2• Successione di leggi penali

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LIBRO I
DEI REATI IN GENERALE
TITOLO I
DELLA LEGGE PENALE
1 • Reati e pene: disposizione espressa di legge
Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto
come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite (1).
(1) L’art. 1, comma 1, della l. 24-11-1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), stabilisce che nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.
1 • IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ
❐
Questa disposizione enuncia uno dei più importanti concetti del diritto penale moderno, il cd. principio di legalità, in forza del quale soltanto la legge
può prevedere fatti-reato, perché solo la legge quale atto di autolimitazione accettato dalla collettività, in base al meccanismo della rappresentanza
politica - assicura le necessarie garanzie e i dovuti
limiti al potere repressivo dello Stato.
Di conseguenza, il principio di legalità (nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege) investe sia il
precetto, ossia il comportamento prescritto dalla
norma, sia la sanzione.
La dottrina (Mantovani, Antolisei) ritiene che questo principio contenga tre sotto-principi:
- il divieto, per fonti non legislative (consuetudine o
interpretazione analogica), di determinare un precetto penalmente sanzionato (cd. principio della
riserva di legge in senso stretto);
- la necessità della certezza e, quindi, della chiarezza del precetto e della sanzione penale che ad esso
consegue (cd. principio di tipicità);
- l’impossibilità di punire taluno per un fatto non
previsto come reato al momento in cui fu da lui
commesso (principio di irretroattività, compiutamente disciplinato dal successivo art. 2).
2 • COLLEGAMENTO CON ALTRE NORME
❐
L’art. 1 c.p. è in diretto collegamento con l’art. 25, 2°
e 3° comma, Cost. (Pagliaro), secondo cui nessuno
può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso e nessuno
può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei
casi previsti dalla legge. Principi, questi, che sono
peraltro richiamati anche dalla Convenzione europea
per i diritti dell’uomo, recepita con l. n. 848/1955.
Altra norma collegata all’articolo in commento è
l’art. 14 delle preleggi al codice civile, che, in presenza di leggi penali, fa divieto all’interprete di
ricorrere all’analogia legis, espressamente stabilendo che tali leggi “non si applicano al di fuori dei
casi e dei tempi in esse considerati”.
Questo divieto è formulato relativamente alle “leggi
penali”. Con tale espressione il legislatore ha inteso riferirsi, innanzitutto, alle norme penali incriminatrici, ossia alle disposizioni di carattere sostanziale che prevedono elementi strutturali di reato,
ricollegando, al verificarsi delle medesime, sanzioni penali. Ci si è chiesti se tale divieto possa valere
anche in relazione a quelle disposizioni che escludono la punibilità. Il problema, in particolare, si è
posto per le cd. cause di giustificazione, ossia per
quelle fattispecie giuridiche che operano in senso
negativo rispetto alla fattispecie di reato. Si è parlato, in tal senso, di analogia in bonam partem, che,
secondo una certa interpretazione, sarebbe sempre
ammessa nel nostro ordinamento. A fondamento di
tale assunto si è negato che queste ultime possano
definirsi norme penali in senso stretto, non avendo
esse valenza incriminatrice.
Quanto alla riserva di legge, è certamente la più
importante espressione del principio di legalità, e
sottolinea l’esigenza che i reati, le pene per essi
previste e le misure di sicurezza, devono trovare la
propria ed esclusiva fonte nella legge. Si parla, a
tale proposito, di principio di legalità formale, per
1 • Libro I - Dei reati in generale
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distinguerlo dal principio di legalità sostanziale,
che attiene alla cd. “necessaria offensività della
condotta-reato” (➠ 49).
Nonostante la sua assolutezza, non tutti gli elementi del reato devono necessariamente essere previsti
da una legge; si ammette, infatti, che alcuni atti
provenienti da normativa sub-primaria (quali, ad
esempio, i provvedimenti amministrativi) possano
integrare, intervenendo a livello di elementi marginali, la fattispecie di reato astrattamente delineata
dalla legge (è il caso, ad esempio, della fattispecie
di cui all’art. 650, il cui contenuto specifico è integrato dal provvedimento amministrativo).
Questo è il fenomeno delle cd. norme penali in bianco, che ricorre quando la legge, nel formulare il precetto, opera un rinvio a fatti produttivi del diritto diversi dalla legge penale. In questo caso, le norme incriminatrici vengono integrate, nel loro contenuto precettivo, da fonti di diversa natura, di solito di grado inferiore ed anche non normative. Il legislatore formula in
tal modo un precetto che rimane sostanzialmente
indeterminato, ma determinabile mediante un criterio
relazionale, attraverso il rinvio alla fonte subordinata.
In ogni caso, i problemi più rilevanti in tema di
norme penali in bianco riguardano l’errore su legge
penale, ex art. 5 (➠).
3 • LE TIPOLOGIE DI LEGGI “AUTORIZZATE”
ALLA PRODUZIONE DI DIRITTO PENALE
❐
All’opera della giurisprudenza, anche costituzionale, si deve la selezione delle fonti normative della
legge penale.
In primo luogo, si è escluso che l’art. 1 contempli le
leggi regionali, anche quelle prodotte nelle materie di
legislazione esclusiva, perché ciò avrebbe comportato
un rischio di disparità di trattamento. Principio oggi
espressamente ribadito dall’art. 117 Cost. (come
modificato dalla legge costituzionale n. 3/2001), che
riserva alla potestà esclusiva dello Stato la legislazione in materia di ordinamento penale.
