DIRITTO CIVILE - DISPENSA N. 4 SUCCESSIONI E DONAZIONI

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CORSO DI PREPARAZIONE GIURIDICA
DIRITTO CIVILE - DISPENSA N. 4
SUCCESSIONI E DONAZIONI
Roma, 15.10.2016
CORSO DI PREPARAZIONE GIURIDICA
INDICE
1. I diritti di abitazione e uso del coniuge superstite, a cura di Roberto Calvo.
2. Giurisprudenza e dottrina:
2.1Cass. Civ., Sez. II, 25.05.2012 n. 8352 – Sulla clausola di diseredazione, con
commento di Giacomo Bellavia.
2.2 Cass. Civ., S.U., 27.02.2013 n. 4873 – Sul diritto di abitazione della casa
familiare del coniuge superstite, con nota di Vincenzo Barba.
2.3 Cass. Civ., S.U., 15.03.2016 n. 5068 – Donazione di cosa altrui.
2.4 Donazione di cosa altrui, commento di Ugo Carenvali alla sentenza n,
5068/2016.
2.5 Cass. Civ., S.U., 15.06.2015 n. 12307 – Sulla contestazione di autenticità del
testamento olografo, con nota di Michele Sesta.
2.6 Cass. Civ. Sez. II, 02.02.2016 n. 1995 – Sul testamento olografo.
Itinerari di giurisprudenza
I diritti di abitazione e uso
del coniuge superstite
a cura di Roberto Calvo
La rassegna ripercorre le vicende giurisprudenziali in tema di diritti successori del coniuge con particolare riguardo al controverso istituto della riserva qualitativa di cui all’art. 540, comma 2, c.c., introdotto con la legge di riforma del diritto di famiglia.
Le novità introdotte
dalla Riforma del 1975
1. La legge di riforma del diritto di famiglia, sovvertendo i presupposti da cui muoveva il legislatore del 1942, ha assicurato al coniuge una tutela particolarmente forte. L’usufrutto uxorio
è stato soppiantato dallo statuto sulla successione legittima (o suppletiva) che assegna al coniuge (non separato con addebito in forza di sentenza definitiva ex artt. 548 e 585 c.c.) una
quota in proprietà del patrimonio lasciato dal partner premorto, quota destinata a mutare tenuto conto della variabile che vi sia o no il concorso con altri successori legittimi. L’accennata
tutela sarebbe risultata evanescente se il coniuge non fosse stato altresì tutelato come legittimario.
Tale legge diede effettiva attuazione al principio espresso nell’art. 29 Cost., il quale mal si armonizzava con l’antica preferenza accordata ai discendenti legittimi.
L’art. 540,
comma 2, c.c.
2. Il pensiero orientato ai valori ha altresì indotto il legislatore del 1975 a forgiare un’innovativa
fattispecie di riserva a beneficio del coniuge superstite avente ad oggetto i diritti di abitazione
sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, purché tali beni siano di proprietà del defunto o comuni (art. 540, comma 2, c.c.). Le ragioni animanti la protezione
del coniuge - che informano di sé l’istituto in esame - suffragano la scelta di far gravare i precitati diritti reali sulla quota disponibile e, ove essa sia insufficiente, per il rimanente sulla quota di
riserva del coniuge ed eventualmente su quella riservata ai figli.
Non deve sfuggire che tale criterio di computo, specie quando il valore del diritto di abitazione
sia rilevante a causa della giovane età del coniuge superstite, ha indotto alcuni autori a scorgere il passaggio da un eccesso all’altro: da un difetto di tutela ad una protezione sovrabbondante. Questa sensazione, più in generale, è comprovata dalla circostanza che tramite il regime patrimoniale della comunione dei beni, il coniuge sopravvissuto ottiene la contitolarità di tutti gli
acquisti effettuati dall’altro coniuge.
La natura della riserva
3. Secondo la communis opinio i diritti riservati al coniuge ex art. 540, comma 2, c.c., configurano autentici legati di specie aventi (in via d’eccezione) fonte non già testamentaria ma legale
che si acquistano automaticamente per effetto dell’apertura della successione (art. 649 c.c.).
Ne consegue la nullità delle disposizioni testamentarie volte ad escludere tali diritti dalla sfera
patrimoniale del coniuge superstite.
Tuttavia, a parere di un’interpretazione isolata, la legge di riforma del diritto di famiglia avrebbe
introdotto una nuova tipologia di riserva che si distacca da quella di diritto comune (di matrice
meramente quantitativa) perché ha ad oggetto beni individuati (cfr., diffusamente, il mio La successione del coniuge. Garanzie individuali e nuovi scenari familiari, Milano, 2010, 45 ss.). Secondo questa tesi la lesione di tale riserva dovrebbe pertanto giustificare da parte del coniuge
la proposizione della domanda di riduzione.
Ratio legis
4. Corrisponde alla quintessenza dell’art. 540, comma 2, c.c., il conferimento agli iura in re ivi
contemplati dell’attributo di diritti serventi alla realizzazione della personalità. Il diritto di abitazione permette al coniuge superstite di dare sfogo ai valori extrapatrimoniali costitutivi dell’individualità, i quali rischierebbero altrimenti l’annientamento allorché egli fosse costretto a subire
di punto in bianco il lacerante distacco dall’ambiente in cui si sviluppò nel tempo la comunanza
di vita tra gli attori del consorzio coniugale.
È alla fine facile intendere che la norma in esame trae la sua legittimazione logica dal riconoscimento al diritto di abitazione della finalità di proteggere l’interesse morale dell’essere a
mantenere intatti i consolidati rapporti affettivi con la casa coniugale ove si radicò il consortium
vitae.
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Itinerari di giurisprudenza
Famiglia di fatto
5. Ci si è chiesti se vada ad urtare contro le norme costituzionali di principio la scelta del legislatore ordinario di circoscrivere ai soggetti uniti in matrimonio i diritti successori di abitazione e uso, lasciando conseguentemente prive di tutela le unioni libere caratterizzate da un minimo di stabilità.
Nel corso del processo civile promosso in via principale dalla convivente more uxorio contro i
successori legittimi del partner per l’accertamento del proprio diritto - fondato sulla relazione di
fatto - a concorrere alla successione del de cuius, ed in via riconvenzionale dai convenuti i quali chiesero il rilascio dell’immobile detenuto senza titolo dall’attrice, il Tribunale di Roma sollevò
la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565, 582 e 540 c.c. per asserita violazione degli artt. 2 e 3 Cost.
A giudizio dell’autorità remittente le prime due disposizioni infrangerebbero il precetto che impone di trattare in modo simile situazioni accomunate da identici presupposti sostanziali o, quantomeno, mal si adatterebbero all’art. 2 Cost. perché la convivenza extramatrimoniale merita di essere considerata alla stregua di una formazione sociale suscettibile di ricevere protezione giuridica. L’art. 540, comma 2, c.c., entrerebbe del pari in conflitto con gli antedetti canoni nella parte in
cui non annovera il convivente more uxorio tra i componenti la famiglia aventi diritto ad abitare l’alloggio comune. L’esclusione - osserva il giudice a quo - appare tanto più inammissibile in quanto
si consideri che il tribunale delle leggi non esitò a dichiarare l’illegittimità dell’art. 6, comma 1 della l. 27 luglio 1978, n. 392, là dove non inquadra il convivente di fatto nella schiera dei soggetti
aventi diritto a succedere nella titolarità del contratto di locazione qualora si verifichi il decesso del
conduttore (Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404, in Giur. it., 1988, I, 1, 1627 ss., con nota contraria di
Trabucchi, Il diritto ad abitare la casa d’altri riconosciuto a chi non ha diritti!, ivi, 1628 ss.).
Dall’ordinanza di remissione possiamo scorgere due questioni strettamente connesse: la prima,
di portata più generale, suscita il dilemma circa l’adattabilità alla legge fondamentale degli artt.
565 e 582 c.c. siccome non enumerano il convivente privo dello status coniugale nella categoria
dei successori legittimi; la seconda, più specifica, si riverbera sull’art. 540, comma 2, c.c., a causa della mancata estensione della riserva di abitazione a favore del convivente medesimo.
La Corte costituzionale, uniformandosi alla propria giurisprudenza (intendiamo alludere ai seguenti precedenti: 7 aprile 1988, n. 404, cit.; 14 aprile 1980, n. 45, in Foro it., 1980, I, 1564 ss.),
riafferma che la disparità di trattamento tra soggetti legati dal vincolo matrimoniale e persone
unite da una non intermittente relazione more uxorio è giustificata, assodato che ben distinte
sono le situazioni oggetto di comparazione. A parere della massima autorità giurisdizionale interna il vincolo di coniugio, che di per sé non può ergersi a presupposto imprescindibile ai fini
dell’attribuzione di liceità alle vicende di coppia, conforta nondimeno la scelta del legislatore ordinario di conferire ad esso una «dignità» superiore, tenuto conto dei «caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio»
(Corte cost. 26 maggio 1989, n. 310, in Giust. civ., 1989, I, 1782).
Abitazione, uso
e successione
intestata: l’intervento
della Corte
costituzionale
6. L’art. 584, comma 1, c.c., statuisce che quando il matrimonio sia stato dichiarato nullo dopo
la morte di uno dei coniugi, al consorte superstite di buona fede spettano, oltre alla quota attribuita dagli artt. 581 ss. c.c., i diritti di abitazione sulla casa familiare e di uso sui mobili che la corredano ex art. 540, comma 2, c.c. Di lì nacque il già citato dilemma se attraverso detta regola il
legislatore del 1975 volle circoscrivere al coniuge putativo la riserva «qualitativa», in modo da
escluderla a scapito del coniuge legittimo ove questi succeda per effetto della disciplina sulla
vocazione suppletiva.
La dottrina chiarì che l’orientamento restrittivo avrebbe dischiuso le porte ad un risultato tanto
contraddittorio quanto lesivo del principio costituzionale d’uguaglianza (L. Ferri, I diritti di abitazione e di uso del coniuge superstite, in Studi in onore di L. Spinelli, IV, Modena, 1989, 1367).
La Corte costituzionale, seguendo le orme impresse dalla letteratura dominante, acclarò la manifesta infondatezza della questione perché i diritti di abitazione e uso sono riconosciuti al coniuge (unito da un matrimonio valido con il defunto) nella veste di legittimario, di guisa che il
mancato rinvio all’art. 540, comma 2 c.c., da parte della disciplina in tema di successione legittima «vale unicamente ad escludere che i diritti in argomento competano al coniuge autonomamente e cioè si cumulino con la quota» attribuitagli dagli artt. 581 ss. c.c. [Corte cost. 23
marzo 1988, n. 527, ord., in Rass. dir. civ., 1989, 689 ss., con nota di Gambardella, I diritti di
abitazione e di uso del coniuge superstite: una nuova figura di riserva. Non sono invero mancate decisioni di merito che, anche in tempi recenti, hanno irrazionalmente accolto la tesi opposta:
cfr. Trib. Monza 14 luglio 2012, in DeJure].
Il recente intervento
delle Sezioni Unite
27 febbraio 2013,
n. 4847 con riguardo
alla successione
legittima
7. Alle Sezioni unite della Cassazione è stato proposto il seguente quesito: alla quota intestata
del coniuge sopravvissuto si aggiungono o no i diritti di abitazione e uso ex art. 540, comma 2,
c.c., in ipotesi di successione suppletiva?
Nella vicenda in esame la Corte di merito ha accolto la tesi negativa affermando che gli antedetti diritti ricadono nella quota di un terzo spettante al predetto successore conformemente all’art. 581 c.c. (in senso analogo si veda l’obiter dictum enunciato da Cass. 6 aprile 2000, n.
4329, in Notariato, 2001, 357 ss., con nota di Ciccariello, Il diritto di abitazione del coniuge su-
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Itinerari di giurisprudenza
perstite, ivi, 359 ss., e in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, 440 ss., con nota di Mosca, Considerazioni sui diritti di abitazione ed uso del coniuge superstite, ivi, 444 ss.).
Il quesito implica la soluzione di due nodi esegetici tra loro concatenati: l’uno, se nella successione legittima i diritti in questione spettino al coniuge; l’altro - che presuppone la risposta affermativa all’interrogativo che precede -, se essi debbano o no aggiungersi alla quota intestata.
La risposta al primo quesito è già stata data dalla Corte costituzionale con l’ordinanza dianzi citata, cui le Sezioni unite fanno semplice richiamo.
Sormontato il primo ostacolo, ci s’imbatte nel succitato dilemma vertente sulla razionalizzazione tra legato normativo e statuto in tema di successione suppletiva. I magistrati di cassazione
accertano che in questa materia la giurisprudenza accademica ha elaborato due distinte letture:
la prima sostiene che nella successione ab intestato, in perfetta sintonia con la lettera dell’art.
540, comma 2, c.c., i diritti di uso e abitazione, allorché oltrepassino la disponibile, incidono in
primis sulla porzione riservata al coniuge superstite e, soltanto in quanto necessario, su quella
dei figli.
La seconda lettura considera i diritti di abitazione e uso nella successione suppletiva alla stregua di prelegati ex lege, con l’effetto che il valore dei suddetti diritti rientranti nella sfera patrimoniale del coniuge dovrebbe essere detratto dalla massa ereditaria.
Le Sezioni unite disapprovano il primo dei due indirizzi perché - in contrasto con l’orientamento
condiviso da accreditata dottrina (cfr. L. Ferri, I diritti di abitazione e di uso del coniuge superstite, cit., 1367 ss., spec. 1369; G. Gabrielli, sub art. 540, in Comm. dir. it. fam., a cura di Cian-Oppo-Trabucchi, V, Padova, 1992, 65) - sono convinte che sia ingiusto attuare il riformato art. 540
c.c. «alla luce di un coordinamento con una norma come l’art. 553 c.c., risalente all’impianto originario del codice civile del 1942».
Da qui l’accoglimento dell’opinione a tenore della quale i diritti di godimento sulla casa e sui mobili che la corredano «vengono attribuiti al coniuge nella successione legittima in aggiunta alla
quota a lui spettante ai sensi degli artt. 581 e 582 c.c.». Ne consegue l’errore perpetrato dai giudici d’appello che hanno considerato tali situazioni patrimoniali come parte della porzione riconosciuta al coniuge dall’art. 581 c.c.
Critica
Sennonché, la disciplina relativa al c.d. legato ex lege è racchiusa in una costellazione di precetti
i quali si occupano espressamente dei diritti riservati al coniuge supersite. Il fatto che la successione sia regolata dalla disciplina legale (artt. 565 ss. c.c.) anziché dall’atto di ultima volontà
non pare avere incidenza alcuna sull’applicazione dell’art. 540, comma 2, c.c., perché - come altri ha rilevato - la devoluzione ereditaria ab intestato non può entrare in conflitto con quest’ultima disposizione (Perego, I presupposti della nascita dei diritti d’abitazione e d’uso a favore del
coniuge superstite, in Rass. dir. civ., 1980, 715 ).
Estendere alla successione intestata la riserva qualitativa emancipandola tuttavia dai modi di
computo fissati nell’art. 540, comma 2, c.c., significa spezzare il nesso sistematico che intercorre tra l’istituto del c.d. legato ex lege ed i criteri scelti dal legislatore per la sua concretazione.
Cass. n. 9651 del 2013:
il c.d. legato ex lege
nel prisma
della vocazione
testamentaria
8. A ridosso del precedente giudiziale appena esaminato le Sezioni semplici della cassazione,
con la sentenza n. 9651 del 19 aprile 2013, hanno affermato - riguardo ad una vicenda successoria innervata dalla vocazione testamentaria - che è errato calcolare la quota di riserva sottraendo dal relictum il valore del diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e del
diritto d’uso sui mobili che la corredano. Ne discende che i diritti riservati al coniuge superstite
ex art. 540, comma 2, c.c., gravano nella specie anzitutto la disponibile e, qualora la sopravanzino, la quota di legittima del medesimo chiamato nonché, in via ulteriormente subordinata,
quella dei figli e degli altri legittimari.
Per accreditare questa lettura le sezioni semplici rilevano che l’art. 540, comma 2, c.c., là dove
fa gravare in apicibus sulla disponibile i diritti in parola, dimostra che la disponibile medesima deve essere determinata sul patrimonio relitto ai sensi dell’art. 556 c.c. Siffatto relictum è comprensivo del valore del diritto di abitazione e della nuda proprietà.
Qui giunti - nota il S.C. - si aprono due strade.
La prima: se il valore dei diritti riservati al coniuge superstite è inferiore a quello della disponibile non sorgono problemi di sorta. Nel senso che bisogna sommare i predetti diritti alla quota riservata al coniuge (pari ad un quarto siccome concorre con due figli). Ad esempio: poniamo che
il patrimonio al netto dei debiti sia pari a 300 e che il valore dei diritti riservati al coniuge ex art.
540, comma 2, c.c., ammonti a 40. La disponibile (corrispondente ad un quarto) vale 75. Al coniuge, a titolo di legittima, spetta quindi 75 (che è la quota a lui riservata ai sensi dell’art. 542,
comma 2, c.c.) più 40 a titolo di c.d. legato ex lege.
La seconda: qualora, all’inverso, il valore d’uso ecceda la disponibile, il surplus (ossia la porzione che la sopravanza) andrà a comprimere il frammento di patrimonio riservato al coniuge e, se
ciò non fosse sufficiente, quello spettante ai discendenti in deroga al principio d’intangibilità della legittima (si veda Trib. Roma 12 aprile 1995, in questa Rivista, 1997, 149 ss., spec. 150, con
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Itinerari di giurisprudenza
nota di Schiavone, I diritti di abitazione e di uso attribuiti al coniuge superstite nella successione ab intestato, ivi, 151 ss.). Ad esempio, poniamo che il relictum (in assenza di donazioni) ammonti a 300. Immaginiamo che i diritti compresi nel legato c.d. normativo valgano 120. La differenza tra quest’ultima cifra e la quota disponibile è pari a 45. Tale importo dovrà essere imputato alla legittima del coniuge. Ne deriva che questi potrà pretendere in veste di riservatario la
somma di 150 (vale a dire, 120 a titolo di diritti racchiusi nell’art. 540, comma 2, c.c., oltre alla
differenza tra la sua quota di riserva ed il surplus testé menzionato).
Ad avviso dell’errata interpretazione seguita dalla corte d’appello, Sempronio avrebbe invece
potuto vantare una legittima pari a 165 che si ottiene nel seguente modo: 300 (relictum) - 120
(c.d. legato ex lege) = 180. La legittima (di un quarto) a lui spettante, dovendo essere calcolata
su quest’ultimo valore, sarebbe ammontata a 45. Sicché: 45 + 120 = 165.
L’errore - come già notato - dipende dal fatto che le quote dei legittimari e, di riflesso, la porzione disponibile, debbono essere determinate sul patrimonio (al netto dei debiti e al lordo delle
eventuali liberalità anche indirette) comprensivo del valore della casa familiare in piena proprietà.
L’opponibilità
del diritto
di abitazione riservato
al coniuge superstite
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9. Supponiamo che Tizio sia deceduto lasciando per testamento l’immobile - di sua esclusiva
proprietà - al figlio Mevio. Si tratta della casa adibita a residenza della famiglia ex art. 144, comma 1, c.c. A Tizio sopravvive altresì la moglie Caia la quale, d’intesa col figlio, continua ad abitare detta casa. Mevio, acquistata la proprietà dello stabile in forza della successione paterna, trascrive l’atto di accettazione ai sensi dell’art. 2648 c.c. Dopodiché costituisce sul medesimo immobile un’ipoteca volontaria a favore della banca Gamma in funzione di garanzia del credito ex
mutuo da essa contemporaneamente concessogli. A questo punto la banca, verificatosi l’inadempimento del mutuatario, agisce in via esecutiva avvalendosi della garanzia pattizia.
Al fine di evitare gli effetti pregiudizievoli per l’occupatrice sanciti dagli artt. 586, ult. comma e
605 ss. c.p.c., che si concreteranno tramite l’emanazione del decreto di aggiudicazione al terzo del bene espropriato, Caia propone opposizione al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art.
619 c.p.c. nell’intento di far valere contro il creditore ipotecario (e dunque prima della vendita
forzata) il diritto di abitazione, il quale dà l’impronta alla quota di legittima del coniuge superstite.
La domanda è stata rigettata dai giudici di merito perché, prior in tempore potior in iure, la
possibilità d’opporre al terzo (banca) il diritto sulla cosa vantato da Caia presuppone la trascrizione del titolo di acquisto mortis causa in epoca precedente all’iscrizione dell’ipoteca. Di
conseguenza, la soluzione del tratteggiato conflitto si sarebbe dovuta adeguare alla regola
espressa nell’art. 2648 c.c., da cui si evincerebbe - in aderenza a un indirizzo non isolato - che
la pubblicità del diritto trasmesso dall’ereditando non serve soltanto ad assicurare pro futuro
la continuità delle trascrizioni, ma è anche necessaria allo scopo d’opporre il diritto reale minore oggetto di riserva al terzo là ove questi abbia acquistato diritti conflittuali dal nudo proprietario.
La descritta ratio decidendi non ha convinto la giurisdizione di legittimità per i motivi che seguono (Cass. 24 giugno 2003, n. 10014, in Corr. giur., 2004, 1490 ss., con nota critica di A. Napolitano, Sulla tutela del diritto di abitazione ex art. 540 c.c. leso da una disposizione testamentaria incompatibile, ivi, 1492 ss.; e in Giust. civ., 2004, I, 3063 ss., con nota di Bellomia, Diritti di
abitazione e di uso sulla casa familiare ex art. 540, comma 2, c.c. ed iscrizione di ipoteca ad opera di terzi: un caso di conflitto tra diritti dei creditori e tutela della famiglia, ivi, 3066 ss.). Il coniuge superstite beneficia di un legato che trova il proprio fondamento non già nella volontà del
testatore, bensì nella disciplina dettata in tema di successione necessaria. La forza imperativa
dell’attribuzione in parola giustifica la congettura a mente della quale il figlio, grazie alla vocazione a titolo universale, acquista la proprietà immobiliare vincolata dai diritti reali riservati al genitore cui spetta la qualifica di legatario ex lege. Tale corollario - nota la S.C. - non è messo in discussione dall’atto di ultima volontà avente ad oggetto l’assegnazione in piena proprietà dell’immobile (adibito a residenza familiare) al figlio stesso, in quanto il diritto di abitazione riservato al coniuge è invocabile, nonostante la diversa determinazione negoziale del disponente, ad
astrarre dalla domanda di riduzione: «quand’anche il testatore abbia attribuito all’erede la piena
proprietà dell’immobile che era adibito a residenza familiare, questo diritto di proprietà si trasmette all’erede, per effetto della legge, come diritto gravato dal diritto reale di abitazione spettante al coniuge del defunto».
Poste queste premesse, viene dunque a mancare il piedistallo sorreggente - entro il perimetro
indagato - il principio prior in tempore potior in iure. L’omessa trascrizione del c.d. legato ex lege non implica pertanto che l’avente causa dell’erede acquisti sull’immobile destinato dal de
cuius a residenza familiare diritti opponibili al coniuge sopravvissuto in quanto riservatario (conf.
Cass. 30 aprile 2012, n. 6625, in DeJure, secondo cui il legatario ex lege, acquistando il diritto
di abitazione direttamente del de cuius, vanta una situazione di godimento opponibile erga omnes ad astrarre dalla trascrizione del titolo; contra Trib. Monza 27 dicembre 2011, in DeJure,
secondo cui il c.d. legato ex lege non è opponibile ai terzi che abbiano acquistato diritti sull’immobile destinato a residenza coniugale).
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Itinerari di giurisprudenza
L’epilogo sotteso dalle surriferite considerazioni induce la S.C. ad applicare in subiecta materia
l’istituto dell’erede apparente, dato che il debitore concesse l’ipoteca sulla piena proprietà disponendo - alla stregua di un non dominus - del diritto di abitazione attribuito al genitore tramite l’accennato legato necessario. Ebbene, movendo dalla esatta premessa secondo cui la disciplina ex art. 534 c.c. può essere fatta valere dall’avente causa dell’erede apparente (tale essendo pure colui il quale, nonostante la qualifica di erede vero, disponga di un diritto del legatario) anche contro il legatario vero, la magistratura di legittimità conclude l’esame del ricorso demandando al giudice di rinvio il cómpito d’appurare se sussistano in concreto tutte le condizioni, enumerate nei commi 2 e 3 del menzionato articolo, che si rivelano indispensabili allo scopo
di far prevalere il diritto reale di garanzia sul diritto di abitazione riservato al coniuge.
Insomma, la Corte di cassazione è convinta che deve essere riconosciuta la preferenza al diritto reale di garanzia rispetto alla riserva «qualitativa» del coniuge quando concorrano le condizioni descritte nell’art. 534, commi 2 e 3, c.c. Per queste ragioni l’ipoteca è opponibile al coniuge il quale intenda far valere il diritto di abitazione sempre che da un lato l’acquisto immobiliare
a causa di morte e l’atto di concessione della garanzia siano stati, rispettivamente, trascritti e
iscritti precedentemente alla trascrizione dell’acquisto da parte dell’erede o legatario vero o alla trascrizione contro l’erede apparente (art. 534, comma 3, c.c.), dall’altro lato il creditore ipotecario dimostri di aver ottenuto la titolarità del diritto sulla cosa altrui in buona fede (art. 534,
comma 2, c.c.).
Critica
Il dictum non persuade. Il ricorso alla categoria della nullità rischia di tradursi in un artifizio teorico minante l’unità sistematica del diritto successorio La disposizione testamentaria intaccante
la riserva sui generis ex art. 540, comma 2, c.c., non è nulla o annullabile, ma inefficace qualora il giudice - chiamato a pronunziarsi intorno alla fondatezza dell’azione di reintegrazione del diritto di abitazione - accerti la violazione della posizione giuridica del coniuge-legittimario.
Se si accetta questa premessa viene a cadere il punto di appoggio dell’orientamento condizionante l’opponibilità ai terzi della riserva di abitazione alla sussistenza dei presupposti oggettivi e
soggettivi enumerati nell’art. 534, commi 2 e 3, c.c. (il tema è sviluppato nel mio La successione del coniuge. Garanzie individuali e nuovi scenari familiari, cit., 72 ss.).
L’ipoteca ante mortem
Diversa è l’ipotesi d’ipoteca iscritta sull’immobile di proprietà esclusiva di uno dei coniugi prima
dell’apertura della successione. In tal eventualità l’azione esecutiva già intrapresa nei confronti
del debitore e la successiva vendita non sono ostacolate dai diritti attribuiti al coniuge superstite ai sensi dell’art. 540, comma 2, c.c. (si veda Cass. 13 gennaio 2009, n. 463, in questa Rivista, 2009, 525).
Il regime di comunione
10. L’art. 540, comma 2, c.c., recita che i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano sono riservati al coniuge «se di proprietà del defunto o
comuni».
Dall’inciso normativo spunta il dilemma se il legislatore, quando ha evocato la comunione, abbia inteso circoscrivere l’àmbito di applicazione della regola alle situazioni di comproprietà esclusiva tra i coniugi. Accade allora che, qualora prevalesse l’orientamento più liberale, l’interprete
non potrebbe evitare di rispondere ad un ulteriore quesito così compendiabile: in quali ipotesi la
compartecipazione di terzi può rappresentare una ragione ostacolante l’attribuzione all’interessato della riserva «qualitativa»?
Ipotizziamo che il defunto risulti titolare pro indiviso di una quota dell’immobile pari ad un quinto, laddove il residuo appartenga in eguale misura agli altri quattro germani. Supponiamo altresì che, per tacita convenzione intervenuta tra i comunisti, l’immobile stesso sia stato adibito dal
medesimo de cuius a residenza coniugale. Ebbene, dall’intreccio di queste relazioni è dato scorgere il vincolo di precario utile a giustificare l’accennato godimento (diretto ed esclusivo) della
res. È vero che il rapporto obbligatorio così strutturato può essere mantenuto in vigore, dopo
l’apertura della successione, con il coniuge superstite ove sussista la volontà delle parti, ma è
del pari vero che i comodanti non smarriscono la facoltà di esercitare il diritto di recesso ad nutum ai sensi dell’art. 1810 c.c. È appena il caso di soggiungere che il prefigurato godimento può
all’opposto essere basato su un contratto a prestazioni corrispettive (locazione), per effetto del
quale il comproprietario-conduttore utilizza il bene sia iure domini, limitatamente alla sua quota
di proprietà, sia a titolo obbligatorio, con riguardo alle quote degli altri comunisti i quali, attraverso questo programma negoziale, sfruttano indirettamente le utilità correlate al diritto assoluto (Cass. 28 settembre 2000, n. 12870, in Foro it., 2001, I, 2005).
Nelle situazioni appena esposte il coniuge della cui successione si tratta è comproprietario dell’immobile destinato a residenza della famiglia. Sennonché, su di esso convergono i diritti reali
appartenenti a soggetti estranei al vincolo di coniugio. Di lì il dubbio circa la fondatezza della pretesa avanzata dal riservatario di far valere il diritto di abitazione ex art. 540, comma 2, c.c., contro gli altri contitolari della situazione d’appartenenza. Il conflitto d’interessi che affiora è evidente: da un canto scorgiamo l’interesse del coniuge superstite a non subire la tanto improvvi-
Famiglia e diritto 7/2013
713
Itinerari di giurisprudenza
sa quanto traumatica recisione dei legami sociali e affettivi con la casa della famiglia fondata sul
matrimonio, dall’altro risalta l’interesse antagonistico dei terzi comproprietari pro indiviso ad evitare la pratica irrealizzabilità del diritto di usare la cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., interesse il quale rischierebbe altrimenti di essere messo a repentaglio dall’occupazione permanente della res per opera dell’habitator.
La giurisprudenza forense sormonta le prospettate incertezze facendo propria un’interpretazione tranchant di dubbia esattezza: il diritto di abitazione riservato al coniuge superstite non può
essere invocato allorché la casa sia in regime di comproprietà tra il coniuge defunto e terzo
(Cass. 22 luglio 1991, n. 8171, in Arch. civ., 1991, 1240; Cass. 23 maggio 2000, n. 6691, in
Giur. it., 2001, 248 ss., con nota di Bergamo, Brevi cenni sui diritti ex art. 540, 2° comma, c.c.
riservati al coniuge superstite; e in Rass. dir. civ., 2002, 396 ss., con nota critica di Filograno, Sui
diritti di abitazione e di uso in favore del coniuge superstite nell’ipotesi di casa familiare in comunione di proprietà tra il defunto ed un terzo, ivi, 397 ss.; Trib. Nocera Inferiore 4 ottobre
2001, in Arch. loc., 2001, 268 ss.).
Come contrappeso alla predetta conclusione, che promuove al rango di presupposti alternativi
del c.d. legato ex lege la spettanza all’ereditando della proprietà esclusiva della casa (destinata
ad abitazione familiare) oppure la comproprietà di essa tra lui ed il coniuge superstite, risalta il
tentativo d’invigorire la posizione di tale legittimario nell’occasione in cui abbia acquistato mortis causa la piena proprietà del medesimo bene grazie alla successione del consorte. Prova ne
sia che ove si verifichi quest’ultima condizione le corti hanno riconosciuto al coniuge sopravvivente (il quale acquisti - è bene ricordarlo - iure successionis il pieno dominio sulla casa familiare) la pretesa, la quale non si estingue per confusione, alla capitalizzazione del diritto di abitazione (Cass. 23 maggio 2000, n. 6691, cit., obiter).
Sennonché, in altra occasione si è imposto un criterio più moderato, tendente a limitare la capitalizzazione alla frazione astratta di comproprietà caduta nell’asse ereditario del coniuge premorto (Cass. 10 marzo 1987, n. 2474, in Vita not., 1987, 750). Il tentativo - venato dall’eadem
ratio gravitante attorno all’esigenza di rafforzare i diritti successori del consorte - di «depatrimonializzare» (e cioè di mandare in cortocircuito il nesso di stretta proporzionalità tra quota di comproprietà e liquidazione del diritto reale minore ex art. 540, comma 2, c.c.) la riserva «qualitativa» appare ancor più manifesto quando i giudici hanno capitalizzato per l’intiero il diritto di abitazione oggetto di riserva, benché la quota indivisa sulla casa adibita a residenza familiare e caduta in successione non oltrepassasse il settimo (Cass. 6 aprile 2000, n. 4329, cit.).
Similmente, se a causa dell’indivisibilità della casa è giuridicamente impossibile il materiale distacco della porzione dell’immobile spettante al coniuge superstite, con l’effetto che lo stabile
viene assegnato per intero ad altro condividente, occorre capitalizzare a favore del coniuge stesso il diritto di abitazione ex art. 540, comma 2, c.c. (Cass. 30 luglio 2004, n. 14594, in Giust.
civ., 2005, I, 1263 s., con nota di Tedesco, Osservazioni in tema di applicabilità dell’art. 540,
comma 2, c.c., nell’ipotesi di casa familiare in comproprietà con terzi, ivi, 1264 ss.).
Qualora l’immobile destinato a residenza familiare sia di proprietà esclusiva del coniuge defunto, non si ravvisa alcun ostacolo alla pretesa fondata sull’art. 540, comma 2, c.c., da parte dell’altro coniuge là dove l’edificio sia goduto dal terzo senza titolo (nel caso di specie parte dell’immobile era abitata dal genitore del de cuius: così Cass. 15 maggio 2000, n. 6231, in Mass.
Giust. civ., 2000).
È infine fuori discussione che il mero proposito di destinare un determinato immobile a residenza familiare non sia sufficiente a giustificare la pretesa ancorata all’art. 540, comma 2, c.c.
(Cass. 27 febbraio 1998, n. 2159, in Giur. it., 1998, 1794 ss., con nota Bergamo, L’oggetto del
diritto di abitazione riservato al coniuge superstite; ma in senso contrario v. Falzone Calvisi, Il diritto di abitazione del coniuge superstite, Torino, 1993, 126, la quale ritiene che sia sufficiente la
programmata destinazione anziché il concreto utilizzo).
L’ampiezza del diritto
di abitazione
714
11. Ampi consensi riscuote l’orientamento secondo cui il diritto di abitazione riservato al coniuge superstite appartiene alla classe degli iura in re aliena. È tuttavia dibattuta la sua estensione.
Riguardo alla disciplina di diritto comune è noto che l’art. 1022 c.c. introduce il limite del bisogno dell’habitator e della sua famiglia, intesa in senso allargato (art. 1023 c.c.). Il menzionato bisogno attiene al soddisfacimento delle esigenze abitative, che sono intimamente legate alla
persona del titolare e dei suoi familiari. Ne consegue che l’habitator è autorizzato a trarre vantaggio dall’immobile entro i confini desumibili dalla predetta destinazione. Se così, il godimento
eccedente si tradurrà in un godimento abusivo.
Chiediamoci se le medesime «compressioni» interessino la riserva del diritto di abitazione. La
risposta è estrapolabile dalla ragion d’essere dell’istituto: qualora si condivida la chiave di lettura - sensibile all’argomento assiologico - che assegna all’habitatio la natura di diritto servente alla piena e libera esplicazione della personalità del coniuge superstite, non dovrebbero sorgere
particolari ostacoli a riconoscere che il soggetto tutelato abbia titolo a beneficiare dell’immobile
nella maniera più adeguata alla realizzazione degli evocati valori, affinché il diritto reale risulti
emancipato dall’arida correlazione - assurgente ad autentico criterio di misura - tra res e bisogno
Famiglia e diritto 7/2013
Itinerari di giurisprudenza
stricto sensu abitativo, correlazione che assumerebbe le sembianze del dovere di occupare soltanto gli spazi della casa familiare indispensabili alle minimali esigenze di vita dell’habitator.
Il diritto giudiziale si allinea a questa lettura. Alla magistratura di legittimità è stato domandato
se collimi con la ratio dell’art. 540, comma 2, c.c., l’interpretazione, accolta dal giudice di merito, che ha noverato nel perimento di tale norma l’intero fabbricato comprensivo dei locali adibiti dal de cuius all’esercizio della libera professione di medico nonché il sottotetto (non abitato né
abitabile). La S.C. conferma la decisione impugnata ritenendo inapplicabile nella specie la disciplina dettata dagli artt. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui commisura il diritto di godimento alle
occorrenze della parte legittimata (Cass. 13 marzo 1999, n. 2263, in Notariato, 1999, 309; v. anche Trib. Bologna 18 marzo 2002, in Arch. loc., 2002, 376 s.; App. Venezia 3 febbraio 1982, in
Giur. it., 1983, I, 2, 292 ss., con nota redazionale di Pacia Depinguente, ivi, 291 ss.).
Conviene precisare che il diritto di abitazione riservato al coniuge non può essere compresso
dalla pretesa fondata sull’art. 1023 c.c. di chi abbia convissuto con l’ereditando come collaboratore domestico perché costui non rientra nella cerchia di soggetti protetti dalla lex specialis
(Cass. 9 giugno 1987, n. 5044, in Mass. Giust. civ., 1987).
Per altro verso l’immobile rilevante ai sensi dell’art. 540, comma 2, c.c., è unicamente quello
ove i coniugi abbiano stabilmente convissuto ivi organizzando la vita sociale del gruppo familiare. Non può quindi essere invocato il diritto di abitazione su altro alloggio, sito all’interno del medesimo stabile, che non fu invece destinato alla finalità del ménage (Cass. 14 marzo 2012, n.
4088, in Vita not., 2012, 816).
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Giurisprudenza
Successioni
Testamento
CASSAZIONE CIVILE, sez. II, 25 maggio 2012, n. 8352 - Pres. Triola - Rel. Petitti
Successione testamentaria - Clausola di diseredazione - Ammissibilità - Limiti - Eredi legittimi - Istituzione implicita - Preterizione
(C.c. artt. 587 e 588)
È valida la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la propria volontà di escludere dalla propria successione alcuni dei successibili.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Trib. Lucca 6 novembre 1953; App. Firenze, 9 settembre 1954; App. Napoli 21 maggio 1961; App.
Torino 10 febbraio 1965; Trib. Parma 3 maggio 1977; Trib. Nuoro 15 settembre 1989; Trib. Catania 21
febbraio 2000; App. Genova 16 giugno 2000
Difforme
Cass. 20 giugno 1967, n. 1458; Cass. 18 giugno 1994, n. 5895; Trib. Santa Maria C. V. 25 maggio 1960;
App. Catania 28 maggio 2003
... Omissis ...
Motivi della decisione
2.1 Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, i
ricorrenti principali denunciano, ai sensi dell’art. 360, n.
3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 587 e
588 c.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
La censura si riferisce alla affermazione contenuta nella
sentenza impugnata, secondo cui la clausola di diseredazione contenuta nel testamento della signora I.S. sarebbe invalida, perché la scheda testamentaria non conteneva anche disposizioni positive. I ricorrenti rilevano
che mediante la clausola di diseredazione il testatore
provvede a regolare i rapporti patrimoniali per il tempo
successivo alla propria morte, favorendo, fra i successibili legittimi, quelli non esclusi con la diseredazione. Quest’ultima, pertanto, mirando, mediante l’esclusione di
uno o più successibili legittimi, ad ampliare il beneficio
degli altri, sarebbe di per sé una disposizione - implicitamente - positiva. In ogni caso, osservano i ricorrenti,
l’art. 587 c.c., nel definire il testamento come l’atto con
il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato
di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse,
non escluderebbe affatto che la libertà di disporre delle
proprie sostanze riconosciuta al testatore, possa manifestarsi anche in un “non volere disporre” di esse in favore
di uno o più soggetti determinati. La decisione relativa
alla mancata attribuzione equivarrebbe, quindi, non già
all’assenza di una idonea manifestazione di volontà, bensì alla manifestazione di una ben precisa volontà. Il giudizio di invalidità della clausola di mera diseredazione
postulerebbe quindi che alla espressione “dispone”, contenuta nell’art. 587 c.c., si assegni il significato di “attribuisce”; ma, rilevano i ricorrenti, le due espressioni hanno invece significati diversi, collocandosi in un rapporto
di genere a specie, nel senso che “è atto di disposizione
dei propri beni, infatti, tanto l’attribuzione di essi, quan-
146
to la dichiarazione di non volerli attribuire a determinati soggetti”.
In sostanza, sostengono i ricorrenti, l’art. 588 c.c., da un
lato, non esaurisce le ipotesi in cui il legislatore prevede e
disciplina l’attività dispositiva; dall’altro, non esclude che
altre disposizioni - quali quelle non attributive - siano tutelate dall’ordinamento, purché, nel realizzare la funzione
testamentaria di produrre effetti successori, non contrastino con l’ordine pubblico; contrasto che deve escludersi
nel caso in cui siano rispettati i diritti dei legittimari.
A conclusione del motivo, i ricorrenti, oltre a specificare
il vizio di motivazione denunciato, formulano il seguente
quesito di diritto: “dica l’Ecc.ma Corte se incorre in violazione degli artt. 587 e 588 c.c. il Giudice del merito che
qualifichi come invalida la clausola mediante la quale il
testatore stabilisca di escludere dalla successione uno o
più successibili legittimi”.
3. ....Omissis...
4. Il Collegio ritiene che il secondo motivo del ricorso
principale, ancorché prospettato dai ricorrenti come subordinato al rigetto del primo, debba essere esaminato in
via prioritaria, non solo per ragioni di ordine logico, ma
perché dal suo accoglimento, a differenza di quanto potrebbe verificarsi con l’accoglimento del primo motivo,
discende la possibilità di definizione del giudizio nel merito. L’accoglimento del primo motivo, infatti, postulando in entrambe le sue articolazioni l’accertamento di un
vizio nella interpretazione del testamento, comporterebbe il rinvio della causa al giudice di appello, non potendo
questa Corte sostituire la propria interpretazione a quella
del giudice di merito.
Al contrario, l’accoglimento del secondo motivo, inerendo ad un vizio di violazione di legge, potrebbe dare luogo,
sussistendone in concreto i presupposti, ad una decisione
della causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c.
In questo senso, e cioè nel senso che deve prioritariamente esaminarsi la censura che coinvolge l’accertamento di
quale sia la portata delle disposizioni legislative rilevanti in
Famiglia e diritto 2/2013
Giurisprudenza
Successioni
materia rispetto alle censure che coinvolgono l’interpretazione della clausola testamentaria, si è del resto già espressa Cass. n. 1458 del 1967, che costituisce il precedente di
questa Corte al quale si è ispirata la decisione impugnata.
4.1 ....Omissis...
5. Il motivo è fondato.
5.1 La Corte d’appello si è riferita alla risalente giurisprudenza di questa Corte, la quale, segnatamente nella sentenza n. 1458 del 1967, ha avuto modo di affermare il seguente principio di diritto: “Ai sensi dell’art. 587, primo
comma, c.c., il testatore può validamente escludere dall’eredità, in modo implicito o esplicito, un erede legittimo,
purché non legittimario, a condizione, però, che la scheda
testamentaria contenga anche disposizioni positive e cioè
rivolte ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti, nelle
forme dell’istituzione di erede o del legato. È quindi nullo
il testamento con il quale, senza altre disposizioni, si escluda il detto erede, diseredandolo. Peraltro, qualora dall’interpretazione della scheda testamentaria risulti che il de
cuius, nel manifestare espressamente la volontà di diseredare un successibile, abbia implicitamente inteso attribuire, nel contempo, le proprie sostanze ad altri soggetti, il testamento deve essere ritenuto valido, contenendo una vera e propria valida disposizione positiva dei beni ereditari,
la quale è sufficiente ad attribuire efficacia anche alla disposizione negativa della diseredazione...”.
