Gilbert Ryle
ANIMALE RAGIONEVOLE
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione di Emanuele Riverso
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ANIMALE RAGIONEVOLE
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La definizione aristotelica
Altri tentativi definitori Qualcosa di comune nelle attività umane?
Pensare ed operare
Il comportamento intelligente
In qual senso pensa?
Il pensare professionale
Conclusione
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65
70
73
77
82
85
Autobiografia di Gilbert Ryle
Bibliografia
Indice dei nomi
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Introduzione
Emanuele Riverso
A Gilbert Ryle
in memoriam
Analisi classica e movimento neoanalitico
Com’è noto, la filosofia analitica inglese si è sviluppata in due fasi
profondamente diverse fra loro; la prima è stata dominata dalla figura
e dalle ricerche di Bertrand Russell e la seconda è stata dominata da
una eredità di idee e di stimoli trasmessa direttamente da Wittgenstein
ai suoi allievi di Cambridge, e resa più efficace dalla pubblicazione
graduale dei suoi manoscritti.
La prima fase, magistralmente illustrata da Urmson1, va sotto il nome
di ‘analisi classica’ ed ebbe la sua espressione più elaborata nell’atomismo logico, i cui presupposti erano costituiti dal sistema logico contenuto nei Principia mathematica di Whitehead e Russell.
La seconda fase, che può essere qualificata come neoanalitica, presenta una maggiore varietà di forme e può essere, più opportunamente
considerata come espressione di un movimento filosofico dai confini
non sempre ben definiti.
L’una e l’altra fase hanno avuto caratteristiche rivoluzionarie e, nel
loro insieme, possono essere considerate come due tappe di una profonda rivoluzione contro l’accademismo, i1 tradizionalismo, il dogmatismo e l’insincerità filosofica, che ha avuto luogo nel mondo culturale
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di lingua inglese nel corso dei primi sessant’anni di questo secolo, fino
ad instaurare un modo totalmente nuovo di fare filosofia e di insegnarla
nelle Università.
L’accademismo, il rispetto cieco per formule e parole tradizionali, l’imposizione e l’accettazione dommatica di asserti di cui non si coglie effettivamente il senso e la verità, l’insincerità di costruzioni, che si presentano
come interpretazioni della realtà, ma sono remote da essa e carpiscono
l’assenso mediante la suggestione di immagini ed emozioni subdolamente
insinuate, erano da tempo penetrati nel mondo universitario inglese, come
in quello delle altre nazioni. Ma l’affermarsi del neohegelismo nel tardo
Ottocento aveva aggravato questi inconvenienti, sebbene i suoi rappresentanti fossero uomini di notevole cultura e integrità personale.
All’inizio del Novecento il fatto che la filosofia inglese fosse rappresentata da uomini di grandissima autorità e conosciuti un po’ in tutto il
mondo, non impediva che il loro insegnamento e le loro dottrine non
riuscissero più a soddisfare le esigenze del tempo, che si esprimevano
piuttosto nello sforzo delle scienze di rinnovarsi, consolidando o ricostruendo i loro fondamenti. La filosofia, che, per il numero delle cattedre ad essa destinate, predominava ad Oxford ed era debolmente rappresentata a Cambridge, ove le cattedre di filosofia erano pochissime,
restava lontana da ciò che era sentito come concretezza, ed autenticità.
Ma ad Oxford era difficile reagire contro la forza mistificante di motivi
ideologici superati. Il tentativo del pragmatista Schiller, di attaccare
gl’idoli del neohegelismo, fu un vero e proprio fallimento.
La rivoluzione non poteva cominciare che a Cambridge, e non poteva affermarsi che in nome di un rigore e di una autenticità postulati
dalla scienza. Essa fu una rivoluzione analitica, una rivoluzione che
utilizzava l’analisi, per chiarire termini, concetti e proposizioni, per
demolire costruzioni inconsistenti, per costruire nuove basi al sapete
scientifico ed all’etica. Gli antesignani di questa rivoluzione furono
Bertrand Russell2 e George Edward Moore. Il primo procedette con
analisi di tipo logico, il secondo con analisi chiarificatrici di ciò che
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s’intende dirle con l’uno o l’altro concetto, con l’una e l’altra proposizione. Tuttavia fu il Russell a caratterizzare col suo metodo questa
prima fase della rivoluzione analitica, e fu il suo metodo che sboccò in
quell’atomismo logico di cui si è parlato.