Compatibile con la riserva di legge è la produzione
di norme penali da parte di leggi delegate e di
decreti legge (cd. leggi materiali), perché questi atti
sono equiparati, nel nostro sistema costituzionale,
alle fonti normative primarie, ossia alle leggi formali, beninteso sempre che rispettino le procedure ed
i limiti contenutistici imposti dall’art. 76 Cost.
Quanto alle relazioni tra riserva di legge statale e
diritto comunitario, escluso che l’ordinamento
comunitario, per il tramite delle sue fonti, sia competente a legiferare con effetti diretti nella materia
penale degli stati membri, si pone il problema della
sua eventuale efficacia riflessa.
Sotto quest’ultimo profilo, è certo che il rapporto tra
diritto comunitario e diritto interno è, come in tutti
gli altri casi, un rapporto di prevalenza/recessione, di
tal che il giudice penale è legittimato ad operare una
sorta di disapplicazione indiretta in caso ravvisi il
contrasto di una norma incriminatrice statale con un
principio comunitario. Ciò può accadere certamente
allorquando l’inibitoria comunitaria operi in senso
favorevole al reo, limitando l’operatività di una fattispecie incriminatrice; non tutti sono invece d’accordo allorquando dall’applicazione del principio comunitario possa derivare un trattamento deteriore
all’imputato. Il caso si è posto ed è stato favorevolmente risolto con riferimento alla contestazione del
reato di esercizio abusivo della professione, nei confronti di un avvocato tedesco (a quest’ultimo era
contestata la violazione di cui all’art. 348 c.p.), e si
è nuovamente proposto con riferimento alle attività
di scommessa, non gestite dallo Stato italiano (con
riferimento all’art. 4 della L. n. 401/1989).
Recentemente, sia la Cassazione (sez. III, n.
16298) sia la Corte di Giustizia (cause riunite C338/04, C-3 59/04 C-360-04) hanno riconosciuto,
in materia di attività di scommessa, che il monopolio che lo Stato italiano, anche rinforzando la propria determinazione attraverso la previsione di
apposite fattispecie di diritto penale, intende esercitare in questo ambito è illegittimo in quanto contrasta con gli artt. 43 e 49 del Trattato U.E.
La questione inversa si è posta con riferimento alla
nuova disciplina del falso in bilancio. In questo
caso, la questione era stata rimessa alla Corte di
giustizia, perché l’art. 6 della cd. prima direttiva
CEE imponeva l’obbligo a carico degli Stati membri
di prevedere adeguate sanzioni per i casi di mancata pubblicità del bilancio, ed il legislatore nazionale con il D.Lgs. n. 61/2002 aveva invece sensibilmente mitigato il trattamento sanzionatorio. La
Corte di giustizia (3 maggio 2005), però, pur non
disconoscendo l’ammissibilità di un effetto espansivo del diritto comunitario, non ha ritenuto violato,
nel caso di specie, l’obbligo comunitario invocato.
In tema di rapporti tra ordinamento comunitario e
ordinamento nazionale si è di recente pronunciata la
Cassazione a Sezioni Unite, chiarendo che “l'obbligo
• 47
del giudice di interpretare il diritto nazionale conformemente al contenuto delle decisioni quadro adottate nell'ambito del titolo VI del Trattato sull'Unione
europea non può giammai legittimare l'integrazione
della norma penale interna quando una simile operazione si traduca in una interpretazione in "malam partem". (In applicazione di tale principio, la Corte ha
escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio dell'Unione
Europea 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 possa
essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all'art. 322 ter primo comma cod. pen.
anche al profitto del reato) Cassazione penale , sez.
un., 25 giugno 2009 , n. 38691. Problema consimile, e, per certi versi inverso è il caso del diritto penale interno che non si adegui ad una normativa comunitaria che imporrebbe l’introduzione di una nuova
figura di reato nell’ordinamento nazionale. In questo
caso, pronunciatasi più volte, la Corte di Giustizia ha
sempre sostenuto che al diritto comunitario, in quanto tale, non può ricondursi l’effetto di introdurre
nuove fattispecie sanzionatorie o comunque fattispecie che aggravino reati già previsti dall’ordinamento
nazionale. Viceversa quando un intervento di una
legge statale sopravvenuta modifica una pre-esistente
legge nazionale, che era in origine conforme al diritto
comunitario questo comporta un inadempimento
grave che impone il rinvio pregiudiziale della normativa, anche da parte del giudice penale, alla Corte di
Giustizia. E tuttavia, nell’occasione in cui l’organo
giurisdizionale della Comunità si è occupata del problema (decisione 11 novembre 2004 causa cd.
“Niselli”) pur stigmatizzando gravemente il comportamento del legislatore italiano – che, nel caso sottoposto all’attenzione della comunità, aveva adottato
2 • Successione di leggi penali
Titolo I - Della legge penale • 2
una definizione restrittiva del concetto di rifiuto con
l’art.14 del decreto legge 138/02 violando una direttiva comunitaria che era stata originariamente correttamente trasposta, la Direttiva n.75/442 – non è arrivata a sostenere la punibilità dell’imputato alla luce
della vecchia normativa, ritenendo prevalente, nel
caso di specie, la disposizione di favore contemplata
dall’articolo 2 comma 2 del nostro codice penale.
Va esclusa dalle fonti formali del diritto penale la
cd. consuetudine (nullum crimen sine lege scripta),
perché non è fonte primaria, e crea norme fondate
su una mera prassi comportamentale, ancorché
accompagnata dalla convinzione della sua giuridica
necessità. Il divieto vale, a maggior ragione, per la
desuetudine (o consuetudine abrogativa).
