passaggio decisivo è in questo senso rinvenibile nella riforma del FOIA operata
intorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, per lo studio della quale resta
fondamentale G. ARENA, La legge sul diritto all’informazione e la pubblicità degli atti
dell’amministrazione negli Stati Uniti, in Politica del diritto, n. 3, 1978, pp. 279 ss.
22 Tutti riferimenti legati al dibattito parlamentare dell’epoca, più ampiamente riportati
in G. ARENA, La trasparenza amministrativa e il diritto di accesso ai documenti, cit., pp. 33-34.
Si noti che il collegamento tra diritto di accesso ed informatizzazione era ben presente
anche al Consiglio di Stato, che in sede di parere sul disegno di legge (Ad. Gen., parere
19 febbraio 1987, in Foro It., 1988, P. III, pp. 22 ss.) rinveniva come limite della
18
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
6
oramai superate, senza che però sia stata messa in discussione quella
scelta nell’evoluzione della disciplina diritto di accesso ai documenti.
2. Il modello realizzato: l’accesso ai documenti e la sua evoluzione
La disciplina del 1990 nel segnare l’abbandono della logica del segreto in
favore di un’opposta logica della trasparenza, secondo la formula spesso
usata se non abusata nell’enfatizzare la legge sul procedimento a mo’ di
spartiacque del sistema pubblico nel suo complesso, portava però con sé
profili contraddittori, capaci di condizionarne lo sviluppo. La legge
recava, infatti, in sé elementi idonei a ridurne la portata, dal momento
che introducendo l’idea di subordinare la conoscenza all’esigenza
motivata di salvaguardare specifiche situazioni giuridicamente protette
orientava già in modo deciso il diritto di accesso a strumento di difesa di
quelle stesse situazioni, piuttosto che a strumento di garanzia della
correttezza dell’azione amministrativa.23
Si trattava di un esito non scontato, tenuto conto del collegamento molto
forte che la stessa legge operava tra diritto di accesso e trasparenza
amministrativa: è al fine di assicurare quest’ultima, e di favorire lo
svolgimento imparziale dell’attività amministrativa, che il legislatore
riconosce, a chiunque vi abbia interesse, il diritto di accedere ai
documenti.
Ciò premesso, il modello verso cui si orienta quindi con decisione il
sistema italiano è, sin dalla legge sul procedimento, quello, largamente
diffuso specie negli ordinamenti dell’Europa continentale, del diritto di
accesso condizionato, riconosciuto non ad ogni cittadino ma solo in
presenza di specifiche condizioni di legittimazione.24 Queste condizioni,
nell’esperienza italiana, sono non solo la situazione giuridicamente
rilevante/tutelata, ma soprattutto l’avere un interesse diretto, concreto ed
disciplina proposta il fatto che questa non teneva conto «(o tener conto in maniera
adeguata) […] dei nuovi strumenti informatici (che pur ottengono sempre più larga
applicazione nell’amministrazione)» (ivi, 42).
23 Per Arena, l’accesso «pensato in origine come un nuovo diritto non solo egoistico,
come diritto cioè ad essere informati non solo nel proprio interesse, ma nel più generale
interesse alla trasparenza dell’azione amministrativa, ha finito così con il diventare nel
corso degli anni semplicemente un’arma in più per gli amministrati da usare contro
l’amministrazione» (G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, cit., p.
31).
24 Per quanto si assista, nello scenario comparato, alla proliferazione di legislazioni
sull’accesso ad informazioni, genericamente definite leggi sul freedom of information (per
una panoramica complessiva, cfr. J.M. ACKERMAN, I.E. SANDOVAL-BALLESTEROS, The
global explosion of Freedom of Information Acts, in Administrative Law Review, 2006, 58), queste
regolazioni solo in parte possono essere ricondotte al modello americano del FOIA.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
7
attuale alla conoscenza di uno specifico documento, sottoposto
all’apprezzamento dell’amministrazione.
Dalla trama, densa, delle condizioni di legittimazione richieste, così come
desumibili dal testo originario della legge, rafforzate dalla giurisprudenza
ed in sede regolamentare, ed ora pietrificate dalla riforma del 200525,
emerge un nuovo senso complessivo da riconoscersi all’istituto del
diritto di accesso.
In questa prospettiva, le profonde modifiche testuali operate dalla legge
n. 15 del 2005 sono variamente colte dalla dottrina (in termini critici,
spesso, ma non meno frequentemente come semplice chiarificazione di
uno stato della disciplina già acquisito), e segnano in ogni caso il punto di
arrivo di un percorso di progressiva espulsione dei tratti residui del
modello di accesso che come detto era nelle originarie intenzioni del
processo riformatore di un quindicennio prima.
Queste modifiche determinano il venir meno di incertezze ed ambiguità,
collegando il diritto di accesso in modo diretto ed esclusivo all’esigenza
di tutelare specifiche situazioni giuridiche. Non solo il diritto di accesso
ai documenti perde le tracce residue dell’originario modello ispiratore,
ma finisce per collocarsi in una posizione di retroguardia26 anche
ponendo attenzione al modello dell’accesso condizionato proprio di altre
esperienze, quale quella francese.
Un modello nel quale, nella sostanza (e di là dalle affermazioni enfatiche
ma vuote che tendono ad occultarla), la regola risulta l’inaccessibilità,
salvo che si dimostri la propria legittimazione.27
La possibilità di accedere a documenti (e non anche ad informazioni), le
restrizioni alla legittimazione (ai soli interessati), la limitazione
dell’accesso a determinate tipologie e categorie di documenti od in
presenza di interessi pubblici e privati contrapposti, sono tutti tratti che
accomunano il modello28, entro il quale le varie esperienze si muovono
modulando diversamente limiti e condizioni di legittimazione all’accesso.
25 Le scelte del legislatore, sin dal 1990 ed ancor più nella l. 15 del 2005, «hanno
impedito al diritto di accesso di svolgere quel ruolo fondamentale per la trasparenza
amministrativa che il disegno di legge Nigro aveva prefigurato per tale istituto» (G.
ARENA, ult.op.cit., p. 31).
26 Si cfr. A. SANDULLI, L’accesso ai documenti amministrativi, in Giorn. dir. amm., 2005, p.
494 (che parla di «controriforma»).
27 Cfr. G. NAPOLITANO, Diritto amministrativo comparato, Milano, Giuffré, 2007, p. 165. Si
noti che questo trova conferma, nell’esperienza italiana, nella formulazione del segreto
di ufficio così come risultante alla luce dell’art. 28 della l. 241 del 1990 (il segreto di
ufficio, in sostanza, cessa di essere un concetto indeterminato, ma residua quale regola
di ordine generale).
28 L’analogia tra l’esperienza italiana e quella francese è data, inoltre, da tratti
parzialmente assimilabili quanto a sedi deputate a garantire e tutelare il diritto (CADA e
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
8
2.1. L’accesso senza trasparenza
Queste notazioni ci conducono ad un primo paradosso che connota la
via italiana alla trasparenza: ci troviamo di fronte a un diritto29
(all’accesso), , che finisce spesso per non esser funzionale alle esigenze di
conoscibilità che ne hanno giustificato la previsione.
A chi serve il diritto di accesso? A vent’anni dall’adozione dell’istituto, a
cinque dalla sua riforma, la domanda che si poneva Romano Tassone
rimane di attualità.30
Il fatto è che per via interpretativa ed attuativa in un prima fase,
direttamente per via legislativa poi31, l’istituto dell’accesso ha perso per
strada gran parte dei suoi potenziali utilizzatori: da qui l’emergere, con la
legge n. 15 ed il successivo DPR 184 del 2006, dell’immagine suggestiva
di una «casa dai vetri oscurati».32
L’identificazione dei soggetti del diritto (in quanto interessati) è operata
infatti in senso restrittivo, ancorché in linea con gli orientamenti della
giudice amministrativo in Francia, Commissione per l’accesso e giudice amministrativo
in Italia). Sul punto, più diffusamente, si v. G. NAPOLITANO, ult.op.cit., pp. 164-169.
29 Senza qui voler entrare, peraltro, nell’annosa questione della natura giuridica (diritto,
appunto, o interesse legittimo) del diritto di accesso: la questione non può dirsi ancora
risolta data l’oscillazione della giurisprudenza (sul punto, si v. le argomentazioni a
favore della tesi dell’interesse legittimo, Cons. Stato, Ad. Plen., 24 giugno 1999, n. 16;
ma in senso contrario ad es. Cons. Stato. 27 maggio 2003, n. 2938). I giudici di Palazzo
Spada, tornati sulla questione dopo la riforma del 2005 (che offre argomenti ulteriori a
supporto della tesi del “diritto”) in sede di Adunanza plenaria (n. 6 e 7 del 2006), hanno
ritenuto di risolvere (o aggirare) la questione qualificando il diritto di accesso come
situazione giuridica di carattere strumentale (a diritti e interessi).
30 Il riferimento è a A. ROMANO TASSONE, A chi serve il diritto di accesso? Riflessioni su
legittimazione e modalità di esercizio del diritto di accesso nella l. n.241 del 1990, in Dir. amm., n.
2, 1995, pp. 315 ss.
31 Cfr. S. FIORENZANO, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi dopo la legge 11 febbraio
2005 n. 15: nuove regole sostanziali e giustiziali, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza
amministrativa, cit., pp. 463 ss.; su questo percorso evolutivo ci sia consentito rinviare a
E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa cit., pp. 573 ss.
32 A. SANDULLI, La casa dai vetri oscurati: i nuovi ostacoli all’accesso ai documenti, in Giorn. dir.
amm., n. 6, 2007, p. 669 (lo stesso Sandulli, nel commentare il d.P.R. n. 184, titola ivi
efficacemente “Un regolamento antiquato segue una riforma deludente”). Sul nuovo
regolamento, che ha sostituito il DPR n. 352 del 1992, si v. F. PUBUSA, Prime
considerazioni sul DPR 12 aprile 2006, n. 184, regolamento per l’esercizio del diritto di accesso, in
Diritto e processo amministrativo, n. 1, 2007, pp. 199 ss., nonché AA.VV., Il regolamento
sull’accesso ai documenti amministrativi. Commento al DPR 12 aprile 2006, n. 184, Milano,
Giuffré, 2006. In merito alla rinnovata disciplina del diritto di accesso, cfr. M.T.
SEMPREVIVA, Il nuovo volto dell’accesso ai documenti amministrativi, in F. CARINGELLA, D. DE
CAROLIS, M.T. SEMPREVIVA (a cura di), Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le legge
n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, Giuffré, 2005; G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Diritto di
accesso e interesse pubblico, Napoli, ESI, 2006.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
9
giurisprudenza, rispetto alla precedente formulazione: ecco quindi che il
legislatore fa propria l’esigenza di un interesse «concreto e personale, e
cioè immediatamente riferibile al soggetto che pretende di conoscere i
documenti e specificatamente inerente alla situazione da tutelare».33
Ci troviamo, dunque, di fronte ad un interesse non solo diretto e
concreto, ma attuale34, «direttamente collegato al documento»: tutte
previsioni che richiedono e giustificano spazi di manovra
dell’amministrazione nel negare l’ostensione del documento richiesto.
L’espresso limite all’utilizzabilità dell’accesso in funzione di controllo
generalizzato35 sull’operato delle pubbliche amministrazioni, cui si
affianca con la riforma del 2005 il venir meno di un diretto collegamento
tra accesso e trasparenza già nella stessa formulazione del diritto, sono
tutti elementi che confermano la tesi della disarticolazione del rapporto
tra trasparenza ed accesso. Sia in termini testuali, che sostanziali, è chiara
l’opzione verso una fuoriuscita della trasparenza dal campo visuale del
diritto di accesso ai documenti: una traccia dell’antico modello rimane,
ma è sfumata, quasi impercettibile, per quanto capace di produrre alcune
affermazioni della dottrina36, del giudice amministrativo37 e della stessa
33 Così TAR Lazio, III Ter, 15.1.2003, n. 126. Cfr. V. CERULLI IRELLI, Lineamenti di
diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2008, p. 343.
34 Si noti che alcune posizioni giurisprudenziali, ante riforma, ammettevano altresì “tra i
titoli legittimanti all’esercizio del diritto di accesso anche posizione di interesse non
attuali, ma che possano concretizzarsi e specificarsi proprio a seguito ed i forza degli
elementi di conoscenza acquisibili” (Cons. Stato, IV, 4 giugno 1996, n. 820).
35 Conclusione, questa, cui era peraltro già pervenuta la giurisprudenza (ad esempio,
Cons. Stato, V, n. 3798 del 2002: «il diritto di accesso agli atti non può comportare un
controllo generalizzato ed indiscriminato sull’operato della p.a., controllo che, come
tale, non rientra nelle finalità garantistiche previste dalla norma»), che aveva escluso la
configurabilità di una sorta di azione popolare volta a verificare l’operato delle
pubbliche amministrazioni: (cfr. Cons. Stato, IV, 15 novembre 2004, n. 7412). Sul
punto v. ora l’art. 23, co. 3, della legge 241, così come modificato dall’art. 16 della legge
n. 15 del 2005.
36 In questo senso, cfr. G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Diritto di accesso e interesse pubblico,
passim; anche dopo le recenti riforme, per G. ARENA, Trasparenza amministrativa, in S.
Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, cit., p. 5950 «il diritto di accesso è uno
degli istituti giuridici, forse il principale, mediante il quale si può realizzare la
trasparenza amministrativa». In senso opposto, tra gli altri B.G. MATTARELLA, Le dieci
ambiguità della l. n. 15 del 2005, cit., 821; ancora più nettamente PAOLANTONIO, L’accesso
alla documentazione amministrativa, in F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Torino,
Giappichelli, 2008, p. 244, «l’istituto dell’accesso non è espressione […] del principio di
trasparenza».
37 Da ultimo, sembra convalidare la tesi della fuoriuscita del diritto di accesso dal
novero degli strumenti della trasparenza Cons. Stato, VI, 11 maggio 2007, n. 2314,
mentre in direzione opposta (confermandone quindi la valenza proprio in questa
prospettiva non meramente individualistica) TAR Campania, Napoli, Sez. V, 15 marzo
2007, n. 2177; in giurisprudenza il legame è rimarcato, recentemente, da TAR Lazio,
Roma, I, 5 novembre 2008, n. 9637, FA-TAR, 2008, 3046. Vero è, peraltro, che la
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
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Corte costituzionale38 che continuano a mantenere (o ritenere) vivo (sia
pure in termini astratti) il collegamento tra diritto di accesso ed esigenze
di controllo democratico sull’esercizio del potere.
Il senso di questo ripiegamento individualista del diritto di accesso può
essere verosimilmente colto nell’affermazione, forte e progressiva, di un
altro principio e valore di rilievo costituzionale, strutturalmente portato
ad incidere, limitandoli, sui processi conoscitivi, specie se generalizzati: la
tutela della riservatezza.
L’emersione della privacy, cui la legge del 1990 già prestava attenzione ma
poi oggetto di una regolazione penetrante ed incisiva39, è la ragione, o
comunque l’occasione, che giustifica la scelta di concentrare le facoltà
conoscitive in capo ad un numero circoscritto di individui, quelli
portatori di esigenze di conoscibilità non generiche ma funzionali alla
salvaguardia e protezione di propri interessi meritevoli di attenzione.
Assistiamo, allora, al difficile combinarsi della legge sulla trasparenza e di
quella sulla riservatezza, prima, e quindi alla definizione di un equilibrio
delicato e composito, che si modula in favore dell’accesso ai documenti
ma porta con sé la limitazione del novero dei legittimati all’accesso.
Ci troviamo di fronte, in sostanza, in primo luogo ad uno strumento di
tutela del singolo, ad una facoltà strumentale alla salvaguardia di altre
situazioni individuali protette dall’ordinamento, ad un «congegno»40
funzionale alla difesa in primo luogo di istanze egoistiche.
Si tratta di una prospettiva comunque indubbiamente rilevante, di
giustizia nell’amministrazione, capace di assicurare, però solo
indirettamente ed incidentalmente, una forma di controllo sull’operato
dell’amministrazione.
3. Il nuovo modello: la pubblicità (on line) delle informazioni
giurisprudenza del Consiglio di Stato è da un lato molto netta nell’affermare il rapporto
di principio tra accesso e trasparenza (ex multis la recente Cons. Stato, IV, 22 marzo 2007,
n. 1393 che afferma limpidamente questo collegamento funzionale), ma dall’altro è
altrettanto decisa nell’indebolire la portata pratica di questo principio, limitando per
quanto possibile un utilizzo non egoistico dello strumento.
38 Cfr. Corte cost., n. 104 del 2006.
39 Su rapporto tra riservatezza ed accesso alla luce della disciplina della privacy (l. 675
del 1996 ed ora d.lgs. n. 196 del 2003, c.d. Codice della privacy) v. ora E. MENICHETTI,
La conoscenza dei dati: tra trasparenza e privacy, ed E. PAPINI, Trasparenza e privacy nelle
decisioni del Garante, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit.
(rispettivamente, pp. 283 ss. e 309 ss.):
40 Di “congegni” funzionali alla trasparenza parla Palma, prestando però attenzione in
particolare alla figura del responsabile del procedimento (G. PALMA, Itinerari di diritto
amministrativo, cit., p. 307.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
11
La coerenza di sistema di una riforma, quella del 2005, che afferma con
maggiore enfasi la trasparenza quale principio generale dell’azione
amministrativa, proprio nel momento in cui riduce lo spazio di
operatività a tal fine del suo principale strumento, il diritto di accesso, va
colta allora guardando oltre, ed a fianco, della legge sul procedimento.41
Gli strumenti chiamati ad assicurare la trasparenza, da intendersi non
solo quale principio guida ma anche quale condizione di complessiva
conoscibilità dell’organizzazione e dell’azione dei pubblici poteri, vanno
allora ricercati in modo ampio, senza fissare un’attenzione esclusiva, od
eccessiva, al Capo V della legge n. 241 del 1990. In questa prospettiva il
disegno acquista, se non nitore, certo una sua comprensibilità, sia pure
tra incertezze ed ambiguità.
La disciplina che consente di prefigurare l’emersione di un nuovo
modello di trasparenza, che si affianca a quello precedente, e che però
appare idoneo ad assicurare rinnovate dinamiche di conoscibilità, è quella
contenuta nel Codice dell’amministrazione digitale.42
Il d.lgs. n. 82 del 2005, modificato già nel 2006 ed ora in via di ulteriore
riforma43, è un punto di snodo nella transizione verso un nuovo modello
di trasparenza44 per almeno tre ordini di ragioni.
Il primo, l’affermazione di un principio generale di conoscibilità delle
informazioni “non riservate per espressa previsione di legge”, che
sancisce il definitivo tramonto del segreto quale regola idonea a reggere
invia generale l’operato delle amministrazioni pubbliche: si tratta di una
conclusione cui la dottrina già era giunta sulla base dei principi
costituzionali (di imparzialità, democraticità, libertà di espressione) e che
aveva trovato nella legge n. 241 una prima, sia pure parziale,
affermazione, ma che risulta ora fissata in modo chiaro quale regola di
tipo generale. La regola della piena conoscibilità di ogni informazione
Cfr. E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa, cit.
Su cui, in generale, E. CARLONI (a cura di), Codice dell’amministrazione digitale, Rimini,
Maggioli, 2005 e, dopo il decreto correttivo del 2006, cfr. ATELLI-ATERNO-CACCIARI,
Codice dell’amministrazione digitale. Commentario, Roma, 2008
43 Il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo di riforma del
Codice nella riunione del 19 febbraio 2010.
44 Un modello che viene definito a livello dottrinale come trasparenza “ex ante” (A.
CERRILLO I MARTINEZ, E-Información: hacia una nueva regulación del acceso a la información, in
Revista Internet, Derecho y Política, 2005, 14) o trasparenza on line , che presuppone la
continua diffusione attraverso mezzi elettronici di informazioni relative
all’organizzazione ed all’attività della pubblica amministrazione: cfr. E. CARLONI, Nuove
prospettive della trasparenza, cit., passim; D. HEALD, Varieties of Transparency, in C. HOOD,
D. HEALD (a cura di), Transparency. The key to better governance?, Oxford, Oxford
University Press, 2006, 32); B.G. MATTARELLA, Profili Generali, in F. MANGARO, A.
ROMANO TASSONE (a cura di), I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d’informazione, Torino,
Giappichelli, 12 ss. ); F. MERLONI, Introduzione all’eGovernment, Torino, Giappichelli,
2005, 127 ss.).
41
42
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
12
non riservata per specifica scelta del legislatore ridisegna in qualche
modo la stessa portata del segreto di ufficio.45
Il secondo, la scelta dello strumento della disseminazione attraverso la
rete Internet (o, usando il linguaggio più tradizionale scelto dal
legislatore, la pubblicazione nel sito istituzionale) a fianco, ed in luogo, di
quello dell’accesso ai documenti. Le potenzialità della rete per la
conoscibilità delle informazioni pubbliche46 era ormai entrato nella
pratica amministrativa, prima, e nello spettro visuale del legislatore, poi:
per quanto non sia assente l’idea di un utilizzo delle tecnologie
dell’informazione per l’esercizio per via telematica del diritto di accesso,
è chiara l’opzione in favore di uno spazio di piena pubblicità, di un’area
che è pubblica perché «accessibile a tutti, nello stesso senso in cui
parliamo di pubbliche piazze».47 Si tratta di una scelta in parte anticipata
dalla legge n. 150 del 2000, che nel disciplinare le attività di informazione
e di comunicazione48 aveva individuato nelle reti civiche uno strumento
idoneo ad assicurare una più ampia conoscibilità dell’attività e dei servizi
delle amministrazioni pubbliche, che però trova nel Codice
dell’amministrazione digitale la sua chiara, ancorché non soddisfacente in
termini qualitativi e quantitativi, affermazione.
Questa impostazione, radicata nell’art. 54 del Cad dove troviamo un
primo, sia pure inappagante49, decalogo della trasparenza on line, ha
mostrato nel corso del quinquennio successivo una formidabile vitalità e
forza espansiva. La pubblicità assicurata dalla pubblicazione di atti e
notizie non era certo ignota al diritto amministrativo, ma quella che nel
1990 appariva, almeno nella prospettiva della trasparenza, come una
misura di conoscibilità secondaria50 ha trovato nell’evoluzione
45 Nel senso che definisce, per il funzionario, un’area di legittima attività informativa,
non dipendente dal modulo conoscitivo del diritto di accesso. Sul segreto di ufficio, si
v. ora il commento all’art. 28 della l. 241 del 1990 in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice
dell’azione amministrativa, Milano, Giuffré, in corso di stampa.
46 Cfr. F. VENTURINI, I. Conoscibilità, disponibilità e ruolo di Internet, in P. CAVALERI, F.
VENTURINI (a cura di), Documenti e dati pubblici sul web. Guida all’informazione di fonte
pubblica in rete, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 23 ss.
47 J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, ed. it. Roma-Bari, 2005, p. 4.
48 Cfr. G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni,
Rimini, Maggioli, ed. 2004; T. KRASNA (a cura di), Informazione e comunicazione della p.a.
dopo la legge n. 150/2000, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2003.
49 V. E. MENICHETTI, Accessibilità e tutela della riservatezza, in Il regime dei dati pubblici (a
cura di) PONTI, Rimini, 2008, p. 181; cfr. ID., Capo V, Sezione I – Dati delle pubbliche
amministrazioni, in E: CARLONI (a cura di), Codice dell’amministrazione digitale, Rimini,
Maggioli, 2005, p. 315.
50 Almeno a dar retta alla pubblicistica in materia di trasparenza, che tradizionalmente
concentra la sua attenzione sullo strumento dell’accesso (ampiamente sul punto ci sia
consentito rinviare a E. CARLONI, Gli strumenti della trasparenza nel sistema amministrativo
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
13
tecnologica un formidabile alleato: ecco allora affermato l’obbligo di
pubblicare in rete tutti i documenti per i quali la legge n. 241 già
disponeva obblighi di pubblicità secondo le modalità tradizionali previste
dai singoli ordinamenti (atti normativi, atti a contenuto generale, piani e
programmi), ma anche numerose informazioni sulle procedure e
sull’organizzazione.51
Il terzo, l’attenzione al tema della qualità delle informazioni diffuse in
rete52, non solo alla loro (come detto non ancora soddisfacente)
quantità.53 In questo senso, appare di particolare rilievo la previsione,
contenuta nello stesso art. 54 del Cad, dell’obbligo per le amministrazioni
pubbliche di garantire la conformità all’originale delle informazioni delle
quali si dà diffusione attraverso il sito istituzionale.54
Il tema della qualità dei dati di fonte pubblica, che trova peraltro
emersione in una serie significativa di disposizioni settoriali e trasversali
(si pensi alla disciplina dell’informazione statistica, dell’informazione
ambientale, ma soprattutto al regime del trattamento dei dati personali) e
che conosce nello scenario comparato compiute, rilevanti (e
problematiche) regolazioni, come avviene negli Stati Uniti con
l’Information Quality Act55, inizia quindi a trovare all’incrocio con la
italiano e la sua effettività: forme di conoscibilità, quantità e qualità delle informazioni, in F.
MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., p. 352 et passim).
51 In E. CARLONI, ult.op.cit., pp. 372 ss., una proposta di classificazione degli strumenti
di trasparenza: qui si indicano come “misure di conoscenza” quelle attività in cui la
produzione e diffusione di informazioni sono direttamente ed espressamente orientate
alla trasparenza. Rientrano in quest’ambito, oltre a quanto sin qui detto, informazioni
sullo stato dell’ambiente, obblighi di disclosure, dati sulla spesa pubblica (cfr. ivi, p. 375)
52 Cfr. F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, cit. 14; M. PRAT, The
more closely we are watched, the better we behave, in D. HOOD, C. HEALD (a cura di),
Transparency. The key to better governance?, cit., p. 91.
53 Il tema della qualità dell’informazione è presente, a livello dottrinale, già in A.
MELONCELLI, L’informazione amministrativa, Rimini, Maggioli, 1983. In materia, cfr. F.
VENTURINI (L’informazione pubblica dalla carta al web, in P. CAVALIERI,F. VENTURINI,
Documenti e dati pubblici sul web cit., spec. pp. 34 ss.) per il quale il requisito fondamentale,
dell’affidabilità delle informazioni on line, è dato da completezza, integrità, integrazione,
ricercabilità, aggiornamento). Si noti che per D. MCQUAIL, Media performance. Mass
Communication and the Public Interest, London, Sage Publ., 1992, trad it. I media in
democrazia, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 213 ss.; i tre aspetti essenziali che qualificano
“la notizia come informazione” sono la fattualità, l’accuratezza e la completezza (ivi, spec.
pp. 243 ss.).
54 Su questa garanzia di “qualità”, cfr. E. MENICHETTI, ult.op.cit., pp. 320 ss.; cfr. E.
CARLONI, La qualità delle informazioni pubbliche. Il modello italiano nella prospettiva comparata,
in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1, 2009, pp. 155 ss.
55 Il Federal Data Quality Act del 2000 (sezione 515, P.L. 106-554), definisce la qualità
delle informazioni come utilità, obiettività ed integrità. Per una prospettiva ampia della
problematica, si v. U. GASSER (cur.), Information quality regulation: foundations, perspectives
and applications, Schulthess, Baden Baden, 2004, nonché il numero speciale
dell’International Journal Studies in Communication Sciences, n. 2, 2004 (in particolare, si v., ivi,
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
14
disciplina dell’eGovernment una regolazione parzialmente organica.
L’influsso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è, da
questo punto di vista, formidabile anche ponendo attenzione alla
dimensione (interna) di circolazione interamministrativa di dati e
informazioni: l’esigenza di coordinare banche dati e basi di dati, di
utilizzare informazioni residenti in altre amministrazioni in modo non
mediato, porta con sé forti spinte alla standardizzazione degli elementi
conoscitivi e delle modalità di diffusione ed organizzazione56,
all’oggettivizzazione dei caratteri della conoscenza pubblica.57
3.1. La “Operazione trasparenza” e la riforma “Brunetta”
La prospettiva aperta dal Codice dell’amministrazione digitale, attraverso
la previsione di un elenco di contenuti obbligatori per i siti delle
amministrazioni statali, è stata ampiamente, anche se con scarsa
sistematicità, percorsa dal legislatore nel corso degli ultimi anni. Una
tendenza, che, recentemente, vede la sua più chiara manifestazione nelle
riforme promosse dal Ministro Renato Brunetta e, in questo quadro,
nella legge n. 69 del 2009, nella legge n. 15 del 2009 e nel conseguente
d.lgs. n. 150 dello stesso anno.
Per quanto l’intervento del Ministro della pubblica amministrazione
appaia decisivo, in termini quantitativi e qualitativi (specie per la più
chiara consapevolezza nell’uso dello strumento e nella ricerca di un suo
utilizzo effettivo), ci troviamo di fronte ad una tendenza che caratterizza
la recente evoluzione del sistema pubblico e che attraversa le ultime tre
Legislature.
Nelle Leggi finanziarie per il 200758, 200859 e 200960, troviamo numerosi
obblighi di pubblicazione, nel sito web delle amministrazioni pubbliche,
il saggio introduttivo di M. HELFERT, U. GASSER, M.J. EPPLER, Information quality:
organizational, technological, and legal perspectives); A. CERRILLO I MARTÍNEZ, A. GALÁN
GALÁN, Qualitat i responsabilitat en la difusió d´informació pública a Internet, Barcelona,
Generalitat de Catalunya, 2007.
56 Cfr. ora le Linee guida per i siti web della PA, adottate ai sensi dell’art. 4 della Direttiva
8/09 del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione (versione provvisoria
del 9 marzo 2010, in www.innovazione.gov.it).
57 Tendenza che si lega strettamente a quella della perdita di strumentalità: cfr. F.
MERLONI, Sull’emergere della funzione di informazione nelle pubbliche amministrazioni, in ID. (a
cura di), L’informazione delle pubbliche amministrazioni, Rimini, Maggioli, 2002, pp. 15 ss.;
M.P. GUERRA, Funzione conoscitiva e pubblici poteri, Milano, 1996, passim.
58 Legge 296 del 2006, art. 1, co. 593, che prevede la pubblicità delle retribuzioni per i
dirigenti e i titolari di incarichi pubblici, tramite i siti web delle amministrazioni; si v.
però anche i co. 587 e 591, che disciplinano la pubblicazione dei dati relativi alle
partecipazioni delle amministrazioni pubbliche a società e consorzi, indicando la
ragione sociale, le quote, la durata dell’impegno, gli impegni gravanti sul bilancio
dell’ente pubblico, i rappresentanti, il loro trattamento economico: in questo caso la
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
15
di dati di tipo organizzativo e relativi al personale ed all’utilizzo delle
risorse pubbliche. E’ marcata, d’altra parte, anche nella legislazione di
settore, la tendenza a fare ampio ricorso a doveri di pubblicazione di dati
e informazioni nei siti informatici delle pubbliche amministrazioni, sia in
funzione di servizio61 che di trasparenza. 62
Si tratta, come è evidente, di interventi privi di una loro sistematicità, che
vanno però a delineare “per accumulo” un patrimonio conoscitivo
pubblico, reso disponibile a chiunque mediante pubblicazione in Internet
di documenti dotati o meno di autonomo valore giuridico e di dati ed
informazioni.
Il limite del diritto di accesso dato dalla sua connessione a “documenti”
(sia pure da intendersi in senso ampio, non solo come documenti
cartacei), che caratterizzava anche le tradizionali forme di pubblicazione,
non si presenta nella nuova dimensione della pubblicità tramite reti
informatiche. Assistiamo, in altri termini, all’emersione anche nell’ambito
della conoscibilità delle informazioni, al pari di quanto avviene in quella
della
interconnessione
e
dell’interoperabilità,
dell’accesso
interamministrativo telematico e della consultazione di banche e basi di
dati63, della “logica dei dati”: ci troviamo, cioè, di fronte al fluire di unità
pubblicità si intende assicurata non direttamente, ma a cura del Dipartimento della
funzione pubblica, nel proprio sito web.
59 Legge 244 del 2007, co. 44, relativo a contratti e consulenze, dei quali si dispone in
particolare la “pubblicazione sul sito web dell’amministrazione o del soggetto
interessato” dei provvedimenti completi di indicazione dei soggetti percettori, della
ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.
60 Facciamo riferimento qui, in effetti, soprattutto alla c.d. Manovra d’estate (d.l. 112 del
2008, conv. in l. 133 del 2008), che non è propriamente una Legge finanziaria per
quanto ne abbia sostanzialmente assorbito gran parte dei tradizionali contenuti. Il co.
233 dell’art. 2 è, in questo quadro, significativo perché collega l’ammissibilità di
procedure semplificate di cessione di immobili da parte dell’Agenzia del Demanio alla
pubblicazione degli avvisi e degli atti relativi nel sito web dell’amministrazione.
61 Basti pensare, in questo senso, ai requisiti di trasparenza che le Università sono tenute a
rispettare, attraverso la pubblicazione nei propri siti web di un gran numero di
informazioni relative all’organizzazione della didattica, all’offerta formativa, al personale
docente (si v. l’art. 2 del D.M. 31 ottobre 2007, n. 544 e le Indicazioni operative contenute
nella Nota 9 dicembre 2009, n.253).
62 In tal senso si v. ad esempio il Codice dei contratti pubblici, che prevede tanto la
pubblicazione nei siti delle singole stazioni appaltanti (v. es. art. 3, co. 35), che in un
apposito sito costituito presso l’Osservatorio.
63 L’accesso interamministrativo, disciplinato a partire dal DPR n. 445 del 2002,
consente una «acquisizione diretta di informazioni da parte dell’amministrazione
procedente su documenti giacenti nel sistema informativo dell’amministrazione
certificante» (così A. MASUCCI, Informatica pubblica, in Dizionario di diritto pubblico, a cura
di S. Cassese, cit., IV, p. 3120: su queste problematiche, si v. ampiamente M.P.
GUERRA, Circolazione dell’informazione e sistema informativo pubblico: profili giuridici dell’accesso
interamministrativo telematico. Tra testo unico sulla documentazione amministrativa e codice
dell’amministrazione digitale, in Diritto Pubblico, n. 2, 2005, pp. 525 ss.; G. CAMMAROTA,
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
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conoscitive elementari, aggregate in risposta a specifici obblighi di
divulgazione e suscettibili di successive operazioni di elaborazione e
rielaborazione, anche (e proprio) nella prospettiva di un controllo diffuso
e generalizzato sull’operato delle amministrazioni pubbliche.
Questa tendenza viene, come anticipato, intercettata ed energizzata nel
corso dell’ultima Legislatura, attraverso politiche volte in primo luogo ad
assicurare che le informazioni delle quali il legislatore aveva disposto la
pubblicità on line (è questa, in sostanza, la portata della c.d. Operazione
trasparenza così come inizialmente promossa dal Ministro per la pubblica
amministrazione). Da ultimo, però, significativi interventi normativi
hanno, questa volta in modo abbastanza organico e senz’altro
consapevole, inteso ampliare il novero delle informazioni delle quali deve
essere assicurata la piena conoscibilità tramite la pubblicazione nei siti
web.
La c.d. riforma Brunetta, dal nome del Ministro proponente, dedica una
particolare attenzione a tali obblighi di conoscibilità, sia attraverso la
legge n. 15 del 2009 (ed il successivo d.lgs. n. 150 del 2009)64 che,
soprattutto, attraverso la legge n. 6965 dello stesso anno. Ecco, quindi,
l’obbligo per le amministrazioni di rendere noti, attraverso i propri siti
internet, informazioni relative ai dirigenti (curriculum vitae, retribuzione,
recapiti istituzionali) e i tassi di assenza e di presenza del personale.66
Non si tratta più solo di informazioni di tipo organizzativo, ma di dati
(spesso appositamente raccolti ed aggregati) che si presumono idonei a
rappresentare in modo significativo l’efficienza e l’imparzialità di
un’amministrazione, la sua capacità di utilizzare correttamente le risorse
pubbliche. Si pensi, in questo senso, ad altre previsioni, distribuite qua e
là nelle riforme del 2009: la pubblicità sui dati relativi alla «tempestività
nei pagamenti»67; l’ammontare dei premi collegati alla performance, dati
relativi grado di differenziazione nell’utilizzo della premialità sia per i
dirigenti sia per i dipendenti, le retribuzioni dei dirigenti con specifica
evidenza delle componenti legate alla valutazione di risultato, gli incarichi
Circolazione cartacea e circolazione telematica delle certezze pubbliche. Accertamento d'ufficio ed
acquisizione d’ufficio, in Foro amministrativo: TAR, n. 11, 2004.
64 Sul punto, cfr. D. SARCONE, Dalla «casa di vetro» alla «home page»: la «trasparenza
amministrativa» nella legge 15/2009 e nel suo decreto attuativo, in Amministrativamente
(www.amministrativamente.it), 30.11.2009
65 Recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in
materia di processo civile
66 Art. 21, co. 1, della legge n. 69, questi ultimi aggregati per ciascun ufficio dirigenziale.
67 Art. 23, co. 5, L. 69: ogni amministrazione pubblica determina e pubblica, con
cadenza annuale, nel proprio sito internet «un indicatore dei propri tempi medi di
pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, denominato «indicatore di
tempestività dei pagamenti», nonché «i tempi medi di definizione dei procedimenti e di
erogazione dei servizi con riferimento all'esercizio finanziario precedente».
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
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conferiti68; i dati sui quali si basano le valutazioni «affinché possano
essere oggetto di autonoma analisi ed elaborazione».69
La connotazione sistematica di questi interventi è confermata
dall’attenzione che viene dedicata ai caratteri delle informazioni diffuse,
spesso al fine di assicurarne non solo la facile reperibilità70 ma anche la
raffrontabilità71.
Ma è decisiva, nel segnare l’acquisita consapevolezza dello strumento e
l’enucleazione di un nuovo modello di riferimento, la definizione che lo
stesso legislatore fornisce della trasparenza, che è intesa «come
accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui
siti internet delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni
concernenti ogni aspetto dell’organizzazione delle pubbliche
amministrazioni, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e
all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali,
dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta in proposito
dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo
del rispetto dei princìpi di buon andamento e imparzialità».72
Il decreto n. 150 del 2009 conferma appieno questa impostazione,
collegando espressamente la disseminazione on line di determinate
informazioni al fine di assicurare un controllo diffuso sull’operato delle
pubbliche amministrazioni «anche a garanzia della legalità».73
Merita di essere segnalato (per quanto si tratti di un testo assolutamente
provvisorio) come il recente d.d.l. di contrasto ai fenomeni di corruzione
faccia largo ricorso all’istituto della pubblicità tramite siti istituzionali.74
E’ uno sviluppo, questo, che merita di essere approfondito quanto a
implicazioni (e possibili complicazioni) sottostanti, ma che si segnala
Cfr. art. 11, co. 8 del d.lgs. n. 150 del 2009.
Legge n. 15 del 2009, art. 4, co. 2, lett. h), pt. 1.
70 Per gran parte di queste informazioni si prevede espressamente la loro collocazione
in un’area specifica del sito web, denominata Trasparenza, valutazione e merito.
71 Si v. la circolare n.3 del 2009 del Dipartimento per la funzione pubblica; si noti che
per permettere la standardizzazione dei dati da pubblicare, si prevede che tutti gli Uffici
interessati dalla rilevazione possano utilizzare una procedura per la compilazione on line
dei curriculum dirigenti.
72 L. 15 del 2009, art. 4, co. 7.
73 Art. 1, co. 2, d.lgs. n. 150 del 2009.
74 Anche qui la trasparenza dell’attività amministrativa «è assicurata attraverso la
pubblicazione sui siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni delle informazioni
relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità,
completezza e semplicità di consultazione» (si v. l’art. 1 del d.d.l., Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione,
approvato dal Consiglio dei ministri del 1 marzo 2010).