In motivazione, la Corte, che ha esaminato una clausola
testamentaria meramente negativa (“Nelle mie piene facoltà mentali e in perfetta salute, dichiaro, qualora io dovessi mancare, di escludere dalla mia eredità e cioè da
quello che io posseggo, le mie due nipoti A. e G.... figlie
del mio defunto fratello P...., per il loro indegno comportamento verso di me ed i miei fratelli”), è partita dalla tesi tradizionale dell’invalidità della clausola di diseredazione ma, anziché pervenire ad una dichiarazione di nullità,
come avrebbe dovuto coerentemente fare, data la portata meramente diseredativa della richiamata disposizione,
e quindi dichiarare aperta la successione legittima, ha ritenuto di poter ricavare, per via interpretativa, una volontà, implicita, del testatore di disporre col testamento
stesso a favore dei successibili ex lege diversi dalle nipoti
escluse; ha pertanto, coerentemente affermato l’apertura
della successione testamentaria.
In particolare, la Corte, pur ritenendo che il testamento
abbia carattere necessariamente attributivo, ha ammesso
tuttavia la validità della clausola non solo quando questa
si accompagni a disposizioni attributive espresse, ma anche quando esaurisca il contenuto del testamento, purché sia possibile ricavare in sede ermeneutica “sia in modo diretto ed esplicito, sia in modo indiretto ed implicito
la inequivocabile volontà del testatore, oltre che di diseredare un determinato successibile, di attribuire le proprie sostanze ad un determinato altro”.
Successivamente, nella giurisprudenza di questa Corte, si è
affermato il principio per cui “la volontà di diseredazione
di alcuni successibili può valere a fare riconoscere una contestuale volontà di istituzione di tutti gli altri successibili
non diseredati solo quando, dallo stesso tenore della manifestazione di volontà o dal tenore complessivo dell’atto
Famiglia e diritto 2/2013
che la contiene, risulti la effettiva esistenza della anzidetta
autonoma positiva volontà del dichiarante, con la conseguenza che solo in tal caso è consentito ricercare, anche attraverso elementi esterni e diversi dallo scritto contenente
la dichiarazione di diseredazione, l’effettivo contenuto della volontà di istituzione. Pertanto, ove il giudice del merito nell’interpretazione dello scritto ritenga inesistente una
tale volontà, correttamente lo stesso non ammette la prova diretta al fine di dimostrare la volontà del de cuius di disporre dei propri beni a favore di alcuni soggetti, in quanto
con tale prova si mira non già ad identificare la volontà testamentaria contenuta, esplicitamente o implicitamente,
nella scheda, ma alla creazione di una siffatta volontà”
(Cass. n. 6339 del 1982; Cass. n. 5895 del 1994).
5.2 La soluzione accolta dai precedenti di questa Corte non
è condivisa dal Collegio, in quanto contiene in sé una sostanziale contraddizione. Da un lato, infatti, si predica la assoluta invalidità di una clausola meramente negativa, ove
la stessa non sia accompagnata ad altre che contengano disposizioni attributive, ancorché tali da non esaurire l’intero
asse ereditario; dall’altro se ne riconosce la validità anche
nel caso in cui costituisca l’unica disposizione contenuta in
una scheda testamentaria, a condizione però che sia possibile ricavare sia in modo diretto ed esplicito, sia in modo indiretto ed implicito la inequivocabile volontà del testatore,
oltre che di diseredare un determinato successibile, di attribuire le proprie sostanze ad un determinato altro.
Un simile argomentare vanifica, in realtà, la affermazione di principio dalla quale sembra muovere la sentenza
del 1967, della tendenziale invalidità della clausola di diseredazione, la quale è invece valida ed efficace allorquando dalla stessa sia possibile desumere una istituzione
in favore di soggetti non contemplati ma comunque implicitamente individuabili, una volta esclusi dalla successione quelli invece espressamente menzionati nella clausola di diseredazione.
5.3. Dalla lettura della richiamata sentenza del 1967 emerge che l’argomento dirimente per escludere la ammissibilità nel nostro ordinamento di una clausola testamentaria di
contenuto esclusivamente negativo, quale, appunto, la
clausola di diseredazione che manifesti la volontà del testatore di escludere un successibile, senza che sia possibile
individuare una volontà positiva, sia pure implicita, di
chiamare altri alla sua successione, è quello desunto dal
contenuto e dalla portata degli artt. 587 e 588 c.c.
La lettura delle citate disposizioni offerte nei precedenti
di questa Corte deve essere rivista e superata alla luce
delle seguenti considerazioni.
Ai sensi dell’art. 587, primo comma, c.c., il negozio di ultima volontà ha la funzione di consentire al testatore di
disporre di tutte le proprie sostanze, o di parte di esse, per
il tempo in cui avrà cessato di vivere. Con una tale definizione, il legislatore sembra accogliere la natura essenzialmente patrimoniale dell’atto di ultima volontà. Le disposizioni testamentarie di carattere non patrimoniale
(art. 587, secondo comma, c.c.), che la legge permette
siano contenute in un atto privo di disposizioni di carattere patrimoniale purché abbia la forma del testamento,
condividono, invece, con il negozio di ultima volontà so-
147
Giurisprudenza
Successioni
lo il tratto formale, ma non quello sostanziale, legittimando di conseguenza l’applicazione di un diverso regime (si pensi all’irrevocabilità, che è generalmente incompatibile con il contenuto tipico del testamento).
Peraltro, dal rilievo che la disposizione testamentaria tipica abbia contenuto patrimoniale, non discende la conseguenza che il testamento, per essere tale, debba avere necessariamente una funzione attributiva. L’articolato sistema delineato dal legislatore permette che il fenomeno devolutivo dei beni e l’individuazione degli eredi e dei legatari possano trovare indistintamente fondamento sia nella legge che nella volontà del testatore. Nel nostro ordinamento, la possibilità di un’attribuzione di beni per testamento, che genera un fenomeno vocativo legale, convive con quella, inversa, di un’istituzione per testamento
di eredi, che genera la devoluzione legale dell’asse (o di
una sua quota). Una simile convivenza, poi, non può che
essere confermata dall’art. 457 c.c., che riconosce farsi
luogo alla successione legittima, quando manca in tutto o
in parte quella testamentaria, smentendosi dunque una
gerarchia di valore tra le due forme del regolamento successorio, e dovendosi invece ricondurre il concorso tra le
due vocazioni ad un rapporto di reciproca integrazione.
5.4 I richiamati precedenti hanno inteso riconoscere
l’ammissibilità di una volontà di diseredazione ove in essa si ravvisi o una disposizione principale attributiva,
esplicitamente o implicitamente presupposta, della quale
la volontà del testatore è una modalità di esecuzione
(Cass. n. 1458 del 1967), o un’implicita istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati, volontà che non si
presume ma va provata (Cass. n. 6339 del 1982; Cass. n.
5895 del 1994). Quest’ultimo orientamento ammette la
clausola di diseredazione solo se fondata sull’equivalenza
tra l’esclusione e l’istituzione implicita di altri.
Tuttavia, se si riconosce che il testatore possa disporre di
tutti i suoi beni escludendo in tutto o in parte i successori legittimi, non si vede per quale ragione non possa, con
un’espressa e apposita dichiarazione, limitarsi ad escludere un successibile ex lege mediante una disposizione negativa dei propri beni. Invero, escludere equivale non all’assenza di un’idonea manifestazione di volontà, ma ad
una specifica manifestazione di volontà, nella quale, rispetto ad una dichiarazione di volere (positiva), muta il
contenuto della dichiarazione stessa, che è negativa.
Per diseredare non è quindi necessario procedere ad una
positiva attribuzione di beni, né - sulla scorta dell’espediente che escludere è istituire - alla prova di un’implicita istituzione.
In sostanza, la clausola di diseredazione integra un atto
dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo
espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali,
che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il
testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il
diseredato e restringendo la successione legittima ai non
diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem
del proprio patrimonio. Il “disporre” di cui all’art. 587,
primo comma, c.c., può dunque includere, non solo una
volontà attributiva e una volontà istitutiva, ma anche
una volontà ablativa e, più esattamente, destitutiva. Altre volte, d’altronde, il nostro legislatore ha concepito di-
148
sposizioni di contenuto certamente patrimoniale, che
non implicano attribuzioni in senso tecnico e che possono genericamente farsi rientrare nella nozione di “atto dispositivo” del proprio patrimonio ex art. 587, primo comma, c.c., avendo utilizzato il termine “disposizione” nel
senso riferito in questa sede (in materia di dispensa da
collazione, di assegno divisionale semplice, di onere testamentario, di ripartizione dei debiti ereditari, di disposizione contraria alla costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia, di disposizione a favore dell’anima e di divieti testamentari di divisione).
Le varie ipotesi in cui l’attività dispositiva possa manifestarsi sono tutelate dall’ordinamento purché non contrastino con il limite dell’ordine pubblico: ogni disposizione
patrimoniale di ultima volontà, anche se non “attributiva”
e anche se non prevista nominatim dalla legge, può dunque costituire un valido contenuto del negozio testamentario, solo se rispondente al requisito di liceità e meritevolezza di tutela, e se rispettosa dei diritti dei legittimari.
L’ammissibilità della clausola diseredativa, quale autonoma disposizione negativa, appare, infine, in linea con
l’ampio riconoscimento alla libertà e alla sovranità del
testatore compiuto dal legislatore, che in altri ambiti del
diritto successorio ha ammesso un’efficacia negativa del
negozio testamentario: nell’ambito del contenuto patrimoniale del testamento, non solo il testatore può ben
gravare il proprio erede di una hereditas damnosa, ma
può escludere il legittimario dalla quota disponibile, sia
mediante l’istituzione nella sola quota di legittima, sia
mediante il legato sostitutivo previsto dall’art. 551 c.c.; il
testatore può inoltre modificare le norme che la legge pone alla delazione successiva, escludendo l’operatività del
diritto di rappresentazione a favore dei propri congiunti
con la previsione di più sostituzioni ordinarie o, addirittura, con un’esclusione diretta.
5.5 In conclusione, deve in proposito, e in risposta al quesito di diritto formulato dai ricorrenti principali a conclusione del secondo motivo di ricorso, affermarsi il seguente principio di diritto: “È valida la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la propria volontà di escludere dalla propria successione alcuni dei
successibili”.
5.6 Applicando tale principio al caso di specie, deve accogliersi il secondo motivo del ricorso principale, dovendosi considerare valida la clausola del testamento di I.S.
volta a diseredare alcuni dei successori legittimi, trattandosi di non legittimari. L’accoglimento del secondo motivo comporta l’assorbimento del primo.
6. ....Omissis...
7. In conclusione, accolto il secondo motivo del ricorso
principale, assorbito il primo, e dichiarato inammissibile
il ricorso incidentale, la sentenza impugnata deve essere
cassata. Poiché, peraltro, non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito,
ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il rigetto dell’appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di Savona, che
aveva deciso la controversia ritenendo valida la clausola
di diseredazione e disposto farsi luogo alla successione in
favore dei successibili non esclusi.
....Omissis...
Famiglia e diritto 2/2013
Giurisprudenza
Successioni
LA CASSAZIONE AMMETTE LA CLAUSOLA DI DISEREDAZIONE
ESPLICITA MERAMENTE NEGATIVA
di Giacomo Bellavia (*)
La Cassazione finalmente assume sul tema una posizione chiara, ammettendo la clausola di diseredazione
meramente negativa di un successibile non legittimario, così allineandosi alle argomentazioni della dottrina
che recentemente è prevalsa sul tema. La sentenza in commento critica l’orientamento della precedente
giurisprudenza di legittimità in merito alla disciplina desumibile in materia dagli artt. 587 e 588 c.c.: le disposizioni contenute nel testamento hanno contenuto patrimoniale; tuttavia, ciò non significa che debbano anche avere di per sé una funzione attributivo-devolutiva, che ben potrà essere realizzata mediante il ricorso all’integrazione con le regole di successione legittima.
1. Il caso
La vicenda giudiziaria prende le mosse da un testamento olografo redatto dalla signora S. I. dal seguente tenore letterale: “Io sottoscritta S. I. scrivo le
mie volontà sana di mente. Escludo da ogni mio
avere i miei cugini E. G. fu A. - C. E. fu D. - C. P. fu
D. Nella tomba con i miei altrimenti compramene
una.”
Il Tribunale di Savona in primo grado, con la sentenza del 23 novembre 1995, dichiarava la validità
del testamento olografo di S.I., contenente non solo
una clausola di diseredazione riguardante alcuni successibili legittimi, ma anche un’istituzione implicita
di altri successibili non diseredati, con l’imposizione
dell’onere di tumulare la de cuius nella tomba di famiglia, oppure di comprargliene una.
Proposto il gravame, la Corte d’Appello di Genova
(1) riconosceva la piena validità alla clausola di diseredazione, ribadendo la sicura validità di un testamento con una clausola diseredatoria contenente anche una disposizione positiva (cioè un’esplicita istituzione di erede), ma anche di una scheda testamentaria che non contenga alcuna istituzione espressa di
erede, in quanto la clausola di diseredazione sarebbe
in ogni caso da considerarsi come un’istituzione implicita di erede o, quantomeno, come volontà del disponente a che l’eredità possa essere devoluta ai successibili legittimi, esclusi i diseredati.
La citata sentenza di appello veniva poi cassata dalla Suprema Corte, con sentenza n. 8489 del 2004,
per non integrità del contraddittorio nel giudizio di
appello, e pertanto si addiveniva a nuovo giudizio di
merito. La Corte genovese, con sentenza depositata
il 12 marzo 2007, ha accolto l’appello e ha dichiarato la nullità della clausola del testamento olografo di
S.I. del 5 giugno 1977, sulla base della considerazione che una clausola di tipo negativo, quale quella di
diseredazione, per essere valida debba essere accompagnata da disposizioni di carattere positivo, anche
Famiglia e diritto 2/2013
se implicite, volte ad attribuire i beni ereditari ad altri soggetti, che nel caso non furono rinvenute.
Con la sentenza in commento la Cassazione ribalta
l’esito del giudizio di secondo grado, innovando tra
l’altro l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che negli anni si era consolidato.
La diseredazione e gli istituti affini
La clausola di diseredazione (2) è una disposizione meramente negativa, contenuta in un testamento, con la
quale si esclude un successibile dalla vocazione ereditaria prevista dalla legge. Probabilmente più correttamente, alcuni autori (3) sostengono l’opportunità di
ribattezzare la clausola come “clausola di esclusione di
eredi legittimi”, i quali a differenza dei legittimari non
possono accampare diritti sull’eredità. Quindi si statuisce nei loro confronti una esclusione dal novero dei
chiamati all’eredità, piuttosto che la sottrazione di un
diritto, che, a tacer d’altro, non è attribuito o riconosciuto dall’ordinamento come inderogabile.
Inizieremo subito con lo specificare che si prenderà
in considerazione esclusivamente la vera e propria
clausola di diseredazione, ovvero quella meramente
negativa, pura ed esplicita. Non rientra infatti nell’ambito della figura in esame la c.d. diseredazione
indiretta, che ricorre quando il testatore istituisce
erede un successibile, così implicitamente escludenNote:
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) App. Genova 16 giugno 2000, in Giur. mer., 2001, 937, con
nota di Morello Di Giovanni, Clausola di diseredazione e autonomia negoziale del disponente.
(2) Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di diseredazione, in Riv. Not., 2003, 1311: “Letteralmente, diseredare significa privare della qualità di erede”; Windscheid, riportato
e condiviso da Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, in Riv.
dir. civ., 1941, 232, la definisce come “l’espressa dichiarazione
che alcuno non debba essere erede”.
(3) Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1968, 1182.
149
Giurisprudenza
Successioni
do altri (potenziali) eredi legittimi (4). Infatti il soggetto non menzionato conserva comunque la qualità di erede legittimo, per cui nel caso di delazione
successiva ex lege egli potrebbe concorrere alla successione del de cuius.
Diversa è altresì la c.d. diseredazione con istituzione
implicita, ricorrente quando il testatore esprime sì una
volontà negativa nei confronti di un erede legittimo,
ma da quest’ultima si può desumere una disposizione
positiva a favore di un altro (5): in tale ipotesi, invero,
in caso di apertura della successione legittima il soggetto diseredato non potrebbe partecipare (6).
La diseredazione va poi distinta, seppure per certi
versi i risultati possono essere analoghi, dalla preterizione dei successibili ex lege (7): infatti, in ossequio
alla libertà di testare, il soggetto ha la possibilità di
attribuire il suo patrimonio solamente ad uno o ad
alcuni dei suoi eredi legittimi, pretermettendo gli altri non menzionati. La preterizione quindi risulta essere un effetto negativo indiretto di una disposizione
attributiva positiva a favore di alcuni e indirettamente privativa di altri soggetti che, in base alle regole di successione ex lege, sarebbero stati eredi. In
altre parole il pretermesso viene escluso non con
una menzione di contenuto negativo nei suoi confronti, ma mediante omissione nell’ambito di una
istituzione di erede che esaurisca l’asse ereditario.
Ovviamente, il soggetto pretermesso nel caso di successione legittima (per i beni non attribuiti) o nel
caso di mancata operatività della successione testamentaria (in caso di invalidità del negozio mortis
causa) potrebbe comunque succedere al de cuius (8),
per cui l’esclusione è solo eventuale (9).
Infine, discorso diverso bisogna fare anche per l’indegnità, istituto che prevede cause di esclusione tassative e che si applica anche ai legittimari, a differenza della diseredazione (10).
L’orientamento negativo
La dottrina più risalente (11) e la costante giurisprudenza di legittimità (12) hanno abbracciato, seppure
con diverse sfumature e diversi processi argomentativi,
la tesi che si oppone all’ammissibilità della clausola.
L’argomentazione principale risiede nella interpretazione testuale dell’articolo 587 c.c. che qualifica il
testamento quale “atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”.
Proprio partendo dalla lettera della norma citata si è
ritenuto che la funzione del testamento sia quella di
“disporre”, e cioè di attribuire i beni facenti parte del
patrimonio del testatore.
Invero, essendo il testamento un atto tipico in senso
150
formale, e cioè che si caratterizza per la tipicità di contenuto, questo potrebbe ricomprendere solo delle disposizioni attributive nelle forme dell’istituzione di erede o di legato (le uniche contemplate nell’art. 588,
comma 1, c.c.), e non altro tipo di regolamentazione
Note:
(4) Esempio di clausola nel caso di testatore con tre fratelli: “Istituisco eredi i miei fratelli Primo e Secondo”; senza nominare Terzo.
(5) Esempio: “Dei miei tre fratelli, escludo dalla mia successione
solamente Primo”.
(6) Specificano così, tramite la suddivisione in tre fattispecie, il
concetto di diseredazione Vespasiani, La diseredazione ed il problema della validità di un testamento meramente negativo: tra tipicità dei contenuti e tipicità della funzione, in Studium Iuris,
2005, 1217 e De Maio, Brevi note in tema di diseredazione, in
Studium Iuris, 2008, 4, 516.
(7) Cfr. sul tema Pinna Vistoso, Diseredazione, istituzione implicita e riabilitazione del diseredato: un nuovo caso giurisprudenziale sulla volontà testamentaria di esclusione, nota a sentenza
Corte d’appello di Cagliari, sez. dist. di Sassari, 12 gennaio 1996,
n. 31, in Riv. giur. sarda, 1998, 1, 8; Corsini, Appunti sulla diseredazione, in Riv. not., 1996, 1094; Ferri, cit., 231 ss.; Id., Dei legittimari, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e
Branca, artt. 536-564, 1981, sub art. 551, 131.
(8) Motivo per cui, in caso di volontà di fatto diseredativa, si suggerisce come tecnica redazionale l’istituzione di erede, con la
previsione di una serie di sostituzioni successive (c.d. a cascata),
magari con l’ultima a favore di un ente pubblico. In tal senso Corona, La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, in Riv. Not., 1992, 506; Corsini, Appunti
sulla diseredazione, in Riv. Not., 1996, 1093; Russo, La diseredazione, 1998, 4 ss.; Cavandoli, Clausola di diseredazione e testamento, nota a sentenza Trib. Reggio Emilia, sez. I, 27 settembre 2000, n. 877, in Vita Not., 2001, 2, 708; Ieva, Manuale di
tecnica testamentaria, 1996, 129.
(9) Trasatti, cit., 1312, qualifica l’esclusione dall’eredità a seguito
di preterizione come indiretta ed eventuale, per differenziarla
dalla esclusione conseguente a diseredazione che discende in
via diretta dalla volontà testamentaria.
(10) Per una sintetica ricostruzione ed alcuni riferimenti bibliografici sull’istituto dell’indegnità si rinvia alle pagine successive
del presente commento.
(11) Ferri, Se debba riconoscersi efficacia ad una volontà testamentaria di diseredazione, in Foro pad., 1955, I, 47; Cicu, Diseredazione e rappresentazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, I, 385;
Funaioli, La successione dei legittimari, in Riv. dir. civ., 1965, I, 29;
Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, 1954, 317 ss.;
Jemolo, La diseredazione, in Riv. dir. civ., 1965, II, 504; Mirello, In
margine alla clausola di diseredazione; la tematica della c.d. volontà meramente negativa, in Riv. not., 1981, 744; Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, III, 2, 1952, 47; Giampiccolo, Il
contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, 1954, 317; Cariota-Ferrara, Successioni per
causa di morte, I, 2, 1956, 27: Cicu, Diseredazione e rappresentazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, 385; Carresi, Autonomia privata nei contratti e negli altri atti giuridici, in Riv. dir. civ., 1957, I,
265; Ferri, op. ult. cit., 53; Id., L’esclusione testamentaria di eredi,
cit., 228; Torrente, voce Diseredazione (Diritto vigente), in Enc. dir.,
XIII, 1964, 102; Capozzi, Successioni e donazioni, 1, 1982, 134;
Mengoni, Successione per causa di morte, Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm., XLIII, 2, 1990, 94.
(12) Il primo pronunciamento della Suprema Corte è Cass. 20
giugno 1967, n. 1458, in Foro it., 1968, I, 574 e in Giust. civ.,
1967, I, 2032. Nello stesso senso segnaliamo Cass., 23 novembre 1982, n. 6339, in Mass. Giur. it., 1982, e Cass., 18 giugno
1994, n. 5895, in Notariato, 1995, II e in Corr. giur., 1994, 1498.
Famiglia e diritto 2/2013
Giurisprudenza
Successioni
degli assetti futuri del patrimonio del testatore. Pur ammettendo che nel testamento possono essere contemplate disposizioni di carattere patrimoniale non attributive di beni (13), secondo tale corrente dottrinale esse
incidono solo marginalmente sul regolamento dell’eredità, e tra l’altro potrebbero anche essere contenute in
un atto diverso dal testamento. Pertanto si conclude
che l’art. 587 c.c. con l’espressione “disporre” implica
una decisione attuale ed attributiva dei beni, sicché incompatibile sarebbe una disposizione non attributiva,
priva di contenuto rilevante ai fini patrimoniali.
Altro argomento, di natura storica, è rappresentato
dal dogma della prevalenza della successione legittima sulla testamentaria (14), in quanto la prima troverebbe fondamento non nella presunta volontà del
de cuius ma nella tutela delle ragioni della famiglia
(15). In questa prospettiva, nella quale le norme sulla successione legittima tutelano il superiore interesse a che il successore sia un parente, la clausola di diseredazione, non essendo contenuto tipico del testamento, non sarebbe in grado di far prevalere le disposizioni testamentarie sulle previsioni di legge.
Ulteriore argomento storico è rappresentato dal fatto che sia nel codice del 1865, sia in quello attuale,
si è verificato l’assorbimento delle ipotesi di diseredazione in quelle di indegnità: infatti i motivi più
gravi che, di fatto, potevano dare luogo alla diseredazione sono previsti come cause di indegnità (16).
Nello stesso ordine di idee, alcuni autori (17) negano l’ammissibilità della clausola di diseredazione
poiché essa comporterebbe una implicita estensione
ad opera del testatore, e non della legge, dei casi di
indegnità tassativamente previsti dall’art. 463 c.c.
Ma come abbiamo già detto, l’indegnità (18) è istituto diverso, previsto dalla legge per specifiche cause, e che può anche colpire i legittimari.
I pochissimi pronunciamenti della giurisprudenza di
legittimità, che da alcuni autori (19) vengono classificati come portatori di una tesi intermedia tra
quella positiva e quella negativa, in realtà rappresentano un’appendice dell’orientamento negativo
(20): è ammessa la diseredazione solo ove si accompagni ad una istituzione implicita di altri eredi (21).
È evidente perciò che in tali pronunce non si ammette la validità di una clausola “negativa”, ma semNote:
(13) Ad esempio la revoca del beneficio nel contratto a favore di
terzo ex art. 1412 c.c. o la designazione e la revoca della designazione del beneficiario di una assicurazione sulla vita a favore
di terzo ex artt. 1920 e 1921 c.c.
(14) Si esprime in tal senso Barreca, Ancora sulla diseredazione,
nota a Corte di App. Catania 28 maggio 2003, in Giur. merito,
2005, 2, 274, che considera tale dogma oramai superato, anche
sulla base dell’art. 357, comma 2, c.c.
Famiglia e diritto 2/2013
(15) Santoro-Passarelli, Vocazione legale e vocazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1942, I, I97 ss.; Nicolò, Vocazione ereditaria
diretta e indiretta, in Annali Università Messina, VIII, 1934-35,
149; Pugliatti, Alcune note sulle successioni legittime, in Annali
Università Messina, V, 1930-31, 392; Cicu, Successioni, cit., 144;
Rescigno, Interpretazione del testamento, 1952, 148.
(16) Con riferimento al codice civile del 1865 vedi Gianzana, Codice civile preceduto dalle relazioni, I, 1887, 76; per il codice vigente Pandolfelli, Scarpello, Stella Richter, Dallari, Il codice civile
illustrato con i lavori preparatori. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, 1939, 103.
(17) Messineo, Manuale di dir. civ. e comm., VI, 1962; Capozzi, op.
cit., 201. L’argomento si riscontra anche in giurisprudenza: cfr. Trib.
S.M. Capua Vetere 25 maggio 1960, in Foro pad., 1961, I, 369.
(18) Secondo la teoria prevalente l’indegnità ha natura giuridica
di causa di esclusione dalla successione; però il fondamento dell’istituto è da ritrovarsi in una sanzione civile, dal fondamento
pubblicistico, poiché è socialmente ingiusto che l’ordinamento
consenta di conseguire un vantaggio nei confronti di un soggetto che subisce un illecito, non di rado costituente reato. In tal
senso Capozzi, cit., 124; Cicu, cit., 52 ss.; Ferri, cit., 166; Prestipino, cit., 113.
(19) Pinna Vistoso, Diseredazione, cit., 15; Cavandoli, cit., 713.
(20) In questo senso Pastore, Riflessioni sulla diseredazone, in
Vita Not., 2011, 2, 1192. Non si può quindi condividere la ricostruzione che ricava dalla disposizione negativa una volontà positiva, facendo ricorso al principio di derivazione francese “exclure, c’est instituer” attraverso cui si interpreta una mera disposizione negativa trasformandola in una presunta e implicita
disposizione positiva; in altre parole, ogni disposizione di esclusione sottinderebbe una volontà di istituire gli altri eredi legittimi.
Cfr. in tal senso Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del
contenuto del testamento, 1966; Cavandoli, op. cit., 699.
(21) Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, cit., nella quale nella quale
oggetto del giudizio era un testamento con la seguente clausola: “Nelle mie piene facoltà mentali ed in perfetta salute dichiaro, qualora io debba mancare, di escludere dalla mia eredità, e
cioè da tutto quello che io posseggo, le mie nipoti A e B, figlie
del mio defunto fratello C, per il loro indegno comportamento
verso di me e dei miei fratelli”. Il Tribunale accertò la nullità della disposizione, ritenendola meramente negativa, e dichiarò
aperta la successione legittima (anche quindi a favore delle nipoti escluse nel testamento). Invece la Corte d’appello e la Cassazione ritennero che la clausola contenesse, oltre alla disposizione negativa di diseredazione, anche l’istituzione implicita dei
fratelli, sulla base di una interpretazione letterale associata a
quella logica ed anche ad elementi sussidiari tratti al di fuori del
testamento. Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, cit., nella quale si
decise su una clausola del seguente tenore: “lo sottoscritto (...
). Esprimo la propria volontà con piena e serena conoscenza, in
caso di morte o di legittimo impedimento, escludo dai miei beni
mobili o immobili i propri fratelli (... ), con loro anche le loro famiglie non devono beneficiare nulla delle mie cose che mi appartengono, intendo dire, case, terreni, bestiame, denaro, macchine e attrezzature varie”. Il Tribunale ritenne valida la diseredazione e dichiarò aperta la successione legittima a favore degli
eredi legittimi non esclusi. La Corte d’appello confermò la sentenza di primo grado, ma ravvisò un’istituzione implicita degli altri fratelli, sulla base della interpretazione del testamento nonché di elementi esterni. Tuttavia la Corte d’appello, probabilmente in modo incongruente, non dichiarò l’apertura della successione testamentaria, ma di quella legittima, pur se modificata dalla presenza della disposizione negativa. La sentenza di appello fu poi confermata dalla Cassazione citata. Tale impostazione trova riscontro anche in dottrina, cfr. Torrente, op. cit., 103;
ed è seguita anche dalla giurisprudenza di merito: App. Cagliari
5 dicembre 1990; App. Cagliari, sezione distaccata Sassari, 12
gennaio 1996; Trib. Reggio Emilia 27 settembre 2000; App. Catania 28 maggio 2003, tutte citate.
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Giurisprudenza
Successioni
plicemente si ammette una clausola “positiva”, seppure affiancata da una diseredazione implicita. Ciò
probabilmente per evitare di dichiarare nullo il testamento e, per il principio di conservazione ex art.
1367 c.c., interpretandolo nel senso in cui possa
avere efficacia al fine ultimo di rispettare la volontà
del testatore (22); diversamente si aprirebbe la successione legittima e sarebbero chiamati anche i soggetti che il testatore aveva voluto escludere (23).
In definitiva, tale giurisprudenza giunge all’esito di
salvare la volontà del testatore, ammettendo la validità della disposizione che verrà fatta valere come
istituzione implicita di erede.
L’orientamento positivo
La tesi che ammette la clausola di diseredazione, peraltro, pare oggi prevalere in dottrina (24) ed è stata
accolta da diversi pronunciamenti di merito (25).
Si fa leva proprio sull’argomento testuale posto a base della dottrina negativa, ricostruendo la portata
dell’art. 587 c.c. in maniera più ampia: il termine “disporre” non ricomprenderebbe solamente le volontà
attributive in senso stretto, ma più in generale tutte
le disposizioni volte a regolare l’assetto patrimoniale
del testatore al momento dell’apertura della successione. Infatti anche il non attribuire ad alcuno dei
successibili costituisce una valida disposizione, giacché non è assolutamente equivalente all’assenza di
manifestazione di volontà, che sarebbe priva di effetti. In altre parole, ciò che cambia è il contenuto della disposizione, non positivo ma negativo (26).
Inoltre si contesta l’assunto che ai sensi degli artt.
587 e 588 c.c. il contenuto del testamento possa essere solo tipico, ovvero contenere esclusivamente
istituzioni di erede o legati: la tipicità del testamento cioè non va intesa in relazione al contenuto, bensì con riguardo alla sua funzione, e la funzione tipica
del testamento è quella di regolare la sorte del patrimonio del de cuius. In tale prospettiva, la clausola di
diseredazione è espressione di detta funzione, e
quindi da considerarsi tipica, come tutte le clausole
e disposizioni che assolvono la medesima funzione
cui il testamento è deputato (27).
A tal riguardo si può osservare come già da tempo sia
caduta la convinzione che unico contenuto tipico del
testamento possano essere istituzione di erede e legato. Molte norme contemplano disposizioni, pur di
contenuto patrimoniale, che non implicano un’attribuzione in senso stretto, nella accezione sopra specificata; disposizioni, che non possono essere considerate
solo regolamentative, e quindi solo accessorie (cioè
che si devono sempre accompagnare ad una disposizione principale attributiva): l’onere ex art. 647 c.c.
152
(28); i divieti testamentari di divisione ex artt. 2565,
comma 3 e 713, commi 2 e 3, e le norme date dal testatore per la divisione ex art. 733 c.c. (29); la dispensa dalla collazione ex art. 737 c.c. (30); la disposizione
con cui il testatore deroga al principio della ripartizione tra i coeredi dei debiti ereditari in proporzione delle rispettive quote ex art. 752 c.c. (31); la disposizioni
Note:
(22) Pfnister, La clausola di diseredazione, in Riv. Not., 2000,
925, la definisce una “impostazione di compromesso, che consente di salvare con un artificio logico-interpretativo la disposizione di diseredazione senza discostarsi dalle tradizionali affermazioni della dottrina circa la tipicità del testamento”; Bigliazzi
Geri, Il testamento, in Trattato Rescigno, 6, 1997, 120, reputa la
soluzione della giurisprudenza “ibrida ed inappagante” in quanto
se ammette la validità in linea teorica della nostra clausola, tuttavia solo a patto che in via d’interpretazione si possa individuare anche una volontà attributiva a favore di altro successibile.
(23) Pastore, cit., 1193, peraltro ritiene tale percorso interpretativo
un espediente, una mera finzione, in quanto nulla può far ritenere
che la volontà del testatore fosse quella di compiere una attribuzione implicita, quando probabilmente egli volesse semplicemente diseredare, senza curarsi di chi poi sarebbe stato il successore.
(24) Azzariti, cit., 1197 ss.; Bianca, Diritto Civile, 2. La famiglia.
Le successioni, 1985, 564 e ss.; Bigliazzi Geri, Delle successioni
testamentarie (art. 587-600), in Comm. c.c. Scialoja-Branca a cura di Galgano, 1993, 95 ss.; Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli,
Diritto civile. 4. Le successioni a causa di morte, 1996, 102-103;
Bin, op. cit., 222 ss.; Bonilini, Nozioni di diritto ereditario, 1986,
93; Grosso Burdese, Le successioni. Parte generale, in Tratt. di
dir. civ. diretto da Vassalli, XII, 1977, 83; Lipari, Autonomia privata e testamento, 1970, 240; Rescigno, Le successioni testamentarie. Nozioni generali, in Successioni e donazioni a cura di
Rescigno, I, 1994, 651-652; Id., Manuale del diritto privato italiano, 1975, 530; Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv. dir civ., 1970, I, 39 ss.; Porcelli, Autonomia testamentaria ed esclusione di eredi, in nota a Trib. Reggio
Emilia 27 settembre 2000, in Notariato, 2002, 60; Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuto, in Successioni e donazioni a cura di Rescigno, I, 1994, 751-752.
(25) Trib. Lucca 6 novembre 1953, in Giur. tosc. 1954, 212; App.
Firenze 9 settembre 1954, in Giur. it., 1955, I, 2, 750; App. Napoli 21 maggio 1961, in Foro pad., 1962, I, 939; Trib. Parma 3
maggio 1977, in Riv. Not., 1977, II, 689; Trib. Nuoro 15 settembre 1989, in Riv. giur. sarda, 1991, 389; Trib. Catania 21 febbraio
2000, in Giur. it., 2001, I, 70 e in Famiglia, 2001, 1, 1210; App.
Genova 16 giugno 2000, cit.
(26) In tal senso Bigliazzi Geri, cit., 121 ss.
(27) Cfr. Pinna Vistoso, cit., 13; Bandiera, Sulla validità della diseredazione, in Riv. giur. sarda, 1991, 407.
(28) Nella ricostruzione della prevalente dottrina non più un elemento accidentale, bensì una disposizione testamentaria autonoma, limitativa. In tal senso Criscuoli, Le obbligazioni testamentarie,
1980, 198; Gazzoni, L’attribuzione patrimoniale, mediante conferma, 1974, 485; Perego, Favor legis e testamento, 1968, 180; Liserre, Formalismo negoziale e testamento, 1966, 159; Bin, cit., 164;
Giorgianni, Il modus testamentario, in Riv. dir. e proc. civ., 1957, 921
ss.; Cataudella, Sul contenuto del contratto, 1966, 217 ss.
(29) Sono qualificati come veri e propri oneri, e quindi possono
essere l’unico contenuto del testamento.
(30) È ammesso un testamento con la dispensa come unica disposizione.
(31) Ha una natura autonoma e può essere unico contenuto del
testamento, ben potendo incidere sui debiti e pesi relativi alle
quote risultanti dalle norme di successione legittima.
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Giurisprudenza
Successioni
sul diritto all’utilizzazione postuma dell’opera dell’ingegno ex art. 115 della legge sul diritto d’autore; l’istituzione di una fondazione ex art. 14, comma 2, c.c.
(32); la riabilitazione dell’indegno ex art. 466 c.c.
(33); la diversa disposizione per la ditta nella successione di azienda per causa di morte (34); nonché addirittura disposizioni negative: la revocazione espressa del testamento ex art. 680 c.c.; la revocazione della
revocazione ex art. 681 c.c. (35); la disposizione contraria alla costituzione di servitù per destinazione del
padre di famiglia ex art. 1062 c.c. (36).
Ancora, secondo tale orientamento non è da accogliere il dogma della prevalenza della successione legittima su quella testamentaria: esse infatti sono pariordinate, e a maggior ragione dopo la riforma del
diritto di famiglia, in quanto la legge consente tramite la successione testamentaria di impedire l’operatività della successione legittima, anche totalmente. Per cui a fortiori si dovrà ammettere una disposizione di minore portata, tendente a escludere qualcuno dal novero dei legittimari (37).
Inoltre, può aggiungersi che, sebbene la clausola di
diseredazione non sia prevista da alcuna esplicita
previsione normativa, essa tuttavia non è vietata ed
effetti quasi identici possono essere conseguiti con
l’istituto della preterizione, certamente ammessa,
come già sopra evidenziato.
Quanto poi all’argomento che vorrebbe non ammettere la diseredazione per la sua commistione con
le tassative cause di indegnità, abbiamo già dato
conto della diversa natura giuridica dei due istituti,
ed aggiungiamo, come rileva la dottrina (38), che la
maggioranza della cause di indegnità previste dal codice civile non si sovrappongono alla possibilità di
disporre una diseredazione, sia in quanto le fattispecie previste si riferiscono a fatti successivi all’apertura della successione, sia perché si riferiscono a condotte dirette contro l’integrità fisica del testatore;
ragione per cui si dovrà ribadire il diverso ambito di
operatività dei due istituti.
In conclusione, ammessa la clausola di diseredazione, si discute se dovrà aprirsi la successione legittima
o quella testamentaria (39).
Sebbene parte della dottrina sostenga che si apra la
successione legittima, come in tutti i casi in cui manchi il testamento, in realtà quest’ultimo è presente, e
tra l’altro va pubblicato al fine di farne dispiegare gli
effetti, in quanto la clausola di diseredazione avrà
una funzione limitativa della stessa successione legittima. In definitiva si aprirà, ma in via “suppletiva”, la
successione legale a favore degli eredi legittimi, con
l’esclusione di quelli diseredati sulla base delle integrazioni ricavate dal testamento (40).
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La posizione favorevole della Suprema
Corte
Nella sentenza in epigrafe (41) la Corte di Cassazione espressamente si discosta dai precedenti arresti,
accogliendo il motivo di ricorso e cassando la sentenza di appello. La sentenza di appello, aderendo
all’orientamento inaugurato da Cass. n. 1458/1967
(42), fornisce anzitutto ai giudici di legittimità l’opportunità di sottoporre a vaglio critico l’orientamento tradizionale e, specificamente, quest’ultima
decisione: se ne rileva infatti la contraddittorietà dal
momento che, sostenendo la tesi dell’invalidità della clausola di diseredazione, avrebbe dovuto dichiarare la nullità del testamento e dichiarare aperta la
successione legittima; al contrario, la decisione criticata giunge a individuare una istituzione implicita
a favore degli altri successibili e a dichiarare l’apertura della successione testamentaria. In altre parole,
la Cassazione del 1967 ha in realtà finito col ritenere valida la clausola di diseredazione sia quando si
accompagni a disposizioni attributive esplicite, sia
Note:
(32) Non può essere inquadrata né nella istituzione di erede né
nel legato, essendo una tipica modalità di costituzione della fondazione.
(33) Pur non avendo carattere attributivo è una disposizione tipica, di contenuto e rilevanza patrimoniale.
(34) Anche in tal caso il testamento potrebbe contenere anche
solo tale disposizione, da ricostruire come un onere a carico del
successore nell’azienda, consistente nell’obbligo di non fare,
cioè una disposizione estintiva del diritto all’uso della ditta. In tal
senso Pfnister, cit. 922; Bin, cit., 235 ss.
(35) Sembra pacifica la natura patrimoniale e negativa della revoca. In tal senso Pastore, cit. 1200; Talamanca, Delle successioni
testamentarie (artt. 679-712), in Comm. c.c. a cura di Scialoja e
Branca, 1965, 5 ss.; Capozzi, cit., 985; in giurisprudenza Cass. 7
maggio 1968, n. 1405, in Giust. civ., 1968, I, 2026.
(36) È disposizione autonoma, negativa e patrimoniale.
(37) In tal senso Prestipino, Delle successioni in generale, in
Comm. teorico-pratico al cod.civ., diretto da De Martino, 1981,
49-51; Ferri, Disposizioni generali sulle successioni (artt. 456511), cit., 85 ss.; Mengoni, Delle successioni legittime , in
Comm. Scialoja-Branca, 1983, 11 ss.; Id., Successioni per causa
di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 19 ss.
(38) Trasatti, cit., 1315.
(39) Saggio, Diseredazione e rappresentazione, in Vita not.,
1983, 1791, per l’apertura della successione testamentaria.
Grosso Burdese, Le successioni, in Trattato Vassalli, 1977, 83,
per la tesi dell’apertura della successione legittima.
(40) Cfr. Cavandoli, cit., 702.
(41) Pubblicata anche in Notariato, 2013, 1, 24 ss., con nota di R.
Cimmino, Diseredazione e ricostruzione causale del negozio testamentario.
(42) Nella sentenza vengono citate anche Cass. 23 novembre
1982, n. 6339, cit., e Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, cit., entrambe non condivise in quanto basate sull’equivalenza tra
esclusione e istituzione implicita degli altri successibili.
153
Giurisprudenza
Successioni
quando, pur essendo l’unico contenuto del testamento, si possa recuperare in via interpretativa una
implicita volontà attributiva.
Inoltre la sentenza in commento critica l’argomento
principale su cui si basa la sentenza del 1967, ovvero la disciplina degli artt. 587 e 588 c.c.: vero è infatti, spiega la Corte, che le disposizioni testamentarie devono avere contenuto patrimoniale, e tuttavia
ciò non significa che debbano anche avere di per sé
funzione attributiva: tale risultato attributivo-devolutivo infatti potrà essere conseguito mediante il ricorso all’integrazione con le regole di successione legittima (43).
Quanto alle argomentazioni proposte dalla Corte, in
primo luogo si sostiene che se è ammissibile la pretermissione di tutti gli eredi legittimi, ovvero la
esclusione da tutti i beni tramite l’assegnazione totale del patrimonio ad altri soggetti, a maggior ragione
si potrà semplicemente escludere un successibile
con una disposizione negativa.
Il secondo ragionamento della Corte, in ossequio all’orientamento positivo della dottrina di cui si è dato conto, si basa sull’interpretazione dell’art. 587
c.c., il quale non richiederebbe esclusivamente una
volontà “attributivo-istitutiva”, ma includerebbe
anche una volontà “ablativo-destitutiva”. E a sostegno della considerazione vengono richiamate diverse fattispecie contemplate da molte norme, che integrano disposizioni di contenuto patrimoniale, certamente dispositive, ma che non implicano un’attribuzione in senso stretto, quali ad esempio la dispensa da collazione, l’assegno divisionale semplice,
l’onere testamentario, la ripartizione dei debiti ereditari, la disposizione contraria alla costituzione di
servitù per destinazione del padre di famiglia, la disposizione a favore dell’anima, i divieti testamentari
di divisione, come più sopra rammentato.
Il terzo argomento richiama la libertà nel disciplinare la sorte dei propri beni riconosciuta al testatore,
pur se, a sostegno di tale riflessione, si propongono
figure che determinano sì una efficacia negativa del
testamento, ma che non sono costruite in termini di
disposizioni negative: a tal proposito la Corte menziona la damnosa hereditas, l’esclusione dei legittimari dalla quota disponibile tramite l’istituzione nella
sola quota di legittima o il legato privativo ex art.
