LIBRO I DEI REATI IN GENERALE TITOLO I DELLA LEGGE PENALE 1 • Reati e pene: disposizione espressa di legge Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite (1). (1) L’art. 1, comma 1, della l. 24-11-1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), stabilisce che nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. 1 • IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ ❐ Questa disposizione enuncia uno dei più importanti concetti del diritto penale moderno, il cd. principio di legalità, in forza del quale soltanto la legge può prevedere fatti-reato, perché solo la legge quale atto di autolimitazione accettato dalla collettività, in base al meccanismo della rappresentanza politica - assicura le necessarie garanzie e i dovuti limiti al potere repressivo dello Stato. Di conseguenza, il principio di legalità (nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege) investe sia il precetto, ossia il comportamento prescritto dalla norma, sia la sanzione. La dottrina (Mantovani, Antolisei) ritiene che questo principio contenga tre sotto-principi: - il divieto, per fonti non legislative (consuetudine o interpretazione analogica), di determinare un precetto penalmente sanzionato (cd. principio della riserva di legge in senso stretto); - la necessità della certezza e, quindi, della chiarezza del precetto e della sanzione penale che ad esso consegue (cd. principio di tipicità); - l’impossibilità di punire taluno per un fatto non previsto come reato al momento in cui fu da lui commesso (principio di irretroattività, compiutamente disciplinato dal successivo art. 2). 2 • COLLEGAMENTO CON ALTRE NORME ❐ L’art. 1 c.p. è in diretto collegamento con l’art. 25, 2° e 3° comma, Cost. (Pagliaro), secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso e nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. Principi, questi, che sono peraltro richiamati anche dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, recepita con l. n. 848/1955. Altra norma collegata all’articolo in commento è l’art. 14 delle preleggi al codice civile, che, in presenza di leggi penali, fa divieto all’interprete di ricorrere all’analogia legis, espressamente stabilendo che tali leggi “non si applicano al di fuori dei casi e dei tempi in esse considerati”. Questo divieto è formulato relativamente alle “leggi penali”. Con tale espressione il legislatore ha inteso riferirsi, innanzitutto, alle norme penali incriminatrici, ossia alle disposizioni di carattere sostanziale che prevedono elementi strutturali di reato, ricollegando, al verificarsi delle medesime, sanzioni penali. Ci si è chiesti se tale divieto possa valere anche in relazione a quelle disposizioni che escludono la punibilità. Il problema, in particolare, si è posto per le cd. cause di giustificazione, ossia per quelle fattispecie giuridiche che operano in senso negativo rispetto alla fattispecie di reato. Si è parlato, in tal senso, di analogia in bonam partem, che, secondo una certa interpretazione, sarebbe sempre ammessa nel nostro ordinamento. A fondamento di tale assunto si è negato che queste ultime possano definirsi norme penali in senso stretto, non avendo esse valenza incriminatrice. Quanto alla riserva di legge, è certamente la più importante espressione del principio di legalità, e sottolinea l’esigenza che i reati, le pene per essi previste e le misure di sicurezza, devono trovare la propria ed esclusiva fonte nella legge. Si parla, a tale proposito, di principio di legalità formale, per 1 • Libro I - Dei reati in generale • 46 distinguerlo dal principio di legalità sostanziale, che attiene alla cd. “necessaria offensività della condotta-reato” (➠ 49). Nonostante la sua assolutezza, non tutti gli elementi del reato devono necessariamente essere previsti da una legge; si ammette, infatti, che alcuni atti provenienti da normativa sub-primaria (quali, ad esempio, i provvedimenti amministrativi) possano integrare, intervenendo a livello di elementi marginali, la fattispecie di reato astrattamente delineata dalla legge (è il caso, ad esempio, della fattispecie di cui all’art. 650, il cui contenuto specifico è integrato dal provvedimento amministrativo). Questo è il fenomeno delle cd. norme penali in bianco, che ricorre quando la legge, nel formulare il precetto, opera un rinvio a fatti produttivi del diritto diversi dalla legge penale. In questo caso, le norme incriminatrici vengono integrate, nel loro contenuto precettivo, da fonti di diversa natura, di solito di grado inferiore ed anche non normative. Il legislatore formula in tal modo un precetto che rimane sostanzialmente indeterminato, ma determinabile mediante un criterio relazionale, attraverso il rinvio alla fonte subordinata. In ogni caso, i problemi più rilevanti in tema di norme penali in bianco riguardano l’errore su legge penale, ex art. 5 (➠). 