68
69
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
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quale modello in via di significativa diffusione (e regolazione) anche nello
scenario comparato.75
3.2. I pregi della “accessibilità” totale
La scelta, che come evidenziato pare chiara nell’evoluzione legislativa
anche se non altrettanto bene esplicitata, di spostare il baricentro della
trasparenza dal diritto di accesso alla pubblicità on line, porta con sé una
serie di questioni problematiche che si esaltano quanto più questo
spostamento sia inteso in termini radicali.
Fatta questa premessa, che evidentemente condiziona complessivamente
il discorso, è indubbio che il modello della trasparenza-pubblicità
presenta (almeno potenzialmente) indubbi pregi che, senza pretesa di
esaustività, possono essere ricondotti: a) al fatto di consentire una
conoscenza diffusa, da parte del “chiunque”, anche a prescindere dal suo
coinvolgimento nel rapporto con l’amministrazione; b) al fatto di
costituire un patrimonio conoscitivo suscettibile di successive
elaborazioni e, come tale, idoneo a produrre conoscenze nuove, diverse,
ulteriori ed inattese; c) al fatto di generare una conoscenza che è diretta,
immediata, agevole, curiosity oriented, non filtrata da interventi e
mediazioni dell’amministrazione.
Perché possa sviluppare le proprie potenzialità, il modello richiede
evidentemente di essere sviluppato con attenzione, perché trovandoci di
fronte a informazioni che il legislatore individua come “a conoscibilità
necessaria”, diviene decisivo poter disporre di informazioni di quantità e
qualità adeguata: mutuando la terminologia da quella della pubblicità
commerciale, è evidente ad esempio che una comparazione ha senso se i
dati rispetto ai quali è operata sono riferiti a caratteristiche essenziali,
pertinenti e rappresentative76, od altresì è evidente che l’informazione ha
75 Va segnalato, infatti, come vari paesi, quali Francia (si v. L. CLUZEL-MÉTAYER, Le
service public et l'exigence de qualità, Paris, Dallow. 2006), Spagna (cfr. J. VALERO TORRIJOS,
Acceso a los servicios y a la información por medios electrónicos, in E. GAMERO CASADO, J.
VALERO TORRIJOS (a cura di), La Ley de Administración electrónica, Cizur Menor,
Thomson-Aranzadi, 2007) e Stati Uniti (cfr. A. FROST, Restoring faith in government:
transparency reform in the United States and the European Union, in European Public Law, 2003,
9) hanno approvato regolazioni che, disciplinano la diffusione di informazioni
attraverso strumenti elettronici. Per una panoramica ampia, che tiene conto anche delle
esperienze britannica e tedesca (oltre che di quelle italiana, spagnola e francese, cui già si
è fatto cenno), si v. B. PONTI (a cura di), Il regime dei dati pubblici. Esperienze europee e
ordinamento nazionale, Rimini, Maggioli, 2008, ed ivi, in particolare, i contributi di P.
SUCEVIC, P. BIRKINSHAW, M. EIFERT, A. CERRILLO MARTINEZ, E. MENICHETTI.
76 Si v. l’art. 13 del Codice di autodisciplina pubblicitaria.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
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senso se relativa alle «caratteristiche principali» e non vi sono «omissioni
ingannevoli».77
Rispetto ai vantaggi, cui si è fatto cenno, alcune brevi notazioni.
Il primo di questi pregi, che potremmo definire dell’informazione del
cittadino in quanto tale, merita specifica attenzione perché, anche in
termini culturali rimanda ad un’idea di amministrazione che non sembra
altrimenti aver trovato nello sviluppo dell’ordinamento un’adeguata
valorizzazione. Merita risalto, al riguardo, il fatto che la migliore dottrina
da tempo ha evidenziato che nell’ottica della trasparenza amministrativa
risultano decisive le dinamiche informative che, essendo riconducibili a
chiunque, rendono possibile processi conoscitivi sottratti «a logiche di
mediazione e di scambio».78
Il secondo, dato dalla prefigurazione di un vero e proprio giacimento
conoscitivo, è un aspetto che non sfugge alle intenzioni del legislatore,
che in taluni casi parla espressamente di forme diffuse di controllo, di
«successive elaborazioni». Questo aspetto chiama direttamente in causa
una serie di sedi deputate istituzionalmente a svolgere un ruolo di
mediazione conoscitiva: i centri di ricerca, le associazioni di consumatori
ed utenti dei servizi pubblici, i giornalisti e gli organi di informazione. E’
appena il caso di segnalare il fatto che l’iniziativa Federal register 2.079 è
stata accompagnata dalla quasi immediata costituzione di gruppi ed
organismi incaricati di investigare, rielaborare e semplificare l’accesso a
questa massa di informazioni spesso grezze.80
Il terzo, della facile accessibilità ed usabilità, dipende in parte da
accorgimenti tecnici (quale il rispetto di regole di usabilità,
l’indicizzazione da parte dei motori di ricerca81) ed in parte dalla facile
reperibilità delle informazioni (che in alcuni casi il legislatore ed il
Si v. gli artt. 21 e 22 del Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005 e s.m.).
A. ORSI BATTAGLINI, L’astratta e infeconda idea, cit., 1367. Sulla pubblicità come diritto
riconosciuto a chiunque, cfr. C. MARZUOLI, La trasparenza come diritto civico alla pubblicità, in
F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, cit., pp. 45 ss.; C. CUDIA,
Trasparenza amministrativa e pretesa del cittadino all'informazione, in Dir.pubbl., 2007, pp. 99
ss.
79 Che a sua volta si inquadra nella c.d. Open Government Initiative della presidenza Obama
(i documenti in merito sono reperibili all’indirizzo www.whitehouse.gov/Open).
80 Ad esempio, il Center for Information Technology di Princeton ha immediatamente attivato
un progetto, Fedthread.org, che consente di commentare, segnalare ed annotare il
Federal register. Un’altra organizzazione ha creato un software che agevola la ricerca nella
banca dati (Public.Resource.org), mentre GovPulse rende possibile visualizzare il Federal
Register per argomento o località, in modo da mostrare più facilmente gli interventi
governativi ad effetto settoriale o locale.
81 Cfr. S. ACAR, J. M. ALONSO, K. NOVAK, Improving access to government through better use of
the web: W3C Interest Group, Note 12 May 2009 (in www.w3.org/TR /2009/NOTEegov-improving-20090512/); indicazioni specifiche in questo senso sono presenti nelle
recenti (e già ricordate) Linee guida per i siti web della PA.
77
78
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
20
Ministro per la pubblica amministrazione si preoccupano di garantire).
Per i cittadini c.d. native internet82 si tratta evidentemente non solo di una
conoscenza che è semplice reperire, ma esattamente di quel tipo di
conoscenza che sono abituati ad utilizzare, raccogliere e manipolare.
L’agevole reperibilità, il superamento del request-and-wait-for-a-responseapproach83, consentono una fruizione diffusa e rendono possibile
l’interventi spontanei, in funzione di prima mediazione, quali la
segnalazione di taluni dati, la condivisione di determinate informazioni,
l’apertura di dibattiti su specifici temi anche di interesse circoscritto (e
quindi facilmente non suscettibili di attrarre l’attenzione di mediatori
istituzionali).
4.3. I rischi insiti nel nuovo modello.
Il modello, così come le sue linee di sviluppo, deve confrontarsi non
solo con gli indubbi vantaggi, ma anche con i possibili rischi che l’idea di
una trasparenza assicurata dalla «accessibilità totale» porta con sé.
L’espressione già di per sé evoca l’idea di un sistema nel quale talune
informazioni circolano nella rete svincolate da ogni limite, un’area di
totale trasparenza e, per ciò stesso, di completo controllo da parte di
chiunque. Così descritto, il modello può rimandare in primo luogo alle
teorizzazioni distopiche che hanno ben rappresentato i rischi che le
tecnologie divengano strumento di controllo piuttosto che di libertà,
consentendo anche la completa conoscenza di informazioni private in
quanto connesse all’esercizio di funzioni pubbliche. Non intendo, in
realtà, dedicare particolare attenzione a quest’immagine, sia perché la
privacy ha sin troppi difensori, e viene spesso usata per impedire la
trasparenza piuttosto che per garantire la tutela dell’individuo, sia perché
concordo profondamente con chi ha evidenziato, da tempo, che nel
sistema pubblico la regola deve comunque essere quella della
trasparenza, residuando alla riservatezza il ruolo di eccezione (che è
esattamente l’opposto di quanto dovrebbe avvenire nell’ambito
privato).84 Vero è, però, che taluni eccessi del legislatore giustificano una
qualche apprensione: appare in effetti decisamente esorbitante la scelta
Si v. J. PALFREY, U. GASSER, Nati con la rete, Milano, Rizzoli, 2009.
Un approccio che è il “tallone d’Achille” delle dinamiche conoscitive per M. HERZ,
Law lags behind: FOIA and affirmative disclosure of information, in Cardozo Public Law, Policy
and Ethics Journal, 2009, pp. 585 ss. e che in un ceto senso è stato reso obsoleto da
Internet (cfr. D.C. VLADECK, Information access-surveying the current legal landscape of federal
right-to-know laws, in Texas Law Review, 2008, spec. pp. 1792-1793).
84 Barile; in termini non dissimili, P. Marsocci evidenzia che “l’agire in pubblico risulta,
infatti, la caratteristica privilegiata per mantenere viva la distinzione fra poteri pubblici e
poteri privati” (Introduzione, in P. MARSOCCI (a cura di), “Esporre” la democrazia. Profili
giuridic della comunicazione del Governo, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 7).
82
83
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
21
non già di considerare prevalenti le esigenze di conoscibilità rispetto a
quelle di riserbo in ordine a specifici aspetti inerenti alla vita
professionale di un dipendente pubblico, ma addirittura di eliminare
dall’ambito di protezione della legislazione in materia di dati personali «le
notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia
addetto ad una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono
oggetto di protezione della riservatezza personale».85
Si tratta di un esito paradossale, se pensiamo al fatto che la massima
trasparenza viene prevista in un ambito, quello inerente al rapporto di
lavoro del dipendente di amministrazione pubblica, che si muove di
norma in una dimensione eminentemente privatistica, di modo che ci
troviamo di fronte ad un rapporto inversamente proporzionale tra potere
(che è assente) e conoscibilità (che è massima).
I rischi con i quali ci confrontiamo, ciò premesso, attengono alla qualità e
quantità delle informazioni disponibili, e quindi alla loro adeguatezza ed
obiettività, e perciò in primo luogo alla possibilità che le attività di
informazione scivolino nella comunicazione86, nella propaganda, nella
pubblicità.87 Non meno rilevante è, però, la questione della loro
completezza e significatività e, di conseguenza, del rischio che messo «au
grand jour»88 un pezzo dell’amministrazione, le condotte improprie, le
inefficienze, la maladministration89 si spostino semplicemente là dove la
luce non solo è meno intensa, ma rischia di essere assente. Mantenendo
l’immagine dell’edificio, propria dell’idea della «casa di vetro», potremmo
parlare di stanze in ordine (quelle aperte alle visite), ma oltre la porta
L’art. 4 co. 9 ha, infatti, espressamente inserito questa previsione nella stessa
disciplina della privacy, aggiungendola all’articolo 1, comma 1, del Codice in materia di
protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
86 Si v. la distinzione tra “informazione” e “comunicazione” amministrativa proposta
dalla dottrina, dove la seconda è intesa come attività diretta a modificare
comportamenti, per quanto si ravvisi come informazione e comunicazione siano in un
continuum (si cfr. G. ARENA, La funzione pubblica di comunicazione, in ID. (a cura di), La
funzione di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, spec. p. 46; F. MERLONI,
Sull’emergere della funzione di informazione, cit., spec. p. 34). La l. 150 del 2000 distingue,
altresì, tra attività di informazione ed attività di comunicazione sulla base di criteri
diversi (sul punto cfr. G. GARDINI, Le regole dell’informazione, Milano, B. Mondadori,
2009, pp. 243 ss.).
87 Nel senso di pubblicità commerciale , quali attività dirette a condizionare il
comportamento del destinatario tramite una rappresentazione favorevole del
“prodotto”.
88 Facendo riferimento all’espressione di Maurice JOLY (Dialogue aux enfers entre Machiavel
et Montesquieu ou la politique de Machiavel au XIXe siecle par un contemporain, Bruxelles, s.e.,
1868, p. 25): «mais comme la publicité est de l’essence des pays libres, toutes ces
institutions ne pourraint vivre longtemps si elles ne fonctionnaient au grand jour».
89 Cfr. S. CASSESE, “Maladministration” e rimedi, in Foro italiano, V, 1992, pp. 247 ss.
85
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
22
chiusa, là dove non c’è il rischio di ricevere ospiti, può regnare la
massima confusione.90
5. L’opacità della trasparenza
Sono notazioni, queste, che già ci pongono di fronte al potenziale
distorcente che è insito nella trasparenza, e nei suoi strumenti. Che la
trasparenza possa produrre opacità appare a prima vista davvero
paradossale, ma riflettendo intorno alla metafora dell’illuminazione non
appare irragionevole pensare al fatto che la luce, se eccessiva, possa
abbagliare, o che l’immagine possa risultare sovraesposta e quindi
incomprensibile.91
La trasparenza, a ben vedere, può produrre opacità (vale a dire limitare, o
comunque non favorire l’effettiva conoscenza) in modi diversi, secondo
dinamiche diverse.
Può determinare disorientamento, frutto dell’eccesso di informazioni:
un’opacità per confusione. L’informazione utile, interessante, è resa
disponibile, ma è difficilmente compresa nella sua portata perché
inframmezzata a numerosi elementi privi di interesse. Senza arrivare a
dire che less is better92, è però evidente che la conoscenza che il cittadino è
in grado di maturare rispetto ad un fenomeno amministrativo non
necessariamente è proporzionale alla quantità di informazioni disponibili.
Si tratta di una questione che può essere ben compresa solo riflettendo
sulle pagine e pagine di contratti e consulenze rese disponibili da
amministrazioni
di
medio-grande
dimensione
sulla
scorta
dell’Operazione trasparenza: un complesso di dati ed elementi
conoscitivi che finisce per occultare le poche informazioni davvero
significative.
Potremmo dire, in altri termini, che anche la trasparenza è suscettibile di
una certa usura da inflazione, ed il cittadino può verosimilmente risultare
interessato ad un numero finito di informazioni. Non appare invece
tollerabile l’argomento della opacità pro democrazia, nel senso che limitare la
90 Riprendendo una citazione già riportata da G. ARENA (Trasparenza amministrativa, in
Dizionario di diritto pubblico, cit., 5945), la verità va cercata «non in piena luce, ma nella
zona in cui necessariamente giocano luce ed ombra»: P.A. ROVATTI, Sulla “verità” della
metafora, in AutAut, 220-221, 1997, p. 2.
91 F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in F. MERLONI(a cura di),
La trasparenza amministrativa, cit., spec. 14. Sui “rischi” ed i limiti della trasparenza,
connessi in particolare ai caratteri del “messaggio” (spesso dai contenuti scarsamente
informativi), si cfr. M. FENSTER, The Opacity of Transparency, in Iowa Law Review, 2006,
spec. pp. 921 ss.
92 Alcuni argomenti a supporto di questa tesi in G. NAPOLITANO, L’attività informativa
della pubblica amministrazione: ‘less is better’, in F. MANGANARO, A. ROMANO TASSONE (a
cura di), I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d'informazione, Torino, Giappichelli, 2005.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
23
conoscenza pubblica sul funzionamento reale delle istituzioni possa
essere inteso come funzionale alla protezione della dignità e credibilità
delle strutture democratiche.93 Si tratta infatti, come credo evidente, di
una china scivolosa che conduce agevolmente a quelle categorie del
segreto e della menzogna utile (che non dovrebbero trovare spazio in un
sistema in cui la sovranità appartiene al popolo) che sono, a loro volta, «il
prologo ad una farsa, o ad una tragedia».94
La trasparenza può però produrre opacità, anche attraverso dinamiche
diverse: perché può, ad esempio, falsare la comprensione dei cittadini e
dell’opinione pubblica, sulla base di una presunzione non
necessariamente corrispondente al vero tra informazione significativa ed
informazione disponibile. Un rischio, questo, che appare presente anche
nelle riforme che stanno interessando il sistema pubblico italiano. E’
evidente la tentazione di ricorrere ad informazioni di più facile
reperibilità in luogo di altre di più complessa ricostruzione, il che può
condurre ad una rappresentazione inesatta, e fuorviante, della realtà e
quindi distorcere le dinamiche dell’accountability.
La trasparenza può determinare, inoltre, una sorta di sviamento del
cittadino, attratto dalle numerose informazioni disponibili e con ciò
distratto rispetto ad altri fenomeni che si sviluppano parallelamente, ma
senza analoghi tassi di trasparenza. Questo effetto è tanto più marcato
quanto più si ammettono aree di eccezione rispetto alle regole di
trasparenza, e quanto più si nasconde l’estensione di quest’area. La scarsa
trasparenza dei segreti (che, a sua volta, può essere considerato un
paradossale corollario alle questioni sin qui tratteggiate) produce l’errata
percezione del buon funzionamento di talune realtà delle quali altresì,
semplicemente, mancano informazioni ed adeguate misure di
conoscenza. Si tratta di un fenomeno che l’ordinamento italiano ben
conosce, basti pensare al fatto che un pezzo rilevante
dell’amministrazione si muove in uno spazio sottratto all’incidenza dei
principali strumenti di trasparenza, come avviene per il sistema, oramai
dilatatosi oltre ogni tollerabilità, delle c.d. emergenze.
La progressiva espansione delle aree del segreto, riferite alle vicende dove
più forte è l’esercizio di poteri pubblici e dove più ingente è l’impiego di
Per quanto la conoscenza di alcune informazioni possa non giovare alla fiducia nel
funzionamento delle istituzioni democratiche, sembra preferibile mantenere una ampia
trasparenza e circolazione delle informazioni (in questo senso, si v. la Lectio magistralis su
Il web e la trasparenza tra ideali e realtà di Lawrence Lessig dell’Università di Harvard,
tenuta l’11 marzo 2010 presso la Camera dei Deputati).
94 V. J. MADISON («a popular government without popular information or the means of
acquiring it, is but a Prologue to Farce, or a Tragedy, or perhaps both» (Letter from James
Madison to W.T. Barry, August 4, 1822). Si noti che il riferimento a Madison caratterizza
il dibattito americano sul Freedom of Information Act.
93
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
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risorse, mette evidentemente in forte discussione la credibilità
complessiva delle operazioni di c.d. trasparenza: il rischio è quello di un
sistema incoerente, nel quale vicende di irrisoria valenza vengono esposte
alla luce più abbagliante, mentre questioni di ben altro conto sono risolte
in stanze deliberatamente lasciate prive di ogni illuminazione.
Senza che sia possibile sviluppare qui adeguatamente il tema, deve infine
essere segnalata un’ultima, formidabile, dinamica di opacità. Merita
attenzione, infatti, il fatto che l’uso delle tecnologie dell’informazione, in
assenza di interventi di riequilibrio (volti ad appianare i digital divides95 o a
limitarne gli effetti in termini di accesso alla conoscenza), può creare
nuove asimmetrie informative, tra “connessi e non”, nuove opacità
diseguali, determinando con ciò nuovi limiti alla stessa trasparenza.96
6. Indicazioni conclusive
L’evoluzione del sistema italiano mostra, in sostanza, il succedersi di
strumenti chiamati ad assicurare la trasparenza: a prima vista, il diritto di
accesso ha passato il testimone alla pubblicazione on line di dati ed
informazioni. In questi termini, le prospettive della trasparenza non
appaiono brillanti, dal momento che per quanto idoneo ad assicurare una
rilevante conoscibilità dell’azione e (soprattutto) dell’organizzazione
pubblica97, la pubblicità presenta dei limiti interni che ne condizionano
l’operatività.
La funzione di trasparenza assicurabile dalle dinamiche informative
spontaneamente attivate dal singolo, insita nel modello del diritto di
accesso e del freedom of information, rimane in un certo senso insostituibile:
crea una condizione di complessiva (ancorché potenziale) illuminazione,
una potenziale visibilità degli angoli più reconditi dell’amministrazione,
salvo che “un superiore, pubblico interesse non imponga un segreto
Sul tema, e per ulteriori riferimenti, v. per tutti D. DONATI, Digital divide e promozione
della diffusione delle ICT, in F. MERLONI (a cura di), Introduzione all’eGovernment, cit., pp.
209 ss.
96 Come nota Margetts in assenza di adeguate “pre-condizioni” (e quindi, in particolare,
in presenza di divides culturali e tecnologici) a, l’impatto delle Ict può limitare la
trasparenza (H. MARGETTS, Transparency and digital government, in C. HOOD, D. HEALD (a
cura di), Transparency. The key to better governance? Oxford: Oxford University, 2006, 206;
V. Zeno-Zencovich, Il diritto ad essere informati quale elemento del rapporto di cittadinanza, in
Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2006, pp. 1 ss.
97 In merito, cfr. A. PIOGGIA, La trasparenza dell’organizzazione e della gestione delle risorse
umane nelle pubbliche amministrazioni, in La trasparenza amministrativa (a cura di) MERLONI,
Milano, 2008, 693.
95
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25
momentaneo”.98 In termini diversi, può ravvisarsi come la trasparenza sia
un modo di essere dell’amministrazione che richiede, per la sua
realizzazione, sia strumenti di macro-informazione (quale la pubblicità ed
ora disponibilità tramite i siti web) che di micro-informazione.99
In altri termini, fintanto che (e nella misura in cui) resta possibile un
esercizio del diritto di accesso funzionale, sia pure mediatamente, alle
esigenze di trasparenza (come conoscibilità e controllo democratico
sull’uso del potere), l’equilibrato bilanciamento dei diversi strumenti ed il
loro affiancamento sembra senz’altro suscettibile di una valutazione
largamente positiva. Il problema, come accennato, è che nell’esperienza
italiana assistiamo più ad una sostituzione che ad una integrazione di
strumenti: una tendenza che trova un parziale freno in una serie di
discipline speciali che si pongono a cavallo tra gli strumenti più
propriamente di giustizia nell’amministrazione (quale pare sempre più
essere il diritto di accesso ai documenti) e quelli di conoscibilità diffusa
(quale è, appunto, la pubblicità di dati e documenti). Pensiamo, in questo
senso, al complessivo regime dell’informazione ambientale (dove si fa
largo uso di forme attive di dissemination e si prevede un diritto di accesso
particolarmente ampio)100, al diritto di accesso endoprocedimentale,
all’accesso alle informazioni locali. La tendenza ad accomunare, quanto a
limiti e regime, questi diversi modelli di accesso101 all’accesso così come
disciplinato dal Capo V della legge n. 241 del 1990 è, in questo senso, da
valutare in termini critici, perché idonea a produrre e rafforzare una
“polarizzazione” di strumenti che non risponde alle istanze di buon
andamento, imparzialità, cura esclusiva dell’interesse pubblico,
democraticità ed eguaglianza che sono radicate nel nostro impianto
costituzionale.
98 Così F. TURATI, che proseguiva affermando come, al di là di questa ipotesi, “la casa
dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro” (in Atti del Parlamento Italiano, Camera dei
deputati, sess. 1904-1908, 17 giugno 1908, p. 22962).
99 Per la distinzione tra macroinformazione e microinformazione, v. ora B.G.
MATTARELLA, Informazione amministrativa, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S.
Cassese, Milano, 2006, IV, spec. pp. 3127-3129.
100 P. SIRACUSANO, La pubblicità e il principio di trasparenza nella materia della tutela
dell’ambiente e del territorio, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit., pp.
587 ss.
101 Esemplare, nell’esplicitare questa tendenza, una certa giurisprudenza in materia di
segreto di ufficio, che trae dalla previsione dell’art. 28 della legge n. 241 del 1990, la
convinzione della legittima “compressione” del segreto solo in presenza del diritto di
accesso ai documenti (ritendo leso l’obbligo al segreto dal fatto di aver dato seguito a
richieste di accesso di tipo diverso non riconducibili nel solco del “modello” fissato dal
Capo V della legge sul procedimento): cfr. TAR Piemonte, Torino, II, n. 1693 del 2001
(relativa all’esercizio del diritto di accesso da parte di un consigliere comunale, che
come noto gode di speciali prerogative conoscitive).
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
26
Il modello statunitense si pone, nuovamente, quale utile parametro:
capace di sviluppare azioni idonee ad intercettare le potenzialità
conoscitive proprie delle tecnologie dell’informazione, come è ora con la
Open Government Initiative102 ma già con l’eFoia103, di combinare forme di
pubblicità e di libertà di accesso, come è avvenuto tramite l’integrazione
del Sunshine Act nell’impianto del FOIA, senza per questo depotenziare la
capacità conoscitiva realizzata dall’esercizio del freedom of information.104
In conclusione, anche la comparazione ci mostra, a prendere sul serio la
trasparenza amministrativa, l’esigenza di introdurre strumenti nuovi
(quali quelli resi possibili dalle tecnologie dell’informazione) senza
abbandonare, ma anzi aggiornando, quelli d’antan. Ben vengano, quindi,
regole volte ad assicurare la “totale accessibilità” di determinate
informazioni, ma oltre a suggerire maggiore sistematicità (banalmente:
aggiungendo i nuovi contenuti obbligatori di trasparenza nell’art. 54 del
Codice dell’amministrazione digitale), pare auspicabile (da parte del
legislatore) un ritocco alla disciplina vigente del diritto di accesso e (da
parte degli interpreti) una maggiore cautela nell’utilizzare il regime del
diritto di accesso ai documenti per limitare moduli conoscitivi (quali
l’accesso in funzione partecipativa105, l’accesso alle informazioni locali e
L’Open Government Initiative, già menzionata, si basa in particolare sulla messa a
disposizione on line del patrimonio conoscitivo del Federal register (si v. www.data.gov.us),
e si sviluppa attraverso una politica di trasparenza esplicitata nella direttiva presidenziale
dell’8 dicembre 2009 (Memorandum for the heads of executive departments and agencies, in
www.whitehouse.gov/Open).
103 La disciplina EFOIA prevede che le informazioni ritenute di interesse generale siano
rese disponibili in appositi spazi informatici (c.d. “electronic reading rooms): in merito,
v. già M. E. TANKERSLEY, How the electronic freedom of information act amendments of 1996
update public access for the information age, in Administrative Law Review, 1998, pp. 50 ss.; da
ultimo M. HERZ, Law lags behind: FOIA and affirmative disclosure of information, cit., pp. 587
ss.; merita peraltro attenzione il fatto che numerose amministrazioni federali non
hanno effettivamente predisposto proprie “electronic reading rooms” (NATIONAL
SECURITY ARCHIVE, File Not Found: 10 Years After E-FOIA, Most Federal Agencies Are
Delinquent, 2007, reperibile all’indirizzo www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/
NSAEBB216/index.htm).
104 Negli Stati Uniti, l’espressione open government è solita riferirsi ad un “quartetto” di
provvedimenti normativi approvati nell’arco di un decennio (F.o.i.a., del 1966; Federal
Advisory Committee Act, del 1972; Privacy Act, del 1974; Government in the Sunshine Act, del
1976); cfr. R.K. BERG, S.H. KLITZMAN, G.J. EDLES, An Interpretive Guide to the
Government in the Sunshine Act, Washington DC, American Bar Association ed., 2005
105 Questo approccio interpretativo tende, quindi, la rimarcare, anziché attenuare il
solco che esiste tra l’accesso previsto dall’art. 10 e quello disciplinato dagli artt. 22 e ss.
della legge 241: da un lato, in effetti, se è vero che l’art. 10 disciplina una specie del
diritto di accesso di cui all’art. 22 e ss. (“diverso per presupposti, finalità e soggetti
titolari”: TAR Lombardia, Brescia, 7 novembre 1991, n. 809), dall’altro questo diritto
non è volto tanto ad assicurare la trasparenza, ma va colto “quale garanzia
propedeutica nell’ottica di un pieno funzionamento della regola partecipativa” (Cons.
102
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
27
financo lo stesso diritto di accesso del consigliere comunale106), che
andrebbero piuttosto preservati nella loro capacità di assicurare non solo
la tutela del singolo, ma un significativo controllo sull’azione pubblica.107
Stato, VI, 27 febbraio 2003, n. 1116: sul punto cfr. V. CERULLI IRELLI, Lineamenti del
diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2006, p. 337).
106 TAR Piemonte, Torino, II, n. 1693 del 2001.
107 Più corretto, a mio avviso, non solo parlare di “diritti” di accesso (in questo senso
cfr. M. OCCHIENA, Accesso agli atti amministrativi, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di
S. Cassese, cit., I, pp. 57 ss.; ID., I diritti di accesso dopo la riforma della legge n. 241/1990, in
F. MANGANARO, A. ROMANO TASSONE, I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto
d’informazione, cit., pp. 145 ss.; e già A. BARTOLINI, Pubblicità delle informazioni e diritti di
accesso, in B. CAVALLO (a cura di), Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata
e pubblica trasparenza, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 201 ss.), ma anche trarre da questa
“diversità” conseguenze significative in termini di limiti alla loro “omologabilità”.
Spunti in tal senso discendono anche dal fatto che se il diritto di accesso “esterno” della
legge n. 241 è un “livello essenziale”, allora le diverse ipotesi di accesso o sono rimesse
alle fonti di autonomia perché queste assicurino livelli ulteriori di tutela (e quindi, ad
esempio, la disciplina del TUEL è da considerarsi superata, compressa come è tra livelli
essenziali statali e fonti di autonomia territoriale), o sono altresì, come qui si suggerisce,
da considerarsi diverso “livello essenziale” corrispondente ad un diverso diritto (che
non è quello alla tutela delle proprie situazioni giuridiche, ma quello alla salubrità
ambientale, alla partecipazione locale, e così via). Sul punto, ci sia consentito rinviare a
E. CARLONI, Diritti di accesso e livelli essenziali delle prestazioni, in Diritto dell’informazione e
dell’informatica, n. 1-2, 2008, pp. 45 ss.
E. CARLONI, Modelli e paradossi della trasparenza (12.4.2010)
28
Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità
delle amministrazioni pubbliche
1 - DELIBERA N. 105/2010 (*) - Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per
la trasparenza e l’integrità (articolo 13, comma 6, lettera e, del decreto legislativo 27 ottobre
2009, n. 150)
2 – ALLEGATO – Esempio di struttura della sezione del sito “Trasparenza, valutazione e
merito”
approvata nella seduta del 14 ottobre 2010
(*) Versione integrata dalla correzione apportata in data 11 novembre 2010 - http://www.civit.it/?p=2603
LA COMMISSIONE
VISTO l’articolo 13, comma 6, lett. e) e comma 8 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 e
la delibera n. 105/2010 del 23 settembre 2010 con cui la Commissione ha approvato il testo
provvisorio da sottoporre a consultazione, avente ad oggetto le Linee guida per la predisposizione
del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità;
RILEVATO che sono stati invitati a fornire eventuali osservazioni e proposte:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Il Garante per la protezione dei dati personali;
L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture;
Il Dipartimento della Funzione pubblica;
La Ragioneria dello Stato;
Digit PA;
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi;
UPI;
ANCI;
Le Parti sociali rappresentate nel CNEL;
I Componenti degli organismi indipendenti di valutazione;
Le Associazioni dei consumatori ed utenti;
VISTE le osservazioni pervenute alla Commissione a seguito della pubblica consultazione e
adottate le integrazioni ritenute opportune;
DELIBERA
di approvare il seguente testo delle Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per
la trasparenza e l’integrità.
2
Indice:
Finalità delle linee guida ......................................................................................................................4 1. Cosa si intende per trasparenza....................................................................................................4 1.1. Integrità e doveri di comportamento dei titolari di funzioni pubbliche ................................5 1.2. Trasparenza e performance ...................................................................................................6 2. Ambito soggettivo di applicazione delle linee guida ...................................................................7 3. Ambito oggettivo e limiti alla pubblicità dei dati ........................................................................7 3.1. Protezione dei dati personali .................................................................................................7 3.2. Limiti derivanti dalla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi ..........................9 4. Redazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ...........................................9 4.1. Requisiti di forma................................................................................................................11 4.1.1. Indicazioni relative alla pubblicazione on line ............................................................11 4.1.2. Indicazioni relative alla pubblicazione del Programma triennale per la trasparenza e
l’integrità....................................................................................................................................14 4.1.3. Modalità di attuazione e termine di adozione del Programma triennale per la
trasparenza e l’integrità..............................................................................................................16 4.1.4. Strutture competenti.....................................................................................................17 4.2. Pubblicazione on line dei dati .............................................................................................18 4.3. Ulteriori iniziative ...............................................................................................................21 4.4. Posta elettronica certificata (PEC) ......................................................................................22 5. Giornate della trasparenza..........................................................................................................23 6. Attività di verifica e vigilanza della Commissione....................................................................23 3
Finalità delle linee guida
Con la presente delibera, la Commissione, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, lettera e), e
comma 8 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, adotta le linee guida per la
predisposizione, ad opera di ogni singola amministrazione, del Programma triennale per la
trasparenza e l’integrità, di cui all’articolo 11, commi 2 e 8, lettera a), del decreto.
La Commissione, attraverso un’apposita Sezione per l’integrità nelle amministrazioni
pubbliche, verifica l’effettiva adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e
vigila sul rispetto degli obblighi in materia di trasparenza da parte di ciascuna amministrazione.
Nel contesto della finalità istituzionale di promuovere la diffusione nelle pubbliche
amministrazioni della legalità e della trasparenza, nonché lo sviluppo di interventi a favore della
cultura dell’integrità (articolo 13, comma 8, del decreto), sono state già adottate alcune “prime linee
di intervento per la trasparenza e l’integrità” (delibera n. 6 del 25 febbraio 2010), al fine di
verificare il rispetto dei già previsti obblighi di trasparenza, di stabilire un rapporto di informazione
e collaborazione con le amministrazioni interessate e di avviare i processi di formazione ed
elaborazione degli strumenti generali previsti dalla legge.
Le presenti linee guida costituiscono, pertanto, una fase ulteriore di attuazione della
disciplina della trasparenza, nell’ambito di un più ampio e graduale processo, cui seguiranno
ulteriori iniziative e interventi. Esse indicano il contenuto minimo e le caratteristiche essenziali del
Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, a partire dalla indicazione dei dati che devono
essere pubblicati sul sito istituzionale delle amministrazioni e delle modalità di pubblicazione.
La Commissione si riserva di fornire ulteriori indirizzi e documentazione di supporto
operativo (ad esempio, glossario, risposte a quesiti di rilevanza generale, ecc.).
1. Cosa si intende per trasparenza
Nella predisposizione delle presenti linee guida e conseguentemente dei programmi
triennali, assume rilievo centrale la nuova nozione di trasparenza introdotta nell’ordinamento
dall’articolo 11 del d. lg. n. 150 del 2009.
La trasparenza “è intesa come accessibilità totale (…) delle informazioni concernenti ogni
aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle
risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e
valutazione (…)” (articolo 11, comma 1). Si tratta di una nozione diversa da quella contenuta negli
articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, che disciplina la distinta fattispecie del
diritto di accesso ai documenti amministrativi, qualificato dalla titolarità di un interesse azionabile
dinanzi al giudice (art. 116 cod. proc. amm.) e sottoposto a una specifica e differente disciplina che
trova la propria fonte nella richiamata legge n. 241 del 1990, la quale istituisce altresì la
Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi (art. 27, come sostituito dall’art. 18 della
legge 11 febbraio 2005, n. 15), definendone le attribuzioni.
L’accessibilità totale presuppone, invece, l’accesso da parte dell’intera collettività a tutte le
“informazioni pubbliche”, secondo il paradigma della “libertà di informazione” dell’open
government di origine statunitense. Una tale disciplina è idonea a radicare, se non sempre un diritto
in senso tecnico, una posizione qualificata e diffusa in capo a ciascun cittadino, rispetto all’azione
4
delle pubbliche amministrazioni, con il principale “scopo di favorire forme diffuse di controllo del
rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità” (articolo 11, comma 1, del decreto).
Significativa della richiamata differenza di ratio e di conseguente regolamentazione, tra
disciplina della trasparenza e disciplina sull’accesso, è la disposizione di cui all’articolo 24, comma
3, della l. n. 241 del 1990, secondo cui “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un
controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, laddove, come si è detto, ai
sensi dell’articolo 11, comma 1, del d. lg. n. 150 del 2009, la trasparenza è finalizzata proprio a
forme diffuse di controllo sociale dell’operato delle pubbliche amministrazioni e delinea, quindi, un
diverso regime di accessibilità alle informazioni.
Corollario di tale impostazione legislativa della disciplina della trasparenza è la tendenziale
pubblicità di una serie di dati e notizie concernenti le pubbliche amministrazioni e i suoi agenti, che
favorisca un rapporto diretto tra la singola amministrazione e il cittadino.
Il principale modo di attuazione di una tale disciplina è la pubblicazione sui siti istituzionali
di una serie di dati. L’individuazione di tali informazioni si basa, innanzitutto, su precisi obblighi
normativi, in parte previsti dal d. lg. n. 150 del 2009, in parte da altre normative vigenti. Inoltre, una
tale individuazione tiene conto della generale necessità del perseguimento degli obiettivi di legalità,
sviluppo della cultura dell’integrità ed etica pubblica, nonché di buona gestione delle risorse
pubbliche.
In conclusione, il sistema attuale delinea una nozione di trasparenza che si muove su tre
piani mobili tra loro collegati: una posizione soggettiva garantita al cittadino, un risultato che le
pubbliche amministrazioni sono chiamate a perseguire, uno strumento di gestione della res publica
per garantire il “miglioramento continuo” nell’uso delle risorse e nell’erogazione dei servizi al
pubblico.
1.1. Integrità e doveri di comportamento dei titolari di funzioni pubbliche
Con riferimento alla legalità e alla cultura dell’integrità, la pubblicazione di determinate
informazioni pubbliche risulta strumentale alla prevenzione della corruzione nelle pubbliche
amministrazioni. In questo senso, è riconoscibile un legame di tipo funzionale tra la disciplina della
trasparenza e quella della lotta alla corruzione, del resto ricavabile, innanzitutto, dalla Convenzione
Onu contro la corruzione del 31 ottobre 2003, ratificata dall’Italia con legge 3 agosto 2009, n. 116,
che in molti suoi articoli (7, 8, 9, 10 e 13) fa espresso richiamo alla trasparenza. Anche documenti
internazionali, adottati in sede sia OCSE, sia GRECO (“Gruppo di Stati contro la Corruzione”,
nell’ambito del Consiglio d’Europa), confermano il collegamento tra le due discipline. La
trasparenza è, dunque, il mezzo attraverso cui prevenire e, eventualmente, disvelare situazioni in cui
possano annidarsi forme di illecito e di conflitto di interessi. Da qui la rilevanza della pubblicazione
di alcune tipologie di dati relativi, da un lato, ai dirigenti pubblici, al personale non dirigenziale e ai
soggetti che, a vario titolo, lavorano nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, dall’altro, a
sovvenzioni e benefici di natura economica elargiti da soggetti pubblici, nonché agli acquisti di beni
e servizi.
Dalle precedenti considerazioni è ricavabile, peraltro, il collegamento tra la materia della
trasparenza e la più generale previsione del dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche
di adempiere alle stesse “con disciplina e onore” (articolo 54, comma 2, della Costituzione). In
questa prospettiva vanno richiamati l’insieme dei principi e delle norme di comportamento corretto
in seno alle amministrazioni. Pertanto, gli obblighi di trasparenza risultano correlati a un siffatto
novero di principi e regole nella misura in cui il loro adempimento è volto alla rilevazione di ipotesi
di maladministration e alla loro consequenziale eliminazione. Anche la pubblicazione dei codici di
5
comportamento sui siti istituzionali delle singole amministrazioni si inserisce nella logica
dell’adempimento di un obbligo di trasparenza.
