Focus On
Elettra, mia simile
di Quirino Principe
1. Una premessa sgradevole
lteatrod’operaèun mysteriumostensionis.Ciascunadellecreature
natedalsuogrembo,anchelapiùumile,cimostraungestoche
nellatradizionesisurriscaldadimemorieedèattesodalpubblico.Perchéquelgestohatantaforza,perchél’emozionecheessosuscita si riproduce all’infinito? La risposta è una sola: l’atto gestuale,
sempreassociatoaunattoverbaleossiaaparolememorabili,citrasmette per una frazione d’istante, in forma percepita dai sensi, un
archetipo. Nei casi più nobili e illustri, l’archetipo ha il rango di una
«symbolischeForm»nelsensodefinitodaErnstCassirerinunodei
libripiù luminosi d’Occidente,Philosophie der symbolischen Formen.Attenzione! Non si confonda l’archetipo (peggio, la forma simbolica)conilsemplicetopos,cherivelasoltantoilricorreredicircostanze
coincidenti lungo il curvo contorno del tempo ciclico, a dimostrazionedell’esistenzadiuna«ewigeWiederkehr»edelleprofonderagionidelpensierodiFriedrichNietzsche.
Esempi ? Con tutto il rispetto, è soltanto un topos, pur tuttavia
grandioso e plastico, il gesto con cui Leonora, in Fidelio, punta una
pistolacontroPizarro,associandol’azioneallosquilloditrombada
dietro le quinte. Non è una forma eterna, non è un‘ipostasi: lo disegnano non gli archetipi atemporali e metastorici, bensì la storia
d’Occidente, declinata in senso sfavorevole alla femminilità. Colorano quel topos le storicizzazioni molteplici in virtù delle quali certi eventi possono accadere in un carcere spagnolo o giacobino-robespierriano, non certo in terra absburgica, e infine ne rifiniscono i
contorni le circostanze eccezionali che, nel dramma di Bouilly, attribuisconoaunadonnaconnotatideltutto insoliti.Edèpropriol’insolito, insieme con l’inatteso suo consanguineo, che definisce i limiti e
la sagomatura del topos. Per questo è soltanto topos ogni lieto fine in
ciascunadelle«piècesausauvetage»carealteatrod’operadell’epoca
beethoveniana e napoleonica, e includenti lo stesso Fidelio.
Ilgestoarchetipico,laformasimbolicacheapparefolgorantesullascenateatrale,ètutt’altramanifestazionedelλόγοςeterno.Laspada è un archetipo (già, è nel mazzo dei Tarocchi e nel Ring wagneriano!), e la forma simbolica resta visibile o almeno intuibile nelle
situazioni drammaturgico-musicali più diverse tra loro. L’archetipo significa: «No alla viltà, all’iniquità, alla frode che sono i fondamenti del mondo cosiddetto reale». Non è soltanto una difesa, né
lo sfoggio di un rango sociale. Don Giovanni ha «spada al fianco»,
donOttavioèunipocritacodardoeperciòperbenistache,quando
gli insidiano la fidanzata, chiama la polizia (!). La scomparsa di una
nobile istituzione, il duello, ha impoverito e degradato l’Occidente.
La spada di Siegfried è sacra nel momento in cui raggiunge la propria entelechia: quando l’eroe la estrae intatta e lucente dal crogiolo, non appiccicata con lo stagno ma uscita da una fusione ab initio.
LaspadadiArtù,Escalibur,èsacranelmomentoincuil’unicopredestinato la estrae dalla roccia. La spada di Manrico è sacra nel momento in cui l’infelice cui fu deviato il destino la sguaina contro tuttietutto.Nelprimocasolasacralitàèpaganaemitica,nelsecondoè
leggendaria e pagano-cristiana, nel terzo è storico-sociale e cristiana; ma l’archetipo resta unico. L’estrazione della spada (dal crogiolo, dalla roccia, dalla guaina) non è un topos, non è un evento reiterato per accidens: è un destino già deciso, ab aeterno e per substantiam, dove
la sostanza è ancora una volta l’entelechia, e l’eternità è quella, assoluta e meta-temporale, delle forme simboliche.
La spada ci conduce, per consanguineità di idee (il sangue, appunto…) alla bipenne di Clitemestra, «fortissima Tyndaridarum»,
e alla volontà omicida di Elettra. Qui l’archetipo non è la vendetta
insé,nélasuaconsumazione,checonsideriamosempreun accidens.
La forma simbolica e archetipica è l’inevitabilità e l’irrevocabilità della
vendetta. Che una vendetta avvenga, è circostanza che può appartenere all’ambito umano più infame e miserabile: varia letteratura e
vario cinema ci hanno resi familiari i regolamenti di conti della mafia siciliana, della camorra napoletana, della ‘ndràngheta calabrese, dei gangsters siculo-americani, per non dire delle bestiali faide
religiose e delle «rappresaglie» di marca islamica fondamentalistica (ossia iper-religiosa). No: all’estremo opposto di tale putrefazione umana splende la tragica nobiltà del non perdonare, del sacrificaresoltantoséenessunaltroaldoverediristabilirelagiustizia.Ladegenerazionedell’Occidentenonpotràmaiessererovesciatanelsuo
contrario, la civiltà da cui anche l’altissima arte di Hugo von Hofmannsthal e di Richard Strauss nacque non potrà mai rinascere e
risplenderedinuovo,selospiritooccidentalenonsiscrolleràdidossoladegradantepoltiglia:la«solidarietà»,l’«amoreperilprossimo»,
l’inclinazione al «perdono», lo spirito da lacché con cui oggi gli Stati
e le Chiese d’Occidente, accampati con i loro fangosi stivali nel palazzo intellettuale progettato da antichi architetti del pensiero, sono pronti a svendere a buon mercato i nostri più preziosi tesori agli
analfabeti e sanguinari nemici della nostra cultura, pur di salvare
un rimasuglio di sé e di tremare un po’ meno per la paura.
Sento una grande felicità nel sottolineare il ruolo protagonista della femminilità nel grande progetto vindice su cui è costruito il μύθος di Elettra. È la femminilità che mi piace, la fisionomia
femminile che amo: violenta, implacabile, sanguinaria. L’indole di
Elettra somiglia alla mia, e per questo le ho sempre dedicato una
vigile attenzione. Perché «vigile»? Da sempre mi guardo intorno,
cercando con la lanterna di Diogene i possibili coscritti di un futuro reparto d’assalto. Per quanto (inevitabilmente) esiguo, non è
impossibile che esso abbia tanta forza da scuotere con ira e far crollare in polvere il carcere fabbricato negli ultimi duemila anni dalle
religioni antropocentriche, sessuofobiche, monoteistiche e perciò
vilmente ugualitarie, fondate sulla frode della «fede», della «pudicizia», dell’ugualitaria «umiltà», della «comunione», del «peccato»
(«siamo tutti peccatori dinanzi a Dio…»… benissimo, così crolla ogni distinzione tra superiorità e inferiorità, scompare il concetto di «qualità»!) e della «redenzione» mediante il «riscatto»: il tutto,
a sua volta, fondato sulla frode delle frodi, la cosiddetta «parola di
Dio». Questa grottesca catena di mistificazioni, di falsificazioni e
di truffe culturali ha anche le sue conseguenze travestite in panni
secolarizzati: se le elenchiamo nell’ordine corrispondente alla sequenza dei turpi modelli «religiosi» poc’anzi enumerato, tali conseguenze sono, una dopo l’altra, il «rispetto per le istituzioni»; il «laico (?) rispetto per l’altrui sentimento e per la spiritualità»; la «solidarietà sociale» fondata su quella rapina legalizzata e compiuta dallo
Stato che è la «redistribuzione del reddito»; la parola d’ordine, cara a
gran parte dei togati interpreti e applicatori delle leggi, secondo cui
«la legge è uguale per tutti» (infame bestemmia!), «l’ignoranza delle leggi non è ammessa» (e l’insignificanza, l’insipienza, l’ignoranza del linguaggio con cui si vorrebbe annunciare le leggi, sono ammesse?), «non esistono cittadini innocenti bensì soltanto colpevoli
che non sono ancora stati scoperti»; la mal recitata farsa del «pentimento»,mediantelaqualeiladrieifraudolentiegliassassiniei(questa volta “macro?”) criminali sono gratificati da premi e beneficii
che umiliano e offendono i cittadini giusti e benemeriti. La futura
vittoria contro questo pattume umano e sociale è l’oggetto perennedellanostraspescontraspem.SiaddiceadElettra,oltrealproverbialelutto,labandieradicombattimento:nessun«metusdeorum»,eil
fondato sospetto che gli dèi siano «flatus vocis»; nessun timore re-
I
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verenziale dinanzi alle leggi e alle norme di costumatezza (la danza finale della protagonista, nell’opera di Hofmannsthal e Strauss,
è orgiastica, e nei confronti di Chrysothemis serpeggia in Elektra
una febbricitante ma non «malsana» passione lesbica e incestuosa);
nessuna umiltà, bensì l’orgoglio luciferino della solitudine, e luciferini dobbiamo essere tutti noi, se vogliamo vincere e annientare il
nemico che mira a distruggerci; nessuna solidarietà con chicchessia,nessun amoreper isuoiconcittadinidiMicene;nessun senso di
colpa. Chisa di non avere colpa, vince.
Meravigliosafemminilità,duraeluminosa,adamantinanelbuio.