551 c.c., l’esclusione dell’istituto della rappresentazione (44).
Considerazioni finali
La Cassazione finalmente assume sul tema una posizione chiara e non di compromesso (tendente da un
lato a salvare la volontà del testatore e dall’altro a non
154
discostarsi dal principio di invalidità di volontà meramente negative), allineandosi alle argomentazioni
della dottrina che recentemente è prevalsa sul tema.
Restano, in ultima considerazione, da individuare i
limiti all’affermata validità della clausola di diseredazione. Certamente non è ammissibile una clausola di diseredazione nei confronti dei legittimari, anche se non c’è accordo sulla sanzione applicabile
(45). Neanche pare potersi ammettere una clausola
generale volta a escludere tutti i successibili, compreso lo Stato (46). A limite potrebbe ammettersi
una esclusione di tutti i parenti o solo di alcuni, oppure anche dello Stato solamente, purché rimanga
qualcuno tra gli eredi legittimi a poter essere chiamato. Ciò per tutelare l’esigenza di ordine pubblico
di dare sistemazione ai rapporti giuridici rimasti senza titolare alla morte del de cuius.
Note:
(43) La contestuale operatività delle regole di successione legittima e testamentaria trova riscontro nella lettera dell’art. 457
c.c., che di fatto nega la gerarchia tra le due fonti di successione,
ma anzi ne riconosce un rapporto di “reciproca integrazione”.
Tant’è che alla fine la Corte definisce la lite disponendo l’apertura della successione legittima a favore dei non esclusi, integrata
dalla clausola di diseredazione.
(44) In realtà i richiami citati dalla Cassazione non sono in linea
con struttura della clausola di diseredazione, che presenta una
formulazione negativa. Infatti sia l’istituzione in una eredità con
poste passive superiori a quelle attive, sia l’istituzione nella sola
quota di legittima, sia infine il legato in sostituzione di legittima
ex art. 551 c.c., rappresentano delle volontà attributive positive.
Semmai più calzante sembra il richiamo all’esclusione diretta
della rappresentazione.
(45) Alcuni autori (Cerere, Brevi note sulla diseredazione, in Giur.
it., 1995, I, 1568, nota 11; Moscarini, La donazione tacitativa di
legittima, in Vita not., 2000, 705; Saggio, cit., 1789; Vitale, Volontà testamentaria e diseredazione, in Monit. Trib., 1974, 712)
ritengono la clausola violi l’art. 457, comma 3, c.c., altri (Mengoni, Successione per causa di morte, cit., 22, nota 59; Miriello, In
margine alla clausola di diseredazione; la tematica della c.d. volontà meramente negativa, in Riv. Not., 1981, 746) l’art. 549 c.c.
In entrambi i casi la sanzione è quella della nullità della disposizione; mentre diversa tesi (Azzariti, cit., 1197; Notari, Volontà testamentaria e diseredazione, in Riv. Not., 1957, 110; Trabucchi,
cit., 55 e 59) afferma la mera riducibilità della disposizione a seguito dell’esperimento dell’azione di riduzione.
(46) In tal caso si incorrerebbe nella sanzione della nullità. In tal
senso Bin, op. cit., 269 ss. Secondo Bergamo, Brevi cenni su
un’ipotesi di diseredazione anomala implicita, in nota a Cass. 12
febbraio 2000, n. 1537, in Giur. it., 2000, 71, l’invalidità deriverebbe dalla contrarietà all’ordine pubblico.
Famiglia e diritto 2/2013
1779
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
fetti pure nell’area della successione senza testamento
essendo, come si è detto, fuori discussione che il c.d.
legato ex lege possa altresı̀ essere invocato in quest’ultima tipologia di vocazione. D’altra parte la stessa Corte costituzionale — con la decisione dianzi citata 15 —
aveva specificato che nella successione legittima i diritti di godimento e di uso spettano al coniuge in
quanto riservatario.
I superiori rilievi mettono a nudo la fragilità dell’idea
accolta dalle Sezioni unite secondo cui «i diritti di
abitazione ed uso nella successione legittima devono
prescindere dal procedimento di imputazione» dettato
dall’art. 540, comma 2, c.c. 16 L’idea non persuade
giacché segrega la norma sul computo del c.d. legato
normativo nel recinto della successione necessaria.
L’additata segregazione genera le storture asistematiche di cui si è detto poco fa; cosı̀ argomentando sembra che la Cassazione, a dispetto delle parole spese in
motivazione, qualifichi tale successione come un tertium genus di vocazione 17. O, il che è peggio, estenda
in subiecta materia il criterio di conteggio previsto in
tema di prelegato mortificando lettera e ratio dell’art.
540, comma 2, c.c. 18
4. Il nesso tra Sezioni semplici e Sezioni unite.
Le Sezioni semplici avvertono che la tesi accolta non
contraddice il precedente delle Sezioni unite, dato che
quest’ultimo si riferisce alla successione legittima mentre oggetto della controversia sottoposta al loro esame
è una situazione successoria governata dall’atto di ultima volontà redatto dal coniuge defunto.
A questo punto si prospetta il seguente esito applicativo: a) in caso di successione testamentaria il valore
dei diritti di uso e di abitazione deve essere senz’altro
calcolato secondo la regola d’imputazione ex art. 540,
comma 2, c.c.; b) nell’eventualità di vocazione ab intestato occorrerà all’opposto applicare un meccanismo
di computo simile a quello del prelegato.
Ciò significa che alla soddisfazione dei diritti di godimento riservati al coniuge superstite si provvede —
all’infuori del matrimonio putativo — mediante prededuzione: il valore di tali diritti viene stralciato dall’asse e sul relictum si apre la successione legittima. Ne
conseguirebbe un’incongruente disparità di trattamento che, come già anticipato, sembrerebbe urtare contro la lettera e la ratio della normativa introdotta dalla
legge del 1975. Siamo pertanto convinti che il tema qui
discusso è tutt’altro che chiuso.
Roberto Calvo
nell’art. 540, comma 2, c.c., prescinde dalla lesione dei diritti
dei legittimari perché — torna utile ripetere — intende prevenirla.
15
Cui si è affiancata un’accreditata dottrina: Mengoni, Successioni per causa di morte, cit., 169.
16
In tal senso v. Ravazzoni, I diritti di abitazione e di uso a
favore del coniuge superstite, cit., 234 e seg., secondo cui «dal
patrimonio relitto si stralcia, in primo luogo, il diritto di abitazione della casa e di uso dei mobili, che viene acquistato direttamente dal coniuge superstite. Trattandosi, per l’appunto, di
legato, non occorre accettazione, salva, anche in questo caso, la
facoltà di rinunziare; e successivamente, su quanto resta, si fa
luogo alla divisione, ai sensi dell’art. 581 c.c.» (ivi, 235). Ma v.
DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
Cassazione civile, Sezioni unite, 27 febbraio
2013, n. 4847 — Preden Presidente — Mazzacane
Estensore — Ceniccola P.M. (concl. conf.) — B.C.
Z.A. (avv.ti Infelisi, Bergamo) - B.D. (avv. Pascucci).
Cassa App. Venezia, 6 ottobre 2009, n. 1646.
Successioni — Successione necessaria — Successione legittima — Diritti di abitazione sulla casa familiare e di uso sui mobili che la corredano spettanti al
coniuge superstite — Legato — Prelegato (C.c. art.
540, comma 2).
Nella successione legittima spettano al coniuge del de
cuius i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza
familiare e di uso sui mobili che la corredano previsti
dall’art. 540, comma 2; il valore capitale di tali diritti
deve essere stralciato dall’asse ereditario per poi procedere alla divisione di quest’ultimo tra tutti i coeredi
secondo le norme della successione legittima, non tenendo conto dell’attribuzione dei suddetti diritti secondo un
meccanismo assimilabile al prelegato (1).
A
Omissis. — La decisione relativa all’enunciato motivo
comporta l’esame anzitutto della questione — evidenziata nella menzionata ordinanza di rimessione — riguardante la spettanza o meno in favore del coniuge superstite,
nella successione legittima, dei diritti di abitazione e di uso
previsti dall’art. 540 c.c., comma 2, (comunemente qualificati dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza come
legati ‘‘ex lege’’, vedi al riguardo Cass. 10-3-1987 n. 2474;
Cass. 6-4-2000 n. 4329; Cass. 15-5-2000 n. 6231), e, nell’ipotesi di risposta affermativa in proposito, dell’ulteriore
questione se tali diritti debbano o meno aggiungersi alla
quota intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c.
La prima questione nasce dal rilievo che, mentre l’art. 540
c.c., comma 2, che disciplina la riserva a favore del coniuge
superstite, prevede che a quest’ultimo ‘‘anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione
sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che
la corredano, se di proprietà del defunto o comuni’’, gli artt.
581 e 582 c.c., i quali disciplinano nell’ambito della successione legittima rispettivamente il concorso del coniuge con i
figli ovvero con ascendenti legittimi, fratelli e sorelle del ‘‘de
cuius’’, non fanno riferimento a tali diritti; peraltro l’art. 584
c.c., che regola la successione del coniuge putativo, prevede
espressamente l’applicabilità in favore di quest’ultimo della
disposizione dell’art. 540 c.c., comma 2.
La Corte costituzionale, affrontando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 581 c.c., in relazione agli artt. 3
e 29 Cost., nella parte in cui non attribuisce al coniuge,
chiamato all’eredità con altri eredi, i diritti previsti dall’art.
540 c.c., comma 2, viceversa riconosciuti al coniuge putativo, con ordinanza del 5-5-1988 n. 527 l’ha ritenuta manifestamente infondata, rilevando che detti diritti nella successione ‘‘ab intestato’’ sono attribuiti al coniuge nella sua qua-
le giuste obiezioni sollevate da G. Gabrielli, Sub art. 540, cit.,
66.
17
Contra, per tutti, Allara, Principı̂ di diritto testamentario,
Torino, 1957, 120.
18
Le Sezioni unite, per l’appunto, osservano conclusivamente che ai fini del calcolo dei diritti ex art. 540, comma 2, c.c.
«occorrerà stralciare il valore capitale di essi secondo modalità
assimilabili al prelegato, e poi dare luogo alla divisione tra tutti
gli eredi, secondo le norme della successione legittima, della
massa ereditaria dalla quale viene detratto il suddetto valore,
rimanendo invece compreso nell’asse il valore della nuda proprietà della casa familiare e dei mobili».
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
1780
lità di legittimario, che l’omesso richiamo dell’art. 540 c.c.,
comma 2, da parte degli artt. 581 e 582 c.c., vale unicamente
ad escludere che i diritti in oggetto competano al coniuge
autonomamente, ovvero che si cumulino con la quota riconosciutagli dagli articoli medesimi, che per converso il rinvio
contenuto nell’art. 584 c.c., significa soltanto che la legittima
aggiuntiva costituita dai due diritti di godimento spetta anche al coniuge putativo, ed ha quindi concluso ‘‘che, pertanto, le suddette disposizioni già vivono nell’ordinamento
con l’identico contenuto e portata che si vorrebbe raggiungere per via di reductio ad legitimitatem...’’.
Rilevato che comunque tale decisione non ha superato i
dubbi interpretativi suscitati dal sopra richiamato quadro
normativo di riferimento, si segnala che questa Corte con
sentenza del 13-3-1999 n. 22639, dopo aver premesso come
indubitabile l’estensione dei diritti di abitazione ed uso previsti dall’art. 540 comma 2 c.c. al coniuge nella successione
legittima in quanto l’eventualità che il coniuge putativo potesse godere di un trattamento diverso e più favorevole rispetto al coniuge legittimo sarebbe contraria al principio di
eguaglianza, ha prospettato due diverse soluzioni delle modalità attraverso le quali tali diritti vengono riconosciuti al
coniuge nella successione legittima; secondo un primo indirizzo essi sono riservati al coniuge come prelegati oltre la
quota di riserva, mentre un’altra ricostruzione, partendo dal
presupposto che nella successione legittima non trovano
applicazione gli istituti della disponibile e della quota di
riserva, afferma che i diritti in questione non si aggiungono,
ma vengono a comprendersi nella quota spettante a titolo di
successione legittima; tuttavia la Corte non ha risolto tale
questione, ritenendola irrilevante nella fattispecie sottoposta
al suo esame.
La successiva pronuncia di questa Corte del 6-4-2000 n.
4329 (cui, come esposto in precedenza, ha aderito la sentenza impugnata), l’unica che ha affrontato più approfonditamente e risolto la questione in ordine al riconoscimento al
coniuge superstite dei diritti di abitazione ed uso nella successione legittima, ha ritenuto che in tema di successione
necessaria l’art. 540 c.c., comma 2, determina un incremento
quantitativo della quota contemplata in favore del coniuge
in quanto i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza
familiare e di uso dei mobili che la corredano (quindi il loro
valore capitale) si sommano alla quota riservata al coniuge in
proprietà; posto che la norma stabilisce che tali diritti gravano, in primo luogo, sulla disponibile, si deve anzitutto
calcolare la disponibile sul patrimonio relitto ai sensi dell’art. 556 c.c., e, per conseguenza, determinare la quota di
riserva; calcolata poi la quota del coniuge nella successione
necessaria in base all’art. 540 c.c., comma 1, artt. 542 e 543
c.c., alla quota di riserva cosı̀ ricavata si aggiungono i diritti
di abitazione ed uso, il cui valore viene a gravare sulla disponibile, sempre che questa sia capiente; se la disponibile
non è sufficiente, i diritti di abitazione ed uso gravano anzitutto sulla quota di riserva del coniuge, che viene cosı̀ ad
essere diminuita della misura proporzionale a colmare l’incapienza della disponibile; se neppure la quota di riserva del
coniuge risulta sufficiente, i diritti di abitazione e di uso
gravano sulla riserva dei figli o degli altri legittimari.
La sentenza in esame ha quindi evidenziato che il primo
ostacolo che si oppone all’accoglimento della tesi favorevole
all’applicabilità del meccanismo di calcolo previsto dall’art.
540 c.c., comma 2, al coniuge nella successione legittima è
data dal rilievo che in tema di successione legittima non
trovano applicazione gli istituti della disponibile e della riserva; ma sussisterebbe un’altra ragione più persuasiva per
disattendere tale applicabilità, considerato che la riserva rappresenta il minimo che il legislatore vuole assicurare ai prossimi congiunti anche contro la volontà del defunto, e che i
diritti di abitazione ed uso fanno parte della riserva e dunque sono compresi nel minimo; orbene, per evitare che
attraverso la disciplina delle successioni legittime vengano
pregiudicati i diritti dei legittimari, l’art. 553 c.c., che serve
di raccordo tra la successione legittima e quella necessaria,
stabilisce che le porzioni fissate nelle successioni legittime,
ove risultino lesive dei diritti dei legittimari, si riducono
proporzionalmente per integrare tali diritti; peraltro dal siGiurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
stema della successione necessaria emerge che il legislatore
interviene nel meccanismo delle successioni legittime quando la quota spettante nella successione necessaria andrebbe
al di sotto della quota di riserva, mentre da nessuna norma
risulta che il legislatore abbia modificato il regime della
successione legittima per attribuire agli eredi legittimi (che
siano anche legittimari) più di quanto viene loro riservato
con la successione necessaria; poiché l’art. 553 c.c., vuole
fare salva l’intera riserva del coniuge (secondo il sistema
della successione necessaria), i diritti di abitazione e di uso
si aggiungono alla quota di riserva regolata dall’art. 540 c.c.,
comma 1, e art. 542 c.c.; per contro, non essendo ciò previsto da nessuna norma in tema di successione legittima, non
vi è ragione per ritenere che alla quota intestata contemplata
dagli artt. 581 e 582 c.c., si aggiungano i diritti di abitazione
e di uso.
Tanto premesso, si ritiene di dover dare risposta affermativa relativamente alla prima questione sottoposta all’esame
di questo Collegio, avente ad oggetto il riconoscimento o
meno in favore del coniuge anche nella successione legittima
dei diritti di abitazione ed uso riservati espressamente dall’art. 540 c.c., comma 2, al coniuge stesso, conformemente
all’opinione espressa ormai unanimemente dalla dottrina.
In tal senso milita anzitutto la ‘‘ratio’’ di tali diritti, riconducile alla volontà del legislatore di cui alla L. 19 maggio
1975, n. 151, di realizzare anche nella materia successoria
una nuova concezione della famiglia tendente ad una completa parificazione dei coniugi non solo sul piano patrimoniale (mediante l’introduzione del regime imperniato sulla
comunione legale), ma anche sotto quello etico e sentimentale, sul presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per
il coniuge superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la stabilità delle abitudini di vita
della persona; ebbene è evidente che tale finalità dell’istituto
è valida per il coniuge supersite sia nella successione necessaria che in quella legittima, cosicché i diritti in questione
trovano necessariamente applicazione anche in quest’ultima.
D’altra parte tale convincimento riceve conferma anche
sul piano del diritto positivo, posto che l’art. 540 c.c., comma 2, prevede la riserva dei diritti di abitazione ed uso al
coniuge ‘‘anche quando concorra con altri chiamati’’, e che
un concorso con ‘‘altri chiamati’’ ricorre, oltre che nella
successione testamentaria, anche in quella legittima; da tale
disposizione pertanto si evince che il legislatore ha voluto
attribuire al coniuge superstite, in conformità della sopra
enunciata ‘‘ratio legis’’, i suddetti diritti sulla casa adibita a
residenza familiare sia nella successione testamentaria che in
quella legittima, disciplinandone poi l’effettiva realizzazione
onde incidere soltanto entro ristretti limiti sulle quote di
riserva di altri legittimari (invero tali diritti debbono essere
soddisfatti nell’ambito della porzione disponibile ed eventualmente per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge,
mentre le quote dei figli vengono sacrificate soltanto se l’eccedenza del valore di essi superi anche la riserva del coniuge); ciò comporta che l’attribuzione di tali diritti previsti
dall’art. 540 c.c., comma 2, ha una valenza anche al di fuori
dell’ambito nel quale sono stati disciplinati, relativo alla tutela dei legittimari, e spiega il mancato richiamo ad essi da
parte degli artt. 581 e 582 c.c.
Una volta ritenuto che i diritti in oggetto spettano al coniuge anche nella successione ‘‘ab intestato’’, occorre esaminare la conseguente questione relativa ai criteri di calcolo del
valore della quota di detto coniuge, osservando che al riguardo sono state prospettate sostanzialmente due diverse
soluzioni.
Un primo indirizzo sostiene l’applicazione dell’art. 553
c.c., norma di collegamento tra la successione legittima e
successione necessaria, che dispone, in caso di concorso di
legittimari con altri successibili, la riduzione proporzionale
delle porzioni di questi ultimi nei limiti in cui è necessario
per integrare la quota riservata ai legittimari; in altri termini,
se l’operatività delle norme sulla successione legittima comporti in concreto una lesione delle quote dei legittimari, tale
articolo sancisce che la successione legittima si realizzi con il
rispetto della quote destinate a questi ultimi, con la conseguenza che, poiché i diritti di abitazione ed uso fanno parte
1781
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
della legittima, si deve ritenere che essi trovino piena attuazione nell’ambito della successione legittima secondo il disposto dell’art. 553 c.c.; pertanto tali diritti devono essere
attribuiti in aggiunta alla quota di riserva prevista dall’art.
540 c.c., comma 1, o alla quota di riserva risultante dal
concorso con altri legittimari ai sensi degli artt. 542 e 544
c.c., con la conseguenza che essi in base all’art. 540 c.c.,
comma 2, non sono imputati per il loro valore alla quota
astratta di legittima spettante al coniuge, ma gravano sulla
disponibile; tuttavia la dispensa dall’imputazione per tali
attribuzioni opera solo nei limiti della disponibile, cosicché,
qualora tali diritti oltrepassino la disponibile, essi potranno
incidere sulla legittima dei figli solo dopo che la legittima del
coniuge si sia rivelata insufficiente a soddisfarli; nell’ipotesi
invece che il valore della quota ‘‘ab intestato’’ risulti superiore rispetto alla quota di riserva maggiorata del valore dei
diritti di abitazione ed uso, i diritti del coniuge troveranno
realizzazione automaticamente nella porzione a lui spettante
in base alla successione legittima, e si configureranno, secondo una autorevole dottrina, come legati in conto alla
quota intestata.
Secondo un altro orientamento i diritti di abitazione e di
uso del coniuge si configurerebbero nella successione legittima come prelegati ‘‘ex lege’’, cumulandosi alla sua quota
come prevista dagli artt. 581 e 582 c.c.; pertanto il valore
capitale di tali diritti attribuiti al coniuge viene detratto dalla
massa ereditaria, che poi viene divisa tra tutti i coeredi secondo le norme sulla successione legittima non tenendo
conto, quindi, di tale attribuzione.
Il Collegio ritiene che il primo indirizzo sopra enunciato
non possa essere condiviso per le seguenti considerazioni.
A prescindere dalle perplessità sul piano sistematico di
interpretare l’effettivo ambito di operatività dell’art. 540
c.c., introdotto dal legislatore con la L. 19 maggio 1975,
n. 151, atta luce di un coordinamento con una norma come
l’art. 553 c.c., risalente all’impianto originario del codice
civile del 1942, il richiamo a quest’ultima norma non appare
persuasivo per almeno due diverse ragioni.
Sotto un primo profilo, infatti, si osserva che l’art. 553 c.c.,
disciplina il concorso tra legittimaci ed eredi legittimi e prevede la riduzione proporzionale delle porzioni spettanti a
questi ultimi sull’asse V ereditario nei limiti in cui è necessario
per integrare le quote riservate ai primi, mentre i diritti di
abitazione ed uso vengono comunemente assimilati a legati o
prelegati ‘‘ex lege’’, e dunque non si configurano quali quote;
la suddetta riduzione delle porzioni degli eredi legittimi ex
art. 553 c.c., opera poi sul piano quantitativo, mentre il riconoscimento al coniuge dei suddetti diritti si realizza in senso
qualitativo con l’attribuzione ad esso del godimento di un
bene determinato, e quindi con la correlativa preclusione
per gli altri eredi del godimento della casa già adibita a residenza familiare dei coniugi e dei mobili che la arredano; sotto
tale aspetto pertanto l’art. 553 c.c., non appare idoneo a dare
fondamento a questa modalità di realizzazione di tali diritti,
che in effetti resta estranea al suo ambito di operatività.
Inoltre occorre rilevare che il prospettato coordinamento
tra l’art. 553 c.c., e l’art. 540 c.c., comma 2, trova un impedimento nella parziale incompatibilità del disposto delle due
norme; infatti la prima di tali disposizioni prevede che, nel
determinare la quota riservata ai legittimari al fine della
eventuale riduzione proporzionale delle porzioni spettanti
agli eredi legittimi, i legittimari devono imputare alla quota
riservata, ai sensi dell’art. 564 c.c., il valore delle donazioni o
dei legati ricevuti dal defunto; orbene, rilevato che, come,
già esposto in precedenza, i diritti di abitazione ed uso vengono comunemente qualificati come dei legati ‘‘ex lege’’, si
osserva che l’art. 540 c.c., comma 2, nel disporre che tali
diritti gravano anzitutto sulla disponibile, ha previsto in tal
modo una dispensa da tale imputazione, sia pure nei limiti
della sola disponibile; pertanto l’orientamento che prospetta
l’attribuzione dei diritti in questione al coniuge nella succes-
sione legittima ai sensi dell’art. 540 c.c., comma 2, legittimando tale assunto sulla base della norma di raccordo di cui
all’art. 553 c.c., tra successione legittima e successione necessaria non sembra farsi carico di tale difficoltà di coordinamento.
Il Collegio ritiene di poter invece aderire al secondo indirizzo sopra richiamato, che afferma che i diritti in oggetto vengono attribuiti al coniuge nella successione legittima in aggiunta alla quota a lui spettante ai sensi degli artt. 581 e 582 c.c.
In proposito occorre evidenziare come dato significativo che
una autorevole dottrina è giunta a tale conclusione proprio
argomentando ‘‘a contrario’’ dalla previsione della riserva di
tali diritti al coniuge ai sensi dell’art. 540 c.c., comma 2; infatti
è rilevante osservare che nella successione legittima non si
pone in radice un problema di incidenza dei diritti degli altri
legittimari per effetto dell’attribuzione dei diritti di abitazione
e di uso al coniuge, cosicché le disposizioni previste dalla
norma ora richiamata, finalizzate, come si è già esposto, a
contenere in limiti ristretti la compressione delle quote di
riserva dei figli del ‘‘de cuius’’ in conseguenza dell’attribuzione
al coniuge dei diritti suddetti, non possono evidentemente
trovare applicazione in tema di successione intestata; in proposito non sembra superfluo aggiungere che la soluzione della
questione in esame deve essere svincolata dal riferimento all’art. 540 c.c., comma 2, e quindi dalla comparazione con il
parametro normativo relativo alla riserva al coniuge dei diritti
di abitazione ed uso nel concorso con altri legittimari, anche
perché, secondo un orientamento ormai consolidato in dottrina cui si aderisce pienamente, il nostro ordinamento prevede
due sole forme di successione, la legittima e la testamentaria
(art. 457 c.c.), mentre le norme sulla successione necessaria
non costituiscono un ‘‘tertium genus’’, ma sono finalizzate
soltanto a tutelare i diritti di determinate categorie di persone
(i legittimari) ponendo dei limiti sia alle disposizioni testamentarie lesive di tali diritti sia alle norme disciplinanti la successione legittima, riconoscendo in particolare ai legittimari l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive delle
proprie quote di riserva.
Pertanto le modalità di attribuzione dei diritti di abitazione ed uso nella successione legittima devono prescindere dal
procedimento di imputazione previsto dalla norma sopra
menzionata — procedimento invero strettamente inerente
alla tutela delle quote di riserva dei figli del ‘‘de cuius’’,
nel cui solo ambito ha rilievo il riferimento alla disponibile
di cui all’art. 540 c.c., comma 2 — e quindi i diritti in
questione, non trovando tali limitazioni nella loro concreta
realizzazione, devono essere riconosciuti pienamente, avuto
riguardo alla già evidenziata volontà del legislatore che ha
introdotto la L. 19 maggio 1975, n. 151, di attribuire al
coniuge superstite una specifica tutela del suo interesse alla
continuazione della sua permanenza nella casa adibita a residenza familiare durante il matrimonio anche dopo la morte
dell’altro coniuge, con i conseguenti riflessi di carattere successorio in ordine alla effettiva consistenza patrimoniale dell’asse ereditario; conseguentemente ai fini del calcolo di tali
diritti occorrerà stralciare il valore capitale di essi secondo
modalità assimilabili al prelegato, e poi dare luogo alla divisione tra tutti gli eredi, secondo le norme della successione
legittima, della massa ereditaria dalla quale viene detratto il
suddetto valore, rimanendo invece compreso nell’asse il valore della nuda proprietà della casa familiare e dei mobili. —
Omissis.
* Lo scritto propone, in sintesi, più ampie considerazioni che
ho svolto nel mio lavoro in corso di pubblicazione su www.juscivile.it. Ciò ne spiega la sobrietà e il carattere, talvolta, oratorio.
Il tema, straordinariamente problematico, è stato variamente affrontato. Per tutti, v., almeno: Mengoni, Successioni per
causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Tratt.
Sui diritti successori di abitazione e di
D (1)
uso spettanti al coniuge superstite. Un altro
passo indietro*
Sommario: 1. Introduzione. — 2. Genesi dell’equivoco
e perseveranza giurisprudenziale. — 3. Senso dell’equi-
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
1782
voco. — 4. Il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite nell’applicazione concreta. — 5. Il diritto di
abitazione della casa familiare e il diritto di uso dei
mobili che la corredano nella disciplina della successione necessaria. — 6. (Segue) La tutela del coniuge
leso qualitativamente nella disciplina della successione
necessaria. — 7. (Segue) Non si tratta di un prelegato.
— 8. I diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c. nella
successione legittima. — 9. Epilogo e spinta centrifuga
dal diritto ereditario.
1. Introduzione.
In piena controtendenza con ciò che accade nella
nostra contemporaneità, nella quale, oramai, il nichilismo popola convincimenti di filosofi e giuristi e il
relativismo ha prepotentemente occupato quasi tutte
le scienze, arretrando, non senza fatica, soltanto, nelle
dottrine e fedi religiose, svetta questa recente decisione del supremo Collegio.
Mentre da più parti e svariati luoghi, si sollevano
legittimi dubbi sulla opportunità di conservare nel nostro ordinamento giuridico la severa disciplina della
successione necessaria, consolidando orientamenti di
letteratura che si provano, in linea di continuità con
queste istanze di ammodernamento, a interpretazioni
restrittive di quella disciplina, le Sezioni unite della
Cassazione, nella fine del febbraio del 2013, hanno
Dir. Civ. e Comm. già diretto da Cicu e Messineo e continuato
da Mengoni, XLIII, 1, Milano, 1993, 5a ed., 165 e segg.; Id.,
Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. Dir. Civ. e Comm. già diretto da Cicu e
Messineo e continuato da Mengoni, XLIII, 2, Milano, 2000,
4a ed., 166-170; Mezzanotte, La successione anomala del
coniuge, Napoli, 1989; Falzone Calvisi, Il diritto di abitazione
del coniuge superstite, Napoli, 1993; Ravazzoni, I diritti di
abitazione e di uso a favore del coniuge superstite, in Dir.
Famiglia, 1978, 221 e segg.; Perego, I diritti di abitazione e
di uso spettanti al coniuge superstite, in Riv. Dir. Civ., 1975, I,
553 e segg.; Id., I presupposti della nascita dei diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite, in Rass. Dir. Civ.,
1980, 707 e segg.; Mascheroni, Il nuovo trattamento successorio del coniuge superstite, in Il nuovo diritto di famiglia.
Contributi notarili, Milano, 1975, 629- 631; Forchielli,
Aspetti successori della riforma del diritto i famiglia, in Riv.
Trim. Dir. e Proc. Civ., 1975, II, 1013 e segg.; Calapso,
Considerazioni sui diritti di abitazione e di uso spettanti al
coniuge superstite a norma del 2º comma dell’art. 540 c.c., in
Vita Notar., 1978, 567 e segg.; Vicari, I diritti di abitazione e
di uso riservati al coniuge superstite, in Dir. Famiglia, 1978,
1309 e segg.; Gargano, Il coniuge superstite: un erede scomodo? I diritti di uso e di abitazione, in Riv. Notar., 1980, III,
1620 e segg.; Calapso, Alcune considerazioni ancora sui diritti di abitazione e di uso spettanti al coniuge superstite a
norma del 2º comma dell’art. 540 c.c., in Vita Notar., 1984,
555 e segg.; Gambardella, I diritti di abitazione e di uso del
coniuge superstite: una nuova figura di riserva, in Rass. Dir.
Civ., 1989, 689 e segg.; Schiavone, I diritti di abitazione e di
uso attribuiti al coniuge superstite nella successione ab intestato, in Fam. e Dir., 1997, 151 e segg.; Bergamo, Brevi cenni sui
diritti ex art. 540, 2 comma, c.c., riservati al coniuge superstite,
in Giur. It., 2001, 248 e segg.; Tedesco, I diritti di abitazione
e di uso del coniuge superstite nella successione legittima, in
Giust. Civ., 2001, II, 381 e segg.; Coppola, Il diritto del
coniuge ad una quota di eredità, in Trattato di diritto delle
successioni e donazioni diretto da Bonilini, III, La successione
legittima, Milano, 2009, 107 e segg.; Ballottin, I diritti del
coniuge sulla casa familiare nella successione legittima: tecniche
contrattuali, in Notariato, 2009, 641 e segg. Per una sintesi dei
problemi, assai efficace, Tullio, I diritti successorii del coniuge superstite, in Fam. Pers e Succ., 2012, 290 e segg. V.,
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
fermato questo principio di diritto: «nella successione
legittima spettano al coniuge del de cuius i diritti di
abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di
uso sui mobili che la corredano previsti dall’art. 540,
comma 2; il valore capitale di tali diritti deve essere
stralciato dall’asse ereditario per poi procedere alla
divisione di quest’ultimo tra tutti i coeredi secondo
le norme della successione legittima, non tenendo conto dell’attribuzione dei suddetti diritti secondo un
meccanismo assimilabile al prelegato» 1.
Una decisione, dunque, nella quale viene fermato un
principio di diritto che, non soltanto non importa una
interpretazione restrittiva della disciplina sulla successione necessaria, che non soltanto mortifica e, quasi,
umilia l’autonomia testamentaria, e, dunque, l’autonomia privata, ma che, all’esito, e sotto taluni profili,
finisce, paradossalmente, per tradire il senso e la misura della stessa disciplina recata nel comma 2 dell’art.
540 c.c. 2, prevedendo, nei fatti, che questo diritto
debba gravare, indistintamente, sulla quota di tutti i
successibili 3.
2. Genesi dell’equivoco e perseveranza giurisprudenziale.
Nonostante la precisa presa di posizione da parte
della Corte costituzionale 4, una sentenza della Corte
di cassazione del 1999 5, apre, nuovamente, il dibattito
sull’applicabilità della norma di cui all’art. 540, comma
anche, Coppola, Coniuge superstite: diritti d’abitazione e
d’uso, in Fam. Pers e Succ., 2005, 164 e segg.; Marone, I
diritti di abitazione e di uso ex articolo 540 co. 2 cod. civ. e
ambito di applicazione, in Notariato, 2004, 278 e segg.; Coppola, I diritti d’abitazione ed uso spettanti ex lege, in Il diritto
delle successioni: successione e diritti del coniuge superstite e
del convivente more uxorio diretto da Bonilini, Torino, 2004,
51; Ciccariello, Il diritto di abitazione del coniuge superstite, in Notariato, 2001, 359 e segg.
1
Cass., Sez. un., 27 febbraio 2013, n. 4847. Cosı̀, espressamente, Ravazzoni, I diritti di abitazione e di uso a favore
del coniuge superstite, cit., 235, il quale nel 1978 scriveva: «in
questo caso, [...] dal patrimonio relitto si stralcia, in primo
luogo, il diritto di abitazione della casa e di uso dei mobili,
che viene acquistato direttamente dal coniuge superstite. trattandosi, per l’appunto, di legato, non occorre accettazione,
salva, anche in questo caso, la facoltà di rinunziare; e successivamente, su quanto resta, si fa luogo alla divisione, a sensi
dell’art. 581c.c.». Gli è, però, che secondo l’A. si tratta di un
prelegato. La tesi del prelegato, invece, non viene, giustamente, accolta dalla Cassazione. Ciò, se da una parte, dà merito
alla Cassazione, dall’altra parte, rende la decisione stessa della
Cassazione scarsamente coerente. Perché l’idea che esso si
debba stralciare sarebbe compatibile soltanto con l’idea che
quello segnato nel comma 2 dell’art. 540 c.c., sia un prelegato.
2
Molto critico già sull’impianto della norma di cui all’art.
540, comma 2, c.c., Gargano, Il coniuge superstite: un erede
scomodo? I diritti di uso e di abitazione, cit., 1622, il quale
dice: «si può quindi concordare con chi afferma che nella
successione del coniuge sono stati infranti due principi tenuti
fermi dal legislatore del 1942, in base ai quali le quote di
riserva erano intangibili e la quota disponibile era garantita
nella misura minima pari a un terzo del patrimonio dell’ereditando».
3
Nella decisione delle Sezioni unite della Cassazione arieggiano, con tratto di signore, le considerazioni di Ravazzoni,
I diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite,
cit., 221 e segg., al quale si deve l’impianto logico della tesi.
4
Corte cost., 5 maggio 1988, n. 527, in Foro It., 1989, I, 930.
5
Cass., 13 marzo 1999, n. 2263, in Notariato, 1999, 309 e in
Nuovo Dir., 2000, 123.
1783
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
2, c.c., alla successione legittima, ipotizzando che, rispetto a tale questione, si possano dare due diverse
interpretazioni 6.
A dire dei giudici di legittimità, infatti, i diritti di
abitazione della casa familiare e di uso dei mobili che
la corredano si possono considerare o come diritti che
si aggiungono alla quota spettante al coniuge, sicché
‘‘assegnati, anzitutto, al coniuge i diritti di abitazione e
di uso, la successione legittima si apre sul residuo’’;
oppure come diritti che non trovano applicazione nella
successione legittima, sicché essi debbono ‘‘comprendersi nella quota spettante a titolo di successione legittima’’.
La sua influenza nella giurisprudenza posteriore, è
stata determinante.
In tutte le successive, per verità, non numerose, occasioni nelle quali il tema, a vario titolo, è stato nuovamente proposto, i giudici, movendo dal presupposto
che la questione dovesse, davvero, essere risolta, in
uno dei due possibili sensi suggeriti dalla Cassazione
nel 1999, e senza verificare se il tema non dovesse,
diversamente, impostarsi, si sono limitati a scegliere
l’una o l’altra soluzione, aggiungendo qualche argomento a sostegno della tesi scelta.
Nel 2000, i giudici della Cassazione scelgono la seconda soluzione interpretativa 7. Affermano, dunque,
con una decisione nella quale il tema viene, senz’altro
approfondito, e svolto con maggiore rigore rispetto a
quanto non sia accaduto nel 1999, che i diritti di cui
all’art. 540, comma 2, c.c., non sono contemplati nella
disciplina recata agli artt. 581 e 582 c.c., e, dunque,
che tali diritti non si aggiungono alla quota intestata
spettante al coniuge.
La motivazione, pur non esaustiva, è convincente.
Altra e diversa atmosfera si respira, invece, in una
decisione del 2008 8, nella quale i Giudici della Cassazione scelgono sempre di aderire alla seconda soluzione interpretativa proposta nella sentenza del 1999. La
motivazione, qui, è, però, stringata e non perfettamente ragionata; del resto il tema costituisce, nell’economia complessiva della decisione, soltanto, un obiter
dictum.
Non altre sentenze della Cassazione, prima della decisione di rimessione al primo Presidente e della pronuncia a Sezioni unite, si occupano specificamente del
tema. Se, dunque, si prescinde dalla sentenza del 1999,
la quale non sceglie l’una o l’altra soluzione, semplicemente, proponendole entrambe, siccome possibili e
plausibili, l’indirizzo della Corte di cassazione non andava, cosı̀ a ramengo, come la sentenza del 2012 ha
denunziato. All’esatto contrario, nelle sentenze del
2000 e del 2008, sebbene con diversa armonia di soluzione, la Cassazione aveva opinato nel senso che i
diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c., non dovessero
aggiungersi alla quota intestata del coniuge.
6
Già Ballottin, I diritti del coniuge sulla casa familiare
nella successione legittima: tecniche contrattuali, cit., 641 e
seg., aveva rilevato che le sentenze della cassazione, con le quali
si era riaperta la questione, contraddicendo il predente orientamento, non adducevano specifiche motivazioni.
7
Cass., 6 aprile 2000, n. 4329, in Giust. Civ., 2000, I, 2198,
da cui le citazioni, e in Notariato, 2001, 357; in Vita Notar.,
2001, 141.
8
Cass., 5 maggio 2008, n. 4329, in Vita Notar., 2008, 959.
3. Senso dell’equivoco.
L’alternativa nella quale la decisione della Cassazione del 1999 stringe il tema del rapporto tra i diritti di
abitazione della casa familiare e di uso dei mobili che
la corredano, da un lato, e la disciplina delle successioni legittime, dall’altro, può, cosı̀, riassumersi: i primi
possono essere considerati o come diritti che si aggiungono alla quota spettante al coniuge; oppure come
diritti che non trovano applicazione nella successione
legittima.
Gli è, però, che l’una e l’altra ricostruzione, benché
possano trovare, per certi e, soltanto, per taluni versi, il
consenso di autorevole dottrina, la quale, però, si badi,
mai si è espressa in termini esattamente corrispondenti
a quelli 9, non mi sembrano offrire un’adeguata impostazione del problema.
La costrizione in questa alternativa finisce per falsare
il tema e generare l’equivoco che, negli ultimi due
lustri, con certo interesse, ma con limitato impegno,
occupa attenzione di prassi e letteratura.
Domandarsi, tout court, se i diritti di cui all’art. 540,
comma 2, c.c., si aggiungano o no, alla quota virile, che
la legge assegna al coniuge superstite, allorché costui
concorra con altri successibili (art. 581 e 582 c.c.),
mescola due discipline distinte tra loro. Le quali, pur
avendo importanti e fondamentali momenti di collegamento, rimangono, pur sempre discipline diverse,
per struttura, funzione e natura.
Questa mescolanza non giova, di certo, all’intelligenza del problema e, soprattutto, instrada la soluzione
lungo un cammino che, inevitabilmente, conduce a
smarrire la strada maestra.
A me sembra che si debba, di necessità, muovere
dalla diversa funzione che hanno successione legittima
e sulla successione necessaria. Si tratta, come è ovvio
di discipline che hanno straordinari e importanti momenti di collegamento, perché, è noto, la disciplina di
tutela dei legittimari opera, sempre, quando vi sia una
lesione dei diritti dei tutelati, indipendentemente dal
fatto che la successione sia testamentaria o legittima.
Quando si muova da questa premessa teorica, si avverte come il domandarsi, tout court, se i diritti di cui
all’art. 540, comma 2, c.c., debbano, o no, essere compresi nella quota di legittima, diventa una domanda
mal posta.
Non si tratta, infatti, di verificare se essi debbano
essere compresi o no, nella quota di legittima, bensı̀ di
accertare cosa accade nell’ipotesi in cui, per effetto di
una successione legittima, al coniuge vengano assegnati o attribuiti beni di valore complessivamente inferiore alla quota a lui riservata o non vengano lui assegnati
o attribuiti il diritto di abitazione della residenza familiare e il diritto di uso dei mobili che la corredano.
Il che, com’è ovvio, impone di non stringere il rapporto tra successione legittima e diritti di cui all’art.
9
Benché la decisione sembri ricalcare la tesi di Ravazzoni, I
diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite, cit.,
235, non può mancarsi di segnalare che secondo l’A. il cui
pensiero era retto da stringente logicità, il legato in parola doveva considerarsi un prelegato. Cancellata o non condivisa,
però, l’idea che si tratti di un prelegato, l’idea che il valore
del legato si debba stralciare dall’asse e che si debba aprire la
successione legittima sul residuo, perde in smalto e coerenza.
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
1784
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
540, comma 2, c.c., in un’arida alternativa, bensı̀ di
aprire questo rapporto a un’impostazione di carattere
metodologico. La quale ben lungi dal voler ipostatizzare un’unitaria e univoca soluzione, come se una soltanto fosse sempre capace di valere per tutti i casi
possibili, si sarebbe dovuta, unicamente, far carico di
individuare i criteri di svolgimento di questa relazione.
L’idea che il rapporto tra successione legittima del
coniuge e diritti di abitazione e di uso si presti a due
sole possibili soluzioni interpretative, nel senso che gli
ultimi o si aggiungono, o no, alla quota virile, mi sembra la base dell’equivoco; supporre che una delle due
soluzioni, aprioristicamente, sia capace di valere e risolvere tutti i casi possibili, il senso, drammatico, di
questo equivoco.
Occorre, dunque, cambiare radicalmente prospettiva e assumere consapevolezza che non si tratta di trovare la soluzione nell’uno o nell’altro senso prospettato
dalla Cassazione del 1999, bensı̀ di impostare, nel rispetto delle discipline positive, il rapporto tra due
grandezze successorie, intrinsecamente connesse, ma
inevitabilmente diverse l’una dall’altra.
coniuge spetterebbe 1/3 dell’eredità, mentre ai figli, in
parti eguali, i restanti 2/3. Ne verrebbe, in conseguenza, che il coniuge avrebbe diritto a 10 e ciascuno dei
figli a 10.
Gli è, però, che all’esito di questo procedimento
divisorio, alla coniuge, Caia, sarebbero, in definitiva,
assegnati beni per un valore complessivo pari a 70,
mentre a ciascun figlio beni per un valore pari a 10.