3 • LE TIPOLOGIE DI LEGGI “AUTORIZZATE” ALLA PRODUZIONE DI DIRITTO PENALE ❐ All’opera della giurisprudenza, anche costituzionale, si deve la selezione delle fonti normative della legge penale. In primo luogo, si è escluso che l’art. 1 contempli le leggi regionali, anche quelle prodotte nelle materie di legislazione esclusiva, perché ciò avrebbe comportato un rischio di disparità di trattamento. Principio oggi espressamente ribadito dall’art. 117 Cost. (come modificato dalla legge costituzionale n. 3/2001), che riserva alla potestà esclusiva dello Stato la legislazione in materia di ordinamento penale. Compatibile con la riserva di legge è la produzione di norme penali da parte di leggi delegate e di decreti legge (cd. leggi materiali), perché questi atti sono equiparati, nel nostro sistema costituzionale, alle fonti normative primarie, ossia alle leggi formali, beninteso sempre che rispettino le procedure ed i limiti contenutistici imposti dall’art. 76 Cost. Quanto alle relazioni tra riserva di legge statale e diritto comunitario, escluso che l’ordinamento comunitario, per il tramite delle sue fonti, sia competente a legiferare con effetti diretti nella materia penale degli stati membri, si pone il problema della sua eventuale efficacia riflessa. Sotto quest’ultimo profilo, è certo che il rapporto tra diritto comunitario e diritto interno è, come in tutti gli altri casi, un rapporto di prevalenza/recessione, di tal che il giudice penale è legittimato ad operare una sorta di disapplicazione indiretta in caso ravvisi il contrasto di una norma incriminatrice statale con un principio comunitario. Ciò può accadere certamente allorquando l’inibitoria comunitaria operi in senso favorevole al reo, limitando l’operatività di una fattispecie incriminatrice; non tutti sono invece d’accordo allorquando dall’applicazione del principio comunitario possa derivare un trattamento deteriore all’imputato. Il caso si è posto ed è stato favorevolmente risolto con riferimento alla contestazione del reato di esercizio abusivo della professione, nei confronti di un avvocato tedesco (a quest’ultimo era contestata la violazione di cui all’art. 348 c.p.), e si è nuovamente proposto con riferimento alle attività di scommessa, non gestite dallo Stato italiano (con riferimento all’art. 4 della L. n. 401/1989). Recentemente, sia la Cassazione (sez. III, n. 16298) sia la Corte di Giustizia (cause riunite C338/04, C-3 59/04 C-360-04) hanno riconosciuto, in materia di attività di scommessa, che il monopolio che lo Stato italiano, anche rinforzando la propria determinazione attraverso la previsione di apposite fattispecie di diritto penale, intende esercitare in questo ambito è illegittimo in quanto contrasta con gli artt. 43 e 49 del Trattato U.E. La questione inversa si è posta con riferimento alla nuova disciplina del falso in bilancio. In questo caso, la questione era stata rimessa alla Corte di giustizia, perché l’art. 6 della cd. prima direttiva CEE imponeva l’obbligo a carico degli Stati membri di prevedere adeguate sanzioni per i casi di mancata pubblicità del bilancio, ed il legislatore nazionale con il D.Lgs. n. 61/2002 aveva invece sensibilmente mitigato il trattamento sanzionatorio. La Corte di giustizia (3 maggio 2005), però, pur non disconoscendo l’ammissibilità di un effetto espansivo del diritto comunitario, non ha ritenuto violato, nel caso di specie, l’obbligo comunitario invocato. In tema di rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale si è di recente pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite, chiarendo che “l'obbligo • 47 del giudice di interpretare il diritto nazionale conformemente al contenuto delle decisioni quadro adottate nell'ambito del titolo VI del Trattato sull'Unione europea non può giammai legittimare l'integrazione della norma penale interna quando una simile operazione si traduca in una interpretazione in "malam partem". (In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio dell'Unione Europea 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all'art. 322 ter primo comma cod. pen. anche al profitto del reato) Cassazione penale , sez. un., 25 giugno 2009 , n. 38691. Problema consimile, e, per certi versi inverso è il caso del diritto penale interno che non si adegui ad una normativa comunitaria che imporrebbe l’introduzione di una nuova figura di reato nell’ordinamento nazionale. In questo caso, pronunciatasi più volte, la Corte di Giustizia ha sempre sostenuto che al diritto comunitario, in quanto tale, non può ricondursi l’effetto di introdurre nuove fattispecie sanzionatorie o comunque fattispecie che aggravino reati già previsti dall’ordinamento nazionale. Viceversa quando un intervento di una legge statale sopravvenuta modifica una pre-esistente legge nazionale, che era in origine conforme al diritto comunitario questo comporta un inadempimento grave che impone il rinvio pregiudiziale della normativa, anche da parte del giudice penale, alla Corte di Giustizia. E tuttavia, nell’occasione in cui l’organo giurisdizionale della Comunità si è occupata del problema (decisione 11 novembre 2004 causa cd. “Niselli”) pur stigmatizzando gravemente il comportamento del legislatore italiano – che, nel caso sottoposto all’attenzione della comunità, aveva adottato 2 • Successione di leggi penali Titolo I - Della legge penale • 2 una definizione restrittiva del concetto di rifiuto con l’art.14 del decreto legge 138/02 violando una direttiva comunitaria che era stata originariamente correttamente trasposta, la Direttiva n.75/442 – non è arrivata a sostenere la punibilità dell’imputato alla luce della vecchia normativa, ritenendo prevalente, nel caso di specie, la disposizione di favore contemplata dall’articolo 2 comma 2 del nostro codice penale. Va esclusa dalle fonti formali del diritto penale la cd. consuetudine (nullum crimen sine lege scripta), perché non è fonte primaria, e crea norme fondate su una mera prassi comportamentale, ancorché accompagnata dalla convinzione della sua giuridica necessità. Il divieto vale, a maggior ragione, per la desuetudine (o consuetudine abrogativa). 