WITTGENSTEIN e FREGE

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Prof. Diego Manetti
Filosofia
LA SVOLTA LINGUISTICA E LA TEORIA DEL SIGNIFICATO
Tra i diversi indirizzi della filosofia del Novecento, un ruolo particolare hanno - tra gli anni Venti e
Cinquanta - l’empirismo logico (riflessione sul sapere scientifico e i problemi della conoscenza) e
la filosofia analitica (indagine sulla natura del linguaggio), la cui comune origine si può scorgere
nella cosiddetta svolta linguistica, secondo la quale solo attraverso un’analisi filosofica del
linguaggio è possibile ottenere una chiarificazione logica del pensiero.
Le origini di questa svolta si possono rintracciare nel pensiero di Gottlob Frege (1848-1925),
logico e matematico.
FREGE
L’antipsicologismo e l’ideografia - Frege fa suo l’antipsicologismo che già Husserl aveva
affermato, sostenendo che gli asserti matematici non possono fondarsi sui processi psichici ma
hanno il loro fondamento nel puro processo logico. Per dare corpo a questa sua affermazione, cerca
di costruire un linguaggio basato su un simbolismo rigoroso, tale da rendere immediatamente
evidente la struttura logica degli enunciati: questa lingua artificiale o ideografia (scrittura di
concetti) avrebbe permesso di stabilire la vero-falsità di ogni enunciato, superando le incertezze e
gli errori del linguaggio comune.
I pensieri - Questa teoria del linguaggio è supportata dalla convinzione che i pensieri con siano
semplici atti mentali ma veri e propri oggetti in sé, afferrati sì dal soggetto con un atto mentale ma
al tempo stesso dotati di autonoma esistenza; in tal modo i pensieri si collocano a metà strada tra le
rappresentazioni (che pure non sono enti sensibili, pur essendo soggettive e legate all’attività
mentale del soggetto) e gli oggetti (che pure godono di esistenza autonoma, pur non essendo – come
invece i pensieri – enti sovrasensibili).
In questo modo si separano una sfera soggettiva (rappresentazioni, emozioni, …) e una oggettiva
(pensieri) dell’attività mentale, distinguendo nettamente la logica e la psicologia.
L’isomorfismo - Ciò premesso, Frege afferma che il pensiero si riflette necessariamente nella
struttura degli enunciati linguistici: il pensiero “in sé non sensibile, si riveste dell’abito sensibile
dell’enunciato e diviene afferrabile da parte nostra”; questa identità di forma tra pensieri ed
enunciati linguistici viene detta isomorfismo ed è il fondamento della svolta linguistica che
successivamente si espliciterà nella filosofia del Novecento.
Gli enunciati assertori - Non tutti gli enunciati riflettono però in modo esatto i pensieri: la
corrispondenza perfetta vale solo per gli enunciati assertori, cioè quegli enunciati che asseriscono il
sussistere di uno stato di cose (“fuori sta piovendo”) e dunque sono verificabili, possedendo un
valore di verità (essere veri o falsi) che invece enunciati di tipo imperativo (“siediti!”), esortativo
(“dovresti studiare di più!”), valutativo (“mi sei simpatico!”) non possiedono.
Senso e significato - L’ultima distinzione degna di nota riguarda senso e significato (Sinn und
Bedeutung, 1892): il significato rimanda all’oggetto indicato dal segno (il suono o il carattere
scritto) mentre il senso riguarda il modo in cui il significato è dato. Senso e significato sono
entrambi oggettivi, benché il senso sia anche parzialmente soggettivo (in questo simile alle
rappresentazioni).
Prof. Diego Manetti
Filosofia
Nel caso degli enunciati “La stella del mattino” e “La stella della sera”, posso dire di avere lo stesso
significato (entrambi gli enunciati si riferiscono al pianeta Venere) pur avendo due sensi diversi
(due modi diversi cioè di indicare lo stesso oggetto).