Sul nero delle tenebre, ideogramma del Nulla, una rossa e paurosa
macchia di sangue, ideogramma di quella cosa asperrima e dolorante che è l’Essere. I miti ellenici, nella loro chiaroveggente esattezza, distribuiscono i ruoli. Un nume dalle sembianze virili, Ares,
sovrintende alla guerra che è violenza sospinta verso l’esterno, verso ciò che non siamo; archetipiche sembianze femminili regolano
e accendono la violenza verso l’interno, dentro il noi: Eris ha in sé le
energievelenosedelladiscordia,dellaguerracivile;Nemesiispirala
vendetta,esullosfondo,talorainvisibili,imperversanoleEumenidi (inamovibili, onnipresenti: dominano la scena ancora in Family Reunion di T. S. Eliot). Troppo spesso ci si è accontentati di vincere una guerra esterna. Il nostro peggiore nemico si annida dentro
molti di noi: è la viltà. L’ultima guerra sarà quella dei liberi e degli ardimentosi, quasi inermi, contro potenti e bene armati lacché. Ancora non ci è noto il vincitore. Sarà la femminilità, «das Ewig-Weibliche», la forza destinata a «écraser l’infâme»?
notizia che Tieste stava ritornando, alla vigilia del suo arrivo Atreo
aveva fatto uccidere due figli di Tieste ancora fanciulli. A Tieste, appena arrivato, Atreo diede da mangiare le viscere arrostite dei due
bambini (ecco un altro incrocio con il mito di Tereo, Procne e Filamela). Tieste si accorse dell’orrore alla fine del pranzo. Cadde supino, vomitò il pasto, rovesciò la tavola, con un calcio maledisse la
propria sciagurata famiglia. Fu una maledizione che andò a buon
fine, come sappiamo.
Infatti, dei figli di Tieste due erano sopravvissuti: una figlia, e un
bimbo appena nato. Quest’ultimo fu condotto in campagna nascostoeallevatodaunacapra.PerciòfuchiamatoEgisto,«coluiche
unacaprahaallattato».Divenutoadulto,Egistoconobbelapropria
identità e seppe chi era suo padre. Uccise Atreo e ricollocò il proprio padre Tieste sul trono di Micene. È nota la catena di sventure, di delitti e di vendette causati dalla maledizione di Tieste: i due figli di Atreo, Agamennone e Menelao, ne portarono i segni. Il sacrificio di Ifigenia fu necessario per far partire le navi dirette a Troia,
ma fu un orrendo crimine, vendicato parzialmente da Clitemestra
omicida di Agamennone suo sposo e amante di Egisto. Tuttavia,
la vendetta fu anche un’orrenda colpa stimolata dall’adulterio. Una
catena di orrori che ritornano ciclicamente, come fantasmi: Egisto
avrebbevolutouccidereilcuginoAgamennonepervendicare«trasversalmente» i propri fratelli atrocemente mangiati da Tieste, ma
lasciò la realizzazione materiale del delitto a Clitemestra, così come
poco dopo Elettra avrebbe desiderato essere lei a uccidere la madre ma avrebbe lasciato tale compito al fratello Oreste. A sua volta, Oreste si macchiò di un delitto orrendo, il matricidio (l’altra faccia del vendicativo ma doveroso compimento di giustizia), e perciò
fu ossessionato dalle Erinni. Zeus interruppe la catena di sventure,
purificando Oreste, mentre le Erinni assunsero il volto conciliante
delleEumenidi.QuantoalfratellodiAgamennone,l’imbarazzante Menelao, anch’egli dovette soffrire per il tradimento dell’adultera Elena: la maledizione colpisce entrambi gli Atridi. Tuttavia, un
contro-mito narra come l’Elena adultera e amante di Paride sia stataunfantasmaplasmatodaglidèi,mentrelaveraElenasarebbestata trasportata magicamente in Egitto: questo è il soggetto di un’altra affascinante opera nata dalla premiata officina HofmannsthalStrauss, Die ägyptische Helena.
Quella prima allusione di cui si è detto è formulata non nell’Iliade,
bensì nell’Odissea, e in particolare in III 262; III, 303 ss.; IV, 524 ss.;
IX, 405 ss.; XXIV, 96. Il primo che narri la vendetta di Oreste come un fatto compiuto è il siciliano Xanthos, vissuto tra il VII e il VI
secoloa.C.,ilqualeinventaoproponeperlaprimavolta in redazione scritta il nome di Elettra, e identifica questa figura femminile
con una figlia di Agamennone, che quest’ultimo però, in Iliade XI,
145,chiamaLaodice.QuattrosarebberodunqueifiglidiAgamennone e Clitemestra: un maschio, Oreste, e tre femmine, Crisòtemi,
Ifianassa (Ifigenia), Laodice. Quest’ultima diverrà Elettra. Il personaggio vive nelle Coefore di Eschilo (458 a. C.) e, a intervallo di una
generazione,nell’ElettradiSofocle(425-416a.C.).InEschilolafanciullaèancoravirginea,haorroredellaviolenza,eilsentimentoprimario è il rimpianto del padre perduto, non l’odio per la madre. La
protagonista sofoclea è l’esatto rovescio psicologico di quella eschilea: il desiderio di vendetta la domina. Nell’ Elettra di Euripide (circa
413 a. C.) la figura ridiventa dolce e fragile.
Dopo Xanthos, Elettra era riapparsa nella perdutaOrestea del suo
discepolo, il sommo Stesicoro di Imera vissuto in Sicilia tra il VII
e il VI secolo a. C. Anteriore a Eschilo e allo stesso precursore di
lui, Tespi, Stesicoro non dà forma di dramma alla vicenda: la sua
Orestea ricostruita nel 1919 da Johann Würtheim, è un poema come l’Orestea di Xanthos. Perciò, il primo testo teatrale in cui il personaggio appaia con sembianze e nome riconoscibili è la tragedia
di Eschilo.
2. Un mito
Il nome «Elettra» (Helektra, con l’η iniziale) deriva non da hélektron,
«ambra», etimo alquanto improbabile e poco significativo, bensì, molto più plausibilmente, da heléktor, «sole fiammeggiante». Tale esito onomastico bene si adatterebbe all’energia ardente e consumante del personaggio, anche se la vampa e l’ardore bruciano dentrounesserenotturno,simileaquellestelledallamassaiperdensala
cui abnorme forza di gravità trattiene persino la luce e le impedisce
diirradiarsiall’esterno.Quegliastri,perciò,sonocupierisultanoinvisibili a chi, da una parte qualsiasi del cosmo, li cerchi. Tra la natura
diElettraeilsuonomesicreacosìunossimoro:comedire,unaluce
tenebrosa, una tenebra divampante. Inevitabile la consanguineità
conl’altroossimoroillustreeparimentitragico,quellodiJeanRacine in Phèdre: la «flamme noire».
Il mito cui Elettra appartiene è fra i primi a prender forma nell’Ellade. Ad esso si allude per la prima volta nella poesia omerica,
ma quella versione non configura ancora la personalità di Elettra, mentre dà contorni ravvisabili a tutte le altre. Al centro è Oreste, vendicatore del padre Agamennone e giustiziere del seduttore adultero e assassino Egisto, amante di Clitemestra già sposa
di Agamennone. Eppure Egisto, a sua volta (un grande mito, in
quanto forma simbolica, è un incrocio di narrazioni), ha compiuto una vendetta trasversale. Egli è l’unico figlio superstite di Tieste,
fratello di Atreo. Per colpa di una rivalità a proposito del solito Vello d’Oro, c’era odio, nella generazione precedente, tra i due fratelli figli di Pelope, e non mancava una donna fatale generatrice di gelosia: Erope, «colei che ha la faccia bianca come nebbia», nipote di
Minosse (ecco un incrocio con i miti cretesi). Erope era stata moglie di Atreo, ma aveva tradito quest’ultimo diventando l’amante
di Tieste. Peggio: aveva rubato il Vello d’Oro, posseduto da Atreo,
e lo aveva consegnato a Tieste. Atreo odiava Tieste più di quanto
non fosse il reciproco. Atreo aveva finto riconciliazione: il più ingenuoecreduloèquasisempreilmigliore,eTiesteeracadutonellarete. Dovendo partire per un lungo viaggio, Tieste aveva chiesto un
favore al fratello: di custodirgli i piccoli figli, finché egli non fosse ritornato. Atreo si era finto zio affettuoso. Ma quando si era sparsa la
3. Un glorioso sodalizio tra due artisti
Il mito di Elettra si riaffaccia nel teatro a partire dall’età umanistica.
Da allora fino al Novecento e alla somma epifania hofmannsthaliana le varianti più notevoli appaiono in ordine sparso, e la loro appartenenza alle più diverse culture nazionali sottolinea ancora una
volta la vitalità dell’archetipo: più varie e differenziate sono le riapparizioni, tanto più vigore va riconosciuto al modello unico. L’ungherese Péter Bornemisza (1535-1584), un convertito al protestantismoeunodeimaggioriumanistidellasuaterra,tradusseinlingua
magiara il dramma di Sofocle (Elektra, 1558), ambientandolo nella
propria patria e ai propri tempi.. Fu l’inizio di un capitolo nella letteratura d’Ungheria. L’aristocratico drammaturgo francese Prosper
JolyotdeCrébillon(1674-1762),chelastoriografialetterariachiamò
«Crébillon père» per distinguerlo dal figlio Claude-Prosper Jolyot
de Crébillon, scrittore libertino (1707-1777), scrisse invece una sua
originale Electre (1708). Il massimo esponente del realismo in lingua castigliana nel secolo XIX, lo spagnolo Benito Pérez Galdós
(1843-1920),presentòilsuodrammaElectranel1901conmodestissimo successo. Grande narratore e vigoroso uomo di teatro, Pérez
Galdósèancoraoggisottovalutatoemisconosciuto.Famosaefortunatissima è stata invece, e in parte lo è ancora, la trilogia drammatica Mourning becomes Electra («Il lutto si addice a Elettra», 1931) di
Eugene O’Neill (1888-1953). Qui, al Fato della tragedia ateniese si
sostituisce il destino che la psiche dell’uomo moderno subisce, ed
è un destino indagato non da Tiresia bensì dalla psicoanalisi. Nella drammaturgia di O’Neill la tragica peripezia mitica degli Atridi si reincarna con sinistra precisione in una famiglia d’alto rango
del New England, ingabbiata in pregiudizi e in norme di natura repressiva. Queste catene soffocanti, in una situazione dirompente
qual è quella della Guerra di Secessione (1861-1865), fanno esplodereimpulsiautodistruttivi.Fedelealmodellosofocleoeppureoriginalissimo e geniale nell’ideazione e nel tono è il dramma Electre
ou La chute des masques (1954) della grandissima scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenar (1903-1987), pseudonimo di Marguerite
Cleenewerck de Crayencour (Yourcenar, adottato legalmente nel
1947, è l’anagramma quasi perfetto di Crayencour).