4 • IL PRINCIPIO DI TIPICITÀ ❐ Il principio di tipicità è un corollario del principio di legalità formale ed opera sul contenuto della previsione imponendo l’adozione di formule testuali chiare ed idonee ad individuare le concrete condotte oggetto di divieto disciplinate dalla norma. Tale principio ha trovato compiuta elaborazione nelle sentenze della Corte costituzionale: in particolare, si ricorda quella che ha abrogato il reato di plagio previsto e punito dall’art. 603 (sent. n. 96/1981). Il carattere imperativo del precetto penale non potrebbe esprimere compiutamente la sua efficacia laddove la formulazione della norma si presenti oscura, di difficile interpretazione, generica. Ulteriore scopo perseguito attraverso questo principio, anche in questo caso, è quello di prevenire i rischi dell’arbitrio giudiziario nella applicazione della norma penale. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali. Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 (1). Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile (2). 2 • Libro I - Dei reati in generale • 48 Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti. Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nei casi di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti (3). (1) Comma inserito dall’art. 14 della l. 24-2-2006, n. 85. L’art. 15 della medesima legge prevede inoltre che alle violazioni depenalizzate dalla stessa legge si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 101 e 102 del d.lgs. 30-12-1999, n. 507. (2) L’art. 30, 4° comma, della l. 11-3-1953, n. 87, contenente norme sul funzionamento della Corte costituzionale, stabilisce che, qualora in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessino l’esecuzione e tutti gli effetti penali. (3) La Corte costituzionale, con sentenza 19-2-1985, n. 51 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste, le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma di questo articolo. 1 • IL 1° COMMA ❐ Il principio di irretroattività previsto dal 1° comma rappresenta un corollario del principio di legalità, e disciplina il fenomeno della nuova incriminazione, ossia di una previsione innovativa dell’ordinamento che interviene a punire un comportamento fino a quel momento non oggetto di precetto punitivo. Tale principio rappresenta un naturale completamento dei principi della riserva di legge e della tassatività, la cui funzione garantista sarebbe frustrata se i comportamenti umani fossero lasciati in balia di future incriminazioni. Occorre precisare che il principio di irretroattività riguarda solamente le leggi penali sostanziali e non anche quelle processuali. 2 • I COMMI 2, 3 E 4 ❐ Ai commi 2 e 4 sono regolate le ipotesi di abolitio criminis e di successione delle leggi penali nel tempo. Nel primo caso, una legge, intervenendo su una precedente disposizione normativa, depenalizza un fatto che, fino a quel momento, era considerato reato. Da questo momento, il reo non potrà più essere punito e, se è già intervenuta una condanna, cessano l’esecuzione e gli effetti penali di essa. Non vengono meno, invece, le obbligazioni civili nascenti dal reato (es.: pagamento delle spese processuali nei confronti dello Stato). Successione modificativa si ha, invece, quando il fatto è previsto come reato anche dalla legge suc- cessiva che, tuttavia, apporta modifiche all’originaria fattispecie. In caso di diversità della sanzione prevista dalla legge modificativa rispetto a quella originaria, si applica quella più favorevole al reo, salvo che non sia intervenuta sentenza passata in giudicato. La L. 24-2-2006, n. 85, recante Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, ha aggiunto dopo il comma 2 un ulteriore comma in base al quale “se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135”. Questa disposizione, com’è agevole notare, rappresenta una deroga al disposto del comma 4, che, come si è appena visto, impedisce l’applicazione della norma più favorevole al fatto antecedentemente commesso, in presenza di sentenza definitiva di condanna. In questo caso, al contrario, l’esistenza di un giudicato non impedisce l’operatività del suddetto principio. L’intervento della citata L. n. 85/2006 in questo ambito si giustifica principalmente con la contestuale sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria applicabile ai cd. “reati di opinione” di cui agli artt. 290 e ss. c.p. Si tratta evidentemente di un intervento doveroso perché rispondente ad una logica equitativa. Le disposizioni contenute nei commi 2 e 4 della norma in esame sono chiara applicazione del principio del favor rei. Per quanto riguarda l’esatta individuazione della Titolo I - Della legge penale • 2 • 49 disciplina più favorevole, si deve fare riferimento alla disciplina complessivamente considerata: ad esempio, è più favorevole, per il reo, una prescrizione più breve o l’introduzione, ad opera della legge successiva, di una condizione di procedibilità prima non prevista o, viceversa, successivamente abrogata. Occorre, perciò, una valutazione comparativa complessiva e, soprattutto, il giudice deve procedere d’ufficio all’individuazione della fattispecie più favorevole, anche prescindendo dalle prospettazioni difensive. In ogni caso, la comparazione deve avvenire in concreto e non in astratto, ossia confrontando i risultati che deriverebbero dall’applicazione delle norme succedutesi nel tempo (Cass., I, 18-5-1994). Invece, ai fini dell’individuazione della normativa più favorevole per il reo non si può procedere a una combinazione delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle più favorevoli della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo (Cass., III, 195-2004). 