4 • IL PRINCIPIO DI TIPICITÀ
❐
Il principio di tipicità è un corollario del principio di
legalità formale ed opera sul contenuto della previsione imponendo l’adozione di formule testuali
chiare ed idonee ad individuare le concrete condotte oggetto di divieto disciplinate dalla norma. Tale
principio ha trovato compiuta elaborazione nelle
sentenze della Corte costituzionale: in particolare,
si ricorda quella che ha abrogato il reato di plagio
previsto e punito dall’art. 603 (sent. n. 96/1981).
Il carattere imperativo del precetto penale non
potrebbe esprimere compiutamente la sua efficacia laddove la formulazione della norma si presenti oscura, di difficile interpretazione, generica.
Ulteriore scopo perseguito attraverso questo principio, anche in questo caso, è quello di prevenire i
rischi dell’arbitrio giudiziario nella applicazione
della norma penale.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali.
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente
nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 (1).
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile (2).
2 • Libro I - Dei reati in generale
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Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni
dei capoversi precedenti.
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di
mancata ratifica di un decreto-legge e nei casi di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti (3).
(1) Comma inserito dall’art. 14 della l. 24-2-2006, n. 85.
L’art. 15 della medesima legge prevede inoltre che alle violazioni depenalizzate dalla stessa legge si applicano,
in quanto compatibili, gli articoli 101 e 102 del d.lgs. 30-12-1999, n. 507.
(2) L’art. 30, 4° comma, della l. 11-3-1953, n. 87, contenente norme sul funzionamento della Corte costituzionale, stabilisce che, qualora in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile di condanna, ne cessino l’esecuzione e tutti gli effetti penali.
(3) La Corte costituzionale, con sentenza 19-2-1985, n. 51 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di
questo comma nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste, le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma di questo articolo.
1 • IL 1° COMMA
❐
Il principio di irretroattività previsto dal 1° comma
rappresenta un corollario del principio di legalità, e
disciplina il fenomeno della nuova incriminazione,
ossia di una previsione innovativa dell’ordinamento
che interviene a punire un comportamento fino a
quel momento non oggetto di precetto punitivo.
Tale principio rappresenta un naturale completamento dei principi della riserva di legge e della tassatività, la cui funzione garantista sarebbe frustrata
se i comportamenti umani fossero lasciati in balia
di future incriminazioni.
Occorre precisare che il principio di irretroattività
riguarda solamente le leggi penali sostanziali e non
anche quelle processuali.
2 • I COMMI 2, 3 E 4
❐
Ai commi 2 e 4 sono regolate le ipotesi di abolitio
criminis e di successione delle leggi penali nel
tempo.
Nel primo caso, una legge, intervenendo su una
precedente disposizione normativa, depenalizza un
fatto che, fino a quel momento, era considerato
reato. Da questo momento, il reo non potrà più
essere punito e, se è già intervenuta una condanna,
cessano l’esecuzione e gli effetti penali di essa.
Non vengono meno, invece, le obbligazioni civili
nascenti dal reato (es.: pagamento delle spese processuali nei confronti dello Stato).
Successione modificativa si ha, invece, quando il
fatto è previsto come reato anche dalla legge suc-
cessiva che, tuttavia, apporta modifiche all’originaria fattispecie. In caso di diversità della sanzione
prevista dalla legge modificativa rispetto a quella
originaria, si applica quella più favorevole al reo,
salvo che non sia intervenuta sentenza passata in
giudicato.
La L. 24-2-2006, n. 85, recante Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, ha aggiunto dopo il comma 2 un ulteriore comma in base al
quale “se vi è stata condanna a pena detentiva e la
legge posteriore prevede esclusivamente la pena
pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte
immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135”.
Questa disposizione, com’è agevole notare, rappresenta una deroga al disposto del comma 4, che,
come si è appena visto, impedisce l’applicazione
della norma più favorevole al fatto antecedentemente commesso, in presenza di sentenza definitiva di condanna. In questo caso, al contrario, l’esistenza di un giudicato non impedisce l’operatività
del suddetto principio.
L’intervento della citata L. n. 85/2006 in questo
ambito si giustifica principalmente con la contestuale sostituzione della pena detentiva con quella
pecuniaria applicabile ai cd. “reati di opinione” di
cui agli artt. 290 e ss. c.p. Si tratta evidentemente
di un intervento doveroso perché rispondente ad
una logica equitativa.
Le disposizioni contenute nei commi 2 e 4 della
norma in esame sono chiara applicazione del principio del favor rei.
Per quanto riguarda l’esatta individuazione della
Titolo I - Della legge penale • 2
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disciplina più favorevole, si deve fare riferimento
alla disciplina complessivamente considerata: ad
esempio, è più favorevole, per il reo, una prescrizione più breve o l’introduzione, ad opera della legge
successiva, di una condizione di procedibilità prima
non prevista o, viceversa, successivamente abrogata. Occorre, perciò, una valutazione comparativa
complessiva e, soprattutto, il giudice deve procedere d’ufficio all’individuazione della fattispecie più
favorevole, anche prescindendo dalle prospettazioni difensive. In ogni caso, la comparazione deve
avvenire in concreto e non in astratto, ossia confrontando i risultati che deriverebbero dall’applicazione delle norme succedutesi nel tempo (Cass., I,
18-5-1994).