Ai figli, cioè, vengono attribuiti beni insufficienti a
integrare la quota che il legislatore, astrattamente, loro
riserva.
I diritti di abitazione e di uso, non soltanto assorbono, per intero la quota disponibile, azzerando, dunque, l’autonomia testamentaria, ma assorbono anche
la quota del coniuge e, addirittura, parte di quella dei
figli.
L’anomalia, grave, del principio di diritto accolto
dalla Cassazione sta in ciò: in evidente violazione
della norma fissata all’art. 540, comma 2, c.c., finisce per far gravare i diritti di abitazione e di uso su
tutti gli eredi, senza rispettare l’ordine normativo
imposto.
4. Il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite
nell’applicazione concreta.
5. Il diritto di abitazione della casa familiare e il diritto
di uso dei mobili che la corredano nella disciplina
della successione necessaria.
Quali e quanto distorsivi siano gli effetti della soluzione unitaria e aprioristica accolta dalla Cassazione
può cogliersi, facilmente, se solo si drammatizzi l’esito
epistemologico del principio di diritto espresso dal
tribunale in funzione nomofilattica a successioni a causa di morte di modesta entità, ma, nondimeno, assai
comuni.
Immaginiamo che Tizio muoia ab intestato, lasciando
dietro di sé una giovane coniuge, Caia, e due figli, Sempronio e Mevio. Supponiamo, poi, che l’asse ereditario
consti di un solo bene immobile e dei mobili che lo
corredano, ossia del bene che era stato destinato a residenza famigliare e che il complesso dei beni ereditari
valga 90. Ipotizziamo, infine, che il diritto di abitazione
sulla casa adibita a residenza famigliare e il diritto di uso
dei mobili che lo corredano, anche a cagione di una età
non avanzata della coniuge, valgano 60.
A seguire la tesi della Cassazione, i diritti di cui
all’art. 540, comma 2, dovrebbero essere stralciati, di
modo che sul residuo si apra, poi, la successione legittima. Il coniuge si vedrebbe, dunque, assegnati il diritto di abitazione e di uso, ossia beni per un valore di
60. Sul residuo 30, costituito dalla nuda proprietà sulla
casa e sui mobili che la corredano, dovrebbe aprirsi la
successione legittima. In forza di quella disciplina, al
10
Già Vicari, I diritti di abitazione e di uso riservati al coniuge superstite, cit., 1320 e seg., aveva manifestato perplessità
sulla regola posta al comma 2 dell’art. 540 c.c., rilevando come
essa impone una deroga evidente al principio della intangibilità
della legittima posto dall’art. 549 c.c.
11
Cosı̀, Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 165, il quale, discorre di vocazione anomala «in quanto porta eccezione al principio di unità
della successione e al suo corollario espresso nella regola di
eguaglianza dei coeredi in proporzione delle rispettive quote».
12
Sull’idea che si tratti di legato, insiste con efficacia, Ravazzoni, I diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite,
cit., 224 e segg., il quale dedica quasi otto pagine del suo lavoro
per giustificare che si tratta di una attribuzione a titolo particolare. Questo, mi sembra che sia il vero merito della tesi dell’A., il
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
Se il diritto di abitazione sulla casa famigliare e il
diritto di uso dei mobili che la corredano, i quali,
certamente competono al coniuge, in veste di legittimario, debbano considerarsi un’aggiunta alla quota di
riserva a lui spettante, ovvero una specificazione qualitativa di essa, pur essendo discusso in dottrina, mi
pare, alla stregua del tenore letterale della disposizione
recata al comma 2 dell’art. 540 c.c., la quale stabilisce
che essi debbano gravare sulla porzione disponibile e
che, solo in difetto di essa, debbano gravare sulla quota del coniuge e poi dei figli, che debba risolversi nel
primo senso 10.
Si discute in letteratura, se questi diritti competano
al coniuge in forza di una vocazione anomala 11, ovvero
di una vocazione a titolo universale, per cui si tratterebbe di beni considerati come quota di eredità, ovvero di una vocazione a titolo particolare, per cui si
tratterebbe di un’attribuzione patrimoniale a causa di
morte priva del carattere dell’universalità.
Benché tutte le soluzioni siano state, variamente prospettate nella dottrina, tra tutte, convince, senz’altro,
che i diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c., debbano
considerarsi un’attribuzione a titolo particolare 12. Si
tratterebbe di un legato ex lege 13, il quale, poiché di
quale argomenta, anche sulla base di un’indagine storica, nella
quale mette a confronto la precedente attribuzione a favore del
coniuge, consistente nella quota di usufrutto. A dire dell’A.,
inoltre, è dirimente la circostanza che si tratta di un acquisto
costitutivo, il quale non sarebbe compatibile con una successione
a titolo universale, la quale presuppone, sempre un acquisto a
titolo derivativo. Precisa, Vicari, I diritti di abitazione e di uso
riservati al coniuge superstite, cit., 1314, che la via del legato è
l’unica che garantisce, con immediatezza, al legislatore il raggiungimento dello scopo che con tale disposizione si è prefisso. Essa,
peraltro, sarebbe coerente con la lettera della legge.
13
Già Ravazzoni, I diritti di abitazione e di uso a favore del
coniuge superstite, cit., 231 e segg. Aderisce, tra gli altri, Gargano, Il coniuge superstite: un erede scomodo? I diritti di uso e
di abitazione, cit., 1627.
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
1785
specie, verrebbe acquistato dal coniuge, automaticamente, sin dal tempo di apertura della successione 14,
salvo l’onere del coniuge superstite di domandare all’onerato il possesso della cosa legata 15.
Non v’ha dubbio, poi, che tale legato ex lege, costituendo, un diritto speciale di riserva del coniuge superstite, che si aggiunge alla quota di beni che a lui è,
variamente riservata, a seconda del suo eventuale concorso con altri, incide, significativamente, sul complesso dei diritti a lui riservati dalla legge.
E mi sembra che incida sia da un punto di vista
quantitativo, che da un punto di vista qualitativo. Sotto il primo aspetto, perché si tratta di un diritto che si
aggiunge e, dunque, incrementa la quota di patrimonio astrattamente riservata al coniuge, in qualità di
legittimario; al coniuge superstite non spetta soltanto
1/2, 1/3 o 1/4 del patrimonio ereditario, a seconda che
sia l’unico legittimario, o che concorra con uno o più
figli, o con gli ascendenti, ma anche i diritti indicati al
comma 2 della più volte richiamata disposizione codicistica.
Sotto il secondo profilo, perché questo potenziamento dei diritti di riserva del coniuge superstite,
non è un mero accrescere astratto del quantum dovuto, ossia della quota di patrimonio ereditario a lui
riservata, bensı̀ l’incremento realizzato attraverso l’attribuzione, indipendentemente da quale sia il loro valore concreto, di beni precisi e determinati: il diritto di
abitazione sulla casa familiare e il diritto di uso dei
mobili che la corredano.
La predetta incidenza non soltanto quantitativa,
bensı̀ anche qualitativa 16 ha conseguenze teoriche e
pratico-applicative di non breve momento. Teoriche,
dal momento che orienta la composizione della quota
del patrimonio ereditario spettante al coniuge superstite 17, mediante l’assegnazione di un bene sempre
eguale a sé stesso, ma di valore variabile di successione
ereditaria in successione ereditaria 18. Pratico-applicative, perché incide sui meccanismi di tutela del coniuge superstite e orienta, di necessità, decisioni e determinazioni di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento
e nella successione mortis causa.
Perché si possano considerare rispettate le norme
sulla cosı̀ detta successione necessaria, non basta che
il coniuge consegua, complessivamente, beni per un
valore corrispondente alla quota di patrimonio a lui
riservata e al valore dei diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c., ma occorre, con tratto di necessità, che il
coniuge consegua, effettivamente e concretamente, i
diritti di abitazione e di uso. Sicché, ove pure le attribuzioni patrimoniali fatte del coniuge gli garantissero
beni di valore pari o, addirittura, superiore a ciò che a
quegli, complessivamente, spetta, nondimeno costui
dovrebbe reputarsi leso nei diritti riservati, se non
ricevesse, ricorrendone i presupposti, i beni indicati
all’art. 540, comma 2, c.c.
L’incidenza quantitativa e qualitativa dei diritti di
abitazione e di uso, dunque, modifica la composizione
della quota di riserva del coniuge, la quale deve, per
un verso, essere almeno pari alla quota di patrimonio
che la legge riserva al coniuge superstite, e, in ogni
caso, comprendere il legato ex lege.
Ciò, da un punto di vista pratico, sta a significare che
per determinare se, in concreto, vi sia una lesione,
occorre non soltanto avere riguardo al quantum complessivo (quota di patrimonio più valore dei legati ex
lege) riservato al coniuge superstite, bensı̀ anche al
quomodo. Con intesa che quantum e quomodo debbono sempre mettere capo a valutazioni distinte, rispetto
alle quali non è possibile che l’una colmi, o supplisca
deficienze dell’altra, e viceversa.
14
Perego, I presupposti della nascita dei diritti di abitazione
e di uso a favore del coniuge superstite, cit., 714.
15
Per tutti, Bonilini, Legato di immobili, e domanda del
relativo possesso, in Fam., Pers. e Succ., 2011, 205 e segg.
16
Postula che si tratti di una aggiunta quali-quantitatva,
Gargano, Il coniuge superstite: un erede scomodo? I diritti di
uso e di abitazione, cit., 1630 e seg. L’A., tuttavia, rileva, giustamente, che è difficile, se non ridicolo «sostenere di voler
perpetuare su suppellettili o in quattro mura un affetto che
può anche non essere mai esistito reciprocamente o che quanto
meno non esiste più». In ragione di questa premessa, l’A. conclude, non senza avvertire che si tratta di una considerazione
che ha tratto più a motivi di ordine sociale che non giuridico,
nel senso che dovrebbe considerarsi possibile tacitare i diritti
del coniuge superstite sulla casa adibita a residenza famigliare
anche per equivalente. ma sul punto, già Mengoni, Successioni
per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 167
e seg., il quale precisa che «la legge vuole che la tutela dell’interesse morale del coniuge a conservare il quadro di vita a lui
consueto non vada a scapito della sua quota di legittima, né
comporti a suo carico obblighi di conguaglio, per far fronte ai
quali occorre di solito contrarre mutui onerosi. Per assicurare
tali fini i due diritti sono stati posti a carico della disponibile
(fino a concorrenza del suo valore) con una soluzione che si
avvale di un mezzo tecnico sproporzionato perché non solo
garantisce al coniuge una determinata composizione qualitativa
della sua legittima, ma di questa comporta in ogni caso un
aumento quantitativo».
17
Secondo Perego, I diritti di abitazione e di uso spettanti al
coniuge superstite, cit., 553, la norma avrebbe, anche, una funzione divisionale, sicché in una successione per quote astratte, la
residenza famigliare e i mobili che la corredano dovrebbero
essere compresi nella concreta porzione spettante al coniuge
superstite.
18
Discorre di quota mobile Calapso, Considerazioni sui
diritti di abitazione e di uso spettanti al coniuge superstite a
norma del 2º comma dell’art. 540 c.c., cit., 573, il quale, peraltro,
non nasconde che la mobilità di detta quota potrebbe anche
dipendere da singolari accorgimenti che in vita l’ereditando
possa adottare «destinando, per esempio, beni mobili di notevole valore a corredo della casa adibita a residenza familiare, o,
al contrario, sottraendo beni di cui sopra dal corredo della casa
familiare e cosı̀ via».
6. (Segue) La tutela del coniuge leso qualitativamente
nella disciplina della successione necessaria.
Sebbene esista una certa concordia nella letteratura,
nell’affermare che si possa avere una lesione qualitativa, ma non quantitativa, rimane discordia nello stabilire quale debba essere lo strumento con il quale il
legittimario leso qualitativamente, possa tutelarsi. Da
taluni affermandosi che il coniuge debba chiedere l’accertamento della nullità della disposizione testamentaria lesiva, poiché essa sarebbe nulla per contrarietà a
una norma imperativa, da altri che il coniuge debba
agire con l’azione di rivendica, perché avrebbe, di diritto, già acquistato il legato ex lege, da altri, infine, che
debba agire con l’azione di riduzione, unico strumento
a tutela della posizione giuridica del legittimario leso.
Delle tre accennate soluzioni che, tra loro, si contendono la scena, convince, senz’altro, l’ultima, a favore
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
1786
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
ge. Ciò importerebbe, in astratto, che il pregiudizio
derivante dall’esercizio dell’azione di riduzione, ricada
soltanto sul beneficiario della disposizione testamentaria incompatibile con il diritto di abitazione sulla casa
familiare e il diritto di uso sui mobili che la corredano
spettanti al coniuge superstite. Tuttavia, allo scopo di
evitare questo risultato, sembra coerente ipotizzare
che il beneficiario della disposizione incompatibile
debba essere indennizzato, proporzionalmente, dagli
altri eredi e legatari, di modo che il pregiudizio che
il coniuge leso non può che concentrare sul primo,
venga, poi, spianato su tutti gli altri, affinché, all’esito
della riduzione, tutte le disposizioni mantengano la
medesima proporzione di valore 20.
della quale militano, a mio credere, numerosi argomenti.
Intanto, anche allo scopo di chiarire l’ambito nel
quale si possa porre un problema di lesione qualitativa,
ma non anche quantitativa, credo che si debba, subito,
precisare che esso può darsi soltanto nel caso di successione testamentaria. Nel caso di successione legittima, infatti, il legato ex lege, poiché di specie, verrebbe
automaticamente acquistato dal coniuge. Ciò significa
che una lesione qualitativa, ma non quantitativa, può
porsi soltanto in caso di successione testamentaria,
ossia quando l’ereditando abbia attribuito la piena
proprietà della casa adibita a residenza famigliare e
dei mobili che la corredano, o altro diritto incompatibile con essi, a un soggetto diverso dal coniuge.
Stante l’esistenza di questo presupposto mi sembra
inevitabile che lo strumento giuridico di tutela non
possa che essere l’azione di riduzione 19.
Né potrebbe valere, per escludere la possibilità di
esperire quest’azione, il rilievo che non vi sarebbe una
lesione quantitativa. Dacché il presupposto dell’azione
di riduzione non è la lesione quantitativa, bensı̀ e, più
genericamente, la lesione, ove pure essa sia soltanto
una lesione meramente qualitativa. Ciò risulta se consideriamo che, per un verso, proprio all’art. 536 c.c.,
che apre il capo dei legittimari, il legislatore discorre
non soltanto di legittima in termini di quota di patrimonio, ma anche in termini di ‘‘altri diritti’’ e, per altro
verso, che il presupposto della disciplina di tutela è
sempre la lesione, la quale, per le considerazioni svolte
deve apprezzarsi, avuto riguardo alla composizione
della quota di legittima spettante al coniuge, non soltanto in termini di quantum, bensı̀ anche di quomodo.
Piuttosto è a dirsi che nel caso di lesione qualitativa,
ma non quantitativa, l’azione di riduzione deflette dall’ordinario regolamento. Il coniuge leso, infatti, non
potrà agire in riduzione verso i donatari. Se la casa
adibita a residenza familiare, avesse formato oggetto
di una donazione, anteriormente al tempo dell’apertura della successione, essa non sarebbe nella titolarità
del de cuius e, dunque, mancherebbe lo stesso presupposto dei diritti speciali del coniuge. Saranno, dunque,
soggette a riduzione, soltanto le disposizioni testamentarie; non tutte e indistintamente, bensı̀ soltanto quelle, concretamente, incompatibili con i diritti del coniu-
Un’ultima notazione, la quale ha tratto alla natura
dell’attribuzione prevista a favore del coniuge dall’art.
540, comma 2, c.c., merita di essere svolta.
Convince, anche per le ragioni già espresse, che il
diritto di abitazione sulla casa familiare e il diritto di
uso dei mobili che la corredano riservati a favore del
coniuge superstite debbano considerarsi un’attribuzione patrimoniale priva del carattere dell’universalità e,
dunque, un legato avente fonte nella legge; un legato
che, avendo a oggetto diritti su cose determinate, appartenenti al testatore, deve considerarsi di specie.
Mi sentirei, però, di escludere, che si possa, considerare un prelegato 21, ossia un legato, fatto a favore
dell’erede e a carico dell’intera eredità. Non soltanto,
perché non è ineludibile che il coniuge sia erede, ma
soprattutto perché è la stessa norma di cui all’art. 540,
comma 2, c.c., a escludere che tale legato possa considerarsi posto a carico dell’intera eredità.
I due profili concorrono, ciascuno con tratto di
autonomia, a escludere che si tratti di un prelegato.
Muovo dal primo, il quale, toccando temi centrali
della disciplina sulla successione necessaria, consente,
soltanto, spunti sommari e non ordinati, privi di completezza e, soprattutto, della profondità che, invece, il
tema evocato meriterebbe.
A mio credere si possono dare casi in cui il legittimario non sia affatto un erede.
Per avvedersene, basterà pensare al caso di legittimario che, espressamente, rinunzi all’eredità, deciden-
19
Cosı̀, anche, Schiavone, I diritti di abitazione e di uso
attribuiti al coniuge superstite nella successione ab intestato,
cit., 155, il quale rileva che, pur se si tratta di legato ex lege
di specie, non può dirsi sempre acquistato dal coniuge superstite al momento della successione, ove esista una contraria
disposizione testamentaria.
20
In questo senso, Schiavone, I diritti di abitazione e di uso
attribuiti al coniuge superstite nella successione ab intestato, cit.,
155.
21
È la tesi di Ravazzoni, I diritti di abitazione e di uso a
favore del coniuge superstite, cit., 233 e segg., il quale, movendo
dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 540, comma 2, c.c., cosı̀
argomenta: «sembra sicuro che, da ciò, possa ricavarsi il favore
del legislatore a che il legato venga posto a carico dell’intera
eredità. Ma se, a questo punto, si tiene presente il principio
per cui il legato a favore di un coerede ed a carico di tutta
l’eredità, si considera come legato per l’intero ammontare, mi
parrebbe che l’unico dubbio, quello se effettivamente detto legato si debba ritenere a carico dell’intera eredità, dovrebbe ritenersi superato». La tesi dell’A. muove, dunque, da un preciso
assunto: che il legato sia posto a carico dell’eredità. Tale assunto,
però, mi sembra più una petizione di principio, che non un dato
dimostrato. All’esatto contrario la disposizione recata all’art. 540,
comma 2, c.c., nella parte in cui stabilisce che il legato debba
gravare sulla quota disponibile, poi, su quella del coniuge e,
infine su quella dei figli, impone una conclusione diversa. Potrebbe anche essere vero che, in astratto, il legato possa gravare
su tutta l’eredità (supponendo che esso debba gravare, anche
sulla quota degli eventuali ascendenti, che invece, non sono inclusi). Gli è, però, che il prelegato presuppone che il legato gravi
sull’intera eredità, sempre e comunque, in maniera proporzionale, senza mai differenziare tra gli uni o gli altri eredi.
In senso contrario, Perego, I presupposti della nascita dei
diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite,
cit., 720; Vicari, I diritti di abitazione e di uso riservati al
coniuge superstite, cit., 1319 e seg.; Calapso, Alcune considerazioni ancora sui diritti di abitazione e di uso spettanti al coniuge
superstite a norma del 2º comma dell’art. 540 c.c., cit., 555 e
segg. e spec. 559; Tedesco, I diritti di abitazione e di uso del
coniuge superstite nella successione legittima, cit., 386 e seg.;
Schiavone, I diritti di abitazione e di uso attribuiti al coniuge
superstite nella successione ab intestato, cit., 153.
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
7. (Segue) Non si tratta di un prelegato.
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
1787
do di trattenere, nei limiti dell’art. 552 c.c., soltanto le
donazioni e i legati ricevuti; ovvero al caso di legittimario che nel testamento sia beneficato soltanto attraverso legati idonei a soddisfare la quota di patrimonio
a lui riservata e che, dunque, non intenda agire in
riduzione; o, ancora, al caso di legittimario pretermesso, che abbia, però, ricevuto in vita, da parte del de
cuius, donazioni sufficienti a fargli conseguire una quota di patrimonio eguale o, addirittura, superiore, alla
quota di patrimonio che la legge gli riserva.
In questi casi, se il legittimario in parola fosse il
coniuge, credo che non potrebbe reputarsi erede, sicché l’eventuale legato ex lege a lui fatto, non potrebbe
considerarsi un prelegato, perché non sarebbe un legato fatto a favore di un erede, bensı̀ un legato fatto a
favore di non erede.
È ovvio, naturalmente, che quest’affermazione passa, di necessità, attraverso la negazione dell’idea che i
beni imputati alla legittima (a’ sensi degli artt. 564,
comma 2 e 3, e 553 c.c.) debbano considerarsi compresi e costituenti la quota ereditaria. Si dice, infatti,
da autorevole dottrina, la quale muove dal dato testuale recato all’art. 536 c.c., che discorre di ‘‘quota di
eredità’’, che in tutti i casi in cui il legittimario concorra con altri eredi, l’imputazione ex se, determina l’inclusione dei beni ricevuti dal defunto, in virtù di donazioni o di legati, nella quota ereditaria del legittimario 22. Secondo tale dottrina, dunque, i beni imputati
alla legittima possono considerarsi esclusi dalla quota
di eredità del legittimario e, dunque, pur sempre considerati acquistati a titolo di donazione o legato, soltanto nel caso in cui si profili un rapporto tra legittimario, da una parte, e donatari e legatari a carico della
disponibile, dall’altro 23. In tutti gli altri casi, invece,
all’imputazione si deve attribuire ‘‘l’effetto di includere
il bene donato o legato nella legittima (quota di eredità)’’ 24, sicché l’imputazione stessa ‘‘non è soltanto una
operazione di calcolo, ma reagisce sulla liberalità riducendola fino a concorrenza del valore della legittima, ai
fini del concretamento della quota mediante gli stessi
beni donati o legati’’ 25.
La tesi, pur autorevolmente sostenuta, non convince
appieno. All’esatto contrario, mi sembra che quanto
ricevuto dal legittimario a titolo di donazioni o legati a
lui fatti dal defunto, si debba imputare alla quota di
patrimonio spettante al legittimario, senza che debba
mutare il titolo di quell’acquisto. Ciò peraltro, non mi
pare che possa incidere sul problema della misura
astratta della quota ereditaria spettante al legittimario,
dacché una volta che si affermi che il legittimario ha
diritto a una certa quota ereditaria, e, dunque, che esso
è erede in una certa quota del patrimonio, a tale misura occorre attenersi a tutti gli effetti vantaggiosi (es.
virtù espansiva della quota) o svantaggiosi (es. responsabilità per i debiti ereditari) 26 connessi alla posizione
giuridica di erede. Sarebbe a dire, cioè, che postulata
la misura astratta della quota di eredità spettante al
legittimario, su quella quota astratta poi occorrerà fermare le conclusioni vantaggiose e svantaggiose, a poco
o punto rilevando che tale quota sia composta di beni
ricevuti in virtù di successione universale, ovvero di
successione a titolo particolare, ovvero a titolo di donazione 27.
Tale soluzione, peraltro, mi pare coerente con la
disciplina sulla tutela dei legittimari. La quale, se è
vero che all’art. 536 c.c., allo scopo di descrivere i
diritti che la legge riserva ai legittimari, discorre,
espressamente, di ‘‘quota di eredità’’, è pur vero che
aggiunge, la formula linguistica ‘‘altri diritti’’, proprio
per indicare la policausalità 28 delle attribuzioni idonee
a comporre la quota di riserva, e che, in tutte le altre
disposizioni di legge, dedicate a individuare la misura
della quota riservata a ciascun legittimario, discorre
sempre di ‘‘quota del patrimonio’’, cioè di pars bonorum.
Peraltro, affermare che le quote di patrimonio riservate ai legittimari costituiscano una quota di eredità mi
sembrerebbe anche inappropriato, se solo si consideri
che il legislatore, fruendo pur sempre, nella disciplina
sulla successione necessaria e sulla successione legittima, dello strumento delle frazioni, prende a riferimento due denominatori diversi: nelle prime, quello risultante dalla riunione fittizia; nella seconda, il solo relictum 29.
Ancora, non può non osservarsi che l’imputazione
ex se, diversamente dalla collazione, non è obbligo per
22
È la tesi di Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte
speciale. Successione necessaria, cit., 133 e segg. Al quale si deve,
senz’altro, il merito di aver sollevato la fondamentale questione,
sulla quale l’eco della letteratura è stato davvero modesto. È da
avvertire, infatti, che sebbene si tratti di tema di straordinaria
rilevanza pratica, oltre che di significativa densità concettuale,
spesso gli scritti monografici sulla successione necessaria, le voci
enciclopediche in tema di successione necessaria e di imputazione neppure accennano al problema. talvolta lo svolgono appena, limitandosi a rinviare al lavoro di Mengoni. In controtendenza, si consideri il lavoro di Magliulo, La legittima quale
attribuzione patrimoniale policausale. Contributo ad una moderna teoria della successione necessaria, in Riv. Notar., 2010, 533 e
segg.
23
Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale.
Successione necessaria, cit., 134.
24
Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale.
Successione necessaria, cit., 134.
25
Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale.
Successione necessaria, cit., 134.
26
Tale appare, massime, la preoccupazione espressa, da
Cattaneo, voce ‘‘Imputazione del legittimario’’, in Digesto
Civ., IX, Torino, 1999, 356, il quale, aderendo alla posizione
di Mengoni, scrive: «resta da vedere se i beni imputati alla
legittima debbano ritenersi compresi nella quota ereditaria riservata al legittimario, o se viceversa debbano pur sempre considerarsi acquistati a titolo di donazione o legato, ed esclusi
perciò da detta quota. La questione può avere rilevanza pratica,
in quanto la soluzione influisce sulla determinazione della quota
ereditaria (intesa come frazione aritmetica o percentuale dell’asse) spettante al legittimario, e quindi sulla misura in cui questi è
tenuto a pagare i debiti ereditari e a sopportare il peso dei legati
fatti ad altre persone».
27
Non mi sembra, peraltro, che questa considerazione possa
venire meno nel caso di accettazione con beneficio di inventario, dal momento che l’art. 490, comma 2, n. 2, statuisce che
«l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei
legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti».
28
Discorre di policausalità delle attribuzioni Magliulo, La
legittima quale attribuzione patrimoniale policausale. Contributo
ad una moderna teoria della successione necessaria, cit., 533 e
segg.
29
Per inciso, si osservi che soltanto questa è la ragione che
spiega perché si possa avere una lesione dei diritti dei legittimari
anche nel caso di successione ab intestato. Se si confrontano le
quote di riserva, con le quote di eredità della successione legittima è facile notare che le ultime, in termini assoluti, sono
sempre maggiori delle seconde. Epperò, la lesione non si può
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
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Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
i legittimari, bensı̀, un cosı̀ detto, onere, al punto che
essa è considerata la quarta operazione necessaria nel
calcolo per determinare la quota disponibile 30. Sarebbe a dire, cioè, che il legittimario è tenuto a imputare
alla propria quota, salvo che non sia stato espressamente dispensato e nei limiti di efficacia della dispensa, quanto ricevuto dal defunto, in virtù di donazioni o
di legati, soltanto qualora intenda agire in riduzione, o
quando si faccia altra questione di misura della quota
spettante al legittimario 31; non anche se non abbia
intenzione di agire in riduzione. Con avvertimento,
ulteriore, che se rinunziasse all’eredità e il legittimario
concorresse con altri legittimari, troverebbe applicazione la norma di cui all’art. 552 c.c.
Queste lapidarie considerazioni, mi inducono a
escludere che il legislatore abbia immaginato che il
legittimario debba, di necessità, essere erede.
Né mi sembra che possa pregiudicare questa conclusione, il rilievo che il legittimario pretermesso,
quando si determini ad agire con l’azione di riduzione,
acquista la qualità di erede. Il che, pur essendo indubbio, impone di domandarsi perché quegli diventa erede.
A ben ricostruire la disciplina non mi pare che costui
diventi erede, perché la legge gli riserva una quota di
patrimonio, bensı̀, e più semplicemente, perché la legge, anche contro il testamento lo considera erede 32
legittimo. L’azione di riduzione serve, infatti, a rendere
inefficaci le attribuzioni lesive: dapprima le disposizioni testamentarie, successivamente, e, in caso di insufficienza delle prime, le donazioni 33. Diversa, però, è
conseguenza che determina l’inefficacia quando essa
abbia tratto a disposizione testamentarie istitutive, o
quando abbia tratto a legati o donazioni. Pur sempre
trattandosi d’inefficacia e, dunque, pur essendo unitario e comune lo statuto disciplinare della riduzione
delle disposizioni testamentarie e delle donazioni 34,
pur sempre, cioè, valendo tale azione a privare di effetto un certo atto dispositivo, e non, a semplicemente
consentire la mera inopponibilità dell’atto medesimo 35, non v’ha dubbio che quando essa abbia tratto
alle disposizioni testamentarie istitutive, l’inefficacia di
quelle importa una riduzione, in tutto o in parte, delle
istituzioni a titolo di erede. Ciò determina che la successione testamentaria diventi incompleta e si possa,
dunque, far luogo alla successione legittima, includendo il legittimario escluso. Il quale, per questo, diviene
erede e sol perché tale a costui possono essere attribuiti, in proporzione, e fino a concorrenza di quanto
già ricevuto, i beni a titolo di eredità 36.
escludere, perché può darsi che la quota di eredità, pur maggiore in termini assoluti, della quota di riserva, sia in termini
relativi inferiore a quella.
30
Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale.
Successione necessaria, cit., 220 e segg.
31
Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale.
Successione necessaria, cit., 130, osserva che all’imputazione «si
deve far luogo anche in casi in cui non si pone una questione di
riduzione: ad esempio per conoscere in quale misura sia privo
di effetto, ai sensi dell’art. 549, un peso imposto all’istituzione
del legittimario in una quota di eredità». Cosı̀ conclude, alla
133: «Nel nostro sistema, che identifica la legittima con una
quota di eredità, l’imputazione ex se assume una funzione più
ampia, determinata dalla contrapposizione della legittima a una
quota disponibile del patrimonio, e perciò operante tutte le
volte che occorra stabilire l’entità delle due porzioni».
A riprova sia consentito, anche, rinviare a Barba, Azione di
simulazione proposta dai legittimari, in Famiglia, Persone e Succ.,
2010, 435-451, nel quale ho tentato di chiarire, che il legittimario ha interesse a promuovere l’azione di simulazione anche
indipendentemente dall’azione di riduzione. Perché altro è il
diritto del legittimario alla riunione fittizia, altro il diritto del
legittimario alla azione di riduzione.
32
Bene il meccanismo è spiegato da Amadio, Azione di
riduzione e liberalità non donative (sulla legittima ‘‘per equivalente’’), in Riv. Dir. Civ., 2009, 683 e segg., il quale precisa che
l’azione di riduzione consente al legittimario che l’abbia esperita
di acquistare il bene, non perché l’azione abbia questo effetto,
ma soltanto perché serve a far ritornare il bene nel patrimonio
del de cuius, consentendo, cosı̀, al legittimario, per la sua qualità
di erede, acquisita in forza al vittorioso esperimento dell’azione
di riduzione, e in ragion del suo diritto alla quota ereditaria, di
acquistare il bene.
33
Chiarisce, Magliulo, La legittima quale attribuzione patrimoniale policausale. Contributo ad una moderna teoria della
successione necessaria, cit., 537, «In quest’ottica l’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione può determinare la soddisfazione della legittima a titolo ereditario solo se esso dia luogo all’inefficacia in parte qua — dell’istituzione di erede che leda la
legittima, onde il legittimario possa acquisire la quota ereditaria
resa vacante dalla caducazione della predetta istituzione ovvero
— delle disposizioni liberali a titolo particolare che ledano la
legittima ed alla conseguente retrocessione dei beni che ne sono
oggetto, onde il legittimario, che, se preterito, diviene erede a
seguito dell’esito vittorioso dell’azione di riduzione, può far
valere i propri diritti su beni che rientrano a far parte dell’asse
ereditario.
34
Sulla unicità degli effetti dell’azione, almeno, A. Pino,
Tutela del legittimario, Padova, 1954, 31, il quale dedica al tema
dell’unicità dell’azione di riduzione un paragrafo, nel quale si
legge: «un attento esame delle diverse disposizioni dettate per la
disciplina della riduzione induce a ritenere che unica sia l’azione
predisposta per eliminare gli effetti lesivi degli atti del de cuius.
L’art. 564 cpv. richiede la imputazione ex se come presupposto
per l’ammissibilità per l’azione di riduzione, qualunque sia l’atto
lesivo».
35
Seppur in senso parzialmente diverso, molto chiaro Amadio, Azione di riduzione e liberalità non donative (sulla legittima
‘‘per equivalente’’), cit., 6893 e seg. Secondo, l’A., tuttavia, il
titolo ereditario del legittimario è rappresentato dalLa vocazione
necessaria «assicuratagli ex lege, operante in virtù (e come conseguenza) dell’inopponibilità delle disposizioni lesive con essa
incompatibile».
36
Nota la tesi di Mengoni, Successioni per causa di morte.
Parte speciale. Successione necessaria, cit., 61 e seg., secondo il
quale la disciplina sulla successione necessaria si limita a individuare quote di patrimonio, le quali, nondimeno, rapportate al
valore netto del relictum esprimono la quota di eredità nella
quale il legittimario deve essere chiamato. La finalità della legittima, in altri termini, viene conseguita, secondo l’A. con il
mezzo tecnico della vocazione a una quota di eredità riservata,
la quale rappresenta il titolo di acquisto della porzione di patrimonio dovuta al legittimario quando costui non abbia, per
forza della legge o di testamento, un titolo di eguale natura e,
almeno, uguale ampiezza. Un esempio, può aiutare a comprendere il pensiero dell’A., nonché la sua difficoltà pratica di realizzazione. Si immagini che: Tizio, ha donato in vita all’estraneo,
Alfa, un bene del valore di 30; alla sua morte lascia un patrimonio che vale 80 e debiti per 10. Gli sopravvivono come
legittimari il coniuge e due figli. Si tratta di determinare, di là
di una successione legittima o intestata, che possa aver, comunque, fatto acquisire ai legittimari una vocazione, quale sia, in
concreto, la misura della quota di eredità, spettante ai legittimari a titolo di riserva. Secondo l’A. si procede nel modo seguente. Al coniuge spetta una quota di patrimonio pari a 1/4,
mentre ai figli una quota di patrimonio pari a 1/2. Per determinare a quale quota di eredità corrispondono queste quote di
patrimonio, si deve rapportare il loro valore al relictum, al netto
dei debiti. La quota di patrimonio spettante a titolo di riserva al
coniuge è di 25 (1/4 di 80-40+30); la quota di patrimonio
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
1789
La circostanza, però, che il legittimario pretermesso,
una volta che abbia esperito l’azione di riduzione, diventi erede, non significa che il legittimario debba
essere sempre erede, ché si potrebbero dare, come
ho accennato, casi in cui il legittimario non lo diventi,
né lo chieda.
Si potrebbe, quindi, dare l’ipotesi che il coniuge non
sia erede, perché abbia ricevuto donazioni o legati
sufficienti a integrare la quota di patrimonio, che l’ordinamento gli riserva, che il coniuge, tuttavia non abbia ricevuto il diritto di abitazione e di uso e, in quanto
qualitativamente leso, agisca con l’azione di riduzione.
In questo caso, poiché l’azione mira soltanto al recupero di questo diritto, che, come ho detto è attribuito
al coniuge a titolo di legato, quest’ultimo non acquista
la qualità di erede.
In tale evenienza, mi parrebbe, dunque, da escludere, in radice, che si possa discorrere di prelegato, perché l’attribuzione a titolo particolare avente a oggetto
il diritto di abitazione e di uso avvantaggia il coniuge
che, anche all’esito del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione non acquista la qualità di erede,
essendo l’azione volta soltanto a conseguire un legato
ex lege.
Più semplice e, davvero, dirimente, il secondo profilo.
La legge esclude che tale legato sia a carico di tutta
l’eredità.
Il legislatore, all’esatto opposto, stabilisce che questo
legato debba gravare, in primo luogo sulla quota disponibile, successivamente, sulla quota del coniuge e,
in ultimo, sulla quota dei figli. Esso dunque, non potrebbe gravare, indistintamente, su tutta l’eredità.
Se, per ipotesi, i diritti di abitazione sulla casa familiare e di uso dei mobili che la corredano, potessero,
interamente gravare sulla porzione disponibile, essendo la medesima capiente, sarebbe evidente che il legato non graverebbe anche sulle quote spettanti agli altri
legittimari e, dunque, non graverebbe neppure in parte qua, né sulla quota del coniuge superstite, né su
quella dei figli. In questo caso, dunque, sarebbe, perfino assurdo discorrere di prelegato, perché la caratteristica peculiare di esso, ossia la coincidenza di onerato
e onerato in capo a una medesima persona 37, non
potrebbe darsi. Se, invece, la quota disponibile non
fosse sufficiente, allora, dovrebbe gravare sulla quota
di riserva spettante al coniuge e se essa fosse capiente,
non potrebbe gravare su quella dei figli.
Affermare, che si tratti di prelegato, significa far
gravare questo legato ex lege indistintamente su tutti
gli eredi, in patente contraddizione con quanto stabilito nel comma 2 dell’art. 540 c.c., il quale gradua
diversamente l’ordine dei soggetti su cui tale legato
deve gravare 38. Con l’ulteriore precisazione che se il
testatore avesse disposto della quota disponibile mediante un legato e la quota disponibile fosse capiente
per soddisfare il diritto del legittimario, il legato in
parola graverebbe proprio sul legatario, sicché esso
si atteggerebbe, addirittura, a sublegato, o legato in
sottordine.
Peraltro che non si tratti di un prelegato, pare evidente anche alle Sezioni unite della Cassazione che,
nella decisione del febbraio, pur affermando che il
legato previsto dall’art. 540, comma 2, c.c., si aggiunge
alla quota ereditaria che spetta al coniuge secondo la
disciplina della successione legittima e, dunque, che ‘‘il
valore capitale tali diritti deve essere stralciato dall’asse
ereditario per poi procedere alla divisione’’ secondo le
norme sulla successione legittima, precisano che si
tratta di un’attribuzione che opera secondo un ‘‘meccanismo assimilabile [e, dunque, non corrispondente]
al prelegato’’.
spettante a ciascun figlio è pari a 25 (1/2 di 80-40+30 /2). La
quota di eredità del coniuge sarebbe pari a 25/40, mentre la
quota spettante ai figli 50/40. Gli è, però, che nel caso di specie,
il calcolo non consente un’immediata intelligenza del fenomeno, dacché 25/40 + 50/40 dà un risultato incorrente rispetto
alla unità e già soltanto la quota complessiva dei figli, pari a 5/4
sarebbe, essa stessa, incoerente. Ciò dovrebbe significare che
nei casi in cui al numeratore troviamo un numero maggiore del
denominatore, i legittimari devono considerarsi eredi universali,
perché non si potranno dare altri eredi. Costoro, dunque, sono
chiamati nell’unità del patrimonio. Può, allora osservarsi che
questo procedimento, Se aiuta a risolvere il problema disciplinare nei rapporti tra legittimari e non legittimari, non risolve il
problema del rapporto tra i legittimari, risultandomi affatto
difficile, sulla base di questo calcolo, stimare quale sia la quota
di eredità di spettanza dei singoli legittimari. Per intenderci in
che quota ereditaria devono considerarsi eredi i figli e in che
quota il coniuge. A ciò, tornando, cosı̀, in coerenza al pensiero
che ho espresso nel testo, mi pare che supplisca la disciplina
sulla successione legittima, la quale stabilisce che al coniuge
spetta 1/3 e ai figli 2/3. Sarebbe a dire, cioè, che appurata
l’eventuale necessità di ridurre a zero eventuali disposizioni
testamentarie che istituissero eredi soggetti estranei, ne verrebbe che la successione dovrebbe essere regolata secondo le quote
di legge. Poi, ovviamente, occorre verificare se le quote di legge
consentono a ciascuno dei legittimari di conseguire beni per un
valore corrispondente alla quota di patrimonio che l’ordina-
mento riserva loro. Con intesa che se cosı̀ non fosse, ferme le
quote di eredità nelle quali i legittimari sono chiamati a succedere, si dovrebbero regolare i conti secondo la ordinaria disciplina sulla successione necessaria, provvedendo, se del caso a
domandare le riduzioni di donazioni lesive. Ovvio che in caso di
concorso alla successione di soli legittimari non si potrebbe
dare una ipotesi di riduzione delle loro quote.
37
Per tutti, Bonilini, I legati, in Comm. C.C. fondato da
Schlesinger, diretto da Busnelli, Milano, 2006, 2a ed., 374; Masi, Dei Legati (artt. 649-673), in Comm. C.C. a cura di Scialoja,
Branca, Bologna-Roma, 1979, 102 e segg.
38
In questo senso, Perego, I presupposti della nascita dei
diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite,
cit., 720; Vicari, I diritti di abitazione e di uso riservati al
coniuge superstite, cit., 1319; Calapso, Alcune considerazioni
ancora sui diritti di abitazione e di uso spettanti al coniuge superstite a norma del 2º comma dell’art. 540 c.c., cit., 559. Molto
convincente, Tedesco, I diritti di abitazione e di uso del coniuge
superstite nella successione legittima, cit., 387, «I diritti non si
deducono in anticipo dalla massa, ma sono compresi nella quota intestata del coniuge; se tale quota è inferiore i diritti degli
altri coeredi si riducono ai sensi dell’art. 553, nei limiti strettamente necessari per consentire al coniuge di conseguire una
utilità complessiva pari alla sua riserva». In questo senso, anche
Schiavone, I diritti di abitazione e di uso attribuiti al coniuge
superstite nella successione ab intestato, cit., 153 e seg.
8. I diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c. nella successione legittima.
Il diritto di abitazione sulla casa famigliare e il diritto
di uso dei mobili che la corredano, i quali, certamente,
competono al coniuge superstite, in veste di legittimario, in aggiunta alla quota di patrimonio a quegli riser-
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
1790
vata, ovviamente competono al coniuge anche nel caso
di successione legittima.
Se soltanto si mantiene la necessaria e ineludibile
distinzione che corre, per struttura e funzione, tra la
disciplina sulla successione legittima e quella sulla tutela dei legittimari, è facile avvertire che il domandarsi
se i diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c., debbano, o
meno, aggiungersi alla quota di eredità spettante al
coniuge nella successione ab intestato è una domanda
mal posta e che, comunque, merita risposta negativa 39.
La differenza di denominatori che il legislatore ha
considerato nel determinare la quota di patrimonio
riservata ai legittimari e la quota di eredità spettante
ai successibili, spiega perché si possano dare casi concreti nei quali, pur se in astratto la prima quota sia
sempre inferiore alla seconda, si possa avere lesione
dei diritti riservati ai legittimari, anche nel caso di
successione legittima.
Gli è, però, che nel caso di successione legittima la
tutela dei legittimari viene realizzata dalla legge in modo automatico e immediato. Non occorre, infatti, che
il legittimario leso, non potendosi, per definizione, dare un’ipotesi di pretermissione, agisca in riduzione,
perché, secondo la norma di cui all’art. 553 c.c., nel
concorso di legittimari con altri successibili, le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui sia necessario per integrare la quota riservata ai legittimari. L’azione di
riduzione rimane, allora, necessaria, sol che occorra
chiedere la riduzione di donazioni fatte, in vita, dal
de cuius.
Se soltanto si muova l’indagine da queste premesse e
considerazioni, si avverte, con tratto di necessità, l’esigenza di sciogliere il rapporto tra le due discipline.
Rapporto certamente popolato di problemi, sicuramente denso di insidie, nondimeno ineludibile, e, soprattutto, difficilmente aggirabile dall’affermazione
che i diritti di abitazione sulla casa familiare e di uso
sui mobili che la corredano costituiscono un plus, non
soltanto rispetto alla quota di riserva del coniuge superstite, bensı̀ anche rispetto alla di lui quota intestata 40.