3 • UN RECENTE ORIENTAMENTO DELLA CASSAZIONE ❐ Una recente pronuncia della Cassazione ha affermato che, in tema di successione di leggi penali nel tempo, la regola dell’applicazione della legge più favorevole, dettata dall’art. 2, 3° comma, trova applicazione anche nel caso in cui, succeduta alla legge vigente al momento del fatto una legge più favorevole, questa sia stata poi a sua volta seguita, prima del giudizio, dal ripristino della legge originaria (Cass., IV, 20-5-2004). La pronuncia risulta essere assai interessante in quanto ha affrontato il problema della legge più favorevole sopravvenuta al fatto ma poi abrogata prima del giudizio; ipotesi formalmente assai diversa - anche se, nella sostanza, non troppo dissimile - da quella del decreto legge non convertito o convertito con emendamenti, espressamente disciplinata dall’ultimo comma dell’art. 2. Trattasi di problema che avrebbe forse meritato un maggiore approfondimento. La soluzione adottata, tuttavia, dà luogo alla singolare conseguenza per cui, identi- che essendo la legge vigente al momento del fatto e quella vigente al momento del giudizio, dovrebbe però trovare applicazione una terza legge non vigente né al momento del fatto né a quello del giudizio. 4 • I MOBILI CONFINI DELL’ABOLITIO CRIMINIS ❐ Non sempre è facile distinguere quando vi sia abolitio, con creazione di una nuova fattispecie, e quando, al contrario, si sia in presenza di una successione modificativa; la necessità di differenziare le due ipotesi è di fondamentale importanza, perché, nel primo caso, il soggetto andrà assolto, mentre nel secondo potrà soltanto fruire del trattamento sanzionatorio più favorevole. A tal fine, non è sufficiente la qualificazione formale fornita dalla fattispecie incriminatrice, tanto che la dottrina, per risolvere il problema, ha elaborato vari criteri. Il primo di essi è quello che muove dal cd. fatto concreto: se il fatto rientra sia nella vecchia sia nella nuova disposizione, vuol dire che c’è un fenomeno di successione e non di abolizione. È un criterio semplice da applicare, anche se, partendo dal fatto concreto, rischia di portare ad interpretazioni disuguali e diverse caso per caso. Per questo motivo, sono stati elaborati altri criteri, fondati su principi tendenti piuttosto all’astrattezza. Tra di essi, merita di essere ricordato quello fondato sulla cd. continuità del tipo d’illecito, che risolve i problemi definitori mettendo a confronto i beniinteressi tutelati dalla nuova e dalla vecchia normativa: se le modalità offensive della condotta sono identiche o analoghe nella vecchia e nella nuova formulazione e il bene-interesse tutelato dalla norma è sempre lo stesso, si ha successione di leggi e non abrogazione. Vi, è infine, un terzo criterio fondato sugli elementi strutturali della fattispecie: la successione va esclusa allorquando tra vecchia e nuova norma vi sia un rapporto di incompatibilità/eterogeneità. In ogni caso, non vi è incompatibilità quando esista un rapporto di specialità fra le due fattispecie che può aversi sia in una direzione che nell’altra: pertanto, potremmo avere successione fra una legge generale seguita da una legge speciale e viceversa. Ovviamente, nel caso del passaggio da norma generale a norma speciale, si verifica un’abrogazione parziale con riguardo ai casi che non rientrano nella 2 • Libro I - Dei reati in generale • 50 nuova e più specifica disciplina. Si dice che, in tal caso, la nuova norma ritaglia, all’interno della precedente, una vera e propria nuova fattispecie incriminatrice, e quindi che, per quanto non “riportato” nella nuova disciplina, debba valere il principio di irretroattività. 5 • LA SUCCESSIONE DI NORME EXTRA-PENALI ❐ Discorso ancora diverso si prospetta in caso di successione di norme richiamate dalla disposizione penale incriminatrice (cd. fenomeno della successione mediata di fattispecie incriminatrici). Sul punto, in particolare si sono acquisiti percorsi giurisprudenziali in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina di cui al D.Lgs. n. 268/1998, laddove si è posto il problema dell’operatività delle disposizioni dell’art. 2, 2° comma, c.p. a fronte di una condotta favoreggiatrice realizzata al fine di agevolare l’ingresso di un cittadino extracomunitario, il cui Stato di provenienza abbia, successivamente al fatto, aderito al Trattato U.E. o comunque a fronte di una condotta di illecita permanenza sul territorio italiano addebitabile a soggetto appartenente a paese che, solo successivamente, aderisca al Trattato. In tema si sono da subito affacciati due orientamenti: il primo - ritenendo che l’elemento richiamato integri il precetto penale divenendo tutt’uno con esso - si è detto favorevole a ritenere estinto il reato ex comma 2 dell’art. 2 del codice penale. L’altro orientamento - seguito sia da Cass. Pen., sez. I, n. 1815/2007 sia dalle S.U. della Cass. (sent n. 2451/2007 depositata il 16 gennaio 2008) - esclude l’integrazione tra elemento richiamato e precetto ed esclude che, nel caso di specie, possa operare la previsione dell’art. 2, 2° comma, c.p. ritenendo che quest’ultima norma sia riferibile ai soli casi in cui intervenga una vera e propria depenalizzazione della condotta, e non una mera modifica, come nel caso di specie, del presupposto della condotta “che non concorre a delineare il precetto penale”. In un’ottica di sostanziale continuità con questa linea interpretativa, all’udienza delle Sezioni Unite del 27 febbraio 2008 la Suprema Corte ha ritenuto che i fatti di bancarotta commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006 e del successivo D.Lgs. n. 169 del 2007, che hanno modi- ficato i requisiti perché l’ imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano ad essere previsti come reato anche se in base alla nuova normativa l’imprenditore non potrebbe più essere dichiarato fallito. 