Invece, ai fini dell’individuazione della normativa
più favorevole per il reo non si può procedere a una
combinazione delle disposizioni più favorevoli
della nuova legge con quelle più favorevoli della
vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione
di una terza legge, diversa sia da quella abrogata,
sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo (Cass., III, 195-2004).
3 • UN RECENTE ORIENTAMENTO DELLA CASSAZIONE
❐
Una recente pronuncia della Cassazione ha affermato che, in tema di successione di leggi penali nel
tempo, la regola dell’applicazione della legge più
favorevole, dettata dall’art. 2, 3° comma, trova
applicazione anche nel caso in cui, succeduta alla
legge vigente al momento del fatto una legge più
favorevole, questa sia stata poi a sua volta seguita,
prima del giudizio, dal ripristino della legge originaria (Cass., IV, 20-5-2004).
La pronuncia risulta essere assai interessante in
quanto ha affrontato il problema della legge più
favorevole sopravvenuta al fatto ma poi abrogata
prima del giudizio; ipotesi formalmente assai diversa - anche se, nella sostanza, non troppo dissimile
- da quella del decreto legge non convertito o convertito con emendamenti, espressamente disciplinata dall’ultimo comma dell’art. 2. Trattasi di problema che avrebbe forse meritato un maggiore
approfondimento. La soluzione adottata, tuttavia,
dà luogo alla singolare conseguenza per cui, identi-
che essendo la legge vigente al momento del fatto
e quella vigente al momento del giudizio, dovrebbe
però trovare applicazione una terza legge non vigente né al momento del fatto né a quello del giudizio.
4 • I MOBILI CONFINI DELL’ABOLITIO CRIMINIS
❐
Non sempre è facile distinguere quando vi sia abolitio, con creazione di una nuova fattispecie, e
quando, al contrario, si sia in presenza di una successione modificativa; la necessità di differenziare
le due ipotesi è di fondamentale importanza, perché, nel primo caso, il soggetto andrà assolto, mentre nel secondo potrà soltanto fruire del trattamento sanzionatorio più favorevole.
A tal fine, non è sufficiente la qualificazione formale fornita dalla fattispecie incriminatrice, tanto che
la dottrina, per risolvere il problema, ha elaborato
vari criteri.
Il primo di essi è quello che muove dal cd. fatto
concreto: se il fatto rientra sia nella vecchia sia
nella nuova disposizione, vuol dire che c’è un fenomeno di successione e non di abolizione. È un criterio semplice da applicare, anche se, partendo dal
fatto concreto, rischia di portare ad interpretazioni
disuguali e diverse caso per caso. Per questo motivo, sono stati elaborati altri criteri, fondati su principi tendenti piuttosto all’astrattezza.
Tra di essi, merita di essere ricordato quello fondato sulla cd. continuità del tipo d’illecito, che risolve
i problemi definitori mettendo a confronto i beniinteressi tutelati dalla nuova e dalla vecchia normativa: se le modalità offensive della condotta sono
identiche o analoghe nella vecchia e nella nuova
formulazione e il bene-interesse tutelato dalla
norma è sempre lo stesso, si ha successione di leggi
e non abrogazione.
Vi, è infine, un terzo criterio fondato sugli elementi
strutturali della fattispecie: la successione va esclusa allorquando tra vecchia e nuova norma vi sia un
rapporto di incompatibilità/eterogeneità. In ogni
caso, non vi è incompatibilità quando esista un rapporto di specialità fra le due fattispecie che può
aversi sia in una direzione che nell’altra: pertanto,
potremmo avere successione fra una legge generale seguita da una legge speciale e viceversa.
Ovviamente, nel caso del passaggio da norma generale a norma speciale, si verifica un’abrogazione
parziale con riguardo ai casi che non rientrano nella
2 • Libro I - Dei reati in generale
• 50
nuova e più specifica disciplina.
Si dice che, in tal caso, la nuova norma ritaglia,
all’interno della precedente, una vera e propria
nuova fattispecie incriminatrice, e quindi che, per
quanto non “riportato” nella nuova disciplina,
debba valere il principio di irretroattività.
5 • LA SUCCESSIONE DI NORME EXTRA-PENALI
❐
Discorso ancora diverso si prospetta in caso di successione di norme richiamate dalla disposizione
penale incriminatrice (cd. fenomeno della successione mediata di fattispecie incriminatrici).
Sul punto, in particolare si sono acquisiti percorsi
giurisprudenziali in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina di cui al D.Lgs. n.
268/1998, laddove si è posto il problema dell’operatività delle disposizioni dell’art. 2, 2° comma,
c.p. a fronte di una condotta favoreggiatrice realizzata al fine di agevolare l’ingresso di un cittadino
extracomunitario, il cui Stato di provenienza abbia,
successivamente al fatto, aderito al Trattato U.E. o
comunque a fronte di una condotta di illecita permanenza sul territorio italiano addebitabile a soggetto appartenente a paese che, solo successivamente, aderisca al Trattato.
In tema si sono da subito affacciati due orientamenti: il primo - ritenendo che l’elemento richiamato integri il precetto penale divenendo tutt’uno con
esso - si è detto favorevole a ritenere estinto il reato
ex comma 2 dell’art. 2 del codice penale.
L’altro orientamento - seguito sia da Cass. Pen.,
sez. I, n. 1815/2007 sia dalle S.U. della Cass.