1.2. Trasparenza e performance
La trasparenza presenta un duplice profilo: in primo luogo, come si è detto e come si
preciserà in seguito, un profilo “statico”, consistente essenzialmente nella pubblicità di categorie di
dati attinenti alle pubbliche amministrazioni per finalità di controllo sociale. Il profilo “dinamico”
della trasparenza è invece direttamente correlato alla performance. La pubblicità dei dati inerenti
all’organizzazione e all’erogazione dei servizi al pubblico, infatti, si inserisce strumentalmente
nell’ottica di fondo del “miglioramento continuo” dei servizi pubblici, connaturato al ciclo della
performance anche grazie al necessario apporto partecipativo dei portatori di interesse
(stakeholder).
Per quanto attiene al buon andamento dei servizi pubblici e alla corretta gestione delle
relative risorse, la pubblicazione on line dei dati consente a tutti i cittadini un’effettiva conoscenza
dell’azione delle pubbliche amministrazioni, con il fine di sollecitare e agevolare modalità di
partecipazione e coinvolgimento della collettività. In quest’ottica, la disciplina della trasparenza
costituisce, altresì, una forma di garanzia del cittadino, in qualità sia di destinatario delle generali
attività delle pubbliche amministrazioni, sia di utente dei servizi pubblici.
La pubblicazione di determinate informazioni, infine, è un’importante spia dell’andamento
della performance delle pubbliche amministrazioni e del raggiungimento degli obiettivi espressi nel
più generale ciclo di gestione della performance. Con riferimento a quest’ultimo, occorre
sottolineare che il Programma della trasparenza, da un lato, rappresenta uno degli aspetti
fondamentali della fase di pianificazione strategica all’interno del ciclo della performance,
dall’altro, permette di rendere pubblici agli stakeholder di riferimento, con particolare attenzione
agli outcome e ai risultati desiderati/conseguiti, i contenuti del Piano e della Relazione sulla
performance.
Il Programma triennale della trasparenza, pertanto, deve porsi in relazione al ciclo di
gestione della performance e deve di conseguenza consentire la piena conoscibilità di ogni
componente del Piano e dello stato della sua attuazione.
Soprattutto a questi fini rileva la pubblicazione dei Piani e delle Relazioni sulla
performance, dello stesso Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, nonché dei dati
sull’organizzazione, sui procedimenti e sulla gestione delle risorse strumentali, sulla gestione dei
servizi pubblici, sullo stato dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni e sulle buone prassi.
L’attuazione della disciplina della trasparenza non si esaurisce nella pubblicazione on line di
dati, ma prevede ulteriori strumenti. L’articolo 11, comma 2, del d. lg. n. 150 del 2009, infatti, fa
riferimento a “iniziative” volte a garantire un adeguato livello di trasparenza nonché a favorire la
legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità.
In tale prospettiva, vanno lette le “apposite giornate della trasparenza” di cui al comma 6
dell’articolo 11 e gli adempimenti della posta elettronica certificata di cui al precedente comma 5.
In conclusione, merita di essere sottolineato che l’attuazione della disciplina della
trasparenza richiede un concorso di azioni positive a carico delle singole amministrazioni, ma anche
dei soggetti tenuti alla vigilanza (ovvero OIV, dirigente referente, Commissione, si vedano i
paragrafi 4.1.4 e 6), consistenti nell’immediata osservanza dei puntuali obblighi attualmente vigenti,
nell’adozione e nell’applicazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, nel quale,
6
anche alla luce delle presenti linee guida, devono essere incluse ulteriori iniziative volte a
promuovere la trasparenza e la cultura dell’integrità.
2. Ambito soggettivo di applicazione delle linee guida
Le presenti linee guida trovano applicazione nei confronti delle aziende e amministrazioni
dello Stato anche a ordinamento autonomo, delle agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio
1999, n. 300, degli enti pubblici nazionali nonché degli enti territoriali, nei limiti di cui all’articolo
16 del d. lg. n. 150 del 2009 e con riferimento al comma 1 e 3 dell’articolo 11, salva l’applicazione
delle altre previsioni di cui all’articolo 11 a seguito delle intese di cui all’articolo 13, comma 2, del
d. lg. n. 150 del 2009.
Ne consegue che, in attesa della stipulazione di dette intese, che consentiranno l’adattamento
della disciplina della trasparenza alla realtà delle singole amministrazioni locali, le regioni e gli enti
locali sono tenuti a garantire la massima trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione della
performance, garantendo l’accessibilità totale, attraverso la pubblicazione anche sul sito
istituzionale delle informazioni concernenti i dati analiticamente indicati nel comma 1 dell’articolo
11 e ferma restando l’applicazione di quanto previsto dall’articolo 21 della legge 18 giugno 2009, n.
69.
La disciplina della trasparenza rientra nei livelli essenziali delle prestazioni erogate dalle
amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione,
oggetto della competenza esclusiva del legislatore statale. L’attuazione di tale disciplina richiede,
infatti, modalità tendenzialmente uniformi in ciascuna amministrazione su tutto il territorio
nazionale.
Le presenti linee guida costituiscono, altresì, un parametro di riferimento per quei soggetti
pubblici non contemplati dal d. lg. n. 150 del 2009 e per quei soggetti comunque erogatori di servizi
pubblici, che ritengano, nella propria autonomia, di poter adottare strumenti di pubblicità idonei a
realizzare gli obiettivi di trasparenza e integrità, in relazione ai propri apparati organizzativi e alle
proprie attività, coerentemente con le previsioni di legge e con gli obblighi auspicabilmente presenti
nei contratti di servizio o altri strumenti equipollenti.
3. Ambito oggettivo e limiti alla pubblicità dei dati
3.1. Protezione dei dati personali
La pubblicazione sui siti istituzionali di alcune tipologie di dati, come evidenziato,
rappresenta la principale forma di attuazione della trasparenza ai sensi dell’articolo 11, comma 1,
del d. lg. n. 150 del 2009. Tuttavia, la pubblicazione on line delle informazioni deve rispettare
alcuni limiti posti dalla legge.
È necessario, innanzitutto, delimitare le sfere di possibile interferenza tra disciplina della
trasparenza e protezione dei dati personali, in modo da realizzare un punto di equilibrio tra i valori
che esse riflettono in sede di concreta applicazione.
7
L’importanza di un continuo bilanciamento tra tali principi e valori è messa in rilievo non
solo nelle esperienze straniere più avanzate (si veda l’Open Government Plan statunitense 1 ), ma
soprattutto dalla normativa europea (sul tema si veda la Direttiva CE n. 46 del 24 ottobre 1995 e,
più specificamente, in relazione al rapporto tra tutela della riservatezza e comunicazioni
elettroniche, la Direttiva CE n. 58 del 12 luglio 2002).
Con riferimento all’impianto normativo nazionale, rileva l’articolo 1 del decreto legislativo
30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali, di seguito “Codice”),
che statuisce: “Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano. Le notizie
concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la
relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale”.
Da un punto di vista oggettivo, con riferimento al concetto di “prestazione”, la deroga
prevista dall’articolo 1, comma 2, del Codice, unitamente al conseguente regime di pubblicità che
ne deriva, è riferibile a tutti i dati che devono essere oggetto di pubblicazione on line secondo le
presenti linee guida, in quanto, e soltanto nella misura in cui, essi costituiscono dati che,
direttamente o indirettamente, attengono allo svolgimento della prestazione di chi sia addetto a una
funzione pubblica. Sempre sul piano oggettivo, è da ritenersi, peraltro, riconducibile al termine
“valutazione”, in primo luogo, ogni riferimento al concetto di performance, e relativa valutazione,
contenuto nei titoli II e III del d. lg. n. 150 del 2009.
Da un punto di vista soggettivo, l’espressione “chiunque sia addetto ad una funzione
pubblica” ricomprende, tendenzialmente, tutti coloro che siano addetti ad una funzione pubblica,
indipendentemente dalla posizione rivestita e dal titolo di legittimazione. Proprio in virtù della
correlazione esistente tra tali soggetti, la pubblica amministrazione e lo svolgimento di una attività
pubblica, devono essere resi accessibili i dati richiesti dalla legge e inerenti, per esempio a
funzionari della pubblica amministrazione, dirigenti, titolari di posizioni organizzative, organi di
indirizzo politico-amministrativo (si veda paragrafo 4.2).
L’esigenza di assicurare una lettura “orientata” della citata disposizione sul piano
costituzionale e comunitario induce a ritenere che il diritto dei cittadini di conoscere l’assetto
strutturale e il modo di operare delle amministrazioni pubbliche e dei suoi agenti, finalizzato al
conseguente controllo sociale sulla res publica, debba essere, comunque, conformato al rispetto del
principio di proporzionalità (previsto dagli articoli 3 e 11 del Codice).
Tale principio è volto a garantire che i dati pubblicati e i modi di pubblicazione siano
pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità indicate dalla legge (paragrafo 4.2), nel rispetto della
disciplina in materia di protezione dei dati, anche alla luce delle delibere del Garante in materia di
protezione dei dati personali, e comporta altresì la necessità di provvedere all’archiviazione dei dati
non più aggiornati, con particolare riguardo ai dati informativi inerenti al personale (paragrafo
4.1.1).
È per converso vero che, nel rispetto del principio di proporzionalità, tutti i dati personali
attinenti allo svolgimento della prestazione di chi sia addetto a una funzione pubblica devono essere
resi accessibili in attuazione della disciplina legislativa della trasparenza che, a sua volta, costituisce
espressione di quei valori di buon andamento e imparzialità delle pubbliche amministrazioni, che
trovano un tradizionale riconoscimento negli articoli 97, 98 nonché 3 della Costituzione.
Per quanto riguarda i dati sensibili (articolo 4, comma 1, lettera d), del Codice) e i dati che
prevedono implicazioni consimili (è, ad esempio, il caso dei dati inerenti a soggetti che si trovano in
situazioni economiche disagiate o dei dati riguardanti soggetti appartenenti a categorie protette cui
1
L’Open Government plan, nel fornire indicazioni ad agenzie e dipartimenti in ordine allo sviluppo dei principi di trasparenza e di partecipazione /
collaborazione da parte dei cittadini, specifica chiaramente che l’uso di Internet come strumento cardine di attuazione del principio di trasparenza e la
piena accessibilità ai dati da parte dei cittadini devono risultare pienamente in accordo con i limiti e le garanzie previste in tema di protezione dei dati
personali, di riservatezza, di sicurezza nazionale e di ogni altro obbligo di legge.
8
sono destinate agevolazioni e titoli di preferenza), il contemperamento può essere realizzato
mediante specifiche modalità di protezione, quali la profilazione in forma anonima dei dati o
l’inaccessibilità ai dati stessi da parte dei motori di ricerca, fermo restando comunque il generale
divieto di pubblicare i dati idonei a rivelare lo stato di salute dei singoli interessati (articoli 22,
comma 8; 65, comma 5; 68, comma 3, del Codice).
3.2. Limiti derivanti dalla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi
Ferma restando la sostanziale differenza tra disciplina della trasparenza e quella sull’accesso
ai documenti amministrativi, è da ritenere che alcuni limiti posti all’accesso dall’articolo 24 della l.
n. 241 del 1990 siano riferibili anche alla disciplina della trasparenza, in quanto finalizzati alla
salvaguardia di interessi pubblici fondamentali e prioritari rispetto al diritto di conoscere i
documenti amministrativi.
Tali limiti tassativi, riferibili pertanto anche alla disciplina della trasparenza, riguardano:
i)
i documenti coperti da segreto di stato e gli altri casi di segreto o di divieto di
divulgazione espressamente previsti dalla legge;
ii) i procedimenti previsti dal decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito dalla legge
15 marzo 1991, n. 82), recanti norme in materia di sequestri di persona a scopo di
estorsione e di protezione di coloro che collaborano con la giustizia;
iii) i procedimenti selettivi in relazione a documenti amministrativi contenenti informazioni
di carattere psicoattitudinale relativi a terzi;
iv) i documenti esclusi dal diritto di accesso in forza di regolamenti governativi, adottati ai
sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 al fine di
salvaguardare gli interessi menzionati dall’articolo 24 della legge n. 241 del 1990.
Con riguardo alla facoltà di esclusione dell’accesso in via regolamentare, riferibili anche alla
disciplina della trasparenza, occorrono alcune precisazioni. Se nessun dubbio, infatti, può sussistere
circa la riferibilità anche alla disciplina della trasparenza dei casi di esclusione, finalizzata alla
salvaguardia di interessi generali propri dello Stato (sicurezza interna ed esterna, politica valutaria e
monetaria, ecc.), le altre ipotesi di esclusione, previste dalla stessa legge (ad esempio, la formazione
degli atti generali) o in via regolamentare (ad esempio, la riservatezza delle persone con riferimento
all’interesse professionale o finanziario), devono essere considerati alla luce della disciplina
legislativa in materia di trasparenza e devono essere tali da non attenuare o addirittura vanificare la
portata precettiva della stessa. Esemplificando, la protezione dell’interesse alla riservatezza
finanziaria e professionale deve essere raccordata, sia pure nel rispetto del principio di
proporzionalità, al dovere sopra descritto di rendere pubblici tutti i dati inerenti allo svolgimento
della prestazione lavorativa di chi sia addetto a una funzione pubblica e, quindi, i dati concernenti i
compensi da questi percepiti (e non anche, per esempio, la generale situazione patrimoniale
familiare o personale) o la valutazione delle prestazioni rese da questi soggetti nell’ambito del
processo di misurazione e valutazione delle pubbliche amministrazioni e dei suoi agenti.
Nell’ipotesi in cui, per le ragioni prima indicate, i dati non vengano pubblicati sul sito, è
necessario che la riconducibilità delle informazioni sottratte alla pubblicazione alle categorie di
esclusione sopra individuate sia indicata sul sito medesimo.
4. Redazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità
9
Le presenti linee guida hanno lo scopo di offrire istruzioni sulla predisposizione delle parti
del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, al fine di consentire l’adozione da parte
delle amministrazioni di un modello dotato di requisiti minimi essenziali e che consenta la
comparazione tra i dati pubblicati da diverse amministrazioni.
Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità deve fare riferimento minimo alle
seguenti dimensioni della trasparenza:
1. oggetto;
2. strumenti;
3. processo, comprensivo del coinvolgimento degli stakeholder.
Il Programma dovrà essere strutturato nelle seguenti parti, a loro volta suscettibili di
articolazioni più specifiche:
1. Selezione dei dati da pubblicare
Questa sezione del Programma contiene l’elenco dei dati che saranno inseriti all’interno
del sito. A tal riguardo, l’amministrazione deve tenere conto:
• delle prescrizioni di legge in materia di trasparenza;
• delle disposizioni in materia di dati personali, comprensive delle delibere
dell’Autorità garante;
• delle indicazioni riportate nelle presenti linee guida, in particolare nel paragrafo
4.2;
• della natura dei propri settori di attività e dei propri procedimenti, al fine di
individuare le aree più esposte a maggiore rischio di corruzione o semplicemente
di cattiva gestione;
2. Descrizione delle modalità di pubblicazione on line dei dati
In questa sezione devono essere indicate le attività inerenti alla predisposizione,
modifica o integrazione della sezione “Trasparenza, valutazione e merito” per renderla
coerente con quanto riportato nelle presenti linee guida, in particolare nei paragrafi 4.1.1
e 4.1.2.
3. Descrizione delle iniziative
Questa sezione indica le iniziative previste per garantire:
a. un adeguato livello di trasparenza, anche sulla base delle presenti linee guida;
b. la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità.
4. Sezione Programmatica
Questa sezione comprende:
a. le modalità di attuazione e le azioni previste;
b. i tempi di attuazione;
c. le strutture competenti per le diverse fasi di elaborazione ed esecuzione del
Programma;
d. le risorse dedicate;
e. gli strumenti di verifica dell’efficacia delle iniziative.
5. Collegamenti con il Piano della performance
10
In questa sezione sono indicati:
a. gli obiettivi, gli indicatori e i target presenti nel Piano della performance in
ambito di trasparenza;
b. la trasparenza delle informazioni relative alla performance.
6. Descrizione del processo di coinvolgimento degli stakeholder.
7. Posta elettronica certificata (PEC)
In questa sezione sono indicati:
a. il livello di funzionamento della PEC;
b. le eventuali azioni previste per l’adeguamento alla normativa.
8. Giornate della trasparenza.
4.1. Requisiti di forma
4.1.1. Indicazioni relative alla pubblicazione on line
In questa sede sono riportate le indicazioni generali relative alle modalità di pubblicazione
delle informazioni sui siti istituzionali delle amministrazioni, allo scopo di aumentarne il livello di
trasparenza, facilitando la reperibilità e l’uso delle informazioni da parte dei cittadini.
Si tratta, pertanto, di indicazioni relative agli adempimenti da adottare al fine di favorire
l’accesso da parte dell’utenza, mentre per le modalità tecniche si fa riferimento alla documentazione
dedicata allo scopo, tenendo in particolare conto le “Linee guida per i siti web della PA – art. 4 della
Direttiva 8/09 del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione” (di seguito “Linee
Guida Siti Web”), la cui versione più recente è stata pubblicata il 26 luglio 2010 sul sito del
Ministero della pubblica amministrazione e innovazione (www.innovazionepa.gov.it).
Le indicazioni sono suddivise in due sottoinsiemi:
a) indicazioni relative al formato, che hanno lo scopo di favorire l’utilizzo delle
informazioni e dei dati da parte degli utenti;
b) indicazioni relative alla reperibilità, che hanno lo scopo di favorire la ricerca delle
informazioni e dei dati.
L’allegato alle presenti linee guida - Esempio di struttura della sezione del sito
“Trasparenza, valutazione e merito” - contiene un modello esemplificativo di applicazione,
al sito internet di una generica amministrazione delle indicazioni contenute in questo
paragrafo. L’obiettivo di tale esempio è mostrare un concreto e semplice caso pratico al fine
di chiarire i concetti espressi, e non fornire ulteriori specifiche rispetto a quelle contenute
nelle presenti linee guida.
a) Indicazioni relative al formato
11
La pubblicazione on line dovrà essere effettuata in coerenza con quanto riportato nel
documento “Linee Guida Siti Web”, in particolare con le indicazioni, contenute nel suddetto
documento, relative ai seguenti argomenti:
•
trasparenza e contenuti minimi dei siti pubblici;
•
aggiornamento e visibilità dei contenuti;
•
accessibilità e usabilità;
•
classificazione e semantica;
•
formati aperti;
•
contenuti aperti.
Al fine di favorire il riuso e l’elaborazione delle informazioni e dei dati pubblicati sui siti
web e ad aumentarne la qualità, le amministrazioni sono inoltre tenute a:
1) pubblicare le informazioni e i dati, indicati al paragrafo 4.2 delle presenti linee guida,
nell’apposita sezione del sito istituzionale dell’amministrazione, di facile accesso e
consultazione, denominata “Trasparenza, valutazione e merito”. Questa sezione dovrà
essere raggiungibile da un link, chiaramente identificabile dall’etichetta “Trasparenza,
valutazione e merito” posto nell’homepage del sito stesso;
2) organizzare la suddetta sezione “Trasparenza, valutazione e merito” in modo che i
contenuti siano strutturati in coerenza con quanto indicato nel paragrafo 4.2 delle
presenti linee guida. La sezione, quindi, dovrà essere divisa in macroaree, ognuna
denominata come le categorie presenti nel paragrafo 4.2, ciascuna delle quali dovrà
contenere una voce per ogni contenuto specifico appartenente alla categoria stessa.
Facendo click sulle suddette voci, l’utente potrà avere accesso alle informazioni di
interesse. L’ordine delle voci all’interno della sezione dovrà corrispondere a quello
riportato nel paragrafo 4.2. Le voci dovranno essere previste anche se i rispettivi
contenuti non sono stati ancora pubblicati: in tal caso, dovrà essere visualizzato un
messaggio che indichi che i contenuti sono in via di pubblicazione e che riporti la data
prevista di pubblicazione. All’interno della sezione “Trasparenza, valutazione e merito”
dovrà essere presente, tra l’altro, il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e
al relativo stato di attuazione (si veda a tal proposito il paragrafo 4.1.2);
3) garantire la tempestività della pubblicazione delle informazioni e dei dati e la
trasparenza dei criteri di validità: ogni contenuto informativo dovrà essere corredato
dalla storia delle revisioni, che contenga la data di pubblicazione e le caratteristiche di
ogni revisione. A tal scopo, le informazioni superate e/o non più significative dovranno
essere archiviate o eliminate, secondo le indicazioni contenute nelle “Linee Guida Siti
Web” (in particolare, al paragrafo 3) e nel rispetto delle disposizioni in materia di
protezione dei dati personali. Particolare attenzione dovrà essere rivolta alla definizione
dei criteri di validità e delle politiche di archiviazione dei dati, soprattutto per quanto
attiene ai dati informativi relativi al personale (si veda a proposito il paragrafo 4.2);
4) contestualizzare chiaramente ogni contenuto informativo pubblicato (pagina web, file);
in particolare dovranno essere indicati:
o
la tipologia delle informazioni contenute (in modo sintetico);
o
il periodo a cui le informazioni si riferiscono. Ad esempio, l’anno per quanto
riguarda incarichi o compensi, la data di aggiornamento per quanto riguarda i
curricula, ecc.;
12
o
quale amministrazione (dipartimento, ufficio, ecc.) ha creato quel contenuto
informativo e a quale amministrazione (dipartimento, ufficio, ecc.) quel contenuto
si riferisce.
In applicazione dei principi sopra esposti, i dati di contesto dovranno essere inseriti
all'interno del contenuto informativo stesso. Ad esempio, l’anno cui si riferisce una
tabella dovrà essere inserito nel file contenente la tabella e non solamente nella pagina
web che ospita il link al file. Lo scopo della contestualizzazione è di garantire
l’individuazione della natura dei dati e la validità degli stessi, anche se il contenuto
informativo è reperito o letto al di fuori del contesto in cui è ospitato (sezione
“trasparenza” del sito web dell'amministrazione). Questo rischio si può verificare
quando l’accesso ai contenuti informativi avviene mediante motori di ricerca o anche
attraverso siti dove sono ospitate copie dei contenuti stessi. In queste ipotesi, infatti, può
risultare difficile accertare l’attualità dei contenuti, con l’ulteriore rischio di una lettura
poco chiara dei dati. Pertanto, ogni file, oggetto di pubblicazione sui siti istituzionali ai
sensi del successivo paragrafo 4.2, sarà prodotto tenendo conto di una sua possibile
lettura in un altro contesto e in un momento futuro. La contestualizzazione è, quindi,
essenziale al fine di caratterizzare compiutamente e senza errori il contenuto;
5) inserire all’interno della sezione “Trasparenza, valutazione e merito” strumenti di
notifica degli aggiornamenti (ad esempio, “Really Simple Syndication - RSS”), sia a
livello di intera sezione (viene notificato all’utente qualsiasi inserimento o modifica
all’interno della sezione) sia a livello di singolo argomento (all’utente vengono
notificati solo gli aggiornamenti relativi all’argomento/i selezionato/i);
6) pubblicare le informazioni e i documenti in formato aperto, in coerenza con le “Linee
Guida Siti Web”. Dovranno essere inoltre pubblicati, sempre in formato aperto, i dati
che sono alla base delle informazioni stesse (ad esempio, le tabelle contenute nei
documenti). I dati dovranno essere:
o
pubblicati in almeno uno dei formati aperti indicati, ma preferibilmente in più
formati (ad esempio, “eXtensible Markup Language” – XML, “Open Document
Format” – ODF, ecc.);
o
corredati da eventuali file di specifica (ad esempio, XSD – XML Scheme
Definition - per i file XML);
o
raggiungibili direttamente dalla pagina dove le informazioni di riferimento sono
riportate;
7) pubblicare on line, nella sezione dedicata alla performance, i dati provenienti
direttamente dalle proprie banche dati e legati ad aspetti di performance particolarmente
rilevanti per gli stakeholder (qualora la singola amministrazione utilizzi un sistema
informativo complesso ed evoluto). In particolare, sarebbe opportuno pubblicare,
sottoforma di opportune interfacce, le indicazioni relative allo stato di raggiungimento
dei target desiderati rispetto a obiettivi di particolare interesse; ciò in aggiunta alla
possibilità di scaricare il Piano e la Relazione sulla performance;
8) garantire, all’interno della sezione del sito dedicata alla trasparenza, la possibilità agli
utenti di fornire feedback e valutazioni relative alla qualità delle informazioni pubblicate
(ad esempio nei termini di precisione, completezza, correttezza, tempestività), al fine di:
o
coinvolgere i cittadini nell’attività dell’amministrazione;
o
aiutare l’amministrazione nel compito di garantire la qualità delle informazioni
rilevanti per gli utenti, grazie al controllo diffuso da parte di questi ultimi;
13
o
diffondere nei cittadini la consapevolezza della disponibilità delle informazioni e
dei meccanismi di funzionamento dell’amministrazione stessa.
L’amministrazione è tenuta ad agire tempestivamente a fronte delle segnalazioni fornite
dagli utenti. È raccomandato l’utilizzo di strumenti web 2.0, così come indicato nelle
“Linee Guida Siti Web” (paragrafo 6.3) 2 .
b) Indicazioni relative a classificazione, semantica e reperibilità delle informazioni
Le informazioni e i dati indicati al paragrafo 4.2 dovranno essere pubblicati nel sito web
dell’amministrazione in modo da favorire l’accesso e la reperibilità delle informazioni stesse da
parte dell’utenza.
Le amministrazioni dovranno attenersi alle indicazioni riportate nelle “Linee Guida Siti
Web” (paragrafi 4.2 e 5.1) relative a reperibilità, classificazione e semantica delle risorse presenti
sui siti.
Si raccomanda l’assegnazione, alle risorse informative relative alla trasparenza, di metadati
che le descrivano secondo lo “standard Dublin Core” (norma ISO 15836:200 –
www.dublincore.org), al fine di consentirne l’identificazione univoca e stabile, di agevolarne la
classificazione e di facilitarne la ricerca.
Le “Linee Guida Siti Web” (paragrafo 4.2) riportano i dettagli dell’inserimento delle
informazioni aggiuntive secondo lo “standard Dublin Core” e, per ogni contenuto minimo dei siti
web istituzionali, specificano quali metadati devono essere associati al contenuto stesso (nella
colonna “indicazioni reperibilità”). Per quei contenuti, indicati dalle presenti linee guida, che non
corrispondono alle tipologie indicate nella Tabella “Contenuti minimi dei siti web istituzionali”
(“Linee Guida Siti Web”, paragrafo 4.2 e tabella 5) o per i quali non sono presenti le indicazioni di
reperibilità, si rinvia a successive indicazioni che verranno fornite riguardo ai metadati da associare.
Naturalmente, l’attuale mancanza di indicazioni circa la formulazione dei metadati non esonera le
amministrazioni dall’obbligo di provvedere alla pubblicazione dei contenuti di tutte le categorie di
dati indicati nelle presenti linee guida.
4.1.2. Indicazioni relative alla pubblicazione del Programma triennale per la trasparenza
e l’integrità
L’articolo 11, comma 8, del d. lg. n. 150 del 2009 prevede che nella sezione del sito web
dell’amministrazione, denominata “Trasparenza, valutazione e merito”, deve essere pubblicato
anche il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ed il relativo stato di attuazione.
Al fine di favorire forme diffuse di controllo, la consultazione e la comprensione del
Programma triennale per la trasparenza e l’integrità da parte dei cittadini, le amministrazioni
dovranno:
2
L’evoluzione delle tecnologie web ha infatti messo a disposizione applicazioni (identificate genericamente con il termine “web 2.0”) che
permettono un elevato livello di interazione tra un sito e i propri utenti, che non sono più unicamente consumatori delle informazioni presenti sul sito
stesso, ma diventano invece contemporaneamente fruitori e creatori di contenuti, che a loro volta sono resi disponibili agli altri utenti. L’inserimento,
quindi, all’interno del sito, di strumenti web 2.0 - forum, blog, social network, ecc. -, che abbiano la finalità di condividere informazioni e opinioni
relative a tutti i vari aspetti della trasparenza, può rappresentare un punto di forza dell’amministrazione per quanto riguarda il coinvolgimento degli
stakeholder di riferimento. Le “Linee Guida Siti Web” – paragrafo 6.3, sottolineano infatti come “il coinvolgimento dei cittadini per migliorare la
gestione e la qualità dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione abbia come precondizione l’adozione dell’approccio web 2.0 per la
comunicazione e la condivisione delle risorse on line”.
14
1) pubblicare il Programma (e i relativi aggiornamenti annuali) in almeno un formato
aperto e standardizzato, secondo le indicazioni delle “Linee Guida Siti Web” (paragrafo
5.2). Le versioni del Programma degli anni precedenti vanno lasciate a disposizione sul
sito e rese accessibili tramite link;
2) pubblicare periodicamente, almeno semestralmente, lo stato di attuazione del
Programma, anch’esso in formato aperto e standard. Gli stati d’attuazione precedenti
vanno lasciati a disposizione sul sito e resi accessibili tramite link dalla pagina dove è
pubblicato il Programma triennale;
3) inserire sul sito, in coerenza con i documenti di cui ai punti precedenti, un prospetto
riepilogativo che riporti in modo intuitivo le informazioni relative alle azioni del
Programma e al relativo stato di attuazione, con particolare riferimento a quelle azioni
che producano risultati che hanno impatto diretto e forniscono utilità agli stakeholder.
Il prospetto riepilogativo dovrà:
o
essere realizzato in formato aperto, standard e facilmente interpretabile sia da un
utente che da un programma software;
o
contenere almeno i seguenti dati:
ƒ denominazione amministrazione;
ƒ data di ultimo aggiornamento dello stato di attuazione;
ƒ singole azioni del Programma e relativo stato di attuazione, secondo il
modello descritto nella tabella che segue.
Tabella 1: elementi relativi alle azioni del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità
Elemento
Descrizione elemento
Esempio
Descrizione
azione
Descrizione sintetica della azione.
“Pubblicazione on line
relativi
agli
dell’Amministrazione”.
Eventuale Link
azione
Eventuale collegamento a una pagina in cui l’azione viene
specificata e in cui vengono fornite informazioni aggiuntive.
“www .nomeente.gov.it/trasparenza/
Data inizialmente
prevista di
raggiungimento
Data in cui, secondo il Programma, l’azione produrrà il
risultato.
“01/03/2011”
Data attualmente
prevista di
raggiungimento
Eventuale data in cui, a fronte di uno slittamento dei tempi,
attualmente si prevede che la azione produrrà il risultato. Nel
caso in cui non siano previsti scostamenti, questa data
corrisponde
alla
“Data
inizialmente
prevista
di
raggiungimento”. Nel caso in cui siano invece previsti
scostamenti, l’elemento “Note relative allo scostamento” deve
contenere una descrizione delle problematiche che hanno
portato allo slittamento stesso.
“01/04/2011”
Note relative allo
scostamento
Descrizione delle problematiche che hanno portato a un
eventuale slittamento dei tempi previsti.
“Necessità di procedere a una nuova
gara”
Data effettiva di
raggiungimento
Data in cui la azione ha raggiunto il proprio risultato (se già
raggiunto).
“01/02/2011”
Percentuale di
completamento
Percentuale di completamento della azione.
“50%”
Link risultato
Collegamento a una pagina in cui viene mostrato all’utente il
risultato raggiunto. La pagina può contenere direttamente tale
risultato (nei casi ad esempio di pubblicazione on line di dati),
oppure fornire informazioni relative all’attività svolta (ad
esempio, documentazione, video e trascrizioni di conferenze).
“www .nomeente.gov.it/trasparenza/
dei dati
incarichi
/azioni/incarichi”, che porta a una
pagina descrittiva della azione.
/incarichi/2010”, che porta ai dati
relativi agli incarichi 2010.
“www. nomeente.gov.it/eventi/
/eventotrasparenza2010…”
15
4) fornire, in coerenza a quanto indicato nel paragrafo 4.1.1, strumenti di notifica degli
aggiornamenti (ad esempio, RSS) che permettano a un utente interessato di essere
informato in seguito a ogni aggiornamento dei dati pubblicati relativi al Programma
triennale per la trasparenza e l’integrità (Programma, stato di attuazione, dati del
prospetto riepilogativo).
4.1.3. Modalità di attuazione e termine di adozione del Programma triennale per la
trasparenza e l’integrità
L’articolo 11, comma 7, del d. lg. n. 150 del 2009 prevede che, nel Programma triennale per
la trasparenza e l’integrità, debbano essere specificate le modalità, i tempi di attuazione, le risorse
dedicate e gli strumenti di verifica dell’efficacia delle iniziative volte alla promozione della
trasparenza, della legalità e della cultura dell’integrità.
Ogni amministrazione è tenuta ad adottare il Programma triennale per la trasparenza e
l’integrità ed i suoi aggiornamenti annuali contestualmente alla redazione del Piano della
performance e, comunque, entro e non oltre il 31 gennaio di ogni anno.
Più in generale il Programma indica gli obiettivi di trasparenza di breve (un anno) e di lungo
periodo (tre anni). Si tratta, infatti, di un Programma triennale “a scorrimento” idoneo a consentire il
costante adeguamento del Programma stesso.
Il Programma deve specificare i termini temporali entro i quali l’amministrazione prevede il
raggiungimento di ciascun obiettivo di trasparenza nonché le eventuali note esplicative in caso di
mancato raggiungimento degli obiettivi nei termini originariamente previsti.
Nel caso in cui l’attuazione delle misure, indicate dal documento stesso, richieda un
significativo intervento di ristrutturazione del sito istituzionale tale da modificarne integralmente la
struttura e il funzionamento, l’amministrazione dovrà, comunque, procedere in due fasi:
-
la prima consisterà nella tempestiva pubblicazione dei dati (di cui al successivo
paragrafo 4.2), attraverso le modalità informatiche già in uso presso l’amministrazione,
da effettuare entro tre mesi dalla adozione del Programma, considerato che le
amministrazioni avrebbero già dovuto adempiere agli obblighi di trasparenza previsti
dalla legge;
-
la seconda fase consisterà nell’adeguamento delle modalità di pubblicazione on line in
conformità alle indicazioni contenute nei precedenti paragrafi 4.1.1 e 4.1.2 e nel
Programma 3 , nonché nell’eventuale integrazione delle informazioni già pubblicate, da
effettuare nei termini previsti dal Programma e, comunque, non oltre il 31 dicembre
2011.
Il Programma deve infine indicare:
a) le risorse dedicate alla sua attuazione, con particolare riferimento alle risorse umane e
strumentali utilizzate per il perseguimento degli obiettivi di trasparenza, nel rispetto del
limite generale dell’invarianza della spesa, previsto dalla legge;
b) i mezzi di promozione e diffusione all’interno e all’esterno dell’amministrazione, al fine
di una piena conoscenza del Programma da parte sia dei cittadini, sia delle singole
strutture dell’amministrazione chiamate a conseguire gli obiettivi di trasparenza;
3
Tali indicazioni temporali non escludono la possibilità per le amministrazioni di svolgere, in una fase successiva, attività di miglioramento e
adeguamento tecnologico del sito web, al fine di incrementarne la fruibilità dei contenuti, tenuto altresì conto delle innovazioni tecnologiche che
saranno in futuro eventualmente disponibili.
16
c) le modalità di effettuazione del monitoraggio relativo alla sua attuazione.
L’amministrazione dovrà, infatti, attuare processi infrannuali di riscontro dell’efficacia
del Programma, partendo dai quali procedere all’elaborazione di una relazione sullo
stato di attuazione del Programma con cadenza semestrale.
4.1.4. Strutture competenti
Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, come anticipato nel precedente
paragrafo, dovrà fornire adeguate indicazioni in ordine alle risorse dedicate all’attuazione del
Programma triennale per la trasparenza e l’integrità stesso e, più in generale, al perseguimento degli
obiettivi di trasparenza.
L’articolo 15, comma 2, lettera d), del d. lg. n. 150 del 2009 prevede, innanzitutto, che sia
l’organo di indirizzo politico-amministrativo di ciascuna amministrazione a definire il Programma
triennale per la trasparenza e l’integrità e gli eventuali aggiornamenti annuali.
Tale processo di definizione potrà estrinsecarsi in una forma di “regia” condivisa con
l’Organismo indipendente di valutazione (OIV), tenuto conto del fatto che la legge considera questo
organo “responsabile della corretta applicazione delle linee guida, delle metodologie e degli
strumenti predisposti dalla Commissione”, nonché quale soggetto che “promuove e attesta
l’assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza e all’integrità” (articolo 14, comma 4, lettere
f ) e g), del d. lg. n. 150 del 2009).
Sarà, quindi, compito dell’OIV esercitare un’attività di impulso e di attestazione
dell’adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, con l’ausilio della struttura
tecnica permanente.
L’adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà prevedere un
confronto con le associazioni rappresentate nel Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti,
così come previsto dall’articolo 11, comma 2, del d. lg. n. 150 del 2009. La partecipazione degli
stakeholder, infatti, consente di individuare profili di trasparenza che rappresentino un reale e
concreto interesse per la collettività degli utenti; tale apporto, come già detto, risulta duplicemente
vantaggioso in quanto contribuisce non solo a concentrare l’attenzione sui dati più rilevanti ai fini
del controllo sociale, ma anche a consentire una corretta individuazione degli obiettivi strategici dei
servizi pubblici con un’adeguata partecipazione dei cittadini (delibera n. 89 del 29 luglio 2010).
Sarà inoltre necessario prevedere, in capo agli uffici competenti (ad esempio, Uffici
Relazioni con il pubblico – URP e altri appositi sportelli di contatto e informazione per il pubblico,
Uffici stampa, call center), adeguate funzioni di raccordo, informazione e raccolta di suggerimenti e
commenti da parte del pubblico, da trasmettere all’interno dell’organizzazione secondo un
approccio di tipo bottom up.
Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà, infine, contenere la
designazione di un dirigente che sia il referente non solo del procedimento di formazione, adozione
e attuazione del Programma, ma dell’intero processo di realizzazione di tutte le iniziative volte, nel
loro complesso, a garantire un adeguato livello di trasparenza, nonché la legalità e lo sviluppo della
cultura dell’integrità 4 . Tale responsabilità graverà sul referente come sopra indicato, unitamente al
responsabile delle informazioni in relazione alle quali si sia verificata la violazione dell’obbligo di
trasparenza.
4
A tal fine, il soggetto referente sarà responsabile altresì dei rapporti con gli stakeholder, in particolare dei rapporti con le associazioni dei
consumatori, in modo da facilitare lo scambio di informazioni sulla buona gestione della pubblica amministrazione.
17
Tale designazione rileva sia ai fini dell’accountability interna in relazione all’effettivo
adempimento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, sia dell’applicazione delle
misure sanzionatorie previste dall’articolo 11, comma 9, del d. lg. n. 150 del 2009, in caso di
mancata adozione e realizzazione del Programma o di mancato assolvimento degli obblighi di
pubblicazione previsti dai precedenti commi 5 e 8.
4.2. Pubblicazione on line dei dati
La nuova disciplina della trasparenza prevista dal d. lg. n. 150 del 2009 afferma, come già
evidenziato nel paragrafo 1, il diritto dei cittadini a un’accessibilità totale alle informazioni
pubbliche, per le quali non esistano specifici limiti previsti dalla legge (paragrafo 3.1). Questo
obiettivo si rende attuabile prevalentemente 5 attraverso lo strumento dell’accesso telematico, quello
in grado di meglio garantire accessibilità in modo diffuso.