6 • LEGGI TEMPORANEE ED ECCEZIONALI (5° COMMA) ❐ Con riferimento alle leggi temporanee (che hanno una durata circoscritta nel tempo) ed eccezionali (che si applicano a fatti straordinari), la norma in esame dispone che si applica esclusivamente la disposizione vigente al momento della commissione del fatto. Ciò si spiega considerando l’esigenza di evitare che una norma introdotta per far fronte ad esigenze eccezionali o contingenti possa essere aggirata (ad esempio, per fatti commessi nell’imminenza dello scadere del termine della legge temporanea o verso la fine della situazione eccezionale). Discorso diverso deve farsi con riferimento all’ammissibilità di sentenze della Corte Costituzionale che, abrogando disposizioni di legge favorevoli al reo, impongano un trattamento deteriore per quest’ultimo per effetto della riespansione della normativa punitiva precedente. Sul punto, il giudice delle leggi, pur non negando in astratto l’ammissibilità di siffatte “pronunce in malam partem” ha escluso che il principio di cui all’art. 25 della Costituzione debba comunque ritenersi recessivo rispetto alla retroattività riconosciuta alle decisioni della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. n. 394/2006), conseguentemente affermando la non applicabilità della normativa. 7 • DECRETI LEGGE (6° COMMA) ❐ Le disposizioni ex art. 2 si applicano anche nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nei casi di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti. Peraltro, all’introduzione di emendamenti nella legge di conversione non sempre può ricondursi la conseguenza di determinare automaticamente la perdita di efficacia ex tunc del decreto-legge, né, correlativamente, quella di attribuire valore ex nunc al precetto della legge di conversione a mezzo del quale ha trovato ingresso la modificazione, dovendo, al contrario, aversi riguardo allo specifico contenuto degli emendamenti e alla reale portata dei mutamenti al Titolo I - Della legge penale • 2 • 51 testo del decreto. Pertanto, solo gli emendamenti sostitutivi (o innovativi) e quelli soppressivi, disponendo la riscrittura ovvero l’eliminazione della decretazione d’urgenza, hanno efficacia ex nunc, mentre quelli semplicemente modificativi, consistendo in una variazione che non investe il nucleo precettivo fondamentale della norma del decretolegge, si saldano con quest’ultima in modo continuo, sì che hanno efficacia ex tunc, decorrente dalla data della normazione di urgenza (Cass., I, 24-6-1998). 8 • IL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITÀ E LE NORME PROCESSUALI ❐ L’art. 2 c.p. non è applicabile alle leggi processuali, laddove opera il diverso principio del tempus regit actum. Incertezze interpretative vi sono state - in tema di successione di leggi processuali - per quel che concerne norme che, mutando il tipo di sanzione prevista originariamente per il reato, determinavano altresì una modifica della competenza degli organi giurisdizionali a conoscerne, laddove è chiaro che vengono in evidenza modifiche sia della norma sostanziale sia di quella processuale. In particolare in giurisprudenza si è posto il problema della competenza giurisdizionale con riguardo al reato di guida in stato d’ebbrezza, previsto e punito dall’art. 186 della L. n. 214/2003 (cd. Codice della Strada). Innovando rispetto alla previgente previsione, questo reato - per ragioni di politica criminale legate alle drammatiche e ricorrenti “stragi del sabato sera” sulle strade italiane - è stato nuovamente sanzionato con la pena dell’arresto, in luogo dell’originaria ammenda. Questa modifica, determinando la traslazione della competenza a conoscerlo dal giudice di pace al Tribunale in sede monocratica, ha evidenziato un problema di competenza intertemporale. Segnatamente il problema si è prospettato con riferimento ai reati, commessi nel periodo anteriforma, per i quali il P.M. ha esercitato l’azione penale in un momento successivo, mediante emissione di decreto di citazione a giudizio. Un primo orientamento, anche giurisprudenziale, ha ritenuto che vada individuato nel Tribunale il giudice competente a conoscere del reato, anche se tale organo giurisdizionale, in applicazione dei cri- teri di cui all’art. 2, comma 3, c.p., dovrà applicare la pena più favorevole fra quelle previste. Viceversa, altre sentenze hanno sostenuto che, in questo caso, la competenza debba rimanere in capo all’ufficio competente al momento del commesso reato, e dunque hanno considerato perdurante la competenza del giudice di pace, conferendo ultrattività, almeno da un punto di vista processuale, alla previgente disposizione. Le S.U. della Cass. con la sentenza 31-1-2006, n. 3821 hanno tuttavia accolto la prima teoria sostenendo la competenza del tribunale con riferimento a reati