(sent n. 2451/2007 depositata il 16 gennaio
2008) - esclude l’integrazione tra elemento richiamato e precetto ed esclude che, nel caso di specie,
possa operare la previsione dell’art. 2, 2° comma,
c.p. ritenendo che quest’ultima norma sia riferibile
ai soli casi in cui intervenga una vera e propria
depenalizzazione della condotta, e non una mera
modifica, come nel caso di specie, del presupposto
della condotta “che non concorre a delineare il precetto penale”.
In un’ottica di sostanziale continuità con questa
linea interpretativa, all’udienza delle Sezioni Unite
del 27 febbraio 2008 la Suprema Corte ha ritenuto che i fatti di bancarotta commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006 e del successivo D.Lgs. n. 169 del 2007, che hanno modi-
ficato i requisiti perché l’ imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano ad essere previsti
come reato anche se in base alla nuova normativa
l’imprenditore non potrebbe più essere dichiarato
fallito.
6 • LEGGI TEMPORANEE ED ECCEZIONALI
(5° COMMA)
❐
Con riferimento alle leggi temporanee (che hanno
una durata circoscritta nel tempo) ed eccezionali
(che si applicano a fatti straordinari), la norma in
esame dispone che si applica esclusivamente la
disposizione vigente al momento della commissione del fatto. Ciò si spiega considerando l’esigenza
di evitare che una norma introdotta per far fronte ad
esigenze eccezionali o contingenti possa essere
aggirata (ad esempio, per fatti commessi nell’imminenza dello scadere del termine della legge temporanea o verso la fine della situazione eccezionale).
Discorso diverso deve farsi con riferimento all’ammissibilità di sentenze della Corte Costituzionale
che, abrogando disposizioni di legge favorevoli al
reo, impongano un trattamento deteriore per quest’ultimo per effetto della riespansione della normativa punitiva precedente. Sul punto, il giudice delle
leggi, pur non negando in astratto l’ammissibilità di
siffatte “pronunce in malam partem” ha escluso
che il principio di cui all’art. 25 della Costituzione
debba comunque ritenersi recessivo rispetto alla
retroattività riconosciuta alle decisioni della Corte
Costituzionale (Corte Cost. sent. n. 394/2006),
conseguentemente affermando la non applicabilità
della normativa.
7 • DECRETI LEGGE (6° COMMA)
❐
Le disposizioni ex art. 2 si applicano anche nei
casi di decadenza e di mancata ratifica di un
decreto-legge e nei casi di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti. Peraltro, all’introduzione di emendamenti nella legge di conversione non sempre può ricondursi la conseguenza di
determinare automaticamente la perdita di efficacia ex tunc del decreto-legge, né, correlativamente, quella di attribuire valore ex nunc al precetto
della legge di conversione a mezzo del quale ha
trovato ingresso la modificazione, dovendo, al contrario, aversi riguardo allo specifico contenuto degli
emendamenti e alla reale portata dei mutamenti al
Titolo I - Della legge penale • 2
• 51
testo del decreto. Pertanto, solo gli emendamenti
sostitutivi (o innovativi) e quelli soppressivi, disponendo la riscrittura ovvero l’eliminazione della
decretazione d’urgenza, hanno efficacia ex nunc,
mentre quelli semplicemente modificativi, consistendo in una variazione che non investe il nucleo
precettivo fondamentale della norma del decretolegge, si saldano con quest’ultima in modo continuo, sì che hanno efficacia ex tunc, decorrente
dalla data della normazione di urgenza (Cass., I,
24-6-1998).
8 • IL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITÀ E LE NORME
PROCESSUALI
❐
L’art. 2 c.p. non è applicabile alle leggi processuali, laddove opera il diverso principio del tempus
regit actum.
Incertezze interpretative vi sono state - in tema di
successione di leggi processuali - per quel che concerne norme che, mutando il tipo di sanzione prevista originariamente per il reato, determinavano
altresì una modifica della competenza degli organi
giurisdizionali a conoscerne, laddove è chiaro che
vengono in evidenza modifiche sia della norma
sostanziale sia di quella processuale. In particolare
in giurisprudenza si è posto il problema della competenza giurisdizionale con riguardo al reato di
guida in stato d’ebbrezza, previsto e punito dall’art.
186 della L. n. 214/2003 (cd. Codice della
Strada).
Innovando rispetto alla previgente previsione, questo reato - per ragioni di politica criminale legate
alle drammatiche e ricorrenti “stragi del sabato
sera” sulle strade italiane - è stato nuovamente sanzionato con la pena dell’arresto, in luogo dell’originaria ammenda. Questa modifica, determinando la
traslazione della competenza a conoscerlo dal giudice di pace al Tribunale in sede monocratica, ha
evidenziato un problema di competenza intertemporale. Segnatamente il problema si è prospettato
con riferimento ai reati, commessi nel periodo anteriforma, per i quali il P.M. ha esercitato l’azione
penale in un momento successivo, mediante emissione di decreto di citazione a giudizio.
Un primo orientamento, anche giurisprudenziale,
ha ritenuto che vada individuato nel Tribunale il
giudice competente a conoscere del reato, anche se
tale organo giurisdizionale, in applicazione dei cri-
teri di cui all’art. 2, comma 3, c.p., dovrà applicare la pena più favorevole fra quelle previste.
Viceversa, altre sentenze hanno sostenuto che, in
questo caso, la competenza debba rimanere in
capo all’ufficio competente al momento del commesso reato, e dunque hanno considerato perdurante la competenza del giudice di pace, conferendo ultrattività, almeno da un punto di vista processuale, alla previgente disposizione.
Le S.U. della Cass. con la sentenza 31-1-2006, n.
