Kant - Critica della ragion pratica.key

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La
CRITICA
DELLA
RAGION
PRATICA
di Kant
copyleft.2016.nicolazuin|www.nowxhere.wordpress.com
Ragion Teoretica e Ragion Pratica
La ragione è teoretica in quanto conosce. Nella Critica della Ragion pura Kant ha critica le pretese della ragione teoretica di trascendere l'esperienza In quanto dirige le azioni, la ragione è pratica.
Nella Critica della Ragion pratica,
Kant critica le pretese opposte
della ragion pratica di restar legata sempre e solo
all'esperienza.
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I limiti della Ragion Pratica pura
La ragione pratica, nella sua parte pura, non ha bisogno di essere criticata perché si comporta in modo perfettamente legittimo,
obbedendo ad una legge universale. Ciò non significa che essa sia priva di limiti: infatti, la morale risulta profondamente segnata dalla finitudine dell'uomo e deve essere salvaguardata
dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con
l'attività di un essere infinito.
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La legge morale
La Critica della ragion pratica si fonda sulla
persuasione che esista, scolpita nell'uomo, una
legge morale a priori, valida per tutti e per sempre. Infatti:
o la morale è una chimera, in quanto l'uomo agisce
in virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata,
presupponendo una ragion pratica "pura", cioè
capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di
guidare la condotta in modo stabile.
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libertà e legge morale
L’assolutezza (o incondizionatezza) della morale implica due concetti strettamente legati tra loro: la libertà dell'agire e
la validità universale e necessaria della legge. copyleft.2016.nicolazuin|www.nowxhere.wordpress.com
ragione e sensibilità
Per Kant la morale è ab-soluta, cioè sciolta dai condizionamenti (degli istinti), non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto a essi. La morale si gioca infatti all'interno di una tensione tra ragione e sensibilità.
Se l'uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità e impulso, essa non esisterebbe, perché l'individuo agirebbe sempre per istinto. Se l'uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe ugualmente di senso, in quanto l'individuo
sarebbe sempre in quella che Kant chiama «santità» etica, ovvero in
una situazione di perfetta adeguazione alla legge.
La bidimensionalità dell'essere umano fa sì che l'agire morale prenda la
forma severa del «dovere» e si concretizzi in una lotta permanente tra la
ragione e gli impulsi egoistici.
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massime e imperativi
Kant distingue i «principi pratici» in «massime» e «imperativi». La massima è una prescrizione di valore puramente
soggettivo, cioè valida esclusivamente per l'individuo che la
fa propria.
L'imperativo è una prescrizione di valore oggettivo, ossia che
vale per chiunque.
Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di
determinati fini e hanno la forma del "se... devi" .
L'imperativo categorico, invece, ordina il dovere in modo
incondizionato, ossia a prescindere da qualsiasi scopo, e
ha la forma del "devi" puro e semplice.
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l’imperativo categorico
Solo l'imperativo categorico, in quanto
incondizionato, ha i connotati della legge,
ovvero di un comando che vale in modo
perentorio per tutte le persone e per tutte le
circostanze (universalità). Solo l'imperativo categorico, che ordina un "devi"
assoluto, e quindi universale e necessario, ha in
se stesso i contrassegni della moralità.
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il formalismo dell’imperativo categorico
L’imperativo categorico, in quanto incondizionato consiste
nell'elevare a legge l'esigenza stessa di una legge. E poiché dire legge è dire universalità, esso si concretizza nella
prescrizione di agire secondo una massima che può valere
per tutti.
«Agisci in modo che la massima della tua volontà
possa sempre valere nello stesso tempo
come principio di una legislazione universale».
(Critica della ragion pratica, A 54)
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l’imperativo categorico e la dignità dell’uomo
Nella Fondazione della metafisica dei costumi offre altre
due formulazioni dell’imperativo categorico:
«Agisci in modo da trattare l'umanità,
sia nella tua persona sia in quella di ogni altro,
sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo».
(Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67)
Essere "fine” significa per la persona essere sempre
soggetto e mai oggetto, tant’è vero che Kant sostiene che
la morale istituisce un «regno dei fini», ossia una
comunità ideale di libere persone, che vivono secondo le
leggi della morale e si riconoscono dignità a vicenda.
la volontà autolegislatrice
«agisci in modo tale che la volontà, in base alla massima,
possa considerare contemporaneamente se stessa
come universalmente legislatrice»
(Fondazione della metafisica dei costumi, BA 76)
L'autonomia della volontà significa che il comando morale
non è un imperativo esterno ma il frutto spontaneo della
volontà razionale (autolegislatrice): ognuno è suddito e
legislatore al tempo stesso. la legge morale è formale
Caratteristica strutturale dell'etica kantiana è la formalità,
in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare,
ma come dobbiamo fare ciò che facciamo. Se non fosse formale, bensì "materiale", e prescrivesse
quindi dei contenuti concreti, sarebbe "vincolata" a
essi,
la legge morale è antiutilitaristica
Il carattere formale e incondizionato della legge morale fa
tutt'uno con il suo carattere anti-utilitaristico. Se la legge ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile,
si ridurrebbe a un insieme di imperativi ipotetici e
comprometterebbe la libertà stessa dell’agire: Non si deve agire per la felicità, ma solo per il dovere:
«Dovere! Nome sublime e grande, che non porti con te nulla di
piacevole che importi lusinga; ma esigi la sottomissione; che
tuttavia non minacci nulla [...] ma presenti semplicemente una
legge che penetra da sé sola nell'animo e si procura
venerazione».
la morale dell’intenzione
La morale implica una partecipazione interiore,
altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita
oppure in forme più o meno mascherate di
autocompiacimento.
Kant sostiene dunque che non è morale ciò che si fa,
ma l'intenzione con cui lo si fa
noumeno e fenomeno
Il dovere e la volontà buona, secondo Kant,
innalzano l'uomo al di sopra del mondo sensibile
(fenomenico), in cui vige il meccanismo delle leggi
naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile
(noumenico), in cui vige la libertà.
noumeno e fenomeno
Questa noumenicità del soggetto morale non
significa tuttavia l'eliminazione di ogni legame
con il mondo sensibile.
Anzi, la noumenicità dell'uomo esiste solo in
relazione alla sua fenomenicità, in quanto il
mondo soprasensibile, per lui, esiste solo come
forma del mondo sensibile.
la rivoluzione copernicana della morale
Kant compie così una "rivoluzione copernicana morale",
ponendo nell'uomo e nella sua ragione
il fondamento dell'etica.
la libertà: in senso negativo, risiede nell'indipendenza della
volontà dalle inclinazioni, in senso positivo, si identifica con la sua
capacità di autodeterminarsi, ossia nella
prerogativa autolegislatrice della volontà, la
quale fa sì che l'umanità sia norma a se stessa.
felicità, dovere e sommo bene
Nella Dialettica Kant prende in considerazione l'assoluto
morale (o sommo bene) cui tende irresistibilmente la
nostra natura.
La felicità non può mai erigersi a motivo del dovere,
perché in tal caso metterebbe in forse l'incondizionatezza
della legge etica.
La virtù, pur essendo il "bene supremo", non è ancora,
secondo Kant, il "sommo bene”,
Il sommo bene consiste, nella somma di virtù e felicità.
(C’è in noi il bisogno di pensare che l'uomo, pur agendo per dovere, possa anche essere degno di felicità).
l’antinomia etica
virtù e felicità, tuttavia, in questo mondo non sono mai congiunte:
lo sforzo di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e per lo più opposte, in quanto l'imperativo
etico implica la sottomissione delle tendenze e dell’egoismo (mentre la felicità consiste nella loro realizzazione). Virtù e felicità costituiscono l'antinomia etica per eccellenza.