Questa prima fase, che negli anni fra le due guerre trionfò decisamente sul precedente mondo filosofico inglese, non era che una rivoluzione a metà; essa conservava ancora molto accademismo, molto
dommatismo, una certa fedeltà a posizioni e motivi tradizionali, nonostante lo spregiudicato radicalismo di Russell e l’ardimento di giovani
come Ayer, Ramsey e Wisdom. Non era facile accorgersene, soprattutto
quando si teneva presente come fosse ancora assai viva la battaglia, che
questi studiosi conducevano contro idee e convinzioni tradizionali di
carattere metafisico.
Dovette venire Wittgenstein dall’Austria, profondamente trasformato da esperienze tormentose, che avevano esasperato in lui il bisogno
di autenticità, perché le esigenze di rinnovamento ancora presenti nella
cultura filosofica inglese, trovassero piena soddisfazione.
La seconda fase della filosofia analitica ebbe, quindi, accenti rivoluzionari non solo nei riguardi della tradizione filosofica accademica, ma
anche nei riguardi delle forme che la filosofia analitica aveva assunto
nel corso della prima fase, in modo specifico nei riguardi del logicismo,
dell’atomismo logico, della dottrina delle descrizioni, della fondazione
logica della matematica, della dottrina dell’induzione. Anzi, poiché ormai si trattava più di ribellarsi a queste forme che ai motivi di una filosofia tradizionale non più minacciosa e pressocché obliata, la filosofia
neonalitica si presentò molto spesso in virulento contrasto con l’analisi
classica, fino a dare l’impressione che tutta la rivoluzione fosse contro
Russell e contro ogni idea, che prendesse ispirazione dalle sue dottrine.
In effetti chi legge le Ricerche filosofiche3 di Wittgenstein, il Sul riferimento4 di Strawson o qualche altro scritto d’ispirazione neonalitica
comparso tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta,
facilmente può essere indotto a intendere le cose in questo modo.
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Descrizioni e mistificazione
Vedere le cose in questo modo e dimenticare che il movimento
neonalitico, con la sua metodologia, le sue ricerche ed i suoi contributi chiarificatori, è una seconda e più avanzata fase di una più ampia
rivoluzione analitica mirante all’autenticità ed alla concretezza, sarebbe senz’altro un errore.
Non sarebbe difficile mostrare, che gli aspetti fondamentali, della
odierna fase della filosofia analitica inglese si comprendono adeguatamente solo in rapporto con la precedente fase dell’analisi classica.
Ma la continuità, nella diversità, fra l’una e l’altra fase si comprende
soprattutto, se si approfondisce il pensiero di Ryle ed il suo sviluppo.
La sua personalità filosofica è degna di una particolare attenzione,
perché, a differenza dalla quasi totalità degli attuali filosofi analisti,
non si è formata né attraverso l’insegnamento di Wittgenstein, né
attraverso l’approfondimento dei suoi scritti, sebbene non gli siano
mancate occasioni di incontrarlo, di ascoltarlo di leggere qualcosa
di suo.
La sua personalità, filosofica si orientò nel senso dell’analisi ed andò
assumendo la sua inconfondibile fisionomia neoanalitica grazie a due
circostanze decisive: l’incontro con gli scritti logici di Russell e la sua
limitata competenza in campo matematico, dovuta alla sua formazione
oxoniense prevalentemente letteraria.
