Quando nel 1967 Don Milani scrisse la sua celeberrima Lettera ad

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CONVEGNO
LA PROFESSIONALITA’ DOCENTE E LE SFIDE DELL’INNOVAZIONE
Roma Aula Magna Pontificia Universitas Lateranensis
27 MARZO 2008
Relazione introduttiva
Vincenzo Alessandro
Segretario Generale CISL Scuola Lazio
Credo di esprimere un giudizio condiviso nell’affermare che la gente della scuola è
accomunata dal più ampio apprezzamento nei confronti di una piccola opera che ha fatto la sua comparsa ormai più di 40 anni fa, ossia la Lettera ad una professoressa, di don Lorenzo Milani. Si tratta di un piccolo libro, che il priore di Barbiana ha scritto assieme ad
alcuni dei suoi alunni e che riveste una grande importanza sotto diversi profili, da quello
didattico, a quello spirituale, a quello sociale.
Un libro, aggiungo, che a tanti anni dalla sua pubblicazione mantiene intatta la sua
freschezza e la sua godibilità, mentre tante altre opere di quel periodo, apparentemente
più importanti e certamente più pompose, hanno da già tempo abbandonato lo spazio
centrale occupato negli scaffali di molte case.
Probabilmente c’è più di una ragione alla base del fatto che la Lettera ad una professoressa, ad una rilettura odierna, sia ancora capace di stimolare interesse ed apprezzamento.
Colpisce in primo luogo la radicalità con cui il priore di Barbiana vive il messaggio cristiano come servizio a favore dell’emancipazione dei meno fortunati, che, per Don Milani, è in primo luogo emancipazione culturale, obiettivo che egli, che proveniva da una
famiglia di intellettuali ed accademici, individua come prioritario.
Ma credo che conti molto, per la fortuna di quell’opera, l’aderenza della lettera della
Scuola di Barbiana allo spirito ed alle esigenze dei tempi, per cui il testo si legge come si
vedrebbe un documentario o un film, ossia cogliendo subito, in modo quasi visivo, i
tratti fondamentali del discorso di Don Milani.
La lettera ad una professoressa era un messaggio che la società dell’epoca mandava alla scuola italiana per sollecitarla ai compiti che il momento storico le affidava, ossia per
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sollecitarla all’apertura verso l’esigenza di un accesso più ampio alla conoscenza da parte
delle classi popolari, come necessità profonda del Paese, sia sul piano civile che su quello
strettamente economico.
Credo che si possa dire che, sostanzialmente, tra tanti errori, sprechi ed inefficienze,
tuttavia la scuola abbia avuto la capacità di corrispondere a quell’appello e di accompagnare la crescita complessiva della società italiana, fornendole i quadri e i dirigenti che
ne hanno consolidato la crescita negli anni settanta, ottanta, novanta del secolo scorso,
dopo l’improvvisa espansione del dopoguerra.
Tuttavia, quella sintonia tra scuola e società che per molti anni ha connotato i rapporti reciproci è oggi per molti aspetti incrinata.
Nonostante la scuola sia al centro di tutti i programmi elettorali e sia unanimemente
considerata una grande questione nazionale, è netta tra gli operatori la sensazione di uno
scarto profondo tra l’enunciato e l’agito.
Non aiuta certo il fatto che il dibattito sulla scuola si nutra della patologia che la cronaca profonde quotidianamente a piene mani, sia che si tratti di episodi di bullismo, sia
che si tratti di comportamenti devianti dei docenti. Accade così che mentre la scuola e il
mondo accademico si interrogano su come valutare la qualità della prestazione resa, di
fatto la società civile sembra aver trovato uno strumento informale e di grande impatto,
che è la gogna mediatica di You Tube, ossia i filmini girati con il telefonino e poi diffusi
goliardicamente via internet, che rimandano un’immagine della scuola fatta di docenti
deboli, quando non addirittura irresponsabili, e di alunni fatalmente tendenti a comportamenti devianti.
L’impatto di questa comunicazione sommaria, ma di grande effetto, è molto maggior
e di qualsiasi indagine condotta con metodo scientifico. Spiace però che, al contrario,
non facciano notizia - per rimanere sempre nell’ambito della comunicazione tecnologica
- le tante iniziative di docenti creativi che riempiono la rete di siti tematici da loro stessi
creati con mezzi artigianali per migliorare la didattica, o che sperimentano modalità innovative, come le lezioni in podcasting. La rete è piena di corsi registrati di ogni genere,
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storia, piuttosto che filosofia o matematica, liberamente scaricabili e diffusi appunto da
docenti con il pallino della tecnologia, con buona pace della presunta arretratezza degli
insegnanti italiani, che, secondo la vulgata, sarebbero lontani in blocco dagli strumenti
correntemente utilizzati dalle giovani generazioni. Non è propriamente così o almeno
non lo è in modo indiscriminato.