Una volta che si apra la successione legittima, al
coniuge superstite spetta la quota di eredità che, secondo la compagine familiare esistente al tempo di
apertura della successione, la legge espressamente gli
assegna a titolo di successibile (artt. 581, 582, 583
c.c.). Se, per effetto della istituzione di erede del co39
In questo senso, Schiavone, I diritti di abitazione e di uso
attribuiti al coniuge superstite nella successione ab intestato, cit.,
156.
40
Il rapporto era stato già chiarito da Mengoni, Successioni
per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 175,
il quale scrive: «a tale scopo nella successione legittima intestata
la delazione dei due diritti di godimento si atteggia diversamente a seconda che il valore della quota attribuita al coniuge degli
artt. 581 e 582 sia uguale o superiore al valore della legittima
complessiva oppure inferiore. Nella prima ipotesi essi sono
attribuiti come legato in conto, cioè conteggiabili nella quota
intestata in sede di divisione ereditaria. Nella seconda è evidente che il coniuge non può pretendere più del valore complessivo
della sua legittima, il quale risulta superiore al valore della stessa
quota intestata. Occorre però distinguere a seconda che il coniuge concorra con successibili non legittimari o con successibili legittimari. Nel primo caso i due diritti si comportano come
prelegati: dopo averli prelevati, il coniuge consegue sulla massa
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
niuge superstite nella quota virile (artt. 581, 582, 583
c.c.), costui si trovi a ricevere beni in misura inferiore
alla quota di patrimonio che al medesimo è riservata
dal legislatore (artt. 540, 542, 544 c.c.), allora le porzioni di eredità spettanti agli altri successibili si riducono automaticamente (art. 553 c.c.), finché il coniuge
non consegua, di là della quota ereditaria a lui spettante a titolo di successibile, una porzione di beni, per
quantità e qualità, corrispondente ai diritti che la legge
gli riserva, in veste di legittimario. Se anche l’integrale
riduzione delle quote spettanti agli altri successibili
non legittimari, non fosse sufficiente a far acquisire
al coniuge superstite la quota di patrimonio a quegli
riservata, allora quest’ultimo, ove volesse, dovrebbe
chiedere la riduzione delle donazioni fatte, in vita,
dal de cuius (art. 555 c.c.) 41.
A svolgere, dunque, il rapporto tra le due discipline,
quella sulla successione legittima e quella sulla tutela
dei legittimari, si avverte che al coniuge spettano i
diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c., in quanto si
tratta di diritti che la legge espressamente gli riserva.
Tali diritti gli competono in aggiunta alla quota di
patrimonio che la legge riserva al coniuge, in caso di
concorso con altri legittimari (art. 542 e 544 c.c.); non
necessariamente in aggiunta alla quota di eredità che al
coniuge, in caso di concorso con altri, è assegnata in
quanto successibile (artt. 581, 582 c.c.).
Se tali diritti si aggiungano alla quota di eredità che
compete al coniuge superstite a titolo di successione
legittima è, financo, una domanda alla quale è, tecnicamente, non possibile offrire una risposta coerente,
stante la diversità dei denominatori che connotano la
quota di patrimonio riservata e la quota di eredità dei
successibili.
Non si tratta, punto, si affermare che tali diritti si
aggiungano, o no, alla quota di eredità, che spetta al
coniuge a titolo di successibile, bensı̀ soltanto di coordinare le due discipline, di modo che, di là della quota
di eredità che spetta al coniuge superstite, secondo la
disciplina sulla successione legittima, a costui sia, comunque, assicurata una pars bonorum, qualitativamente e quantitativamente, corrispondente e coerente a
quella che il legislatore espressamente gli riserva, in
quanto legittimario 42. Con l’intesa che tutte le volte
in cui la quota di eredità astrattamente spettante al
coniuge, in qualità di successibile, non gli consenta
(a cagione della modesta entità del relictum) di conseguire una parte di patrimonio corrispondente a quella
restante una porzione pari al valore della sua quota di riserva al
netto dell’onere dei legati proporzionalmente gravante anche su
di lui».
41
È di tutta evidenza, e non meriterebbe, neppure, una precisazione, che se le la riduzione a zero delle porzioni che spettano ad altri successibili non legittimari non fosse sufficiente a
integrare la quota di patrimonio riservata al coniuge, ciò non
può che dipendere dall’esistenza di donazioni o altre liberalità
disposte dal de cuius in vita. Se, infatti, in vita, il testatore non
avesse compiuto alcuna donazione, allora non v’ha dubbio che
la sola riduzione delle porzioni degli eredi legittimi in concorso
con legittimari sarebbero, certamente, sufficienti a soddisfare le
ragioni dei legittimari lesi. L’insufficienza può, esclusivamente,
legarsi all’esistenza di donazioni, con le quali il de cuius abbia
disposto di beni per un valore eccedente la quota disponibile.
42
In questo senso, Schiavone, I diritti di abitazione e di uso
attribuiti al coniuge superstite nella successione ab intestato, cit.,
158.
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
che la legge gli riserva, le porzioni degli altri successibili si riducono automaticamente (art. 553 c.c.), salva,
sempre, la possibilità del coniuge superstite, ove questo automatismo non fosse sufficiente a sanare la lesione, di domandare la riduzione delle donazioni fatte in
vita dal de cuius 43.
L’idea che tali diritti debbano aggiungersi alla quota
intestata del coniuge avrebbe anche un singolare effetto distorsivo dell’intera disciplina sulla successione legittima, perché finirebbe, sempre e comunque, per
alterare le quote ereditarie che la legge assegna al coniuge e a coloro che concorrono con lui. Non appena
si affermi, infatti, che quei diritti debbano aggiungersi,
si finisce, inevitabilmente per dire che la quota di eredità che la legge, in caso di successione ab intestato,
assegna al coniuge in concorso con altri, non è più pari
a 1/2, 1/3, 2/3 (artt. 581, 582 c.c.), bensı̀ essa diventerebbe pari a 1/2, 1/3, 2/3 più il valore dei diritti di
cui all’art. 540, comma 2, c.c. In altri termini, si altererebbe non soltanto la misura quota di eredità del
coniuge, ma anche, di necessità, la misura della quota
spettante agli altri successori legittimi che con il coniuge possono concorrere; generando, attraverso questa
ortopedica interpretazione, una vera e propria modificazione del sistema legislativo disegnato dal legislatore.
In taluni e, per vero, la maggioranza dei casi, la
quota di eredità che spetta al coniuge superstite, in
caso di successione ab intestato, consente a quest’ultimo di conseguire una parte di patrimonio corrispondente a quella che la legge gli riserva. Ipotizzare, allora, aprioristicamente, e di là di ogni coordinamento tra
le discipline, che i diritti di cui all’art. 540, comma 2,
c.c., debbano aggiungersi alla quota di eredità, impone
un’inutile alterazione degli equilibri successori che il
legislatore ha fissati agli artt. 581 e 582 c.c.; determina
un’interpretazione correttiva del sistema, certamente
dissonante e contraria alla lettera e allo spirito della
legge.
Nei casi in cui la quota di eredità spettante al coniuge superstite a titolo di legittima, non gli consentisse di
conseguire una parte di patrimonio corrispondente a
quella che la legge gli riserva, la porzione che gli spetta
viene, certamente, aumentata. Ma non perché, aprioristicamente, i diritti di cui all’art. 540, comma 2, c.c.,
si debbano aggiungere alla quota di eredità, bensı̀ soltanto perché il legittimario è stato, quantitativamente o
qualitativamente, leso e occorre sanare questa lesione 44.
Ne va, dunque, il fermo dissenso rispetto al principio espresso dalle Sezioni unite della Cassazione. La
quale, ben lungi dal proporre un’unitaria ricetta,
avrebbe dovuto svolgere, in coerenza e aderenza al
diritto positivo, il rapporto tra la disciplina sulla suc43
Interessante e convincente, la soluzione proposta da Perego, I presupposti della nascita dei diritti di abitazione e di uso
a favore del coniuge superstite, cit., 716, la quale assegna alla
norma di cui all’art. 540, comma 2, c.c., quando essa operi
nell’ambito della successione testata, anche una funzione di
divisione ereditaria. Esclude che tali diritti si debbano aggiungere alla quota di eredità spettante al coniuge a titolo di successione legittima, Vicari, I diritti di abitazione e di uso riservati al coniuge superstite, cit., 1331.
44
Seppure svolte allo scopo di dimostrare una tesi diversa,
valgano le considerazioni di Calapso, Alcune considerazioni
1791
cessione legittima e la disciplina sulla successione necessaria, concludendo nel senso che al coniuge superstite, anche nel caso di successione legittima, spettano
tutti i diritti che la legge riserva al coniuge nella disciplina sulla successione necessaria, ma non perché quegli è successibile legittimo, ma sol perché è legittimario. Avrebbe, cioè, dovuto affermare che, ricorrendone i presupposti, al coniuge superstite, anche nel caso
di successione ab intestato, spetta il diritto di abitazione sulla casa familiare e il diritto di uso sui mobili che
la corredano. Tali diritti si aggiungono alla quota di
patrimonio che la legge riserva al coniuge in quanto
legittimario, non alla quota di eredità che la legge
assegna al coniuge superstite in quanto successibile
legittimo. Con intesa che se la quota spettante al coniuge, in quanto successibile, non fosse sufficiente a
soddisfare i diritti che la legge riserva al coniuge superstite in qualità di legittimario, allora, e soltanto
allora, avrebbe operato il meccanismo correttivo posto
nell’art. 553 c.c., ed eventualmente il diritto del coniuge superstite di chiedere la riduzione delle donazioni
lesive (art. 555 c.c.).
Infine, un’ultima considerazione pare necessaria.
Si legge nella motivazione della decisione delle Sezioni unite della Cassazione, la quale echeggia taluni
spunti di letteratura, che il meccanismo stabilito nell’art. 553 c.c., non sarebbe idoneo a garantire al coniuge superstite di conseguire i diritti di cui all’art.
540, comma 2, c.c., perché prevede una riduzione
automatica soltanto in caso di lesione della quota e
perché, imponendo al legittimario di imputare alla
propria porzione quanto ricevuto in virtù di donazioni
o di legati, importerebbe anche di imputare il legato di
cui all’art. 540, comma 2, c.c., il quale, dovrebbe, invece, gravare sulla porzione disponibile.
Entrambe le obiezioni non colgono nel segno.
Rispetto alla prima può semplicemente osservarsi
che la disciplina recata all’art. 553 c.c., benché espressamente discorra di ‘‘quota riservata ai legittimari’’,
indubbiamente potrebbe riferirsi, stante la precisa indicazione contenuta nell’art. 536 c.c., nella quale si
menzionano anche gli altri diritti, al complesso dei
diritti riservati ai legittimari. Inoltre, deve osservarsi,
cosı̀ scendendo anche alla seconda considerazione, che
alla prima si lega con tratto di necessità, che il meccanismo automatico che il legislatore ha previsto nell’art.
553 c.c., per definizione, non può che operare sulla
quota, mai potendosi immaginare, nella successione ab
intestato, che esso possa servire allo scopo di garantire
al coniuge superstite i diritti di abitazione e di uso.
I diritti segnati all’art. 540, comma 2, c.c., ho già
detto, debbono considerarsi un legato ex lege di specie. I diritti portati in tale legato vengono, pertanto,
ancora sui diritti di abitazione e di uso spettanti al coniuge superstite a norma del 2º comma dell’art. 540 c.c., cit., 559 e seg.,
«L’effetto, inoltre, della compressione automatica esercitata
dall’imputazione del valore dei predetti diritti sulla quota di
riserva del coniuge, il quale può perdere l’intera proprietà della
quota dei beni che, in mancanza di detta imputazione ne avrebbero fatto parte, è in evidente contrasto con il concetto di
un’attribuzione in aggiunta alla quota di riserva spettante al
coniuge a norma del 1º comma dello stesso art. 540 c.c., concetto che costituisce il presupposto del legato per l’intero ammontare, quale ulteriore vantaggio del coniuge».
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
1792
immediatamente acquistati dal coniuge superstite al
momento dell’apertura della successione.
Indubbio, poi, trattandosi di diritti portati in un legato, che il coniuge debba imputare il valore di quanto
conseguito in virtù di questo legato alla propria quota 45.
Indubbio, dunque, che il valore di questo legato debba
essere considerato e scomputato dalla quota di eredità
spettante al coniuge a titolo di legittima 46. Una volta
che il coniuge abbia conseguito la quota di eredità che
la legge gli assegna a titolo di erede legittimo (quota
nella quale, di necessità, ricorrendone i presupposti,
sono compresi i diritti di abitazione sulla casa familiare
e di uso sui mobili che la corredano), occorrerà valutare
se i beni concretamente assegnatigli abbiano un valore
corrispondente alla quota di patrimonio che la legge gli
riserva in quanto legittimario.
Ove le attribuzioni fatte al coniuge fossero sufficienti
a integrare la quota di riserva, non si porrebbe alcun
problema.
Ove, viceversa, le attribuzioni fatte al coniuge superstite, in forza della successione legittima, fossero insufficienti a integrare i diritti che la legge riserva al coniuge (a’ sensi degli artt. 540, 542 e 544 c.c.), allora
opererebbe il meccanismo di cui all’art. 553 c.c. In
forza del quale le porzioni che spettano ai successibili
non legittimari si riducono, proporzionalmente, nei
limiti in cui sia necessario per integrare la quota riservata al coniuge superstite, che con costoro concorra.
Se la riduzione, anche a zero, delle porzioni spettanti ai
successibili non legittimari fosse sufficiente a integrare
la quota riservata al coniuge, allora non v’ha dubbio,
per un verso, che il meccanismo di cui all’art. 553 c.c.,
sarebbe servito soltanto a ridurre le porzioni (rectius:
quote) spettanti ai primi, dacché i diritti di cui all’art.
540, comma 2, c.c., sarebbero già acquisti dal coniuge
superstite, a titolo di legato, e, per altro verso, che
sarebbe pienamente rispettata la regola che impone
di far gravare il legato prima, di tutto, sulla disponibile. La riduzione delle quote spettanti a successibili non
legittimari infatti, incide, per definizione, sulla sola
porzione disponibile. Queste considerazioni non sarebbero scalfite se il coniuge superstite, nonostante
45
In senso contrario, Gargano, Il coniuge superstite: un
erede scomodo? I diritti di uso e di abitazione, cit., 1628, secondo il quale si tratterebbe di legato che nasce, per volontà di
legge, come legato con dispensa da imputazione.
46
Non mi pare si possa dubitare che i legati fatti ai legittimari, siano essi in conto di legittima (senza dispensa), o in
sostituzione di legittima, debbono gravare, secondo la regola
che il legislatore fissa nell’art. 551 c.c. Il legato grava sulla
porzione indisponibile (ossia sulla quota di riserva del beneficiario); se, però, il valore eccede quello della riserva spettante al
legittimario, per l’eccedenza grava sulla disponibile. La circostanza che detta regola sia posta nell’art. 551 c.c. ha, talvolta,
generato l’equivoco, che questo modo di imputazione dovesse
valere soltanto per il legato in sostituzione di legittima, ma non
anche per il legato in conto di legittima, senza dispensa. Il che,
però, mi sembra soltanto il frutto di un equivoco. Reputo,
infatti, inevitabile che anche un legato in conto di legittima,
senza dispensa da imputazione, debba gravare sulla eredità in
tal modo. La regola contenuta nell’art. 551 c.c., non serve,
dunque, per differenziare il modo in cui deve gravare sulla
eredità il legato in sostituzione di legittima, rispetto al legato
in conto di legittima, ma piuttosto per legittimare la possibilità
che il primo possa avere un valore superiore alla quota di riserva. Quando, infatti, si pensa al legato in sostituzione di legittima, si immagina, in genere, un legato di valore inferiore alla
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
l’operatività del meccanismo dell’art. 553 c.c., non riuscisse a integrare la quota di riserva. In tale caso, infatti, dovrebbe domandare la riduzione di donazioni, a
norma dell’art. 555 c.c.
Il problema dei soggetti su cui debba gravare il legato ex lege, si pone, allora, soltanto nel caso di concorso tra soli successori legittimari, caso nel quale, per
definizione non può operare l’art. 553 c.c., il quale
presuppone un concorso del legittimario con successibili non legittimari.
Soltanto in tale caso, diventa determinate stabilire in
che misura il legato di cui all’art. 540, comma 2, c.c.
debba gravare sulla quota del coniuge superstite ed
eventualmente sulla quota dei figli. Ma qui tornano
le considerazioni che ho già svolto, le quali, non soltanto offrono la soluzione nel rapporto tra successibili
legittimari, ma soprattutto dimostrano che il considerare il legato ex lege di cui all’art. 540, comma 2, c.c.,
un prelegato, importa la violazione della stessa norma,
che gradua, diversamente, il carico di questo legato,
imponendo che esso debba gravare, dapprima sulla
quota disponibile, poi sulla quota di riserva del coniuge, in ultimo sulla quota di riserva dei figli 47.
Se alla successione testata vengono soltanto legittimari, ciò significa che si possono dare o il concorso del
coniuge superstite con i figli, ovvero il concorso del
coniuge superstite con gli ascendenti. Indubbio che se
siano state fatte dal de cuius donazioni, che possano
aver leso, quantitativamente le quote spettanti ai legittimari costoro avranno diritto di agire in riduzione. Non
si potrebbe, invece, dare il caso che le donazioni compiute in vita dal de cuius, possano ledere la riserva qualitativa spettante al coniuge, dal momento che i diritti di
cui all’art. 540, comma 2, c.c., spettano al coniuge superstite soltanto se la casa adibita a residenza familiare
sia di proprietà del defunto. Se essa, dunque, per effetto
di una precedente donazione non faccia più parte del
relictum, al coniuge non spetterebbero i predetti diritti.
9. Epilogo e spinta centrifuga dal diritto ereditario.
Le istanze di contemporaneità provenienti da più
luoghi, le quali denunciano l’esigenza di un rafforzaquota di patrimonio che il legislatore riserva al legittimario
beneficato. Di qui la singolare disciplina per cui il legittimario
può trattenere il legato, ma perdere il diritto a domandare
l’integrazione della quota di riserva, oppure rinunziare al legato,
far accertare la sua qualità di erede e conseguire, dunque, una
parte di patrimonio corrispondente a quella che l’ordinamento
giuridico gli riserva. Gli è, però, che la disciplina dell’art. 551
c.c., nello stabilire che il legato deve gravare prima sulla quota
indisponibile e, per l’eccedenza, sulla quota disponibile, lascia
aperta la possibilità che il legato in sostituzione di legittima sia
di valore complessivamente, anche, superiore alla pars bonorum
riservata al legittimario. Il legato fatto al legittimario, che sia in
conto di legittima o in sostituzione di legittima, grava sempre
nel medesimo modo. Ciò che differenzia l’uno dall’altro è, soltanto il diritto al supplemento: chiedibile soltanto nel caso di
legato in conto.
47
Una chiara e precisa esemplificazione del modo in cui il
legato grava sulla quota disponibile, poi, sulla quota del coniuge
e in ultimo sulla quota dei figli, si legge in Tedesco, I diritti di
abitazione e di uso del coniuge superstite nella successione legittima, cit., 383-386. Alcuni esempi anche in Perego, I presupposti della nascita dei diritti di abitazione e di uso a favore del
coniuge superstite, cit., 718 e seg. e in Vicari, I diritti di abitazione e di uso riservati al coniuge superstite, cit., 1329.
Diritto Civile | DIRITTO DI ABITAZIONE E DI USO
1793
mento dell’autonomia testamentaria, e la consapevolezza della scelta tracciata e segnata dalla Consulta già
nel 1988, avrebbero dovuto suggerire alle Sezioni unite della Cassazione di percorrere un cammino diverso
da quello battuto e, in un più stringente e rigoroso
ossequio alle discipline positive, uniche nostre sovrane, di affermare un diverso principio di diritto, che, in
luogo di congelare una ricetta sempre eguale a sé stessa, avesse avuto cura di cogliere che il quesito sul quale
era stata chiesta di pronunciarsi implicava lo svolgimento di un rapporto tra due grandezze successorie,
intrinsecamente connesse, ma, inevitabilmente, diverse
l’una dall’altra.
Epperò, il supremo Collegio, peraltro in funzione
nomofilattica, sceglie una via diversa. Animato, di certo, da un’intenzione benefica, che arieggia, con tratto
di signoria per tutta la sentenza, e che non si fatica di
cogliere nell’esigenza di attribuire al coniuge superstite, già privato dal tribunale della storia del proprio
compagno di vita, il diritto di continuare, usque ad
mortem, ad abitare la casa famigliare e a usare i mobili
che la corredano. Un’esigenza, certamente coerente
con lo spirito della disposizione di legge segnata al
comma 2 dell’art. 540 c.c., che, però, travalica e travolge lettera e spirito di quella disposizione, quando la
Cassazione si spinge a sciogliere il modo di calcolo di
tali diritti, ove esso si debba consumare nell’ambito
della successione ab intestato, dallo stesso procedimento segnato nella legge, quando cioè la Cassazione
postula che tali diritti di debbano pre-dedurre.
È quest’ultima scelta che non può essere condivisa e
merita di essere riformata. Perché si tratta di una scelta
mossa, probabilmente, da una presunta esigenza di
giustizia, ma non corroborata dal sistema positivo.
Del resto è noto che si invocano esigenze di giustizia
e richiamano valori sociali e umani, soltanto quando si
è consapevoli che l’interpretazione della legge non
consente il risultato esegetico avuto di mira. Echeggia,
in questo atteggiamento, seppure con toni e colori
molto lontani e diversi da quelli di allora, l’atmosfera
della stagione dell’uso alternativo del diritto.
La Cassazione, quindi, con la decisione assunta, angustia l’autonomia testamentaria, lede le istanze di
contemporaneità e perde l’occasione di ripensare il
rapporto tra successione legittima e successione necessaria, che, solo, avrebbe consentito la soluzione al problema sollevato.
Nella successione legittima, nei casi in cui il coniuge
concorra con altri successibili, non v’ha dubbio, che
costui, in quanto legittimario, abbia diritto alla riserva
e, dunque, anche al diritto di abitazione sulla casa
famigliare e di uso sui mobili che la corredano. Tali
ultimi diritti, però, spettano al coniuge in quanto legittimario; essi servono a comporre la sua quota di
riserva; essi non si aggiungono, però, alla quota virile
che al coniuge spetta a titolo di legittima.
Soltanto questa interpretazione avrebbe consentito
di dare respiro all’autonomia testamentaria; soltanto
questa soluzione avrebbe consentito equilibrio e armonia di soluzione 48.
Gli esempi utilizzati ai fini di cogliere, nella dram-
matizzazione dell’esito epistemologico, la distorsione
della soluzione scelta dal supremo Collegio, possono,
nuovamente, tornare utili.
Nel caso proposto, il risultato finale era il seguente:
la coniuge, Caia, consegue beni per un valore complessivo pari a 70, mentre a ciascun figlio beni complessivi per un valore pari a 10.
La soluzione più coerente al tessuto positivo è ben
altra.
Al coniuge spetta senz’altro il diritto di abitazione e
di uso. Gli è però che tali diritti, poiché valgono 60,
assorbono non soltanto la disponibile, ma anche tutta
la quota spettante al coniuge. Il quale, proprio per aver
acquisto tali beni, non avrebbe diritto a partecipare
alla divisione del relictum, nel senso che il restante
valore di 30, dovrebbe essere diviso, esclusivamente
tra i figli, ognuno dei quali dovrebbero conseguire 15.
Non v’ha dubbio che anche in questo caso ciascuno
dei figli sarebbe astrattamente leso. Ciascuno di loro
avrebbe avuto diritto, a titolo di riserva, a 22,5. Ciascuno
di loro consegue, invece, 15, ossia 7,5 in meno di quanto
la legge loro riserva. Ciò significa che i diritti di cui all’art.
540, comma 2, c.c., gravano, per intero, sulla quota disponibile (1/4 dell’eredità, pari, nel caso di specie, a
22,5), per intero sulla quota del coniuge (1/4 dell’eredità,
pari, nel caso di specie, a 22,5), soltanto per parte sulla
quota di riserva spettante ai figli (per i restanti 10).
La differenza balza agli occhi: la soluzione scelta
dalla Cassazione consegna a ciascun figlio 10, la soluzione che ho proposta consegna a ciascun figlio 15. In
entrambi i casi, in ossequio alla scelta fatta dal legislatore nell’art. 540, comma 2, c.c., i figli sono lesi nella
loro quota di riserva, senza possibilità di agire in riduzione e domandare ciò che, astrattamente, competerebbe loro. Almeno, però, la soluzione proposta vale a
limitare la distorsione.
Il caso, con la forza banale dei numeri, segna le
importanti conseguenze pratiche; dimostra quanto
quest’ultima decisione delle Sezioni unite abbia negativamente inciso sulla posizione di tutti gli altri legittimari, diversi dal coniuge superstite.
Una soluzione, dunque, che nello stringere le maglie
dell’autonomia testamentaria, inevitabilmente, — mi
sento di dire ex abundantia cordis — rafforza la spinta
centrifuga che, da anni, caratterizza l’atteggiamento
dei consociati rispetto al nostro diritto delle successioni a causa di morte.
Dopo questa decisione, non è difficile attendersi che
nei partici si consolideranno e diffonderanno, sempre
più, allo scopo di sottrarsi a una disciplina, divenuta,
ancora più asfissiante, tecniche di trasferimento anticipato della ricchezza, manovre tese a spogliare i soggetti della proprietà della casa adibita a residenza famigliare, anche attraverso intestazioni di beni sotto
nome altrui, costituzioni di società, anche di diritto
estero, soprattutto anonime e operazioni sempre più
raffinate di ingegneria successoria volte a realizzare
spin-off ereditari. Destinati a divenire la nuova frontiera del diritto ereditario.
48
È appena il caso di osservare che la II Sezione civile della
Cassazione (Cass., 19 aprile 2013, n. 9651, inedita), tornando,
appena due mesi dopo la pronunzia a Sezioni unite, sulla que-
stione, non applica il principio espresso dal supremo Collegio,
affermando che esso debba valere solo nel caso di successione
legittima, ma non anche di successione testamentaria.
Vincenzo Barba
Giurisprudenza Italiana - Agosto/Settembre 2013
Civile Sent. Sez. U Num. 5068 Anno 2016
Presidente: CICALA MARIO
Relatore: PETITTI STEFANO
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COMI Nicola, COMI Emilia e COMI Cesare, in proprio e quali eredi di Cama Luisa ved. Corni, rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del ricorso, dall'Avvocato Antonino Pellicanò, presso lo studio del quale
in Roma, piazzale delle Belle Arti n. 8, sono elettivamente domiciliati;
- ricorrenti contro
MONTESANO Emilia in Panuccio, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del controricorso, dagli Avvocati Alberto Panuccio e Giuseppe Panuccio, presso lo studio dei quali in Roma, via Sistina n. 121, è
elettivamente domiciliata;
- controricorrente e contro
SCAPPATURA Angelina, SCAPPATURA Emilia e SCAPPATURA Vincenza,
rappresentate e difese, per procura speciale in calce al controricorso,
dall'Avvocato Filippo Zuccarello, elettivamente domiciliate presso Io studio dell'Avvocato Elisa Neri in Roma, via dei Gracchi n. 130;
- conti-or/corrente contro
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
Data pubblicazione: 15/03/2016
MONTESANO Paolo Francesco Maria, MONTESANO Alessandro Salvatore
Maria e MONTESANO Giovanna Rosa Maria, SCAPPATURA Vincenzo, Curatela dei Fallimenti di Montesano Nicola e di Zaccaria Maria Rosaria, ZACCARIA Maria Rosaria, MONTESANO Chiara e MONTESANO Luca, gli ultimi
tre in qualità di eredi di Montesano Nicola;
- intimati nonché nei confronti di
presentata e difesa, per procura a margine della memoria di costituzione,
dall'Avvocato Giuseppe Morabito, elettivamente domiciliata in Roma, via
G. Donati n. 32, presso lo studio dell'Avvocato Roberto Marino;
- resistente avverso la sentenza della Corte d'appello di Reggio Calabria n. 232 depositata il 23 novembre 2006;
udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 10 marzo
2015 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;
sentiti gli Avvocati Antonino Pellicanò, per parte ricorrente, e Giuseppe
Panuccio, anche per delega, per parte resistente;
sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Umberto APICE, che ha concluso per li rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Emilia Montesano adiva il Tribunale di Reggio Calabria con citazione del
gennaio 1989 chiedendo che venisse: a) dichiarata aperta la successione
di Corni Pietro, da devolversi secondo le norme della successione legittima per 1/4 in favore del fratello Carni Francesco, per 1/4 in favore di
Corni Nicola, Comi Emilia e Corni Cesare (in rappresentazione di Comi
Giuseppe, fratello di Corni Pietro), per 1/4 in favore della sorella Corni
Vincenza e per 1/4 in favore dei figli e dei discendenti dell'altra sorella
Corni Giovanna; b) dichiarata aperta, altresì, la successione di Carni Francesco, da devolversi secondo le norme della successione legittima per 1/3
in favore dei figli del fratello Corni Giuseppe, per 1/3 in favore dei figli
della sorella premorta Corni Vincenza (a lei subentrati per rappresentazione) e per 1/3 in favore dei figli e dei discendenti della sorella premorta
Corni Giovanna (a lei subentrati per rappresentazione); 3) disposta la
formazione delle masse ereditarie comprendendo in esse tutti i beni relitti
- 2 -
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
BRANCA Gaia Cosima Fortunata, quale erede di Emilia Scappatura, rap-
risultanti dalle dichiarazioni di successione; 4) disposta la divisione dei
beni relitti e lo scioglimento della comunione; 5) disposta la divisione per
stirpi, attribuendo a ciascuna stirpe beni corrispondenti alle quote di diritto di ciascuna; 6) ordinata la formazione del progetto divisionale e gli adempimenti consequenziali.
Instauratosi il contraddittorio, si costituivano le germane Scappatura Angelina, Scappatura Emilia e Scappatura Vincenza (aventi causa di Corni
tra i beni da dividere fossero inclusi anche quelli oggetto della donazione
fatta da Corni Francesco al nipote Comi Nicola con atto pubblico del 1987,
deducendone la nullità per inesistenza dei beni donati nella sfera giuridica
del donante, nonché che venisse ordinato a Corni Nicola di rendere il conto della gestione degli immobili facenti parte dell'eredità di Pietro e di
Corni Francesco.
Si costituiva anche Scappatura Vincenzo, che aderiva alla domanda di divisione, nonché i germani Comi Nicola, Corni Emilia e Comi Cesare, i quali
pur non opponendosi alla divisione, chiedevano che dalla eredità venissero detratti i beni oggetto della donazione per atto notaio Miritello del
1987.
Nel giudizio si costituivano anche i germani Montesano Paolo Francesco
Maria, Montesano Alessandro Salvatore Maria e Montesano Giovanna Rosa Maria, figli di Montesano Pasquale, avente causa di Corni Giovanna,
aderendo alla domanda principale, nonché Montesano Luca e Zaccaria
Maria Rosaria, in qualità di eredi di Montesano Nicola, quest'ultima in
proprio e quale esercente la potestà sulla figlia minore Montesano Chiara,
che ugualmente facevano proprie le domande dell'attrice.
Nei processo interveniva la curatela del fallimenti di Montesano Nicola e
Zaccaria Maria Rosaria che, oltre a costituirsi in qualità di eredi di Cama
Luisa, Corni Nicola, Corni Emilia e Carni Cesare, ribadiva le richieste già
formulate.
Con sentenza non definitiva del 30 aprile 2004, il Tribunale adito dichiarava aperta la successione di Corni Pietro e devoluta secondo le norme
della successione legittima la sua eredità, nonché quella di Comi Francesco, parimenti devoluta secondo le norme della successione legittima.
3
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
Vincenza), le quali aderivano alla domanda di divisione e chiedevano che
Il Tribunale dichiarava, altresì, la nullità dell'atto di donazione per atto
notaio Miritello del 1° ottobre1987 e rimetteva la causa sul ruolo con separata ordinanza per il prosieguo.
Avverso la sentenza non definitiva i germani Corni Nicola, Comi Emilia e
Comi Cesare, in proprio e nella qualità di eredi di Cama Luisa, censurando II capo della sentenza con cui era stata dichiarata la nullità dell'atto di
donazione del 1987.
Emilia e Scappatura Vincenza, nonché di Montesano Paolo Francesco Maria, Montesano Alessandro Salvatore Maria e Montesano Giovanna Rosa
Maria, contumaci le restanti parti, la Corte di appello di Reggio Calabria
rigettava il gravame e per l'effetto confermava integralmente la sentenza
impugnata.
A sostegno della decisione adottata la Corte distrettuale evidenziava che
avendo il defunto Corni Francesco donato al nipote Comi Nicola la nuda
proprietà della sua quota (corrispondente ai 5/12 indivisi dell'intero) dei
due appartamenti costituenti l'intero secondo piano del fabbricato di vecchia costruzione a sei piani sito in via Pietro Foti, dalla lettura sistematica
degli artt. 769 e 771 cod. civ., doveva ritenersi la nullità dell'atto di donazione, potendo costituire oggetto di donazione solo ed esclusivamente i
beni facenti parte del patrimonio del donante al momento in cui veniva
compiuto l'atto di liberalità, tali non potendosi ritenere quelli di cui il donante era comproprietario pro indiviso di una quota ideale.
Avverso tale sentenza i Corni hanno proposto ricorso per cassazione, articolato su quattro motivi, al quale hanno resistito gli Scappatura e l'originaria attrice con separati controricorsi.
Con ordinanza interlocutoria n. 11545 del 2011, emessa all'esito
dell'udienza del 13 febbraio 2013, la Seconda Sezione di questa Corte,
disattese le eccezioni di inammissibilità formulate dai controricorrenti e
ritenuto non fondato il primo motivo di ricorso, ha, in relazione al secondo, al terzo e al quarto motivo di ricorso, rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per la eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni
Unite, ravvisando nella questione oggetto del ricorso una questione di
massima di particolare importanza.
- 4 -
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
Nella resistenza di Scappatura Emllia, Scappatura Angelina, Scappatura
Disposta la trattazione del ricorso presso queste Sezioni Unte, in vista
dell'udienza del 10 marzo 2015 i ricorrenti e la controricorrente Emilia
Montesano hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Deve preliminarmente essere dichiarata la inammissibilità della costituzione di Branca Gaia Cosirna Fortunata, per difetto di procura speciale,
essendo la stesa intervenuta in un giudizio iniziato prima del 4 luglio
2. - Come già rilevato, il primo motivo di impugnazione è stato già disatteso dalla Seconda Sezione.
2.1. - Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono vizio di motivazione sul rilievo che, non essendo stato acquisito il fascicolo di primo
grado ed avendo la Corte d'appello esaminato l'atto di donazione solo per
la parte riportata nell'atto di appello, il convincimento del giudice di appello sarebbe il frutto di una presunzione non vera, essendo il tenore della donazione molto più esteso rispetto ai brani esaminati in sede di gravame. Prosegue parte ricorrente che la lettura integrale dell'atto di liberalità avrebbe consentito di rilevare che l'oggetto della donazione era costituito, in parte, da un diritto proprio di Francesco Corni, e cioè della quota
di comproprietà degli immobili di cui Comi Francesco era titolare in modo
esclusivo, per avere ciascuno dei fratelli Corni Francesco, Corni Pietro e
Corni Giuseppe la piena disponibilità di una quota pari ad 1/3 degli immobili di cui al rogito; per altra parte, dalla quota di 1/3 a lui pervenuta dalla
eredità del fratello Corni Pietro: circostanza, questa, di cui non vi era alcun cenno nella sentenza impugnata. La Corte d'appello avrebbe quindi
errato nell'accomunare i due cespiti in una indistinta "quota ereditaria".
2.2. - Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt.
769 e 771 cod. civ., in combinato disposto con l'art. 1103 cod. civ., oltre
alla illegittimità della sentenza impugnata per difetto di motivazione ed
errata valutazione dei presupposti di fatto, per non avere i giudici di merito riconosciuto che Corni Francesco poteva validamente donare al nipote
la quota di proprietà di cui era esclusivo titolare con riferimento all'immobile di via Foti n. 16, essendo tale bene nella sua piena disponibilità, potendo essere le argomentazioni del Tribunale riferite semmai alla residua
quota di 1/12 pervenuta al donante per successione ereditaria dal fratello
5
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
2009 (Cass. n. 7241 del 2010; Cass. n. 18323 del 2014),
Corni Pietro. A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente
quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte di Cassazione se il divieto di cui
all'art. 771 c.c. può essere legittimamente esteso anche ai beni di cui il
donante è titolare in comunione ordinaria con i propri fratelli".
- Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione ed erronea
applicazione degli artt. 771_ e 769 cod. civ., in combinato disposto con gli
artt. 1103 e 757 cod. civ., nonché carenza assoluta di motivazione, per
sione, anche i beni in comproprietà ordinaria, in aperto contrasto con i
principi che regolano l'istituto della comproprietà e dell'art. 1103 cod.
civ., che sancisce il principio della piena disponibilità dei beni in comproprietà nei limiti della quota di titolarità del disponente. Ad avviso dei ricorrenti eguali considerazioni varrebbero anche per la c.d. quota ereditaria. Quanto alla conclusione del giudice di appello circa l'irrilevanza della
qualificazione della fattispecie quale condizione sospensiva, i ricorrenti rilevano che la divisione dei beni ereditari, seppure avvenga dopo Il decesso di uno dei coeredi, non cancella i diritti nascenti sui beni ereditari.
A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte di Cassazione se l'art. 771 c.c. può essere
legittimamente interpretato equiparando a tutti gli effetti la categoria dei
"beni futuri" con quella dei "beni altrui".
3. - La Seconda Sezione, con l'ordinanza interlocutoria n. 11545 del 2014
ha innanzi tutto ricordato come, nonostante l'art. 769 cod. civ. abbia assoggettato la donazione al principio consensualistico, sia risultato prevalente in giurisprudenza, in via di interpretazione analogica dell'art. 771
cod. civ., la tesi della nullità della donazione di bene altrui, assumendosi
il carattere della necessaria immediatezza dell'arricchimento altrui e,
dunque, dell'altrettanto necessaria appartenenza del diritto al patrimonio
del donante al momento del contratto (sono in proposito richiamate Cass.
23 maggio 2013, n. 12782; Cass. 5 maggio 2009, n. 10356; Cass. 18 dicembre 1996, n. 1131; Cass. 20 dicembre 1985, n. 6544). La Seconda
Sezione ha, per contro, ricordato, da un lato, le critiche di parte della dottrina, fondate sullo stesso testo dell'art. 769 cod. civ., il quale contempla
l'arricchimento della parte donataria operato "assumendo verso la stessa
un'obbligazione"; e, dall'altro, Cass. 5 febbraio 2001, n. 1596, che ha
6
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
avere ritenuto i giudici di merito "beni altrui", fino al momento della divi-
considerato la donazione di cosa altrui non nulla, ma semplicemente inefficace, con conseguente sua idoneità a valere quale titolo per l'usucapione immobiliare abbreviata. La Seconda Sezione ha quindi aggiunto che la
soluzione della questione posta è evidentemente correlata alla
ratio
dell'ad. 771 cod. civ.
Nella specie, la questione non riguarderebbe la donazione dei quattro dodicesimi di cui il donante era titolare inter vivos, dovendosi M parte qua
del partecipante in comunione ordinaria, alienata ai sensi e nei limiti
dell'ad, 1103 cod. civ.. La questione si porrebbe, piuttosto, quanto all'ulteriore dodicesimo del bene di provenienza ereditaria, e per il quale il donante intendeva trasferire il proprio diritto di coerede, ricadente, tuttavia,
sulla quota ex art. 727 cod. civ. e non (ancora) su quel determinato immobile compreso nell'asse.
3.1. - In conclusione, la Seconda Sezione ha rimesso all'esame di queste
Sezioni Unite la seguente questione: "Se la donazione dispositiva di un
bene altrui debba ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell'art. 771 cod civ., poiché il divieto di
donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che
il loro oggetto entri a comporre Il patrimonio del donante e quindi anche
quelli aventi ad oggetto i beni altrui, oppure sia valida ancorché inefficace, e se tale disciplina trovi applicazione, o no, nel caso di donazione di
quota di proprietà pro indiviso".
4. - Come riferito, sulla questione se la donazione di cosa altrui sia nulla
o no, la giurisprudenza di questa Corte si è reiteratamente espressa, nel
senso della nullità.
4.1. - Secondo Cass. n. 3315 del 1979, «la convenzione che contenga
una promessa di attribuzione dei propri beni a titolo gratuito configura un
contratto preliminare di donazione che è nullo, in quanto con esso si viene a costituire a carico del promittente un vincolo giuridico a donare, il
quale si pone in contrasto con il principio secondo cui nella donazione
l'arricchimento del beneficiario deve avvenire per spirito di liberalità, in
virtù cioè di un atto di autodeterminazione del donante, assolutamente
libero nella sua formazione». La successiva Cass. n. 6544 del 1985, ha
affermato che la donazione di beni altrui non genera a carico del donante
7
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
la liberalità intendere come di cosa propria, in quanto relativa alla quota
alcun obbligo poiché, giusta la consolidata interpretazione dell'art. 771
cod. civ., dal sancito divieto di donare beni futuri deriva che è invalida
anche la donazione nella parte in cui ha per oggetto una cosa altrui; a
differenza di quanto avviene, ad esempio, nella vendita di cosa altrui, che
obbliga il non dominus alienante a procurare l'acquisto al compratore. Tale decisione ha quindi affermato che «ai fini dell'usucapione abbreviata a
norma dell'art. 1159 cod. civ. non costituisce titolo astrattamente idoneo
dell'art. 771 cod. civ. di tale negozio».
Sempre nell'ambito della nullità si colloca Cass. n. 11311 del 1996, così
massimata: «l'atto con il quale una pubblica amministrazione, a mezzo di
contratto stipulato da un pubblico funzionario, si obblighi a cedere gratuitamente al demanio dello Stato un'area di sua proprietà, nonché un'altra
area che si impegni ad espropriare, costituisce una donazione nulla, sia
perché, pur avendo la pubblica amministrazione la capacità di donare,
non è ammissibile la figura del contratto preliminare di donazione, sia
perché l'atto non può essere stipulato da un funzionario della pubblica
amministrazione (possibilità limitata dall'art. 16 del R.D. n. 2440 del
1923 ai soli contratti a titolo oneroso), sia perché l'art. 771 cod. civ. vieta
la donazione di beni futuri, ossia dell'area che non rientra nel patrimonio
dell'amministrazione "donante" ma che la stessa si impegna ad espropriare».
Particolarmente significativa è poi Cass. n. 10356 del 2009, secondo cui
«la donazione dispositiva di un bene altrui, benché non espressamente
disciplinata, deve ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della
donazione e, in particolare, dell'art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il
loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione,
tuttavia, è idonea ai fini dell'usucapione decennale prevista dall'art. 1159
cod. civ., poiché il requisito, richiesto da questa norma, dell'esistenza di
un titolo che legittimi l'acquisto della proprietà o di altro diritto reale di
godimento, che sia stato debitamente trascritto, deve essere inteso nel
senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio,
deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
al trasferimento la donazione di un bene altrui, attesa l'invalidità a norma
trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare».
Da ultimo, Cass. n. 12782 del 2013 si è espressa in senso conforme alla
decisione da ultimo richiamata.
4.2. - In senso difforme si rinviene Cass. n. 1596 del 2001, che ha affermato il principio per cui «la donazione di beni altrui non può essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 cod. civ., ma è
viata ex art. 1159 cod. civ., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta
disposizione codicistica, della esistenza di un titolo che sia idoneo a far
acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della
sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non
in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che
l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse
stato titolare».