Non tutti gli enunciati, benché dotati di senso, hanno pure un significato: ad esempio, per
l’enunciato “L’attuale Re di Francia è calvo” si dà il senso (capisco che cosa sto dicendo e quale
sarebbe l’oggetto indicato) ma non si ha il significato (l’oggetto indicato – “l’attuale Re di Francia”
– non c’è, non esiste).
Da tutto ciò, Frege ricava l’idea che le lingue “naturali” siano inadeguate non in virtù di qualche
loro povertà ma, al contrario, perché eccessivamente ricche di espressioni ed elementi extralogici,
non scientifici, ispirati all’emotività e ai sentimenti piuttosto che alla scienza.
WITTGENSTEIN
In Wittgenstein (Vienna, 1889 – Cambridge, 1951) si compie la svolta linguistica iniziata in Frege.
Dopo gli studi di ingegneria, passa a quelli matematici, interessandosi al dibattito sulla natura della
logica e condividendo il nuovo modo di filosofare inaugurato a Cambridge, secondo il quale solo la
scienza ha la capacità di accrescere la conoscenza, mentre la filosofia deve limitarsi all’analisi
logico-linguistica e alla chiarificazione dei concetti.
Wittgenstein (come Frege) cerca di definire la natura della logica, respingendo ogni assunzione di
tipo ontologico rispetto alla matematica (mentre Frege parlava dei pensieri come di “oggetti in sé”)
e limitandosi all’analisi delle pure relazioni formali.
Il primo Wittgenstein - Il Tractatus logico-philosophicus (1921) - opera assai complessa benché
breve, composta da aforismi seguiti da brevi osservazioni, indicate da cifre decimali che ne
evidenziano la diversa rilevanza logica – condensa il pensiero di quello che si definisce “il primo
Wittgenstein”, caratterizzato dalla condivisione dell’indirizzo analitico assunto dalla filosofia
dell’ambiente universitario di Cambridge.
A partire dall’indagine sul simbolismo matematico, Wittgenstein si chiede quali siano le condizioni
per cui qualsiasi simbolismo sia significante, cioè indaga il rapporto tra pensiero (simbolico) e
realtà (oggetti, significati), impostando il problema - secondo quanto suggerito dalla svolta
linguistica – come analisi del rapporto linguaggio-realtà, poiché “nella proposizione il pensiero si
esprime sensibilmente. Si potrebbe riassumere l’impostazione del problema dicendo che la realtà si
rispecchia nel pensiero e questo a sua volta si manifesta nel linguaggio: studiando quest’ultimo, si
risalirà alla conoscenza della prima.
La filosofia come critica del linguaggio - In quest’ottica, la filosofia diviene critica del linguaggio:
occorre risolvere ogni problema legato ai fraintendimenti linguistici (condividendo in ciò l’intento
della ideografia di Frege), ricordando che “Quanto può dirsi, si può dire chiaro; e su ciò, di cui non
si può parlare, si deve tacere”: in questa frase si condensa il senso del Tractatus.
Ispiratosi a Frege (il criterio di significanza del linguaggio è dato dal contenuto oggettuale degli
enunciati linguistici) e a Russell (sotto la forma grammaticale degli enunciati si nasconde
l’autentica forma logica del pensiero: il linguaggio traveste i pensieri), Wittgenstein mira a una
riscrittura degli enunciati tale da far emergere con chiarezza la forma logica in essi contenuta,
sapendo che la forma grammaticale non è sufficiente a garantire che una proposizione abbia una
denotazione o significato (come già Frege aveva notato, affermando che esistono enunciati dotati di
senso ma privi di significato).
Se dunque il linguaggio è una sorta di specchio del mondo, dall’esame del linguaggio bisogna
cominciare.
Prof. Diego Manetti
Filosofia
Proposizioni semplici e complesse - Il linguaggio consta di due tipi di proposizioni: elementari e
complesse. Le proposizioni elementari, semplici, asseriscono il sussistere di uno stato di cose e
constano di nomi (sono concatenazioni di nomi). Le proposizioni elementari non ricevono
significato da altre proposizioni ma sono direttamente connesse la mondo, sono “raffigurazioni
logiche” della realtà (ad esempio: “La rosa è rossa”, “2+2=4”).