Lungo queste versioni, talora estrose e devianti, si crea nei tempi moderni una prospettiva che deforma i contorni del personaggio accrescendo in Elettra non soltanto la crudeltà, la determinazioneguidatadall’odioeisentimenticontronatura(oritenutitalida
una cultura omofoba in quanto «cristiana») ma soprattutto la nevrosi. In tale prospettiva, il vertice estetico è costituito dal dramma
ElektradiHugovonHofmannsthal(Vienna,domenica1febbraio
1874 – Rodaun presso Vienna, lunedì 15 luglio 1929). In una prospettiva più ampia, in cui la concezione di teatro comprenda l’idea
diun teatro musicaleorganico einteso come«Gesamtkunstwerk»
in un’accezione post-wagneriana, il vertice è costituito dall’omonima opera di Richard Strauss (Monaco di Baviera, sabato 11 giugno
1864 – Garmisch-Partenkirchen, giovedì 8 settembre 1943) per la
quale il dramma hofmannsthaliano ebbe la funzione di libretto
quanto mai geniale e sovreccitante.
Lo stimolo alla rielaborazione dell’Elettra di Sofocle, che Hofmannsthal lesse nell’autunno 1901 durante lunghe passeggiate nei
boschi intorno a Vienna o disteso su un a sdraio nel giardino di casa, venne al ventisettenne poeta dalle esortazioni dell’attrice Gertrud Eysoldt e del regista Max Reinhardt, secondo quanto lo stessoHofmannsthalscrisse,alcuniannidopo,inunaletteraindirizzata allo scrittore stiriano Ernst Hladny (1880-1916). La lettera ci offre dettagli significativi: «L’intera opera fu scritta, senza sostanziali
correzioniintreoquattrosettimane,tral’agostoeilsettembre1903
[…] Mi venne in mente il verso dell’Iphigenie auf Tauris [di Goethe,
n.d.r.] n cui si nomina “Elettra con la sua lingua di fuoco” [“Elektra mit ihrer Feuerzunge”], e passeggiando fantasticai sulla figura
di Elettra non senza un certo piacere di contrapporla all’atmosfera
“maledettamente umana” dell’Iphigenie. Mi colpì anche il contrasto
da un lato, dall’altro l’affinità con l’Amleto». Un esperto grecista quale fu Hofmannsthal non poteva eludere un richiamo alla plausibile etimologia del nome «Helektra» (da heléktor, «sole fiammeggiante», lo sappiamo), rafforzandolo con l’immagine della «Feuerzunge» ch’è nel verso goethiano. Le sue letture sconfinate nell’ambito delle letterature d’Occidente non potevano nascondergli la parentela poetica e drammatica tra Elettra e Amleto, entrambi figli
di re, entrambi ribelli e vendicativi verso la propria madre e l’amante di lei, entrambi vaganti come folli nei tetri spazi di una reggia abitata dal fantasma di una vittima. A sua volta, la fisionomia profondamente «wienerisch» di Hofmannsthal, al quale la figura di Sigmund Freud era ben nota, non poteva trascurare il fascino dell’abnorme, della deformità psichica che si traduce in energia di grado
superiore, dell’isterìa muliebre che seduce e atterrisce (in quanto irradiazione magica) l’osservatore maschile che ne è stregato.
Elektra di Hofmannsthal, nata dunque come una sottintesa Anti-Ifigenia, fu messa in scena da Max Reinhardt venerdì 30 ottobre
1903alKleinesTheaterdiBerlino.Inmenodiunasettimana,ventidueteatrisiassicuraronoidirittidirappresentazionedella«pièce»,
e tre ristampe dell’edizione furono presto esaurite.
Un grande successo, ma non era ancora il momento di collaborare con Strauss. Hofmannsthal aveva conosciuto di persona il compositore la sera di giovedì 23 marzo 1899, a Berlino, durante un ricevimento in casa del poeta Richard Dehmel (1863-1920). La serata era in onore di Strauss e della prima esecuzione del suo melòlogo Das Schloß am Meere, avvenuta a Berlino quello stesso pomeriggio. In casa Dehmel furono ospiti, quella sera, Strauss e sua moglie
Pauline, i poeti Paul Scheerbart e Wilhelm Schäfer, e due amici inseparabili, il conte Harry de Kessler e il poeta viennese Hugo von
Hofmannsthal. Vale la pena ricordare che Kessler sarebbe stato,
dieci anni più tardi, il vero ideatore del progetto da cui nacque Der
Rosenkavalier.
Quella sera, Strauss e Hofmannsthal ebbero appena il tempo di
presentarsi e di scambiarsi qualche frase di circostanza. Nel febbraio 1900, i due s’incontrarono casualmente a Parigi, e fu allora che Hofmannsthal cominciò a proporre a Strauss qualcosa di
suo. Prima, un balletto, Der Triumph der Zeit, che Strauss rifiutò essendo impegnato nella composizione di Feuersnot. Più tardi, proprio Elektra; ma nel 1904, quando fu avanzata l’offerta, Strauss era
impegnatonellacomposizionediSalome.Quiebbeluogoancheun
lieve screzio. Parlando del soggetto di quell’opera e della «Titelrolle», che Strauss, alla tedesca, pronunciava «Sàlome», Hofmannsthal fece notare al compositore che l’accentazione greca classica
del nome, quale compare nelle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, sarebbe dovuta essere «Salóme». S’immaginava che Strauss lo
avrebbe ringraziato per la cortese precisazione; invece il compositore s’irritò, e non lo nascose. Insomma, una sfortuna dopo l’altra: una cattiva stella. Finalmente, in una lettera datata domenica 11
marzo 1906, da Berlino, Strauss scrisse al poeta dichiarandosi interessato al progetto di Elektra subito dopo la realizzazione di Salome.
Hofmannsthal rispose da Rodaun venerdì 27 aprile 1906, e il progetto si avviò. Fu il punto d’avvio di una leggendaria collaborazione tra due artisti, ciascuno dei quali al primissimo rango nell’esercizio della propria arte. Vi fu anche vera amicizia? Forse, ma punteggiata da cautele e lievissime diffidenze, attenuata da una presa di
distanze in cui l’eleganza della discrezione superò qualche ventata
gelida di dispetto. I due si diedero sempre del «Lei». Certo, la tragica morte di Hofmannsthal suscitò in Strauss tristezza e prolungata depressione.
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Birgit Nilsson è Elektra nell’edizione
milanese alla Scala del 1972.
Focus On
Giulia Tess è Elektra nell’edizione
milanese alla Scala del 1932.
Focus On
4. Una trama e uno stile
Il libretto di Elektra, che in seguito a suggerimenti di Strauss accolse nella trama in un atto unico lievi ma significative varianti testualirispetto all’autonomo testo drammatico del1903,può essere riassuntocomesegue.SiamonelcortileinternodelpalazzorealediMicene, fiancheggiato, da entrambi i lati, da basse costruzioni in cui
abitano i servi. Cinque ancelle attingono acqua al pozzo, e parlano
di Elektra, figlia di Klitämnestra e di Agamemnon. Quest’ultimo
èstatouccisodallamoglieedall’amantedilei,Aegisth.Leancelletemono Elektra, che si aggira per il palazzo vestita di stracci, rabbiosa
come un gatto selvatico. Soltanto una, la più giovane, ha pietà della
figlia del re, la quale, rientrate in casa le ancelle, compare in scena. È
sola, con le macchie di luce rossa che cadono dai rami del fico come
chiazze di sangue. Questa è l’ora in cui Agamemnon venne sgozzato da Klytämnestra. La figlia invoca il padre, lo supplica di apparire come ombra, e rievoca l’atroce delitto, cui profetizza punizione altrettanto atroce. Sopraggiunge la sorella minore, Chrysothemis,perlaqualeElektrariveleràunmalsanoamoresfiorantelalibidine incestuosa. Chrysothemis avverte Elektra di guardarsi dalla
madre e da Aegisth: essi avrebbero intenzione di rinchiuderla nella torre del palazzo.
Entra in scena Klytämnestra, pallida e irrequieta. È tormentata
da incubi e da terrori, forse anche da un larvato senso di colpa. Ma
quandogiungelanotizia(falsa,comeinseguitosisaprà)dellamorte
di Orest, l’altro suo figlio, fratello di Elektra e di Chrysothemis, sul
volto della regina l’orrore lascia luogo a un maligno senso di trionfo.Giungeunostraniero:èOrest,manessunoloriconosce.Egliha
sparso la falsa notizia della propria morte per entrare indisturbato
nel palazzo. Soltanto più tardi Elektra lo ravvisa, e lo convince a uccidere la madre. Elektra attende l’urlo di Klytämnestra all’interno
della reggia. Poi esorta il fratello a colpire ancora.