Naturalmente, esistono non pochi e non trascurabili problemi di efficienza ed efficacia del sistema scolastico italiano, come ci dimostra la riflessione sui dati statistici, non
solo quelli delle indagini internazionali, ma anche semplicemente quelli relativi alla dispersione scolastica. Ci pare tuttavia da rifiutare la tentazione di affrontare in modo improprio i problemi della scuola, ossia attraverso strumenti che fotografano nel senso letterale, oltre che in quello metaforico, del termine la patologia e non l’ordinario funzionamento della vita scolastica nel nostro paese, alimentando la tendenza infondata ed
ingiusta a ritenere che il problema del recupero di credibilità vada affrontato ponendo
gli operatori della scuola sul banco degli accusati.
Torno allora a Don Milani, per dire che la scuola dovrebbe forse oggi trovare la strada e la capacità di seguire a ritroso il suo cammino e scrivere una sorta di lettera ad un
ipotetico studente - destinatario dell’insegnamento , ma anche simbolo della comunità
educativa, composta da alunni, docenti e famiglie - allo stesso modo in cui il priore di
Barbiana scriveva, a suo tempo ad una ipotetica professoressa, che era in realtà il simbolo della scuola stessa.
In questa lettera ad uno studente, la scuola dovrebbe evidenziare quella parte di falsa coscienza che è presente nella società italiana quando è in discussione l’educazione delle
giovani generazioni, intendendo per falsa coscienza la tendenza ad assumere atteggiamenti concreti contraddittori rispetto alle affermazioni di principio che vengono enunciate.
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Non si tratta solo della falsa coscienza generica che affida alla scuola il compito di trasmettere valori di convivenza sociale che vengono poi contraddetti dai comportamenti
quotidiani della vita adulta.
Si tratta, più puntualmente, per esempio, della falsa coscienza che proclama la centralità della scuola per le sfide del secolo che si è da poco aperto e poi consente il progressivo deterioramento dello status sociale ed economico della classe docente. Non c’è
buona scuola senza una buona docenza e non c’è una buona docenza senza il relativo riconoscimento sociale della funzione.
Da questo punto di vista, non sono convincenti le tentazioni tecnocratiche che individuano la soluzione dei tanti problemi di efficienza che certo esistono nel nostro sistema scolastico solo nella costruzione di una carriera basata su non meglio verificato meccanismo di merito. La scuola è buona per il Paese , e quindi è una buona scuola, se fornisce una prestazione complessivamente rispondente alla richiesta sociale e non già se si
sancisce e cristallizza una situazione di coesistenza tra punte di eccellenza e un generale
degrado del sistema. Non servono poche buone scuole o una elite di docenti selezionati
come rari nantes in gurgite vasto, per dirla con Virgilio, ossia come rari naufraghi
nell’immenso mare, ma occorre piuttosto un livello qualitativamente buono di tutto il
servizio scolastico, rispetto al quale è poi nelle cose che si possano determinare spostamenti in positivo e in negativo, ai quali, tuttavia, un paese civile non si rassegna a priori.
La questione della docenza (almeno dal punto di vista di chi si è sobbarcato l’onere
dell’umile lavoro sindacale, lasciamo poi ai nostri importanti ospiti di elevare il tono della riflessione, riempiendola di contenuti) va quindi inquadrata in un contesto generale
che investe i problemi
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del reclutamento,
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della formazione iniziale ed in servizio,
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dello status economico,
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del minor tasso di precarietà possibile, perché in una situazione di incertezza
non c’è la possibilità di sviluppare alcun discorso di qualità
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e, infine, forse anche della carriera, intesa però come valorizzazione delle risorse di
esperienza dei singoli, da mettere al servizio del sistema, quindi in un significato alto e
non deteriore o ideologico, ancorché di un ideologismo di segno opposto ad altri ideologismi del passato e, pertanto, gabellato come moderno.
Sempre parlando di falsa coscienza verso la scuola, chi fa sindacato non può non misurare la distanza che separa le affermazioni di principio dai comportamenti concreti in
materia di investimenti. Sono in discussione in questi giorni in tutto il Paese gli organici
del personale docente per l’a.s. 2008/09 e il quadro che ne esce è certamente tale da destare in noi un vero e proprio allarme.
Gli organici del personale docente sono certo un problema di posti di lavoro, quindi
una tematica eminentemente di ordine politico e sindacale, ma sono anche un problema
di buona scuola.
Inutile teorizzare ogni forma di personalizzazione dei percorsi degli alunni o di curvatura dell’insegnamento sulle esigenze individuali –direzione verso la quale ci spingono
tanti documenti ministeriali - quando poi la consistenza numerica delle classi (oltre i 30
alunni in certe realtà) è tale da non consentire alcun discorso credibile in questo senso.
E allora la politica è chiamata ad effettuare scelte di coerenza tra le affermazioni di
principio e le scelte concretamente effettuate.
Ovviamente, siamo osservatori attenti del sistema e non ignoriamo le dinamiche interne al governo uscente e quindi la difesa che il Ministro ha svolto dall’interno sulle esigenze del bilancio della scuola. Tuttavia, alla fine esiste una responsabilità collegiale del
Governo ed è difficile non rilevare le criticità che conseguono alle scelte effettuate.