Si tratta di dati relativi alle risorse utilizzate dalle amministrazioni nell’espletamento delle
proprie attività – la cui “buona gestione” dà attuazione al valore costituzionale del buon andamento
della pubblica amministrazione – e che rivelano come vengono gestite tali risorse, a partire da
quelle umane. È in quest’ottica che deve essere interpretata la previsione, ad esempio, della
pubblicazione di curricula, retribuzioni ed altri dati relativi al personale degli uffici di supporto agli
organi di indirizzo politico-amministrativo, di quello dirigenziale e di quello non dirigenziale delle
pubbliche amministrazioni. I dati oggetto di interesse riguardano, quindi, il rapporto tra
l’amministrazione e il dipendente pubblico o, più in generale, il soggetto legato a vario titolo con la
stessa. In tal senso, come verrà evidenziato nel prosieguo, l’individuazione dei dati da pubblicare e
dei soggetti cui i dati ineriscono, contenuta nell’elenco che segue, è volta a evitare inammissibili
lacune nella trasparenza delle informazioni in questione.
Per le stesse ragioni, oggetto di interesse sono anche i dati relativi all’organizzazione, alla
performance e ai procedimenti, alle buone prassi e ai pagamenti, alle sovvenzioni.
La conoscenza complessiva di questi dati fornisce, peraltro, rilevanti indicazioni in merito
alla performance delle amministrazioni, da cui l’evidente collegamento instaurato dal d. lg. n. 150
del 2009 tra la disciplina della trasparenza e quella della performance oggetto di misurazione e
valutazione.
Il legislatore, infatti, nel perseguimento di tali obiettivi, ha previsto obblighi di
pubblicazione on line di una lunga serie di dati 6 , dando luogo a una forte frammentazione della
disciplina e, a volte, anche a sovrapposizioni tra le stesse previsioni. Si tratta di un quadro
normativo estremamente ampio, di cui gli obblighi di pubblicazione previsti dal comma 8
dell’articolo 11 del d. lg. n. 150 del 2009 costituiscono soltanto una parte. In questo quadro
rientrano: il decreto del Presidente della Repubblica 7 aprile 2000, n. 118; il decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165; il decreto del Presidente della Repubblica 23 aprile 2004, n. 108; il d. lg. 7
marzo 2005, n. 82; il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture); la l. n. n. 69 del 2009. Le presenti linee guida - e conseguentemente i
Programmi triennali di ciascuna amministrazione - costituiscono, pertanto, un’importante
opportunità di riordino e razionalizzazione dei vigenti obblighi di pubblicazione on line da parte
delle amministrazioni.
5
L’accesso telematico dovrà infatti essere affiancato da più tradizionali strumenti di informazione (es. volantini informativi disponibili presso gli
URP, comunicazioni affisse negli uffici comunali, ecc.), per garantire un supporto adeguato a chi su tutto il territorio nazionale non abbia, per diversi
motivi, facile accesso al web.
6
E’ evidente che la pubblicazione dei dati già previsti dalla legge deve essere fatta indipendentemente dalla preventiva adozione del Programma
triennale per la trasparenza e l’integrità.
18
L’individuazione dei dati (primari e di natura “accessoria”) oggetto di pubblicazione è stata,
quindi, effettuata sulla base sia delle diverse disposizioni vigenti che prevedono obblighi di
pubblicazione dei dati, sia della più generale esigenza, normativamente posta, di assicurare una
totale trasparenza dell’azione amministrativa. Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità
dovrà, dunque, contenere un’apposita sezione dedicata alla disciplina degli obblighi di
pubblicazione on line dell’amministrazione, tenendo conto delle categorie di dati indicate dalle
presenti linee guida. In altri termini, nella predisposizione di questa sezione del Programma
triennale, le amministrazioni si dovranno attenere a quanto specificamente riportato dalle linee
guida, in ordine all’individuazione dei dati che devono essere pubblicati sui siti istituzionali.
Si precisa che gli obblighi di trasparenza, e quindi di pubblicazione dei dati relativi al personale
delle amministrazioni si riferiscono a tutto il personale, comprendendovi il personale in regime di
diritto pubblico (ivi compresi i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e
procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della
carriera diplomatica e della carriera prefettizia), i dipendenti legati alle amministrazioni con
contratto di diritto privato nonché quei soggetti terzi che entrano in rapporto con le amministrazioni
con le modalità di seguito elencate.
Categorie di dati e contenuti specifici:
1) Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e relativo stato di attuazione
(articolo 11, comma 8, lettera a), del d. lg. n. 150 del 2009);
2) Piano e Relazione sulla performance (articolo 11, comma 8, lettera b), del d. lg. n. 150
del 2009);
3) Dati informativi sull’organizzazione e i procedimenti:
a) informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione (organigramma,
articolazione degli uffici, attribuzioni e organizzazione di ciascun ufficio anche di
livello dirigenziale non generale, nomi dei dirigenti responsabili dei singoli uffici,
nonché settore dell’ordinamento giuridico riferibile all’attività da essi svolta articolo 54, comma 1, lettera a), del d. lg. n. 82 del 2005);
b) elenco completo delle caselle di posta elettronica istituzionali attive, specificando se
si tratta di una casella di posta elettronica certificata (articolo 54, comma 1, lettera d),
del d. lg. n. 82 del 2005);
c) elenco delle tipologie di procedimento svolte da ciascun ufficio di livello dirigenziale
non generale, il termine per la conclusione di ciascun procedimento ed ogni altro
termine procedimentale, il nome del responsabile del procedimento e l’unità
organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento
procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento finale (articolo 54, comma
1, lettera b), del d. lg. n. 82 del 2005);
d) scadenze e modalità di adempimento dei procedimenti individuati ai sensi degli
articoli 2 e 4 della l. n. 241 del 1990 (articolo 54, comma 1, lettera c), del d. lg. n. 82
del 2005);
e) informazioni circa la dimensione della qualità dei servizi erogati (ai sensi dei principi
di cui all’articolo 11 del d. lg. n. 150 del 2009 e delle indicazioni di cui alla delibera
n. 88 del 24 giugno 2010);
f) carta della qualità dei servizi alla cui emanazione sia tenuto il soggetto erogatore del
servizio.
4) Dati informativi relativi al personale:
19
a) curricula e retribuzioni dei dirigenti, con specifica evidenza sulle componenti
variabili della retribuzione e sulle componenti legate alla retribuzione di risultato
(articolo 11, comma 8, lettere f) e g), del d. lg. n. 150 del 2009), indirizzi di posta
elettronica, numeri telefonici ad uso professionale (articolo 21 della l. n. 69 del
2009), ruolo - data di inquadramento nella fascia di appartenenza o in quella
inferiore, data di primo inquadramento nell’amministrazione, decorrenza e termine
degli incarichi conferiti ex articolo 19, commi 3 e 4, del d. lg. n. 165 del 2001 (articolo 1, comma 7, del D.P.R. n. 108 del 2004);
b) curricula dei titolari di posizioni organizzative (articolo 11, comma 8, lettera f), del
d. lg. n. 150 del 2009);
c) curricula, retribuzioni, compensi ed indennità di coloro che rivestono incarichi di
indirizzo politico amministrativo e dei relativi uffici di supporto, ivi compresi, a
titolo esemplificativo, i vertici politici delle amministrazioni, i capi di gabinetto e gli
appartenenti agli uffici di staff e di diretta collaborazione nei ministeri; i titolari di
altre cariche di rilievo politico nelle regioni e negli enti locali (articolo 11, comma 8,
lettera h), del d. lg. n. 150 del 2009);
d) nominativi e curricula dei componenti degli OIV e del Responsabile delle funzioni
di misurazione della performance di cui all’articolo 14 7 (articolo 11, comma 8,
lettera e), del d. lg. n. 150 del 2009);
e) tassi di assenza e di maggiore presenza del personale distinti per uffici di livello
dirigenziale (articolo 21 della l. n. 69 del 2009), nonché il ruolo dei dipendenti
pubblici (articolo 55, comma 5, del D.P.R. n. 3 del 1957);
f) retribuzioni annuali, curricula, indirizzi di posta elettronica, numeri telefonici ad uso
professionale di segretari provinciali e comunali (articolo 21 della l. n. 69 del 2009);
g) ammontare complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e l’ammontare
dei premi effettivamente distribuiti (articolo 11, comma 8, lettera c), del d. lg. n. 150
del 2009);
h) analisi dei dati relativi al grado di differenziazione nell’utilizzo della premialità, sia
per i dirigenti sia per i dipendenti (articolo 11, comma 8, lettera d), del d. lg. n. 150
del 2009);
i) codici di comportamento (articolo 55, comma 2, del d. lg. n. 165 del 2001 così come
modificato dall’articolo 68 del d. lg. n. 150 del 2009);
5) Dati relativi a incarichi e consulenze:
a) incarichi retribuiti e non retribuiti conferiti a dipendenti pubblici e ad altri soggetti
(articolo 11, comma 8, lettera i), del d. lg. n. 150 del 2009 e articolo 53 del d. lg. n.
165 del 2001). Gli incarichi considerati sono: i) incarichi retribuiti e non retribuiti
conferiti o autorizzati dalla amministrazione ai propri dipendenti in seno alla stessa
amministrazione o presso altre amministrazioni o società pubbliche o private; ii)
incarichi retribuiti e non retribuiti conferiti o autorizzati da una amministrazione ai
dipendenti di altra amministrazione; iii) incarichi retribuiti e non retribuiti affidati, a
qualsiasi titolo, da una amministrazione a soggetti esterni. In ordine a questa
tipologia di informazioni è necessario indicare: soggetto incaricato, curriculum di
tale soggetto, oggetto dell’incarico, durata dell’incarico, compenso lordo, soggetto
conferente, modalità di selezione e di affidamento dell’incarico e tipo di rapporto,
7
Con il termine Responsabile delle funzioni di misurazione della performance si intende il Responsabile tecnico della funzione di misurazione della
performance da individuarsi nel Responsabile della struttura tecnica permanente, il quale “deve possedere una specifica professionalità ed esperienza
nel campo della misurazione della performance nelle amministrazioni pubbliche” (art. 14, comma 10 d. lg. 150 del 2009).
20
dichiarazione negativa (nel caso in cui l’amministrazione non abbia conferito o
autorizzato incarichi).
6) Dati sulla gestione economico-finanziaria dei servizi pubblici:
a) servizi erogati agli utenti finali e intermedi (ai sensi dell’articolo 10, comma 5, del d.
lg. 7 agosto 1997, n. 279), contabilizzazione dei loro costi ed evidenziazione dei
costi effettivi e di quelli imputati al personale per ogni servizio erogato, nonché il
monitoraggio del loro andamento (articolo 11, comma 4, del d. lg. n. 150 del 2009),
da estrapolare in maniera coerente ai contenuti del Piano e della Relazione sulla
performance;
b) contratti integrativi stipulati, relazione tecnico-finanziaria e illustrativa, certificata
dagli organi di controllo, informazioni trasmesse ai fini dell’inoltro alla Corte dei
Conti, modello adottato ed esiti della valutazione effettuata dai cittadini sugli effetti
attesi dal funzionamento dei servizi pubblici in conseguenza della contrattazione
integrativa (articolo 55, comma 4, del d. lg. n. 150 del 2009);
c) dati concernenti consorzi, enti e società di cui le pubbliche amministrazioni facciano
parte, con indicazione, in caso di società, della relativa quota di partecipazione
nonché dati concernenti l’esternalizzazione di servizi e attività anche per il tramite di
convenzioni.
7) Dati sulla gestione dei pagamenti:
a) indicatore dei tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e
forniture (indicatore di tempestività dei pagamenti), nonché tempi medi di
definizione dei procedimenti e di erogazione dei servizi con riferimento all’esercizio
finanziario precedente (articolo 23, comma 5, della l. n. 69 del 2009).
8) Dati relativi alle buone prassi:
a) buone prassi in ordine ai tempi per l’adozione dei provvedimenti e per l’erogazione
dei servizi al pubblico (articolo 23, commi 1 e 2, della l. n. 69 del 2009).
9) Dati su sovvenzioni, contributi, crediti, sussidi e benefici di natura economica:
a) istituzione e accessibilità in via telematica di albi dei beneficiari di provvidenze di
natura economica (articoli 1 e 2 del D.P.R. n. 118 del 2000).
10) Dati sul “public procurement”:
a) dati previsti dall’articolo 7 del d. lg. n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture). Si precisa che l’individuazione di tali dati, ai fini della
loro pubblicazione, spetta all’Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture.
Ferma la tassatività della previsione normativa dei dati di cui ai punti 4) e 5) nonché i limiti
di cui alla protezione dei dati personali, le pubbliche amministrazioni potranno provvedere alla
pubblicazione di ulteriori dati che siano utili a garantire un adeguato livello di trasparenza.
4.3. Ulteriori iniziative
Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà, infine, contenere l’indicazione
di una serie di iniziative volte, nel loro complesso, a garantire un adeguato livello di trasparenza, la
legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità (articolo 11, comma 2, del d. lg. n. 150 del 2009).
21
Si tratta di attività individuate dalle stesse amministrazioni sulla base delle caratteristiche,
delle funzioni svolte e della propria organizzazione.
La Commissione auspica l’adozione di alcuni strumenti quali, ad esempio quelli riportati
nella seguente tabella.
Tabella 2: iniziative volte a garantire trasparenza, legalità e sviluppo della cultura dell’integrità
Iniziativa
Destinatari
Risultato
Sessioni di formazione nell’ambito di quelle già
previste da ogni pubblica
amministrazione - in aula e a
distanza
(mediante
piattaforme di web learning)
in materia di trasparenza e
integrità.
Personale di ogni singola
pubblica amministrazione.
Acquisizione di nozioni e casi pratici che possano aiutare,
in un’ottica preventiva e correttiva, ad individuare aree
sensibili e comportamenti a rischio.
Forum per la condivisione di
best practice in materia di
trasparenza e integrità.
Personale che si occupa di
trasparenza e integrità, in
particolare enti di piccole
dimensioni e poco strutturati.
Mettere a disposizione idee, modelli, documenti da
utilizzare per gli adempimenti previsti dalla legge in
materia di trasparenza e integrità.
Forme di comunicazione e
coinvolgimento dei cittadini
in materia di trasparenza e
integrità
(questionari,
convegni, opuscoli).
Cittadini e associazioni dei
consumatori.
a)
Ottenere i feedback da parte degli utenti per
individuare le aree a maggiore rischio di
mancata trasparenza e integrità (questionari);
b)
Facilitare la reperibilità ed uso delle
informazioni contenute nei siti delle pubbliche
amministrazioni e il collegamento delle
informazioni fornite ai servizi pubblici
(opuscoli);
c)
Aumentare percezione dei miglioramenti dei
servizi pubblici e degli sforzi posti in essere per
ottenere i miglioramenti ottenuti e quelli in
programma per il futuro (opuscoli, convegni).
Creazione di spazi (ad
esempio nella forma di FAQ
o guide sintetiche) all’interno
dei siti delle amministrazioni.
Destinatari diretti: pubbliche
amministrazioni.
a)
Dare spazio e rispondere ai suggerimenti e
feedback pervenuti dal pubblico;
Destinatari indiretti: cittadini.
b)
Eliminare la distanza tra cittadini e pubbliche
amministrazioni.
Creazione di una community
mediante organizzazione di
seminari, convegni, ecc. in
materia di trasparenza e
integrità per condividere
esperienze, documenti, idee.
Enti (pubbliche amministrazioni, associazioni, fondazioni,
ecc.).
Realizzazione di un network.
4.4. Posta elettronica certificata (PEC)
Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità deve indicare quali sono le azioni e i
relativi tempi previsti dalle amministrazioni ai fini dell’attuazione dell’articolo 11, comma 5, del d.
lg. n. 150 del 2009, in materia di PEC. Più esattamente, deve essere esplicitato entro quale termine
ogni singolo risultato, relativo all’attuazione di tale strumento, verrà raggiunto e in quale modo i
cittadini potranno verificarne l’effettivo conseguimento, al fine del controllo diffuso dell’attuazione
del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità. Al riguardo, rilevano i parametri generali di
cui al precedente paragrafo 4.1.2.
22
La previsione di una disciplina della PEC all’interno del Programma triennale per la
trasparenza e l’integrità è funzionale all’attuazione dei principi di trasparenza e risponde agli
obblighi previsti dal legislatore anche in precedenti normative (articolo 6, comma 1, del d. lg. n. 82
del 2005, articoli 16, comma 8, e 16-bis, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185,
convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e articolo 34, comma 1, della l. n.
69 del 2009).
Ai fini di tale regolazione e dell’attuazione dello strumento, si rinvia alla dettagliata
documentazione fornita da DigitPA (http://www.digitpa.gov.it/pec).
5. Giornate della trasparenza
Ai sensi dell’articolo 11, comma 6, del d. lg. n. 150 del 2009, ogni amministrazione ha
l’obbligo di presentare il Piano e la Relazione sulla performance, di cui all’articolo 10, comma 1,
lettere a) e b) del medesimo decreto, alle associazioni di consumatori o utenti, ai centri di ricerca e a
ogni altro osservatore qualificato, nell’ambito di apposite giornate della trasparenza senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica.
Il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità dovrà, pertanto, contenere la
previsione di un’agenda di incontri, ai fini della presentazione del Piano e della Relazione sulla
performance.
Tali incontri potranno essere, inoltre, la sede opportuna per fornire informazioni sul
Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, stante lo stretto collegamento tra la disciplina
della trasparenza e quella della performance, nonché l’occasione per condividere best practice,
esperienze e - una volta implementati i modelli e le indagini sul personale dipendente affidate agli
OIV dall’articolo 14, comma 5, del d. lg. n. 150 del 2009 - i risultati delle rilevazioni relative al
“clima” lavorativo, al livello dell’organizzazione del lavoro, oltre che al grado di condivisione del
Sistema di valutazione.
6. Attività di verifica e vigilanza della Commissione
Ai sensi dell’articolo 13, comma 8, del d. lg. n. 150 del 2009, la Commissione, attraverso la
Sezione per l’integrità nelle amministrazioni pubbliche, verifica l’effettiva adozione del Programma
triennale per la trasparenza e l’integrità e vigila sul rispetto degli obblighi in materia di trasparenza
da parte di ciascuna amministrazione.
La Commissione dispone, pertanto, di un potere di controllo sugli adempimenti previsti
dalla legge in materia di trasparenza nelle pubbliche amministrazioni e, a tal fine provvederà,
nell’ambito della propria autonomia, ad adottare le necessarie misure organizzative.
Al fine di una più efficace vigilanza sulle attività delle amministrazioni, la Commissione, in
primo luogo, si avvarrà anche della cooperazione degli OIV delle singole amministrazioni, chiamati
a promuovere e ad attestare l’assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza e all’integrità, ai
sensi dell’articolo 14, comma 4, lettera g), del d. lg. n. 150 del 2009. Tali Organismi sono, pertanto,
tenuti ad un costante aggiornamento della Commissione in ordine alle attività adottate dalle
amministrazioni in materia di trasparenza, all’attuazione del Programma triennale per la trasparenza
e l’integrità ed ai relativi sviluppi. Analogo apporto collaborativo potrà essere richiesto o
spontaneamente fornito dalle associazioni rappresentative di cittadini e utenti.
23
Il tardivo o mancato rispetto dei contenuti delle presenti linee guida, nonché la tardiva o
mancata adozione e attuazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e, più in
generale, l’inadempimento degli obblighi in materia di trasparenza, sono oggetto sia di valutazione,
sia di segnalazione da parte della Commissione.
Se, a seguito delle opportune valutazioni, la Commissione riscontrasse la sussistenza di uno
o più dei predetti inadempimenti, procederà ad apposita segnalazione all’organo di indirizzo
politico-amministrativo dell’amministrazione inadempiente, responsabile per la definizione e gli
aggiornamenti del Programma ai sensi dell’articolo 15, comma 2, lettera d), del d. lg. n. 150 del
2009, anche ai fini della sanzione di cui all’articolo 11, comma 9 del d. lg. n. 150 del 2009.
La Commissione potrà, inoltre, effettuare segnalazioni delle amministrazioni inadempienti al
Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.
Qualora le amministrazioni, a seguito delle segnalazioni della Commissione, non procedano
al tempestivo assolvimento degli obblighi segnalati, la stessa potrà provvedere alla pubblicazione
sul proprio sito istituzionale (www.civit.it) di tali rilievi con l’indicazione delle amministrazioni
inadempienti.
I risultati dell’attività di verifica e vigilanza della Commissione, oltre che pubblicati sul sito
della Commissione, saranno anche oggetto della relazione annuale rivolta al Ministro per
l’attuazione del Programma di governo, prevista dall’articolo 13, comma 9, del d. lg. n. 150 del
2009.
Roma, 15 ottobre 2010
Il Presidente
Antonio Martone
24
2 - Esempio di struttura della sezione del sito “Trasparenza, valutazione e merito”
(allegato alla delibera n. 105 del 15 ottobre 2010)
Introduzione
Questo allegato alle “Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per la
trasparenza e l’integrità” contiene un modello esemplificativo di applicazione delle indicazioni al
sito internet di una generica amministrazione. L’obiettivo del modello non è fornire specifiche
ulteriori rispetto a quelle contenute nel suddetto documento, ma solo chiarire i concetti espressi, in
particolare all’interno del paragrafo “4.1 - I requisiti di forma”, mostrando un concreto e semplice
caso di applicazione.
E’ opportuno, infatti, che ogni amministrazione recepisca le indicazioni riportate nelle linee
guida adattandole alla struttura del proprio sito, in modo da garantire la coerenza complessiva del
sito stesso. Ad esempio, nel modello esemplificativo illustrato in questo allegato, il menù di sinistra
è strutturato in due livelli. Questa non è una indicazione tassativa per le amministrazioni, in quanto
nulla si dice nelle linee guida a riguardo. Lo stesso vale per le altre caratteristiche del modello
esemplificativo che non rispecchiano una specifica indicazione delle linee guida, come il
posizionamento degli elementi all’interno delle pagine, i formati aperti scelti, etc.
L’allegato contiene la descrizione della struttura di alcune parti del sito, a partire dalla
sezione “Trasparenza, valutazione e merito”, scendendo in profondità fino a mostrare la struttura di
una pagina di livello ultimo relativa ai dati dei dirigenti. In questa pagina è possibile avere
un’immagine dei concetti espressi nel paragrafo 4.1.1 delle linee guida.
Viene infine mostrata la struttura della pagina contenente il Programma triennale per la
trasparenza e l’integrità e il relativo stato di attuazione, al fine di chiarire le indicazioni riportate nel
paragrafo 4.1.2 delle linee guida.
All’interno del modello esemplificativo vengono usate le seguenti convenzioni:
1. la voce del menù di sinistra a cui si riferisce la pagina è evidenziata in azzurro;
2. le voci navigabili sono identificate dalla sottolineatura.
Le pagine più ricche di elementi di interesse sono corredate da note esplicative.
Per semplificare la comprensione, viene di seguito illustrata la gerarchia delle pagine
riportate nel modello:
1. Sezione “Trasparenza, valutazione e merito”
1.1. Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e relativo stato di attuazione
1.2. Piano e relazione sulla performance
1.3. Dati sull’organizzazione e i procedimenti
1.4. Dati relativi al personale
1.4.1. Dati relativi ai dirigenti
1.4.2. Curricula dei titolari di posizioni organizzative
1.4.3. Dati del personale politico-amministrativo
1.4.4. Curricula degli OIV
1.4.5. Tassi di assenza e maggior presenza e ruolo
1.4.6. Dati relativi ai Segretari provinciali/comunali
1.4.7. Premi collegati alla performance
1.4.8. Differenziazione premialità
1.4.9. Codici di comportamento
25
1.5. Dati relativi a incarichi e consulenze
1.6. Dati sulla gestione economico-finanziaria dei servizi pubblici
1.7. Dati sulla gestione dei pagamenti
1.8. Dati relativi alle buone prassi
1.9. Dati su sovvenzioni, contributi, crediti, sussidi e benefici di natura economica
1.10.
Dati sul public procurement
Sezione 1 - Trasparenza, valutazione e merito
Questa sezione è raggiungibile da un link, chiaramente identificabile dall’etichetta “Trasparenza,
valutazione e merito” posto nell’homepage del sito.
Testata del sito
Voce1
Voce2
‐
…
Trasparenza, valutazione e
merito
• Programma trasparenza
• Piano della performance
• Organizzazione
• Personale
• Incarichi e consulenze
• Gestione economico/
finanziaria
• Gestione pagamenti
• Buone prassi
• Sovvenzioni e contributi
• Public Procurement
…
‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
Trasparenza, valutazione e merito
Programma triennale per la trasparenza e
integrità e relativo stato di attuazione
Piano della performance
Dati sull’organizzazione e i procedimenti
Dati relativi al personale
Dati relativi a incarichi e consulenze
Dati sulla gestione economico-finanziaria dei
servizi pubblici
Dati sulla gestione dei pagamenti
Dati relativi alle buone prassi
Dati su sovvenzioni, contributi, crediti, sussidi
e benefici di natura economica
Dati sul public procurement
Menu
VoceN
26
Sezione 1.4 - Dati relativi al personale
Testata del sito
Voce1
Dati relativi al personale
Menu
Voce2
…
Trasparenza, valutazione e
merito
• Programma trasparenza
• Piano della performance
• Organizzazione
• Personale
• Incarichi e consulenze
• Gestione economico/
finanziaria
• Gestione pagamenti
• Buone prassi
• Sovvenzioni e contributi
• Public Procurement
‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
‐
Dirigenti
Titolari di posizioni organizzative
Incarichi di indirizzo politico amministrativo
Organismi Indipendenti di Valutazione
Ruolo e tassi di assenza e maggior presenza
Segretari provinciali/comunali
Premi collegati alla performance
Differenziazione premialità
Codici di comportamento
…
VoceN
27
Sezione 1.4.1 - Dati relativi ai Dirigenti
Testata del sito
Voce1
Voce2
…
Dirigente
Trasparenza, valutazione e
merito
• Programma trasparenza
• Piano della performance
• Organizzazione
• Personale
• Incarichi e consulenze
• Gestione economico/
finanziaria
• Gestione pagamenti
• Buone prassi
• Sovvenzioni e contributi
• Public Procurement
…
Menu
Dati relativi ai dirigenti - 2010
Curricula, riferimenti e retribuzioni (PDF)
Mario
Bianchi
Francesca
Rossi
…
Retribuzione
analitica
XXX.XXX €
Curriculum
Tel
Mail
Link
…
…
XXX.XXX €
Link
…
…
…
…
…
…
Dati analitici 2010
specifiche XSD
XML –
ODS – specifiche
ODS
Ruolo dei dirigenti (PDF)
VoceN
Storia delle revisioni
Dati anni precedenti
NOTE:
- Link con il quale è possibile sottoscriversi al Feed RSS.
PDF – Link al file PDF contenente le informazioni riportate. Il file deve essere contestualizzato
(devono essere indicati la tipologia dei dati, il periodo e l’amministrazione di riferimento).
Dati analitici 2010 – Elenco di link ai file contenenti i dati analitici che sono alla base delle
informazioni riportate nella sezione. I file devono essere contestualizzati.
XML - File XML contenente i dati analitici.
XSD – File XSD che contiene la definizione del formato del file XML precedente.
ODS – Foglio di calcolo in formato Open Document Format (ODF) contenente i dati analitici.
Specifiche ODS – Spiegazione del formato, del significato, della struttura del file ODS
precedente.
Storia delle revisioni – Link a una pagina in cui viene riportata la storia delle revisioni dei
documenti/dati inseriti.
Dati anni precedenti – Link a una pagina contenente i dati degli anni precedenti.
Partecipa – Link a spazi (forum, blog, ecc.) in cui gli utenti possono inserire feedback e
valutazioni sulle informazioni inserite (richieste chiarimenti, segnalazioni relative alla
completezza, correttezza, precisione, tempestività delle informazioni, ecc.) .
28
Sezione 1.1 - Programma triennale e stato di attuazione
Testata del sito
Voce1
Voce2
…
Trasparenza, valutazione e
merito
‐
‐
Programma triennale per la trasparenza e
integrità
Programma 2011-2013 (PDF)
Programmi anni precedenti
Menu
Stato di attuazione
• Programma trasparenza
• Piano della performance
• Organizzazione
• Personale
• Incarichi e consulenze
• Gestione economico/
finanziaria
• Gestione pagamenti
• Buone prassi
• Sovvenzioni e contributi
• Public Procurement
‐
‐
Stato attuazione 1° semestre 2011 (PDF)
Stati attuazione anni precedenti
Prospetto riepilogativo
‐
Prospetto riepilogativo – 25/7/2011
…
VoceN
29
Programma triennale – Prospetto riepilogativo
Testata del sito
Voce1
Prospetto riepilogativo programma trasparenza
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Voce2
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Trasparenza, valutazione e
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finanziaria
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1/10/2011
1/10/2011
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scostamento
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20/05/2011
20/05/2011
Nessuno
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20/05/2011
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30/09/2011
15/12/2011
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Giornata della
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Programma
della giornata
15/01/2011
15/01/2011
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15/01/2011
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Giornata della
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Programma
della giornata
15/02/2011
20/02/2011
Sala non
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20/02/2011
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Inserimento del
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Report,
video e
slide della
giornata
Report,
video e
slide della
giornata
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Roma, 15 ottobre 2010
Il Presidente
Antonio Martone
30
Coordinamento e governo dei dati
nel pluralismo amministrativo
di FRANCESCO MERLONI
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il pluralismo amministrativo dopo la riforma del
Titolo V della Costituzione. – 3. La pluralità delle informazioni pubbliche
(e delle loro utilizzazioni). – 4. Le attività conoscitive come funzioni implicite. – 5. Le tecnologie informatiche e la progressiva scomparsa delle
attività conoscitive strumentali. – 6. Le attività conoscitive come funzioni
ad elevato contenuto tecnico. – 7. Le attività conoscitive come funzioni finalizzate alla cura di interessi diversi. – 8. Il fondamento della regolazione
unitaria statale. – 9. Contenuti del potere di coordinamento dei dati. – 9.1.
La fissazione di regole nazionali uniformi. – 9.2. Le politiche di promozione di comportamenti omogenei. Il coordinamento per via normativa dei
dati. – 9.3. Il coordinamento come definizione di politiche di promozione
di comportamenti omogenei. Il coordinamento amministrativo dei dati.
Ripartizione delle competenze e leale collaborazione. – 10. Le funzioni di
garanzia.
1. Premessa
La domanda alla quale questo contributo si propone di dare
una risposta, sia pure schematica, è la seguente: secondo quali
regole si distribuisce, in un sistema amministrativo pluralistico
come quello italiano, il potere di gestire (di stabilire le regole di
gestione de) i dati pubblici?
Il tema è reso complicato non solo dalla complessità crescente
del nostro sistema amministrativo, contrassegnato da numerosi
livelli di governo e da numerosi e diversificati soggetti allo stesso
livello di governo, ma soprattutto dal confluire intorno ai dati
pubblici di interessi diversi e non facilmente componibili: gli
interessi ad una utilizzazione riservata dei dati e gli opposti
interessi ad una loro diffusione ampia, libera.
Non è questa la sede per ritornare sulla nozione stessa di dato
pubblico.
Ci basta qui partire dalla constatazione che le pubbliche
amministrazioni (più in generale le istituzioni pubbliche) rac-
154
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
colgono – in documenti dalla più diversa forma – delle informazioni, dei dati; e che questi dati, una volta raccolti e fissati nei
documenti, possono acquisire un valore conoscitivo ulteriore,
diverso da quello per il quale essi sono stati originariamente
raccolti e conservati.
Una amministrazione raccoglie informazioni utili all’adozione
di un provvedimento, per esempio, di autorizzazione all’esercizio di un’attività commerciale. I dati raccolti in sede istruttoria
sono utili ai fini della decisione, ma una volta che questa sia
stata assunta, i dati possono essere utilizzati anche ad altri fini
conoscitivi, di interesse della stessa amministrazione, di altre amministrazioni, della generalità dei cittadini. E a questo fine i dati
possono essere sottoposti a processi di elaborazione (statistica,
informatica) volti proprio ad attribuire ai dati il nuovo e diverso
valore conoscitivo. Nell’esempio appena fatto i dati raccolti ai
fini di un’autorizzazione commerciale possono essere utilizzati
per favorire il controllo democratico dei cittadini sull’operato del
Comune in materia di licenze commerciali, ovvero per favorire la
conoscenza sul numero di esercizi in atto e sulle caratteristiche
soggettive dei titolari delle autorizzazioni rilasciate.
In rapporto a questi dati si confrontano interessi diversi,
alcuni dei quali spingono per la restrizione dell’uso e altri verso
la loro massima diffusione.
In generale, tanto più i dati possono essere utilizzati per fini
diversi da quelli originari, tanto più si pongono esigenze di superamento di interessi conservativi e proprietari delle amministrazioni che hanno raccolto o che comunque detengono i dati
(attraverso la conservazione dei relativi documenti).
Allorché si realizza la scissione tra “titolarità” (1) del dato e sua
utilizzazione, si pone il tema della individuazione di un diverso
(1) È significativo che ormai, anche in virtù dei processi di cui qui si discute (il decentramento di funzioni amministrative, il forte interscambio di
informazioni consentito dalla rete di connettività) la disciplina più recente (in
particolare il Codice per la protezione dei dati personali e il Codice dell’amministrazione digitale) parlino, a proposito del rapporto tra amministrazioni
e informazioni/dati, di “titolarità” (dei dati o del trattamento dei dati). Del
fenomeno e del significato della titolarità dei dati si occupa il saggio di B.
PONTI, in questo volume.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
155
soggetto (rispetto all’amministrazione titolare) che presieda
all’utilizzo (o alla fissazione delle sue regole).
Così come si pone il problema della uniformità/omogeneità
delle regole sulla utilizzazione dei dati pubblici, proprio perché
esse sono al servizio di interessi generali che trascendono quelli
curati dalle amministrazioni titolari del dato.
Questo contributo si pone, quindi, l’obiettivo di ragionare sui
limiti entro i quali è possibile curare interessi unitari e generali
alla utilizzazione dei dati pubblici e sul livello di governo al quale
si devono curare questi interessi unitari.
2. Il pluralismo amministrativo dopo la riforma del Titolo
V della Costituzione
Il punto di partenza è, come si è detto, il pluralismo amministrativo.
Il sistema amministrativo italiano non è facilmente classificabile, dal momento che in esso si mescolano tratti di accentuato
centralismo e tratti di forte decentramento, il primo largamente
praticato, anche in presenza di una distribuzione delle competenze amministrative a favore di enti territoriali dotati di autonomia,
il secondo che resta per lo più nelle intenzioni del legislatore
(costituzionale e ordinario) (2).
Anche se il nostro sistema, soprattutto dopo l’entrata in vigore
della modifica del Titolo V, Parte II della Costituzione, appare
caratterizzato dal principio di sussidiarietà verticale e da ampie
garanzie di autonomia (normativa e finanziaria), non sono mancate interpretazioni, anche della giurisprudenza costituzionale,
a favore del mantenimento in capo allo Stato (che pure è solo
uno dei soggetti costitutivi della Repubblica, con pari dignità
istituzionale con gli altri livelli di governo) non solo di poteri
normativi per materie riservate perché attinenti ad interessi
unitari, ma anche di importanti funzioni amministrative, non
(2) Vedi F. MERLONI, Il paradosso italiano: “federalismo” ostentato e centralismo rafforzato, in Le Regioni, n. 4/2005 e T. GROPPI, La riforma del Titolo V della
costituzione tra attuazione e auto applicazione, in www.quadernicostituzionali.it.
156
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
solo nelle materie di competenza legislativa riservata, ma anche
nelle materie di competenza legislativa regionale (3).
In sintesi si può affermare che la pratica applicazione del
nuovo sistema delineato con la riforma costituzionale del 2001
non è andata affatto, come da molti ipotizzato, verso un modello
di tipo federale (caratterizzato dal ruolo costitutivo degli enti
che si uniscono, si “federano”, in una entità superiore), bensì
verso un sistema ancora fortemente guidato dalle scelte, dalle
politiche adottate dallo Stato; con un ampliamento, moderato,
delle capacità di attuazione delle politiche da parte degli enti
territoriali (4).
Questo ampliamento di capacità operativa degli enti territoriali si realizza con un maggiore decentramento di funzioni
amministrative (a partire dal livello di governo più vicino ai
cittadini, il Comune, e via via risalendo in rapporto al carattere
unitario delle funzioni) e con una maggiore autonomia. In attesa
di veder compiuto il processo di riconoscimento di una effettiva
autonomia finanziaria (in rapporto alle funzioni amministrative attribuite, secondo il principio di integrale copertura con
risorse autonome fissato dal nuovo art. 119, comma 4, della
Costituzione), molti sottolineano il riconoscimento di autonomia
normativa: statutaria, legislativa, regolamentare per le regioni,
statutaria e regolamentare per gli enti locali.
In realtà, in rapporto all’uso che gli enti territoriali hanno
fin qui fatto di questa autonomia normativa si può concludere
che lo scopo del suo riconoscimento non sta tanto nella differenziazione (5) delle politiche pubbliche o dei diritti riconosciuti
ai cittadini, quanto nella possibilità di adottare soluzioni orga-
(3) La sentenza n. 303 del 2003 è stata vista da molti come architrave di
questa interpretazione e come soluzione adeguata, perché flessibile, a porre
rimedio ad una errata ripartizione delle competenze. Per una critica vedi F.
MERLONI, Infrastrutture, ambiente e governo del territorio, in Le Regioni, 2007,
pp. 57 ss.
(4) Per una ricognizione sistematica degli indirizzi della giurisprudenza
costituzionale sull’attuazione della riforma del Titolo V, si v. i saggi raccolti
nel volume A. PIOGGIA, L. VANDELLI (a cura di), La Repubblica delle autonomie
nella giurisprudenza costituzionale, Bologna, 2006.
(5) Sulla nozione di differenziazione nel nuovo quadro istituzionale, si veda
E. CARLONI, Lo Stato differenziato, Torino, 2004.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
157
nizzative e procedurali differenziate, ma nel perseguimento di
obiettivi e risultati largamente predeterminati dalla legge (ancora
dalla legge statale).
Rappresentazione plastica di questa interpretazione sono le
due distinte serie di previsioni costituzionali: da un lato quelle
che vogliono l’organizzazione pubblica come differenziabile (6),
dall’altro quelle che riservano allo Stato materie attinenti interessi unitari trasversali e quindi relative anche a materie di
competenza (anche “residuale”) delle Regioni (7). Allo Stato la
possibilità di predeterminare dei risultati uniformi, a garanzia
di diritti di uguaglianza dei cittadini della Repubblica, agli enti
territoriali la possibilità di differenziare la risposta in termini
organizzativi e funzionali.
Pur con questi limiti, l’autonomia organizzativa garantita agli
enti territoriali, con la protezione dell’autonomia normativa (8)
dalle incursioni dello Stato, è in ogni caso significativamente
superiore rispetto alla situazione precedente, nella quale prevaleva l’uniformità (9).
(6) Si sottolineano a questo fine da un lato la riserva allo Stato della sola
materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti
pubblici nazionali” (art. 117, comma, 2, lett. g)), che implica che l’organizzazione regionale è soggetta alla sola legislazione delle Regioni; e dall’altro il
riconoscimento di autonomia normativa agli enti locali: “I Comuni, le Province
e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (art. 117,
comma 6).
(7) Tipica manifestazione di questo tipo di riserva è la disposizione dell’art.
117, comma 2, lett. m), che riserva alla competenza statale esclusiva la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
(8) La Corte costituzionale è intervenuta ripetutamente stabilendo la illegittimità costituzionale di norme statali che, con l’obiettivo di raggiungere altri
obiettivi (in particolare obiettivi di coordinamento e risanamento della finanza
pubblica) finivano per limitare eccessivamente l’autonomia organizzativa degli
enti territoriali (in particolare delle Regioni): si v.no, ex multis, Corte Cost., n.