Sopraggiunge Aegisth, ed è la stessa Elektra che, iniziando una
danza sinistra, lo conduce sino alla porta del palazzo dove la mano
armata di Orest lo attende. Compiuto il secondo omicidio, Orest
viene portato in trionfo. Elektra pare in preda a un dèmone che la
costringa a danzare: è una danza di macabra gioia e insieme di esaltazione orgiastica, in cui ella fonde il malsano rapporto con la sorella e l’ambiguo amore, anch’esso probabilmente incestuoso, per il
padre morto. Infine, Elektra cade al suolo, senza vita. Chrysothemiscorreallaportadellareggiaevibattecontro,chiamandodisperatamente il fratello.
Strauss compose nella sua casa di Garmisch la musica di Elektra, ultimandola martedì 22 settembre 1908. La prima esecuzione assoluta di Elektra ebbe luogo lunedì 25 gennaio 1909 al Königliches Opernhaus di Dresda, con la direzione di Ernst von Schuch, la regia di Georg Toller, le scene di Emil Rieck e i costumi di
Leonhard Fanto. Gli interpreti principali furono Ernestine Schumann-Heink (Klytämnestra), Annie Krull (Elektra), Margarethe
Siems (Chrysothemis), Johannes Sembach (Aegisth), Carl Perron
(Orest).Dopolaprimarappresentazione,siaprìsubitoprimainItalia (soprattutto per iniziativa di Giovanni Tebaldini), poi in Austria
e in Germania, poi negli Stati Uniti, un’aspra «querelle» di cui ancora oggi persistono tracce, e che fu accesa dalla constatazione di fortissime somiglianze e quasi di identità tra Elektra e un’opera italiana andata in scena quattro anni prima, martedì 5 dicembre 1905 al
Teatro Comunale di Bologna sotto la direzione di Arturo Toscanini: Cassandra del raffinato compositore milanese Vittorio Gnecchi. Si parlò ora di plagio vero e proprio, ora di «telepatia musicale» (Tebaldini). Io stesso mi occupai a fondo della questione dopo
il 1989. Oggi potremmo dire, scartando entrambe le congetture,
sia diplagio sia ditelepatia,che«lo Spirito (della musica…) spira dove vuole».
Altrove, quindici anni fa, parlai di uno «stile interrotto» presen-
te nel lascito straussiano: uno stile di cui Elektra è l’ultimo esempio.
Ciòvaleperlaqualitàdeltesto,asproetorbido,eppuresquisitamente hofmannsthaliano nella sua prospettiva di dolore e di decadenzasottoilsegnodellaciviltà,dibarbarieosservatadalcolmo dell’humanitas, di onnipresenza del quadrilatero ideale di Hofmannsthal,
Traum, Schatten, Tod, Leben (sogno, ombra, morte, vita). L’Ellade di
Hofmannsthal non è olimpica, ma piuttosto orgiastica e dionisiaca: il mito argolico ha colore di piombo. Ma l’interruzione della lineastilisticaavrebbecoinvolto,apartiredalRosenkavalier,soprattutto la musica di Strauss, che in Elektra si muove attraverso intricatissime dissonanze costrette a forzare l’involucro della tonalità. Balenano sembianze impressionistiche già motivate dal testo con quel
particolare «colore a macchia» che sono le allitterazioni: Bett, Bad,
Beil, Blut, letto, bagno, scure, sangue. La loro traduzione in termini
musicali fu individuata da Ernst Kurth nell’impiego diffuso di accordi vaganti, fusioni tonali e sovrapposizioni di tonalità.Ma l’opera tende piuttosto all’area espressionistica. Dopo il memorabile grido di Elektra da poco entrata in scena, «Agamemnon!» (il nome è
nel libretto ma non nel dramma originario di Hofmannsthal), in
tonalitàdiReminoresulmotivoRe4-La3-Fa4 -Re4daltagliobarbarico,sisnodaunaseriedibattuteincuiavvertiamosentoridipolitonalità. Anzi, sia il motivo sia il tessuto armonico sono quasi identici
a un passo di Erwartung (1909) di Arnold Schönberg: ci riferiamo al
principio della seconda scena, dopo le parole «Was? Lass’ los!». Ciò
che più stupisce l’ascoltatore, presto assuefatto alla materia musicale insolitamente omogenea nel suo carattere plumbeo, è il ritorno
d’inflessioni linguistiche armonicamente e melodicamente limpide, di uno Strauss rispetto al quale dovrebbero essere i caratteri
oraindicatiarappresentareilnuovoel’inconsueto.Nelgrandemonologo di Elektra, dopo «deinem Kind», appare un magnifico tema su armonie tonali, trasparenti, dal taglio non dissimile da quello delle idee melodiche che popolano Daphne o Die Liebe der Danae.
Ilmotivo,inLabemollemaggiore,siconcludeconuninciso«sprofondante» e reiterato (Mi bemolle, Fa, Re bemolle, Do), che nella
curva discendente si adagia su quell’oggetto ultraromantico che è
l’accordo di settima diminuita sul La bequadro.
5. Auspicio
Elektra fu il primo testo che Hofmannsthal scrisse per Strauss: il
primo dei sei che il poeta offrì al compositore tra il 1908 e il 1929.
Quest’opera fu un confine: dopo l’interruzione di uno stile che in
essa giunse al vertice, la fisionomia di Strauss operista assunse contorni e colori radicalmente diversi. Tuttavia, lo stile di Elektra si riaffaccia in lavori tardi: nell’opera Friedenstag, ma anche nei cicli di Lieder del 1918. Inoltre, Elektra conclude una terna di opere in un atto:
leprimeduesonoFeuersnoteSalome.Unsimileternamaipiùsisarebbe ricostituita. La concisione si adatta alla verticalità dello stile gotico e a quanto di gotico c’è nelle poetiche dell’espressionismo (ce
n’è molto, e l’arte cinematografica, che si sviluppò proprio a partire
dall’epoca di Feuersnot di Salome e di Elektra, ne è una conferma eloquente).ApartiredalRosenkavalier,ilteatrodiStraussacquistòunrespiro tardivamente «Jugendstil» che esigeva ampie volute figurali,
prolungate curvature, ampia distensione, articolazione in più atti.
La scelta dell’atto unico («Einakter») si adatta alla fisionomia e alla psiche del personaggio Elettra: usiamo la forma italiana e perciò allusivamente «comune» del nome, non quella tedesca usata da
Hofmannsthal, poiché vogliamo allargare il giudizio al mito in tutte le sue fasi di trasformazione. Elettra, come Cassandra, come lady Macbeth, come Jeanne d’Arc, come Leonora alias Fidelio, è una
donna irriducibile che combatte. Quante, nella letteratura e nel teatro nella musica e nelle arti visive, le donne che combattono! Sarà al
femminile la salvezza dell’Occidente? Spero di somigliare a Elettra, e di ripetere il suo destino.
11
Focus On
Elektra, un caso d’isteria
La figlia di Agamennone riletta da Hofmannsthal
di Eugenio Bernardi
P
arla come un mediL’operazione che tenta di svolco», dice a un cergere sulla madre colta in un
to punto Climomento di debolezza,
tennestra a proposito
non ha per obiettivo
della figlia. Un’afla conoscenza, ma
fermazione davla vendetta. Se la
vero sorprenmadre-regina è
dente, quasi
perseguitata da
grottesca. La
incubi, Elettra
regina uxoriè ossessionacida che fino
ta da un’unica
a questo movisione, quella
mento ha tratdell’assassinio
tato Elettra
del padre a cui
come una paznon ha assistito,
za furiosa confima che ogni giornandola nella parno al tramonto rieBo
te più squallida del
voca a tinte sempre
).
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9
palazzo reale, ora le
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forti e sempre più
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chiede aiuto. Si rivolge a
esasperate.
Una visione di
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lei come a un medico che ponsangue:
quelle
coltellate
infert
k
le
p e r il p r i m
o all es t i m e n t o d i E
ga fine alle sue pene, ossia agli orte da Clitennestra e dal suo amante
ribili sogni che la perseguitano. È comEgisto ad Agamennone immerso nel baparsa in scena in tutta la
gno, l’acqua che si arrossa,
sua pompa regale descritla striscia di sangue che si
ta nelle didascalie fin nei
disegna per terra mentre
dettagli. È coperta di pieEgisto trascina via il cadatre preziose ed ha l’aspetto
vere tirandolo per le bracdi una dea antica, ma sui
cia, quell’occhio ancora
suoi grandi occhi da moaperto del re che fissa olsaico bizantino scendono
tre la morte i suoi assassini
palpebre pesanti e il vole ora anche la figlia chieto stesso è gonfio, il voldendo vendetta, è lo spetto di un’insonne. L’aiuto
tacolo che ogni giorno, alche chiede alla figlia finola stessa ora, Elettra metra disprezzata e vilipesa rite in scena per sé e per gli
guarda appunto i sogni e
altri. Una belva, dicono di
il modo di liberarsene, vilei le serve, anche se una
sto che a nulla servono i
di loro ne parla come di
soliti riti né le pietre magiuna santa.
che. Elettra come psicoaIn verità Hugo von Honalista, dunque, pronta a
fmannsthal, che scrive
condurre abilmente la requesto testo fra il 1901 e
gina a intuire da dove proil 1903 ispirandosi liberavenga quel tormento. Il rimente (come dice il sottomosso, d’altro canto, è lì,
titolo) alla tragedia omoappena sotto la superficie,
nima di Sofocle, fa di
non occorre «smuovere
Elettra un’isterica. Così fu
l’Acheronte». Quando già
interpretato subito questo
sta per riconoscerlo, Clidramma in cui l’autore aftennestra fugge infastidifrontava un tema estreta e tenta altre strade per
mo, ispirandosi al milenire la sua pena.
to e stravolgendone nello
Come «medico» Elettra,
stesso tempo i personagElektra di Hofmannsthal nella versione di Andrea De Rosa (2006)
del resto, è inaffidabile.
gi. Qui sparisce infatti, ri-
«
12
Focus On
spetto alla versione di SoHugo von Hofmannsthal
focle (ma anche a quella di
Euripide), il prologo che
espone l’antefatto, Oreste non è invocato con la
stessa insistenza e compare solo alla fine a sciogliere una situazione arrivata
all’incandescenza.