4.3. - A ben vedere, il contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali
non coinvolge il profilo della efficacia dell'atto a costituire titolo idoneo
per l'usucapione abbreviata, ma, appunto, la ascrivibilità della donazione
di cosa altrui nell'area della invalidità, e segnatamente della nullità, ovvero in quella della inefficacia.
5. Il Collegio ritiene che alla questione debba essere data risposta nel
senso che la donazione di cosa altrui o anche solo parzialmente altrui è
nulla, non per applicazione in via analogica della nullità prevista dall'art.
771 cod. civ. per la donazione di beni futuri, ma per mancanza della causa del negozio di donazione.
5.1. - Deve innanzi tutto rilevarsi che la sentenza n. 1596 del 2001 evoca
la categoria della inefficacia, che presuppone la validità dell'atto, e si limita ad affermare la non operatività della nullità in applicazione analogica
dell'art. 771, primo comma, cod. civ., in considerazione di una pretesa
natura eccezionale della causa di nullità derivante dall'avere la donazione
ad oggetto beni futuri, ma non verifica la compatibilità della donazione di
cosa altrui con la funzione e con la causa del contratto di donazione. La
soluzione prospettata appare, quindi, non condivisibile, vuoi perché attribuisce al divieto di cui alla citata disposizione la natura di disposizione ec9
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
semplicemente inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell'usucapione abbre-
cezionale, insuscettibile di interpretazione analogica; vuoi e soprattutto
perché non considera la causa del contratto di donazione.
Al contrario, una piana lettura dell'art. 769 cod. civ. dovrebbe indurre a
ritenere che l'appartenenza del bene oggetto di donazione al donante costituisca elemento essenziale del contratto di donazione, in mancanza del
quale la causa tipica del contratto stesso non può realizzarsi. Recita, infatti, la citata disposizione: «La donazione è il contratto col quale, per
questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione».
Elementi costitutivi della donazione sono, quindi, l'arricchimento del terzo
con correlativo depauperamento del donante e lo spirito di liberalità, il
c.d. animus donandi, che connota il depauperamento del donante e l'arricchimento del donatario e che, nella giurisprudenza di questa Corte, va
ravvisato «nella consapevolezza dell'uno di attribuire all'altro un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale» (Cass, n. 8018 del 2012; Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 1411 dei
1997; Cass. n. 3621 del 1980).
Appare evidente che, in disparte il caso della donazione effettuata mediante assunzione di una obbligazione, nella quale oggetto
dell'obbligazione del donante sia il trasferimento al donatario di un bene
della cui appartenenza ad un terzo le parti siano consapevoli, l'esistenza
nel patrimonio del donante del bene che questi intende donare rappresenti elemento costitutivo del contratto; e la consustanzialità di tale appartenenza alla donazione è delineata in modo chiaro ed efficace dalla citata disposizione attraverso il riferimento all'oggetto della disposizione,
individuato in un diritto del donante ("un suo diritto"). La non ricorrenza
di tale situazione - certamente nel caso in cui né il donante né il donatario ne siano consapevoli, nel qual caso potrebbe aversi un'efficacia obbligatoria della donazione - comporta la non riconducibilità della donazione
di cosa altrui allo schema negoziale della donazione, di cui all'art. 769
cod. civ. In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità
del bene altrui nella categoria dei beni futuri, di cui all'art. 771, primo
comma, cod. civ., la altruità del bene incide sulla possibilità stessa di ricondurre il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello
schema della donazione dispositiva e quindi sulla possibilità di realizzare
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di
la causa del contratto (incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio).
5.2. - La mancanza, nel codice del 1942, di una espressa previsione di
nullità della donazione di cosa altrui, dunque, non può di per sé valere a
ricondurre la fattispecie nella categoria del negozio inefficace. Invero,
come si è notato in dottrina, il fatto stesso che il legislatore del codice civile abbia autonomamente disciplinato sia la compravendita di cosa futu-
a non domino, dovrebbe suggerire all'interprete di collegare il divieto di
liberalità aventi ad oggetto cose d'altri alla struttura e funzione del contratto di donazione, piuttosto che ad un esplicito divieto di legge. Pertanto, posto che l'art. 1325 cod. civ. individua tra i requisiti del contratto "la
causa"; che, ai sensi dell'art. 1418, secondo comma, cod. civ., la mancanza di uno dei requisiti indicati dal'art. 1325 cod. civ. produce la nullità
del contratto; e che l'altruità del bene non consente di ritenere integrata
la causa del contratto di donazione, deve concludersi che la donazione di
un bene altrui è nulla.
5.3. - Con riferimento alla donazione deve quindi affermarsi che se il bene si trova nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto, la donazione, in quanto dispositiva, è valida ed efficace; se, invece, la cosa non appartiene al donante, questi deve assumere espressamente e formalmente nell'atto l'obbligazione di procurare l'acquisto dal
terzo al donatario.
La donazione di bene altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria
di dare, purché l'altruità sia conosciuta dal donante, e tale consapevolezza risulti da un'apposita espressa affermazione nell'atto pubblico (art.
782 cod. civ.). Se, invece, l'altruità del bene donato non risulti dal titolo e
non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti obbligatori,
né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui.
5.4. - La sanzione di nullità si applica normalmente alla donazione di beni
che il donante ritenga, per errore, propri, perché la mancata conoscenza
dell'altruità determina l'impossibilità assoluta di realizzazione del programma negoziale, e, quindi, la carenza della causa donativa. La donazione di bene non appartenente al donante e quindi affetta da una causa
di nullità autonoma e indipendente rispetto a quella prevista dall'art. 771
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ra che quella di cosa altrui, mentre nulla abbia stabilito per la donazione
cod. civ., ai sensi del combinato disposto dell'art. 769 cod. civ. (il donante deve disporre «di un suo diritto») e degli artt. 1325 e 1418, secondo
comma, cod. civ. In sostanza, avendo l'animus donandi rilievo causale,
esso deve essere precisamente delineato nell'atto pubblico; in difetto, la
causa della donazione sarebbe frustrata non già dall'altruità del diritto in
sé, quanto dal fatto che il donante non assuma l'obbligazione di procurare
l'acquisto del bene dal terzo.
nella specie, oggetto della donazione sia un bene solo in parte altrui, perché appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e
donato per la sua quota da uno dei coeredi. Non è, Infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra tra i "beni altrui" e quelli "eventualmente altrui", trattandosi, nell'uno e nell'altro caso, di beni non presenti,
nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al momento dell'atto,
l'unico rilevante al fine di valutarne la conformità all'ordinamento.
In sostanza, la posizione del coerede che dona uno dei beni compresi nella comunione (ovviamente, nel caso in cui la comunione abbia ad oggetto
una pluralità di beni) non si distingue in nulla da quella di qualsivoglia al-
tro donante che disponga di un diritto che, al momento dell'atto, non può
ritenersi incluso nel suo patrimonio.
Né una distinzione può desumersi dall'art. 757 cod. civ., in base al quale
ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione anche se per acquisto all'incanto e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli atri beni ereditari. Invero, proprio la detta previsione impedisce
di consentire che il coerede possa disporre, non della sua quota di partecipazione alla comunione ereditaria, ma di una quota del singolo bene
compreso nella massa destinata ad essere divisa, prima che la divisione
venga operata e il bene entri a far parte del suo patrimonio.
6. - In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: «La
donazione di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa, a meno che nell'atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell'attuale non appartenenza del
bene al suo patrimonio. Ne consegue che la donazione, da parte del coerade, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
5.5. - Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui, come
nulla, non potendosi, prima della divisione, ritenere che il singolo bene
faccia parte del patrimonio del coerede donante ».
7. In applicazione di tale principio, il ricorso deve essere quindi rigettato.
Non possono essere infatti condivise le deduzioni dei ricorrenti in ordine
alla circostanza che l'atto di donazione riguardava non solo una quota ereditaria del bene specificamente oggetto di donazione, ma anche una
inter vivos. Invero, posto che è indiscutibile che l'atto di donazione aveva
ad oggetto la quota di un dodicesimo dei beni immobili indicati nell'atto
stesso rientrante nella comunione ereditaria, deve ritenersi che non sia
possibile operare la prospettata distinzione tra la donazione dei quattro
dodicesimi riferibili al donante e del restante dodicesimo, comportando
l'esistenza di tale quota la attrazione dei beni menzionati nella disciplina
della comunione ereditaria. Ne consegue che la nullità dell'atto di donazione per la parte relativa alla quota ereditaria comporta la nullità
dell'intero atto, ai sensi dell'art. 1419 cod, civ,, non risultando che nei
precedenti gradi di giudizio sia emersa la volontà del donatario di affermare la validità della donazione per la quota spettante al donante.
D'altra parte, non può non rilevarsi che l'inclusione, anche se solo in parte, degli immobili oggetto di donazione nella comunione ereditaria comportava la astratta possibilità della loro assegnazione, in sede di divisione, a soggetto diverso dal donante; con ciò dimostrandosi ulteriormente
la sostanziale inscindibilità della volontà negoziale manifestatasi con l'atto
di donazione dichiarato nullo dal Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza confermata dalla Corte d'appello.
S. - In conclusione, il ricorso va rigettato.
In considerazione della complessità della questione e dei diversi orientamenti giurisprudenziali, che hanno reso necessario l'intervento delle Sezioni Unite, le spese del giudizio possono essere interamente compensate
tra le parti.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; compensa le
spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili
della Corte suprema di cassazione, in data 10 marzo 2015.
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quota della quale il donante era già titolare per averla acquistata per atto
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Giurisprudenza
Diritto civile
Donazione di cosa altrui
Cassazione Civile, SS.UU., 15 marzo 2016, n. 5068 - Pres. Rovelli - Rel. Petitti - P.M. Apice
(conf.) - C.N. e altri (avv. Pellicanò) c. M.E. (avv.ti A. e G. Panuccio)
La donazione di cosa altrui o parzialmente altrui, sebbene non espressamente vietata, è nulla per difetto di
causa, sicché la donazione del coerede avente ad oggetto la quota di un bene indiviso compreso nella massa
ereditaria è nulla, atteso che, prima della divisione, quello specifico bene non fa parte del patrimonio del coerede donante; tuttavia, qualora nell’atto di donazione sia affermato che il donante è consapevole dell’altruità
della cosa, la donazione vale come donazione obbligatoria di dare.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 23 maggio 2013,n. 12782; Cass. 5 maggio 2009,n. 10356; Cass.18 dicembre 1996, n 11311
Difforme
Cass. 5 febbraio 2001, n. 1596
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
omissis
3. - La II Sezione, con l’ordinanza interlocutoria n. 11545
del 2014 ha innanzi tutto ricordato come, nonostante
l’art. 769 c.c., abbia assoggettato la donazione al principio
consensualistico, sia risultato prevalente In giurisprudenza, in via di interpretazione analogica dell’art. 771 c.c., la
tesi della nullità della donazione di bene altrui, assumendosi il carattere della necessaria immediatezza dell’arricchimento altrui e, dunque, dell’altrettanto necessaria appartenenza del diritto al patrimonio del donante al momento del contratto (sono in proposito richiamate Cass.
23 maggio 2013, n. 12782; Cass. 5 maggio 2009, n.
10356; Cass. 18 dicembre 1996, n. 1131; Cass. 20 dicembre 1985, n. 6544). La II Sezione ha, per contro, ricordato, da un lato, le critiche di parte della dottrina, fondate
sullo stesso testo dell’art. 769 c.c., il quale contempla l’arricchimento della parte donataria operato “assumendo
verso la stessa un’obbligazione”; e, dall’altro, Cass. 5 febbraio 2001, n. 1596, che ha considerato la donazione di
cosa altrui non nulla, ma semplicemente inefficace, con
conseguente sua idoneità a valere quale titolo per l’usucapione immobiliare abbreviata. La II Sezione ha quindi aggiunto che la soluzione della questione posta è evidentemente correlata alla ratio dell’art. 771 c.c.
Nella specie, la questione non riguarderebbe la donazione dei quattro dodicesimi di cui il donante era titolare
inter vivos, dovendosi in parte qua la liberalità intendere
come di cosa propria, in quanto relativa alla quota del
partecipante in comunione ordinaria, alienata ai sensi e
nei limiti dell’art. 1103 c.c. La questione si porrebbe,
piuttosto, quanto all’ulteriore dodicesimo del bene di
provenienza ereditaria, e per il quale il donante intendeva trasferire il proprio diritto di coerede, ricadente,
tuttavia, sulla quota ex art. 727 c.c., e non (ancora) su
quel determinato immobile compreso nell’asse.
3.1. - In conclusione, la II Sezione ha rimesso all’esame
di queste Sezioni Unite la seguente questione: “Se la
donazione dispositiva di un bene altrui debba ritenersi
610
nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell’art. 771 c.c., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti
perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre
il patrimonio del donante e quindi anche quelli aventi
ad oggetto i beni altrui, oppure sia valida ancorché inefficace, e se tale disciplina trovi applicazione, o no, nel
caso di donazione di quota di proprietà pro indiviso”.
4. - Come riferito, sulla questione se la donazione di cosa altrui sia nulla o no, la giurisprudenza di questa Corte
si è reiteratamente espressa, nel senso della nullità.
4.1. - Secondo Cass. n. 3315 del 1979, “la convenzione
che contenga una promessa di attribuzione dei propri
beni a titolo gratuito configura un contratto preliminare
di donazione che è nullo, in quanto con esso si viene a
costituire a carico del promittente un vincolo giuridico
a donare, il quale si pone in contrasto con il principio
secondo cui nella donazione l’arricchimento del beneficiario deve avvenire per spirito di liberalità, in virtù
cioè di un atto di autodeterminazione del donante, assolutamente libero nella sua formazione”. La successiva
Cass. n. 6544 del 1985, ha affermato che la donazione
di beni altrui non genera a carico del donante alcun obbligo poiché, giusta la consolidata interpretazione dell’art. 771 c.c., dal sancito divieto di donare beni futuri
deriva che è invalida anche la donazione nella parte in
cui ha per oggetto una cosa altrui; a differenza di quanto
avviene, ad esempio, nella vendita di cosa altrui, che
obbliga il non dominus alienante a procurare l’acquisto
al compratore. Tale decisione ha quindi affermato che
“ai fini dell’usucapione abbreviata a norma dell’art.
1159 c.c. non costituisce titolo astrattamente idoneo al
trasferimento la donazione di un bene altrui, attesa l’invalidità a norma dell’art. 771 c.c., di tale negozio”.
Sempre nell’ambito della nullità si colloca Cass. n.
11311 del 1996, così massimata: “l’atto con il quale una
pubblica amministrazione, a mezzo di contratto stipulato da un pubblico funzionario, si obblighi a cedere gratuitamente al demanio dello Stato un’area di sua proprietà, nonché un’altra area che si impegni ad espropriare, costituisce una donazione nulla, sia perché, pur
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Giurisprudenza
Diritto civile
avendo la pubblica amministrazione la capacità di donare, non è ammissibile la figura del contratto preliminare di donazione, sia perché l’atto non può essere stipulato da un funzionario della pubblica amministrazione
(possibilità limitata dall’art. 16 R.D. n. 2440 del 1923,
ai soli contratti a titolo oneroso), sia perché l’art. 771
c.c., vieta la donazione di beni futuri, ossia dell’area che
non rientra nel patrimonio dell’amministrazione “donante” ma che la stessa si impegna ad espropriare”.
Particolarmente significativa è poi Cass. n. 10356 del
2009, secondo cui “la donazione dispositiva di un bene
altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della
donazione e, in particolare, dell’art. 771 c.c., poiché il
divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti
gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a
comporre il patrimonio del donante; tale donazione,
tuttavia, è idonea ai fini dell’usucapione decennale prevista dall’art. 1159 c.c., poiché il requisito, richiesto da
questa norma, dell’esistenza di un titolo che legittimi
l’acquisto della proprietà o di altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, deve essere
inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere suscettibile in
astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto del diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato titolare”.
Da ultimo, Cass. n. 12782 del 2013 si è espressa in senso conforme alla decisione da ultimo richiamata.
4.2. - In senso difforme si rinviene Cass. n. 1596 del
2001, che ha affermato il principio per cui “la donazione di beni altrui non può essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 c.c., ma è semplicemente inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., in quanto il requisito,
richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della
esistenza di un titolo che sia idoneo a far acquistare la
proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato
debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo,
tenuto conto della sostanza e della forma del negozio,
deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale
che l’acquisto del diritto si sarebbe senz’altro verificato
se l’alienante ne fosse stato titolare”.
4.3. - A ben vedere, il contrasto tra i due orientamenti
giurisprudenziali non coinvolge il profilo della efficacia
dell’atto a costituire titolo idoneo per l’usucapione abbreviata, ma, appunto, la ascrivibilità della donazione di
cosa altrui nell’area della invalidità, e segnatamente
della nullità, ovvero in quella della inefficacia.
5. Il Collegio ritiene che alla questione debba essere data risposta nel senso che la donazione di cosa altrui o
anche solo parzialmente altrui è nulla, non per applicazione in via analogica della nullità prevista dall’art. 771
c.c., per la donazione di beni futuri, ma per mancanza
della causa del negozio di donazione.
5.1. - Deve innanzi tutto rilevarsi che la sentenza n.
1596 del 2001 evoca la categoria della inefficacia, che
presuppone la validità dell’atto, e si limita ad affermare
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la non operatività della nullità in applicazione analogica dell’art. 771 c.c., comma 1, in considerazione di una
pretesa natura eccezionale della causa di nullità derivante dall’avere la donazione ad oggetto beni futuri, ma
non verifica la compatibilità della donazione di cosa altrui con la funzione e con la causa del contratto di donazione. La soluzione prospettata appare, quindi, non
condivisibile, vuoi perché attribuisce al divieto di cui
alla citata disposizione la natura di disposizione eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica; vuoi e
soprattutto perché non considera la causa del contratto
di donazione.
Al contrario, una piana lettura dell’art. 769 c.c., dovrebbe indurre a ritenere che l’appartenenza del bene
oggetto di donazione al donante costituisca elemento
essenziale del contratto di donazione, in mancanza del
quale la causa tipica del contratto stesso non può realizzarsi. Recita, infatti, la citata disposizione: “La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una
parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa
di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione”.
Elementi costitutivi della donazione sono, quindi, l’arricchimento del terzo con correlativo depauperamento
del donante e lo spirito di liberalità, il c.d. animus donandi, che connota il depauperamento del donante e
l’arricchimento del donatario e che, nella giurisprudenza di questa Corte, va ravvisato “nella consapevolezza
dell’uno di attribuire all’altro un vantaggio patrimoniale
in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale” (Cass. n. 8018 del 2012; Cass. n. 12325 del 1998;
Cass. n. 1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980).
Appare evidente che, in disparte il caso della donazione
effettuata mediante assunzione di una obbligazione, nella quale oggetto dell’obbligazione del donante sia il trasferimento al donatario di un bene della cui appartenenza ad un terzo le parti siano consapevoli, l’esistenza
nel patrimonio del donante del bene che questi intende
donare rappresenti elemento costitutivo del contratto; e
la consustanzialità di tale appartenenza alla donazione è
delineata in modo chiaro ed efficace dalla citata disposizione attraverso il riferimento all’oggetto della disposizione, individuato in un diritto del donante (“un suo diritto”). La non ricorrenza di tale situazione - certamente
nel caso in cui né il donante né il donatario ne siano
consapevoli, nel qual caso potrebbe aversi un’efficacia
obbligatoria della donazione - comporta la non riconducibilità della donazione di cosa altrui allo schema negoziale della donazione, di cui all’art. 769 c.c. In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità
del bene altrui nella categoria dei beni futuri, di cui all’art. 771 c.c., comma 1, l’altruità del bene incide sulla
possibilità stessa di ricondurre il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello schema della donazione dispositiva e quindi sulla possibilità di realizzare
la causa del contratto (incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio).
5.2. - La mancanza, nel codice del 1942, di una espressa
previsione di nullità della donazione di cosa altrui, dunque, non può di per sé valere a ricondurre la fattispecie
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Giurisprudenza
Diritto civile
nella categoria del negozio inefficace. Invero, come si è
notato in dottrina, il fatto stesso che il legislatore del
codice civile abbia autonomamente disciplinato sia la
compravendita di cosa futura che quella di cosa altrui,
mentre nulla abbia stabilito per la donazione a non domino, dovrebbe suggerire all’interprete di collegare il divieto di liberalità aventi ad oggetto cose d’altri alla
struttura e funzione del contratto di donazione, piuttosto che ad un esplicito divieto di legge. Pertanto, posto
che l’art. 1325 c.c., individua tra i requisiti del contratto “la causa”; che, ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 2,
la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325
c.c., produce la nullità del contratto; e che l’altruità del
bene non consente di ritenere integrata la causa del
contratto di donazione, deve concludersi che la donazione di un bene altrui è nulla.
5.3. - Con riferimento alla donazione deve quindi affermarsi che se il bene si trova nel patrimonio del donante
al momento della stipula del contratto, la donazione, in
quanto dispositiva, è valida ed efficace; se, invece, la
cosa non appartiene al donante, questi deve assumere
espressamente e formalmente nell’atto l’obbligazione di
procurare l’acquisto dal terzo al donatario.
La donazione di bene altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria di dare, purché l’altruità sia conosciuta dal donante, e tale consapevolezza risulti da un’apposita espressa affermazione nell’atto pubblico (art. 782
c.c.). Se, invece, l’altruità del bene donato non risulti
dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui.
5.4. - La sanzione di nullità si applica normalmente alla
donazione di beni che il donante ritenga, per errore, propri, perché la mancata conoscenza dell’altruità determina
l’impossibilità assoluta di realizzazione del programma negoziale, e, quindi, la carenza della causa donativa. La donazione di bene non appartenente al donante è quindi
affetta da una causa di nullità autonoma e indipendente
rispetto a quella prevista dall’art. 771 c.c., ai sensi del
combinato disposto dell’art. 769 c.c. (il donante deve disporre “di un suo diritto”) e dell’art. 1325 c.c., e art.
1418 c.c., comma 2. In sostanza, avendo l’animus donandi rilievo causale, esso deve essere precisamente delineato
nell’atto pubblico; in difetto, la causa della donazione sarebbe frustrata non già dall’altruità del diritto in sé,
quanto dal fatto che il donante non assuma l’obbligazione di procurare l’acquisto del bene dal terzo.
5.5. - Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il
caso in cui, come nella specie, oggetto della donazione
sia un bene solo in parte altrui, perché appartenente
pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e
donato per la sua quota da uno dei coeredi. Non è, infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra
tra i “beni altrui” e quelli “eventualmente altrui”, trattandosi, nell’uno e nell’altro caso, di beni non presenti,
nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al
momento dell’atto, l’unico rilevante al fine di valutarne
la conformità all’ordinamento.
In sostanza, la posizione del coerede che dona uno dei
beni compresi nella comunione (ovviamente, nel caso
612
in cui la comunione abbia ad oggetto una pluralità di
beni) non si distingue in nulla da quella di qualsivoglia
altro donante che disponga di un diritto che, al momento dell’atto, non può ritenersi incluso nel suo patrimonio.
Né una distinzione può desumersi dall’art. 757 c.c., in
base al quale ogni coerede è reputato solo e immediato
successore in tutti i beni componenti la sua quota o a
lui pervenuti dalla successione anche se per acquisto all’incanto e si considera come se non avesse mai avuto
la proprietà degli atri beni ereditari. Invero, proprio la
detta previsione impedisce di consentire che il coerede
possa disporre, non della sua quota di partecipazione alla comunione ereditaria, ma di una quota del singolo
bene compreso nella massa destinata ad essere divisa,
prima che la divisione venga operata e il bene entri a
far parte del suo patrimonio.
6. - In conclusione, deve affermarsi il seguente principio
di diritto: “La donazione di un bene altrui, benché non
espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di
causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che
il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Ne consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene
indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla, non
potendosi, prima della divisione, ritenere che il singolo
bene faccia parte del patrimonio del coerede donante”.
7. In applicazione di tale principio, il ricorso deve essere
quindi rigettato. Non possono essere infatti condivise le
deduzioni dei ricorrenti in ordine alla circostanza che
l’atto di donazione riguardava non solo una quota ereditarla del bene specificamente oggetto di donazione, ma
anche una quota della quale il donante era già titolare
per averla acquistata per atto inter vivos. Invero, posto
che è indiscutibile che l’atto di donazione aveva ad oggetto la quota di un dodicesimo dei beni immobili indicati nell’atto stesso rientrante nella comunione ereditaria, deve ritenersi che non sia possibile operare la prospettata distinzione tra la donazione dei quattro dodicesimi riferibili al donante e del restante dodicesimo,
comportando l’esistenza di tale quota la attrazione dei
beni menzionati nella disciplina della comunione ereditaria. Ne consegue che la nullità dell’atto di donazione
per la parte relativa alla quota ereditaria comporta la
nullità dell’intero atto, ai sensi dell’art. 1419 c.c., non
risultando che nei precedenti gradi di giudizio sia emersa la volontà del donatario di affermare la validità della
donazione per la quota spettante al donante.
D’altra parte, non può non rilevarsi che l’inclusione,
anche se solo in parte, degli immobili oggetto di donazione nella comunione ereditaria comportava la astratta
possibilità della loro assegnazione, in sede di divisione,
a soggetto diverso dal donante; con ciò dimostrandosi
ulteriormente la sostanziale inscindibilità della volontà
negoziale manifestatasi con l’atto di donazione dichiarato nullo dal Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza
confermata dalla Corte d’appello.
8. - In conclusione, il ricorso va rigettato.
(omissis).
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Diritto civile
La donazione di beni altrui nella sentenza delle Sezioni Unite
di Ugo Carnevali
Le Sezioni Unite confermano la nullità della donazione di cose altrui, ma solo con riferimento alla donazione dispositiva (in quanto mancherebbe l’arricchimento del donatario e di conseguenza mancherebbe la causa stessa della donazione), mentre affermano la validità della donazione
in cui il donante si obbliga espressamente ad acquistare la cosa dal terzo proprietario.
La sentenza in commento
Le Sezioni Unite intervengono in tema di donazione di beni altrui, rispetto alla quale, per la verità,
non si registrava tra le Sezioni semplici un profondo
contrasto di giurisprudenza. Nessuna sentenza ha infatti mai affermato la validità della donazione di beni altrui e il dissenso si è limitato a qualificare la
donazione di beni altrui come nulla ovvero come
inefficace. Anche il fondamento dell’affermata nullità è ricondotto per lo più ad una applicazione analogica dell’art. 771 c.c. che vieta la donazione di beni futuri (1), mentre la tesi della inefficacia poggia
sull’asserita natura eccezionale del divieto di donazione di beni futuri e sulla conseguente impossibilità
di applicare per analogia l’art. 771 c.c. (2).
Le Sezioni Unite evitano le insidie di un’argomentazione che prenda posizione sulla natura eccezionale o meno dell’art. 771 c.c. e affrontano la questione in una diversa prospettiva. Esse infatti distinguono due diverse configurazioni di donazione
di beni altrui.
La prima delle due configurazioni è quella di una
donazione dispositiva, come delineata dall’art. 769
c.c. (“…una parte arricchisce l’altra, disponendo a
favore di questa di un suo diritto…”). In questo caso la non appartenenza del bene al patrimonio del
donante impedisce che si verifichi l’effetto traslativo e il conseguente arricchimento del donatario.
La donazione dispositiva di beni altrui è dunque
nulla - conclude la sentenza - per mancanza della
causa stessa della donazione.
La seconda delle due configurazioni è quella in cui
le parti siano consapevoli dell’altruità del bene donato e il donante si assuma formalmente ed espres(1) Cfr., anche per riferimenti, Torrente, La donazione, II ed.
aggiornata da U. Carnevali - A. Mora, Milano, 2006, 497 ss.
Sulla questione cfr. da ultimo Bonilini, L’oggetto della donazione, in Tratt. di dir. delle successioni e delle donazioni, VI, Le donazioni, Milano, 2009, 444 ss.; Cataudella, La donazione, in
Tratt. dir. priv. Bessone, Torino, 2005, 81-82; Ferrante, Donazione di cosa altrui: una sentenza eccentrica della Cassazione, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 281 ss.
Per l’applicabilità dell’art. 771 c.c. alla donazione di beni altrui cfr. da ultimo Cass. 5 maggio 2009, n. 10356, in questa Ri-
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samente, nell’atto di donazione, l’obbligazione di
procurare l’acquisto dal terzo al donatario. In questo
caso - conclude la sentenza - la donazione di beni
altrui è valida come donazione obbligatoria. Da questa seconda configurazione va peraltro escluso - precisa la sentenza - il caso in cui il donante ritenga
per errore suo il bene donato, perché la mancata conoscenza dell’altruità del bene determina pur sempre l’impossibilità dell’effetto traslativo e impedisce
di conseguenza la realizzazione della causa della donazione, come nella donazione dispositiva.
La donazione dispositiva di beni altrui
La motivazione della sentenza affonda palesemente
le sue radici nella distinzione tra donazione dispositiva di beni altrui e donazione obbligatoria di beni
altrui che è stata delineata da una illustre dottrina (3). Anche il fondamento della nullità della donazione dispositiva non è, nella sostanza, dissimile.
Infatti, mentre Mengoni motiva la nullità con la
mancanza di attualità dello spoglio, la sentenza la
motiva con l’impossibilità di realizzare la causa della donazione, cioè l’arricchimento del donatario
con correlativo depauperamento del donante. In
più, Mengoni getta un ponte tra la nullità di donazione di beni futuri (art. 771 c.c.) e la nullità della
donazione di beni altrui: anche la nullità della donazione di beni futuri trova il suo fondamento nella mancanza di attualità dello spoglio o (detto con
le parole delle Sezioni Unite) nell’impossibilità di
realizzare la causa della donazione.
Queste considerazioni - incentrate sull’attualità
dello spoglio o, se si preferisce, sull’attualità dell’arvista, 2009, 9, 1225 con nota di Mariconda, La donazione di cosa altrui è nulla ma è titolo idoneo all’usucapione abbreviata;
Cass. 23 maggio 2013, n. 12782.
(2) Per la natura eccezionale dell’art. 771 c.c. cfr. Cass. 5
febbraio 2001, n. 1596, in questa Rivista, 2001, 6, 756 con nota di Mariconda, Donazione di cosa altrui ed usucapione abbreviata di immobili.
(3) Mengoni, Gli acquisti “a non domino”, III ed., Milano,
1975, 27-30.
613
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Giurisprudenza
Diritto civile
ricchimento del donatario come causa della donazione - mostrano la differenza della donazione di
beni altrui e di beni futuri dalla vendita di beni altrui e di beni futuri: quest’ultima è semplicemente
inefficace non incontrando i problemi causali della
donazione di beni altrui messi in luce dalla sentenza in commento.
Una questione discussa in dottrina e in giurisprudenza, non esaminata dalla sentenza in commento
perché estranea al thema decidendum, è se la donazione dispositiva di beni altrui nulla possa essere, a
beneficio del donatario, idonea all’usucapione abbreviata ai sensi dell’art. 1159 c.c. o all’acquisto ex
art. 1153 c.c. A favore della tesi affermativa si suole sostenere (4) che la donazione di beni altrui sarebbe un titolo “astrattamente idoneo” in quanto
la nullità della donazione non dipende da un difetto di struttura del titolo, ma solo dalla qualifica di
non dominus del donante, come in ogni altro caso
di acquisto a non domino: se il donante fosse stato
dominus, si precisa, l’acquisto in capo al donatario
si sarebbe verificato.
La donazione obbligatoria di beni altrui
Presupposto di una valida donazione di beni altrui,
chiariscono le Sezioni Unite, è la formale ed
espressa assunzione da parte del donante, nello
stesso atto di donazione, dell’obbligazione di procurare al donatario la proprietà della cosa, acquistandola dal terzo proprietario.
In questo caso - affermano le Sezioni Unite - la donazione di beni altrui vale come donazione obbligatoria di dare.
Quest’ultima affermazione della sentenza merita
qualche riflessione. È proprio solo un’obbligazione
di dare quella che si assume il donante?
Se il donante si obbliga a procurare la proprietà
del bene al donatario, ciò significa che anzitutto
egli si obbliga ad acquistare il bene dal terzo proprietario. E questa attività contrattuale costituisce
oggetto di un’obbligazione di facere (5).
L’obbligazione di dare è successiva: una volta divenuto proprietario del bene, il donante è obbligato
a trasferirlo al donatario. E questa è un’obbligazione di dare.
(4) Cfr. Cass. 5 febbraio 2001, n. 1596, cit. seguita da Cass.
n. 10356/2009 e n. 12782/2013 citt. In dottrina cfr. per tutti
Mengoni, op. cit., 222 ss. Da ultimo, anche per riferimenti, cfr.
Ferrante, op. cit., 294-296.
(5) L’inadempimento di questa obbligazione genera una responsabilità contrattuale a carico del donante, anche se il titolo gratuito fa sì, per principio generale, che la colpa è valutata
614
Nella compravendita di cosa altrui il compratore
diventa automaticamente proprietario nello stesso
momento in cui il venditore acquista la cosa dal
terzo proprietario (art. 1478, comma 2, c.c.). Questo meccanismo, che si basa su un doppio trasferimento automatico e istantaneo (dal terzo proprietario al venditore, e dal venditore al compratore),
non è riproducibile nella donazione obbligatoria di
beni altrui, perché farebbe difetto un atto solenne
(art. 782 c.c.) di trasferimento del bene al donatario (l’atto di donazione contiene solo l’obbligazione
del donante di procurare al donatario l’acquisto
della proprietà del bene) (6). È perciò necessario
che il donante, dopo avere acquistato il bene dal
terzo, lo trasferisca al donatario con un atto solenne ex art. 782 c.c. che dà luogo ad una donazione
dispositiva e costituisce il titolo di proprietà del
donatario.
Nella compravendita di cosa altrui il venditore,
anziché acquistare la cosa dal terzo proprietario e
poi trasferirla al compratore, può far sì - come è
noto - che vi sia un diretto trasferimento del bene
dal terzo proprietario al compratore. In altri termini, si ritiene che per accordo tra le parti il terzo
proprietario può trasferire il bene direttamente al
compratore, evitando così un doppio passaggio di
proprietà (dal terzo al venditore e dal venditore al
compratore).
Questo meccanismo è trasferibile anche alla donazione obbligatoria di bene altrui? In altri termini, il
donante può far sì, mediante un accordo tra le parti, che il donatario acquisti la proprietà del bene
direttamente dal terzo proprietario evitando il doppio passaggio? A nostro avviso, questo meccanismo
è impedito dal formalismo della donazione. Il trasferimento del bene al donatario deve avvenire ai
sensi dell’art. 782 c.c., e ciò non accadrebbe se il
trasferimento avvenisse direttamente dal terzo proprietario al donatario, anziché dal donante al donatario. Il titolo di acquisto del donatario non sarebbe l’atto di donazione (che contiene solo l’obbligazione del donante di procurare al donatario
l’acquisto) e non sarebbe neppure l’atto di trasferimento dal terzo proprietario al donatario perché
non avverrebbe animus donandi.
con minor rigore.
(6) In senso contrario nella sentenza in commento vi è un
riferimento alla vendita di cosa altrui: “Se, invece, l’altruità del
bene donato non risulta dal titolo e non sia nota alle parti, il
contratto non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui”.
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Giurisprudenza
Diritto civile
Testamento olografo
Cassazione Civile, SS.UU., 15 giugno 2015, n. 12307 - Pres. Rovelli - Rel. Travaglino - B.A.G.
(avv. Bertolone) c. P.D. e altri (avv. Petrucci)
La parte che contesti l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo
della provenienza della scrittura, e l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di
accertamento negativo, grava sulla parte stessa.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 15 giugno 1951, n. 1545; Cass. 2 febbraio 2016, n. 1995.
Difforme
Cass. 24 maggio 2012, n. 8272; Cass. 23 dicembre 2011, n. 28637.
La Corte (omissis).
I fatti
1. Il 18 luglio 1963 decedeva A.C.
1.1. La vedova C.A. ne fece pubblicare un testamento
olografo, dell’8 luglio 1963, con il quale le veniva attribuito l’intero patrimonio.
1.1.2. Gli altri eredi, A.C., B., Ca. e G.G., premesso che
il defunto, dal giugno 1963, era stato colpito da ictus ed
era caduto in stato di totale incoscienza sino al decesso,
convennero in giudizio la C. impugnando il testamento,
a loro dire falso per difetto di autenticità, e rivendicarono il proprio diritto al riconoscimento della qualità di
eredi, oltre alla attribuzione dei beni del de cuius e alla
declaratoria di indegnità della vedova, con conseguente
condanna alla restituzione dei frutti percepiti.
1.1.3. In subordine, osservarono che, comunque, il testamento sembrava assegnare alla C. il solo usufrutto
dei beni ereditari, con conseguente diritto di essi attori
alla nuda proprietà.
2. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 gennaio
1981, rigettò le domande.
2.1. La pronuncia si fondava sull’assunto che il testamento olografo disconosciuto dagli attori fosse impugnabile soltanto con querela di falso, che, nella specie,
pur se ritualmente formulata, appariva sfornita di prova.
3. In concomitanza con l’appello proposto avverso questa sentenza, fu introdotto dagli appellanti un autonomo
giudizio per querela di falso.
3.1. La domanda fu accolta in entrambi i giudizi di merito.
3.2. Questa Corte, investita dell’impugnazione della sentenza di appello sul falso, rilevato un difetto di contraddittorio, annullò la decisione con sentenza n. 2671 del
23 febbraio 2001, senza che la causa fosse mai riassunta.
4. L’appello proposto avverso la sentenza del 1981 venne deciso il 29 ottobre 2007 dalla Corte capitolina, che
rilevò in limine la mancata impugnazione in parte qua
della sentenza di primo grado affermativa della necessità
della querela, e, verificato che il separato processo per
querela di falso si era estinto per mancata riassunzione,
rigettò il gravame.
198
5. Avverso questa sentenza hanno proposto separato ricorso A. B. e B.A.G. (il secondo nella qualità erede di
A.C.).
5.1. P.D. e L. (eredi C.A.) hanno resistito proponendo
a loro volta ricorso incidentale (anche) condizionato,
cui ha resistito A.B. con controricorso.
5.1.1. Vi sono in atti memorie illustrative.
6. Per quanto di rilievo nel presente giudizio di rimessione a queste sezioni unite, A.B. ha lamentato (con il
secondo motivo di ricorso) la violazione e falsa applicazione degli artt. 214 e ss. e 221 c.p.c. e ss., anche in relazione agli artt. 163, 345 e 112 c.p.c., (art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3) sostenendo che, se la pronuncia impugnata avesse inteso confermare la sentenza di primo grado nella parte in cui individuava nella querela di falso e
non anche nella verificazione di scrittura l’unico mezzo
per infirmare il testamento olografo, tale motivazione
doveva ritenersi censurabile alla luce del più corretto
orientamento giurisprudenziale che riconosceva la possibilità di ricorso ad entrambi gli strumenti processuali
(querela di falso e disconoscimento seguito dalla verificazione) per contestare la genuinità del testamento.
6.1. Formulava, a tal fine, il seguente quesito di diritto:
Dica la Corte se all’erede legittimo deve ritenersi consentita la facoltà di disconoscere, ai sensi e per gli effetti
dell’art. 214 c.p.c. e ss., il testamento olografo fatto valere contro di lui, e se tale disconoscimento può essere
esercitato anche in sede di azione di petitio heraeditatis,
nel corso della quale l’erede legittimo esplicitamente
contesti l’autenticità del predetto testamento.
6.2. Dello stesso tenore i motivi di impugnazione di B.
A.G., che, nella (più ampia) formulazione del quesito,
chiede tra l’altro a questa Corte la conferma del principio di diritto secondo il quale il testamento olografo
può essere disconosciuto ex art. 214 c.p.c. e segg., dall’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e che l’onere della proposizione dell’istanza di
verificazione del documento contestato incombe su chi
vanti diritti in forza di esso.
7. Con ordinanza di rimessione n. 28586 del 20 dicembre 2013, la II sezione, investita dei ricorsi riuniti, e
con riguardo al comune motivo relativo allo strumento
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Giurisprudenza
Diritto civile
processuale utilizzabile per contestare l’autenticità del
testamento olografo, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che li ha a sua volta trasmessi a queste sezioni
unite, ritenendo opportuna la risoluzione del contrasto
esistente nella giurisprudenza della Corte di legittimità
in subiecta materia.
7.1. Con il citato provvedimento interlocutorio si rileva
che, sulla questione, si sono diacronicamente contrapposti due orientamenti.
7.2. Secondo un primo indirizzo, il testamento olografo,
nonostante i requisiti di forma previsti dall’art. 602 c.c.,
trova comunque la sua legittima collocazione tra le
scritture private, sicché, sul piano della efficacia sostanziale, è necessario e sufficiente che colui contro il quale
sia prodotto disconosca (rectius, non riconosca) la scrittura, da ciò derivando l’onere della controparte, che alla efficacia di quella scheda abbia invece interesse (perché fonte della delazione ereditaria), di dimostrare la
sua provenienza dall’autore apparente.
7.2.1. Si evidenzia in particolare che, alla luce di tale
orientamento nell’ipotesi di conflitto tra l’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e colui
il quale vanti diritti in forza di esso, l’onere della proposizione dell’istanza di verificazione del documento contestato incombe su quest’ultimo, cui spetta la dimostrazione della qualità di erede, mentre nessun onere, oltre
quello del disconoscimento, grava sul primo, con l’ulteriore conseguenza che, sulla ripartizione dell’onere probatorio, nessuna rilevanza può attribuirsi alla posizione
processuale delle parti - ossia se la falsità del documento
sia fatta valere in via principale dall’erede legittimo che
a tal fine abbia proposto l’azione, oppure se, introdotto
dall’erede testamentario un giudizio per il riconoscimento dei propri diritti ereditari in forza della scheda testamentaria, questa sia stata disconosciuta dall’erede legittimo.
7.3. Un secondo orientamento, pur senza iscrivere il testamento olografo nella categoria degli atti pubblici, ne
evidenzia tuttavia la (particolarmente elevata) rilevanza
sostanziale e processuale, di talché la contestazione della sua autenticità si risolve in un’eccezione di falso, e
deve essere sollevata soltanto nei modi e con le forme
di cui all’art. 221 c.p.c. e ss., con il conseguente onere
probatorio a carico della parte che contesti la genuinità
della scheda testamentaria.
7.4. L’ordinanza di rimessione non tralascia di osservare
come queste stesse sezioni unite, con la sentenza n.
15169 del 23 giugno 2010, chiamate a risolvere un altro
contrasto insorto sui modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, ebbero
modo di indicare, sia pur in obiter, nella querela di falso
lo strumento processuale idoneo a privare di ogni efficacia il testamento olografo, anche se proprio il detto carattere di obiter dictum ha impedito il superamento della
contrapposizione tra i due indirizzi - tanto che in epoca
successiva ad essa si leggono pronunce ancora orientate
in un senso o nell’altro, pur nella consapevolezza del
dictum delle Sezioni Unite.
7.5. Dalla constatazione dell’apparente insanabilità di
un ormai pluridecennale contrasto tra i due orienta-
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menti l’ordinanza di rimessione della seconda sezione
civile ha tratto motivo per rimettere la questione a queste sezioni unite affinché provvedano alla sua ricomposizione, anche alla luce degli studi e delle conclusioni
(a loro volta non univoci) cui è pervenuta la dottrina
specialistica.
7.5.1. Non può tacersi che le singole indagini ermeneutiche sfociate nell’adesione all’uno o all’altro indirizzo
appaiono ciascuna sorretta da argomentazioni che, singolarmente valutate, si caratterizzano tutte e parimenti
per autorevolezza e persuasività, così che l’odierna questione non pare potersi ricondurre, sic et simpliciter, ad
una superficiale scelta dello strumento processuale cui
ricorrere per contraddire o impedire che il testamento
acquisti efficacia nei riguardi di chi non ne è menzionato quale beneficiario, ovvero, su di un piano del tutto
speculare, perché possa farsi valere nei confronti di chi,
potenziale erede ab intestato, dalla efficacia di quell’atto
veda compromesse, le proprie pretese ereditarie, consacrando definitivamente i diritti del successore chiamato
nella scheda olografa.