originariamente puniti con pena dell’ammenda. Altro problema - posizionantesi al confine tra norma processuale e norma sostanziale - si è avuto con riferimento alla prescrizione. Il dilemma si pone in particolare allorquando un intervento legislativo prolunghi o abbrevi i termini di prescrizione, prefigurando un dubbio in ordine al trattamento di tale modifica: in altre parole, occorre considerare la modifica quale intervento processuale, e quindi procedere ad applicarla, senza indugio, anche ai processi in corso, o, viceversa, ritenere che la stessa abbia natura meramente sostanziale e quindi far scattare il dispositivo, improntato al favor rei, di cui all’art. 2 del codice penale? La dottrina suggerisce in questo caso un modus procedendi che necessariamente diversifica le situazioni nel loro concreto manifestarsi, a seconda del tempo trascorso dalla commissione del reato: infatti, allorquando la legge intervenga a termine prescrizionale già spirato, è ovvio (e corrisponde ad un principio di giustizia sostanziale) che la nuova disciplina non sarà applicabile. Più complesso il problema quando la legge successiva interviene sui termini di prescrizione prima che la prescrizione sia maturata. In questo frangente, infatti, possiamo sia applicare il principio tempus regit, e quindi attribuire efficacia lato sensu retroattiva alla norma, sia applicare i principi dell’art. 2, e quindi ritenere o meno applicabile la normativa sopravvenuta a seconda del se essa abbrevi o allunghi i termini prescrizionali. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 452/1999 - salutata con favore dalla dottrina prevalente - aveva optato per la tesi della retroattività. L’Alto Consesso ebbe a motivare la sua decisione sostenendo che quella ad un predeterminato termine di prescrizione non è un’aspettativa giuridica- 3 • Libro I - Dei reati in generale • 52 mente rilevante che esiste in quanto tale, nel compendio patrimoniale dell’imputato, tanto in considerazione del fatto che - a dire della Corte - il favor rei è concetto, per così dire, “intraprocessuale” e non extraprocessuale, e come tale non si può riferire anche all’intenzione del privato di sottrarsi al processo. Il problema della prescrizione nei suoi rapporti con l’art. 2 c.p. si è poi posto in particolare con la cd. legge Cirielli che ha operato sui termini di prescrizione. Interessanti applicazioni in materia di successioni di leggi penali speciali, si sono avute con riferimento alla normativa in materia di sicurezza sul lavoro. In tal senso vedasi Cassazione penale , sez. III, 07 maggio 2009 , n. 23976 secondo cui “Anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (cosiddetto T.U. sulla sicurezza) che ha abrogato il d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, costituisce reato la violazione delle prescrizioni dirette a conformare i luoghi di lavoro a norme di prevenzione per garantire la sicurezza dei lavoratori, sussistendo continuità normativa tra l'art. 8 dell'abrogato d.P.R. n. 547 e la nuova fattispecie prevista dal combinato disposto degli artt. 63, 64 e 68, lett. b), in relazione all'All. IV, punto 1.4.1, D.Lgs. n. 81 del 2008. 3 • Obbligatorietà della legge penale La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale (1). La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale (1). (1) Le eccezioni previste dal diritto pubblico interno riguardano: a) il Capo dello Stato; b) i membri del Parlamento, i consiglieri regionali, i giudici della Corte costituzionale e i membri del Consiglio superiore della magistratura. Le eccezioni previste dal diritto internazionale riguardano: a) la persona del Sommo Pontefice; b) i Capi di Stato esteri e i reggenti; c) i Capi di governo e ministri di Stati esteri o rappresentanti di questi in conferenze o organizzazioni internazionali e i membri stranieri di tribunali arbitrali; d) gli Agenti diplomatici presso il Capo dello Stato, i membri della famiglia dell’agente conviventi, i membri delle missioni militari e tecniche e le loro famiglie, il personale amministrativo e le loro famiglie purché conviventi a carico e gli appartenenti al personale di servizio per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni salvo che non si tratti di cittadini dello Stato ospitante o di persone che abbiano fissato la loro residenza in Italia; e) i membri del Parlamento europeo; f) i Consoli, i vice consoli e gli Agenti consolari; g) i giudici della Corte dell’Aia; h) i membri delle istituzioni specializzate e i rappresentanti dell’O.N.U.; i) i corpi o reparti di truppe straniere, con particolare riferimento ai membri e alle persone al seguito delle forze armate della N.A.T.O. 1 • IL PRINCIPIO DI TERRITORIALITÀ E LE CD. IMMUNITÀ ❐ Assieme all’art. 6, l’articolo in commento ribadisce il principio di territorialità, secondo cui qualsiasi condotta integrante estremi di reato, commessa in tutto o in parte sul territorio dello Stato italiano, è assoggettata alla giurisdizione penale italiana. Principio cui si deroga solo in casi eccezionali, come per esempio per i cd. delicta iuris gentium (reati puniti dalle leggi della maggioranza degli Stati ed alla cui repressione, quindi, tutta la comunità internazionale è interessata), • 53 assoggettati a pena in Italia anche se commessi al di fuori del nostro territorio. Il principio di obbligatorietà della legge penale italiana, in uno con quello di territorialità di cui all’art.6 c.p. rappresenta un confine insormontabile, a maggior