3821 hanno tuttavia accolto la prima teoria sostenendo la competenza del tribunale con riferimento a
reati originariamente puniti con pena dell’ammenda.
Altro problema - posizionantesi al confine tra norma
processuale e norma sostanziale - si è avuto con
riferimento alla prescrizione. Il dilemma si pone in
particolare allorquando un intervento legislativo
prolunghi o abbrevi i termini di prescrizione, prefigurando un dubbio in ordine al trattamento di tale
modifica: in altre parole, occorre considerare la
modifica quale intervento processuale, e quindi
procedere ad applicarla, senza indugio, anche ai
processi in corso, o, viceversa, ritenere che la stessa abbia natura meramente sostanziale e quindi far
scattare il dispositivo, improntato al favor rei, di cui
all’art. 2 del codice penale?
La dottrina suggerisce in questo caso un modus
procedendi che necessariamente diversifica le
situazioni nel loro concreto manifestarsi, a seconda
del tempo trascorso dalla commissione del reato:
infatti, allorquando la legge intervenga a termine
prescrizionale già spirato, è ovvio (e corrisponde ad
un principio di giustizia sostanziale) che la nuova
disciplina non sarà applicabile.
Più complesso il problema quando la legge successiva interviene sui termini di prescrizione prima che
la prescrizione sia maturata. In questo frangente,
infatti, possiamo sia applicare il principio tempus
regit, e quindi attribuire efficacia lato sensu retroattiva alla norma, sia applicare i principi dell’art. 2,
e quindi ritenere o meno applicabile la normativa
sopravvenuta a seconda del se essa abbrevi o allunghi i termini prescrizionali.
La Corte Costituzionale con la sentenza n.
452/1999 - salutata con favore dalla dottrina prevalente - aveva optato per la tesi della retroattività.
L’Alto Consesso ebbe a motivare la sua decisione
sostenendo che quella ad un predeterminato termine di prescrizione non è un’aspettativa giuridica-
3 • Libro I - Dei reati in generale
• 52
mente rilevante che esiste in quanto tale, nel compendio patrimoniale dell’imputato, tanto in considerazione del fatto che - a dire della Corte - il favor
rei è concetto, per così dire, “intraprocessuale” e
non extraprocessuale, e come tale non si può riferire anche all’intenzione del privato di sottrarsi al
processo. Il problema della prescrizione nei suoi
rapporti con l’art. 2 c.p. si è poi posto in particolare con la cd. legge Cirielli che ha operato sui termini di prescrizione.
Interessanti applicazioni in materia di successioni
di leggi penali speciali, si sono avute con riferimento alla normativa in materia di sicurezza sul
lavoro. In tal senso vedasi Cassazione penale , sez.
III, 07 maggio 2009 , n. 23976 secondo cui
“Anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 9 aprile
2008, n. 81 (cosiddetto T.U. sulla sicurezza) che
ha abrogato il d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547,
costituisce reato la violazione delle prescrizioni
dirette a conformare i luoghi di lavoro a norme di
prevenzione per garantire la sicurezza dei lavoratori, sussistendo continuità normativa tra l'art. 8 dell'abrogato d.P.R. n. 547 e la nuova fattispecie prevista dal combinato disposto degli artt. 63, 64 e
68, lett. b), in relazione all'All. IV, punto 1.4.1,
D.Lgs. n. 81 del 2008.
3 • Obbligatorietà della legge penale
La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano
nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o
dal diritto internazionale (1).
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si
trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale (1).
(1) Le eccezioni previste dal diritto pubblico interno riguardano:
a) il Capo dello Stato;
b) i membri del Parlamento, i consiglieri regionali, i giudici della Corte costituzionale e i membri del Consiglio superiore della magistratura.
Le eccezioni previste dal diritto internazionale riguardano:
a) la persona del Sommo Pontefice;
b) i Capi di Stato esteri e i reggenti;
c) i Capi di governo e ministri di Stati esteri o rappresentanti di questi in conferenze o organizzazioni internazionali e i membri stranieri di tribunali arbitrali;
d) gli Agenti diplomatici presso il Capo dello Stato, i membri della famiglia dell’agente conviventi, i membri
delle missioni militari e tecniche e le loro famiglie, il personale amministrativo e le loro famiglie purché conviventi a carico e gli appartenenti al personale di servizio per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni salvo che non si tratti di cittadini dello Stato ospitante o di persone che abbiano fissato la loro residenza in Italia;
e) i membri del Parlamento europeo;
f) i Consoli, i vice consoli e gli Agenti consolari;
g) i giudici della Corte dell’Aia;
h) i membri delle istituzioni specializzate e i rappresentanti dell’O.N.U.;
i) i corpi o reparti di truppe straniere, con particolare riferimento ai membri e alle persone al seguito delle forze armate della N.A.T.O.
1 • IL PRINCIPIO DI TERRITORIALITÀ E LE CD.
IMMUNITÀ
❐
Assieme all’art. 6, l’articolo in commento ribadisce il principio di territorialità, secondo cui qualsiasi condotta integrante estremi di reato, commessa in tutto o in parte sul territorio dello Stato
italiano, è assoggettata alla giurisdizione penale
italiana. Principio cui si deroga solo in casi eccezionali, come per esempio per i cd. delicta iuris
gentium (reati puniti dalle leggi della maggioranza degli Stati ed alla cui repressione, quindi,
tutta la comunità internazionale è interessata),
• 53
assoggettati a pena in Italia anche se commessi
al di fuori del nostro territorio.