88/2006; n. 270/2005; n. 390/2004; n. 370/2003.
(9) In particolare per gli enti locali, la legislazione statale – sulla base del
vecchio art. 128 Cost. – dettava una disciplina di estremo dettaglio, anche
dell’organizzazione interna. Ultimo lascito di questa tradizione uniformante
della legge statale è il T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs.
18 agosto 2000, n. 267). In questo senso vedi F. MERLONI, L’inutile riforma del
158
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
Anche quando garantisce interessi unitari (con legge, regolamenti, esercizio di funzioni amministrative riservate), lo Stato
deve rispettare l’autonomia organizzativa degli enti territoriali,
non può imporre soluzioni organizzative specifiche, a meno che
non siano strettamente necessarie alla cura di quegli interessi
unitari (da valutarsi secondo uno stretto scrutinio di proporzionalità).
3. La pluralità delle informazioni pubbliche (e delle loro
utilizzazioni)
Come si è detto, e come viene ormai largamente sottolineato,
le pubbliche amministrazioni sono sicuramente nelle società
contemporanee i maggiori produttori e comunque i maggiori
detentori di informazioni.
Queste informazioni sono detenute (attraverso la conservazioni dei relativi documenti) dalle amministrazioni per vari motivi:
perché esse stesse le hanno raccolte o perché esse provvedono
a raccogliere e conservare anche informazioni raccolte da altri
soggetti, pubblici e privati.
Le informazioni, dalla più semplice alla più elaborata, hanno
un sicuro valore conoscitivo, sono utili alla conoscenza della
realtà (attuale o passata, in prospettiva storica).
Le attività di raccolta (o produzione) delle informazioni, di
formazione e conservazioni di documenti, sono quindi attività
conoscitive.
Le informazioni (e le relative attività conoscitive) hanno un
valore conoscitivo diverso. A questo fine si distinguono informazioni (e relative attività) di tipo strumentale e non strumentale
(rilevanti di per sé).
La strumentalità dello svolgimento delle attività conoscitive
costituisce l’evento più noto e consolidato per le pubbliche amministrazioni. Basti pensare a tutti i casi in cui le informazioni/
dati sono raccolte in vista dell’esercizio di funzioni pubbliche,
come:
TUEL: per una legge generale sulle autonomie locali, in G. CLEMENTE DI SAN LUCA
(a cura di), Nodi problematici e prospettive di riforma del Testo Unico degli Enti
Locali, Torino, 2006.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
159
a) le informazioni/dati strumentali a decisioni (organizzative o di esercizio delle funzioni) dell’amministrazione che le ha
prodotte (l’istruttoria del responsabile del procedimento come
evento tipico di raccolta/produzione di informazioni/dati strumentali);
b) le informazioni/dati strumentali ad altre amministrazioni,
cioè utili a decisioni di soggetti diversi che se ne avvalgono (si
pensi all’utilizzazione a fini di tutela ambientale di informazioni/dati sulla salute);
c) le informazioni/dati utili per la regolazione dei rapporti tra
le amministrazioni; si pensi al caso delle determinazioni statali
di ripartizione delle risorse finanziarie tra le regioni per le quali
sia necessario disporre di dati sulla situazione economica dei
territori: i dati sono in possesso di diverse amministrazioni, non
solo dello Stato.
In altri casi le informazioni/dati perdono il rapporto di stretta
strumentalità con l’esercizio di funzioni pubbliche per acquistare, anche attraverso processi di elaborazione dei dati di base,
un valore conoscitivo autonomo, rilevante di per sé. Si pensi in
particolare a:
a) le informazioni/dati accessibili (a fini di tutela o di trasparenza) o rese pubbliche, con i limiti della riservatezza, pubblica
e privata, perché di interesse generale; qui le attività conoscitive
sono al servizio della conoscenza garantita, non più alle amministrazioni, ma ai cittadini, che le utilizzano per varie finalità:
ancora di tipo strumentale, quando l’informazione/dato è utilizzata per tutelare un proprio interesse particolare (è la versione
tutta italiana dell’accesso ai documenti amministrativi (10)),
ovvero effettivamente generale (il cittadino usa le informazioni/
(10) Così come delimitato dalla legge n. 241 del 1990, come modificata
dalla legge n. 15 del 2005. La dottrina ha ampiamente sottolineato come la
restrizione dell’accesso alla sola garanzia di situazioni giuridiche soggettive
coinvolte nel procedimento corrisponda ad una volontà di rafforzare la tutela
degli interessi coinvolti, ma anche ad una contestuale volontà di impedire l’utilizzazione dell’accesso ai fini della trasparenza e del controllo democratico. E
questo è avvenuto proprio quando le nuove tecnologie informatiche avrebbero
consentito un accesso ben più ampio, senza più compromettere le esigenze
di funzionalità dell’amministrazione. Ma sul punto, si v. il contributo di E.
MENICHETTI, in questo volume.
160
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
dati ottenuti per esercitare un controllo democratico, diffuso,
sull’operato dei titolari di funzioni pubbliche;
b) le informazioni/dati riutilizzabili come risorsa economica.
Molti dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, una
volta raccolti e utilizzati per la finalità iniziale, debitamente
elaborati, possono acquisire un valore anche economicamente
rilevante, di interesse di soggetti privati che possono provvedere
alla loro valorizzazione economica (11).
4. Le attività conoscitive come funzioni implicite
Se riguardate sotto il profilo della competenza a svolgerle, le
attività conoscitive presentano alcuni tratti interessanti.
In primo luogo le attività conoscitive strettamente strumentali seguono, quanto alla competenza, il destino delle funzioni
principali.
Si possono cioè considerare come funzioni strumentali
rispetto a quelle finali; ancora di più, come attività interne,
consustanziali allo svolgimento delle funzioni finali. L’attività,
istruttoria, di raccolta delle informazioni/dati per la decisione
amministrativa è una forma dello stesso esercizio della funzione
finale, da essa difficilmente distinguibile.
Da qui la costruzione della teoria delle attività conoscitive
come funzioni implicite, di cui nel nostro ordinamento abbiamo avuto una ampia applicazione per le attività statistiche (12).
In quanto funzioni implicite, le attività conoscitive seguono il
destino di quelle finali: se queste vengono conferite (per conferimento, a partire dalla legge n. 59 del 1997 si intende tanto
l’attribuzione quanto la delega di funzioni) da un livello di governo all’altro, da un soggetto all’altro, sono conferite anche le
funzioni conoscitive (13).
(11) È il tema del riutilizzo dei dati pubblici, cui sono dedicati gran parte
degli scritti di questo volume.
(12) A.M. SANDULLI, A. BALDASSARE, Profili costituzionali della statistica in
Italia, in Dir. Soc., 1973, pp. 118 ss.
(13) Le funzioni conoscitive non sono ricordate tra le funzioni strumentali
che seguono, secondo l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 112 del 1998, le funzioni
finali. La elencazione delle funzioni strumentali (“le funzioni di organizzazione
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
161
Da qui due conseguenze rilevanti.
Una sul rapporto di titolarità delle informazioni. Questa stretta
compenetrazione tra attività conoscitive e funzioni finali, tipica delle informazioni strettamente strumentali, conduce quasi
automaticamente a costruire il rapporto tra amministrazioni e
informazioni detenute come un rapporto di tipo proprietario.
Le informazioni fanno parte, naturalmente, del patrimonio delle
amministrazioni.
La seconda, sull’autonomia organizzativa e funzionale delle
amministrazioni. Se sono strettamente strumentali o addirittura
parte inscindibile dell’attività di esercizio delle funzioni proprie
delle amministrazioni, queste possono organizzarne l’esercizio
e lo svolgimento in autonomia, senza dover rispettare limiti o
interventi di autorità superiori.
Questo rapporto si attenua, però, quando le informazioni
perdono il loro carattere solo strumentale per acquisire un valore conoscitivo autonomo, nelle direzioni prima esplorate: o
un valore conoscitivo strumentale per altre amministrazioni (o
comune a più amministrazioni) o un valore conoscitivo generale,
non più strumentale, rilevante di per sé.
È evidente che in questi casi la costruzione di un rapporto
proprietario solo a favore delle amministrazioni che detengono
le informazioni non regge più, anzi si pone come ostacolo alla
circolazione delle informazioni tra amministrazioni e tra queste
e i cittadini e come ostacolo alla loro utilizzazione da parte di
soggetti diversi dall’amministrazione che ha raccolto/prodotto
le informazioni o che comunque le detiene.
Di questo si è preoccupato il legislatore all’atto di conferire
nuove funzioni agli enti territoriali: l’art. 6 del d.lgs. n. 112 del
1998 garantisce la circolazione delle informazioni tra le amministrazioni (14) e, a questo fine, introduce esplicitamente il concetto
di coordinamento delle informazioni.
e le attività connesse e strumentali all’esercizio delle funzioni e dei compiti
conferiti”) comprende la “programmazione”, la “vigilanza”, l’“accesso al credito”, la “polizia amministrativa”, l’“adozione di provvedimenti contingibili
e urgenti”, ma è chiaramente esemplificativa e non tassativa (“fra gli altri”).
Possiamo quindi agevolmente considerarle tra le funzioni strumentali.
(14) Art. 6 del d.lgs. n. 112 del 1998.
162
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
Altrettanto esplicito il Codice per l’amministrazione digitale,
che rende chiaro:
a) il dovere per tutte le amministrazioni di trattare (i dati sono
“formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili”) le
informazioni al fine di consentirne la “fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall’ordinamento, da parte delle altre
pubbliche amministrazioni e dai privati” (15);
b) la sottoposizione dei dati che costituiscono “le basi di dati
di interesse nazionale” a regole tecniche unitarie individuate
dallo Stato (16).
Se le informazioni hanno acquistano un valore conoscitivo
autonomo, rilevante di per sé, ecco che si pongono nuovi problemi, tutti destinati ad avere un forte impatto sull’autonomia
delle amministrazioni. Si tratta, infatti, di assicurare che le
informazioni, fin dalla loro raccolta (fin dalla produzione dei
documenti che le contengono), abbiano la necessaria qualità in
vista della loro circolazione tra le amministrazioni, della loro
diffusione, della loro fruizione e utilizzazione. Si tratta, poi, di
superare tutti gli ostacoli che possano frapporsi alla circolazione,
quali il riconoscimento di diritti di titolarità che vadano fino alla
configurazione di diritti di proprietà esclusiva.
In quanto parte del patrimonio pubblico, le informazioni sono
soggette a regole di appartenenza e di tutela, ma sempre al fine
di assicurarne, come per tutti i beni pubblici, la circolazione e
la fruizione collettiva (17).
(15) Art. 50 del Codice.
(16) Art. 60 del Codice, che così recita: “le basi di dati di interesse nazionale
costituiscono, per ciascuna tipologia di dati, un sistema informativo unitario
che tiene conto dei diversi livelli istituzionali e territoriali e che garantisce
l’allineamento delle informazioni” (comma 1). Il comma 2 dello stesso articolo affida ad un d.P.C.M. la individuazione delle basi di dati e delle “strutture
responsabili della gestione operativa di ciascuna base di dati”.
(17) Sulla progressiva evoluzione del regime dei beni pubblici, sempre
meno agganciato al requisito della proprietà pubblica del bene, e sempre più
dalla sua destinazione pubblica, si v. M. RENNA, La regolazione amministrativa
dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004, M. DUGATO, Il regime dei beni
pubblici: dall’appartenenza al fine, in Valori e principi del regime repubblicano,
2. Diritti e libertà, (a cura di) S. LABRIOLA, Bari, 2006, pp. 219 ss.; V. CERULLI
IRELLI, Utilizzazione economica e fruizione collettiva dei beni, in AA.VV., Titolarità
pubblica e regolazione dei beni, Annuario AIPDA 2003, Milano, 2004; A. LOLLI,
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
163
La titolarità delle informazioni continua in questi casi ad avere
rilevanza, ma soprattutto per individuare il soggetto cui spettano
i doveri di conservazione e garanzia della qualità, assai più che i
poteri di disposizione/cessione dei diritti di utilizzazione.
Anche l’autonomia organizzativa e funzionale finisce per
trovare dei limiti, se non nel senso dell’attribuzione ad autorità
diverse della gestione delle informazioni, almeno nel senso del
necessario rispetto di quelle regole organizzative e funzionali
sullo svolgimento delle attività conoscitive che siano poste a
garanzia dell’interesse generale alla fruizione e alla utilizzazione
collettiva.
5. Le tecnologie informatiche e la progressiva scomparsa
delle attività conoscitive strumentali
Con la progressiva introduzione delle tecnologie informatiche le capacità di trattamento delle informazioni si ampliano in
modo considerevole.
Qualunque documento prodotto in formato elettronico contiene delle informazioni che possono essere isolate dal contesto del
documento medesimo e assumere una vita autonoma, un valore
conoscitivo in sé rilevante. Le informazioni isolate possono essere
poi trattate ed elaborate fino ad entrare a far parte di autonomi
patrimoni conoscitivi (banche dati, motori di ricerca).
La distinzione prima adottata tra informazioni strumentali
e non strumentali perde progressivamente significato: tutte le
informazioni, anche quelle raccolte a fini strumentali, possono
acquistare un valore autonomo. Tutte le informazioni, secondo
il Codice dell’amministrazione digitale, sono destinate ad una
fruizione e utilizzazione da parte di soggetti diversi dall’amministrazione che le hanno raccolte e conservate: altre amministrazioni (nei casi b) e c) del paragrafo 3), la generalità dei cittadini
(per le informazioni strumentali di cui ai casi a), b) e c) e per
le informazioni rese accessibili e pubbliche di cui al punto d),
soggetti privati interessati ad utilizzare economicamente le informazioni e le loro elaborazioni (caso e)).
Proprietà e potere nella gestione dei beni pubblici e dei beni di interesse pubblico,
in Dir. amm., 1996.
164
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
Nessuna informazione esaurisce il suo valore conoscitivo
all’interno dell’amministrazione che l’ha prodotta.
Le tecnologie informatiche aprono la strada ad una vera
rivoluzione, ponendo in discussione nozioni consolidate quali
il rapporto proprietario ed esclusivo delle amministrazioni con
le informazioni in loro titolarità e l’autonomia organizzativa e
funzionale nell’esercizio delle attività conoscitive.
Ci avviciniamo così alla risposta iniziale: quali poteri di
coordinamento esterno possano essere esercitati nei confronti
delle amministrazioni titolari delle informazioni, a quale livello
di governo, da quale autorità. Prima di affrontare questi temi è
utile una breve riflessione sui caratteri delle attività conoscitive
e sui problemi che esse pongono sul versante della loro organizzazione e del loro svolgimento.
6. Le attività conoscitive come funzioni ad elevato contenuto
tecnico
Il primo carattere che tende a contrassegnare tutte le attività
conoscitive è l’incremento del tasso di complessità tecnica.
Con l’impiego delle tecnologie informatiche non esistono
più attività conoscitive semplici. Anche la formazione di un
documento semplice è soggetta a regole tecniche. Una modesta
istruttoria o la formazione di un documento contenente un atto
amministrativo elementare, di mera ricognizione di dati semplici e già noti, deve seguire regole tecniche di formazione del
documento. Non solo le regole sul protocollo informatico o di
classificazione del documento al fine di renderlo reperibile, ma
le regole delle stessa confezione del documento al fine di rendere
utilizzabili e fruibili le informazioni di base in esso contenute.
Nella confezione di un atto occorrerà predisporre appositi
campi per la introduzione dei dati e occorrerà seguire regole
specifiche per evitare ogni errore, che potrebbe ripercuotersi
sulla possibilità di estrarre dal documento le informazioni corrette o sulla validità conoscitiva delle elaborazioni da compiere
sui dati per giungere ad informazioni a valore aggiunto (a valore
autonomo).
Se nel tradizionale lavoro istruttorio destinato ad essere
conservato in documenti cartacei la rilevanza è tutta posta sulla
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
165
qualità intrinseca delle informazioni (il grado della loro certezza (18)) in rapporto alla decisione amministrativa da prendere;
se eventuali errori formali non hanno rilievo e possono non condurre a conseguenze negative sulla decisione assunta (19), tutto
questo scompare nel nuovo scenario della informatizzazione
delle attività conoscitive e di formazione dei documenti amministrativi. Non solo ogni documento dovrà essere confezionato,
ma ogni informazione dovrà esser registrata secondo regole
assolutamente precise (anche un solo errore nella introduzione
dei dati può alterare l’informazione).
La complessità tecnica aumenta se si considerano le problematiche relative alla conservazione dei documenti, alla elaborazione dei dati, alla protezione della riservatezza, all’accesso e
alla pubblicità.
Il tratto tipico della statistica, l’applicazione di una tecnica
definita alla raccolta e all’elaborazione dei dati, si estende ormai
a tutte le fasi di gestione delle informazioni, a tutte le tecniche
di gestione dei documenti e dei dati.
La gestione dei documenti e delle informazioni diviene pertanto un’attività ad elevato contenuto tecnico, che deve seguire
delle precise regole tecniche e deve essere svolta da personale
competente, adeguatamente formato alla comprensione delle
regole e alla loro applicazione pratica.
L’elevato contenuto tecnico delle attività pone problemi nuovi, che saranno oggetto dei prossimi paragrafi. In particolare:
quale debba esser il grado di uniformità delle regole tecniche
e, corrispettivamente, se vi sia spazio per l’adozione di regole
differenziate; ed inoltre, quale impatto le regole tecniche possano avere sull’organizzazione e sullo svolgimento delle attività
conoscitive delle amministrazioni.
(18) Vedi M.S. GIANNINI, Certezza pubblica, voce dell’Enc. Dir., Milano, 1960
e G. ARENA, Certezze pubbliche e semplificazione amministrativa, in G. ARENA,
M. BOMBARDELLI, M.P. GUERRA, A. MASUCCI, La documentazione amministrativa,
Rimini, 2001.
(19) Sul nuovo art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla
legge n. 15 del 2005, la letteratura è già vastissima; per una ampia analisi,
anche con rilevanti profili di tipo teorico, si veda S. CIVITARESE MATTEUCCI, La
forma presa sul serio, Torino, 2006.
166
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
7. Le attività conoscitive come funzioni finalizzate alla cura
di interessi diversi
La seconda caratteristica generale delle attività conoscitive,
destinata ad avere un notevole impatto sul tema della distribuzione delle competenze in materia di gestione dei dati, è la loro
funzionalità alla cura di interessi generali diversi (in qualche
caso contrapposti).
Questi interessi generali sono oggetto di regolazione da parte
di corpi normativi diversi (20) e tutti concorrenti a determinare
regole di formazione, conservazione, elaborazione, diffusione,
fruizione e (ri)utilizzazione delle informazioni raccolte dalle
pubbliche amministrazioni.
Qualche esempio sarà sufficiente a dimostrare il punto.
In materia di formazione, conservazione ed elaborazione dei dati
contenuti nei documenti informatici si sovrappongono regole (a
contenuto tecnico sempre più elevato) strettamente informatiche
(i linguaggi adottati, la scansione del documento ai fini della
successiva elaborazione, la sicurezza sulla non modificabilità
del documento e sulla sua conservazione elettronica, la garanzia sulla conformità del documento all’originale (21) e così via),
regole archivistiche (protocollo, classificazione, conservazione
del documento), regole statistiche (ai fini della elaborazione
statistica dei dati).
Già nelle fasi iniziali di formazione dei documenti pubblici le regole, di fonti diverse e spesso affidate a competenze
professionali diverse, curano interessi diversi: l’interesse alla
conservazione e alla reperibilità del documento, a sua volta
strumentale all’interesse dell’amministrazione di ripercorrere le
proprie decisioni o a estrapolare dati conoscitivi, ma anche all’interesse dello studioso (attuale e futuro) dell’amministrazione;
l’interesse statistico a disporre di dati affidabili e agevolmente
elaborabili.
(20) Il fenomeno è stato già segnalato in F. MERLONI, Introduzione all’eGovernment. Pubbliche amministrazioni e società dell’informazione, Torino, 2005. In
quella sede si è voluto sottolineare come la confluenza di formazioni diverse
impedisce l’adozione di politiche unitarie di eGovernment. In questa sede il
fenomeno è analizzato dal punto di vista delle informazioni pubbliche.
(21) Cfr. l’art. 54, comma 4, del Codice dell’amministrazione digitale.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
167
In materia di interoperabilità, cioè di scambio delle informazioni tra amministrazioni (nelle forme consentite dal progresso
tecnologico: invio attraverso la posta elettronica o accesso telematico diretto alle banche dati dell’amministrazione detentrice
dei documenti), entrano in gioco interessi diversi: l’interesse
dell’amministrazione alla conservazione, in sicurezza, dei propri
documenti, e l’interesse delle altre amministrazioni ad acquisire
quelle informazioni in modo rapido ed efficiente. L’interesse del
cittadino a evitare di fornire alle amministrazioni informazioni
di cui già dispongono e di ottenere più agevolmente informazioni
in possesso non più delle singole amministrazioni individualmente, ma dell’intero sistema amministrativo interconnesso in
rete. La interconnessione si presenta come soluzione funzionale
all’interscambio di dati, ma anche alle esigenze di accesso e di
pubblicità.
In materia di accesso si aggiungono regole che disciplinano il
diritto dei cittadini, in realtà dei soggetti titolari di un interesse
qualificato (procedimentale, ovvero difensivo), di prendere visione del documento o di estrarne copia, anche mediante tecnologie
informatiche (accesso telematico e download del documento). In
tal modo si cura un interesse che, anche se fortemente delimitato dalla legge dal punto di vista della titolarità, si pone in senso
opposto alle esigenze di riservatezza (pubblica) dell’amministrazione. Una stessa informazione pubblica dovrà essere trattata
con tecniche che ne assicurino, al contempo, la fruibilità interna,
da parte degli uffici dell’amministrazione, ed esterna, da parte di
altre amministrazioni connesse in rete e del cittadino.
Anche le esigenze di trasparenza introducono interessi nuovi
e diversi. Se i documenti formati (delle informazioni raccolte)
sono destinati ad essere resi pubblici, attraverso la garanzia di
un accesso generalizzato ai documenti (facilitato dalla predisposizione di banche dati o di motori di ricerca), ovvero attraverso la loro diretta immissione nei siti, liberamente accessibili
e interrogabili, delle pubbliche amministrazioni, si cura in tal
modo l’interesse alla diffusione dei documenti, che entra in conflitto con le esigenze di riservatezza pubblica, ma può entrare
in conflitto con gli interessi alla conservazione in sicurezza dei
documenti (qualora l’accesso possa comportare rischi di modificazione del contenuto dei documenti). Dal punto di vista del
documento (e delle informazioni in esso contenute) è evidente
168
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
che il sovrapporsi di questi diversi interessi comporta la contestuale sottoposizione a regole tecniche diverse: quelle destinate
ad assicurare la conservazione e la riservatezza pubblica e quelle
destinate alla diffusione. Regole che impongono particolari cure
nella stessa fase di formazione del documento: è assai diverso se
un documento viene formato in vista di una sua conservazione
riservata (salva la sua conoscibilità futura, una volta conservato in archivi storici) o se esso viene formato in vista di una sua
diffusione immediata (o comunque ravvicinata).
Un ragionamento del tutto analogo può essere fatto in materia
di protezione di dati personali. Le relative regole (22) sono fissate
a tutela di un interesse (la riservatezza privata) che si contrappone sicuramente all’interesse di soggetti esterni a conoscere
dati personali contenuti in documenti in possesso di amministrazioni pubbliche, che questo interesse sia curato nella forma
dell’accesso o della pubblicità del documento. Come è noto (23),
questi interessi si compongono in modo diverso, sulla base di
principi introdotti da una copiosa giurisprudenza, con la prevalenza ora dell’uno (in generale l’accesso prevale, salvo che per
i dati sensibili) ora dell’altro (la riservatezza tende a prevalere
sulla trasparenza come controllo generalizzato). Ma possono
anche essere curati congiuntamente se si adottano tecniche di
formazione del documento che consentano la conoscenza solo di
alcuni dati e non di altri. Tecniche che, se si vuole, comportano
un’ulteriore complessità nella predisposizione degli atti.
Vi è, poi, l’interesse al riutilizzo economico delle informazioni
pubbliche di cui, qui, non ci occupiamo nel dettaglio (24), ma che
comunque comporta effetti sulla cura di altri interessi in gioco. Il
riutilizzo può, infatti, entrare in conflitto con le esigenze di conservazione in sicurezza dei documenti (la messa a disposizione
dei documenti ai privati può comportare rischi di modificazione
del loro contenuto), con le esigenze di riservatezza, sia pubblica
(rischi di diffusione di documenti o di informazioni che dovrebbero restare riservati), che privata.
(22) Dettate dal Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n.
196 del 2003), ma ulteriormente specificate ad opera del Garante.
(23) Si v. il saggio di E. MENICHETTI, in questo volume.
(24) Si v. il saggio di B. PONTI, in questo volume.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
169
Vi è, infine, riassuntivamente, l’interesse generale alla qualità
dei documenti e delle informazioni in essi contenute. Qualità che
deve essere assicurata come rispetto di tutte le regole tecniche
che assicurano la cura dei diversi interessi in gioco: qualità ai fini
della conservazione in sicurezza, qualità ai fini della reperibilità,
qualità ai fini delle elaborazioni cui sottoporre le informazioni,
qualità ai fini dell’interscambio di documenti e dati, e così via.
Ma vi sono qualità ulteriori, che devono essere assicurate
ai documenti proprio in vista della loro immediata (o ravvicinata) diffusione, quali la “elevata usabilità”, la “completezza
di informazione”, la “chiarezza di linguaggio”, l’“affidabilità”,
la “semplicità di consultazione”, secondo i principi del Codice
dell’amministrazione digitale (25). Di esse non ci occupiamo qui
in modo specifico (26), limitandoci a sottolineare le conseguenze
di un approccio di questo tipo.
Se prima, nel contesto di una formazione cartacea dei documenti e di una loro conservazione riservata, a prevalere erano
gli elementi dell’uso interno del documento, con la conseguenza
che la qualità andava commisurata all’efficacia informativa del
documento rispetto all’interesse curato (alla decisione da assumere), oggi occorre guardare anche alla qualità del documento in
sé, alla sua capacità di trasmettere informazioni che siano nello
stesso tempo affidabili e comprensibili. Affidabili nel senso che
colui che accede al documento può contare sulla sua provenienza
pubblica e sulla veridicità delle informazioni che sono in esse
contenute. Comprensibili nel senso che il documento deve essere
redatto avendo riguardo non solo al destinatario immediato (ad
esempio il dirigente che deve assumere una decisione e adottare
un provvedimento), ma anche alla molteplicità di destinatari ulteriori (per esempio al cittadino che accede ad un provvedimento
inserito nel sito della pubblica amministrazione.
Come si vede il sovrapporsi di nuove finalità, di nuovi interessi
generali da curare ha effetti sulla formazione del documento,
imponendo l’adozione di ulteriori regole tecniche (nella raccolta
delle informazioni e nella rappresentazione, ai fini della comprensibilità).
(25) Cfr. l’art. 53, comma 1 del Codice.
(26) Si rinvia al saggio di E. CARLONI, in questo volume.
170
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
8. Il fondamento della regolazione unitaria statale
Le informazioni pubbliche, in conclusione, stanno perdendo
le caratteristiche proprietarie e di riservatezza a favore del loro
massimo interscambio tra amministrazioni e della loro massima
diffusione alla generalità dei cittadini.
La cura di questi nuovi interessi generali, che si sovrappone
ai contrapposti interessi alla gestione riservata dei documenti e
delle informazioni, impone, come si è visto, l’adozione di regole
nuove, quasi sempre ad elevato contenuto tecnico.
Chi e come deve fissare queste nuove regole? Chi deve applicarle nella gestione dei documenti?
Per rispondere al primo quesito si deve valutare il carattere
proprio di queste regole. Ora non vi è dubbio che esse devono
assicurare interessi generali che trascendono le competenze delle
amministrazioni che formano i documenti (che raccolgono le
informazioni).
Se l’obiettivo è l’interscambio di informazioni tra amministrazioni in rete, è indispensabile assicurare che le informazioni
siano omogenee, che abbiano lo stesso significato, che possano
essere lette e comprese in modo uniforme dal più ampio numero
di persone. Un dato relativo alla residenza di un cittadino, come
risultante da un documento amministrativo (un certificato) deve
avere lo stesso valore conoscitivo per tutti colori che lo utilizzano (ai diversi fini che abbiamo visto), amministrazioni diverse
e cittadini.
Se l’obiettivo è la pubblicità, i documenti devono avere lo
stesso grado di qualità (soprattutto in termini di affidabilità e
comprensibilità) per tutti i potenziali utilizzatori delle informazioni in esse contenute.
Si impongono, quindi, regole (in gran parte tecniche) ad applicazione uniforme, così da garantire l’omogenea qualità delle
informazioni.
Così posto il problema, la ricerca del livello più adatto alla fissazione delle regole potrebbe non trovare limiti. Le informazioni
ormai circolano in rete nel mondo globalizzato e le regole sulla
qualità delle informazioni dovrebbero essere poste da autorità
sovranazionali.
A livello europeo il grado di interdipendenza degli interessi
economici e di interscambio e collaborazione tra gli stati do-
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
171
vrebbe imporre regole quantomeno di livello comunitario (27),
che non a caso sono fissate in alcuni settori dove più forte è la
disciplina europea. Si pensi al settore dei contratti pubblici, dove
le esigenze comunitarie di concorrenza delle imprese alle gare
per l’affidamento dei contratti comportano l’adozione di regole
comunitarie sulla pubblicità da assicurare ai bandi di gara e alle
decisioni sull’affidamento dei contratti.
A livello mondiale o europeo l’adozione di regole comuni per
il trattamento e la gestione delle informazioni pubbliche non
potrà, per un futuro prevedibilmente ancora lungo, che passare
per forme di negoziazione internazionale tra stati, cui spetterà
garantire al proprio interno il rispetto di regole così stabilite.
Nell’ordinamento italiano abbiamo visto come processi di trasferimento di funzioni amministrative (soprattutto nelle versioni
del decentramento dalle amministrazioni statali a quelle degli
enti territoriali) abbiano comportato un’attenzione crescente
all’attenuazione del rapporto proprietario tra amministrazioni e
loro informazioni, a favore del principio dell’interscambio e della
massima circolazione delle informazioni. Così come abbiamo
visto che le esigenze di diffusione pubblica delle informazioni
porta con sé l’introduzione di nuovi principi generali sulla qualità dei dati, che a loro volta impongono delle regole tecniche
uniformi.
Questa esigenza, che l’ordinamento ha assunto dapprima in
via di legislazione ordinaria nella forma del coordinamento, è
stato poi recepita nel nuovo testo costituzionale di modifica del
Titolo V, nella forma dell’ormai nota formulazione dell’art. 117,
comma 2, lettera r) che riserva allo Stato il “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione
statale regionale e locale”.
La scelta del legislatore costituente appare netta: proprio nel
momento in cui si adotta un sistema complessivo di maggiore
(27) Un primo, significativo intervento in questo senso è costituito dalla
direttiva 2007/2/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un’infrastruttura per l’informazione territoriale nella Comunità europea (Inspire),
con la quale – tra l’altro – sono state fissate le regole tecniche, vincolanti per gli
Stati membri, finalizzate ad assicurare la disponibilità, la qualità, l’organizzazione, l’accessibilità e la condivisione delle informazioni territoriali detenute
dalle autorità pubbliche.
172
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
autonomia degli enti territoriali e si riconoscono materie nelle
quali lo Stato perde molte delle precedenti prerogative; allorché
si rinuncia a riservare allo Stato un generale potere di indirizzo
e coordinamento, a favore di più specifici poteri riservati allo
Stato, in materie predeterminate e tassativamente elencate, a
garanzie di interessi unitari non frazionabili, il coordinamento
dei dati viene ricompreso tra le materie riservate, quindi tra gli
interessi unitari che devono comunque essere garantiti, indipendentemente dal grado di autonomia riconosciuto agli enti
territoriali nell’esercizio delle loro competenze.
La riserva del coordinamento dei dati corrisponde bene al
mutato orizzonte che abbiamo segnalato: le attività conoscitive,
di raccolta delle informazioni in occasione dell’esercizio delle
proprie funzioni (normative e amministrative) mantengono il
loro carattere implicito e strumentale, ma le informazioni non
sono più necessariamente di proprietà esclusiva delle amministrazioni che le hanno raccolte.
Viene al contrario riconosciuto allo Stato un potere di fissare
regole, di coordinamento, volte a garantire gli interessi pubblici
generali che possono esser curati con l’interscambio tra amministrazioni e con la diffusione pubblica ai cittadini.
Le diverse esigenze che abbiamo prima considerato e che
possiamo definire in modo comprensivo come esigenze di
qualità delle informazioni, sono esigenze di carattere unitario,
devono essere garantite in modo uguale a tutti i cittadini della
Repubblica.
Anche in questo caso, come per la materia “determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni”, il coordinamento appare
rivolto a garantire un risultato (28), la qualità dei dati, che prescinde dalla loro titolarità.
Si tratta, come è altrettanto evidente, di una materia “trasversale”, nel senso che il coordinamento ai fini della garanzia
della qualità delle informazioni pubbliche riguarda tutte le informazioni comunque raccolte, relativamente a tutte le funzioni
(28) Sulla nozione di coordinamento come risultato e come attività necessaria per conseguirlo vedi F. MERLONI, Per la definizione di una nuova nozione di
coordinamento nell’amministrazione locale, in F. MERLONI (a cura di), La nuova
provincia nella riforma del governo locale, in Quaderni delle autonomie, 1988.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
173
amministrative di competenza di amministrazioni statali, di
Regioni ed enti locali, in tutte le materie di competenza statale
e regionale (concorrente o “residuale”).
Anche per questa via si attenua il rapporto di strumentalità tra
attività conoscitive e funzioni amministrative finali, per esaltare
il carattere interamministrativo delle informazioni pubbliche e,
poi, la rilevanza autonoma, di per sé, delle informazioni e degli
interessi generali che esse contribuiscono a curare.
Solo una disciplina uniforme dell’esercizio, presso le singole
amministrazioni, delle attività conoscitive garantisce che siano
raggiunte le diverse finalità assunte dalle discipline di settore
prima individuate (conservazione, qualità, trasparenza, riservatezza, riutilizzo).
9. Contenuti del potere di coordinamento dei dati
9.1. La fissazione di regole nazionali uniformi
Se abbiamo compreso il fondamento di una “costituzionalizzazione” del principio di coordinamento statale dei dati pubblici (29), si tratta ora di comprendere i contenuti della nozione
di coordinamento dei dati e i limiti che si devono ritenere posti
all’esercizio delle relative attività.
Nel coordinamento non vi è la centralizzazione delle attività
conoscitive (non c’è un soggetto che svolge funzioni di raccolta e
trattamento delle informazioni per tutte le amministrazioni, che
sarebbe il capovolgimento, peraltro non necessario e materialmente impossibile, del principio delle funzioni implicite), ma la
(29) In generale, per una lettura della riforma del Titolo V, Parte II della
Costituzione come “stabilizzazione” degli assetti conseguenti alle terza stagione
del decentramento, inaugurata dalla l. 15 marzo 1997, n. 59, si v. F. PIZZETTI, La
riforma del Titolo V tra resistenza al cambiamento e incompiutezza delle scelte, in
Le istituzioni del federalismo, 2003, pp. 529 ss.; V. CERULLI IRELLI, Consolidamento
delle riforme amministrative e innovazioni costituzionali: problemi attuativi e di
integrazione, relazione al convegno Il sistema amministrativo dopo la riforma del
Titolo V della Costituzione Roma, 31 gennaio 2002, Luiss Guido Carli – Centro
di Ricerca sulle Amministrazioni Pubbliche “Vittorio Bachelet”.
174
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
centralizzazione di attività che producano il risultato della qualità
(nei diversi significati fin qui illustrati) delle informazioni.
Centralizzazione delle attività di produzione delle regole da
impiegare nell’esercizio (autonomo, distribuito) delle attività
conoscitive da parte delle amministrazioni nell’esercizio delle
rispettive competenze amministrative finali.
Centralizzazione di alcune attività amministrative volte a
promuovere il rispetto delle regole uniformi di gestione delle
informazioni.
Centralizzazione di alcune attività di garanzia della qualità
delle informazioni pubbliche.
Quanto al primo punto (determinazione delle regole) la riserva in materia di coordinamento dei dati consente allo Stato
di stabilire:
a) le regole da rispettarsi nella formazione dei documenti e nel
trattamento delle informazioni al fine di garantirne la qualità;
b) le regole che predeterminano le competenze professionali
necessarie al trattamento delle informazioni (archivistica, statistica, scienza della informazione e della comunicazione).
Più delicato è stabilire se lo Stato, oltre che alle proprie
amministrazioni (e agli enti pubblici nazionali) possa fissare
direttamente dei vincoli di carattere organizzativo.
In generale questo è escluso dal sistema istituzionale del Titolo
V. Lo Stato fissa le regole al fine di garantire un risultato finale (la
qualità dei dati), ma non interviene condizionando oltre lo stretto
necessario l’autonomia organizzativa degli enti territoriali.
Una volta stabiliti gli standard minimi di qualità delle attività
conoscitive, con la fissazione di regole che derivano dall’applicazione di specifiche discipline scientifiche e tecniche e con l’imposizione di determinati standard di competenza professionale
nel trattamento delle informazioni, è possibile spingersi più in
là, fino a precostituire soluzioni organizzative predeterminate,
(quali la necessaria costituzione di appositi uffici) o soluzioni
procedimentali altrettanto predeterminate (quali l’adozione di
moduli procedimentali uniformi)?
In via generale la risposta è negativa (30), anche se significativo
(30) In relazione al coordinamento statistico, cfr. Corte Cost., n. 17/2004 e
n. 31/2005: la seconda sentenza, in particolare, ha stabilito che l’adozione di
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
175
è l’esempio della statistica cioè dell’unica funzione conoscitiva
che, pur svolta in modo distribuito (ogni amministrazione cura
le proprie attività statistiche), è stata oggetto di una forte sottoposizione a regole uniformi, con ricadute rilevanti sull’autonomia
organizzativa: oltre all’adozione di tecniche di trattamento statistico dei dati, oltre all’imposizione di personale con competenze
statistiche adeguate, si impone anche la costituzione di appositi
uffici (di statistica) affidati alla responsabilità di personale con
competenze statistiche (31).
La formulazione normativa della lettera r) non fa distinzione
tra coordinamento statistico e coordinamento di altro genere
(informativo (32) e informatico), tanto da lasciare il dubbio che
queste nuove tecniche di coordinamento si possano allineare al
modello della statistica, che però è stato perfezionato in epoca
anteriore alla riforma costituzionale nella quale la garanzia degli interessi unitari dello Stato è assicurata anche con soluzioni
organizzativamente uniformi. È quindi legittimo sostenere sia
che il modello della statistica possa essere rivisto nel senso di
attenuare i vincoli di uniformità organizzativa per limitarsi alla
garanzia del risultato in termini di qualità del dato statistico
(comunque siano organizzate le relative attività), sia che i nuovi
oggetti di coordinamento, le informazioni in generale e le tecnologie informatiche, non necessariamente debbano seguire il
modello della statistica.
regole e standard tecnologici in sede di esercizio del coordinamento informatico, quando arrivi ad incidere sull’autonomia organizzativa di regioni ed enti
locali, è soggetta al principio di leale collaborazione, ed in particolare deve
essere preceduto da un’intesa “forte” tra Stato ed enti territoriali.