Essendo nato nel 1900, egli era più anziano di tutti coloro che sentirono l’influenza dell’insegnamento di Wittgenstein o delle idee messe
in voga da tale insegnamento. Tale influenza cominciò ad esercitarsi
all’inizio degli anni Trenta, per divenire più intensa verso la fine di essi;
ma in quegli anni Ryle aveva già raggiunto una considerevole autonomia culturale ed il suo incontro con Wittgenstein, pur risultando, per
lui fortemente stimolante, fu da parte sua notevolmente critico; egli si
preoccupò di non diventare un’eco di questo pensatore, che tanta suggestione esercitava sugli studenti e docenti più giovani. Le basi del suo
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atteggiamento filosofico di tipo analitico erano state già poste grazie al
suo incontro col Moore e soprattutto col Russell.
Gli scritti logici di Russell presentano aspetti tecnici, rilevanti soprattutto per chi è interessato al problema della fondazione della matematica ed a questioni relative alla formalizzazione della logica ed
alla costruzione di un sistema logistico. Se il Ryle avesse avuto una
preparazione prevalentemente matematica e scientifica, è probabile che
sarebbe stato attratto da questi aspetti tecnici, ed avrebbe anche potuto
aderire ad una qualche forma di atomismo logico. Invece egli non disponeva di una tale preparazione, né sentiva che la cosa più importante
fosse quella di fondare la matematica e le scienze. L’istanza fondamentale da cui era animato, era quella di una demolizione delle mistificazioni compiute dalla filosofia soprattutto attraverso l’uso del linguaggio,
e negli scritti logici di Russell, soprattutto in quelli meno tecnici, non
c’era da trovare soltanto un sistema logistico ed una fondazione logica
della matematica, ma anche un metodo analitico capace di chiarire la
portata semantica di certi costrutti linguistici, in modo che questi non
fossero più utilizzabili per la costruzione di filosofie mistificanti.
Si tratta, in breve, dell’analisi ricostruttiva russelliana, che tanto disgusto avrebbe provocato presso altri neonalisti, come lo Strawsori5, i
quali avrebbero visto, in essa una falsificazione delle espressioni del
linguaggio ordinario.
Il Ryle non fu altrettanto diffidente verso le ricostruzioni russelliane
delle espressioni linguistiche; sebbene egli non fosse disposto a seguire
Russell in tutte le sue ricostruzioni, ritenne che in esse ci fosse qualcosa
di valido. Soprattutto ebbe l’impressione che in esse ci fosse qualcosa di
demistificante, almeno nell’impostazione generale. Tale impostazione
ha il carattere generale costituito dal fatto che non è legata alla conservazione delle unità proposizionali, a cui viene applicata, ma può eventualmente, sciogliere una proposizione che si presenta come semplice,
in una proposizione complessa, in cui entrino più proposizioni semplici, mentre i singoli termini non vengono assunti come individualmente
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significativi in ogni caso; essendo il loro significato dato nella totalità
della proposizione, la ricostruzione di questa può esprimere l’autentico
significato di essa, anche facendo scomparire l’uno, o l’altro termine
così come appare nella proposizione originaria.
La più tipica e rilevante applicazione di tale procedimento ricostruttivo, era quella che il Russell effettuava nei riguardi delle espressioni
descrittive6, cioè di quelle espressioni che si presentano come denotanti
uno o più oggetti, così come denotano i nomi, senza essere nomi, ma
dando una certa descrizione dell’oggetto o degli oggetti. Ecco alcuni
esempi di tali espressioni: “Il centro della terra”, “Il più grande oratore
romano”, “Gli affluenti di destra del Danubio”, “Uno che sia capace di
capire questo”, “I soliti ignoti”, “La radice quadrata di 2”, “Il logaritmo
di 10”, “Il cinquantesimo satellite di Giove”, ecc.
Il nostro parlare, così come il parlare di moltissime genti, inclusi
gli antichi Greci e Romani, pullula di espressioni di questo tipo. Quasi
tutti i discorsi dei dotti della nostra tradizione culturale e di quelle dei
popoli del vicino oriente, fanno un uso assai intenso di esse e spesso
si può dire che non avrebbero potuto essere costruiti senza il ricorso
a tali espressioni. Infatti tali espressioni rendono possibili una grande
quantità di discorsi e costruzioni teoretiche, non solo in campo teologico (ove abbiamo, per esempio, le espressioni “il creatore del mondo”,
“l’essere perfettissimo”, “colui che muove il sole e l’altre stelle”, ecc.)