Il principio di obbligatorietà della legge penale
italiana, in uno con quello di territorialità di cui
all’art.6 c.p. rappresenta un confine insormontabile, a maggior ragione a tutela dei diritti individuali protetti dalla fattispecie incriminatici, in
particolar modo allorquando, in un contesto
sociale multietnico, si prospettano ragioni etiche
ed usanze costumali diverse da quelle cui è
improntato l’intero sistema giuridico italiano.
Queste considerazioni – e per contro i limiti di
operatività di detti diversi ordinamenti che,
come tali, non possono incidere sul nostro diritto penale– iniziano ad evidenziarsi anche nella
giurisprudenza di legittimità. Si veda, in tal
senso, la posizione nitida di Cass. penale , sez.
VI, 28 gennaio 2009 , n. 22700 secondo cui “
L'art. 3 c.p. sancisce il principio dell'obbligatorietà della legge penale, per cui tutti coloro che,
cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello
Stato sono tenuti ad osservarla. La rilevanza
della disciplina e le ragioni di carattere generale
su cui si fonda escludono che possa esservi
apportata qualsiasi deroga non espressamente
prevista dal diritto pubblico interno o dal diritto
internazionale. Questo comporta che le tradizioni etico-sociali di coloro che sono presenti nel
territorio dello Stato, di natura essenzialmente
consuetudinaria benché nel complesso di indiscusso valore culturale, possano essere praticate
solo fuori dall'ambito di operatività della norma
penale. Il principio assume particolare valore
morale e sociale allorché - come nella specie - la
tutela penale riguardi materie di rilevanza costituzionale, come la famiglia, che la legge fondamentale dello Stato riconosce quale società
naturale, ordinata sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29 cost.), uguaglianza
che costituisce pertanto un valore garantito, in
quanto inserito in un ordinamento incentrato
sulla dignità della persona umana e sul rispetto
e la garanzia dei diritti insopprimibili a lei spettanti (nella specie, l’imputato nordafricano era
stato condannato per il reato di cui all'art. 572
c.p. per maltrattamenti nei confronti della
moglie, e si difendeva adducendo il dato che i
coniugi- e la famiglia nella quale i reati erano
stati commessi - erano portatori di cultura, reli-
Titolo I - Della legge penale • 3
gione e valori differenti da quelli italiani, tali da
influire sotto il profilo sia della gravità del reato
che dell'entità della pena e sulla sussistenza
delle attenuanti generiche).
Limiti a questo principio sono comunque dati
dalle immunità previste dal diritto internazionale.
È il caso degli agenti diplomatici e consolari, i
quali godono di un’immunità assoluta (cd. immunità diplomatica). Al contrario, gli impiegati degli
uffici diplomatici e consolari godono di un’immunità relativa, che li sottrae alla giurisdizione
penale del nostro Stato solo per quanto concerne
gli atti da loro compiuti nell’esercizio delle corrispondenti funzioni.
Per analogia, si estendono le immunità appena
viste anche ai rappresentanti delle organizzazioni
internazionali (O.N.U., U.E., F.A.O. etc.).
Diversa dall’immunità diplomatica è quella prevista da alcune norme dell’ordinamento e connessa alle funzioni di rappresentanza politica che
alcuni soggetti svolgono: è il caso dei parlamentari, nazionali o regionali, dei giudici della Corte
costituzionale e dei membri del CSM, che non
possono essere chiamati a rispondere dei voti dati
e delle opinioni espresse nell’esercizio delle loro
funzioni (cd. immunità funzionale).
La Corte Costituzione si è recentemente soffermata sui limiti dell’immunità da riconoscere ai
parlamentari per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni ex art. 68, 1° comma,
Cost., ribadendo - quanto alle opinioni espresse
dai componenti dell’Assemblea al di fuori della
sede del Paramento - che anche queste ultime
sono coperte dalla predetta insindacabilità, purché siano legate da un nesso funzionale alle attività proprie di membro del parlamento. Nesso
che si concretizza se e quando nell’attività esterna del deputato portata all’attenzione del giudice, il parlamentare abbia sostanzialmente riproposto, con le sue dichiarazioni, le stesse espressioni anche verbali e le medesime argomentazioni oggetto della propria attività parlamentare
(Corte Cost., sent. n. 53/2007).
Ancora diversa è la posizione del Capo dello
Stato, che è penalmente irresponsabile e può
essere chiamato a rispondere – davanti alla Corte
Costituzionale - solo di due reati: alto tradimento
e attentato agli organi costituzionali ex art. 96
Cost.
4-5 • Libro I - Dei reati in generale
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4 • Cittadino italiano. Territorio dello Stato
Agli effetti della legge penale, sono considerati cittadini italiani i cittadini delle
colonie, i sudditi coloniali (1), gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi
soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi residenti nel territorio dello Stato.
Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica, quello delle colonie (2) e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le
navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque
si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge
territoriale straniera.
(1) I riferimenti ai cittadini delle colonie ed ai sudditi coloniali devono ritenersi non più operanti.
(2) Il riferimento al territorio delle colonie deve ritenersi non più operante.
1 • L’AMPIA NOZIONE DI “CITTADINANZA”
ED IL PRINCIPIO DELLA BANDIERA
❐
Per giurisprudenza consolidata, il concetto di cittadinanza disciplinato dalla norma in esame ha
un’ampia estensione, implicando la correlativa
attribuzione anche in capo al soggetto che abbia
scelto, a propria stabile residenza, una dimora sita
nel territorio italiano. Tale criterio interpretativo vale
anche per l’apolide. Tuttavia, ai sensi dell’art. 4,
per residenza deve intendersi una dimora abituale,
caratterizzata dalla fissazione della propria sede in
un determinato luogo e dalla volontà di mantenere
questa sede in modo tendenzialmente duraturo.