(31) Sul rilievo organizzativo del coordinamento della funzione statistica,
sia consentito rinviare a F. MERLONI, Attività conoscitive delle amministrazioni
pubbliche e statistica ufficiale. Problemi organizzativi e funzionali, in Riv. trim.
dir. pubbl., 1994, pp. 209 ss., ma si v. anche L. TORCHIA, Autonomia dei soggetti
e funzionalità del sistema: condizioni di qualità dell’informazione statistica, in
Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, pp. 643 ss.; F. GIGLIONI, Le soluzioni istituzionali
alla qualità dell’informazione statistica, in Dir. pubbl., 2005, pp. 1028 ss.
(32) Per la autonoma configurazione della funzione di coordinamento informativo, sui suoi contenuti ed i suoi limiti, si v. B. PONTI, I dati di fonte pubblica:
coordinamento, qualità e riutilizzo, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza
amministrativa, Milano, 2008.
176
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
9.2. Le politiche di promozione di comportamenti omogenei.
Il coordinamento per via normativa dei dati
Con questi limiti di contenuto, si tratta di esaminare la configurazione, anche organizzativa e istituzionale, della funzione
di coordinamento per via normativa.
In questo settore la gran parte delle regole di fonte primaria è
stata già fissata; essa potrà richiedere nel futuro degli aggiustamenti o anche delle sostanziali modifiche, ma nella fase attuale
il più della legislazione in materia è stabilito (33).
Più rilevante, invece, l’attuazione degli obiettivi fissati con
legge attraverso normative di contenuto tecnico, da emanarsi
o per via regolamentare o con norme tecniche direttamente
operative.
A tutti questi fini (proposte di eventuale aggiustamento/modifica della legislazione, proposte di regolamenti, adozione di
norme tecniche operative) è necessaria una struttura servente
ad elevata competenza tecnica.
Non è questa la sede per una puntuale ricostruzione della
vicenda della ricerca di una sede qualificata: l’istituzione dell’AIPA, la sua trasformazione (non meramente nominale) in
CNIPA, passando per un Centro tecnico al servizio degli uffici
governativi competenti per la promozione delle ICT nelle pubbliche amministrazioni.
Una vicenda che ha dimostrato una doppia difficoltà:
a) a costruire un struttura dotata, proprio perché destinata
a svolgere compiti prevalentemente tecnici, di una sufficiente
autonomia rispetto al governo centrale e di una sufficiente indipendenza rispetto ai rilevanti interessi economici in gioco;
b) a costruire una struttura che non fosse la sola espressione del governo centrale, pur contribuendo allo svolgimento del
compito, nazionale, del “coordinamento dei dati”.
(33) Si fa riferimento, in modo particolare, a tre distinti gruppi di disciplina
che fanno capo, rispettivamente: al Codice dell’amministrazione digitale (che, a
seguito delle modifiche intervenute con il d.lgs. n. 159 del 2006, ingloba anche
la parte normativa del sistema pubblico di connettività, elemento essenziale
del coordinamento tecnico-informatico), al T.U. sulla documentazione amministrativa, in particolare le parti sopravvissute all’abrogazione, con particolare
riguardo alla disciplina del protocollo informatico); alla disciplina della statistica di cui d.lgs. n. 322 del 1989.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
177
La funzione normativa tecnica si pone, cioè, come una funzione tipicamente imparziale e istituzionalmente condivisa.
Il Codice dell’amministrazione digitale (art. 71) sembra preoccuparsi sia del secondo aspetto (la condivisione delle regole
tecniche), sia del primo (l’autonomia della funzione tecnica).
In esso troviamo infatti un procedimento di formazione delle
regole tecniche fondato su decreti del Presidente del Consiglio
dei ministri, sentita la Conferenza unificata e il Garante della
privacy, previa acquisizione del parere obbligatorio del CNIPA
(anche se finalizzato essenzialmente a garantire la coerenza con
le regole tecniche sul sistema pubblico di connettività).
Ma, come si è detto, le due cose stanno insieme. Se il coordinamento è compito riservato allo Stato, la sua organizzazione
ben può avvenire in forme tali da coinvolgere al massimo grado
le diverse amministrazioni pubbliche cui spetta la gestione dei
documenti e delle informazioni pubbliche; sempre che l’impulso
e la proposta provenga da sedi tecnicamente attrezzate.
Un definitivo assetto dell’attuale soggetto statale, il CNIPA,
potrebbe essere trovato in una amministrazione, con forti tratti
di autonomia organizzativa e di indipendenza dei componenti
degli organi, largamente partecipata dalle diverse amministrazioni; un’amministrazione di livello nazionale, ma “repubblicana”
(rappresentativa dei soggetti costituenti la Repubblica, secondo
l’art. 114 Cost.) che contribuisce a un coordinamento non unilaterale e gerarchico, ma condiviso.
La definizione di norme tecniche destinate ad incidere sui
modi di svolgimento dei compiti di gestione dei documenti e delle
informazioni, non può che giovarsi della attiva partecipazione
di soggetti in grado di rappresentare le esigenze, conoscitive e
organizzative, del pluralismo amministrativo italiano.
Si tratta di trovare soluzioni organizzative che consentano
da un lato la condivisione delle scelte, ma dall’altro l’autonomia
tecnica, l’imparzialità e, ove necessario, la capacità di superare
eventuali impasse legate alla difficoltà di trovare il consenso.
Il coordinamento dei dati, infatti, presuppone la distribuzione
diffusa dei compiti di gestione dei dati medesimi. Ciò impone
l’adozione di modelli organizzativi partecipati e di leale collaborazione. Questi vanno organizzati stabilmente, perché costante
deve essere la ricerca dell’accordo. Se, però, questo fallisce,
l’ultima parola resta dello Stato.
178
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
9.3. Il coordinamento come definizione di politiche di promozione di comportamenti omogenei. Il coordinamento
amministrativo dei dati. Ripartizione delle competenze
e leale collaborazione
Nel potere di coordinamento sono, compresi, poi, compiti di
tipo amministrativo, di promozione delle ICT nelle pubbliche
amministrazioni.
Come si è visto, l’introduzione delle tecnologie, il trattamento
dei dati pubblici e la riorganizzazione delle amministrazioni
costituiscono una politica unica e non scindibile.
In questa prospettiva va salutata con favore la riunificazione
in un solo ufficio centrale (presso il Ministro per le riforme e le
innovazioni della pubblica amministrazione) delle funzioni che
si comprendono sotto il nome di eGovernment.
Le funzioni amministrative esercitabili a livello statale sono:
a) le funzioni di coordinamento diretto delle politiche (ICT,
trattamento delle informazioni e riorganizzazione delle procedure e degli uffici) delle amministrazioni statali;
b) le funzioni di supporto al coordinamento normativo (soprattutto all’attività legislativa dello Stato);
c) le funzioni di supporto delle politiche di promozione;
d) le funzioni di finanziamento delle politiche di promozione.
In particolare, per le ultime due funzioni, si tratta di promuovere comportamenti omogenei da parte dell’intero sistema
amministrativo pluralistico. A questo fine alla organizzazione
unificata dei compiti, che consente una visone integrata di una
politica unitaria, deve corrispondere un capacità di forte raccordo con il sistema delle autonomie territoriali, attraverso le
Conferenze operanti presso la presidenza del Consiglio.
In questa direzione va il Codice dell’amministrazione digitale
che, disciplinando (art. 14) i rapporti tra Stato, regioni e autonomie territoriali, fa della Conferenza unificata la sede per intese
e accordi al fine di adottare “gli indirizzi utili per realizzare un
processo di digitalizzazione dell’azione amministrativa coordinato e condiviso e per l’individuazione delle regole tecniche di
cui all’art. 71” (34).
(34) Dà molto rilievo al ruolo della Conferenza unificata D. MARONGIU, Il
governo dell’informatica pubblica, Napoli, 2008.
COORDINAMENTO E GOVERNO DEI DATI
179
Come esempio di utilizzazione positiva degli strumenti di
leale collaborazione si consideri la disciplina del Codice per la
determinazione delle “basi di dati di interesse nazionale” (35).
10. Le funzioni di garanzia
Accanto allo svolgimento di compiti, normativi e amministrativi, collegati al potere statale di coordinamento dei dati restano
da organizzare, anche qui necessariamente a livello nazionale,
le funzioni di garanzia.
Si tratta di funzioni non collegate a “politiche” pubbliche, con
due caratteristiche fondamentali:
a) a tutela dei diritti dei cittadini, come alternativa all’affidamento alle autorità giurisdizionali, anche in virtù del carattere
prevalentemente tecnico dei compiti di gestione e trattamento
dei documenti e delle informazioni pubbliche;
b) funzioni di garanzia indipendente da esercitarsi nei confronti delle pubbliche amministrazioni, di “tutte” le pubbliche
amministrazioni.
In questo settore il campo non è del tutto sgombro, esistono
già dei soggetti indipendenti che svolgono compiti di tutela.
In alcuni casi siamo di fronte a funzioni a presidio forte, mentre in altri la tutela è debole, se non addirittura assente.
Nella prima categoria rientra senz’altro la tutela della privacy
affidata ad un’Autorità (il Garante per la protezione dei dati personali) sicuramente dotata di indipendenza e di poteri effettivi e
penetranti, ma soprattutto dotata di una consolidata competenza
in materia di trattamento dei documenti e dei dati.
Nella seconda (funzioni a presidio debole) troviamo l’accesso
ai documenti amministrativi disciplinato dalla legge n. 241 del
1990. Il diritto all’accesso, oltre ad essere fortemente delimitato, sia oggettivamente che soggettivamente, dalla legge, trova
una tutela quasi esclusivamente giurisdizionale (lo speciale
procedimento davanti al giudice amministrativo) e non amministrativa.
(35) All’art. 60, comma 3, si stabilisce che le basi di dati di interesse nazionale
sono individuate con d.P.C.M., d’intesa con la Conferenza unificata e sentito il
Garante per la protezione dei dati personali.
180
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
Opera, è vero, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, con poteri consultivi (a favore delle amministrazioni
cui sono rivolte le richieste di accesso) e – più di recente – anche
di carattere contenzioso: ma siamo lontani dal modello rappresentato dalla CADA francese o dall’Information Commissioner
inglese, sia in termini di effettività delle decisioni e di poteri di
disclosure, sia quanto alla collocazione istituzionale ed alla indipendenza dell’organo (36). Manca proprio un’autorità esperta
in materia di trattamento dei documenti e delle informazioni
(come il Garante della privacy), ma che operi nella direzione della
messa a disposizione del cittadino delle informazioni piuttosto
che della restrizione.
Come esempio della terza categoria (funzioni senza presidio)
troviamo settori ad importanza crescente: la pubblicità e la trasparenza, la qualità, il riutilizzo. In queste materie la disciplina
vigente prevede comportamenti, vincoli, indirizzi per regolare
e guidare l’attività delle amministrazioni titolari delle informazioni, ma senza che vi sia un soggetto, indipendente e efficace,
in grado di dare una tutela effettiva ai diritti del cittadino, anche
qui superando, se necessario, la volontà dell’amministrazione.
Di qui è nata la proposta (37) per la costituzione di una “Autorità
garante dell’informazione, della trasparenza e della riservatezza
dei dati personali”. Non una nuova autorità, ma la trasformazione dell’attuale Garante della Privacy (di cui conserverebbe la
acquisita capacità di trattamento dei dati) con l’attribuzione di
compiti nuovi, anche opposti a quelli fin qui esercitati. Un’autorità, quindi, in grado di provvedere direttamente al bilanciamento
tra gli opposti interessi connessi alla diffusione dei documenti e
delle informazioni pubbliche.
(36) In questo senso, da ultimo, si v. i rilievi di A. SANDULLI, La casa dai vetri
oscurati: i nuovi ostacoli all’accesso ai documenti, in Gior. dir. amm., 2007, n. 6.
(37) Vedi F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in
F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, cit.
Titolarità e riutilizzo dei dati pubblici
di BENEDETTO PONTI
SOMMARIO: 1. Una premessa necessaria: il regime di appartenenza delle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni. – 1.1. Identificazione
del bene oggetto della relazione di appartenenza, con riferimento alla
disciplina del riutilizzo: l’informazione. – 1.2. Il regime di appartenenza:
la titolarità dei dati pubblici. – 2. Le informazioni oggetto della disciplina
sul riutilizzo. – 3. Natura del potere di “consentire” il riutilizzo. – 4. La
disciplina del rapporto tra amministrazione cedente e soggetto riutilizzatore. – 4.1. I vincoli imposti alle attività poste in essere dai riutilizzatori.
– 4.1.1. Segue: a tutela dei dati personali oggetto di riutilizzo – 4.1.2. Segue:
a tutela della qualità dei dati oggetto di riutilizzo. – 4.2. Il contenuto del
potere di “consentire” il riutilizzo. – 5. Il “costo” delle informazioni cedute
a fini di riutilizzo. – 5.1. Il meccanismo di determinazione del prezzo delle
informazioni e le politiche di valorizzazione del patrimonio informativo
pubblico. – 5.2. Commercializzazione dei dati pubblici e statuto del “bene”
informazione pubblica. – 5.3. L’impatto economico delle politiche tariffarie. – 6. L’amministrazione “monopolista” dell’informazione pubblica e gli
istituti pro-concorrenziali nella disciplina del riutilizzo. – 7. Il riutilizzo di
dati in formato digitale.
1. Una premessa necessaria: il regime di appartenenza delle
informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni
La ricostruzione a sistema della disciplina delle modalità con
le quali le amministrazioni mettono a disposizione le informazioni di cui sono titolari a fini di riutilizzo (1) richiede, in sede
(1) Correttamente l’art. 2, comma 1, lett. e) del d.lgs. 36/2006 recante attuazione della direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti nel settore
pubblico, definisce “riutilizzo”: “l’uso del dato di cui è titolare una pubblica
amministrazione o un organismo di diritto pubblico, da parte di persone fisiche
o giuridiche, a fini commerciali o non commerciali diversi dallo scopo iniziale
per il quale il documento che lo rappresenta è stato prodotto nell’ambito dei
fini istituzionali”. Meno correttamente, pertanto, l’art. 1, comma 1, individua
214
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
preliminare, un più complessivo inquadramento quanto al regime di “appartenenza” dei dati o, se si vuole, delle informazioni (2)
detenute dalle pubbliche amministrazioni. Il riutilizzo, infatti,
implica che i dati detenuti dalle amministrazioni pubbliche a
fini istituzionali, siano messi a disposizione di altri soggetti,
che li utilizzeranno a fini ulteriori e diversi rispetto ai fini istituzionali delle pubbliche amministrazioni. In questo rapporto,
caratterizzato dal trasferimento di informazioni, le istituzioni
pubbliche costituiscono il soggetto strutturalmente cedente: è
pertanto evidente la necessità di chiarire la natura, ed i caratteri
della relazione che intercorre tra p.a. cedente e la tipologia di beni
ceduti (3) (i.e. le informazioni), sì da identificare correttamente
l’oggetto del medesimo decreto nella disciplina delle “modalità di riutilizzo dei
documenti contenenti dati pubblici nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico”. Infatti, le norme del d.lgs. n.
36 hanno ad oggetto non già le modalità di riutilizzo, quanto piuttosto regole
e procedure attraverso cui le amministrazioni mettono a disposizione tali dati
affinché altri possa riutilizzarli.
(2) Si aderisce, qui, alla più ampia e consolidata opinione che considera il
concetto di “dato” e quello di “informazione” qualitativamente omogenei, e che
prospetta semmai (senza per altro definirla nei suoi confini) una distinzione
(per l’ordine convenzionale) di carattere quantitativo: cfr. F. MERLONI, La documentazione amministrativa digitalizzata. Aspetti giuridici, in ID. (a cura di),
Introduzione all’e-Government. Pubbliche amministrazioni e società dell’informazione, Torino, 2005, p. 97; G. FINOCCHIARO, La firma digitale, Bologna, 2000,
p. 39. L’equivalenza dati-informazioni trova conferma, in termini positivi,
all’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 193 Codice in materia
di protezione dei dati personali (di seguito “Codice privacy”). Contra, cfr. A.
MASUCCI, Il documento informatico. Lineamenti ricostruttivi della nozione e della
disciplina, in Riv. dir. civ., 2004, n. 5, pp. 753-54.
(3) In termini metodologici, è bene evidenziare da subito che le disposizioni del d.lgs. 36/2006 recante attuazione della direttiva 2003/98/CE relativa al
riutilizzo di documenti nel settore pubblico concorrono, in certa misura, alla
stessa ridefinizione della relazione di appartenenza delle informazioni detenute
dalle pubbliche amministrazioni, ed anzi proprio da queste si dovrà partire
per identificare l’oggetto dell’indagine. Tuttavia, una ricognizione a più ampio
spettro circa i caratteri di tale relazione appare comunque indispensabile, per
due ordini di ragioni. In primo luogo, la disciplina del riutilizzo costituisce
attuazione di una direttiva quadro europea: pertanto è necessario identificare i
caratteri specifici in parte qua dell’ordinamento nazionale, al fine di cogliere gli
adattamenti ed i condizionamenti che la disciplina di attuazione è destinata a
subire a cagione della sua integrazione nel contesto ordinamentale domestico.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
215
l’ambiente giuridico all’interno del quale collocare ed interpretare
la disciplina positiva del riutilizzo (4).
1.1. Identificazione del bene oggetto della relazione di appartenenza, con riferimento alla disciplina del riutilizzo:
l’informazione
Un primo elemento che è necessario chiarire concerne la stessa pertinenza e l’utilità, ai fini della ricostruzione della disciplina
del riutilizzo, di una analisi che miri a chiarire i caratteri salienti
del rapporto di appartenenza delle informazioni alle pubbliche
amministrazioni. Le disposizioni rilevanti in materia, infatti, si
prestano ad una ambiguità di fondo, che merita di essere immediatamente sciolta. Mentre, infatti, appare chiaro che oggetto
del(l’attività in cui consisterà il) riutilizzo sono le informazioni (5),
meno scontato – in prima battuta – è il fatto che esse costituiscano anche l’oggetto specifico del rapporto tra amministrazione
cedente e soggetto riutilizzatore. Rileva, a questo proposito,
l’impiego del termine “documento” per identificare l’entità che
le pubbliche amministrazioni mettono a disposizione ai fini del
riutilizzo (6). A seconda, infatti, del significato e della portata che
In secondo luogo, la laconicità dei testi normativi di riferimento (sia la cornice
comunitaria, che il dispositivo di attuazione nazionale) lasciano aperti all’interprete una serie di spazi che non possono essere correttamente riempiti se non
in base ad una ricostruzione sistematica del quadro normativo sottostante.
(4) Sulla necessità di chiarire preliminarmente natura, rilevanza e qualificazione giuridica degli interessi che legano un soggetto ad una informazione,
al fine di fare luce sulle caratteristiche dei suoi rapporti giuridici come dante
causa, si v. V. ZENO-ZENCOVICH, Cosa, ad vocem, in Dig. disc. priv., sez. civ., IV,
pp. 452-453.
(5) Cfr. le definizione di “riutilizzo” ai sensi del d.lgs. 36/2006 che fa riferimento “all’uso del dato” da parte dei soggetti riutilizzatori (art. 2, comma
1, lett. e), mentre questi ultimi sono identificati come coloro “che intendono
riutilizzare dati delle pubbliche amministrazioni” (art. 5, comma 2); anche se
non va sottaciuta l’asistematicità del legislatore che, invece, all’art. 1, fa riferimento al riutilizzo “di documenti” (commi 1 e 2), ovvero “di informazioni”
(comma 4).
(6) Infatti, sempre ai sensi del medesimo d.lgs., il soggetto cedente “rende
disponibili i documenti al richiedente” (art. 5, comma 3), “mette a disposizione
i documenti richiesti” ovvero “fornisce i documenti” (art. 6, comma 1 e 3)
216
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
si attribuiscono a tale termine, le conseguenze – in particolare
per quanto concerne il regime di appartenenza, ma non solo
– sono di non poco momento. Basti considerare che ai sensi del
Codice dei beni culturali, i documenti (amministrativi), sia in
quanto integrati in archivi delle pubbliche amministrazioni, sia
come “singoli”, costituiscono beni inalienabili, appartenenti, a
seconda dei casi, al demanio, o al patrimonio indisponibile, con
una conseguente, chiara indicazione quanto al relativo regime
di appartenenza (nel senso della proprietà pubblica in senso
stretto) (7).
Una via, utile a risolvere tale ambiguità, potrebbe essere quella
di verificare se la disciplina giuridica del riutilizzo, nel momento in cui regola la fase di cessione, di messa a disposizione delle
informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, faccia
riferimento alla necessaria intermediazione del contenente (la
logica documento), ovvero direttamente al contenuto (la logica
del dato), traendone le opportune conseguenze (8). Tuttavia questa strada presenta, a nostro avviso, due ordini di limiti.
Il primo, di ordine positivo, risiede nella contraddittorietà
del dato normativo: per un verso, oggetto della cessione sono
ora i dati, ora i documenti (9); per altro verso, lo stesso termine
“documento” viene utilizzato, di volta in volta, con riferimento
a categorie di supporti idonei a dare rappresentazione (contenente), ovvero all’entità rappresentata (contenuto) (10).
(7) Cfr. l’art. 54, comma 1, lett. d) e comma 2, lett. c) del d.lgs. 22 gennaio
2004, n. 42; cfr. M. BOMBARDELLI, Documento amministrativo, in Dizionario di
diritto pubblico, a cura di S. CASSESE, Milano, 2006, p. 2024.
(8) Sulla portata e le conseguenze di tale distinzione, con particolare riguardo alla tematica dell’accesso, si v. il contributo di E. MENICHETTI, in questo
volume.
(9) Ai riferimenti di cui alla precedente nota n. 4 (cessione/messa a disposizione di “documenti”), si contrappone il dato testuale di cui all’art. 50, comma 1
del 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale (di seguito CAD),
dove sono i “dati” gestiti dalle amministrazioni ad essere messi a disposizione
(anche) a fini di riutilizzo.
(10) In linea generale, alla definizione di documento fatta propria dalla
normativa nazionale (“la rappresentazione di atti, fatti e dati a prescindere dal
supporto nella disponibilità della pubblica amministrazione”, art. 2, comma
1, lett. c), d.lgs. 36 del 2006), si contrappone quella comunitaria (“qualsiasi
contenuto, a prescindere dal suo supporto”, art. 2, comma 3, lett. a) della direttiva 2003/98/CE). Peraltro, anche all’interno della stessa normativa nazionale,
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
217
Il secondo, di ordine sistematico, attiene alla stessa utilità
di una alternativa informazioni/documenti. Per le ragioni che
seguono.
Certamente, non appare persuasiva l’opzione che, nel riconoscere nel documento il medium necessitato della trasmissione
delle informazioni, identifichi in esso anche l’oggetto di tale
transazione. Vale ad escludere tale opzione la conseguenza, palesemente assurda, per cui, quantomeno in ordine ai documenti
cartacei (11), l’amministrazione dovrebbe – a tale fine – privarsi
della proprietà del bene (12). D’altra parte, anche nel caso specifico in cui l’oggetto della trasmissione tra amministrazione ed
il concetto di documento assume significati variabili: nell’art. 3, in cui sono
identificati i documenti esclusi dall’applicazione della disciplina del riutilizzo,
sono catalogati sia categorie di contenenti (lett. d)-g)), sia categorie dall’incerta
natura (lett. a)-c)), sia categorie di contenuti (lett. h)).
(11) Non appare, infatti, del tutto persuasiva la tesi di una applicabilità sic
et simpliciter del regime di appartenenza dei documenti amministrativi cartacei a quelli informatici (come sembra proporre M. BOMBARDELLI, loc ulti. cit.),
proprio in ragione delle peculiarità di questi ultimi; v. infra.
(12) D’altra parte, la ratio che sottende alla inalienabilità dei documenti
amministrativi (ed alla riconduzione di essi al demanio, ovvero al patrimonio indisponibile) non attiene alle esigenze di tutela e conservazione delle
informazioni in essi contenute, ovvero non solo ad esse, quanto piuttosto alla
conservazione del documento amministrativo come insieme strutturato di
informazioni cristallizzate in un dato documento, storicamente e sistematicamente identificato. Rileva, in questo contesto, la tradizionale materialità del
documento cartaceo in connessione con l’esigenza di tutela e conservazione di
esso ai fini della sua perpetuazione come fonte di conoscenza. Non a caso, le
preoccupazioni manifestate dalla scienza archivistica in ordine ai documenti
informatici concernono specificamente l’immaterialità (o, più correttamente,
la peculiare materialità) del supporto, con le conseguenze che ciò determina in
ordine ai profili della loro tutela e conservazione (non solo dell’informazione
in essi contenuta, ma del documento come insieme strutturato di contenuti).
Sulla materialità, quale caratteristica necessitata dei beni culturali, si v. C.
BARBATI, M CAMMELLI, G. SCIULLO, Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2006, p.
9; sugli archivi ed i problemi della conservazione dei documenti informatici,
si.v. M. GUERCIO, La documentazione di fonte pubblica: dal punto di vista degli
archivi, in MERLONI (a cura di), L’informazione delle pubbliche amministrazioni,
Rimini, 2002, pp. 332 ss.; L. GIUVA, S. VITALI, I. ZANNI ROSIELLO, Il potere degli
archivi, Milano, 2007; per una interessante e persuasiva ricostruzione dei
caratteri della documentazione informatica, si v., da ultimo, R. BIANCHINI, Il
documento informatico ed i fatti a necessaria documentazione digitale, in www.
teutas.it, 2007.
218
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
interessato è pacificamente il documento, questa avviene per
mezzo di estrazione di copia; ossia mediante un altro documento
(sebbene di identico contenuto) rispetto a quello cui si fa richiesta di accesso (13).
A differenza dell’esercizio del diritto di accesso, però, nel
caso della cessione di informazioni/documenti a fini di riutilizzo, il soggetto “ricevente” è interessato non all’informazione in
quanto strutturata e contenuta in un determinato documento
amministrativo, ma all’informazione in quanto tale, per la sua
capacità informativa intrinseca (14). Oggetto della transazione è,
in altri termini, l’informazione nella usa essenzialità. Tuttavia,
questa entità, per le sue caratteristiche proprie, ossia quale entità immateriale, non può essere comunicata se non tramite una
qualche forma di concretizzazione/rappresentazione. Pertanto,
se l’informazione è l’oggetto del rapporto, il suo trasferimento
necessita di una qualche forma di rappresentazione, così che il
documento torna in rilievo, ma (a questi fini) solamente nella
sua indispensabile dimensione strumentale (15).
Riepilogando: se è l’informazione ad essere oggetto del rapporto (mentre l’entità documentale assume nella vicenda una valenza
solo strumentale) è in relazione all’informazione in quanto bene
che pare utile delineare – ai fini di una ricostruzione dei profili
giuridici del riutilizzo – il relativo regime di appartenenza (alle
pubbliche amministrazioni).
(13) È il caso del diritto di accesso, per il quale si rinvia al contributo di E.
MENICHETTI, in questo volume.
(14) Questa differenza sostanziale, fondamentale ai fini del nostro discorso, trova riscontro nella circostanza per cui mentre la richiesta di accesso va
presentata “all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene
stabilmente” (art. 25, comma 2, legge 241/1990), le domande inerenti al riutilizzo vanno presentate al titolare del dato (art. 5, d.lgs. 36/2006).
(15) Ciò che trova riscontro nell’ampiezza della definizione di “documento”
ai fini del riutilizzo (cfr. art. 2, comma 1, lett. c) del d.lgs. 36/2006). Per la differenza tra il ruolo del documento come elemento che concorre ad integrare
il valore (legale, certificativo, storico ecc.) di una determinata informazione, e
il documento come mero strumento di esternazione di essa, e le conseguenze
di tale differenza sul riutilizzo di informazioni diffuse dalle p.a., si v. Cons. St.,
sez. IV, 24 ottobre 1994, n. 823, nonché T.A.R. Lombardia, sez. III, 15 dicembre
1998, n. 2935.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
219
1.2. Il regime di appartenenza: la titolarità dei dati pubblici
La ricostruzione dei tratti essenziali del regime di appartenenza alle pubbliche amministrazioni delle informazioni da esse
detenute non può che muovere dai caratteri specifici del bene
(l’informazione) oggetto del rapporto. Caratteri che si condensano nella natura incorporale dell’entità oggetto del rapporto.
La non-corporalità o, secondo una terminologia più diffusa in
letteratura, l’immaterialità dell’informazione comporta, infatti,
una conseguenza essenziale: dal punto di vista strutturale, l’informazione è illimitatamente riproducibile (16). In ragione di
tale caratteristica, essa si configura come bene strutturalmente
non rivale, dal momento che il suo godimento (17) da parte di
un soggetto non è incompatibile con il godimento altrui (18); in
particolare perché detto godimento non determina il consumo
o il deperimento del bene.
Tali caratteristiche incidono in maniera determinante sul
regime di appartenenza delle informazioni. In termini generali,
è da escludersi l’esistenza di una clausola generale che consenta
l’appropriazione o, in termini più generali, la rivendicazione di
diritti di esclusiva sull’informazione in quanto tale (19). Il riconoscimento di tali pretese, infatti, è limitato e condizionato al
verificarsi di ulteriori requisiti dell’informazione, relativi alla
originalità/creatività dell’idea o della struttura di cui si compone
l’informazione (20). Pertanto, al di fuori di questi casi, la pretesa
(16) È agevole notare che questa caratteristica, propria dell’entità-informazione in quanto tale, è stata portata a frutto ed esaltata dall’avvento delle
ICT, che hanno reso anche estremamente agevole, e non solo concretamente
praticabile (e praticata), detta potenziale illimitata riproducibilità.
(17) Per godimento si intende sia la diretta fruizione dell’informazione, in
ragione della sua valenza informativa (rapporto tra soggetto e bene); sia l’uso
o lo sfruttamento dell’informazione, che è una forma di godimento necessariamente indiretta e dinamica, attraverso la relazione con terzi (relazione tra
soggetti); in questi termini D. MESSINETTI, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano, 1970, p. 59.
(18) “beni suscettibili di godimento plurimo contestuale”, secondo D. MESSINETTI, Beni immateriali, Diritto privato, in Enc. Giur., V, Roma, 1988, p. 5.
(19) In questi termini V. ZENO-ZENCOVICH, Cosa, cit., 454.
(20) È il caso dei diritti di proprietà intellettuale, quali il diritto d’autore
e la privativa industriale, il cui riconoscimento e la cui tutela sono subordinati ai connotati (aggiuntivi) di novità/originalità o novità/industrialità delle
220
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
ad un rapporto di appropriazione (con le connesse, tradizionali
facoltà di detenere, godere e disporre in via esclusiva) dell’informazione appare priva di tutela, in termini generali (21). Può,
invece, venire in rilievo il momento patologico della lesione dello
ius excludendi, in tutti quei casi in cui l’ordinamento riconosce
determinate forme di esclusività, finalizzate – però – alla tutela di
interessi ulteriori (22): ciò che comporta piuttosto il consolidarsi
informazioni. A conferma della tesi, si noti che il meccanismo alla base della
proprietà intellettuale/industriale “non è altro che un sistema per introdurre
nel sistema economico una scarsità artificiale di un bene non rivale e non
escludibile come la conoscenza” (L. MARENGO, C. PASQUALI, L’economia dei diritti di proprietà nell’era di internet: alcuni paradossi e problemi, in A.C. AMATO
MANGIAMELI (a cura di), Parola chiave: informazione. Appunti di diritto, economia
e filosofia, Milano, 2004, p. 161). Circa la difficoltà di individuare, sulla base
dell’analisi economica del diritto, il giusto punto di equilibrio in ordine al riconoscimento di diritti esclusivi sull’informazione, già H. DEMSETZ, Information
and Efficiency: Another Viewpoint, in Journal of Law and Economics, 1969.
Va segnalato che all’inizio del XXI secolo la classica prospettiva favorevole al
riconoscimento di tali diritti, ispirata alla dottrina della Tragedy of Commons,
pure ancora ampiamente dominante, è sottoposta a profonda critica, proprio
a partire dalle caratteristiche intrinseche dell’informazione, come elemento
base dell’economia della conoscenza: si v. M.A. HELLER, The Tragedy of the
Anticommons, Harvard Law Review, January 1998, ed i contributi raccolti in
J. BOYLE (a cura di), The Public Domain, in Law and Contemporary Problems,
(66) Winter-Spring 2003 (v. anche infra).
(21) D’altra parte, l’assenza di una clausola generale in ordine alla appropriabilità dell’informazione (in quanto tale) pare direttamente strumentale a
non ostacolarne la più ampia e libera capacità di circolazione, soprattutto in
un contesto tecnologico, economico e sociale che tende progressivamente ad
abbattere i costi ed a potenziare la velocità e la capillarità di tale circolazione.
Né va sottovalutato che tale caratteristica pare coerente con le finalità tutelate
dall’art. 21 Cost. In termini positivi, l’assenza di tale clausola pare confermata,
ad esempio, dall’art. 12, comma 2, lett. c), del r.d. 29 giugno 1939, n. 1127, in
materia di brevetti per invenzioni industriali, secondo cui “non possono costituire oggetto di brevetto [...] le presentazioni di informazioni”, o, ancora, dagli
artt. 2, 65, 66 e 101 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d’autore, dai
quali si deduce che “la semplice informazione quando sia astratta dalla sua
particolare espressione creativa o quando sia stata sin all’origine espressa senza
alcuna creatività non può formare oggetto di diritto di autore ed è liberamente
riproducibile”, L.C. UBERTAZZI, Raccolte elettroniche di dati e diritto d’autore, in
Foro it., 1984, V, c. 26.
(22) Si pensi alla inviolabilità delle comunicazioni personali e del domicilio,
oppure alla riservatezza delle informazioni pertinenti ad un rapporto professionale (medico, avvocato, etc.), ed in generale alle diverse ipotesi di tutela del
segreto o della riservatezza.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
221
di specifici doveri (di segretezza, riservatezza, non divulgazione,
ecc.) in capo al detentore delle informazioni.
Un secondo ordine di conseguenze, derivanti dalla natura immateriale e dei connessi caratteri della illimitata riproducibilità
e della non rivalità del bene informazione, riguarda l’inadeguatezza non tanto del regime dei beni pubblici, quanto piuttosto
della stessa ratio sottesa a detto regime (23), se riferita alle informazioni. In effetti, anche i più recenti istituti finalizzati alla
conservazione della destinazione dei beni pubblici (24) appaiono
comunque non congruenti, se non del tutto inadatti a fronte di
beni strutturalmente non rivali (25).
Così, se si guarda al regime di “appartenenza” pubblica delle
informazioni, positivamente tradotto nella situazione della titolarità dei dati (26), ci si avvede che essa non appare caratterizzata,
(23) Tradizionalmente, il regime speciale dei beni pubblici consiste “in una
disciplina particolarmente protettiva dei medesimi beni, diretta ad assicurare
che questi, direttamente ed immediatamente strumentali all’esercizio di diritti
collettivi o di funzioni e servizi pubblici, si conservino integri e non siano sottratti
alla loro destinazione istituzionale dalla stessa pubblica amministrazione o da
soggetti terzi”, così M. RENNA, Beni pubblici, in Dizionario di diritto pubblico,
cit., I, 715 (corsivi miei).
(24) Se per effetto dei processi di privatizzazione (dei beni o degli enti
proprietari), l’asse della specialità del regime va collocandosi non più sulla
necessaria, formale e soggettiva “appartenenza” pubblica dei beni, ma piuttosto
sulla sostanziale e oggettiva loro “destinazione pubblica” (si v. M. RENNA, La
regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004, ma
anche M. DUGATO, Il regime dei beni pubblici: dall’appartenenza al fine, in Valori e
principi del regime repubblicano, 2. S. LABRIOLA (a cura di), Diritti e libertà, Bari,
2006, pp. 219 ss.), immutata resta la finalità delle misure dirette a garantire
integrità dei beni e loro destinazione.
(25) Pertanto, anche nell’ottica (che qui si condivide) per cui le informazioni
detenute dalle pubbliche amministrazioni, con le eccezioni del caso (si pensi ai
dati personali), vadano trattate alla stregua di beni pubblici in senso oggettivo,
ossia beni da destinare alla fruizione del pubblico (questione che però va risolta
non in termini ideologici, ma alla stregua del diritto positivo), è evidente che
sia il tradizionale schema della proprietà pubblica in senso stretto, sia il più
attuale schema della destinazione pubblica non appaiono soluzioni adeguate,
né pienamente soddisfacenti: ma, sul punto, v. infra, par. 5.2; sul passaggio
del trattamento dai dati come proprietà delle p.a., ai dati della p.a come bene
pubblico, e le connesse esigenze di un loro governo condiviso, si v. il contributo
di F. MERLONI, in questo volume.
(26) Con il termine “titolarità dei dati” si designa una situazione giuridica
di detenzione qualificata dell’informazione da parte della singola amministra-
222
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
in quanto tale, da diritti potestativi di uso e di godimento esclusivo (o escludente), quanto piuttosto da specifiche situazioni di
dovere. In particolare, accanto ai doveri di tutela della riservatezza (pubblica e privata), validi per determinate categorie di
informazioni, la titolarità dei dati è positivamente caratterizzata
dal generale dovere di mettere a disposizione delle (altre) componenti del sistema pubblico le informazioni detenute (27), cui si
accompagnano significativi istituti e doveri strumentali (28).
Si tratta di connotati peculiari che, come vedremo di qui a
poco, trovano significativo riscontro nei dati positivi di regolazione del riutilizzo delle informazioni pubbliche.
zione, non riconducibile alla mera detenzione di fatto (come, ad esempio, nel
caso della detenzione di informazioni ambientali, ai sensi v. l’art. 2, comma
1, lett. c) del d.lgs. 19 agosto 2005, n. 195 recante Attuazione della direttiva
2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale, che fa riferimento alla “informazione ambientale in possesso di una autorità pubblica in
quanto dalla stessa prodotta o ricevuta o materialmente detenuta da persona
fisica o giuridica per suo conto”): lo scarto tra (mera) detenzione e titolarità
pare presupposto dall’art. 58, comma 1 del CAD, secondo cui “il trasferimento
di un dato da un sistema informativo ad un altro non modifica la titolarità
del dato”. La qualificazione giuridica della detenzione in termini di titolarità
– funzionale alla imputazione delle situazioni di potere, facoltà e dovere sulle
informazioni detenute, (v. infra) – è più volte richiamata nel CAD, ma (niente
affatto casualmente) trova una sua definizione (solo) nel d.lgs. n. 36 del 2006
(cfr. l’art. 2, comma 1 lett. i): “titolare del dato: la pubblica amministrazione
o l’organismo di diritto pubblico che ha originariamente formato per uso
proprio o commissionato ad altro soggetto pubblico o privato il documento
che rappresenta il dato”).
(27) Cfr. art. 50, comma 2 del d.lgs. 7 maggio 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale (di seguito CAD), “Qualunque dato trattato da una pubblica
amministrazione [...], è reso accessibile e fruibile alle altre amministrazioni
quando l’utilizzazione del dato sia necessaria per lo svolgimento dei compiti
istituzionali dell’amministrazione richiedente”.
(28) Quali, ad esempio, il dovere in capo all’amministrazione titolare dei dati
di predisporre, gestire ed erogare i servizi informatici necessari per rendere
possibile l’utilizzo in via telematica dei dati da parte dei sistemi informatici
delle altre amministrazioni (art. 50, comma 3 del CAD); le funzioni assicurate
dal Sistema pubblico di connettività e le relative regole tecniche (artt. 71 ss. del
CAD); l’istituto dell’accesso interamministrativo telematico come strumentale
all’accertamento d’ufficio (artt. 58 e 60 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445).