Il pubblico che assistette
a quella prima (in seguito
il testo fu plasmato definitivamente dalla musica
di Richard Strauss) ne fu
affascinato e sconcertato,
ma vi riconobbe comunque un fenomeno, quello dell’isteria femminile,
una forma di psiconevrosi frequente nella società
del tempo, ben nota agli
psicologi e già comparsa in figure analoghe sulla scena. Hofmannsthal
leggeva in questo senso anche La donna del mare di Ibsen, l’unico drammaturgo contemporaneo
che Freud ammirasse. E
non a caso la protagonista
di questa Elettra fu Gertrud Eysoldt che era stata
l’interprete di Ellida Wangel. Su questa base (più che su
quella psicoanalitica connessa alla Traumdeutung che ebbe
una ricezione molto più lenta) l’opera fu immediatamente collegata alla storia di Anna O. (pseudonimo di Bertha
Pappenheim) descritta da Sigmund Freud e Josef Breuer
in quegli stessi anni. Troppo evidenti erano le analogie. Il
modo con cui l’Elettra di Hofmannsthal si risveglia dalla sua visione, ossia «come una sonnambula», «barcollando, guardandosi intorno smarrita», faceva
inoltre pensare all’ipnosi, una terapia che era molto in auge a
Vienna in quegli stessi anni ed era già diventata
un tema per il palcoscenico grazie all’Anatol di Arthur
Schnitzler.
Inter pretazione dei sogni, isteria,
ipnosi, lettura psicoanalitica del mito:
tutto ci fa capire che Hugo
von Hofmannsthal, lasciatosi alle spalle la sua brillante fama di poeta lirico eccezionalmente esperto degli stati d’animo della coU
n mom
siddetta decadenza e dell’«arte dei nervi», è più che
mai attento a quanto avviene in quegli anni nel
campo delle scienze umane con particolare riguardo al lavoro di Freud (che
da parte sua aveva maggiore considerazione per
Schnitzler).
D’altro canto, accentrando tutta l’attenzione su
Elettra, si finisce per trascurare l’elemento drammatico che unisce le tre
donne protagoniste, ossia
il loro rapporto con il tempo e quindi con la propria
storia. Se Elettra vive solo nella ripetizione ossessiva di uno shock, Crisotemi, «la sorella mite» che
sogna una vita di sposa e
di madre (anche questa
una variante rispetto a Sofocle), ha «la testa sempre
confusa», «nulla sa tenere
a mente dall’oggi al domani». A sua volta Clitennestra, preoccupata solo dei
suoi sonni, non riesce, come capita ai delinquenti, a
rendersi conto della sua azione: «Prima ci fu un prima, poi
un dopo… io, nel mezzo, non ho fatto nulla».
Al di là della danza dionisiaca di Elettra nel finale e del risolversi dell’incubo, su uno sfondo ormai privo di riscontri mitico-religiosi rimane senza risposta la domanda di
Crisotemi, se non sia veramente possibile dimenticare. Il
che, in linguaggio moderno, significa superare il trauma.
Sarà il tema che Hofmannsthal riprenderà continuamente negli anni successivi, consapevole dell’impossibilità della tragedia in tempi moderni. Non si tratterà di
dimenticare, ma di avere
consapevolezza della
propria storia e nello stesso tempo di
essere capaci di
trasformazione. Di ricordare e di modificare. E il teatro, tanto più
nella forma
della commedia, era in questo senso ben
più che una trasposizione di pensieri sulla scena, era
una verifica complessiva di questa capacità.
e n to d e ll o s p et t a c ol o d el 19 0
13
9.
Focus On
Inbal, alla Fenice con emozione
Per il nuovo direttore musicale un’«Elektra» all’avanguardia
I
l secondo appuntamento della stagione lirica 2008 della Fenice, con uno dei lavori
più intensi di Richard Strauss, Elektra,
sarà anche il primo a vedere sul podio il nuovo
direttore musicale del Teatro veneziano, il maestro Eliahu Inbal, interprete tra i più sensibili e efficaci, specialmente nel repertorio a caval-
di Enrico Bettinello
Venezia – Teatro La Fenice
28 febbraio, ore 19,00
2, 8 marzo, ore 15.30
11 marzo, ore 19.000
Sì, ogni volta che venivo mi sentivo
come a casa, non come direttore invitato. Anche perché suonando con maggiore continuità con una compagine
orchestrale, le richieste artistiche salgono e l’orchestra suona sempre meglio.
Alla fine, il legame era tale che ho detto
Scene da Elektra nella versione di Klaus Michael Grüber
lo tra Otto e Novecento.
Con entusiasmo e grande disponibilità ha accettato la nostra proposta di
approfondire brevemente il suo approccio all’opera di Strauss e il suo rapporto con la Fenice in generale.
Gentile maestro, spenderei qualche parola sul suo nuovo incarico di direttore musicale del Teatro La Fenice: sensazioni, emozioni, responsabilità, stimoli…
Negli anni ho mantenuto con la Fenice un rapporto che era
caratterizzato da una certa regolarità, ma con dei «buchi» anche di due, tre anni in mezzo, un rapporto ottimo con i differenti sovrintendenti e direttori artistici che si sono alternati. Le
mie relazioni con l’Orchestra sono sempre state molto intense e ha dato anche in passato risultati ottimi, con un notevole
miglioramento del suono e un carattere più internazionale dell’Orchestra stessa; così, quando tre anni fa sono tornato a Venezia, per suonare il Requiem di Verdi, o Mahler e Berg, sono
stato accolto in modo straordinario, specialmente da quegli orchestrali con cui avevo già lavorato.
Un legame speciale, tanto da diventare stabile…
agli orchestrali: stavolta se mi chiedono di venire come direttore stabile, rispondo di sì!. E così, quando il sovrintendente è venuto da me con la proposta, ho accettato con entusiasmo.
Sono certo sarà un lavoro fruttuoso: solitamente il primo anno di un direttore musicale non è molto significativo, perché è
facile che gli impegni precedenti non gli consentano di essere
presente in molte date, ma io ho fatto di tutto per dare la massima disponibilità (teniamo conto che il mio calendario è ormai
pieno fino al 2013!) ed eccomi qui.
Venendo all’Elektra, quali chiavi di lettura ha scelto per questo lavoro?
L’opera in questione ha un ruolo davvero speciale nella produzione di Richard Strauss: insieme a Salomè fa parte di quel periodo iniziale nel quale la musica di Strauss era molto all’avanguardia e ha molto influenzato l’andamento della musica che
è venuta di lì a poco.
Questo carattere di avanguardia deriva non tanto dallo sviluppo della linea Wagner-Mahler nel senso di un cromatismo
sempre più denso, quanto la si nota piuttosto nel modo di trattare le parti vocali, nell’orchestrazione coraggiosa ricca di co-
14
Focus On
lori mai usati, nell’incisività delle armonie e nella contestualizzazione del momento scenico.
Nei successivi sviluppi, però, la musica di Strauss ha perduto questa direzione di avanguardia.
Strauss riteneva che i pilastri della musica occidentale fossero la riconoscibilità melodica, quella dei cicli ritmici e la tonalità, che può essere ricca di dissonanze, ma che non può essere sconfessata: nell’Elektra si spinge molto avanti in questa attitudine, trattando i cantanti nelle parti più virtuose e difficili
con una tecnica che potremmo definire, anche se Strauss non
la chiama così, di sprechtgesang: la cantabilità dell’opera italiana
non c’è più.
Come dunque rendere al meglio le qualità di Elektra, senza che l’ombra del successivo classicismo dell’autore si stenda sulla percezione che abbiamo del lavoro?
una «sonorità Inbal», che non saprei bene dire cosa sia: so solo che cerco che un’orchestra abbia in sé tutto: romanticismo,
brillantezza, ritmo, la flessibilità sugli estremi improvvisi. Ho
fiducia nei musicisti che possano non lasciare fuori nulla: tra
l’altro con gli orchestrali italiani l’obbiettivo è quello di amalgamare la forte personalità individuale di ciascuno con quelle
degli altri, dal momento che c’è una grande qualità dal punto di
vista del colore, della passione, anche dell’improvvisazione.
Negli altri paesi invece cosa avviene?
Dipende, ma succede talvolta il contrario: gli orchestrali inglesi o tedeschi, anche quelli migliori, quando siedono in orchestra pensano prima di tutto al suono complessivo, tanto
che a volte il risultato è maggiore della somma dei singoli. In
Giappone si deve stare attenti a cercare di fare emergere qualcosa che esuli dalla loro natura, insistere su un suono più per-
Sono molto legato a Elektra, che è stata la prima opera che ho
diretto, a Bologna, negli anni sessanta: Solti diceva che si tratta
dell’opera più difficile del repertorio, Karajan smise a un certo
punto di dirigerla, e io, con l’incoscienza tipica di ogni buon debuttante, non lo sapevo e l’ho affrontata come fosse Rossini o
Mozart, con grande naturalezza. Tra l’altro la soprano era una
buona voce, ma ormai nella fase discendente della propria carriera e sulle note acute non era sicura, ma affidandosi allo sprechtgesang è andata benissimo.