ed in campo filosofico dove abbiamo, per esempio “le strutture della
ragione”, “i dati sensibili”, “ciò che soggiace alle apparenze”, “i principi primi”, ecc.), ma anche nel campo della fisica (ove abbiamo, per
esempio, “la forza di gravitazione”, “una carica elettrica”, “gli atomi
del sodio”, “il baricentro di un corpo”, “la curvatura dello spazio”, “la
velocità della luce”, ecc.), della chimica (“la molecola dello zucchero”,
“le valenze dell’ossigeno”, “i composti dell’idrogeno”, “i derivati del
petrolio”, ecc.), della geologia (“il centro della Terra”, “le onde sismiche”, “le piattaforme continentali”, ecc.), e soprattutto della matematica (“la tangente di un cerchio del raggio di m. 5”, “il seno di un arco”,
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“la diagonale di un quadrato di “lato 1”, “il prodotto di due numeri”,
“la radice cubica di 1”, “la somma degli angoli interni di un triangolo”,
ecc.). Probabilmente non sarebbe esagerato dire che lo sviluppo culturale e scientifico dei popoli mediterranei non avrebbe assunto la forma
e le proporzioni che conosciamo, se le lingue da essi usate non avessero
ammesso le espressioni descrittive.
D’altra parte queste espressioni sono anche responsabili della possibilità delle più gravi mistificazioni e truffe linguistiche. Tale possibilità
nasce dalla loro assimilazione ai nomi propri: si è facilmente indotti a
supporre che le espressioni descrittive siano significative allo stesso
modo dei nomi propri, cioè in quanto denotano qualcosa di singolare
o di molteplice, di determinato o di non determinato; perciò sono state
anche dette espressioni denotanti. Orbene un nome proprio è nome,
in quanto è nome di qualcosa, cioè in quanto esiste qualcosa da esso
nominato; se non c’è niente di cui una parola sia nome, la parola stessa non è un nome; non c’è niente e nessuno, che si chiami Ksmugno,
dunque ‘Ksmugno’ non è un nome, anche se può essere una parola utilizzabile come nome, cioè può diventare un nome; invece nella storia
sassanide c’è un personaggio chiamato Ardechir; dunque ‘Ardechir’ è
un nome, perché è il nome del vincitore di Vologeso e di Artabano V,
ecc. Se mi è garantito che ‘Ardechir’ è una parola fornita di significato,
perché è veramente un nome proprio, mi è garantito che ‘Ardechir’
denota qualcosa, quindi mi è garantito che esiste qualcosa di denotato
da ‘Ardechir’. Orbene, l’assimilazione delle espressioni descrittive ai
nomi propri importa inevitabilmente che, se si ammette che una di esse
sia significativa o sensata, bisogna anche ammettere che ad essa corrisponda qualcosa. Ma, in linea generale, qualsiasi espressione descrittiva può entrare, come parte costitutiva, in un costrutto proposizionale
sensato, quindi essa stessa dev’essere sensata, perché, se non lo fosse,
renderebbe privo di senso il costrutto; ma, se è sensata, deve denotare
qualcosa, quindi deve esistere qualcosa, che corrisponda ad essa come
suo denotato.
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Quando i fenomenologi, come Meinong, Brentano, Twardowski,
Husserl, Stumpf, ecc., negli anni tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del nostro secolo, si proposero di risolvere, con la loro
metodologia di individuazione e evidenziamento delle essenze,
il problema della fondazione di varie forme del sapere, dall’etica
alla psicologia ed alla matematica, ritennero necessario ammettere
una moltitudine di oggetti, che in qualche modo ci fossero e che
si trovassero in corrispondenza con tutte le espressioni linguistiche
sensate, comprese le espressioni proposizionali; di conseguenza, dal
loro punto di vista, anche le espressioni descrittive erano intese come
nomi di oggetti.