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
223
2. Le informazioni oggetto della disciplina sul riutilizzo
Al di là delle finalità perseguite dalla direttiva n. 98/2003, che si
inserisce in un più ampio contesto di politiche comunitarie volte
ad incentivare le dinamiche economiche ma anche i processi culturali, sociali ed istituzionali della c.d. ‘società della conoscenza’,
l’effetto diretto della sua attuazione, con il d.lgs. n. 36 del 2006,
consiste nella predisposizione di un quadro generale di principi
e di regole in ordine alle modalità attraverso cui le pubbliche
amministrazioni rendono disponibile e fruibile il loro patrimonio informativo all’esterno del sistema pubblico (29), in base alla
considerazione che tale risorsa può rappresentare la base o una
delle componenti per la realizzazione di utilità ulteriori. Si tratta di un effetto di non poco momento, se solo si considera che
il nostro ordinamento non conosceva, in precedenza, nessuna
disciplina generale della materia, e che le amministrazioni si
regolavano per lo più ciascuna per proprio conto.
Il primo elemento di rilievo di tale disciplina consiste nella
perimetrazione, rispetto all’insieme complessivo delle informazioni detenute a vario titolo dalle amministrazioni, del sottoinsieme cui sono applicabili gli istituti finalizzati al riutilizzo. Tale
delimitazione opera in due direzioni:
1) in positivo, individuando in termini generali l’oggetto
della disciplina nei dati pubblici, ossia i dati “conoscibili da
chiunque” (30);
2) in negativo, individuando esplicitamente le categorie di dati
esclusi dal campo di applicazione della disciplina in oggetto.
Detta delimitazione, in sostanziale accordo con le indicazioni
della direttiva, è rivelatrice della incidenza del regime di apparte(29) Come si è già notato, la messa a disposizione delle informazioni all’interno del sistema pubblico in vista dell’assolvimento dei compiti istituzionali
delle diverse articolazioni della Repubblica è retta dal principio di fruibilità e
di leale collaborazione, di modo che la cessione delle informazioni a tali fini
costituisce per le amministrazioni titolari un preciso dovere: v. M.P. GUERRA,
Circolazione dell’informazione e sistema informativo pubblico: profili dell’accesso
interamministrativo telematico, in Dir. pubbl., 2005, pp. 525 ss.; ed il contributo
di F. MERLONI, in questo volume.
(30) Cfr. art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. d) del d.lgs. 36/2006, che
riproduce la definizione di “dato pubblico” già contemplata dal Codice dell’amministrazione digitale.
224
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
nenza sulla regolamentazione della cessione delle informazioni
da parte delle amministrazioni. Infatti, entrambi i criteri di delimitazione valgono a sottrarre dal regime del(la cessione a fini
di) riutilizzo quelle informazioni detenute dalle amministrazioni
sulle quali insista una qualche ipotesi di diritto (di uso) esclusivo,
ovvero qualche ragione escludente la loro (ulteriore, e diversa)
conoscibilità. E così, tra i dati esplicitamente sottratti al regime
del riutilizzo, si ritrovano quelli su cui terzi (31) o la stessa amministrazione (32) possano vantare diritti di proprietà intellettuale
o industriale, ovvero doveri pubblici di conservazione/destinazione. E restano escluse anche quelle informazioni che sono
presidiate da specifici regimi di conoscenza esclusiva in capo
alle amministrazioni, per ragioni di (tutela della) riservatezza, sia
pubblica che privata (33). Si noti, ciò non significa che per questo
genere di informazioni sia, in ogni caso, preclusa la cessione a
terzi, ma semplicemente che tale cessione (ove possibile) resterà
soggetta a regole e condizioni differenti da quelle prescritte dalla
disciplina sul riutilizzo (34).
(31) Cfr. le ipotesi di cui all’art. 3, comma 1, lett. h).
(32) Cfr. art. 3, comma 1, lett. b) (documenti/dati nella disponibilità delle
emittenti di servizio pubblico per l’adempimento di un compito di radiodiffusione di servizio pubblico); lett. c): (documenti/dati nella disponibilità di
istituti d’istruzione e di ricerca, scuole, università, archivi, biblioteche ed enti di
ricerca, comprese le organizzazioni preposte al trasferimento dei risultati della
ricerca); lett. d) (documenti/dati nella disponibilità di enti culturali quali musei,
biblioteche, archivi, orchestre, teatri lirici, compagnie di ballo e teatri).
(33) Cfr. art. 3, comma 1, lett. e) (informazioni coperte da segreto di stato); e
lett. g) (documenti comunque sottratti al diritto di accesso, anche a tutela della
vita privata e della riservatezza di terzi), ma soprattutto, per quanto concerne
la tutela dei dati personali, la norma di salvaguardia, che fa salvi gli effetti
della disciplina sulla protezione dei dati personali di cui al decreto legislativo
30 giugno 2003, n. 196 (cfr. art. 4, comma 1, lett a)).
(34) È, cioè, evidente l’intento del legislatore di salvaguardare le prerogative
delle diverse tipologie di proprietà intellettuale quali condizioni di accesso ai
contenuti informativi che ricadano sotto questo genere di tutela. Ovvero, di
fare salvi i limiti e le (stringenti) condizioni, in merito alla legittimazione del
richiedente, alle finalità dell’utilizzo e al consenso dell’interessato, per quanto
concerne la fruibilità di dati personali di terzi (con particolare riguardo ai
dati sensibili e supersensibili), anche quando raccolti a fini statistici (cfr. art.
4, comma 1, lett f)). Ovvero, ancora, di preservare le peculiari modalità di
fruizione di determinate tipologie di informazioni, già oggetto di una propria
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
225
Al netto delle categorie escluse, ci si avvede che il regime finalizzato alla fruibilità a fini di riutilizzo ha ad oggetto le (sole)
informazioni sulle quali né terzi, né l’amministrazione stessa,
possono vantare diritti di godimento o di uso esclusivi. Si aggiunga che la integrale salvaguardia della disciplina sul diritto
d’autore (35) – anche con riguardo alle banche dati – fornisce
elementi utili non a smentire, ma semmai a confermare tale
conclusione (36). Una constatazione importante, come vedremo
di qui a poco, ai fini della ricostruzione del ruolo e dei poteri
dell’amministrazione “cedente”.
Un’ultima notazione, ai fini della identificazione dell’oggetto
del regime del riutilizzo, concerne invece il supporto documentale come medium necessario per la rappresentazione/cessione dell’informazione. Occorre sottolineare, infatti, che la dimensione
documentale oltre che strumento necessitato, costituisce anche
un limite nella individuazione delle informazioni pubbliche potenzialmente oggetto di riutilizzo, dal momento che la disciplina
solleva l’amministrazione dall’onere di creare nuovi documenti
(ovvero, di adattare in misura rilevante quelli già detenuti) al fine
specifica disciplina, come nel caso dei dati della borsa continua nazionale del
lavoro, dell’anagrafe del lavoratore e dei dati assunti in materia di certificazione
dei contratti di lavoro, di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276,
esclusi dal regime del riutilizzo ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. f).
(35) Cfr. l’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. 36/2006.
(36) Infatti, anche ad ammettere che le amministrazioni siano in tutti i casi
effettivamente titolari di un diritto d’autore sulle banche dati da esse costituite
(poiché è dubbio che si possa riconoscere il requisito della originalità o della
creatività della scelta e della disposizione delle informazioni – oggetto della
tutela del diritto d’autore nel caso delle banche dati – quando essa risponda a
requisiti e finalità stabiliti dall’ordinamento), tale diritto concerne la banca dati
nel suo complesso in quanto creazione intellettuale, e non anche i dati in essa
catalogati. Inoltre, la tutela specifica del diritto sui generis, che prescinde dal
carattere dell’originalità delle modalità di raccolta, e che mira invece a tutelare
l’investimento economico necessario alla costituzione della banca dati, e che
consiste nella possibilità di vietare le operazioni di estrazione ovvero di reimpiego della totalità o di una parte sostanziale della stessa, significativamente
non trova applicazione quando il costitutore sia una pubblica amministrazione
(essendo tutelate solo le persone fisiche, le imprese e le società): cfr. artt. 64quinquies, 64-sexies, 102-bis e 102-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633 e s.m.i.;
sul punto, si v. le considerazioni di D. REDOLFI e F. VEUTRO, La tutela giuridica
delle banche dati della pubblica amministrazione, in www.interlex.it.
226
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
di soddisfare le richieste di riutilizzo. Pertanto, le informazioni
saranno disponibili per il riutilizzo unicamente nelle strutture
documentali in cui sono state raccolte (37).
3. Natura del potere di “consentire” il riutilizzo
Nonostante una qualche ambiguità presente nel testo normativo, si può senz’altro affermare che la disciplina nazionale
configura la messa a disposizione delle informazioni a fini di
riutilizzo da parte del titolare dei dati come un’attività di carattere
non doveroso. I dati che conducono a questa conclusione sono
molteplici, e vanno esaminati separatamente.
In termini testuali, l’art. 1, comma 2 è inequivocabile nell’affermare che:
a) “le pubbliche amministrazioni e gli organismi di diritto
pubblico non hanno l’obbligo di consentire il riutilizzo dei documenti” di cui dispongono; e che
b) “la decisione di consentire o meno tale riutilizzo spetta
all’amministrazione o all’organismo interessato, salvo diversa
previsione di legge o di regolamento”. Esclusa, quindi, l’opzione
della situazione di obbligo, resta da capire se il potere (38) che residua in capo all’amministrazione nel decidere se “consentire” il
riutilizzo, vada configurato in termini di potere-dovere, ovvero nei
termini di facoltà di scelta rimessa all’autonoma determinazione
della stessa amministrazione, con evidenti conseguenze in ordine
(37) Cfr. l’art. 6 del d.lgs. 36/2006. Si tratta, all’evidenza, di un principio a
salvaguardia dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa (che,
in questo senso, riproduce il limite sancito a proposito del diritto di accesso
dall’art. 22, comma 4 della legge 241/1990), che tuttavia trova una minore
giustificazione – su questo piano – dal momento che l’attività non costituisce
un dovere dell’amministrazione, e che quest’ultima – in base dei criteri di
tariffazione stabiliti al successivo art. 7 – potrebbe integralmente recuperare
i costi aggiuntivi. Ad altri fini, però, tale limitazione si rivela decisiva, dal momento che fornisce un chiaro criterio che consente di distinguere la cessione
di informazione a fini di riutilizzo da altre attività, poste in essere dalle stesse
amministrazioni, che integrano un riutilizzo posto in essere dalla stessa amministrazione; ma sul punto, v. infra, par. 6.
(38) La scelta rimessa all’amministrazione viene qualificata expressis verbis
come esercizio di “potere” dal successivo comma 4 dell’art. 1.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
227
al regime applicabile all’esercizio di tale potere. Per concludere
nel senso del riconoscimento di un potere di natura pubblicistica la sola finalizzazione, forse desumibile dal tenore dell’art. 1,
comma 4 (39), non è, però elemento concludente, dal momento
che – invece – è del tutto assente l’indicazione delle regole, dei
principi e dei criteri volti a delimitare la discrezionalità della
scelta in ordine all’an (40). Ciò che trova conferma nella clausola
di rinvio ad ulteriori, specifici atti normativi al fine di regolare
tale potere di scelta, al fine di sottrarlo alle amministrazioni (41);
così come nella mancata previsione di rimedi avverso la decisione
negativa dell’amministrazione (42). In questi termini, pertanto, la
(39) “La finalità di rendere riutilizzabile il maggior numero di informazioni” appare, comunque, alquanto generica, inidonea a costituire ragione
giustificatrice di una doverosità sull’an, tanto più che lo stesso comma 4 la
collega strettamente alla necessità di assicurare condizioni eque, adeguate e
non discriminatorie ai riutilizzatori (in una fase, quindi, successiva alla scelta
sul se consentire o meno il riutilizzo).
(40) Come già evidenziato, le numerose disposizioni presenti nel d.lgs. n.
36 del 2006 che impongono modalità eque e non discriminatorie nell’attività
di cessione delle informazioni a fini di riutilizzo (v. infra) non sono idonee a
condizionare la scelta relativa al se consentire il riutilizzo, in quanto la presuppongono come già avvenuta (in termini positivi). Tale scelta, quindi, “sembra,
in effetti, configurarsi come esercizio di un indefinito potere autoritativo, più
che come una funzione volta a realizzare gli obiettivi indicati dalla direttiva”,
secondo I. D’ELIA, La diffusione e il riutilizzo dei dati pubblici. Quadro normativo
comunitario e nazionale: problemi e prospettive, in Inf e dir., 2006, p. 44.
(41) La direttiva, laddove chiarisce di non prescrivere l’obbligo di consentire
il riutilizzo, ma di rimettere la decisione allo Stato membro o all’amministrazione interessata (considerando n. 9), evidentemente consente al legislatore
nazionale di scegliere tra due opzioni radicalmente divergenti: ove sia lo Stato
membro ad effettuare la scelta (positiva) di consentire il riutilizzo, per le amministrazioni la conseguente attività di cessione delle informazioni si configura,
evidentemente, come doverosa; non così, nel caso contrario (ossia, quando lo
Stato membro rimetta in toto la scelta sull’an all’amministrazione interessata).
E questo secondo, pare proprio essere il caso della disciplina italiana.
(42) La disciplina quadro comunitaria prescrive che le amministrazioni destinatarie di richiesta di riutilizzo esplicitino, in caso di rifiuto, le ragioni della
decisione, indicando anche i mezzi di ricorso a disposizione del richiedente
(cfr. art. 3, commi 3 e 4 della direttiva 2003/98/CE): ma nel decreto 36/2006 non
c’è traccia di tutto ciò. Anche in questo caso, le uniche disposizioni in materia
si occupano solo di regolare le procedure di presentazione della richiesta di
riutilizzo, ovvero di prevedere l’indicazione dei mezzi di impugnazione delle
licenze standard: tutte circostanze che presuppongono come già intervenuta
228
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
decisione rimessa alle amministrazioni titolari dei dati pare da
ricondursi alla rispettiva autonoma potestà di scelta.
Un secondo ordine di considerazioni, che porta ad escludere
la doverosità dell’attività di cessione delle informazioni a fini di
riutilizzo, è da ricondurre alla “signoria” esercitata su tale regime
dalla disciplina nazionale del diritto di accesso (43). Si vuole, con
ciò, sottolineare non solo che la disciplina del riutilizzo non è
indifferente ai caratteri che connotano la disciplina del diritto
di accesso, ma che questi secondi paiono condizionare in modo
rilevante l’assetto della prima. In particolare, i peculiari requisiti di legittimazione (44) che caratterizzano il diritto di accesso
domestico (45), sembrano costituire un ostacolo oggettivo alla
configurazione in termini di doverosità dell’attività di cessione
delle informazioni detenute dalle amministrazioni a fini di riutilizzo, per la semplice – ma decisiva – ragione che, per ragioni
la scelta di consentire il riutilizzo (cfr. l’art. 5, comma 2: il fatto che la richiesta
finalizzata ad ottenere i documenti a fini di riutilizzo vada formulata con “le
modalità stabilite dal titolare del dato con proprio provvedimento”, è indice
evidente che l’amministrazione in questione ha già assunto le preliminari determinazioni di mettere a disposizione le informazioni a fini di riutilizzo; lo
stesso dicasi, in ordine alla previsione di cui all’art. 8. comma 1).
(43) Sulla “signoria” del regime di accesso su quella del riutilizzo, nel contesto giuridico europeo, si v. anche B. PONTI, Il patrimonio informativo pubblico
come risorsa: i limiti del regime italiano di riutilizzo dei dati delle pubbliche
amministrazioni, in Dir. pubbl., n. 3, 2007, cui sia consentito di rinviare.
(44) È noto che, nell’ordinamento italiano, il soggetto che intenda fare accesso ai documenti detenuti dalla pubblica amministrazione deve dimostrare il
proprio “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”;
ma sul punto si rinvia al contributo di E. MENICHETTI, in questo volume.
(45) Sulla eccezionalità del caso italiano, quanto al requisito della legittimazione soggettiva quale presupposto per l’accesso ai documenti della pubblica
amministrazione, si v. M. MCDONAGH, European access legislation: Consistence
or Divergence?, in G. AICHOLZER, H. BURKERT (a cura di), Public sector information in the digital age, Cheltenham – Northampton, 2004, pp. 108 ss.; dove
si sottolinea che in nessun paese europeo (tranne l’Italia e, per determinate
categorie di documenti, la Grecia) è prescritta la dimostrazione di uno specifico interesse per ottenere informazioni o documenti dalle amministrazioni
pubbliche. Per un approfondimento sulla disciplina del diritto di accesso in
Francia, UK, Germania e Spagna, si rinvia ai saggi contenuti nella prima parte
di questo volume.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
229
strutturali, la richiesta di riutilizzo non può essere vincolata
alla dimostrazione di una condizione soggettiva legittimante
(ulteriore, e diversa da quella, del tutto aspecifica, dell’interesse
al riutilizzo). Di conseguenza, una disciplina che prevedesse la
doverosità della cessione di informazioni (a fini di riutilizzo), si
porrebbe in aperto contrasto con il regime italiano del diritto di
accesso (quantomeno, nella sua attuale formulazione), finendo
per sovvertirne la filosofia di fondo e gli specifici caratteri positivi (46). Tale prospettiva, però, pare preclusa dalla stessa direttiva
98/2003, laddove prescrive che la disciplina sul riutilizzo (adottata
in sede di attuazione) debba basarsi sui regimi esistenti del diritto
di accesso, senza modificarne i principi (47). Questa preferenza accordata ai regimi nazionali di accesso all’informazione pubblica,
(46) Sul punto, è sufficiente constatare (in via ipotetica) che la configurazione come doverosa dell’attività di messa disposizione delle informazioni da parte
delle amministrazioni a fini di riutilizzo, finirebbe per offrire ai richiedenti uno
strumento più penetrante ed efficace di accesso all’informazione rispetto allo
stesso diritto di accesso della legge 241/1990, dal momento che non sarebbe
richiesta la dimostrazione della condizione di legittimazione soggettiva alla
conoscenza delle informazioni richieste. Per fare un esempio concreto, si pensi
alle numerose richieste di accesso che le associazioni di consumatori si sono
viste respingere in ragione della carenza del requisito soggettivo, per eccessiva
onerosità della richiesta o perché comportanti un controllo generalizzato sull’operato della p.a. (cfr., ad esempio, Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2007, n. 2314;
Cons. St., sez. V, 25 settembre 2006, n. 5636; Cons. St., sez. VI, 10 febbraio
2006, n. 555). Si tratta di fattori ostativi che – a tutta evidenza – non possono
operare nel caso del riutilizzo: oltre alla inconferenza della legittimazione
soggettiva, anche la eccessiva onerosità parrebbe non deducibile (il riutilizzo
non può che avere ad oggetto anche masse ingenti di documenti), così come
pure il divieto di controllo generalizzato (le finalità del riutilizzo attengono,
infatti, all’autonoma determinazione del richiedente/riutilizzatore, e rilevano
– ma solo nella dimensione della loro natura commerciale/non commerciale
– solo ai fini tariffari, v. infra).
(47) Cfr. il considerando (9) della direttiva 2003/98/CE, che rende evidente
la natura compromissoria della disciplina comunitaria, preoccupata di non
mettere in discussione i regimi di accesso dei paesi membri, con particolare
riferimento a quelli più restrittivi, come il nostro: “la presente direttiva si basa
sui regimi di accesso esistenti negli Stati membri e non modifica le norme
nazionali in materia di accesso ai documenti. Essa non si applica nei casi in
cui i cittadini o le imprese, in virtù del pertinente regime di accesso, possono
ottenere un documento solo se sono in grado di dimostrare un particolare
interesse in proposito”.
230
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
ed il relativo effetto sulla disciplina positiva del riutilizzo trova
una conferma significativa proprio nelle modalità di traduzione
della disciplina quadro nei paesi in cui, diversamente dall’Italia,
è consentito l’accesso generalizzato alle informazioni (ossia, laddove sono previsti unicamente limitazioni di carattere oggettivo,
e non anche soggettivo, all’accesso). In tali contesti normativi,
infatti, nulla osta a configurare come doverosa la cessione di
informazioni a fini di riutilizzo (fatte salve le esclusioni previste
dalla stessa direttiva), tant’è che – per fare un esempio – sia nel
Regno Unito che in Francia sono stati predisposti strumenti
giuridici volti a tutelare gli interessati al riutilizzo a fronte di
ingiustificati dinieghi opposti dalle amministrazioni (48).
Pertanto, al di là della esplicita clausola di salvaguardia (49),
l’intero impianto del d.lgs. 36/2006 appare condizionato alla
preservazione del regime di accesso domestico, con l’effetto
di escludere il carattere doveroso dell’attività di cessione delle
informazioni a fini di riutilizzo.
Correlativamente, di fronte ad un potere delle amministrazioni
di decidere sul se mettere a disposizione o meno le informazioni
così configurato, la pretesa dei soggetti interessati a disporre delle
informazioni detenute dalle amministrazioni a fini di riutilizzo
risulta del tutto sprovvista di tutela giuridica (50).
4. La disciplina del rapporto tra amministrazione cedente
e soggetto riutilizzatore
Chiarito il punto circa l’an, si tratta ora di inquadrare i profili giuridici relativi al quomodo: ovvero i principi e gli istituti
(48) Cfr. i contributi di P.J. BIRKINSHAW, A. HICKS e di P. SUCEVIC, nella prima
parte di questo volume. Per la necessità di adattare il regime del riutilizzo al
“two-step model” dell’accesso, caratteristico dell’ordinamento tedesco, si v. il
contributo di M. EIFERT.
(49) Cfr. l’art. 4, comma 1, lett. c) del d.lgs. 36/2006, che fa salva a tutti gli
effetti la disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi, di cui
al Capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241.
(50) Sulla carenza di tutela dell’interesse al riutilizzo nel nostro ordinamento,
anche a seguito dell’attuazione della direttiva 2003/98/CE, sia consentito rinviare ancora a B. PONTI, Il patrimonio informativo pubblico come risorsa, cit.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
231
che disciplinano le modalità con cui le amministrazioni (che
abbiano deciso in questo senso) mettono a disposizione dei soggetti interessati al riutilizzo le informazioni di cui sono titolari;
modalità che, in termini strutturali, può essere descritta come
una rapporto di scambio, in termini di cessione di informazioni
contro versamento di una tariffa.
Un punto di rilievo attiene alla capacità dell’amministrazione
di imporre, per via convenzionale, limiti e condizioni all’attività
posta in essere dal soggetto riutilizzatore. Secondo lo schema
teorico ricostruttivo in ordine ai caratteri propri dell’appartenenza all’amministrazione delle informazioni, e dal momento che il
riutilizzo può avere ad oggetto solo dati pubblici, tale capacità
– in assenza di un rapporto di esclusiva con l’informazione (51)
– dovrebbe risultare inidonea a limitare/condizionare l’attività di
(ri)uso/sfruttamento dell’informazione posta in essere dal riutilizzatore. Si tratta ora di esaminare i dati positivi che emergono
dalla disciplina generale del riutilizzo, per verificare se e in che
misura essi si discostino da questo impianto.
4.1. I vincoli imposti alle attività poste in essere dai riutilizzatori
Ed invero alcuni elementi, di carattere prevalentemente
testuale, sembrerebbero deporre nel senso di un significativo
scostamento dal quadro di riferimento. Si allude, in modo particolare, all’uso dell’espressione “consentire il riutilizzo” (52),
che parrebbe implicare un contenuto autorizzatorio nella decisione di mettere a disposizione le informazioni; una lettura che
troverebbe conferma nel ricorso alla “licenza” quale tipologia
contrattuale destinata a regolare il rapporto tra amministrazione
cedente e riutilizzatore (53).
Un’analisi più approfondita, tuttavia, conduce a conclusioni
diverse, più aderenti al quadro teorico di base.
(51) Come chiarito, supra, par. 1.2.
(52) Cfr. l’art. 1, comma 2 del d.lgs. 36/2006.
(53) Cfr. art. 1, comma lett. h); art. 5, comma 1; art. 8 del d.lgs. 36/2006;
per questa opzione, ammessa in termini problematici, si v. C.M. CASCIONE, Il
riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, in Dir. inf., 2005, p. 25.
232
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
In primo luogo, in passato la giurisprudenza non riconosceva
all’amministrazione un potere di limitare/conformare l’attività di
riutilizzo delle informazioni tratte da documenti amministrativi
(pubblici) (54).
Inoltre, la stessa ratio della disciplina comunitaria si oppone
all’introduzione o alla giustificazione di una capacità di questo
tipo. Infatti, l’intervento del legislatore comunitario è volto,
sostanzialmente, ad impedire che le amministrazioni possano
tradurre la rispettiva condizione (legale, ovvero di fatto) di “monopoliste” delle informazioni detenute in comportamenti idonei
a distorcere o limitare la concorrenza nel mercato dei prodotti
basati sull’informazione (55). Il divieto di comportamenti discriminatori o anticoncorrenziali (ad esempio, mediante l’imposizione di clausole di esclusiva) muove – cioè – in una direzione
esattamente contraria a quella della rivendicazione di diritti di
privativa sull’informazione da parte dell’amministrazione, sì che
l’attuazione del quadro normativo comunitario non solo non ne
supporta l’introduzione, ma impone (semmai) lo smantellamento
di quelli già esistenti (56).
(54) Cfr. Cons. St., sez. IV, 24 ottobre 2004, n. 823; T.A.R. Lombardia, Sez.
III, 15 dicembre 1998, n. 2935.
(55) Ma sul punto, v. infra, più ampiamente.
(56) Cfr. T.A.R. Lazio, sez. II, 6 giugno 2006, n. 4339, con cui si è proceduto
all’annullamento della convenzione tipo predisposta dall’Agenzia del Territorio per il riutilizzo delle informazioni ipo-catastali, previa disapplicazione
della conforme legislazione nazionale. Tale disciplina (cfr, il testo originario
dell’art. 1, comma 367-372 della la legge 30 dicembre 2004, n. 311, l. finanziaria 2005, per altro inopinatamente fatta salva dal d.lgs. 36/2006) stabiliva
il divieto generalizzato di riutilizzo dei dati ipo-catastali, e ne subordinava la
liceità alla stipula di una apposita convenzione con l’Agenzia del Territorio.
Detta convezione (unitamente alla legislazione de qua, che già ne contemplava
compiutamente il contenuto) è stata ritenuta incompatibile con la disciplina
comunitaria laddove finiva per imporre al riutilizzatore la reiterazione del
pagamento dei diritti dovuti per l’acquisizione dell’informazione in occasione
di ciascun atto di riutilizzazione. Una clausola che, a tutta evidenza, importava
la rivendicazione di un diritto esclusivo allo sfruttamento dell’informazione
ceduta. In sede di revisione della disciplina legislativa (cfr. il testo dei comma
370-372 della l. 311/2004 come modificati dall’art. 1, comma 386 della legge
27 dicembre 2006, n. 296, fin. 2007) tale meccanismo è stato modificato, in
termini coerenti con la disciplina comunitaria. Da notare che, in questa seconda versione, la ratio del potere autorizzatorio al riutilizzo dei ipo-catastali
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
233
La capacità riconosciuta all’amministrazione di imporre condizioni e limitazioni ai riutilizzatori delle informazioni (tramite
le licenze) non si configura, pertanto, come uno strumento utile
a far valere pretese di diritto esclusivo, ma risponde a finalità
diverse, strutturalmente connesse all’oggetto della cessione (i.e.
i dati pubblici): la protezione dei dati personali e la salvaguardia
della qualità dei dati ceduti a fini di riutilizzo.
4.1.1. Segue: a tutela dei dati personali oggetto di riutilizzo
Le esigenze di tutela dei dati personali (detenuti e trattati dalle amministrazioni) incidono sul regime del riutilizzo secondo
due distinte modalità, a seconda della tipologia di dati personali
considerati.
Quanto ai dati personali c.d. sensibili, essi dovrebbero risultare del tutto esclusi dal novero dei dati che possono essere ceduti
a fini di riutilizzo. Questi, infatti, possono essere solo dati pubblici, ovvero “conoscibili da chiunque”, dai quali restano esclusi
per definizione i dati “a conoscibilità limitata”, nel cui ambito
certamente ricadono i dati sensibili (57).
Quanto, invece, ai dati personali “comuni”, essi ricadono nell’ambito dei dati astrattamente riutilizzabili, ma anche per essi
si pongono esigenze di tutela: se, infatti, la comunicazione di
tali dati dall’amministrazione cedente al soggetto riutilizzatore
si è ridotto al semplice accertamento del pagamento dei tributi dovuti (cfr. la
circ. 29 dicembre 2006 dell’Agenzia del Territorio, ed il d.m. 6 luglio 2007 del
Ministero delle Finanze). Per un inquadramento della vicenda relativa al riutilizzo dei dati catastali, si v. U. FANTIGROSSI, I dati pubblici tra Stato e mercato,
in Amministrare, 2007.
(57) Questa lettura, fondata sulla “sistematica” dei dati personali, trova
puntuale riscontro nel Codice della privacy, che consente il trattamento dei
dati sensibili (ivi compresa la cessione a terzi a fini di riutilizzo) solo “se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale sono specificati i tipi di
dati che possono essere trattati e di operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite” (art. 20, comma 1), condizione non solo
non assolta, ma radicalmente esclusa dal tenore del d.lgs. 36/2006. Ed anche
il Garante si è espresso in questo senso, nel parere sullo schema del d.lgs. (cfr.
provv. 27 novembre 2005).
234
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
pare compatibile con la disciplina della privacy (58), il problema
si sposta sulle attività poste in essere in sede di riutilizzo di dati
di provenienza pubblica. Rispetto alle comuni esigenze relative
al trattamento dei dati, rilevano – in questo caso – la circostanza
che i dati siano stati raccolti senza il consenso dell’interessato, ed
il principio per cui il loro riutilizzo deve risultare compatibile con
gli scopi che ne hanno giustificato la raccolta (59). A questo fine,
la licenza di riutilizzo (60) rappresenta lo strumento attraverso
il quale l’amministrazione è in grado di imporre al contraente/
riutilizzatore limiti e oneri idonei a fare fronte a queste esigenze, ora limitando il campo delle attività di riutilizzo (al limite,
escludendo del tutto usi a fini commerciali), ora prescrivendo
oneri informativi nei confronti degli interessati, ovvero regolamentando il riutilizzo incrociato di dati personali provenienti da
una pluralità di fonti informative pubbliche. Senza trascurare
la possibilità/opportunità di imporre alcuni requisiti ulteriori
quanto alle misure di sicurezza da applicare al (61) trattamento.
(58) Tale ipotesi di “trattamento”, anzi, pare espressamente legittimata dal
Codice della privacy, nella misura in cui, in particolare, la stessa disciplina del
riutilizzo ad opera del d.lgs. 36/2006 assolve al requisito previsto contemplato
dall’art. 19, comma 3 del Codice, che ammettere “la comunicazione da parte
di un soggetto pubblico a privati di dati personali diversi da quelli sensibili”
quando essa è prevista da una norma di legge o di regolamento.
(59) Cfr. Garante privacy, provv. 27 novembre 2005, che a questo riguardo
richiama la necessità di tenere conto delle cautele previste dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R (91) 10 relativa alla comunicazione a
terze persone dei dati a carattere personale detenuti da organismi pubblici. Si
vedano, per una differente lettura, le osservazioni di V. ZENO ZENCOVICH, Uso
a fini privati dei dati personali in mano pubblica, in Dir. Inf., 2003, p. 110, che
giudica negativamente la possibilità di riutilizzo di dati personali anche comuni
detenuti dalle pubbliche amministrazioni, in ragione della assoluta prevalenza
delle esigenze di tutela delle riservatezza.
(60) Cfr. art. 8, comma 2 del d.lgs. 36/2006.
(61) Rispetto all’ipotesi in cui il riutilizzatore fosse da considerarsi come
“incaricato” del trattamento (ai sensi dell’art. 4, comma 1 lett. h)) del Codice
privacy, pare, infatti, da preferirsi l’opzione per cui il riutilizzatore costituisce
un differente, autonomo titolare del trattamento, rispetto all’amministrazione
cedente. In questo secondo caso, tuttavia, non varrebbe l’onere di rispettare
le medesime misure di sicurezza predisposte dall’amministrazione cedente,
cosicché le licenze potrebbero rappresentare lo strumento per imporre ai
riutilizzatori il rispetto di requisti ed accorgimenti ulteriori rispetto al nucleo
minimo imposto dal Codice.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
235
Come si vede, si tratta di uno spazio regolatorio particolarmente
significativo, nel quale il ruolo delle licenze d’uso, sebbene non
esclusivo (62), appare significativo per la sua adattabilità alle
diverse categorie e tipologie di dati personali potenzialmente
oggetto di riutilizzo.
4.1.2. Segue: a tutela della qualità dei dati oggetto di riutilizzo
Una seconda finalità rimessa alle clausole formulate nelle
licenze sul riutilizzo attiene alla esigenza che le attività di riutilizzo non determinino conseguenze negative sulla qualità dei
dati (di fonte pubblica) (63). Tale questione rileva, ai nostri fini,
sotto due distinti profili. Un primo profilo attiene all’esigenza,
sistemica, di salvaguardia della integrità, correttezza ed esattezza
dei dati pubblici, anche una volta che questi siano fuoriusciti
dal settore pubblico. Tale esigenza, può trovare soluzione (sul
piano convenzionale) anche nelle clausole volte a distribuire le
responsabilità giuridiche per gli eventuali danni determinati in
esito o in concorrenza alle attività di riutilizzo, in capo all’amministrazione cedente, ovvero al riutilizzatore. Utili a questo scopo
sono le clausole che, oltre ad imporre il dovere di corretto uso
dei documenti ceduti e di non alterazione delle informazioni,
rendono obbligatoria la citazione della fonte pubblica delle informazioni (ri)utilizzate (64).
(62) In ordine al trattamento da parte di terzi di dati personali provenienti
da archivi, registri, elenchi, atti o documenti detenuti da soggetti pubblici, il
Codice prevede la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta da parte dei soggetti riutilizzatori, tutt’ora allo studio del Garante (cfr.
l’art. 61, comma 1 del Codice privacy).
(63) Sulla esigenza di garanzia della qualità dei dati utilizzati dalle pubbliche
amministrazioni, si rinvia al contributo di E. CARLONI, in questo volume.
(64) In questo senso, si v.no le specifiche indicazioni contenute nella direttiva 2003/98/CE, al considerando (17), che tuttavia restano sottotraccia nella
disciplina nazionale, anche per effetto del mancato coordinamento con il CAD,
che invece dedica specifiche previsioni sia alla garanzia della qualità che al
tema della responsabilità per le informazioni diffuse in rete; ma sul punto, si
v., ancora, il contributo di E. CARLONI, in questo volume.
236
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
4.2. Il contenuto del potere di “consentire” il riutilizzo
Concludendo sul punto, al netto delle esigenze di tutela dei
dati personali e della qualità dei dati ceduti, il potere di “consentire” il riutilizzo consiste, in definitiva, nella facoltà di cedere a
titolo oneroso le informazioni detenute ai soggetti che intendano
riutilizzarle. Il presupposto del potere si fonda, dunque, unicamente sulla materiale disponibilità di dati pubblici in capo alle
amministrazioni, e consiste – di conseguenza – nella materiale
messa a disposizione di questi dati contro il versamento di una
tariffa. A conferma del fatto che il nucleo del potere di consentire
il riutilizzo consiste in ciò, si noti – per converso – che laddove la
messa a disposizione delle informazioni costituisce un passaggio
del tutto superfluo, poiché la loro materiale disponibilità è già
realizzata per effetto (delle diverse forme) di pubblicazione, il
riutilizzo di tali informazioni non è soggetto ad alcun potere
autorizzatorio/conformativo da parte dell’amministrazione
“pubblicante” (65). Ed anche il diverso criterio di tariffazione
in relazione ad attività di riutilizzo di natura commerciale/non
commerciale (su cui, v. subito infra) non vale quale presupposto
autorizzatorio della relativa attività, ma solo quale meccanismo
di imputazione in capo al riutilizzatore di una obbligazione pecuniaria differenziata, in relazione alla natura dell’attività posta
in essere in sede di riutilizzazione (66).
(65) Principio già da tempo affermato dalla giurisprudenza, e che trova una
specifica conferma in relazione ai dati oggetto di pubblicazione obbligatoria
sui siti delle istituzionali amministrazioni: questi dati, infatti, ai sensi dell’art.
54, comma 3 del Codice dell’amministrazione digitale “sono fruibili in rete
gratuitamente e senza necessità di autenticazione informatica”.
(66) Ciò anche nel caso in cui il riutilizzo a fini commerciali dei dati ipocatastali è sottoposto – almeno apparentemente – ad un potere autorizzatorio
dell’amministrazione cedente: cfr. retro, nota n. 56.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
237
5. Il “costo” delle informazioni cedute a fini di riutilizzo
5.1. Il meccanismo di determinazione del prezzo delle informazioni e le politiche di valorizzazione del patrimonio
informativo pubblico
Il meccanismo di determinazione del “prezzo” da corrispondere alle amministrazioni per ottenere le informazioni da riutilizzare, costituisce un indicatore fondamentale per determinare non
tanto la disciplina giuridica di questo istituto, quanto più complessivamente la politica pubblica in ordine alla valorizzazione
del patrimonio informativo di cui le amministrazioni pubbliche
dispongono in virtù della loro mission istituzionale.
Sul punto, la normativa quadro comunitaria rimette quasi
integralmente la scelta del criterio di tariffazione delle informazioni alla disciplina di attuazione degli Stati membri. In effetti,
l’unica indicazione vincolante consiste nel sostanziale divieto di
ricorrere al criterio di mercato – basato sull’incontro tra domanda
e offerta – per la determinazione del prezzo delle informazioni
cedute dalle amministrazioni (67). Per il resto, la direttiva si limita
ad indicare le altre opzioni che residuano quanto alla determinazione delle tariffe, suggerendo una preferenza per il criterio
del marginal cost recovery (68). Pertanto, consente che ciascuno
(67) L’art. 6 della direttiva 2003/98/CE, infatti, impedisce che – in caso di
cessione a titolo oneroso – il totale dei ricavi possa superare “i costi di raccolta,
produzione, riproduzione e diffusione, maggiorati di un congruo utile sugli
investimenti”: la determinazione di un tetto massimo al prezzo individuato per
accumulo di elementi di costo, in effetti, pare escludere che il prezzo possa
determinarsi in ossequio alle dinamiche di mercato, in considerazione del fatto
che la sostanziale condizione monopolistica dell’amministrazione le consisterebbe – in questo secondo caso – di fissare un prezzo indipendentemente dalla
(e comunque ben superiore alla) struttura dei costi. Unico elemento di incertezze, in questo caso, è costituito dalla estrema vaghezza del criterio “contro
utile sugli investimenti”, che quindi consente comunque un ampio margine di
manovra, indebolendo la capacità prescrittiva del vincolo.
(68) Il considerando (14) della direttiva 2003/98/CE, oltre a lasciare liberi
gli Stati di optare per criteri di tariffazione che spaziano dalla cessione a
titolo gratuito fino al tetto massimo imposto dall’art. 6, incoraggia a rendere
disponibili i documenti dietro versamento di un corrispettivo non superiore
ai costi marginali di riproduzione e diffusione dei documenti, che costituisce
238
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
Stato membro possa determinare in maniera abbastanza libera
la rispettiva politica di valorizzazione del patrimonio informativo. Un atteggiamento, questo, che è conseguenza della natura
compromissoria dell’intervento legislativo comunitario, che se
per un verso è ispirato dall’esperienza statunitense, dall’altro ha
dovuto fare i conti con prassi amministrative molto diversificate
dei paesi membri, molte delle quali si collocano sul polo opposto
rispetto alla filosofia del marginal cost (69).