Elektra è avanguardia e romanticismo, per interpretarla al
meglio basta attenersi a quanto è scritto in partitura, come con
Mahler, senza addolcire per forza le parti più estreme o togliere dolcezza a quelle più romantiche.
In quest’ottica, quanto mi diceva sul rapporto con l’Orchestra diventa ancora più centrale.
Il direttore musicale, avendo una sua idea di come un’orchestra debba suonare, man mano che lavora porta l’orchestra stessa a un suono migliore, perlomeno nella sua visione. Mi dicono
che dopo un po’ le orchestre che lavorano con me assumono
sonale. Gli orchestrali di tutto il mondo suonano come parlano, il legame con la lingua è strettissimo e bisogna quindi fare
emergere anche quello che non è naturale linguisticamente.
Qual è il suo rapporto con i registi?
Con il regista di Elektra non ho mai lavorato prima, ma solitamente ci intendiamo bene: non mi piacciono molto i registi la
cui idea principale è quella di shockare, che si preoccupano di
farsi notare senza curarsi delle idee del compositore. Ammiro
molto chi cerca vie nuove senza distruggere: tutto viene dalla
musica, la luce, i movimenti vengono dalla musica, se il regista
è anche musicista sa bene che dovrà fare di tutto per mantenere la verità che è insita in quell’opera.
La regia deve aiutare la musica e il testo, non sovrapporsi a essi, altrimenti il tutto diventa disomogeneo e non piacevole. Da
spettatore ricordo un’ Aida a Francoforte nella quale mi sono detto: o chiudo gli occhi e ascolto solo la musica, o mi tappo le orecchie e mi gusto la regia, ma assieme non stavano bene. Un regista sensibile sa evitare questo e dire qualcosa di nuovo al tempo stesso.
15
Focus On
Le donne nell’«Elektra»
secondo Regina Resnik
La grande cantante e regista
racconta i personaggi straussiani
R
egina Resnik è una delle interpreti liriche più importancisa. Molte cantanti e molti registi rappresentano questo
ti del secondo Novecento, specializzata nel corso della sua
personaggio con un carattere disgustoso. Io non l’ho mai
lunga carriera in personaggi complessi e contraddittori come
letto in questa chiave: ho creato solo scene che evidenziad esempio Carmen, che è uno dei suoi cavalli di batno la rimanenza di una grande bellezza sciutaglia. Tra questi c’è anche Clitennestra, la mapata dall’uso di droghe, che presentino
dre di Oreste ed Elettra rea di aver assassiun personaggio roso dalla paura. Clinato il marito Agamennone appena ritennestra ha spedito il figlio Oretornato vittorioso da Troia. Ma queste lontano da Micene, perché
st’artista versatile non si accontenta
non le potesse nuocere. Tutdi essere una delle protagoniste del
tavia non può non sognare
palcoscenico, e spesso si divide tra
continuamente che egli torrecitazione e regia, come nel canerà a vendicare il padre.
so di una fortunatissima ElekLa sua vita è quella di una
tra straussiana alla Fenice nel
malata di nervi, persegui1971, dove le scene erano state
tata dai rimorsi di coscienideate e dipinte dal marito Arza. È una donna che fa un
bit Blatas, celebre pittore di oriuso esagerato di medicinagini lituane. Le chiediamo quali
li e droghe. Non è presensono, nella sua interpretazione, i
te, è quasi sempre immersa
tratti dominanti delle figure femmiin un’atmosfera onirica e spetnili dell’opera.
trale. Mi ricorda da vicino l’altro
Elettra ha tantissimi colori: va
personaggio in cui sono specializdal ruolo di seduttrice, nei duetti con
zata, Carmen di Bizet. La ClitenneR egina R esnik
Crisotemi, dove cerca di adescare la sostra di Hofmannsthal e Strauss, a differella blandendola con la seduzione, a momenrenza del modello sofocleo ed eschileo, in cui
ti di estrema poeticità, come quando si rivolge a Oreste.
emergeva uno stretto legame con il mondo della terra e
Nello scambio tra fratello e sorella c’è un’atmosfera di
della magia, non sembra avere dimestichezza con le pragrande tenerezza, che sembra richiamare il tempo deltiche magiche, con l’universo ctonio della terra e del sanl’infanzia. In quel frangente sia il testo che la musica congue. Piuttosto è una donna profondamente superstiziosa,
tribuiscono a creare un contorno molto intimo, familiache da ogni cosa cerca di ricavare un segno benauguranre e malinconico. Diversamente, nel dialogo con la mate. Non sembra essere padrona della magia e delle forze
dre Elettra assume i panni della strega, di una figura diadell’occulto, anzi ne è vittima, schiava. È debole e terrobolica, ed è in sintonia con Clitennestra, anch’essa caratrizzata, e cerca qualsiasi tipo di rimedio alla sua angoscia.
terizzata come una strega.
Non ha padronanza dei rituali occulti, e questo è evidenIl personaggio di Elettra ha dunque molte sfaccettatute proprio dal fatto che chiede a Elettra di rivelarle un sare, già a livello poetico, e la musica di Strauss di volta in
crificio che sia in grado di liberarla.
volta contribuisce a rafforzare ciascuna di queste diverMusicalmente, Elettra, Crisotemi e Clitennestra hanno connose e contrastanti atmosfere. Infatti il tracciato musicale si
tazioni diverse…
modifica per esprimere di volta in volta uno stato d’aniLa musica più bella è quella che esprime Crisotemi, una
mo oppure un lato del carattere dei protagonisti. I persogiovane che desidera avere una famiglia, amare il suo sponaggi di Hofmannsthal non sono lineari, né monocordi,
so, crescere dei figli, e vuole allontanarsi dagli ambienti
e la musica, la scena, i costumi cambiano a seconda dellugubri e malsani in cui si trova. Strauss ottiene per Crile situazioni.
sotemi dei risultati eccezionali: la musica è alle volte adNelle tante volte che l’ha portata in scena, come si è immaginata
dirittura in 3/4, in pieno stile viennese, mozartiano. Per
l’inquietante figura di Clitennestra?
Clitennestra la musica è angosciosa, martellante e difficiÈ una donna alla fine della vita. Lei ed Elena erano le
le, in piena sintonia con le angosce e le paure del persoregine più belle di tutta la Grecia. Quando Agamennonaggio. Tuttavia in una pagina anche lei è rappresentata
ne sacrifica Ifigenia, loro figlia, per far riprendere il main una dimensione umana, quando parla di un tempo pasre alle sue truppe, Clitennestra cambia carattere, diventa
sato e più lieto di quello presente. Strauss ha compreso la
un mostro: si oppone al sacrificio perché non crede a quedifferente atmosfera di questa pagina, e ha composto una
sto tipo di religiosità superstiziosa. Da regina, donna belmusica dolce e malinconica che non si ritrova mai altrove
lissima e ammirata, si trasforma in un vero e proprio moper connotare Clitennestra. (l.m.)
stro, si prende un amante e giura di vendicare la figlia uc-
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Focus On
Elektra alla Fenice in un’opera di Arbit Blatas
Le principali tappe della storia di «Elektra»
25 gennaio 1909, Dresda, dir. Ernst von Schuch.
10 febbraio 1910, Londra, dir.: Thomas Beecham.
6 aprile 1910, Milano, dir. Edoardo Vitale.
31 marzo 1937, New York, dir. Artur Rodziƒski.
2 giugno 1944, Amburgo, dir. Eugen Jochum.
24 ottobre 1947, Londra, dir. Thomas Beecham.
25 dicembre 1949, New York, dir. Dimitri Mitropoulos.
16 maggio 1950, Firenze, dir. Dimitri Mitropoulos.
23 febbraio 1952, New York, dir. Fritz Reiner.
31 gennaio 1953, Francoforte, dir. Kurt Schröder.
12 agosto 1953, Colonia, dir. Richard Kraus.
26 agosto 1955, Monaco, dir. Karl Böhm.
7 agosto 1957, Salisburgo, dir. Dimitri Mitropoulos.
6 marzo 1958, New York, dir. Dimitri Mitropoulos.
10 ottobre 1960, Dresda, dir. Karl Böhm.
11 agosto 1964, dir. Herbert Von Karajan.
16 dicembre 1965, Vienna, dir. Karl Böhm.
1 dicembre 1966, New Orleans Opera, dir. Knud Andersson.
13 giugno 1966, Vienna, dir. György Solti.
29 marzo 1968, Amburgo, dir. Leopold Ludwig.
17 giugno 1971, Stoccarda, dir. Carlos Kleiber.
19 giugno 1971, Roma, dir. Wolfgang Sawallisch.
15 dicembre 1971, Venezia, dir. Fritz Rieger.
14 giugno 1974, Cleveland, dir. Lorin Maazel.
11 aprile 1975, Parigi, dir. Karl Böhm.
11 marzo 1976, Kiel, dir. Klaus Tennstedt.
6 maggio 1977, Londra, dir. Carlos Kleiber.
17 luglio 1977, Monaco, dir. Karl Böhm.
16 giugno 1982, Francoforte, dir. Ralph Weikert.
25 aprile 1983, Berlino, dir. Heinrich Hollreiser.
14 gennaio 1984, Parigi, dir. Christof Perick.
13 novembre 1986, Ginevra, dir. Friedemann Layer.
12 novembre 1988, Boston, dir. Seiji Ozawa.
17 gennaio 1990, Monaco, dir. Wolfgang Sawallisch.
10 marzo 1990, Ginevra, dir. Jeffrey Tate.