Tali caratteri, con riferimento all’apolide, si riscontrano soltanto se quest’ultimo ha soggiornato nel
territorio italiano per un periodo di tempo apprezzabile.
Il territorio, invece, è la superficie terrestre ricompresa nei confini politico-geografici dello Stato stabiliti dai trattati internazionali e dalle leggi di
annessione dei precedenti Stati.
Nel concetto di territorio, secondo il principio
della bandiera, rientrano anche le navi aventi bandiera italiana; pertanto, per i fatti commessi a
bordo di queste ultime sarà competente il giudice
italiano.
Per quanto riguarda i fatti commessi quando la
nave si trovi nelle acque sottoposte alla giurisdizione di altri Stati, la legge penale italiana trova applicazione a meno che quegli stessi fatti non si ripercuotano, sotto il profilo offensivo, su beni-interessi
di pertinenza dello Stato costiero. In tale ultima
eventualità, a quest’ultimo, per giurisprudenza consolidata, spetterà la giurisdizione.
5 • Ignoranza della legge penale
Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale (1).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 24-3-1988, n. 364, ha dichiarato l’incostituzionalità del presente articolo, “nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile”.
1 • L’IGNORANZA DELLA LEGGE PENALE SCUSA
SOLTANTO SE INEVITABILE
❐
L’art. 5 costituisce un’applicazione del brocardo
latino ignorantia legis non excusat, ed è un corollario indispensabile del principio di obbligatorietà
della legge penale.
A differenza di quanto avviene nel caso disciplinato dall’art. 47 (➠), il soggetto agente - per ignoranza - cade in errore in ordine alla qualificazione giu-
ridica in astratto del fatto commesso e non sul fatto
concreto da lui posto in essere. In altri termini, il
soggetto, ex art. 5, vuole effettivamente il fatto previsto dalla norma incriminatrice, anche se ritiene
erroneamente che esso non sia previsto dalla legge
come reato.
Per queste sue caratteristiche, la fattispecie di cui
all’art. 5 è, di solito, anche utilizzata per indicare il
confine negativo del dolo.
• 55
Quanto alla nozione di norma penale, non è necessario che la disposizione ignorata dal soggetto sia
contenuta nel codice penale, dal momento che
l’ampia dizione utilizzata autorizza a ritenerla operativa anche in occasione di norme contenute in
leggi ordinarie.
Sull’originario rigore della disciplina codicistica è
intervenuta - a seguito della sollecitazione di alcuni illustri autori (Bricola, Mantovani, FiandacaMusco) la Corte costituzionale con sentenza n.
364/1988, che ha introdotto il principio della scusabilità dell’ignoranza in presenza di un errore inevitabile dovuto a forza maggiore. In estrema sintesi,
dalla sentenza della Corte emergono due criteri per
Titolo I - Della legge penale • 5
valutare la scusabilità dell’errore:
- uno oggettivo, fondato sull’effettiva incertezza
della normativa applicabile al caso concreto;
- uno soggettivo, che va relazionato al grado di preparazione culturale del soggetto agente.
La giurisprudenza ha elaborato una casistica di
errori inevitabili, fondandoli di volta in volta sull’esistenza di incertezze giurisprudenziali in ordine all’applicazione della norma, su prassi contrastanti esistenti presso la pubblica amministrazione, sull’autorevolezza della fonte interpretativa
che ha tratto in inganno il soggetto agente in ordine alla liceità del comportamento posto in essere
etc.
È illegittimo l’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, atteso il combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 27 Cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli art. 2, 3, 25, 2° comma, 73, 3° comma, Cost., le
quali pongono l’effettiva possibilità di conoscere la legge penale quale ulteriore requisito minimo d’imputazione, che viene ad integrare e completare quelli attinenti
alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, consentendo la valutazione e, pertanto, la
rimproverabilità del fatto complessivamente considerato (Corte cost. 24-3-1988, n.
364).
La tematica dell’ignoranza della legge penale ha avuto un ritorno inaspettato ed
occasionale, in ambito europeo, in relazione ad una vicenda di cronaca non solo giudiziaria, avente ad oggetto la demolizione di un complesso immobiliare, già confiscato dalla Magistratura penale, nel territorio del comune di Bari, sulla costa di Punta
Perotti.
Infatti, in relazione a tale complesso edilizio - benché il processo si fosse concluso
con l’assoluzione degli imputati, per insussistenza dell’elemento psicologico,dovuta
ad errore scusabile nell’interpretazione della legge - era stata disposta dal giudice italiano la confisca (ritenuta, comunque, obbligatoria) sia dei suoli abusivamente lottizzati
che dell’intero complesso immobiliare, a norma dell’art.19 L.47/85.
Per contro l a Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza emessa il 20 gennaio
2009 dalla II Sezione ha ritenuto che – dal momento che la confisca in questione ha comunque natura sanzionatoria – fossero ravvisabili, nel caso di specie, una violazione
sia dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene) che dell'art. 1 del Protocollo n. 1 (che enuncia il
principio del rispetto della proprietà, ne sottopone la privazione a determinate condizioni, e riconosce agli Stati il potere di regolamentare l'uso dei beni conformemente all'interesse generale).
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