Non saremo noi a negare che esiste in questo Paese un forte problema di debito pubblico, di cui la collettività nazionale è chiamata a farsi carico, poiché l’accumularsi del
debito, oltre a proiettarsi sulle generazioni future, impedisce di attuare fino in fondo le
politiche di perequazione sociale di cui l’Italia ha fortemente bisogno. E, tuttavia, non
diversamente da quanto accade nella gestione familiare, è proprio nei momenti critici,
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quando occorre selezionare tra le priorità e le emergenze, che è possibile valutare quale
sia, al di là delle affermazioni di principio, la vera scala di valori alla quale il Paese si richiama. E, francamente, è difficile in questa scala di valori, sulla base dell’esperienza che
si sta vivendo in materia di organici, individuare una preminenza della scuola.
Quindi, come si vede, , seguendo questi ragionamenti, abbastanza fatalmente l’ ipotetica lettera ad uno studente di cui dicevo finisce per diventare un elenco di doglianze, il
che – mi rendo conto - è il metodo migliore per non farsi leggere, specie se si scrive ai
giovani.
Ai giovani, invece, come è noto, bisogna dare stimoli e indicazioni in positivo, se si
vuole richiamarne l’attenzione.
E, allora, in positivo vorrei dire al nostro studente fittizio, che in questi anni di grande crisi del Paese, dilaniato da una lotta spietata tra le fazioni politiche e tra i poteri dello
Stato, e pur nel caos di una legislazione scolastica disfatta ad ogni cambiamento degli
equilibri politici, tuttavia ogni mattina le istituzioni di questo stesso Stato si sono a lui
presentate con la faccia di un docente, di un maestro, un professore, che nonostante i
suoi difetti ed i suoi limiti personali, ha fisicamente incarnato la continuità della collettività nazionale e delle sue funzioni.
Questo compito è stato onorevolmente assolto, pur in mancanza di politiche coerenti
e di mezzi adeguati alle necessità. Non è intellettualmente onesta nessuna diversa interpretazione, visto che il sistema scolastico italiano è una realtà che riguarda quasi 8 milioni di studenti, rispetto ai quali la goliardia dei filmati di You Tube rappresenta una
percentuale di casi assolutamente trascurabile. Lo dimostra, del resto, anche il fatto che
in questi anni, nonostante il discredito di cui il sistema formativo globalmente inteso ha
goduto, l’Italia ha continuato a produrre cervelli che magari sono stati costretti ad emigrare all’estero per poter lavorare, ma che tuttavia in questo Paese si sono formati.
Al nostro studente vorrei ancora dire che nella grande maggioranza dei casi può fidarsi dei suoi insegnanti, tra i quali, , tenuto conto che parliamo di circa 735.000 perso-
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ne, troverà percentualmente un minor numero di esempi negativi di quanto normalmente accade in altri settori della vita sociale del Paese.
Certo, dovremo avvertire il nostro studente che non tutto è nelle mani dei suoi insegnanti. La buona scuola ha bisogno di un clima positivo, di fiducia e di sollecitudine da
parte dell’intero corpo sociale, perché rimane ancora credibile oggi il concetto di comunità educativa che ha ispirato l’introduzione di meccanismi di gestione democratica della scuola negli anni settanta. Ma una comunità è tale se tutti i suoi componenti operano
come membri della stessa, quindi con quel senso di corresponsabilità che fa di un semplice aggregato umano una comunità nel senso vero del termine.
A tutto ciò, per una ripresa del nostro sistema scolastico, si deve aggiungere un’altra
condizione, ossia la consapevolezza da parte del sistema politico che in un Paese maturo
maggioranza e opposizione non si battono l’una contro l’altra – come ancora oggi si sente spesso dire ai politici – ma dibattono l’una con l’altra, ossia si confrontano e cercano
convergenze, perchè la Scuola è una delle istituzioni del Paese e quindi la sua riforma
passa attraverso intese ampie tra gli schieramenti politici, in mancanza delle quali si verifica quello che abbiamo vissuto in questi anni, ossia l’alternarsi di una riforma ogni cinque anni, senza che, nei fatti, nessuna di esse abbia poi effettivamente superato lo stato
cartaceo.
Se tutte queste condizioni potranno realizzarsi, allora non c’è motivo di ritenere che
la Scuola Italiana dei prossimi decenni non sia in grado di realizzare gli obiettivi che la
società le pone davanti, primo fra tutti l’innalzamento dell’obbligo scolastico, che è una
tappa importante nella storia della nostra Scuola e, oserei dire, nel processo di democratizzazione del Paese, perché ogni volta che la Scuola si dà un obiettivo così ambizioso,
come è quello di allargare la sua sfera d’azione, di includere categorie sociali fino a quel
momento lontane, si pone un problema di democratizzazione, sia nei metodi didattici,
sia nelle strutture economiche a sostegno del processo che si intende promuovere.
Innalzare l’obbligo nel segmento scolastico nel quale fin qui si sono registrati i più alti tassi di abbandono è un ‘impresa non da poco, che richiede un cambiamento di mentalità e forti investimenti per fare in modo di avere risultati positivi.
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La disponibilità della scuola è quella di sempre. Il tempo ci dirà non se la Scuola, ma
se l’intero Paese è maturo per questo evento.
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