Ma i fenomenologi non si accorgevano come l’assimilazione delle espressioni descrittive ai nomi propri, fosse la porta aperta ad ogni
specie di mistificazione. Ed è proprio per questo che il Ryle, animato
da quella spinta rivoluzionaria, di cui ho parlato, che mirava coraggiosamente all’autenticità, finì per essere profondamente deluso delle sue
letture di scritti fenomenologiche preferì seguire la via della ricostruzione demistificante aperta da Russell.
Dispiace osservare come la quasi totalità degli studiosi della fenomenologia ignorino il confronto svoltosi all’inizio del nostro secolo
fra la fenomenologia, rappresentata da Meinong ed in certi casi anche
da Frege, e la nascente analisi, rappresentata da Russell, ed ignorino
come, a conclusione di questo confronto, il metodo fenomenologico
ed il metodo analitico si siano reciprocamente allontanati ed ignorati,
dimenticando le originarie reciproche simpatie.
Intese le espressioni descrittive come nomi o quasi-nomi di oggetti ed ammesso che in qualche modo ci fossero oggetti ad esse corrispondenti, diveniva necessario ammettere una moltitudine di oggetti
di varie sorte, perché non era possibile ammettere, ad esempio, che
l’oggetto corrispondente all’espressione “il vincitore di Austerlitz” ci
fosse nello stesso modo dell’oggetto corrispondente all’espressione
“la gravitazione universale”, o dell’oggetto corrispondente a “l’ira di
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Zeus”, o di quello corrispondente a “la spada di Galahad”, o di quello corrispondente a “il triangolo rotondo”. Difatti Meinong ed i suoi
discepoli della scuola di Graz, ritennero necessario creare una vera e
propria teoria degli oggetti, per dare una sistemazione diversificata alla
colossale popolazione di oggetti, che ritenevano di dover ammettere
in corrispondenza con ogni sorta di espressioni linguistiche7. Il Frege
cercò di limitare questo eccesso demografico, distinguendo fra senso
e denotazione ed ammettendo la possibilità che un’espressione linguistica abbia senso ma non denotazione; ma non fornì una tecnica per
riconoscere tali espressioni e per regolarne l’uso.
La cosa più grave è che le espressioni descrittive, intese come nomi
o quasi-nomi, permettono la costruzione di teorizzazioni e problematiche fittizie, allontanando la riflessione da ciò che è concreto ed autentico. Per questa via possono nascere e sono nate le più complesse mistificazioni di carattere filosofico e spesso anche di carattere scientifico;
possono, nascere e sono nate costruzioni fantastiche di interi universi di
realtà fittizie, che hanno conseguenze gravemente alienanti per coloro
che vi aderiscono. Le varie teorie degli oggetti o delle essenze proposte
dall’uno o dall’altro fenomenologo, non dispongono di alcun mezzo,
per garantirle la riflessione filosofica e non filosofica da queste alienazioni e mistificazioni. Lo stesso tentativo di Frege, che utilizzava la
distinzione fra senso (Sinn) e denotazione (Bedeutung), non era immune da difficoltà. Invece la teoria delle descrizioni proposta da Russell,
apparve subito capace di fornire le necessarie garanzie e, grazie ad essa,
il confronto fra Russell e Meinong si concluse a favore del primo: la
nascente analisi si rivelava di gran lunga più capace della fenomenologia, di proteggere e purificare la filosofia dalle mistificazioni e dalle
alienazioni.
Vediamo brevemente quale sia la portata di tale teoria e come il Ryle
ne abbia valorizzato il metodo, trasformandolo in funzione dell’analisi
chiarificatrice.
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La “teoria delle descrizioni” e il metodo analitico di Ryle
La teoria delle descrizioni, enunciata da Russell nel 1905 e successivamente precisata e sviluppata, è un metodo, per ricostruire gli enunciati contenenti espressioni descrittive, in modo che diventi palese la loro
reale struttura (struttura logica). Se teniamo presente la preoccupazione
dei fenomenologi, di riconoscere ad ogni intenzione, quindi anche ad
ogni intenzione che si esprime linguisticamente, un suo oggetto, dobbiamo dire che la teoria russelliana delle descrizioni intende esplicitare
le autentiche intenzioni presenti in chi usa enunciati con espressioni
descrittive, cioè si propone di rendere chiaro ciò che veramente intende
dire chi usa tali enunciati.