ragione a tutela dei diritti individuali protetti dalla fattispecie incriminatici, in particolar modo allorquando, in un contesto sociale multietnico, si prospettano ragioni etiche ed usanze costumali diverse da quelle cui è improntato l’intero sistema giuridico italiano. Queste considerazioni – e per contro i limiti di operatività di detti diversi ordinamenti che, come tali, non possono incidere sul nostro diritto penale– iniziano ad evidenziarsi anche nella giurisprudenza di legittimità. Si veda, in tal senso, la posizione nitida di Cass. penale , sez. VI, 28 gennaio 2009 , n. 22700 secondo cui “ L'art. 3 c.p. sancisce il principio dell'obbligatorietà della legge penale, per cui tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato sono tenuti ad osservarla. La rilevanza della disciplina e le ragioni di carattere generale su cui si fonda escludono che possa esservi apportata qualsiasi deroga non espressamente prevista dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Questo comporta che le tradizioni etico-sociali di coloro che sono presenti nel territorio dello Stato, di natura essenzialmente consuetudinaria benché nel complesso di indiscusso valore culturale, possano essere praticate solo fuori dall'ambito di operatività della norma penale. Il principio assume particolare valore morale e sociale allorché - come nella specie - la tutela penale riguardi materie di rilevanza costituzionale, come la famiglia, che la legge fondamentale dello Stato riconosce quale società naturale, ordinata sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29 cost.), uguaglianza che costituisce pertanto un valore garantito, in quanto inserito in un ordinamento incentrato sulla dignità della persona umana e sul rispetto e la garanzia dei diritti insopprimibili a lei spettanti (nella specie, l’imputato nordafricano era stato condannato per il reato di cui all'art. 572 c.p. per maltrattamenti nei confronti della moglie, e si difendeva adducendo il dato che i coniugi- e la famiglia nella quale i reati erano stati commessi - erano portatori di cultura, reli- Titolo I - Della legge penale • 3 gione e valori differenti da quelli italiani, tali da influire sotto il profilo sia della gravità del reato che dell'entità della pena e sulla sussistenza delle attenuanti generiche). Limiti a questo principio sono comunque dati dalle immunità previste dal diritto internazionale. È il caso degli agenti diplomatici e consolari, i quali godono di un’immunità assoluta (cd. immunità diplomatica). Al contrario, gli impiegati degli uffici diplomatici e consolari godono di un’immunità relativa, che li sottrae alla giurisdizione penale del nostro Stato solo per quanto concerne gli atti da loro compiuti nell’esercizio delle corrispondenti funzioni. Per analogia, si estendono le immunità appena viste anche ai rappresentanti delle organizzazioni internazionali (O.N.U., U.E., F.A.O. etc.). Diversa dall’immunità diplomatica è quella prevista da alcune norme dell’ordinamento e connessa alle funzioni di rappresentanza politica che alcuni soggetti svolgono: è il caso dei parlamentari, nazionali o regionali, dei giudici della Corte costituzionale e dei membri del CSM, che non possono essere chiamati a rispondere dei voti dati e delle opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni (cd. immunità funzionale). La Corte Costituzione si è recentemente soffermata sui limiti dell’immunità da riconoscere ai parlamentari per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni ex art. 68, 1° comma, Cost., ribadendo - quanto alle opinioni espresse dai componenti dell’Assemblea al di fuori della sede del Paramento - che anche queste ultime sono coperte dalla predetta insindacabilità, purché siano legate da un nesso funzionale alle attività proprie di membro del parlamento. Nesso che si concretizza se e quando nell’attività esterna del deputato portata all’attenzione del giudice, il parlamentare abbia sostanzialmente riproposto, con le sue dichiarazioni, le stesse espressioni anche verbali e le medesime argomentazioni oggetto della propria attività parlamentare (Corte Cost., sent. n. 53/2007). Ancora diversa è la posizione del Capo dello Stato, che è penalmente irresponsabile e può essere chiamato a rispondere – davanti alla Corte Costituzionale - solo di due reati: alto tradimento e attentato agli organi costituzionali ex art. 96 Cost. 4-5 • Libro I - Dei reati in generale • 54 4 • Cittadino italiano. Territorio dello Stato Agli effetti della legge penale, sono considerati cittadini italiani i cittadini delle colonie, i sudditi coloniali (1), gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi residenti nel territorio dello Stato. Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica, quello delle colonie (2) e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera. (1) I riferimenti ai cittadini delle colonie ed ai sudditi coloniali devono ritenersi non più operanti. (2) Il riferimento al territorio delle colonie deve ritenersi non più operante. 