7.5.2. La scelta de qua postula, difatti, la parallela indagine in ordine al valore, anche probatorio, delle scritture private che non provengono da nessuna delle parti in
causa, e in ordine al riparto dell’onere probatorio.
7.5.3. E ciò perché il testamento olografo non è solo un
documento che fonda, o contribuisce a fondare, sul piano probatorio, le ragioni della parte in causa, ma costituisce esso stesso il titolo in forza del quale il soggetto
ivi menzionato diviene titolare di diritti soggettivi, e in
ragione del quale si realizza la successione in locum et ius
defuncti.
8. Ricostruendo funditus i termini del contrasto, emerge
come parte della giurisprudenza di questa Corte, nel riconoscere al testamento olografo natura giuridica di
scrittura privata, ammetta che la contestazione della autenticità della sua sottoscrizione possa legittimamente
compiersi attraverso il semplice disconoscimento (i.e.il
non riconoscimento) della scheda testamentaria.
8.1. La tesi trova un suo risalente precedente nella pronuncia di cui a Cass. n. 3371 del 16 ottobre 1975, secondo cui la parte che intenda contestare l’autenticità
di una scrittura privata non riconosciuta non deve proporre querela di falso, occorrendo invece impugnare, in
via di eccezione, la sottoscrizione mediante il disconoscimento, con la conseguenza che graverebbe sulla controparte l’onere di chiedere la verificazione e di dimostrare l’autenticità della scheda testamentaria. A fondamento di tale decisione la Corte pose la considerazione
secondo cui lo strumento della querela di falso si rende
indispensabile solo quando la scrittura abbia acquistato
l’efficacia di piena prova ai sensi dell’art. 2702 c.c., per
riconoscimento tacito o presunto, ovvero all’esito del
procedimento di verificazione (e ciò anche nell’ipotesi
in cui, contro l’erede istituito con un precedente testamento, sia prodotto un successivo testamento istitutivo
di altro erede).
8.2. La giurisprudenza favorevole allo strumento processuale della verificazione ex art. 214 c.p.c., peraltro, non
esclude tout court il ricorso alla querela di falso, ricono-
199
Giurisprudenza
Diritto civile
sciuta come strumento alternativo rispetto al semplice
disconoscimento (così, tra le altre, Cass. n. 3883 del 22
aprile 1994), ma mette a sua volta in rilievo - sulla premessa per cui l’onere probatorio ricade sulla parte che
del testamento voglia servirsene e che a tal fine propone l’istanza di verificazione (salvo la diversa scelta della
controparte di promuovere azione di querela di falso) la non incidenza sull’onere probatorio della posizione
processuale assunta dalle parti stesse (e cioè se l’azione
sia esperita dall’erede legittimo che adduca in via principale la falsità del documento, ovvero dall’erede testamentario che voglia far valere i propri diritti ereditari e
si trovi di fronte alla contestazione dell’autenticità del
documento da parte dell’erede legittimo: Cass. n. 7475
del 12 aprile 2005 e n. 26943 dell’11 novembre 2008).
8.3. Tracce dell’orientamento in parola si rinvengono
anche in epoca successiva al ricordato obiter di queste
Sezioni Unite.
8.3.1. Secondo Cass. n. 28637 del 23 dicembre 2011,
difatti - riaffermatosi in premessa che querela di falso e
disconoscimento sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro -, il testamento
olografo non perderebbe la sua natura di scrittura privata per il fatto di dover rispondere ai requisiti di forma
imposti dalla legge (ex art. 602 c.c.), volta che esso deriva la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che ne compia il soggetto contro il quale la scrittura
è prodotta: quest’ultimo, per impedire tale riconoscimento e contestare tout court l’intera scheda testamentaria, deve dunque proporre l’azione di disconoscimento, che pone a carico della controparte l’onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e proviene, invece, effettivamente dal suo autore
apparente.
9. A questo indirizzo si contrappone l’orientamento
che, pur non attribuendo valore di atto pubblico al testamento olografo, postula, per la contestazione della
sua autenticità, la proposizione della querela di falso.
9.1 Anche tale filone interpretativo ha origini assai risalenti: si legge in Cass. n. 2793 del 3 agosto 1968 che
la contestazione dell’erede legittimo si risolve in una eccezione di falso, da sollevarsi esclusivamente nelle forme di cui all’art. 221 c.p.c., e segg., atteso che il disconoscimento può provenire soltanto da chi sia autore
dello scritto o da un suo erede - in tal senso, e prima
ancora, Cass. n. 766 del 18 marzo 1966, secondo la quale il principio sostanziale dell’art. 2702 c.c., volto a disciplinare l’efficacia in giudizio della scrittura privata riconosciuta effettivamente o presupposta tale, e la procedura di disconoscimento e di verificazione regolata dall’art. 214 c.p.c. e ss., sono istituti applicabili solo alle
scritture provenienti dai soggetti del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria
firma da parte di quel soggetto contro il quale sia stato
prodotto lo scritto. Quando invece l’atto non sia attribuibile alla parte contro cui viene prodotto, la contestazione della sua autenticità, risolvendosi in una eccezione di falso, necessita della relativa querela.
9.2. Sarà proprio questo risalente insegnamento a costituire a lungo una delle più solide basi su cui si fonda
200
l’indirizzo giurisprudenziale favorevole al ricorso allo
strumento disciplinato dall’art. 221 e segg. cit. Gli eredi
legittimi che contestano l’autenticità della scheda olografa, secondo questa interpretazione (fatta propria anche da una parte della dottrina), devono, difatti, ritenersi soggetti estranei alla scrittura testamentaria, onde
la loro esclusione anche dallo schema dell’art. 214
c.p.c., comma 2.
9.3. Conferma indiretta della ratio di tale ricostruzione
si trova nella pronuncia di cui a Cass. n. 1599 del 28
maggio 1971, la quale, pur concludendo nella specie per
la legittimità del solo disconoscimento, a ciò perviene
solo in ragione della qualifica di erede attribuita alla
parte che in concreto ed in quel giudizio contestava un
testamento olografo. Si legge, difatti, in sentenza che
l’erede istituito col primo testamento, agendo con la petitio heraeditatis in quanto investito di un valido titolo di
legittimazione fino al momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva pur
sempre la veste di erede anche nei confronti di altro
soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a
successiva disposizione testamentaria, così che egli non
può qualificarsi terzo fino al momento del definitivo accertamento della validità del secondo testamento, ed è
legittimato a contestare l’efficacia del testamento posteriore mediante il mero disconoscimento, senza necessità
di proporre querela, incombendo sull’altra parte che abbia proposto domanda riconvenzionale - tendente a far
dichiarare la validità del secondo testamento e la conseguente caducazione delle disposizioni contenute nel primo - l’onere di provare tale domanda chiedendo la verificazione dell’olografo successivo di cui intende avvalersi.
9.4. L’indirizzo favorevole alla querela di falso, che tiene
conto della provenienza della scrittura, risulta espresso
in seguito da Cass. n. 16362 del 30 ottobre 2003, secondo cui la procedura di disconoscimento e di verificazione di scrittura privata riguarda unicamente le scritture
provenienti da soggetti del processo e presuppone che
sia negata la propria firma o la propria scrittura dal soggetto contro il quale il documento è prodotto, mentre,
per le scritture provenienti da terzi estranei, come nel
caso del testamento olografo, la contestazione non può
essere sollevata secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì nelle forme dell’art. 221 c.p.c. e
segg., perché si risolve in una eccezione di falso.
9.5. Le argomentazioni a favore dello strumento della
querela, principalmente incentrate sull’assunto della
terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto, trovano una peculiare evoluzione interpretativa nella già ricordata sentenza di queste Sezioni Unite n. 15169 del 2010 (supra, 7.4).
Intervenendo sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei
alla lite, la pronuncia ne ricostruisce l’efficacia probatoria inquadrandole tra le prove atipiche dal valore meramente indiziario, e, tenendo conto di tale valore probatorio, afferma che esse possono essere liberamente contestate dalle parti; ma, circoscrivendone l’analisi con
particolare riguardo al testamento olografo, nega poi
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Diritto civile
che un simile documento possa annoverarsi tra le prove
atipiche per l’incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata riconosciutagli, ritenendo (senza che
l’affermazione costituisca ratio decidendi della pronuncia)
che la sua contestazione necessiti della querela di falso.
9.5.1. L’intero plesso argomentativo della sentenza rende peraltro tale obiter del tutto peculiare, poiché le stesse scritture provenienti da terzi finiscono per distinguersi in due sottocategorie - la prima, contenente la generalità delle scritture, a valenza probatoria “debole”, la
seconda, comprensiva di atti di particolare incisività
perché essi stessi titolo immediatamente esecutivo del
diritto fatto valere, a valenza sostanziale e processuale
“particolarmente pregnante” -, per la contestazione di
ciascuna delle quali si indica uno distinto strumento
processuale.
9.6. L’orizzonte della giurisprudenza di legittimità si sposta così, alla luce della soluzione adottata, dal rapporto
tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta al
valore intrinseco del documento, in una nuova e più attenta consonanza con la relativa elaborazione dottrinaria.
9.6.1. L’indirizzo favorevole alla tesi della necessità della querela trova, infine, recente conferma nella pronuncia di cui a Cass. n. 8272 del 24 maggio 2012, predicativa della correttezza del rimedio processuale disciplinato
dall’art. 221 c.p.c. e segg., essendo il testamento un documento proveniente da terzi, e riaffermativa, nel solco
delle Sezioni Unite, dell’incidenza sostanziale e processuale particolarmente elevata della scheda olografa, che
giustifica il ricorso alla querela di falso per contestarne
l’autenticità.
10. Il panorama giurisprudenziale si completa con l’antico enunciato di cui a Cass. n. 1545 del 15 giugno 1951,
che, premessa la legittimità della proposizione di un’azione di accertamento negativo in ordine alla provenienza delle scritture private e del testamento olografo,
afferma che l’onere della prova spetta all’attore che
chieda di accertare la non provenienza del documento
da chi apparentemente ne risulta l’autore, in consonanza con l’opinione dottrinaria secondo cui la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduce in
una domanda di accertamento negativo della validità
del documento stesso.
10.1. La pronuncia (senza assumere tuttavia posizione
esplicita sulla forma di tale accertamento negativo, se,
cioè, dovesse o meno seguire le forme della querela di
falso), fu oggetto di autorevoli consensi e di penetranti
critiche in dottrina (in estrema sintesi, alla tesi secondo
cui l’impugnazione per falsità del testamento olografo si
risolve in una quaestio nullitatis, con conseguente applicabilità alla fattispecie della norma di cui all’art. 606
c.c., dettata in tema di nullità del testamento olografo
per mancanza dei requisiti si replicò che l’olografo impugnato per falsità non è nullo per difetto di forma ma
inesistente), non trovò ulteriore seguito in giurisprudenza, che vide così contrapporsi, come finora ricordato, la
tesi della verificazione a quella della querela, con opposte conseguenze in ordine all’onere della prova, ripartito
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sul presupposto delle diverse finalità e dell’indipendenza
dei due istituti.
11. La questione del riparto degli oneri probatori, in
particolare, fu oggetto di approfondita disamina nella
sentenza di questa Corte n. 3880 del 18 giugno 1980,
ove si legge che la querela postula l’esistenza di una
scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria, con la conseguenza che chi contesti l’autenticità della sottoscrizione della scrittura onde impedire che
all’apparente sottoscrittore di essa venga imputata la dichiarazione sottoscritta nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela di
falso, mentre invece, allorché sia accertata l’autenticità
della sottoscrizione, chi voglia contestare la provenienza
delle dichiarazioni contenute nella scrittura di colui
che, ormai incontrovertibilmente, l’ha sottoscritta, ha
l’onere di proporre la querela di falso.
12. In una dimensione del tutto speculare rispetto alle
posizioni della giurisprudenza, la dottrina specialistica si
è a sua volta divisa tra i due citati e dominanti orientamenti, con argomentazioni che fanno di volta in volta
riferimento:
- al rapporto tra provenienza della scrittura e parte in
causa contro cui è prodotta;
- alla valutazione del documento per la riconosciuta incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata;
- all’esigenza di tener separato il piano del contenuto
del testamento (concreto thema probandum) da quello
dello strumento mediante il quale esso possa acquisire
rilevanza agli effetti processuali.
Su di un piano più generale, ciascuna delle tesi proposte
non appare poi insensibile al problema dell’efficacia
delle scritture private e dei relativi strumenti di impugnazione.
13. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa sufficiente
il ricorso al disconoscimento colloca tout court il testamento olografo tra le scritture private.
13.1. Tale ricostruzione della scheda testamentaria è sostanzialmente univoca, salva l’attribuzione ad essa di
quel “valore intrinsecamente elevato” evidenziato da
questa stesse sezioni unite nel 2010. Distinzione peraltro
criticata da chi ne contesta il fondamento normativo,
denunciando l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcuni documenti provenienti da terzi di un regime giuridico “rafforzato” rispetto a quanto assicurato alle scritture
private provenienti dalle parti - regime del quale si lamenta l’assenza di un efficace riferimento normativo
che sostenga l’intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della necessaria proposizione della querela di falso, e la conseguente confusione concettuale tra il piano processuale e quello sostanziale (confondendosi cioè l’aspetto morfologico del documento e del suo contenuto con lo strumento processuale funzionale al suo riconoscimento sul piano della
prova in giudizio).
Tale sovrapposizione concettuale conduceva, difatti, secondo tale orientamento, all’errore in cui incorrevano i
201
Giurisprudenza
Diritto civile
sostenitori della necessità di ricorrere alla querela di falso, così criticandosi l’assunto secondo cui incombeva su
colui che contestava il testamento olografo la prova del
suo accertamento negativo, e ritenendosi invece sufficiente, al pari di ogni scrittura privata, il mero disconoscimento del documento.
13.2. L’indirizzo favorevole al semplice disconoscimento
della scheda testamentaria apparve, peraltro, illico et immediate destinato a confrontarsi con due delicate questioni.
13.2.1. La prima questione aveva ad oggetto il rapporto
tra autore del testamento e parti in causa, poiché il testamento proviene pur sempre da un terzo rispetto alle
parti del processo, perciò solo esulando, secondo i sostenitori della tesi della querela di falso, dalla fattispecie
normativa di cui all’art. 214 c.p.c. - a tanto replicandosi
che la scheda olografa, pur materialmente proveniente
da chi non può assumere la qualità di parte in senso
processuale o sostanziale, acquistando efficacia solo con
la morte del suo autore, è pur tuttavia caratterizzata da
una sua così specifica peculiarità che la posizione di
“parte” del destinatario della attribuzione deriva unicamente dalla devoluzione ereditaria, evidenziandosi poi
l’esistenza di casi in cui il documento, pur non provenendo da alcuna delle parti in causa, non può essere
considerato alla stregua di una scrittura di terzo estraneo
alla lite.
13.2.2. Si è ancora opinato, avvertendo l’utilità di circoscrivere la qualità di terzo rispetto alla scrittura privata prodotta in giudizio (e dunque all’olografo), che, dall’esame esegetico degli artt. 2702 e 2704 c.c., 214 c.p.c.,
e in una più ampia dimensione di teoria generale del diritto, il concetto di terzo ha natura relazionale, per tale
intendendosi chi è estraneo a un qualsiasi rapporto o atto giuridico, così individuandosi tre diverse dimensioni
in cui si colloca il concetto di terzo (e, specularmente,
quello di parte), e cioè quella proprio della formazione
della scrittura (che, considerando la convenzione come
fatto storico puntuale, definisce “parte” colui che abbia
sottoscritto o vergato di suo pugno la scrittura, e correlativamente terzo chi non abbia né sottoscritto né vergato a mano la medesima), quella negoziale (afferente
alla situazione giuridica di diritto sostanziale disciplinata
dal contenuto della scrittura privata prodotta in giudizio, in tale prospettiva essendo parte la persona fisica/soggetto autore della dichiarazione), e infine quella processuale (quella, cioè del giudizio in cui la scrittura privata è prodotta, in questa accezione essendo “terzo” la
persona fisica che non in giudizio nel processo pendente).
L’espressione “eredi o aventi causa” utilizzata dall’art.
214 c.p.c., comma 2, andrebbe, pertanto, intesa in senso
ampio, e comprensiva di tutti coloro che si trovino in
una “generica posizione di dipendenza”.
13.2.3. La critica alla preclusione del disconoscimento
imposta all’erede legittimo (formalmente terzo sino alla
declaratoria di non autenticità o di falsità dell’olografo),
si appunta ancora sull’erronea valorizzazione del nesso
processuale tra il documento ed il soggetto, mentre anche il successibile ex lege, in ragione della propria posi-
202
zione sostanziale, non sarebbe “terzo” bensì soggetto
contro il quale l’olografo è prodotto.
13.2.4. La posizione del successibile ex lege (se parte o
terzo rispetto al testamento olografo che istituisca erede
altro soggetto), dissolta in parte qua la differenza tra
erede legittimo e quello testamentario ai fini del mezzo
cui ricorrere per contestare una scheda olografa, diviene
così oggetto di un accertamento giudiziale circoscritto
alla fattispecie successoria (legale o testamentaria) invocata in proprio favore, onde il riparto dell’onere della
prova andrebbe riferito unicamente all’effetto giuridico
di tale fattispecie: costituendo proprio il negozio testamentario il tema della prova, dell’attore o del convenuto, il relativo onere graverebbe ipso facto su colui che
vuoi far valere quel documento, con l’effetto che la parte nei cui confronti l’atto testamentario è prodotto può
limitarsi al disconoscimento.
13.2.5. La seconda questione, a sua volta influente sull’elaborazione teorica che ha riguardo all’onere della
prova, esplora il rapporto tra successione legittima e
successione testamentaria, e la supposta preminenza della seconda sulla prima. Si afferma, così, che il tenore
dell’art. 457 c.c., comma 2, (a mente del quale “non si
fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria”) attribuirebbe alle norme sul testamento valenza dispositiva, a
fronte della valenza suppletiva della legittima. Per i fautori della querela di falso, questa preminenza inciderebbe in modo determinante sulla ripartizione dell’onere
probatorio, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione di accertamento negativo
volta che, a fronte della “posizione consolidata” attribuita dal testamento all’erede vocato, chi voglia impugnarlo avrebbe l’onere di dimostrare la falsità della provenienza o la insussistenza dei requisiti di validità, in
osservanza dei principi generali di ripartizione dell’onere
probatorio prescritti dall’art. 2697 c.c. La preminenza
della successione testamentaria è stata, peraltro, autorevolmente contestata, sino ad invertirne il rapporto con
quella legittima, attribuendo a quest’ultima funzione
primaria (e conseguentemente carattere dispositivo alla
sua disciplina), residuando alla vocazione testamentaria
un carattere soltanto suppletivo: di qui, la legittimità
del (solo) disconoscimento della scheda testamentaria.
14. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa necessaria
la querela di falso muove dalla premessa secondo cui il
testamento olografo, costituendo una autentica prova
legale, può essere “distrutto”, e oggetto di verifica, soltanto attraverso lo strumento processuale di cui all’art.
221 c.p.c. e ss.
14.1. Le posizioni dottrinarie contrarie al disconoscimento, meno numerose, non appaiono tuttavia meno
autorevoli per la dovizia delle argomentazioni addotte,
volte ad indagare funditus sugli aspetti, sostanziali e processuali, riconducibili alle peculiarità del testamento
olografo.
14.2. Pur non dubitandosi della estraneità del testamento dalla categoria degli atti pubblici, ne viene pur tuttavia evidenziato il carattere sui generis sul piano sostanziale, reso manifesto innanzitutto dalla circostanza che
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Diritto civile
la falsificazione della scheda olografa, nel diritto penale,
è equiparata, quoad poenam, al medesimo reato avente
ad oggetto gli atti pubblici, secondo quanto previsto
dall’art. 491 c.p., mentre la stessa condotta criminosa, a
differenza che per le scritture private, è perseguibile
d’ufficio ai sensi del successivo art. 493 bis.
14.3. Non si omette poi di considerare che l’olografo
produce immediatamente e direttamente effetti nella
sfera giuridica del terzo, e costituisce, una volta pubblicato, titolo immediato di acquisto per l’erede e per il legatario, come prescritto dall’art. 620 c.c., comma 5,
trattandosi di scrittura la cui efficacia non necessita dell’accertamento della autenticità, e comunque distinta
da tutte le altre scritture private, per loro natura inidonee a costituire titolo immediatamente costitutivo di
diritti verso i beneficiati.
14.4. Al riconoscimento del suo intrinseco valore sul
piano sostanziale contribuisce, secondo tale orientamento, la stessa disciplina delle norme sulla pubblicità
degli atti (in particolare, gli artt. 2648 e 2660 c.c.), che
consentono la trascrizione dell’acquisto a causa di morte
per effetto della sola presentazione del testamento e dell’atto di accettazione della eredità, restando così implicitamente confermata la non necessità di verificare l’autenticità della scheda, in evidente contrapposizione con
il trattamento riservato alle altre scritture private, che
possono trascriversi solo se autenticate o giudizialmente
accertate, secondo il disposto dell’art. 2657 c.c.
14.5. Si è poi contestato che il procedimento di verificazione sia adeguato al disconoscimento del testamento,
trovandosi il documento in deposito presso un notaio
per la pubblicazione art. 620 c.c.): e se per la querela di
falso l’art. 224, prevede il sequestro del documento quale misura più elevata per la sua custodia quando è tenuto presso un depositario, nessuna disposizione così rigorosa è prevista nel procedimento di verificazione.
14.6. Sul piano più squisitamente processuale, si poi affermato che la contestazione della autenticità del testamento andrebbe esercitata servendosi del più rigoroso
strumento della querela non tanto per la efficacia probatoria del documento, quanto perché, in materia di
contraffazione, l’azione di verificazione si risolverebbe
in una iniziativa processuale identica nel contenuto alla
querela, ma inammissibilmente libera dalle formalità essenziali che la legge prevede invece nella disciplina dettata dall’art. 221 c.p.c. ss.
E si è ancora posto l’accento sulla natura dell’accertamento - per i suoi riflessi sull’onere della prova - e sulla
posizione di terzietà del successibile ex lege rispetto al
testamento.
14.6.1. La soluzione della querela, difatti, conduce, secondo i suoi sostenitori, ad un più corretto riparto dell’onere della prova, che verrebbe a gravare su chi contesta il testamento olografo, in ossequio al disposto dell’art. 2697, e dell’art. 457 c.c., comma 2, il quale ultimo
prevede la successione ex lege solo in mancanza di vocazione testamentaria - risolvendosi la contestazione del
documento olografo, come si è detto, in una domanda
di accertamento negativo (così aderendosi alla tesi della
preminenza della vocazione testamentaria rispetto alla
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legale). Quanto poi al rapporto tra erede ab intestato e
testamento, si afferma che il disconoscimento di una
scrittura non può provenire da terzi, poiché tale strumento è riservato alle parti contro cui il documento è
rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono limitarsi
a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo
autore. La fattispecie normativa si riferisce, difatti, ad
una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi a fondamento di una pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo
contesti possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo impugnano
richiede proprio la dimostrazione della falsità del testamento: per il successibile ex lege non residuerebbe, dunque, che lo strumento della querela di falso per contestare l’autenticità del testamento olografo.
15. Gli arresti giurisprudenziali e il perdurante contrasto
che li caratterizza, al pari delle divergenti conclusioni
cui è pervenuta la stessa dottrina, sono lo specchio del
complessità della questione posta al collegio, la cui soluzione sul piano teorico è destinata ad assumere un determinante rilievo nelle controversie per lesione di legittima ove assai di frequente si sollevano, in via di domanda o di eccezione, doglianze in ordine alla autenticità del testamento.
La peculiarità e la singolarità della questione sta poi nel
fatto che tanto gli argomenti che sorreggono quanto le
critiche che contestano ciascuna delle possibili soluzioni non mancano di autorevolezza e di forza persuasiva.
16. A sostegno della sufficienza del disconoscimento gli
argomenti maggiormente convincenti appaiono quelli
predicativi:
- della natura di scrittura privata del testamento olografo;
- della attribuzione al successibile ex lege della qualità di
erede dell’(apparente) autore della scheda olografa;
- della netta distinzione tra il piano sostanziale, che riguarda più propriamente il thema probandum, e il piano
processuale, che riguarda le modalità con le quali in un
processo può trovare ingresso, con dignità di prova, il
documento di delazione testamentaria.
17. L’indirizzo a sostegno della necessità della querela di
falso trova invece fondamento:
- nella incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che è riconosciuta al testamento, testimoniata da un plesso di norme la cui lettura depone
(deporrebbe) in tal senso;
- nella esclusione in capo al successibile ex lege della
qualità di erede (almeno sino a quando tale qualità non
sia stata processualmente accertata), con conseguente
inapplicabilità della fattispecie contemplata nell’art.
214 c.p.c., comma 2.
18. Non vanno per altro verso trascurate le riflessioni
critiche specularmente mosse alle argomentazioni favorevoli all’una e all’altra delle tesi che si propongono oggi come soluzione (senza apparente alternativa) della
questione oggetto di giudizio.
18.1. Quanto al rapporto tra successore ex lege e scheda
olografa, ed alla posizione dell’erede ab intestato, il vasto dibattito giurisprudenziale e dottrinale che, in seno
203
Giurisprudenza
Diritto civile
alla teoria generale del processo, si agita in ordine alla
stessa categoria concettuale di “terzo”, non sembra del
tutto funzionale all’adozione di una soddisfacente soluzione del caso concreto. Non sembra, difatti, seriamente
revocabile in dubbio che alcuni successibili, quali i legittimari, difficilmente possano essere qualificati “terzi”
ai fini della non riconoscibilità della sottoscrizione del
de cuius. Mentre la stessa impugnazione del testamento
olografo, la contestazione della sua provenienza e/o autenticità, è spesso proposta proprio da chi, pur beneficiario di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque (anche) un erede testamentario, sicché nei suoi
confronti non potrebbe porsi alcuna questione di accertamento della sua qualità di erede.
18.1.1. Di conseguenza, non appare utile prospettare alternative che, a seconda della posizione assunta da chi
contesta il testamento (escluso totalmente dalla eredità,
erede legittimo compreso nelle categorie dei legittimari,
erede testamentario sia pur per quota che non lo soddisfi), postulino poi l’adozione di soluzioni differenziate
caso per caso.
18.1.2. Né appare senza significato considerare che una
formale disamina del concetto di terzo conduce inevitabilmente a ritenere che quella posizione, ai fini dell’art.
214 c.p.c., non andrebbe esaminata non dal punto di vista del soggetto parte della lite ma dell’autore del documento che si vuoi disconoscere - e sotto tale profilo il de
cuius non è mai parte nel giudizio di impugnazione del
proprio testamento -, e che l’erede in disconoscimento
della scrittura o della sottoscrizione del suo autore sarebbe colui che subentra al de cuius nei suoi rapporti - e ciò
presuppone che quel medesimo scritto si sarebbe potuto
produrre nei confronti del testatore se ancora in vita.
E tuttavia risulta assai poco agevole affermare che, tra i
documenti (siano essi negoziali oppure dichiarazioni di
scienza) possa annoverarsi, sic et simpliciter, il testamento, formato dal medesimo de cuius, ma destinato a
produrre effetti nella sfera giuridica dei suoi destinatari
e non in quella dell’autore, acquistando efficacia dal
momento del suo decesso e non prima. La ratio della distinzione tra scritture private, fatta propria dalle sezioni
unite di questa Corte nel 2010, secondo cui ad alcune
di esse andrebbe attribuito un valore intrinsecamente
maggiore, trova proprio in tali considerazioni il suo fondamento, pur senza trascurare la legittimità delle critiche di chi contesta l’irragionevolezza dell’attribuzione
ad alcune di esse di un regime giuridico “rafforzato” rispetto a quanto assicurato a quelle provenienti dalle
parti, anche alla luce della difficoltà di individuare un
criterio da adoperare per la relativa classificazione.
18.2. Parimenti poco esplorabile, ai fini che occupano il
collegio, si rivela la altrettanto delicata questione relativa alla preminenza della forma testamentaria su quella
legittima o viceversa, secondo la lettura data dell’art.
457 c.c., comma 2, e alle relative conseguenze in ordine
all’onere dalla prova. Il percorso interpretativo che la
caratterizza appare altrettanto impervio, e conduce a risultati assai poco certi, alla luce dei rilievi sollevati dai
fautori dell’indirizzo favorevole al disconoscimento, i
quali sottolineano come nella specie non si controverta
204
sul valore della fonte della successione (legale o testamentaria, che resta il thema probandum), ma sullo strumento probatorio utilizzabile per dare ingresso nel processo al documento stesso.
19. L’indagine deve allora indirizzarsi verso l’analisi dei
due più rilevanti aspetti della questione:
a) il valore sostanziale da attribuire al testamento;
b) il meccanismo processuale attraverso cui il testamento possa acquistare definitiva efficacia probatoria.
19.1. Privilegiando l’aspetto processuale della questione,
sembra potersi concordare con l’assunto secondo cui,
qualunque valore possa attribuirsi al testamento olografo, la sua contestazione avrà pur sempre ad oggetto il titolo della successione, e ciò riguarderà propriamente il
thema probandum, mentre la opzione tra disconoscimento e successiva (eventuale) verificazione a carico di chi
di quel testamento voglia valersi, ovvero querela di falso
a carico di chi quel testamento voglia eliminare dalla
realtà processuale, riguarda squisitamente il piano della
prova, ossia lo strumento processuale funzionale a consentire che il testamento spieghi efficacia nel processo.
Con la conseguenza che la sua natura di scrittura privata è destinata a privilegiare la prima soluzione.
19.2. Se invece viene si privilegia l’aspetto sostanziale
della vicenda, appare valorizzata l’intrinseca, elevata e
peculiare incidenza che il testamento spiega per sua
stessa natura. E si è già avuto modo di osservare come,
sotto tale profilo, non manchino conferme offerte dal
relativo plesso di norme destinate a evidenziarne le differenze rispetto ad una ordinaria scrittura privata (dalla
sua immediata esecutività e trascrivibilità, alla disciplina penalistica che ne accomuna le sorti al documento
pubblico nella ipotesi di falsificazione). È indiscusso,
anche da parte di chi finisce per propendere per la soluzione favorevole al disconoscimento, che il testamento
olografo sia una scrittura il cui tratto formalistico, olografo, datato e sottoscritto ai fini della sua validità la
rende una scrittura privata sui generis, i cui requisiti
tendono a garantire la corrispondenza del contenuto del
documento a quello della dichiarazione e la tutela della
integrale autenticità di quest’ultima contro le manomissioni del terzo.
Proprio all’olografia (di cui non si rinvengono altri riscontri) è attribuita una funzione specifica, ossia la funzione
integrativa della “conoscenza” dell’atto, nel senso che con
essa vuoi garantirsi che il testo sia stato “conosciuto” dal
suo autore, in un significato dunque che va oltre la “presunzione di conoscenza” delle normali scritture.
In favore di questo indirizzo, che conduce alla soluzione
favorevole alla querela di falso, si rilevano ancora la
maggiore coerenza dello strumento della querela (che,
con la partecipazione al processo del Pubblico Ministero, assicurerebbe migliore armonia con la rigorosa disciplina penale prevista per la ipotesi di falsificazione dell’olografo, parificata al reato di falsificazione dell’atto
pubblico); la maggiore coerenza in riferimento all’oggetto dell’indagine (poiché con la contestazione della autenticità dell’olografo l’accertamento non si limita mai
alla sola sottoscrizione per stabilirne la provenienza, ma
all’intero testo, investito di dubbi in ordine alla sua ge-
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nuinità, e ciò in armonia con l’oggetto dell’indagine per
l’ipotesi di querela di falso dell’atto pubblico); la maggiore adeguatezza agli effetti giuridici dell’olografo, il
quale, a differenza di ogni altra scrittura privata, è immediatamente esecutivo ed immediatamente costitutivo
di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, in
capo al chiamato alla successione.
20. È convincimento del collegio che le inevitabili aporie destinate a vulnerare l’una e l’altra ipotesi di soluzione, tra quelle prospettate sino ad oggi in dottrina e in
giurisprudenza, possano essere non del tutto insoddisfacentemente superate adottando una terza via, già indicata dalla giurisprudenza di questa Corte con la risalente sentenza del 1951 (Cass. 15 giugno 1951 n. 1545,
Pres. Mandrioli, est. Torrente), e cioè quella predicativa
della necessità di proporre un’azione di accertamento
negativo della falsità.
20.1. Pur nella consapevolezza delle obiezioni mosse illo
tempore a tale ipotesi di soluzione del problema, è convincimento del collegio che la proposizione di una azione di accertamento negativo che ponga una quaestio
nullitatis in seno al processo (anche se, più correttamente, sarebbe a discorrere di una quaestio inexistentiae) consente di rispondere:
- da un canto, all’esigenza di mantener il testamento
olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle
scritture private;
- dall’altro, di evitare la necessità di individuare un (assai problematico) criterio che consenta una soddisfacente distinzione tra la categoria delle scritture private la
cui valenza probatoria risulterebbe “di incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da ri-
chiedere la querela di falso”, non potendosi esse “relegare nel novero delle prove atipiche” (così la citata Cass.
SS.UU. 15161/2010 al folio 4 della parte motiva); dall’altro, di non equiparare l’olografo, con inaccettabile
semplificazione, ad una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi, destinata come tale a rappresentare, quoad
probationis, una ordinaria forma di scrittura privata non
riconducibile alle parti in causa;
- dall’altro ancora, di evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di
lui l’intero onere probatorio del processo in relazione ad
un atto che, non va dimenticato, è innegabilmente caratterizzato da una sua intrinseca forza dimostrativa;
- infine, di evitare che la soluzione della controversia si
disperda nei rivoli di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso,
consentendo di pervenire ad una soluzione tutta interna
al processo, anche alla luce dei principi affermati di recente da questa stessa Corte con riguardo all’oggetto e
alla funzione del processo e della stessa giurisdizione,
apertamente definita “risorsa non illimitata” (Cass.
SS.UU. 26242/2014).
21. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:
La parte che contesti l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo
della provenienza della scrittura, e l’onere della relativa
prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa.
(omissis).
Onere della prova e procedimento di impugnazione
di testamento olografo: la terza via delle Sezioni Unite
di Michele Sesta
Le Sezioni Unite sono intervenute nell’annosa vicenda relativa alla ripartizione dell’onere probatorio e allo strumento processuale da esperirsi per l’impugnazione di un testamento olografo. La
soluzione indicata - che prevede la proposizione di un’azione di accertamento negativo della falsità della scheda e che ambisce a superare quelle contrapposte antecedentemente prospettate
- ha il pregio di addossare persuasivamente l’onere probatorio su chi affermi la falsità, ma lascia
qualche incertezza con riguardo alle caratteristiche dell’azione individuata.
Le Sezioni Unite erano state chiamate dalla II Sezione (1) a dirimere la questione concernente l’im-
pugnazione del testamento olografo, e, in particolare, a decidere se la scheda sia da contestarsi necessariamente attraverso la querela di falso, secondo
l’orientamento che era stato affermato di recente ancorché obiter - dalle stesse Sezioni Unite (2), ov-
(1) Cass. 20 dicembre 2013, n. 28586 (Ord.), in www.iusexplorer.it.
(2) Cass., SS.UU., 23 giugno 2010, n. 15169, in questa Rivista, 2011, 201, con nota di Vanzetti, L’irrisolto problema della
disciplina processuale delle scritture provenienti da terzi estranei
al giudizio e della loro eventuale efficacia probatoria e in Riv. dir.
proc., 2011, 968, con nota di G. Finocchiaro, Sul regime giuridico delle scritture private provenienti da terzi.
I termini del problema. Le diverse posizioni
della dottrina e della giurisprudenza
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vero se essa possa essere puramente e semplicemente disconosciuta ex artt. 214 ss. c.p.c. dalla parte
che ne contesti l’autenticità; conseguentemente, a
stabilire se l’onere della prova incomba su colui
che ne neghi l’autenticità, ovvero su chi vanti diritti in forza dell’olografo stesso.
Il tema dell’impugnazione di testamento olografo è
stato oggetto di una pluridecennale vicenda giurisprudenziale e dottrinale (3), che la sentenza in
commento ha dettagliatamente ripercorso, evidenziando che, nel tempo, erano emersi due distinti e
contrapposti indirizzi interpretativi.
In breve, il primo di essi - che aveva ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite nella richiamata sent. n.
15169/2010 e più di recente della II Sezione nella
sent. n. 8272/2012 (4) - ammette la contestazione
dell’olografo solo attraverso la querela di falso, con
conseguente onere probatorio posto in capo al parente che vanti la delazione legittima in suo favore, o a colui che, invocando una diversa scheda,
contesti l’altrui qualità di erede testamentario.
Detto orientamento si fonda: a) sull’incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che
connota il testamento olografo, tale da differenziarlo da una qualsiasi scrittura privata proveniente da
un terzo estraneo alla lite (5) e, dunque, dalla categoria delle prove atipiche liberamente valutabili
dal giudice ex art. 116, comma 1, c.p.c.; b) sull’assunto che ogni contestazione dell’olografo si risolva
in una affermazione di falsità dello stesso, con conseguente necessità di promuovere la querela di falso; c) sulla considerazione, per così dire a contrariis,
che il disconoscimento della scrittura ex artt. 214
ss. c.p.c. sia strumento di contestazione utilizzabile
solo per il documento che astrattamente provenga
o sia stato formato da una delle parti in causa, e
non già da un terzo, qual è il defunto rispetto al
procedimento.
L’altro indirizzo, molto risalente, ma riaffermato di
recente da Cass. n. 28637/2011 (6), per converso,
ammette la contestazione del testamento olografo
mediante il mero disconoscimento del documento
ex art. 214 c.p.c. da parte di chi ne assuma la falsità, con conseguente onere di promuovere il procedimento di verificazione ai sensi dell’art. 216 c.p.c.
(3) Vedi la ricostruita da Sesta, Questioni sulla prova della
falsità del testamento olografo, in Contr. e impr., 2014, 69.
(4) Cass. 24 maggio 2012, n. 8272, con nota di Sesta, Per
impugnare il testamento olografo occorre la querela di falso, in
Fam. e dir., 2012, 1100.
(5) Sia consentito sul punto rinviare a Sesta, Per impugnare
il testamento olografo occorre la querela di falso, cit., 1100.
(6) Cass. 23 dicembre 2011, n. 28637, in www.iusexplorer.it.
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da parte di colui che di questo si voglia valere, a
prescindere dalla sua posizione formale nel processo; in tale ottica, dunque, è l’erede testamentario
tenuto a dimostrare l’autenticità della scheda,
mentre al parente che la neghi è sufficiente disconoscerla e provare la sua qualità di chiamato ex lege (7). Il ricorso alle modalità ex artt. 214 ss. c.p.c.
si fonda sulla considerazione che l’olografo non è
un atto pubblico, ma una comune scrittura privata,
come tale contestabile nelle consuete forme previste per i documenti privati.
La soluzione prospettata dalla Sezioni
Unite: l’azione di accertamento negativo
della falsità di testamento olografo come
“terza via”, con onere probatorio posto in
capo a colui che lo contesti
Le Sezioni Unite, dopo aver puntualmente esposto
la pluralità degli argomenti - alcuni di carattere sostanziale, altri procedurale (8) - a sostegno dell’uno
o dell’altro indirizzo, hanno evidenziato, all’esito,
come entrambe le posizioni, ancorché irriducibilmente contrapposte, siano astrattamente dotate di
forza persuasiva.
Al fine di dirimere la questione, la sentenza ha
conseguentemente concentrato l’indagine sugli
aspetti individuati come più rilevanti, ovvero: “a)
il valore sostanziale da attribuire al testamento; b)
il meccanismo processuale attraverso cui il testamento possa acquistare definitiva efficacia probatoria”, così mettendo in luce, sotto al profilo sostanziale sub a), che la soluzione dell’impugnazione mediante la querela di falso “valorizza l’intrinseca, elevata e peculiare incidenza che il testamento spiega
per sua stessa natura” (cfr. punto 19.2. della sentenza in commento), e, per converso, che sotto al
profilo procedurale sub b) appaia più appropriato il
disconoscimento e la successiva eventuale verificazione, posto che, ponendo la questione “squisitamente [sul] piano della prova”, tale è lo strumento
legale di contestazione della scrittura privata.
A fronte di questa rilevata aporia, le Sezioni Unite hanno ritenuto di poterla superare “non del
tutto insoddisfacentemente” indicando una “terza
(7) Per i riferimenti bibliografici, si veda ancora Sesta, Per
impugnare il testamento olografo occorre la querela di falso, cit.,
1101; Marmocchi, Forma dei testamenti, in Tratt. succ. e don.,
diretto da Rescigno, I, II ed, Padova, 2010, 901.
(8) Sulla distinzione tra risvolti sostanziali e procedurali dell’impugnazione del testamento olografo, si veda Denti, Verificazione ed onere della prova dell’autenticità di testamento olografo, in Foro pad., 1961, 1184.
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via”, precisamente quella che era stata aperta dalla
Cassazione in un lontano - ed assai illustre, essendone stato l’estensore Andrea Torrente - precedente del 1951, sebbene nella consapevolezza che
detta soluzione fosse stata da più parti criticata e
rimasta nel tempo isolata (9). La decisione in
commento assume esattamente che, nella predetta
risalente decisione, la S.C. avesse configurato
l’impugnazione dell’olografo quale “azione di accertamento negativo della falsità” del documento,
pur “senza assumere … posizione esplicita sulla
forma di tale accertamento negativo, se cioè, dovesse o meno seguire le forme della querela di falso” (cfr. punto 10.1. della motivazione della sentenza in epigrafe).
Sulla scia di tale precedente, le Sezioni Unite
hanno esplicitamente chiarito, nella formulazione
del principio di diritto, che l’azione di accertamento negativo ha ad oggetto la provenienza della scrittura e che l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte che contesti
l’autenticità del testamento olografo (ovvero che
deduca che la scheda non provenga da chi ne appare l’autore), aggiungendo nella motivazione che
chi intenda impugnare un testamento olografo
debba “proporre un’azione di accertamento negativo della falsità”.
La statuizione relativa alla ripartizione dell’onere
probatorio merita - ad avviso di chi scrive - piena
adesione ed appare del tutto coerente sia con il generale principio enunciato dall’art. 2697 c.c., sia
con quello che stabilisce la priorità accordata dall’ordinamento alla delazione testamentaria rispetto
a quella legale (art. 457 c.c.), che non pare consentire che, nel conflitto tra chiamato ex lege ed
erede testamentario, debba ricadere su quest’ultimo
l’onere di provare l’autenticità della scheda testamentaria (10). Per contro, la fisionomia dell’azione
di accertamento negativo, da esperirsi secondo le
SS.UU, richiede qualche approfondimento, specie
con riguardo alla sua concreta disciplina.
Le zone d’ombra che permangono in ordine
ai caratteri dell’accertamento negativo
(9) Cass. 15 giugno 1951, n. 1545, in Foro it., 1951, I, 855,
e in Riv. dir. proc., 1952, II, 69, con nota di Lisanti, In tema di
onere della prova nella petitio hereditatis, approvata da Satta,
Commentario al Codice di procedura civile, Milano, 1960, 194,
e da Micheli, in tema di onere della prova nelle azioni di accertamento negativo (impugnativa di testamento olografo di parte
dell’erede legittimo), in Giur. compl. Cass. civ., 1951, 414; criticata da Biondi, Petizione di eredità ex lege ed onere della prova
in tema di disconoscimento di testamento olografo, in Foro
it., 1953, IV, 44; Andrioli, Commentario al codice di procedura
civile, Napoli, II, 1956, 147. e da Denti, Verificazione ed onere
della prova dell’autenticità di testamento olografo, cit., 1186.