Dal punto di vista di Russell, se uno, dice “Il quadrato circolare
è inesistente”, non intende attribuire l’inesistenza, come se fosse una
qualità, ad un oggetto, che sia il quadrato circolare; il Meinong, supponendo che questa sia l’intenzione di chi dice quell’enunciato, riteneva
di dover ammettere l’oggetto costituito dal quadrato circolare, perché
non fosse vanificata l’intenzione stessa. Dal punto di vista di Russell,
chi dice quell’enunciato, intende dire che non è mai vero che, essendoci
una cosa quadrata ed essendoci una cosa circolare, queste due siano la
stessa cosa. È come se egli dicesse “Non è mai vero insieme che x è
quadrato, che y è circolare e che x = y”. Questa ricostruzione elimina
del tutto il bisogno di ammettere in qualche modo uno speciale oggetto,
che sia il quadrato circolare.
Analogamente vanno ricostruiti gli altri enunciati contenenti espressioni descrittive, supponendo sempre, che queste espressioni, essendo
incomplete, non abbiano isolatamente alcun significato; chi pronuncia
una tale espressione isolatamente, non intende ancora dir niente; intende dire qualcosa solo quando usa quell’espressione in un enunciato.
Un enunciato come “Il vincitore di Austerlitz morì a Sant’Elena” va
ricostruito così: “Non sempre è falso che un tale vinse la battaglia di
Austerlitz; se un tale e un tale vinsero la battaglia di Austerlitz, sono lo
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stesso individuo, e questo è sempre vero; è sempre vero che, se un tale
vinse la battaglia di Austerlitz, questo tale morì a Sant’Elena”. Questa
ricostruzione può apparire un po’ laboriosa; ma essa intende soltanto
mostrare che, chi dice “Il vincitore di Austerlitz morì a Sant’Elena”
intende affermare insieme che c’è stato un vincitore di Austerlitz, che
c’è stato un solo vincitore di Austerlitz e che costui morì a Sant’Elena.
Che nell’affermare quell’enunciato s’intende affermare queste tre cose,
è un punto di capitale importanza nella ricostruzione di Russell; infatti,
se non ci fosse stata nessuna battaglia ad Austerlitz, sarebbe falsa la
prima delle tre cose e quindi sarebbe falsa l’affermazione globale in
quanto prodotto logico con una componente falsa, né si avrebbe alcun
paradosso. Diversamente ci troveremmo in una situazione paradossale.
Ad esempio, se uno dice “Il vincitore di Bambinopoli morì a Sant’Elena” ed assume l’espressione descrittiva “Il vincitore di Bambinopoli”
come denotante per se stessa, è costretto ad ammettere che ci sia in
qualche modo un vincitore di Bambinopoli, che non esista, del quale
si affermi che morì a Sant’Elena. Una tale ammissione è chiaramente
paradossale.
Questo metodo ricostruttivo, applicato alle espressioni descrittive di
tutte le scienze, permette una loro rigorosa riformulazione linguistica,
che le mette al sicuro dal pericolo di cadere in costruzioni fittizie dovute ad inganni linguistici. Applicato ai discorsi di carattere filosofico,
li libera dalle mistificazioni speculative nascenti da fraintendimenti e
truffe linguistiche e favorisce la loro fedeltà a ciò che è concreto, reale
ed autentico. Russell, scrivendo in carcere, ov’era finito a causa della
sua energica opposizione alle mistificazioni politiche e ideologiche, che
avevano portato l’Inghilterra nella prima guerra mondiale, dichiarava
proprio a proposito della teoria delle descrizioni, che «la logica s’interessa del mondo reale, proprio come la zoologia, sebbene si rivolga alle
sue caratteristiche più astratte e generali»8.
Il Ryle, ancora giovane, si rese conto che nei procedimenti analitici
di Russell doveva esserci qualcosa di valido e che essi contenevano una
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carica rivoluzionaria e demistificante, che poteva essere potenziata ed
utilizzata ben al di là dei limiti in cui l’utilizzava il Russell.