1 • L’AMPIA NOZIONE DI “CITTADINANZA” ED IL PRINCIPIO DELLA BANDIERA ❐ Per giurisprudenza consolidata, il concetto di cittadinanza disciplinato dalla norma in esame ha un’ampia estensione, implicando la correlativa attribuzione anche in capo al soggetto che abbia scelto, a propria stabile residenza, una dimora sita nel territorio italiano. Tale criterio interpretativo vale anche per l’apolide. Tuttavia, ai sensi dell’art. 4, per residenza deve intendersi una dimora abituale, caratterizzata dalla fissazione della propria sede in un determinato luogo e dalla volontà di mantenere questa sede in modo tendenzialmente duraturo. Tali caratteri, con riferimento all’apolide, si riscontrano soltanto se quest’ultimo ha soggiornato nel territorio italiano per un periodo di tempo apprezzabile. Il territorio, invece, è la superficie terrestre ricompresa nei confini politico-geografici dello Stato stabiliti dai trattati internazionali e dalle leggi di annessione dei precedenti Stati. Nel concetto di territorio, secondo il principio della bandiera, rientrano anche le navi aventi bandiera italiana; pertanto, per i fatti commessi a bordo di queste ultime sarà competente il giudice italiano. Per quanto riguarda i fatti commessi quando la nave si trovi nelle acque sottoposte alla giurisdizione di altri Stati, la legge penale italiana trova applicazione a meno che quegli stessi fatti non si ripercuotano, sotto il profilo offensivo, su beni-interessi di pertinenza dello Stato costiero. In tale ultima eventualità, a quest’ultimo, per giurisprudenza consolidata, spetterà la giurisdizione. 5 • Ignoranza della legge penale Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale (1). (1) La Corte costituzionale, con sentenza 24-3-1988, n. 364, ha dichiarato l’incostituzionalità del presente articolo, “nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile”. 1 • L’IGNORANZA DELLA LEGGE PENALE SCUSA SOLTANTO SE INEVITABILE ❐ L’art. 5 costituisce un’applicazione del brocardo latino ignorantia legis non excusat, ed è un corollario indispensabile del principio di obbligatorietà della legge penale. A differenza di quanto avviene nel caso disciplinato dall’art. 47 (➠), il soggetto agente - per ignoranza - cade in errore in ordine alla qualificazione giu- ridica in astratto del fatto commesso e non sul fatto concreto da lui posto in essere. In altri termini, il soggetto, ex art. 5, vuole effettivamente il fatto previsto dalla norma incriminatrice, anche se ritiene erroneamente che esso non sia previsto dalla legge come reato. Per queste sue caratteristiche, la fattispecie di cui all’art. 5 è, di solito, anche utilizzata per indicare il confine negativo del dolo. • 55 Quanto alla nozione di norma penale, non è necessario che la disposizione ignorata dal soggetto sia contenuta nel codice penale, dal momento che l’ampia dizione utilizzata autorizza a ritenerla operativa anche in occasione di norme contenute in leggi ordinarie. Sull’originario rigore della disciplina codicistica è intervenuta - a seguito della sollecitazione di alcuni illustri autori (Bricola, Mantovani, FiandacaMusco) la Corte costituzionale con sentenza n. 364/1988, che ha introdotto il principio della scusabilità dell’ignoranza in presenza di un errore inevitabile dovuto a forza maggiore. In estrema sintesi, dalla sentenza della Corte emergono due criteri per Titolo I - Della legge penale • 5 valutare la scusabilità dell’errore: - uno oggettivo, fondato sull’effettiva incertezza della normativa applicabile al caso concreto; - uno soggettivo, che va relazionato al grado di preparazione culturale del soggetto agente. La giurisprudenza ha elaborato una casistica di errori inevitabili, fondandoli di volta in volta sull’esistenza di incertezze giurisprudenziali in ordine all’applicazione della norma, su prassi contrastanti esistenti presso la pubblica amministrazione, sull’autorevolezza della fonte interpretativa che ha tratto in inganno il soggetto agente in ordine alla liceità del comportamento posto in essere etc. È illegittimo l’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, atteso il combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 27 Cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli art. 2, 3, 25, 2° comma, 73, 3° comma, Cost., le quali pongono l’effettiva possibilità di conoscere la legge penale quale ulteriore requisito minimo d’imputazione, che viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, consentendo la valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto complessivamente considerato (Corte cost. 24-3-1988, n. 364). La tematica dell’ignoranza della legge penale ha avuto un ritorno inaspettato ed occasionale, in ambito europeo, in relazione ad una vicenda di cronaca non solo giudiziaria, avente ad oggetto la demolizione di un complesso immobiliare, già confiscato dalla Magistratura penale, nel territorio del comune di Bari, sulla costa di Punta Perotti. Infatti, in relazione a tale complesso edilizio - benché il processo si fosse concluso con l’assoluzione degli imputati, per insussistenza dell’elemento psicologico,dovuta ad errore scusabile nell’interpretazione della legge - era stata disposta dal giudice italiano la confisca (ritenuta, comunque, obbligatoria) sia dei suoli abusivamente lottizzati che dell’intero complesso immobiliare, a norma dell’art.19 L.47/85. Per contro l a Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza emessa il 20 gennaio 2009 dalla II Sezione ha ritenuto che – dal momento che la confisca in questione ha comunque natura sanzionatoria – fossero ravvisabili, nel caso di specie, una violazione sia dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene) che dell'art. 1 del Protocollo n. 1 (che enuncia il principio del rispetto della proprietà, ne sottopone la privazione a determinate condizioni, e riconosce agli Stati il potere di regolamentare l'uso dei beni conformemente all'interesse generale).