(10) Per un’analitica dimostrazione della tesi che pone l’onere probatorio in capo a colui che contesta l’autenticità del
testamento cfr. Sesta Questioni sulla prova della falsità del testamento olografo, cit., 71. Contra, Sassi, Testamento e garanzie
giurisdizionali, in Riv. dir. civ., 2013, 1430.
(11) Cfr. Cass., SS.UU., 23 giugno 2010, n. 15169, cit. ed
ivi i rilievi critici di Vanzetti.
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Il sopra menzionato principio di diritto consente ad avviso delle Sezioni Unite - di risolvere ed armonizzare quelle che sembravano posizioni inconciliabili, e cioè: a) di rispondere all’esigenza di
mantenere il testamento olografo definitivamente
circoscritto nell’orbita delle scritture private; b) di
evitare la necessità di individuare un criterio che
consenta di distinguere, tra scritture private provenienti da terzi, quelle di incidenza sostanziale e
processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso (11); c) di evitare che il
semplice disconoscimento di un atto caratterizzato
da tale peculiarità renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo in relazione ad un documento che è innegabilmente caratterizzato da una sua intrinseca forza
dimostrativa; d) infine, di evitare che la controversia si disperda nei rivoli di un defatigante procedimento incidentale di falso, consentendo di pervenire ad una soluzione tutta interna al processo.
Nonostante lo sforzo sistematico, il rigore espositivo e la sicura ragionevolezza della “terza via” indicata dalla sentenza in commento, pare a chi scrive
che la decisione abbia lasciato qualche zona d’ombra: infatti, pur affermando a chiare lettere su quale parte processuale incomba l’onere della prova,
statuendo condivisibilmente che chi contesti l’autenticità dell’olografo sia tenuto a dimostrare la falsità che egli stesso predica, invero la sentenza non
si pronuncia con altrettanta nitidezza in ordine ai
caratteri del mezzo attraverso cui debba agirsi e alle
modalità della relativa prova della falsità.
Nell’intento di lumeggiare i predetti profili, anche
alla luce del contrasto dottrinale e giurisprudenziale che le Sezioni Unite hanno inteso comporre,
può utilmente muoversi dall’analisi del richiamato
precedente del 1951. In quella fattispecie, in cui
l’attrice assumeva la falsità del testamento in base
al quale la convenuta era stata istituita erede, la
Corte ritenne trattarsi di un’azione di accertamen-
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Diritto civile
to negativo, che aveva ad oggetto la negazione della qualità di erede della parte convenuta ovvero
volta a “contrastare la situazione di fatto, già da
tempo consolidatasi, con l’acquisto dell’eredità e il
possesso della stessa”. Di poi, la sentenza chiarì
che, nelle azioni di accertamento negativo, è imposto all’attore di dimostrare l’inesistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, da lui stesso dedotta, che fondano la posizione del convenuto
(contestata dall’attore); diversamente, si sfocerebbe
in un superato giudizio di iattanza, meramente provocatorio per il convenuto. Ciò posto, la decisione
statuì che - tanto in relazione alla categoria generale della scrittura privata, quanto al testamento
olografo, che ne è una sottospecie (per quanto speciale, posto che la legge richiede per esso non solo
l’autografia della sottoscrizione, ma di tutto il testo (12)) - non c’erano motivi per discostarsi dal
generale principio dettato in tema di onere della
prova: dunque, il carico probatorio doveva dirsi incombente su chi agiva, con la conseguenza che era
l’attore che deduceva l’inesistenza della posizione
giuridica altrui (ovvero quella di erede testamentario) a dover provare il fondamento di tale inesistenza, dimostrando la falsità del titolo (la scheda
olografa).
Assai significativo sul punto è, poi, che, secondo la
Cassazione del menzionato precedente, l’art. 2702
c.c. - che attribuisce efficacia di piena prova, fino
a querela di falso, della provenienza delle scritture
private dall’apparente sottoscrittore, a condizione
che vi sia stato riconoscimento della scrittura da
colui contro il quale è prodotta - non comporta inversione della regola generale di ripartizione dell’onere della prova, ma ne costituisce mera applicazione: infatti, ove non vi sia stato riconoscimento
della scrittura privata, la richiamata norma impone
proprio a chi la produce, ovvero a chi se ne vuole
valere per fondare il proprio diritto, di provarne la
provenienza. Al contempo, però, la Corte puntualizzò che lo stesso art. 2702 c.c. si riferisce al caso
in cui la scrittura privata sia prodotta da una parte
contro l’altra, allo scopo di fondare, affermare e dimostrare il diritto di colui che la produce avverso
la controparte; per contro, l’azione di accertamento
negativo con la quale l’attore “si faccia a contestare la legittimità di una situazione di fatto che si è
costituita sulla base di una scrittura privata” confi-
gura proprio la “fattispecie … inversa, non contemplata nell’art. 2702 c.c.”. Il che è come dire
che, quando il sedicente erede legittimo - di norma, il parente del defunto - contesti l’altrui qualifica di erede testamentario ed affermi la falsità della
scheda olografa che ha istituito quest’ultimo, non
si verifica affatto la situazione che l’art. 2702 c.c.
mira a disciplinare, posto che l’attore menziona l’esistenza della scrittura e deduce che essa è il fondamento non del suo, ma dell’altrui diritto, ed al
contempo la “aggredisce” perché la reputa falsa.
Sulla base di simili considerazioni, la sentenza del
1951 fu chiara nello statuire che l’onere della prova, in tale caso, è imposto “a chi si muove all’attacco contro situazioni di fatto esistenti e vuole
modificarle”, anche quando tali situazioni si fondino su una scrittura privata: ciò, si noti, affermò come piana applicazione del principio generale in tema di ripartizione dell’onere della prova, al quale
la Corte non ritenne di doversi discostare solo perché, nella specie, trattavasi della contestazione di
un atto privato. Secondo quel risalente arresto, ad
opinare diversamente si sarebbe operata un’immotivata deroga ai principi generali, nonché riconosciuto un ingiustificato privilegio per l’attore, a detrimento di chi, per sua stessa ammissione, vantava
un documento a proprio favore.
Conformandosi a tale precedente, le Sezioni Unite,
nella decisione che si commenta, hanno, dunque,
statuito, quanto all’onere probatorio, che chi intenda contestare l’autenticità di un olografo, vuoi
in via di azione che di eccezione, proponga necessariamente domanda di accertamento negativo sulla provenienza della scheda, gravandosi del relativo
onere probatorio.
La questione della qualificazione dell’azione in termini di accertamento negativo o, invece, positivo,
appare invero controvertibile (13), ma tutto sommato, a parere di chi scrive, non decisiva ai fini
della ripartizione dell’onere probatorio, che non
può non gravare su chi affermi la falsità, sia che si
resti nella prospettiva seguita dalle SS.UU., sia
che, al contrario, si inquadri l’azione come volta
all’accertamento positivo della qualità di erede legittimo, che presuppone l’accertamento giudiziale
della falsità del testamento: in ogni caso, è comunque certo che l’onere della prova gravi su chi affermi la falsità.
(12) Marmocchi, Forma dei testamenti, in Tratt. succ. e don.,
cit., 865; Ambanelli, Il testamento olografo, in Tratt. succ. e
don., diretto da Bonilini, Milano, 2009, 1312; Caliendo, in Sesta (a cura di), Codice delle succ. e don., I, Milano, 2011, sub
art. 602, 1199.
(13) Si veda in proposito Denti, Verificazione ed onere della
prova dell’autenticità di testamento olografo, cit., 1187.
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Chi scrive, in un precedente lavoro (14), dopo essere approdato alla conclusione oggi affermata dalle Sezioni Unite in ordine alla spettanza del carico
probatorio, ne aveva dedotto, in via consequenziale, come l’accertamento della falsità del testamento
richiedesse la proposizione della querela di falso,
osservando come la peculiare disciplina legale e
l’altrettanto specifica efficacia sostanziale del testamento (15) non possono non riverberarsi sullo
strumento processuale da utilizzarsi ai fini dell’accertamento negativo della sua autenticità, rendendo, quindi, vero, quanto icasticamente affermato a
suo tempo da Satta, secondo cui il testamento ha
valenza di “autentica prova legale, che solo può essere distrutta dalla querela di falso” (16). A sostegno della tesi della querela di falso, in quel lavoro,
si rammentava, inoltre, che la falsificazione del testamento olografo, diversamente da quella della
scrittura privata, è penalmente perseguibile d’ufficio (art. 493 bis, comma 2, c.p.), ed è soggetta ad
una specifica pena (art. 491 c.p.), segno della particolare considerazione che l’ordinamento attribuisce
a quel documento. Si osservi che sul piano penale
la differenziazione tra il testamento olografo e le altre scritture private si è ulteriormente approfondita
alla luce delle recenti modificazioni introdotte dal
D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, che, da un lato, ha
abrogato l’art. 485 c.p. attinente il falso in scrittura
privata, trasformato in illecito civile, e, nel contempo, ha mantenuto rilevanza penale alla falsificazione del testamento olografo ed, anzi, ha conferito alla fattispecie una sua specificità, come risulta
dalla nuova rubrica dell’art. 491 c.p., che si riferisce ora espressamente (anche) ad esso; è indubbio
che detta nuova configurazione della fattispecie penale avvalori la tesi della peculiarità del testamento olografo, che, pur appartenendo al genus scrittura privata, gode di una considerazione legale che
ben può giustificare il ricorso (indefettibile) al procedimento di falso civile.
Sotto altro riguardo, la conclusione relativa alla
necessità di proporre la querela di falso pareva allo
scrivente legittimata, altresì, considerando che il
procedimento di cui agli artt. 214 ss. c.p.c. è palesemente rivolto a disconoscere una scrittura privata proveniente da colui contro il quale essa è prodotta, cosicché il disconoscimento non può mai riguardare scritture provenienti da terzi, che, del resto, in via di principio, non hanno efficacia probatoria vincolante. Quanto sopra risulta con chiarezza sia dal tenore dell’art. 214 c.p.c., sia, a ben vedere, dall’art. 220, comma 2, c.p.c., che fa riferimento
alla sentenza che, a definizione del sub procedimento di verificazione della scrittura privata, dichiara “la scrittura o la sottoscrizione di mano della
parte che l’ha negata” (e, dunque, non di un terzo
qual è colui che la contesta); né detto procedimento può ritenersi adeguato, con riguardo al testamento, sulla base del richiamo dell’art. 214, comma 2, c.p.c., in forza del quale gli eredi possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la scrittura o
la sottoscrizione del loro autore: appare, infatti,
evidente che detta disposizione si riferisce ad una
scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi a
fondamento di una pretesa nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi
lo contesti possa qualificarsi sic et simpliciter erede,
poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo disconoscono richiede proprio la dimostrazione della
falsità del testamento (17).
In breve, la conclusione dell’indefettibile ricorso
alla querela di falso sembrava l’unica coerente col
criterio di ripartizione dell’onere probatorio pre-
(14) Sesta, Questioni sulla prova della falsità del testamento
olografo, cit., 74.
(15) Al riguardo, occorre considerare che il testamento,
contrariamente a qualunque altra scrittura proveniente o meno
da terzi, richiede l’olografia e produce effetti nella sfera giuridica dei terzi immediatamente e direttamente, nel senso che costituisce titolo immediato di acquisto per l’erede e per il legatario, come si deduce dagli artt. 620, comma 6, 2648 e 2660
c.c. In proposito, cfr. Carpino, voce Scrittura Privata, in Enc.
dir., XLI, Milano, 1989, 813 e già Satta, Commentario al codice
di procedura civile, cit., 194.
(16) Satta, Commentario al codice di procedura civile, cit.,
194.
(17) Marmocchi, Forma dei testamenti, cit., 901; Sesta,
Questioni sulla prova della falsità del testamento olografo, cit.,
74. Sulla questione, in vario senso, cfr. Triola, Testamento olografo ed onere della prova della qualità di erede, in Giust. civ.,
1987, I, 826; Colesanti, Una questione in tema di disconoscimento della scrittura, in Giur. it., 1962, I, 1, 1384; Cassissa, Ancora sull’onere della prova dell’autenticità del testamento olografo, in Giust. civ., 1966, I, 603. È anche interessante ricordare la
tesi di Denti, La verificazione delle prove documentali, Torino,
1957, 186, a parere del quale occorre distinguere l’ipotesi in
cui l’erede legittimo impugni il testamento per etero-grafia della scheda, senza agire in petizione di eredità, nel qual caso si
ravvisa una “azione di accertamento negativo avente per oggetto il rapporto sostanziale”, con conseguente inapplicabilità
della disciplina in tema di disconoscimento, dall’ipotesi in cui
una parte del processo si avvalga della scheda quale “documento che costituisce il risultato dell’attività di documentazione”, al fine di dimostrare la propria pretesa; in tale ultimo caso,
l’attore erede può limitarsi a disconoscere il documento, facendo sorgere a carico dell’altra parte l’onere della verificazione.
La ripartizione dell’onere probatorio
e la disciplina legale del testamento
olografo sembravano rendere necessario
il procedimento di falso
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scelto ed, altresì, con le summenzionate caratteristiche sostanziali riconosciute dall’ordinamento al
testamento olografo. Del resto, una volta accettata
la premessa relativa all’onere probatorio, non pareva possibile una diversa via processuale che consentisse l’accertamento della falsità. Ciò era stato
affermato autorevolmente da Andrioli, il quale, nel
criticare la sentenza del 1951 - che pure non aveva
preso posizione sulla necessità della querela di falso
-, faceva rilevare come la tesi ivi seguita “per un
verso nega importanza al disconoscimento, e per
altro verso immagina, accanto alla querela di falso,
una sorta di impugnazione di autenticità del testamento, legittimato a sperimentar la quale sarebbe
l’erede legittimo”, così manifestando un forte scetticismo in ordine all’ammissibilità di una consimile
“impugnazione” (18). Non è chi non veda come, a
fronte di tale posizione, si prospettasse piuttosto ardito per l’interprete configurare la terza via di cui
alla sentenza in commento, cosicché, scartata necessariamente la strada del mero disconoscimento
e della conseguente verificazione, non restava,
quindi, che seguire quella della querela di falso.
Le Sezioni Unite, con l’indicazione
della “terza via”, mettono al bando
il procedimento ex artt. 214 ss. c.p.c.,
ma chiariscono che la querela di falso non
è necessaria
Le Sezioni Unite hanno, però, ora statuito che la
terza via esiste e che essa si sostanzia in un’azione
di impugnazione del testamento: si tratta quindi di
indagare come detta azione si coordini con i mezzi
previsti dal codice di procedura civile per rimuovere l’efficacia probatoria delle scritture. Ancorché la
Corte non prenda posizione esplicitamente, i caratteri della predetta impugnazione di testamento sono agevolmente e sicuramente ricavabili dal contesto della motivazione. Infatti, la Corte: a) da un lato, dichiara espressamente che grazie alla soluzione
adottata sia possibile pervenire a una decisione tutta interna al processo, così escludendo la necessità
della querela di falso (non importa se in via incidentale o principale), in coerenza con il carattere
di scrittura privata riconosciuto al testamento olografo; b) al contempo, nega che il semplice disconoscimento del testamento sia sufficiente alla prova della falsità, in quanto in tal modo si riverserebbe su colui che si professa erede testamentario,
qualunque sia la sua posizione formale nel processo, l’intero onere probatorio, in spregio del riparto
disposto dall’art. 2697 c.c., cosicché, dunque, si
esclude necessariamente che la prova della falsità
possa essere data dall’onerato con le modalità previste dagli artt. 214 e 221 c.p.c.
Ciò significa che, nella visione della Corte, il testamento olografo, o meglio il documento in cui
esso si materializza, pur non avendo natura di atto
pubblico, come espressamente affermato al punto
20.1 della motivazione, non sia contestabile attraverso il procedimento previsto per la scrittura privata, come necessaria conseguenza di quanto altrettanto esplicitamente affermato nel medesimo
punto, ove è precisato che la soluzione accolta
consente di evitare che il semplice disconoscimento renda troppo gravosa la posizione processuale di
chi si professi erede testamentario.
Tale ultima asserzione - tutt’altro che ovvia, considerato il pregresso dibattito - finisce per configurare una specificità della scheda olografa, ed in particolare della sua efficacia probatoria, che vale a distaccarla dalle ordinarie scritture private, cui si riferisce l’art. 2702 c.c. Se le Sezioni Unite non hanno dato una specifica spiegazione dell’assunto, è
d’uopo ricordare che esso era stato persuasivamente
dimostrato dalla sentenza del 1951, ove al riguardo
si legge, come già ricordato, che la norma dell’art.
2702 c.c., che condiziona l’efficacia probatoria della scrittura privata al riconoscimento di colui contro il quale essa è prodotta, si applica solamente
nel caso in cui la scrittura sia prodotta contro altri
e, cioè, nell’ipotesi che si voglia trarne la dimostrazione di un proprio diritto, cosicché la fattispecie
inversa, di chi contesti la legittimità di una situazione di fatto che si è costituita sulla base di una
scrittura privata, non rientra nell’ipotesi di legge:
“la stessa esigenza di certezza dei rapporti giuridici
e di sicurezza nelle relazioni sociali, che giustifica
l’imposizione dell’onere della prova a chi si muove
all’attacco contro situazioni di fatto esistenti e vuole modificarle, si manifesta imperiosa anche nell’ipotesi in cui l’esercizio in via di fatto di un determinato potere viene giustificato in base a un documento privato”.
In conclusione, sia la sentenza del 1951 sia quella
in commento escludono che l’impugnativa del testamento possa attuarsi tramite il procedimento ai
sensi degli artt. 214 ss. c.p.c., cosicché il testamento olografo depositato in atti fa piena prova della
(18) Andrioli, Commento al codice di procedura civile, cit., II,
147.
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sua provenienza dal testatore e la parte che ne contesti l’autenticità non potrà limitarsi ad un mero
disconoscimento, dato che l’onere della prova della
falsità grava su di lei, come espressamente affermato dal principio di diritto delle Sezioni Unite.
Tuttavia, mentre la sentenza Torrente, pur negando
il ricorso al disconoscimento ed al successivo procedimento di verificazione della scrittura, lasciava
impregiudicata la questione se quella parte dovesse
necessariamente fare ricorso alla querela di falso, al
contrario le Sezioni Unite affermano - e questo pare essere il profilo più rilevante e innovativo della
decisione che si annota, che, a ben vedere, apporta
un quid pluris rispetto a quel precedente, ricavabile
non tanto dal principio di diritto, quanto dalla ricostruzione “in via sillogistica” delle premesse dettate al punto 20.1 - che la querela non sia necessaria e che detta prova potrà essere data liberamente
dall’onerato nel corso del procedimento. Tanto è
vero che la sentenza accoglie il motivo del ricorso
che censurava la decisione di merito impugnata,
confermativa di quella di primo grado, che aveva
ritenuto necessaria la querela: si tratta, dunque,
della ratio decidendi e non di un mero obiter dictum.
In definitiva, quindi, la decisione in commento
predica che l’impugnazione del testamento non richieda necessariamente di intraprendere il procedimento di falso (19), ma che essa possa incanalarsi
in un giudizio ordinario. Ciò comporta che l’onerato possa avvalersi di tutti i consueti mezzi di prova,
quali, ad esempio, testimonianze e presunzioni (20), e che, così come accade nel giudizio di falso, anche qui, nell’ammissione dei mezzi di prova,
il giudice non sia vincolato da alcuna regola legale (21), né obbligato a dar corso ad una consulenza
tecnica, che pure concretamente sarà usualmente
richiesta e disposta.
Indipendentemente dall’espletamento della consulenza tecnica, il giudice, ad avviso dello scrivente,
avrà facoltà di valersi di scritture di comparazione,
secondo il suo prudente apprezzamento, anche oltre i limiti previsti dall’art. 217, comma 2,
c.p.c. (22). Parrebbe, infatti, che detta disposizione,
nella specie, non trovi applicazione, non potendo
ritenersi operativo, nell’ambito dell’azione configurata, il richiamo di cui all’art. 101 disp. att. c.p.c.,
circoscritto alle sole disposizioni che governano il
procedimento di falso, ed essendo per di più dubbio
che detta norma comporti effettivamente l’estensione dell’art. 217, comma 2, c.p.c. al procedimento di falso. Considerato, poi, che l’azione di impugnazione del testamento prospettata dalle Sezioni
Unite ha ad oggetto l’indagine sull’olografia del
documento contestato (cioè, proprio la falsità) e
comunque che il relativo accertamento è nettamente distinto dal procedimento di verificazione
della scrittura, pare plausibile ritenere che le prescrizioni dell’art. 217, comma 2, c.p.c. non debbano comunque trovare applicazione: in questo modo
si supera uno degli ostacoli più gravi che nella pratica si presentano a chi contesti una scrittura testamentaria, e cioè quello di reperire scritture di comparazione recanti la grafia del testatore, la cui provenienza sia riconosciuta dalla controparte oppure
accertata per sentenza di giudice o per atto pubblico, come richiesto dal richiamato art. 217 c.p.c.
Occorre, a questo punto, interrogarsi circa l’efficacia della sentenza che accolga l’impugnazione del
testamento azionata da una delle parti secondo la
via indicata nella decisione in commento. Come le
Sezioni Unite hanno esplicitato, la via adottata,
(19) Procedimento di falso che, sulla base dell’orientamento prevalente, potrà comunque essere avviato da chi ne abbia
interesse anche qualora il testamento, in concreto, non si configuri quale scrittura non riconosciuta o non legalmente considerata tale. Ciò, seguendo l’indirizzo consolidato secondo il
quale “la parte nei cui confronti la scrittura viene fatta valere,
oltre alla facoltà di disconoscerla ai sensi dell’art. 214 c.p.c.,
ha in alternativa la possibilità di proporre direttamente la querela di falso”: così Taruffo, La prova nel processo civile, in Tratt.
dir. civ. e comm., già diretto da Cicu - Messineo - Mengoni,
continuato da Schlesinger, Milano, 2012, 618 e giurisprudenza
ivi citata. In senso critico, Vanzetti, Commentario del codice
procedura civile diretto da Comoglio - Consolo - Sassani, Vaccarella, III, Tomo 1, Torino, 2012, 855.
(20) Già ammesse del resto pure in sede di querela di falso
da Cass, 22 aprile 1994, n. 3833, in www.iusexplorer.it e più
recentemente da Cass. 26 gennaio 2006, n. 1691, in Foro it.,
2006, I, 1759.
(21) Sul punto, cfr. Vanzetti, op ult. cit., 903; Montesano Arieta, Tratt. dir. proc. civ., Padova, 2001, I, 2, 1241 e già Andrioli, Commento al codice di procedura civile, cit., 162, il quale
ricorda che, sotto l’impero del codice del 1865, la Cass. (26
marzo 1941, n. 849, in Foro it., 1941, 826), aveva stabilito che,
in sede di incidente di falso civile, il giudice non potesse pronunciare sulla falsità o meno della scrittura senza aver prima
disposto a riguardo una perizia.
(22) Si noti, comunque, in proposito, che neppure in sede
di procedimento di disconoscimento e conseguente verificazione della scrittura privata, nel cui ambito pure l’art. 217
c.p.c. è dettato, la produzione o l’indicazione di scritture di
comparazione pare concepita come l’unica o principale fonte
di convincimento del giudice, in quanto vi è chi ritiene che la
parte possa dare dimostrazione dell’autenticità della sottoscrizione e/o del documento disconosciuto con ogni mezzo, come
evidenziato da Taruffo, La prova nel processo civile, cit., 665 e
Vanzetti, op. ult. cit., 795.
Alla ricerca delle caratteristiche dell’azione
di accertamento negativo configurata dalle
Sezioni Unite
il Corriere giuridico 2/2016
211
Giurisprudenza
Diritto civile
diversamente dal procedimento di falso, permette
di pervenire ad una soluzione tutta interna al processo: il che però non consente che l’azione di accertamento negativo di impugnazione dell’olografo
possa condurre ad una pronuncia dotata di efficacia
erga omnes, e, quindi, oltre i limiti del giudicato
ex art. 2909 c.c., come, secondo l’orientamento dominante, accade invece con riguardo alla sentenza
che definisca il procedimento di falso (23). Dall’effetto necessariamente relativo dell’accertamento
operato dal giudice seguendo la via indicata dalla
Cassazione discende un ulteriore problema di non
agevole soluzione, e cioè quello di stabilire se, una
volta accertata, nell’ambito del predetto procedimento, la verità del documento con sentenza passata in giudicato, possa una delle parti dar corso al
procedimento di falso. La questione è stata affrontata con riferimento ai rapporti tra querela di falso
e verificazione, sembrando prevalere la tesi secondo la quale l’intervenuta pronuncia ex art. 220
c.p.c. non preclude la proposizione della querela (24). Tuttavia, considerato che l’accertamento
predicato dalla sentenza commentata, diversamente da quello cui si perviene all’esito della verifica-
zione, è sovrapponibile a quello che viene svolto
nel procedimento di falso, sembra ragionevole inferirne che esso possa configurare - inter partes - quel
giudicato ostativo cui fa riferimento l’art. 221,
comma 1, c.p.c.
(23) In argomento, cfr. Taruffo, La prova nel processo civile,
cit., 620, anche per l’illustrazione dell’opposta tesi, secondo la
quale l’accertamento ha efficacia con autorità di giudicato limitata alle parti e, diffusamente, Vanzetti, op. ult. cit., 845,
883, 929 ss.
(24) In argomento, Taruffo, La prova nel processo civile, cit.,
621, secondo il quale “si ritiene che l’avvenuta verificazione
della sottoscrizione con pronuncia passata in giudicato non
possa impedire di impugnare di falso il testo della scrittura allografa di cui si sostenga l’alterazione, riferendosi anche a fatti
successivi al giudicato o, in genere, di proporre la querela al fine di contestare la verità del contenuto del documento”.
(25) La cui statuizione è stata seguita da Cass. 2 febbraio
2016, n. 1995, inedita.
212
Conclusioni
In conclusione, pare a chi scrive che le Sezioni
Unite (25), dall’alto della loro autorevolezza, abbiano potuto individuare, tra le opposte posizioni
indicate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, una
soluzione che consente di garantire l’affidabilità
della forma testamentaria olografa, che era messa a
rischio dall’incertezza sino ad oggi in essere in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio e all’ammissibilità del mero disconoscimento ex art. 214
c.p.c.; tuttavia, per le considerazioni sopra svolte,
la possibilità della terza via non toglie che il procedimento di falso si confermi l’unico capace di fornire una statuizione incontrovertibile ed erga omnes
sull’autenticità e, quindi, sull’esistenza stessa della
scheda testamentaria.
il Corriere giuridico 2/2016
Civile Sent. Sez. 2 Num. 1995 Anno 2016
Presidente: MAZZACANE VINCENZO
Relatore: SCARPA ANTONIO
SENTENZA
sul ricorso 23275-2011 proposto da:
SCARVAGLIERI PIETRO FELICE SCRPRF42M152115C,
rappresentato e difeso dall'avvocato ELIANA CAPIZZI,
elettivamente domiciliato presso il suo studio in Milano, indirizzo di
posta elettronica certificata indicato ai fini delle notificazioni
[email protected];
- ricorrente contro
GUZZETTA ARMANDO GIUSEPPE ANGELO, nella qualità di
erede dell'intimata GUZZETTA AGATA, rappresentato e difeso
dall'avvocato ALESSANDRO FURCI, elettivamente domiciliato
ROMA, VIA PORTUENSE 104, presso ANTONIA DE ANGELIS
- resistente con procura -
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
Data pubblicazione: 02/02/2016
avverso la sentenza n. 610/2011 della CORTE D'APPELLO di
CATANIA, depositata il 02/05/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
13/01/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;
udito l'Avvocato Capizzi, per il ricorrente, che ha concluso per
udito l'Avvocato Marco Tita, per delega dell'Avvocato Furci, difensore
del resistente, che ha concluso per il rigetto del ricorso ;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
LUCIO CAPASSO., che ha concluso per l'accoglimento del primo
motivo di ricorso
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con
citazione del!' 11 settembre 2000 PIETRO
FELICE
SCARVAGLIERI conveniva davanti al Tribunale di Catania
AGATA GUZZETTA, premettendo: di essere fratello di
COSTANTINO SCARVAGLIER1, deceduto in Acicastello il 28
luglio 1998; che AGATA GUZZETTA, moglie di COSTANTINO
SCARVAGLIERI, aveva richiesto la pubblicazione di un
testamento olografo datato 27 aprile 1998, col quale si nominava la
stessa erede universale e si istituiva quale legatario di alcuni beni
PIETRO FELICE SCARVAGLIERI; che il medesimo attore aveva,
però, rinvenuto nel cruscotto di un'autovettura, oggetto di legato,
altro testamento olografo datato 10 giugno 1998, col quale, in
revoca del precedente, si designavano coeredi universali PIETRO
FELICE SCARVAGLIERI e AGATA GUZZETTA. Ciò premesso,
l'attore chiedeva dichiararsi la sua qualità di coerede testamentario e
Ric. 2011 n. 23275 sez. 52 - ud. 13-01-2016
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
l'accoglimento del ricorso;
perciò condannarsi AGATA GUZZETTA a consegnare la metà
dell'asse ereditario ed a pagare i frutti civili percepiti su tale
porzione sin dal momento dell'apertura della successione. La
convenuta AGATA GUZZETTA si costituiva chiedendo il rigetto
giugno 1998. Veniva disposta consulenza tecnica grafologica al fine
di accertare la genuinità della scrittura e della firma del testamento
10 giugno 1998, ma l'ausiliare esponeva che il mancato
rinvenimento dell'originale della scheda testamentaria impediva
l'espletamento delle necessarie indagini peritali. In difetto
dell'assunzione di ulteriori prove, il Tribunale di Catania, con
sentenza del 7 febbraio 2006, rigettava la domanda, affermando
come la verifica tecnica di autenticità di una scrittura disconosciuta
imponesse la produzione in originale e come l'attore non avesse
altrimenti dato prova del testamento impugnato. PIETRO FELICE
SCARVAGLIERI proponeva appello, che la Corte d'Appello di
Catania rigettava, con sentenza n. 610/2011, depositata il 2 maggio
2011. Osservava la Corte catanese che la scheda testamentaria, su
cui PIETRO FELICE SCARVAGLIERI fonda la sua domanda di
petizione di eredità, era stata prodotta in fotocopia, disconosciuta
come falsa da AGATA GUZZETTA. Al riguardo, l'appellante
aveva dedotto che si trattasse di fotocopia della scheda testamentaria
autenticata dal notaio, avente perciò, ai sensi degli artt. 2715 e 2719
c.c., la stessa efficacia della scrittura originale. Replicava la Corte di
merito che comunque tale copia era stata disconosciuta, agli effetti
dell'art. 214, comma 2, c.c., mentre l'istanza di verificazione
avanzata da PIETRO FELICE SCARVAGLIERI era rimasta
sprovvista di prova, non potendo il CTU grafologo avvalersi della
Ric. 2011 n. 23275 sez. 52 - ud. 13-01-2016
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
della domanda, sull'assunto della falsità del testamento del 10
sola fotocopia del testamento. Né rilievo decisivo al fine di
supportare la prova della qualità di erede di PIETRO FELICE
SCARVAGLIERI poteva trarsi, ad avviso della Corte catanese, dal
giudicato formatosi nella sentenza penale n. 1621/2009 del 19 aprile
l'appellante dai reati di cui agli artt. 485 e 491 c.p.: questo sia
perché AGATA GUZZETTA non si era costituita parte civile in
quel processo penale, sia perchè PIETRO FELICE
SCARVAGLIERI era stato assolto ai sensi dell'art. 530, comma 2,
c.p.p., per difetto di prova in ordine alla sussistenza del reato, in
quanto rimaneva circostanza dubbia che l'imputato avesse redatto di
proprio pugno, o fatto redigere ad altri in suo luogo, la scheda
testamentaria del 10 giugno 1998, stanti i contrasti tra la perizia
disposta dal Tribunale e la consulenza espletata dal Pubblico
Ministero.
Avverso tale sentenza della Corte d'Appello di Catania PIETRO
FELICE SCARVAGLIERI ha proposto ricorso per cassazione
articolato in due motivi. 11 19 settembre 2013 ha depositato "Atto
di intervento volontario" ARMANDO GIUSEPPE ANGELO
GUZZETTA, notificato al ricorrente il 26 luglio 2013,
qualificandosi unico erede dell'intimata AGATA GUZZETTA,
deceduta 1'8 novembre 2012.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va osservato che la parte intimata AGATA
GUZZETTA aveva prodotto unicamente procura speciale conferita
all'avvocato Enrico Ciraldo con atto per Notaio Pistorio dell' l 1
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
2009, pronunciata dal Tribunale di Genova, che aveva assolto
ottobre 2011. Successivamente, ARMANDO GIUSEPPE ANGELO
GUZZETTA, qualificandosi unico erede della predetta, deceduta 1'8
novembre 2012, ha depositato documentazione dalla quale risulta la
sua qualità di erede, in uno ad "Atto di intervento volontario", con
all'insegnamento di Cass. sez. un. 22 aprile 2013, n. 9692, pur
essendo la disciplina della prosecuzione del processo da parte del
successore a titolo universale ai sensi dell'art. 110 c.p.c. compatibile
con il giudizio di legittimità, le modalità di tale prosecuzione e,
quindi, dell'ingresso del successore a titolo universale debbono
adeguarsi alle forme di tale giudizio, in modo da apportare un
elemento di novità sul piano soggettivo. In tale prospettiva, il
giudizio di cassazione si svolge, salva la possibilità di interloquire
nella discussione in pubblica udienza, esclusivamente attraverso atti
tipizzati, quali il ricorso ed il controricorso e, quindi, le memorie ex
art. 378 c.p.c. Solo i primi due atti, da notificare in funzione
dell'assicurazione del contraddittorio, introducono, infatti, gli
elementi sui quali si deve svolgere il giudizio. Sulla base di queste
premesse, l'entrata nel processo di cassazione dell'erede della parte
deceduta o cessata, concretandosi in un apporto innovativo sotto il
profilo soggettivo consistente nella sostituzione della legittimazione
della parte originaria intimata, nell'ipotesi in cui la stessa (poi
deceduta) non abbia nei termini proposto e depositato controricorso,
non può essere effettuato dal suo erede con tale modalità, in quanto
altrimenti questi compierebbe un atto da cui è decaduto il suo stesso
dante causa. Piuttosto, l'erede della parte intimata, che non abbia
presentato controricorso, ha facoltà di intervenire nel giudizio, con
un atto avente natura sostanziale di atto di intervento (nel quale può
Ric. 2011 n. 23275 sez. 52 - ud. 13-01-2016
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
procura speciale in calce, atto notificato al ricorrente. Stando
essere rilasciata la procura a difensore iscritto nell'albo speciale,
essendo ciò consentito dall'art. 83 c.p.c. già prima della novella di
cui alla legge 18 giugno 2009, n. 69) e può partecipare alla
discussione orale.
e 216 c.p.c., nonché degli artt. 2719 e 2717 c.c. in relazione all'art.
360, nn.3 e 5 c.p.c." Si critica l'affermazione della sentenza della
Corte d'appello, ove si sostiene che "La scheda testamentaria sulla
quale l'appellante basa la petizione di eredità è stata prodotta in
fotocopia ed e stata formalmente disconosciuta, siccome falsa,
dall'appellata". Al riguardo, il ricorrente sostiene che con la
comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado la Guzzetta
avesse eccepito specificamente "la falsità della dedotta scheda
testamentaria", e non invece "la non conformità all'originale" della
copia prodotta. Mentre invece la "questione fotocopia" venne
sollevata in giudizio dal CTU incaricato dal Tribunale di Catania,
allorchè l'ausiliare esaminò il documento al fine di valutare la
genuinità della grafia e della sottoscrizione, in raffronto dell'altro
testamento olografo già riconosciuto dalla convenuta. Sennonché
l'originale era posto sotto sequestro penale e non era rinvenibile
indipendentemente da qualsiasi colpa dell'attore . Né l'attore doveva
comunque provare "la necessaria conformità della copia fotostatica
in atti all'originale testamento olografo", posto che la copia prodotta
in giudizio era una "fotocopia autenticata", e quindi, avente valore
ed efficacia "eguale all'originale", ex art.2719 c.c. All'attore,
continua il primo motivo di ricorso, incombeva solo di provare, per
l'effettuato disconoscimento, l'autenticità della scheda testamentaria,
e della sua sottoscrizione.
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Il primo motivo di ricorso deduce la "Violazione degli artt. 214, 215
Il secondo motivo di ricorso censura la sentenza d'appello per
"Violazione degli artt. 652 - 654 c.p.c. (ma è da intendersi: c.p.p.") e
dell'art. 2697 c.c. in riferimento all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.". Il
motivo attiene alla negazione, da parte della Corte catanese, di ogni
n.1621/2009, ai fini della dimostrazione dell'autenticità della scheda
testamentaria e della sua sottoscrizione da parte del defunto
Costantino Scarvaglieri. Si oppone, al riguardo, che la Guzzetta per
propria scelta non partecipò al giudizio penale, al quale venne
invitata a costituirsi, e per ben due volte fu citata in esso come
testimone dal P.M. Quanta al "ragionevole dubbio" lasciato dalla
sentenza penale sull'elemento materiale integratore della fattispecie,
ben poteva il giudice civile, ad avviso del ricorrente, esaminando la
decisione ed il relativo verbale di causa, come anche le consulenze
allegate, giungere al convincimento dell'originalità della scheda
testamentaria. H giudice d'appello avrebbe, cioè, dovuto trarre le
debite conclusioni in termini di onere probatorio, atteso che non c'è
prova che la scheda testamentaria in oggetto non sia stata redatta dal
de cuius Costantino Scarvaglieri.
Il primo motivo di ricorso è fondato, rimanendo nel relativo
accoglimento assorbito l'esame del secondo motivo.
Si ha riguardo a controversia in tema di petizione di eredità, con
allegazione ad opera dell'attuale ricorrente PIETRO FELICE
SCARVAGLIERI della qualità di erede del fratello COSTANTINO
SCARVAGLIERI operata sulla base di testamento olografo datato
10 giugno 1998. Trattandosi di azione di petizione dell'eredità
fondata su dedotta successione testamentaria, assume valore
decisivo la questione dell'onere della prova. Giacchè la convenuta
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
rilevanza della sentenza penale del Tribunale di Genova,
oppone diverso titolo testamentario per la successione, ed ha
eccepito la falsità del testamento 10 giugno 1998, nel ragionamento
seguito dai giudici di merito si è ritenuto spettante a PIETRO
FELICE SCARVAGLIERI l'onere di provare la propria domanda di
disconosciuto menzionato olografo, di cui l'attore intendeva
avvalersi, nella specie mediante la produzione posta a suo carico
della scheda testamentaria originale. Il testamento, sotto il profilo
probatorio, è stata infatti valutato alla stregua di una scrittura
privata, e quindi soggetto al disconoscimento o non riconoscimento
della sua autenticità. In tale prospettiva, la Corte catanese ha
considerato che, trattandosi appunto di prova costituita da scrittura
privata quale è il testamento olografo, è poi consentita la
verificazione solamente di documenti originali, così attenendosi a
quanto più volte detto in passato da questa Corte (cfr. Cass. 18
febbraio 2000, n. 1831; Cass. 15 marzo 2007, n. 6022; Cass. 27
gennaio 2009, n. 1903). In tali precedenti, si è spiegato come, "a
tenore dell'art. 2702 c.c., la scrittura privata fa piena prova, fino a
querela di falso, della provenienza del contenuto dal sottoscrittore,
se la parte, contro la quale la scrittura sia stata prodotta, abbia
riconosciuto la sottoscrizione: così che l'attribuzione al soggetto
contro cui il documento sia stato prodotto costituisce il fondamento
logico-giuridico della sua efficacia probatoria. Sennonché
l'attribuzione del contenuto della scrittura ad un determinato
soggetto in virtù della sua sottoscrizione (così da fondare una
presunzione legale superabile dall'apparente sottoscrittore solo con
l'esito favorevole della querela di falso) postula che il documento sia
stato prodotto in originale. Infatti solamente nel documento
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
petizione di eredità e, quindi, di chiedere la verificazione del
originale possono individuarsi quegli elementi la cui peculiarità, o
addirittura singolarità, consente di risalire, con elevato grado di
probabilità, al reale autore della sottoscrizione, in relazione alla
conosciuta specificità del profilo calligrafico, degli strumenti di
del soggetto rappresentati dalla firma". Il ricorrente nel suo motivo
di ricorso dimostra di trascurare l'inidoneità della copia fotostatica,
pur se munita di propria valenza probatoria, a formare oggetto di
indagine grafologica a seguito di attivazione del procedimento
incidentale di verificazione.
Tuttavia, ancora di recente, Cass. sez. un 15 giugno 2015, n. 12307,
ha affermato che la parte che contesti l'autenticità di un testamento
olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della
provenienza della scrittura, gravando su di essa l'onere della relativa
prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento
negativo. Le Sezioni Unite hanno in tale pronuncia ritenuto
inadeguato, al fine si superare l'efficacia probatoria di un
testamento olografo, sia il ricorso al disconoscimento che la
proposizione di querela di falso, prescegliendo, all'uopo, la terza via
predicativa della necessità di proporre, appunto, un'azione di
accertamento negativo della falsità della scheda testamentaria.
Come si legge nella motivazione di tale sentenza, la necessità di una
siffatta azione per quaestio nullitatis, ad avviso delle Sezioni Unite,
consente di rispondere:
«- da un canto, all'esigenza di mantener il testamento olografo
definitivamente circoscritto nell'orbita delle scritture private;
- dall'altro, di evitare la necessità di individuare un (assai
problematico) criterio che consenta una soddisfacente distinzione tra
Ric. 2011 n. 23275 sez. 52 - ud. 13-01-2016
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
scrittura abitualmente usati, delle stesse caratteristiche psico-fisiche
la categoria delle scritture private la cui valenza probatoria
risulterebbe "di incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente
elevata, tale da richiedere la querela di falso", non potendosi esse
"relegare nel novero delle prove atipiche" (...);
semplificazione, ad una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi,
destinata come tale a rappresentare, quoad probationis, una ordinaria
forma di scrittura privata non riconducibile alle parti in causa;
- dall'altro ancora, di evitare che il semplice disconoscimento di un
atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda
troppo gravosa la posizione processuale dell'attore che si professa
erede, riversando su di lui l'intero onere probatorio del processo in
relazione ad un atto che, non va dimenticato, è innegabilmente
caratterizzato da una sua intrinseca forza dimostrativa;
t
- infine, di evitare che la soluzione della controversia si disperda nei
rivoli di un defatigante procedimento incidentale quale quello
previsto per la querela di falso, consentendo di pervenire ad una
soluzione tutta interna al processo, anche alla luce dei principi
affermati di recente da questa stessa Corte con riguardo all'oggetto e
alla funzione del processo e della stessa giurisdizione, apertamente
definita "risorsa non illimitata" ».
In questi sensi il ricorso principale va accolto, e il procedimento va
rinviato alla Corte di appello di Catania che, alla luce del principio
di diritto esposto da Cass. sez. un 15 giugno 2015, n. 12307,
esaminerà le questioni conseguenti alla sua applicazione al fine della
ripartizione dell'onere della prova relativa all'azione di petizione di
eredità proposta da PIETRO FELICE SCARVAGLIERI, nonché
Ric. 2011 n. 23275 sez. 52 - ud. 13-01-2016
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale
- dall'altro, di non equiparare l'olografo, con inaccettabile
dell'onere della prova della contestata autenticità del testamento
olografo datato 10 giugno 1998.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di
cassazione.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito
l'esame del secondo motivo, cassa la sentenza impugnata in
relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese
del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d'appello di
Catania.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda
sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 gennaio
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
P. Q. M.
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