Le proposizioni complesse sono composte da più proposizioni semplici (“Carlo cammina e
Giovanni è più alto di Silvio”) e ci si può accertare del loro significato solo indagando il valore di
vero-falsità delle proposizioni elementari che le compongono.
Emerge qui una teoria del linguaggio come raffigurazione della realtà, della quale conserva la
forma logica (come la scrittura geroglifica).
Il mondo consta di fatti - Gli stati di cose descritti dalle proposizioni elementari sono fatti atomici
(semplici, non ulteriormente decomponibili), cioè configurazioni di oggetti; il mondo consta di
fatti, cioè di configurazioni di oggetti: il mondo non è semplicemente la totalità degli oggetti, ma
la totalità delle configurazioni logiche che gli oggetti assumono costituendo i fatti (un conto è dire
di conoscere il totale dell’umanità, altro è sapere come siano distribuiti i diversi popoli nel mondo;
un conto è dire di conoscere il numero di alunni di una classe, altro è saperne la disposizione nei
banchi all’interno dell’aula).
Il mondo non è dunque una semplice catalogazione di cose ma una raffigurazione di rapporti tra
le cose (già Schopenhauer, con il principio di ragion sufficiente, aveva affermato che un oggetto
non è concepibile se non in relazione ad altri oggetti).
L’atomismo logico - Per questo modo di concepire il mondo, la concezione ontologica del
Tractatus è definita “atomismo logico” (è possibile individuare gli elementi ultimi che
costituiscono il mondo) ed è però una teoria in cui conserva un primato il livello linguistico su
quello puramente ontologico; la domanda di partenza è infatti: quale struttura deve avere il mondo
affinché il linguaggio abbia significato? Affinché una proposizione abbia significato è necessario
che sia una sorta di proiezione del fatto, in modo da conservarne alcune proprietà logiche. Ciò è
possibile in virtù del nome, inteso come segno semplice all’interno della proposizione che significa
l’oggetto.
Proposizioni insensate e prive di senso - Le proposizioni si distinguono poi in: (a) sensate:
raffigurano fatti, possono essere vere o false; (b) insensate: né vere, né false; sono le proposizioni
della filosofia tradizionale; (c) prive di senso: proposizioni che non sono raffigurazioni della realtà,
pur essendo sempre vere (tautologie: “Guido Micheloni è Guido Micheloni”) o sempre false
(contraddizioni: “Guido Micheloni non è Guido Micheloni”).
La logica e la matematica, basate su tautologie, sono dunque “prive di senso”.
Poiché una proposizione ha significato solo se è vera o falsa e poiché è vera solo se si accorda con
la realtà, si può affermare che “la totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale”.
Il compito della filosofia - La filosofia tradizionale è composta di proposizioni “insensate”,
dunque i problemi filosofici non possono avere risposta né la filosofia contribuire alla conoscenza
della realtà; la filosofia deve limitarsi a chiarire il linguaggio e il pensiero, per dissolvere gli
pseudo-problemi originati dalle ambiguità linguistiche.
La filosofia è una attività che deve tracciare i limiti del pensiero, deve indicare che cosa sia
dicibile (i fatti del mondo) e che cosa non lo sia (i valori).
I limiti del linguaggio - Il linguaggio può solo parlare di cose, non di valori e neppure di se stesso: è
dunque preclusa la possibilità di un metalinguaggio, cioè di un linguaggio sul linguaggio: la
capacità del linguaggio di raffigurare i fatti può solo essere “mostrata”, ma non detta. Il fatto stesso
che il mondo sia, è per Wittgenstein il mistico: il mondo come un tutto esistente è qualcosa di
inesprimibile (e su cui dunque occorre tacere).
Prof. Diego Manetti
Filosofia
Ciò che non è un fatto non rientra nel mondo e non è dicibile: i limiti del mondo sono i limiti del
linguaggio; quale sia questo limite, non è però possibile dirlo poiché per farlo occorrerebbe una
teoria del linguaggio, un parlare del linguaggio stesso che però non è un fatto.