Le politiche di valorizzazione del patrimonio informativo
fronteggiano, in effetti, due opzioni fondamentali, a partire dalle
politiche di prezzo adottate. Da una parte, mediante l’adozione
di una politica finalizzata al solo recupero dei costi marginali di
riproduzione e diffusione, la creazione di valore è sostanzialmente rimessa alle iniziative di commercializzazione di prodotti a
valore aggiunto basati sul riutilizzo delle informazioni pubbliche;
dall’altra, mediante l’adozione di criteri di tariffazione idonei
a generare un utile per l’amministrazione cedente, una parte
(consistente) della creazione di valore è da imputarsi direttamente all’attività di cessione delle informazioni da parte delle
amministrazioni.
Rispetto a queste variabili, è evidente che la scelta del legislatore nazionale si colloca chiaramente sul versante della valorizzazione del patrimonio informativo nei termini di diretta
produzione di valore per le amministrazioni cedenti. Il criterio di
tariffazione, infatti, è finalizzato non solo al recupero dei “costi di
raccolta, di produzione, di riproduzione e diffusione”, ma anche
ad ottenere un “utile” da determinare sulle spese per investimenti
sostenute dalle Amministrazioni nel triennio precedente (70). Una
il criterio di tariffazione generalmente adottato in applicazione del principio
dell’open access statunitense.
(69) In particolare, in molti paesi europei la commercializzazione delle
informazioni è venuta costituendosi, nel tempo, quale canale significativo per
il finanziamento delle attività istituzionali delle stesse amministrazioni: una
esigenza che la direttiva non solo non vuole mettere in discussione, ma esplicitamente indica quale elemento che è lecito tenere in considerazione nella
formulazione delle politiche tariffarie: cfr. considerando (14).
(70) Cfr, l’art. 7, comma 2 del d.lgs. n. 36 del 2006; si noti che risultano elencate voci di costo ulteriori rispetto ai soli costi marginali di riproduzione/diffusione, dal momento che vengono inclusi anche i costi di raccolta/produzione,
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
239
opzione che pare confermata, ed anzi rafforzata, dal regime giuridico del riutilizzo, così come descritto più sopra. In effetti, dal
momento che la scelta se cedere le informazioni viene rimessa
alle amministrazioni, è evidente che una politica di prezzo che
consente (rectius, prescrive (71)) alle stesse amministrazioni di
ricavare da questa attività un utile può fungere da incentivo,
tanto più che la concreta determinazione della tariffa è rimessa
alla stessa amministrazione (72).
Anche la differenziazione dei criteri di tariffazione, in relazione alla natura commerciale o non commerciale delle attività di
riutilizzazione, contribuisce a confermare questa lettura. Infatti,
per un verso la cessione di informazioni a fini non commerciali
comporta comunque dei ricavi superiori ai costi marginali di
riproduzione e diffusione (73); d’altro canto, laddove invece il
riutilizzo è finalizzato alla produzione di valore (economico) aggiunto, il criterio di tariffazione imposto dal legislatore fa sì che
l’amministrazione si collochi all’interno della catena di creazione
del valore (trattenendone per sé una quota), in una prospettiva
ben diversa da quella statunitense, in cui l’amministrazione favorisce tale dinamica, ma ne rimane fuori (74).
che l’amministrazione ordinariamente deve affrontare per l’assolvimento dei
suoi compiti istituzionali: segno che, per questa strada, il legislatore intende
promuovere l’attivazione di una linea di autofinanziamento delle attività istituzionali delle p.a. Del tutto coerentemente con questa impostazione, ai sensi
del successivo comma 5, gli introiti derivanti dalla riscossione di tali tariffe
sono destinati a confluire nel bilancio delle amministrazioni cedenti.
(71) Infatti, il tenore testuale della disciplina non sembra consentire alle
amministrazioni di procedere alla determinazione del prezzo delle informazioni
secondo criteri differenti rispetto a quelli contemplati all’art. 7.
(72) L’individuazione delle tariffe, nel rispetto dei criteri fissati dal comma
2 è, infatti, rimessa alle determinazioni delle stesse amministrazioni cedenti:
cfr. comma 1 e 6 dell’art. 7, d.lgs. 36/2006. Di esse va data pubblicità non solo
mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (ovvero, mediante i rispettivi
strumenti di pubblicità legale di livello regionale e locale), ma anche tramite
il sito istituzionale delle amministrazioni interessate (cfr. comma 4)
(73) Cfr. l’art. 7, comma 3 del d.lgs. 36/2006.
(74) Per un inquadramento del modello statunitense, basato sulla cessione
doverosa delle informazioni detenute in base al principio di recupero dei soli
costi marginali di riproduzione/diffusione, si v., per tutti, R. GELLMAN, The
American Model of Access and Dissemination of public Information, Stockolm,
1996.
240
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
Sebbene ancora incerta, lacunosa e poco strutturata, la politica nazionale di valorizzazione delle informazioni pubbliche pare,
quindi, fortemente orientata nel senso della commercializzazione
dei dati pubblici, ovvero della cessione a fini di riutilizzo come
strumento (innanzitutto) di finanziamento delle amministrazioni
cedenti (75), autorizzando così un comportamento sostanzialmente proprietario da parte dei pubblici poteri rispetto alle informazioni detenute, anche quando i caratteri del regime giuridico
di appartenenza non giustificano affatto la rivendicazione di
una pretesa all’appropriazione ed al conseguente sfruttamento
economico di tale risorsa da parte delle amministrazioni titolari
dei dati pubblici.
Questa opzione si presta ad una serie di considerazioni, da
svolgersi – seppure solo per cenni – su piani distinti: quello dello
statuto giuridico dell’informazione pubblica, e quello dell’analisi
dell’impatto economico delle politiche tariffarie.
5.2. Commercializzazione dei dati pubblici e statuto del
“bene” informazione pubblica
Sul piano dello statuto giuridico dell’informazione pubblica
come bene, va sottolineato che questo orientamento si colloca
all’interno di una più ampia dinamica – di carattere globale – tesa
alla affermazione del principio (e dei conseguenti istituti) per
cui il riconoscimento di diritti esclusivi sulle informazioni (rectius, su ogni frazione del percorso di produzione, riproduzione
e diffusione dell’informazione) rappresenterebbe la soluzione
più idonea a stimolare il progresso scientifico, l’accumulazione
delle conoscenze e la crescita economia. Un indirizzo ideale, ma
foriero di significativi effetti giuridici (sul piano globale, inter-
(75) Tale opzione emerge chiaramente nel documento di studio che ha preceduto l’emanazione del d.lgs. n. 36 del 2006 (“Valorizzazione dell’informazione
pubblica – Analisi strategica – Roma 21 ottobre 2004, in www.cnipa.it”). Ma ne è
una testimonianza altrettanto, se non più eloquente – ad esempio – l’indicazione
dell’obiettivo di sviluppare i prodotti ed i servizi offerti sul mercato al fine di
incrementare ricavi e redditività, nel quadro delle strategie di azione oggetto
della Convenzione tra il Ministero delle finanze e l’Agenzia del Territorio per
il periodo 2006-2008 (v. all. A, area strategica 6).
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
241
nazionale ed interno), che – con un efficace richiamo all’istituto
delle chiudende – è stato di recente descritto con l’immagine di
un Second Enclosure Movement (76). Indirizzo sottoposto ad attento scrutinio, ed a numerose, significative critiche, soprattutto
nella misura in cui si propone di applicare soluzioni escogitate
per fare fronte alla c.d. Tragedy of Commons (77) ad un bene,
l’informazione, che strutturalmente presenta caratteristiche
del tutto dissimili ai commons tradizionalmente intesi, con
particolare riferimento ai caratteri della non rivalità ed infinita
riproducibilità delle informazioni, oltre alle peculiari dinamiche
dei processi di produzione/accumulazione delle conoscenze (78);
si sono segnalati così i rischi di una Tragedy of Anticommons (79).
Anche la commercializzazione delle informazioni pubbliche (in
luogo della loro piena fruibilità al costo marginale (80)) rappresenta, cioè, un aspetto di quella progressiva riduzione del Public
Domain, che richiederebbe una giustificazione stringente, dal
momento che le esigenze di garantire l’integrità del bene o la
sua destinazione – come già evidenziato – non trovano soluzione
nelle formule dell’appropriazione pubblica del bene (81), salvo a
(76) Si v., sul punto, J. BOYLE, The Second Enclosure Movement and the construction of Public Domain, in Law & Cont. Probl., 2003, vol. 63, pp. 33 ss.
(77) G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, in Science, 1968, vol. 162, pp.
1243 ss.
(78) A cominciare dalle suggestioni di C. ROSE, The Comedy of the Commons:
Custom, Commerce, and Inherently Public Property, in U. Chi. L. Rev., 1986, vol.
53 pp. 711 ss; ma v. anche M. MCKEAN, Success on the Commons: A Comparative Examination of Institutions for Common Property Resource Management,
in J. of Theoretical Pol., 1992, vol. 4, pp. 247 ss.; E. OSTROM, Reformulating the
Commons, Swiss Pol. Sci. Rev., 1999, vol. 6, pp. 29 ss. Come noto, un esempio
particolarmente illuminante dei successi, anche economici, dei commons è
costituito dalla dinamica evolutiva e dall’affermazione del software c.d. open
source, su cui si v. L. LESSIG. The Future of Ideas: The Fate of the Commons in a
Connected World, New York, 2001; e A. DI CORINTO, Revolution OS II. Software
libero, proprietà intellettuale, cultura e politica, Milano, 2005.
(79) Su cui, oltre ai saggi contenuti in J. BOYLE (a cura di), The Public Domain,
in Law & Cont. Probl., 2003, vol. 63, si v. il fondamentale contributo di M.A.
HELLER & R.S. EISENBERG, Can Patents Deter Innovation? The Anticommons in
Biomedical Research, in Science, 1998, pp. 698 ss.
(80) Costo marginale di riproduzione/diffusione che, per effetto della progressiva affermazione delle modalità di digitali di gestione dei dati pubblici,
dovrebbe seguire una curva decrescente.
(81) Cfr., retro, par. 1.2.
242
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
voler concludere – ma sarebbe paradossale – che le informazioni
pubbliche (cioè quelle conoscibili da chiunque) detenute dalle
pubbliche amministrazioni, non costituiscono – oggettivamente
– beni pubblici (82).
5.3. L’impatto economico delle politiche tariffarie
Un utile sistema per giustificare in termini comparativi la
scelta di determinate politiche (83) di prezzo, consiste nel verificarne l’impatto economico: analisi condotte su molteplici casi
consentono, infatti, di evidenziare alcuni dati empirici relativi
alle diverse politiche tariffarie applicabili ai dati pubblici. Se,
infatti, è astrattamente possibile prevedere che prezzi più elevati
dell’informazione pubblica, determinino effetti depressivi sui
mercati di prodotti informativi “a valle” (a causa del più elevato
costo della materia prima) – con un effetto probabile quanto a
dinamica del fatturato delle relative imprese (e conseguenti effetti
sull’occupazione) – resta da verificare l’effetto netto sulle entrate
del settore pubblico. Qui infatti, è lecito attendersi un effetto di
compensazione tra le minori entrate – indirette – derivanti dalla
tassazione dei prodotti informativi (IVA) ed il maggiore incasso
– diretto – derivante dalle tariffe più elevate. Ebbene, anche da
questo punto di vista una politica commerciale dei dati pubblici
(ossia, volta a ricavare un utile) non appare comunque conveniente, perché tutti i casi osservati in letteratura indicano che
le maggiori entrate dirette delle amministrazioni sono più che
(82) Prospettiva che, per altro, appare incompatibile con l’altra finalità
che sin dall’inizio ha animato l’iniziativa comunitaria (sebbene sia uscita
complessivamente ridimensionata dal processo di elaborazione della direttiva
2003/98/CE, in ragione del suo carattere compromissorio), che ha visto nel
riutilizzo (soprattutto in quello con finalità non commerciale) uno strumento
ulteriore per ampliare il diritto alla conoscenza, presupposto basilare per lo
sviluppo di una democrazia partecipata, consapevole ed informata: cfr. considerando (16).
(83) Sulla utilità dell’analisi economica applicata alle politiche di regolazione, si v.no, da ultimo, i saggi raccolti nel volume AA.VV., Analisi economica
e diritto amministrativo. Annuario AIPDA 2006, Milano, 2007, ed in particolare, sull’uso dei beni pubblici, cfr. G. NAPOLITANO, I beni pubblici e le “tragedie
dell’interesse comune”, ivi, pp. 125 ss.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
243
compensate dalla depressione delle entrate indirette, per una
serie di ragioni legate a caratteristiche intrinseche del mercato
delle informazioni (quali, ad esempio, la elevata elasticità della
domanda; la non rivalità del bene informazione) ed alla tendenza del settore pubblico a privilegiare, per questa via, pratiche
anticompetitive (84). Ovviamente, questo approccio prende in
considerazione l’impatto economico sul settore pubblico complessivamente inteso: è evidente, però, che un sistema che rimette
alle singole amministrazioni sia la scelta se attivare o meno la
cessione di dati a fini di riutilizzo, sia la scelta sulla politica di
prezzo, finisce inevitabilmente per privilegiare la prospettiva
dei profitti diretti delle singole amministrazioni (incentivando
così l’atteggiamento proprietario nei confronti delle informazioni
di cui sono titolari (85)), a discapito dell’interesse generale (nel
duplice aspetto di un mercato delle informazioni più robusto, e
di conseguenti maggiori entrate per l’erario).
(84) Per una rassegna dei dati empirici, ed una approfondita analisi comparativa dell’impatto delle politiche di open access (no cost; marginal recovery
cost) rispetto al Governamental commercialization approach (fully recovery cost),
si v. P.N. Weiss, Border in Cyberspace: Conflicting Public Sector Information
Policies and their Economic Impacts, in G. AICHOLZER, H. BURKERT (a cura di),
Public sector information in the digital age, cit., pp. 137 ss. e bibliografia ivi
citata, nonché PIRA, Commercial Exploitation of Europe’s Public Sector Information, Final Report to the European Commission, Directorate General for
the Information Society, 2000; OECD, Digital Broadband Content: Public Sector
Information and Content, 2006; BOOZ ALLEN & HAMILTON, La valorizzazione dei
dati pubblici, 2006.
(85) Si noti, per altro, che in questo modo si incentiva anche un atteggiamento schizofrenico delle amministrazioni, dal momento che i dati (di cui
sono titolari) devono essere resi accessibili e fruibili per lo svolgimento dei
compiti istituzionali dell’amministrazione richiedente, senza oneri a carico di
quest’ultima (cfr. art. 50, comma 2 del Codice dell’amministrazione digitale;
tant’è che lo scambio di dati scambiati tra amministrazioni a tali fini esplicitamente non costituisce riutilizzo: v. art. 10, comma 1 d.lgs. 36/2006), ma possono
essere ceduti ai privati a titolo oneroso, in vista di un utile (in questo senso
anche la direttiva n. 2003/98/CE, cfr. considerando (19): ciò che, in definitiva,
può impedire o sensibilmente ritardare la diffusione di una condivisa cultura
delle informazioni pubbliche quali beni pubblici, con effetti rilevanti anche in
ordine alla effettiva fruizione dei dati all’interno del sistema pubblico (stante
la tradizionale, radicata ritrosia delle p.a. italiane a condividere i dati).
244
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
6. L’amministrazione “monopolista” dell’informazione pubblica e gli istituti pro-concorrenziali nella disciplina del
riutilizzo
Il contributo più rilevante della disciplina quadro comunitaria in materia di riutilizzo dell’informazione pubblica consiste,
certamente, nella sottoposizione dell’attività di cessione delle
informazioni da parte delle amministrazioni a regole ed istituti
volti ad impedire comportamenti anticoncorrenzali delle stesse
amministrazioni. Rileva, in modo particolare, la condizione di
monopolio di fatto (quando non anche di diritto) su una molteplicità di dati, sia in termini qualitativi che in termini quantitativi, che le amministrazioni raccolgono, ovvero producono, e
conservano in ragione delle rispettive missioni istituzionali. La
finalità di costituire le condizioni (anche ordinamentali) per la
crescita ed il consolidamento di un mercato europeo dei prodotti
informativi basati sul riutilizzo dei dati pubblici, che sorregge
l’intervento comunitario in materia, necessitava di essere perseguita in primo luogo mediante una politica pro-concorrenziale
idonea ad aprire il mercato a nuovi imprenditori, contribuendo
contemporaneamente a contenere (o ridurre) le dinamiche di
costo della materia prima. Quanto al secondo punto, sono già
stati evidenziati i limiti della direttiva 98/2003, e della sua traduzione nell’ordinamento nazionale. Certamente più efficace,
al contrario, il capitolo dedicato alle misure pro-concorrenziali,
anche in ragione del vincolo imposto ai legislatori nazionali in
ordine alla loro recezione.
Le misure antidiscriminatorie e pro-concorrenziali previste
dal d.lgs n. 36 del 2006 sono, sostanzialmente, di tre tipi (che
ripropongono puntualmente le soluzioni prefigurate nella direttiva):
a) il dovere di cedere le informazioni a tutti gli operatori di
mercato interessati (ed in generale, a tutti coloro che le richiedano, anche per finalità non commerciali), una volta che sia stata
assunta le decisione di consentire il riutilizzo (86);
(86) L’art. 1, comma 2 del d.lgs. 36/2006 assicura, infatti, la parità di trattamento tra tutti i riutilizzatori, anche rispetto ai dati diffusi precedentemente
all’adozione della disciplina de qua. Un concetto ribadito dal successivo art.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
245
b) il dovere di cedere le informazioni dello stesso tipo alle
medesime condizioni (87);
c) Il divieto di accordi di esclusiva, salvo il caso in cui tale
accordo sia indispensabile per l’assolvimento di un servizio di
interesse generale (88).
Si tratta, a ben vedere, di strumenti tra i più classici utilizzati
per la promozione di dinamiche concorrenziali in settori caratterizzati da condizioni di monopolio nella fornitura di c.d. essential
facilities, cui è certamente assimilabile la condizione della p.a.
nella cessione delle informazioni di cui è titolare (89). Tuttavia,
si deve segnalare che il fronte della regolazione non è adeguata-
11, che ancora più esplicitamente stabilisce che “I documenti delle pubbliche
amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico possono essere riutilizzati
da tutti gli operatori potenziali sul mercato, anche qualora uno o più soggetti
stiano già procedendo allo sfruttamento di prodotti a valore aggiunto basati
su tali documenti”.
(87) A questo fine, risulta particolarmente efficace il ricorso alla predisposizione di licenze standard, che come tali prefigurano le condizioni che verranno imposte, in modo uniforme, a tutti i riutilizzatori (cfr. art. 2, comma 1,
lett. h); art. 5, comma 1 e art. 8, comma 1). Da questo punto di vista, la stessa
possibilità di aderire alle licenze mediante la compilazione di formulari resi
disponibili sui siti delle amministrazioni titolari è una garanzia ulteriore della
parità di trattamento, dal momento che configurano le licenze come veri e
propri contratti per adesione, eliminando così anche la possibilità potenziale
della stipulazione di clausole ad hoc (cfr. art. 8, comma 2)
(88) Cfr. art. 11 d.lgs. 36/2006: la formula ricalca fedelmente il principio generale dell’ordinamento comunitario, in virtù del quale le deroghe all’applicazione
delle regole della concorrenza sono ammesse solo ove siano indispensabili per
il conseguimento di una specifica missione di interesse generale, codificato
all’art. 86, comma 2 del Trattato CE.
(89) Tradizionalmente, le condizioni per l’applicazione della essential facility
doctrine, sono ravvisate 1) nel controllo monopolistico sulla risorsa da parte
del titolare; 2) nella essenzialità della risorsa per lo svolgimento dell’attività da
parte del richiedente; 3) nell’inesistenza di ragioni obiettive che giustifichino
il rifiuto della richiesta da parte del titolare della risorsa. Sull’essential facility
doctrine e sulla sua applicazione al caso del monopolio legale sui dati delle
pubbliche amministrazioni, con particolare riguardo ai dati conservati nei registri immobiliari dell’Agenzia del Territorio, si v. C.E. MEZZETTI, Dati pubblici
ed abuso di posizione dominante, nota a commento delle ordd. Trib. App. di
Milano, 2 maggio e 5 luglio 2005, in Giur. It, III, 2006, pp. 549 ss., giurisprudenza e bibliografia ivi citata; un quadro interpretativo ripreso e ribadito anche
dall’Autorità antitrust nazionale: cfr. AGMC, Segnalazione 5 dicembre 2006.
246
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
mente accompagnato da misure di informazione e promozione
nei confronti dei soggetti interessati al riutilizzo (90).
Inoltre, il disegno degli istituti pro-concorrenziali, affatto
lineare per quanto concerne il rapporto soggetti pubblici cedenti (amministrazioni e organismi di diritto pubblico) e terzi
riutilizzatori, risulta meno esplicito con riguardo alle attività
di riutilizzo intraprese dalle stesse amministrazioni, anche per
via delle lacune – sul punto – della disciplina positiva. Infatti,
il legislatore si è limitato a sancire che, fuori dai casi in cui lo
scambio tra amministrazioni è funzionale allo svolgimento dei
rispetti compiti istituzionali, ed in particolare quando la cessione di dati prelude ad un (ri)utilizzo a fini commerciali da parte
dell’amministrazione richiedente, si deve applicare la disciplina
del riutilizzo (91): in questo modo, l’amministrazione che riutilizza a fini commerciali i dati di un’altra amministrazione viene
collocata sul medesimo piano degli altri riutilizzatori.
Quid iuris, nel caso in cui l’attività commerciale basa sul riutilizzo sia, invece, posta in essere dalla stessa amministrazione
titolare dei dati? A differenza della disciplina quadro comunitaria (92), quella nazionale non affronta esplicitamente il tema,
(90) Si segnalano infatti, per la loro debolezza, le soluzioni destinate a facilitare la ricerca e la individuazione degli assets di dati pubblici resi disponibili
a fini di riutilizzo, ed i connessi strumenti di pubblicazione e diffusione delle
relative meta-informazioni (cfr. il laconico testo dell’art. 9 del d.lgs. 36/2006),
soprattutto se posti a confronto con l’organico e sistematico apparato di promozione del riutilizzo predisposto nel Regno Unito; sul punto, si v. il contributo
di P.J. BIRKINSHAW, A. HICKS in questo volume; per un più puntuale confronto
con la situazione italiana, sia consentito rinviare a B. PONTI, Il patrimonio informativo pubblico come risorsa: i limiti del regime italiano di riutilizzo dei dati
delle pubbliche amministrazioni, cit.
(91) Cfr. art. 10 e art. 2, comma 1, lett. f) del d.lgs. 36/2006: si noti la palese
incogruenza con la ratio della norma, per cui all’art. 10, comma 2 si fa riferimento solo all’uso a fini commerciali da parte di una pubblica amministrazione (e non anche da parte di un organismo di diritto pubblico) dei dati di
altra pubblica amministrazione (e, parimenti, non anche di un organismo di
diritto pubblico). Una evidente “svista” del legislatore da correggersi in sede
interpretativa, mediante l’estensione soggettiva della sua applicazione anche
agli organismi di diritto pubblico.
(92) Si v. il considerando (9) della direttiva 2003/98/CE, dove si precisa che
“al fine di evitare sovvenzioni incrociate, il riutilizzo dovrebbe comprendere
l’ulteriore uso di documenti all’interno della propria organizzazione per attività
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
247
che pure rappresenta un punto essenziale, per l’effettività della
regolazione antidiscriminatoria. In assenza di tali indicazioni
positive, troveranno applicazione diretta i principi e delle regole
in materia di concorrenza, anche mediante la disapplicazione
della normativa domestica di settore che con tali principi risulti
in contrasto (93). In estrema sintesi, i contenuti precettivi di tali
principi non precludono alle amministrazioni la possibilità di
offrire sul mercato prodotti basati sul riutilizzo dei dati detenuti
in virtù della rispettiva mission istituzionale, ma impongono
l’adozione, da parte di queste ultime, di soluzioni operative e di
trasparenza idonee ad evidenziare le condizioni economiche di
tale riutilizzo (94), condizioni che devono essere garantite anche
che esulano dall’ambito dei compiti di servizio pubblico. Le attività che esulano
dai compiti di servizio pubblico comprenderanno, di norma, la fornitura dei
documenti che sono prodotti e per i quali viene chiesto il pagamento di un
corrispettivo in denaro esclusivamente su base commerciale e in concorrenza
con altri sul mercato”.
(93) Come nel caso della ripetuta disciplina nazionale sul riutilizzo dei dati
catastali di cui all’art. 1, comma 367-374 della l. finanziaria 2005, fatta salva dal
d.lgs. n. 36 del 2006, e pur tuttavia disapplicata, per contrasto con la direttiva
2003/98/CE, sia dal giudice amministrativo (cfr., supra, nota n. 56) che dal
giudice ordinario (v. nota successiva).
(94) Alla adozione di una contabilità separata, sia il legislatore che la giurisprudenza (soprattutto quella comunitaria) preferiscono di gran lunga la misura
della separazione societaria, dal momento che quest’ultima: consente una più
netta distinzione tra le attività che costituiscono l’assolvimento di un compito
istituzionale da quelle caratterizzate dalla commercializzazione di prodotti
informativi a valore aggiunto; costringe l’amministrazione ad evidenziare la
ragione di scambio delle informazioni; favorisce la parità di trattamento con
gli altri operatori del mercato. Questi principi hanno trovato specifica applicazione, con riguardo al mercato delle informazioni a valore aggiunto basate
sul riutilizzo dei dati tratti dai registri immobiliari gestiti dall’Agenzia del
territorio, sia in giurisprudenza (cfr., ex multis, ordd. App., Milano, 2 maggio
e 5 luglio 2005, cit.; e – in relazione ai servizi di “monitoraggio immobiliare”
offerti dall’Agenzia – cfr. ordd. App. Milano, 5 dicembre 2006; App. Brescia, 15
dicembre 2006; App. Trieste, 17 gennaio 2007; App. Venezia, 2 febbraio 2007;
App. Bologna, 23 febbraio 2007) che in sede di regolazione del mercato (si v.
AGMC, Segnalazione 5 dicembre 2006); che in sede legislativa (cfr. l’art. 8,
comma 2-bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287 – sull’obbligo di separazione
societaria dalle imprese che, per disposizioni di legge, esercitano la gestione
di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato – nonché il d.lgs. 11 novembre 2003, n. 333 “Attuazione
della direttiva 2000/52/CE, che modifica la direttiva 80/723/CEE relativa alla
248
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
agli altri operatori che in tale mercato operino o intendano operare. In questo senso, acquista un preciso rilievo la distinzione
(per consistenza, forma, modalità di conservazione e di diffusione) tra le informazioni “materia prima” (ossia, le informazioni
detenute dalle amministrazioni in ragione dello svolgimento di
compiti istituzionali) e le informazioni come “prodotto finito”
(ossia, le informazioni frutto di una rielaborazione non funzionale all’esercizio di compiti istituzionali, ma indirizzata ad
attività di carattere sostanzialmente imprenditoriale). Alle prime,
si applicherà il regime del riutilizzo; alle seconde – ove prodotte
– dovrà corrispondere l’applicazione dei principi (e dei connessi
obblighi) di parità di accesso alla materia prima (95).
Rispetto a questo schema – di generale applicazione – merita
qualche approfondimento la clausola che ammette gli accordi
in via esclusiva, solo se detto accordo risulti necessario ai fini
dell’erogazione di un servizio di interesse pubblico. La effettiva
portata di questa deroga deve, infatti, fare i conti con le caratteristiche intrinseche del bene oggetto della regolazione, ovvero
l’informazione, in modo particolare per quanto concerne la non
rivalità della sua fruizione/sfruttamento. Se si muove da questo
presupposto, è possibile verificare che l’accordo in via esclusiva
potrà giustificarsi solo nella misura in cui il motivo di interesse
pubblico perseguito dall’ordinamento consista nel fatto che le
utilità prodotte in esito all’attività di riutilizzo debbano essere
cedute ad un livello di prezzo inferiore a quello sostenibile dalle
trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese
pubbliche”). Un significativo riscontro di questo approccio può, d’altro canto,
essere reperito anche nella specifica disciplina sul riutilizzo, laddove vengono
ricompresi nell’ambito dei soggetti pubblici cui si applica detta disciplina
anche gli organismi di diritto pubblico “non aventi carattere commerciale
o industriale”, e conseguentemente ne sono escluse “le imprese pubbliche”
come definite proprio ai sensi d.lgs. 333/2003 (cfr. art. 2, comma lett. b) del
d.lgs. 36/2006).
(95) Per l’ampia e sistematica riflessione sulla distinzione tra “raw – unrefined informations” e “refined – value-added information’s product”, ed il relativo
impatto sull’applicazione della disciplina comunitaria pro-concorrenziale
in materia di riutilizzo a fini commerciali delle informazioni detenute dalle
pubbliche amministrazioni, si segnala lo studio condotto con riferimento al
mercato del Regno Unito dall’Office of Fare Trading, Commercial use of public
information (CUPI), 2006.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
249
imprese in concorrenza tra loro sul mercato (96). Ciò che è possibile solo se:
a) il terzo non svolge un’attività imprenditoriale in senso
proprio; oppure
b) l’amministrazione cedente si accolla una parte dei costi di
produzione del servizio.
In altri termini, l’accordo in via esclusiva si giustificherebbe
solo in relazione all’esigenza ordinamentale di offrire al pubblico un servizio informativo a prezzi non concorrenziali, ovvero
le condizioni che giustificano – più in generale – la assunzione
diretta del servizio da parte dei poteri pubblici, ovvero la configurazione di un servizio pubblico in senso anche soggettivo.
Nel caso sub a), ci troveremmo di fronte – più propriamente
– ad una ipotesi di cessione di dati scambio dati all’interno del
settore pubblico (97), o comunque ad una ipotesi di riutilizzo non
commerciale (98). Nel caso sub b), la riserva in capo ad un soggetto
(96) Infatti, al netto del costo delle informazioni cedute a fini di riutilizzo,
qualora l’attività conseguente fosse economicamente sostenibile, ciò costituirebbe una ragione di per sé sufficiente a precludere accordi di esclusiva,
in base della già evidenziata essential facilitiy doctrine. La riserva potrebbe,
cioè, giustificarsi solo nel caso in cui il prodotto informativo rappresentasse il
contenuto di atto di certezza pubblica (ovvero, un mercato istituzionalmente
monopolizzato dalla pubblica amministrazione): ma allora non saremmo di
fronte, per definizione, ad una attività commerciale.
(97) Nel caso in cui il soggetto riutilizzatore fosse configurabile come organismo di diritto pubblico, come definito ai sensi dell’art. 1, comma 2 lett. b) del
d.lgs. 36/2006. Per la applicazione ante litteram di questi principi al mercato
nazionale delle informazioni pubbliche, si v. il caso dell’accordo in via esclusiva
tra il sistema delle Camere di Commercio e la controllata INFOCAMERE per
la gestione in esclusiva su base nazionale degli archivi camerali, finalizzato sia
alla realizzazione degli archivi telematici, sia alla fornitura delle informazioni
in essi contenute alle medesime Camere, alle altre p.a. e all’utenza privata, che
l’AGCM ha ritenuto non lesiva della concorrenza dal momento che ha consentito di predisporre un più efficace e meno oneroso assolvimento dei compiti
informativi istituzionalmente propri delle Camere di commercio. Il caso è
significativo anche perché, diversamente, le condizioni di sostanziale esclusiva
intercorrenti tra la stessa INFOCAMERE e la società (parimenti controllata)
CERVED, in carenza di consimili esigenze, sono state ritenute incompatibili
proprio alla luce della dottrina dell’essential facility; cfr. AGCM, provv. n. 5446
del 6 novembre 1997 INFOCAMERE-CERVED.
(98) Nel caso (residuale) in cui il soggetto non risultasse in controllo pubblico equivalente.
250
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
imprenditoriale dell’attività di riutilizzo presupporrebbe invece,
ancora in ossequio ai principi comunitari, l’assegnazione del servizio (pubblico) mediante gara, o comunque tramite procedura
aperta e non discriminatoria.
7. Il riutilizzo di dati in formato digitale
Le trasformazioni derivanti dall’applicazione sempre più
massiccia delle ICT all’attività delle pubbliche amministrazioni
costituiscono certamente il fattore evolutivo che ha maggiormente inciso sulla stessa configurazione del patrimonio informativo
pubblico, nella misura in cui le dinamiche di “smaterializzazione”
dell’informazione e di circolazione in rete hanno profondamente
modificato le funzioni conoscitive delle amministrazioni, e le
reciproche relazioni organizzative (99). D’altro canto, l’impiego
delle ICT costituisce anche il fattore (tecnologico) essenziale che
consente un più intenso, agevole ed efficace sfruttamento delle
informazioni, così contribuendo in modo decisivo all’ampliamento degli spazi e delle opportunità del mercato dei prodotti
e servizi a contenuto informativo, basati anche sul riutilizzo del
“giacimento” di informazioni costituito dal patrimonio informativo pubblico (100).
È evidente, pertanto, che nella prospettiva del(le opportunità
di crescita e sviluppo connesse con il) riutilizzo, la disponibilità
(99) Sul punto, si v. più ampiamente il contributo di F. MERLONI, in questo
volume.
(100) In effetti, la direttiva 2003/98/CE rappresenta solo un tassello della
c.d. Strategia di Lisbona, con cui si è inteso porre al centro dei meccanismi di
sviluppo e di coesione sociale dell’economia europea il fattore “conoscenza”,
e che comprende – tra l’altro – anche investimenti e politiche finalizzati a potenziare sia l’infrastruttura delle comunicazioni elettroniche (si v. le linee di
azione dei piani eEurope 2002 e 2005 e, da ultimo, i2010 Information Space,
Innovation & Investment in R&D, Inclusion: con particolare riferimento ai
progetti IDA e IDABC quanto allo sviluppo di infrastrutture ed protocolli di
scambio tra amministrazioni) sia i contenuti (programmi eContent ed eContentplus), con l’obiettivo di contribuire alla creazione di uno “spazio europeo
unico dell’informazione”; sul punto, si v. anche I. D’ELIA, La diffusione e il riutilizzo dei dati pubblici. Quadro normativo comunitario e nazionale: problemi e
prospettive, cit., pp. 13 ss.
TITOLARITÀ E RIUTILIZZO DEI DATI PUBBLICI
251
di dati conservati, trattati e diffusi dalle amministrazioni in formato digitale è particolarmente importante, poiché rappresenta,
di per sé, un valore aggiunto.
Sul punto, sono opportune un paio di sottolineature.
La disciplina sul riutilizzo (sia comunitaria, che nazionale) ha
presente questa relazione (tra contenuti digitali e riutilizzo) (101),
ma non “forza” la mano alle amministrazioni, lasciando che la
messa a disposizione di dati in formato digitale (da parte di queste ultime, a fini di riutilizzo) costituisca il frutto della progressiva
trasformazione in atto, e non il contenuto di una pretesa dei terzi
interessati al riutilizzo (102): ciò che è particolarmente evidente
nella disciplina nazionale (103), che pertanto – anche da questo
punto di vista – colloca l’interesse al riutilizzo fuori dal novero
dei diritti all’uso delle ICT di recente “proclamazione” (104).
Se però dal piano generale – e veniamo al secondo aspetto – si
scende a verificare alcune dinamiche settoriali dell’ordinamento,
è possibile constatare alcune linee di tendenza che muovono
“controcorrente”. Si nota, cioè, che la digitalizzazione dei contenuti, funzionale innanzitutto alla costituzione di patrimoni
informativi pubblici condivisi da parte delle amministrazioni (105),
si traduce anche nell’apertura ai terzi, cittadini ed imprese, di
(tutti o di una parte significativa dei) servizi di accesso all’infor-
(101) Cfr. i considerando (2) e (3) della direttiva 2003/98/CE.
(102) Cfr. il considerando (13) della direttiva “Le possibilità di riutilizzo
possono essere migliorate riducendo la necessità di digitalizzare documenti
cartacei oppure di manipolare documenti elettronici per renderli compatibili fra
loro. Pertanto, gli enti pubblici dovrebbero mettere a disposizione i documenti
in qualsiasi lingua o formato preesistente” e solo “ove possibile e opportuno
per via elettronica”.
(103) Cfr. art. 5, comma 3 del d.lgs. 36/2006: “il titolare del dato [...] rende
disponibili i documenti al richiedente, ove possibile in forma elettronica”.
(104) Ovvero, il “diritto [di cittadini ed imprese] a richiedere ed ottenere
l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni”, di cui agli artt. 3-11 del CAD, significativamente limitato – però
– alle sole fattispecie contemplate nel Codice stesso: sul punto, sia consentito
rinviare a B. PONTI, Commento agli art. 3-11, in E. CARLONI (a cura di), Il Codice
dell’amministrazione digitale. Commento al d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Rimini,
2005, pp. 58 ss.
(105) Secondo lo schema della costituzione delle basi di dati di interesse
nazionale, di cui all’art. 60 del CAD.
252
PARTE II – I DATI PUBBLICI NELL’ORDINAMENTO NAZIONALE
mazione. Si è già segnalato il caso delle informazioni camerali; è
il caso, ancora, della base dati catastale (che costituisce, insieme
all’anagrafe, il caso pilota di realizzazione di una “base di dati di
interesse nazionale”) (106); è il caso, questa volta sul piano comunitario, della “Infrastruttura per l’informazione territoriale nella
Comunità europea” (c.d. Inspire) (107). Si tratta di segnali di una
inversione di tendenza: in prospettiva, si può (forse) immaginare
che la realizzazione di infrastrutture informative finalizzate alla
più rapida, efficace e sicura condivisione dei dati all’interno del
sistema pubblico costituisca anche lo strumento (ed il momento)
per una effettiva apertura alla fruizione del patrimonio informativo pubblico anche al di fuori di esso.
(106) La base di dati catastali, ai sensi dell’art. 59 del CAD, è una componente dei dati territoriali di interesse nazionale, la cui costituzione in repertorio
nazionale dei dati territoriali, prevede la disciplina (tecnica) delle modalità di
formazione, documentazione e scambio dei dati territoriali detenuti dalle singole amministrazioni competenti, nonché le regole ed i costi per l’utilizzo dei
dati stessi da parte delle pubbliche amministrazioni centrali e locali e da parte
dei privati. Ciò che ha condotto, per un verso, alla “Definizione delle regole tecnico economiche per l’utilizzo dei dati catastali per via telematica da parte dei
sistemi informatici di altre amministrazioni, ai sensi dell’art. 59, comma 7-bis,
del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82” (funzionale, per altro, alla cessione
ai comuni della gestione di alcune funzioni catastali); dall’altro, in esito ad
una parallela, ma contestuale (e connessa) vicenda, ha portato alla definizione
delle modalità di “Accesso al sistema telematico dell’Agenzia del territorio per
la consultazione delle banche dati ipotecaria e catastale” da parte di privati ed
imprese; determinazioni adottate – rispettivamente – con decreti del direttore
dell’Agenzia del Territorio del 13 novembre e del 4 maggio 2007.
(107) Cfr. direttiva 2007/2/CE del 14 marzo 2007, che mira a rendere omogenee le modalità di rappresentazione e di classificazione dell’informazione
territoriale prodotta e gestita dai soggetti pubblici dei diversi Stati membri,
a tutti i livelli di governo, ed a facilitare l’interoperabilità e lo scambio di tali
dati, all’interno degli Stati membri, tra di essi, e con le istituzioni comunitarie.
La direttiva (ri)colloca a livello comunitario la funzione di coordinamento
tecnico informatico necessaria per assicurare l’interoperabilità e l’armonizzazione dei set di dati territoriali e dei servizi ad essi relativi; inoltre, impone agli
Stati di predisporre e fornire on line servizi per la ricerca, la visualizzazione,
il download e la conversione in altro formato di set di dati territoriali, servizi
che devono essere fruibili dalle istituzioni pubbliche (interne, di altri Stati
membri e comunitarie), ma anche dal pubblico (ed un nucleo minimo di essi
deve essere accessibile gratuitamente).