Così, mentre altri suoi coetanei, più preparati di lui nel campo della
logica formale e della matematica e preoccupati delle sorti del sapere
scientifico, nell’utilizzazione del metodo ricostruttivo di Russell, non
riuscivano a sfuggire alle mistificazioni dell’atomismo logico e del neopositivismo, egli trovava il modo di elaborare un suo metodo analitico, in un certo senso parallelo a quello che Wittgenstein andava abbozzando ed in taluni casi complementare o alternativo ad esso.
Nel 1931, quando Wittgenstein insegnava ormai da più di un anno
a Cambridge e andava faticosamente aprendosi la via verso nuove prospettive analitiche, comparve il saggio di Ryle sulle Espressioni sistematicamente fuorvianti9, che, secondo il Magee10, può essere considerato come la prima chiara e pubblica formulazione di quella prospettiva
filosofica, che sarebbe stata poi conosciuta come Filosofia Linguistica
o Analisi Linguistica.
La prima caratteristica del metodo che qui il Ryle delinea, è che,
essendo per la filosofia di fondamentale importanza la chiarificazione
di ciò che si dice e di ciò che s’intende dire, può essere spesso utile,
ai fini di tale chiarificazione che certe espressioni, o inesatte o poco
chiare o generatrici di equivoci in un certo uso, siano sostituite da altre, che permettano di evitare questi inconvenienti. Quindi, a differenza
di Russell, che esigeva la necessaria e totale ricostruzione dei discorsi
secondo le regole della sintassi logica, egli propone una fondamentale accettazione delle forme discorsive del linguaggio ordinario e sulla
base di tale accettazione introduce l’idea di una revisione analitica di
certe espressioni.
Egli ritiene che «i filosofi possono e devono scoprire ed assodare
ciò che veramente viene inteso con espressioni di questo o quel tipo
fondamentale, e tuttavia queste scoperte non implicano minimamente che quanti usano ingenuamente queste espressioni, abbiano dubbi
o confusioni di idee su ciò che le loro espressioni significano o che in
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qualche modo abbiamo bisogno dei risultati dell’analisi filosofica, perché possano continuare ad usare intelligentemente i loro ordinari modi
di esprimersi o perché possano continuare ad usarli, in modo da essere
capiti dagli altri»11.
Qui interviene la considerazione degli usi diversi, a cui può andar
soggetta una stessa espressione. In base a tale considerazione, il Ryle
osserva che ci sono espressioni che, pur essendo nell’uso non filosofico perfettamente capite ed impiegate correttamente «sono costruite
in forme grammaticali o sintattiche, che, in modo dimostrabile, sono
improprie a determinare gli stati di cose, di cui parlano (o i supposti
stati di cose, che professano di enunciare). Tali espressioni possono
essere riformulate, e devono esserlo per la filosofia, non per il discorso
non filosofico, in espressioni, la cui forma sintattica sia appropriata ai
fatti di cui parlano (o ai supposti fatti, che si suppone che ricordino)»12.
In questi termini, che sono reminiscenti dell’analisi ricostruttiva di
Russell, ma non contengono alcun ripudio del linguaggio ordinario, si
presenta la nuova metodologia analitica del Ryle. Le espressioni a cui
egli per ora rivolge direttamente la sua attenzione, sono le espressioni
sistematicamente fuorvianti.
Espressioni fuorvianti e demistificazione
Bertrand Russell aveva sentito il bisogno di sostituire i costrutti
del linguaggio ordinario con costrutti regolati dalla sintassi logica,
perché, i primi potevano generare paradossi e perché in questa possibilità di paradossi si rivelava l’incapacità della sintassi del linguaggio ordinari o a garantire in modo rigoroso la solidità, la validità e la
verità delle scienze, prima di tutto della matematica. Il Ryle, che non
sentiva bisogni di fondazione, ma era animato soprattutto da esigenze di demistificazione, fermava la sua attenzione sulle espressioni
fuorvianti, perché vedeva in esse il punto di partenza di possibili
argomentazioni mistificanti.
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