L’esito paradossale del primo Wittgenstein - Eppure, nel momento stesso in cui enuncia il criterio
di significanza del linguaggio (il linguaggio deve raffigurare fatti del mondo), Wittgenstein
oltrepassa i limiti che egli stesso a posto (sta parlando del linguaggio) e sconfina nel dominio
dell’insensato.
Pur con questo esito paradossale, convinto di aver compiuto la sua missione (ha svelato i falsi
problemi della filosofia e indicato il corretto impiego del linguaggio), Wittgenstein si ritira dal
lavoro filosofico, operando per sei anni come maestro elementare, poi come aiuto giardiniere in un
convento e infine come architetto. Ma sarà proprio l’esito paradossale della sua ricerca a spingerlo a
una profonda revisione delle tesi espresse nel Tractatus.
Il secondo Wittgenstein - Nel 1929, iniziando a scrivere le Osservazioni filosofiche, Wittgenstein
abbandona la prospettiva di un linguaggio perfetto e ricerca nel linguaggio ordinario le condizioni
che permettono di dare significato alle operazioni linguistiche. Cade la concezione del linguaggio
come rispecchiamento della forma (logica) del mondo: ciò che conferisce significato a una
proposizione è ora la funzione che essa svolge nella vita degli uomini.
I giochi linguistici - Viene introdotta l’idea di una pluralità di giochi linguistici, modelli di
linguaggi con regole diverse all’interno dei quali si produce il significato dei termini. Le Ricerche
filosofiche (pubblicate postume nel 1953) contraddicono radicalmente la prospettiva del Tractatus,
affermando che il significato non è assicurato dal rapporto tra nome e oggetto ma da un insieme di
operazioni che collegano attività simboliche e comportamenti degli uomini: “parlare un
linguaggio fa parte di un’attività e di una forma di vita”.
Parole come utensili - Le parole dunque non corrispondono a un solo oggetto ma sono simili a
utensili che possono essere adoperati in vari modi. L’insieme di questi svariati usi costituisce i
giochi linguistici e l’insieme dei giochi costituisce il linguaggio. Ciascun gioco ha senso non solo
rispetto al linguaggio ma anche in riferimento alla totalità complessa di una forma di vita.
Il concetto di gioco linguistico permette di abbandonare la teoria denotativa del linguaggio
(basata sul rapporto nome-oggetto) cogliendo tutta la ricchezza espressiva delle parole. Cade pure
l’atomismo logico: gli enunciati non raffigurano fatti del mondo, ma rispondono alle esigenze dei
diversi giochi linguistici e sono sottoposti e processi continui di rielaborazione, abbandono e
creazione.
Il nuovo compito della filosofia - Alla purezza univoca della logica viene sostituito l’insieme delle
regole d’uso e all’orizzonte normativo del Tractatus si sostituisce il semplice valore descrittivo
della nozione di gioco linguistico. Conseguentemente a questo cambiamento di prospettiva, muta la
stessa idea di filosofia: abbandonata la pretesa di costruire modelli normativi del linguaggio, il
nuovo compito della filosofia è (solo) quello di chiarire le condizioni di impiego delle
espressioni linguistiche per evitare i tradizionali problemi filosofici prodotti da un uso improprio
dei giochi linguistici. In pratica: si tratta di verificare se le parole siano impiegate in modo distorto
rispetto al loro uso quotidiano.
La filosofia si pone dunque come terapia del linguaggio, avendo cioè il compito di intervenire a
correggere gli usi impropri (al di fuori delle regole dei “giochi”) delle espressioni linguistiche:
anziché il silenzio - raccomandato nel Tractatus come esito della filosofia che ha scoperto di dover
tacere ciò di cui non si può parlare – la prospettiva è ora invece la parola: il linguaggio esiste solo
nella misura in cui la filosofia continua a porre problemi all’interno della lingua stessa.
(Fine)
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