17 settembre 1994, Milano, dir. Giuseppe Sinopoli.
26 febbraio 1995, Berlino, dir. Daniel Barenboim.
3 agosto 1995, Montpellier, dir. Friedemann Layer.
16 febbraio 1996, Firenze, dir. Claudio Abbado.
24 aprile 2002, Berlino, dir. Marc Albrecht.
11 dicembre 2003, Napoli, dir. Gabriele Ferro.
14 novembre 2004, Colonia, dir. Semëm Byãkov.
dati tratti e integrati da: www.carlomarinelli.it
17
Focus On
Elettra e i suoi fratelli:
l’«Elettra» di Sofocle, l’ultima, la più violenta
di Anna Beltrametti
N
ell’asettica stanza di una clinine, dell’identificazione e dello sdoppiaca, in piedi sulla porta, un’inmento fino allo scambio dei ruoli, sulfermiera ascolta la voce della
Alla fin fine, ammazzare mia madre
la polarità del silenzio e della parola, deldottoressa inquadrata per pochi secondi semi è venuto facile.
la memoria e dell’oblio, solo l’Elettra di Soduta dietro la sua scrivania. Con voce controllaAlice Sebold, La quasi luna
focle può costituire l’archetipo assoluto. Solo
ta e incolore, la dottoressa la informa sul caso delquella sofoclea, con la sua lingua di fuoco in cui
la paziente distesa nel suo lettino e afasica: è un’attrice,
Goethe l’aveva riassunta per bocca di Oreste (Goethe,
stava recitando la parte di Elettra, a metà della scena si inIphigenie auf Tauris III 1, v.1030), può essere quell’Elettra a
terruppe, guardandosi in giro con stupore; rimase in silenzio
cui l’attrice si oppone, prima con il riso che dovrebbe impediper più di un minuto; dopo lo spettacolo si scusò con i collabore l’identificazione, poi con l’afasia che annulla con il personagratori, disse che era stata presa da un’inspiegabile voglia di ridegio anche l’interprete. E’ l’eroina dei tesissimi dialoghi dell’idenre; il suo stato di prostrazione dura da tre mesi, è completamente
tità e della differenza con sua sorella Crisotemi, quella dei rinsana fisicamente e psichicamente né si tratta
di reazione isterica.
Quale Elettra stava
interpretando Elisabeth Vogler, l’attrice
in terapia che insieme
con la sua infermiera
Alma forma la coppia di donne al centro
di Persona, il film del
1966 di Igmar Bergman? Il film non offre alcuna indicazione
esplicita, procedendo
ellittico e frustrante,
disseminando segni
che si contraddicono,
nel continuo sovrapporsi di dati realistici
e proiezioni mentali,
nella coltivata confusione di vissuto e immaginato. Eppure
non dovrebbe lasciare dubbi l’immagine
Persona di Ingmar Bergman (1966)
dell’attrice in costume
e truccata che affiora
dallo schermo, evocata dalla relazione della dottoressa: il personaggio che emerge
facci reciproci e scarnificanti con sua madre Clitennestra, daldal fondo di Elisabeth, dalle scene praticate e dal suo inconscio,
la quale sa di avere ereditato l’indole. E’ l’ultima Elettra protagoquello che prima la ha bloccata nella recitazione e poi le ha tolto
nista del teatro attico che ancora leggiamo, l’estrema per risolula parola, non è la minuscola, sebbene potente, Elettra delle Coezioni drammaturgiche.
fore eschilee. Non può essere la degradata, sudicia protagonista
Con l’Elettra, intorno al 410 – questa è la datazione più difendidi Euripide né lo sono le sue discendenti. Quasi sicuramente non
bile tra quelle proposte – Sofocle obbligava il suo pubblico e inviè neppure la selvatica menade, quasi sempre accovacciata a terta ancora noi a un confronto incrociato: nella scelta del soggetto
ra, di von Hofmannsthal, la prima a cui si penserebbe per effetla tragedia si metteva in rapporto con gli altri drammi del matricito della diffusione del libretto musicato da Richard Strauss e per
dio; la soluzione compositiva riproponeva, amplificandolo e sole riconoscibili parentele freudiane. La bella testa alta di Liv Ullfisticandolo in altre parole e con altri mezzi, il fortunato modulo
mann può suggerire soltanto le sfide della sprezzante Elettra di
dell’Antigone. Rivisitando il più scabroso e sfruttato mitologema
Sofocle, il modello di von Hofmannsthal.
della vicenda atridica, Sofocle rivisitava se stesso riassorbendo il
In un film che ruota, senza voler cercare soluzioni, sulla violenmatricidio nello stesso intreccio in cui aveva risolto i postumi del
za delle reciprocità e dei confronti femminili, sui temi della fusiofratricidio tebano. Il triangolo delle due sorelle e del fratello, con
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le dinamiche delle loro relazioni, veniva trascinato sulla materia
atridica, adattato a contenere, nell’impianto drammatico, e a metabolizzare, nella strategia semantica, la violenza assoluta del matricidio tradizionale in un rinsaldato legame dei fratelli: di Elettra e Oreste, i complici, ma anche di Crisotemi, che non nega alla fine il suo aiuto pur tenendosi sullo sfondo, e di Pilade, l’ombra silenziosa di Oreste. Un filone molto illustre della critica, che
muove dalle penetranti letture di K. Reinhardt (Aischylos, 1949)
e annovera A. Lesky (La poesia tragica dei Greci, ed. or. 1972), ha riconosciuto da molto tempo la non centralità del matricidio nell’Elettra sofoclea. Si può, credo, andare oltre questa verità del tutto evidente nelle proporzioni della tragedia. Nella sua calibrata
compattezza, la tragedia dominata da Elettra, gravitante su Oreste e scandita da due intensi e curati interventi di Crisotemi, subordina pesantemente il matricidio alla fratellanza.
Sofocle ridimensiona il matricidio atridico nello stesso scorcio di quinto secolo, successivo alla spedizione siciliana del 415
che avvia il tracollo di Atene, negli stessi anni in cui, stagione dopo stagione, Euripide esercita dal teatro di Dioniso un potente revisionismo. Rispetto all’Orestea di Eschilo, che nel 458 ave-
nificando anche i postfacta.
Non si lascia andare mai, Sofocle, al radicale nichilismo di Euripide, neppure quando ne viene affascinato e per le sperimentazioni formali e per il disincanto verso la tradizione. A trattenere Sofocle nel politico sono forse i suoi trascorsi importanti al
vertice delle più alte istituzioni e al fianco di Pericle. Sono, con altrettanta probabilità, le risorse visionarie, che da sempre proiettano il suo teatro al di là degli impedimenti reali, oltre gli ostacoli del presente, nella storia da progettare, da rifondare e tutta ancora da vivere. Era accaduto negli anni dell’Aiace, intorno al 450,
quando aveva trasformato Odisseo, per eccellenza uomo dell’inganno, nel mite mediatore protopolitico. E ancora con l’Antigone che, negli anni Quaranta della più felice Atene e del massimo consenso per Pericle, si concludeva con l’entrata in scena
di un Creonte straziato, il corpo morto di suo figlio sulle braccia, travolto dai suoi stessi buoni principi legalistici troppo integralmente e fanaticamente applicati. E di nuovo con l’Edipo Re,
il grande sovrano liberatore e taumaturgo per i Tebani, costretto a scoprire gli orrori prima oscurati dallo splendore, a prendere coscienza dei crimini che, non volendo e non sapendo, aveva
Qui e di seguito Elettra di Sofocle
diretta a Milano da Giorgio Strehler (1951)
Coefore nell’allestimento berlinese di Peter Stein (1980)
va rappresentato il matricidio come crimine supremo, indicibile alla stessa stregua del sacrificio sacrilego di Ifigenia ordinato da suo padre Agamennone, ma necessario per liquidare l’ordine gentilizio del sangue e inaugurare il tempo delle istituzioni politiche, Euripide compone un controcanto. Nel 413, la sua
trista Elettra, insieme con un fatuo e palestrato Oreste, uccide
sua madre attirandola in una trappola che è squallido affaire de
femmes, gesto di degrado morale senza aperture politiche, trauma generatore di nuove patologie (Elettra 413 e Oreste 408). E’ solo una tappa: colpo su colpo, il più giovane dei tre drammaturghi va demolendo il valore fondativo della saga troiana, sgretolando la reputazione dei vincitori con la messa in scena della loro violenza, destituendo di fondamento le premesse della spedizione punitiva dei Greci contro Troia e l’Oriente barbaro, va-
commesso lungo la strada per il trono e per l’affermazione del
suo potere personale. Anche nel 410 Sofocle supera i tradizionali
simbolismi del matricidio atridico, i suoi nessi giustificatori e retrospettivi con l’origine della democrazia, ma non lo desemantizza, a differenza di Euripide. Come è tipico della sua drammaturgia, lo proietta invece in avanti a prefigurare ciò che non è ancora accaduto e forse si sta preparando. Il sogno di Clitennestra,
riferito da Crisotemi a Elettra (v.417ss.), va in questa direzione,
più che interpretare il passato predice gli esiti della vicenda: la regina è inquieta per aver sognato Agamennone che tornava a congiungersi a lei, poi prendeva lo scettro, lo conficcava nel focolare e dallo scettro, in alto, germogliava un getto rigoglioso che distendeva la sua ombra su tutta la terra di Micene; non teme, a differenza della Clitennestra eschilea, il serpente che ha succhia-
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to sangue dal suo seno, ma la forza che dovrà sprigionarsi da chi
ancora non è cresciuto abbastanza. E i figli di Clitennestra, i fratelli, dopo molto patire, raggiungeranno la pienezza e la libertà
– lo osserva il coro nella chiusa finale – solo con l’uccisione della
madre. Sarà il crimine efferato e indelebile a siglare, più della nascita, la coappartenenza e la complicità dei fratelli.
Ma l’ossessione della madre da uccidere, rinnegando consapevolmente anche la sostanza materna del proprio profondo e
frustrando la spinta vitale di Crisotemi, fa di questa Elettra un
personaggio quasi irrapresentabile, governabile solo a prezzo di
un silenzio che metta per sempre la sordina al suo troppo parlare, scorticante nei dialoghi e struggente nei lamenti. Il progetto
del matricidio e la crudeltà dell’esecuzione rendono minacciosa la fratellanza di Elettra, correggono il – modulo Antigone –,
ancora così trasparente nell’intreccio, tingendolo di livore con il
vocabolario dell’ira, orge, dell’odio, misos, della sfrontatezza, thrasos. Nella più recente come nella più antica tragedia, due sorelle si incontrano e si scontrano nel nome di un fratello da seppel-
del dissenso, avevano posto in discussione le regole della città, il
primato dei patti politici che Antigone contrastava con le ragioni della philia e della syngeneia, degli affetti e del sangue, dei legami
per definizione più sfuggenti alla regolamentazione delle leggi.
Era difficile, lo è ancora, prendere le distanze da quella piccola
Antigone, nata per amare e non per odiare (v. 523), in scena solo
nel prologo e dopo la cattura, sfuggente sempre nel fuori scena,
sempre pronta a raggiungere il corpo di Polinice: difficile non
lasciarsi catturare dal suo tema dell’amore.
Nell’Elettra, pur bilanciata tra il padre da vendicare e il fratello
da attendere, Sofocle compone la tragedia del conflitto femminile totale, sotto il segno di un’Elettra sempre in scena, sulla soglia della reggia, né dentro né fuori (vv. 78; 109; 313; 328; 518; 802;
818; 1052; 1402), nel non luogo di tutti i fraintendimenti e di tutti i passaggi. Come una belva, o una folle, che non sa e non vuole
sfuggire alla gabbia, impedita ad agire, ma in preda a un fluire di
parole che nessuno sa contenere, impudente nella sua sfrenata
ostinazione a dire tutto e vergognosa della propria impudenza
(v.616 ss.), Elettra è la figura del disordine totale
nel femminile e nei legami di sangue che le donne dovrebbero garantire. Confonde, con le relazioni di cui è al centro,
nelle parole che pronuncia, le parentele biologiche e simboliche. La
chiamano ripetutamente figlia le donne del coro, vere madri per lei
(vv. 153; 173; 234; 478;
829) che disconosce la
propria madre (vv. 597598; 1194), ma sa di replicarne la sfrontatezza
(v. 609). Figlia e sorella,
non madre, Elettra nella
monodia e nell’amebeo
di parodos si paragona alla madre-usignolo dell’eterno lamento, e invoca Niobe, la dolorosa
madre di pietra (vv. 107; 146-148; 150), si rivolge alle false ceneri
di Oreste e a Oreste redivivo come a un figlio più caro alla sorella che alla madre non madre (v.1145ss.). Sua madre può rinfacciarle che il padre, Agamennone, non è che un pretesto, proschema (v.525) nel suo progetto di vendetta, e il pedagogo le apparirà, subito dopo il riconoscimento di Oreste, come un nuovo degnissimo padre (v.1361).
Tutto si contorce e si torce passando attraverso questa Elettra
che abita i margini e presiede gli snodi tra lecito e illecito, coappartenenza e alterità. Sotto i suoi attacchi che sviscerano con rabbia e dolore le degenerazioni del legame materno, più che sotto i
colpi di Oreste, termina la preponderanza della madre, ma, soprattutto, si prepara il trionfo dei fratelli, anche se grondanti di
sangue, anche se affratellati più dal sangue versato che da quello
ereditato, dall’elezione più che dalla nascita. In anticipo di alcuni
decenni sulla kallipolis, immaginata da Platone come società dei
fratelli elettivi, fu forse la libera bocca di Elettra (v. 1256), la sua
lingua di fuoco, a mettere per la prima volta in parole e in scena,
con crudezza, costi e risorse di una rivoluzione mai e in nessun
luogo del tutto compiuta.
lire per salvare l’onore del genos o da attendere perché sia lui a riscattare il genos. Una sorella prudente e ligia alle regole del proprio
genere, Crisotemi più di Ismene, cerca di trattenere una sorella
pronta a qualunque trasgressione, Elettra più di Antigone, pur
di affermare, anche sul tracollo della famiglia, il diritto del fratello e il legame di fratellanza. Due donne, stessa nascita e stessa educazione, si distinguono e si contrappongono confrontandosi con la loro comune memoria, con i loro comuni avversari e
con i loro differenti progetti di vita: si proiettano nel futuro, nella vita e nelle regole, Ismene e Crisotemi; sembrano irretite nel
passato e nei conflitti del presente Antigone e Elettra, Antigone
contro Creonte, il sovrano, Elettra contro Clitennestra, sua madre. Non meno padrona che madre, secondo Elettra (vv. 597598), ma pur sempre madre è Clitennestra e in questo rapporto,
mai risolto tra immedesimazione e ripulsa, Elettra perde la somiglianza con Antigone.
Nell’Antigone, Sofocle aveva introdotto attraverso il dialogo
femminile delle due sorelle un conflitto del tutto maschile, focalizzato sul fratricidio e sulla nuova sovranità di Creonte. Le
due donne, facendo vibrare corde diverse, della sottomissione e
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«Ansia di vendetta
e senso di esclusione»
Lina Sastri delinea i contorni dell’Elettra sofoclea
L
ina Sastri è interprete dell’Elettra di Sofocle in uno spettacolo diretto
da Luca De Fusco che ha debuttato al Teatro Olimpico di Vicenza il
16 ottobre scorso. In occasione delle repliche veneziane la incontriamo
per chiedirle che tipo di personaggio è per lei questa vergine guerriera.
Elettra è sempre stata identificata con la giustizia e con la vendetta, e quindi alla crudeltà, che alla vendetta si accompagna
sempre. Di conseguenza sue caratteristiche normalmente sono
una certa efferatezza e una buona dose di aggressività. Ma dentro
le parole di Sofocle io vi ho letto anche una grande fragilità, perché la forza vera non
coincide mai con la
crudeltà. La forza
vera si esprime con
una calma straordinaria, che sta sopra le
emozioni. Ed Elettra non è affatto al
di sopra delle emozioni. In lei si ritrova certo un grande
amore per il padre,
unito a un forte senso della giustizia, ma
anche e forse soprattutto la ferita che deriva dall’esclusione. Per votarsi alla
vendetta ha rinunciato alla sua vita
di donna, è sola e lo ribadisce spesso: senza nozze, senza figli, senza
nessuno… Non ha un uomo che
le sia accanto, è una donna cresciuta e invecchiata con l’idea fissa della vendetta, quasi fosse una vestale, una sacerdotessa. Ha un senso
profondamente etico e spirituale
della giustizia e della vita, che però si accompagna in lei a una grande solitudine e a un doloroso senso
di esclusione, che lei stessa determina con le sue scelte, perché protesta, perché non si siede al fianco
dei potenti rassegnandosi a una vita di compromesso, come fa invece la sorella. Elettra rifiuta tutto questo, gridando che l’unica cosa che desidera è stare bene con se
stessa. Vuole essere fino in fondo
fedele al suo cuore, alla sua purezza. Ma questo ovviamente attira
su di lei sentimenti di odio e paura.
È esclusa prima di tutto dall’amore della madre, e questo pesa su di
lei sia come figlia che come donna.
Clitennestra ha seguito un percorso non di madre ma di femmina,
mentre lei la sua femminilità la sacrifica continuamente.
Crisotemi ed Elettra normalmente incarnano due possibili modi di prendere la vita: da una parte la prima, rassegnata e
disponibile al compromesso, dall’altra la seconda, aggressiva e
quasi maschile. Senza dubbio quest’interpretazione è corretta.
Ma io nei versi sofoclei scorgo anche un grande affetto per la sorella da parte di Crisotemi: in fondo lei è votata alla femminilità, non ne può fare a meno. E in questo suo essere femminile in
realtà è più forte di Elettra. Io cerco di mettere in evidenza questa
debolezza della protagonista, sia nel rapporto con Crisotemi che quando finalmente arriva Oreste: in quel momento Elettra da sorella maggiore diventa
la minore, si fa bambina. Diviene figlia
e madre allo stesso
tempo.
C’è poi un altro elemento che caratterizza in senso tragico
il personaggio: dopo
aver compiuto la vendetta questa
donna non ha nemmeno più qualcosa per cui combattere. Facendo
un confronto con un’altra grande
eroina della tragedia antica che mi
sono trovata a interpretare, Medea, direi che quest’ultima ha qualche punta di follia, che in Elettra
è completamente assente. Medea
agisce, Elettra no, Elettra è pensiero cosciente, è sempre e comunque immobile. Allora in scena cerco di far muovere il pensiero attraverso la parola. Al di là dei tanti paragoni che hanno accostato Elettra ad Antigone, direi che la figlia
di Agamennone è più vicina ad
Amleto che non alla discendente
di Edipo: se è vero che anche Antigone combatte per la giustizia, è
vero anche che è una figura molto
più vitale, è innamorata, è una ragazza che conosce l’amore. Se vogliamo continuare con i confronti
azzardati, Antigone mi ricorda più
da vicino Giulietta, mentre Elettra è un po’ come Amleto, molto
dentro se stessa, in qualche modo
molto egoista, quasi monotematica. (l.m.)
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