L'unico modo per uscire da tale antinomia è di "postulare" un mondo dell'aldilà in cui possa realizzarsi l'equazione "virtù = felicità".
i postulati della ragion pratica
I postulati sono proposizioni teoretiche non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizione
della sua stessa esistenza e pensabilità, ovvero quelle esigenze interne della morale che
vengono ammesse per rendere possibile la realtà della
morale stessa, ma che di per se stesse non possono
venir dimostrate. I postulati tipici di Kant sono l'immortalità dell'anima l'esistenza di Dio.
i postulati della ragion pratica:
La realizzazione del sommo bene (santità) implica il postulato
dell'immortalità : poiché solo la santità, cioè la conformità completa della volontà
alla legge, rende degni del sommo bene
e poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, si
deve per forza ammettere che l'uomo, oltre il tempo finito
dell'esistenza, possa disporre, in un'altra zona del reale, di un
tempo infinito grazie a cui progredire all'infinito verso la santità.
La felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato
dell'esistenza di Dio, ossia la credenza in una «volontà santa ed
onnipotente», che faccia corrispondere la felicità al merito.
la libertà
Accanto ai due postulati "religiosi" dell'immortalità dell'anima e
dell'esistenza di Dio, Kant afferma la necessità di riconoscere un altro postulato:
la libertà. la libertà è infatti la condizione stessa dell'etica, la quale, proprio
perchè prescrive il dovere, presuppone anche che si possa agire o
meno in conformità di esso e che quindi si sia sostanzialmente liberi. «Devi, dunque puoi» Mentre la libertà è la condizione stessa dell'etica l'immortalità e Dio
rappresentano soltanto delle condizioni ipotetiche affinché la morale
trovi, in un altro mondo, quella realizzazione che in questo le è
negata.
morale e religione
non sono le verità religiose a fondare la morale,
ma è la morale, sia pure sotto forma di "postulati",
a fondare le verità religiose.
Dio, non sta all'inizio e alla base della vita morale,
ma eventualmente alla fine, come suo possibile
completamento. L'uomo morale è colui che agisce seguendo solo il
dovere-per-il-dovere, con, in più, la «ragionevole speranza»
nell'immortalità dell'anima e nell'esistenza di Dio.
il male radicale
Nella natura dell'uomo, accanto a una propensione al
bene (testimoniata dalla presenza della legge morale),
vi è un'ineliminabile inclinazione al male: è quello
che Kant chiama il male radicale.
non significa per Kant presupporre una forza estranea alla volontà
(che non sarebbe imputabile all'uomo) né identificare il male con l'istinto naturale (che non è valutabile in termini morali). Il male radicale è quella tendenza, dovuta alla
finitezza e alla fragilità dell'essere umano, ad adottare
una massima di comportamento contraria alla legge,
pur essendo consapevole della legge
morale e grazia
Come il male morale sia comparso per la prima volta è
incomprensibile per noi. Altrettanto incomprensibile è allora come possa essere «che
un uomo naturalmente cattivo si renda da se stesso
buono». E tuttavia noi sappiamo che dobbiamo divenire migliori, e quindi anche che possiamo farlo: e farlo da noi stessi,
perché l'idea di un aiuto sovrannaturale, come grazia, è
«difficilmente compatibile con la nostra ragione», oltre
che pericolosa, in quanto può ingenerare indolenza
morale.
una chiesa invisibile
È necessario che venga istituita una «comunità etica»,
un'associazione di uomini sotto «le sole leggi della virtù»,
perché è proprio nella dimensione della socialità che il
male si esprime con maggior forza. Questa comunità etica è una chiesa invisibile
La religione di questa chiesa è la religione naturale, che consiste in una «semplice fede della ragione».
religione naturale e religioni storiche
La religione naturale è una sola, in quanto «concetto pratico della ragione», ma se si esprime poi nelle diverse confessioni religiose
che «il caso ha fatto capitare sotto mano». Quando la vita religiosa "empirica" si allontana dalla
fede razionale pura si determinano degenerazioni: il feticismo, la superstizione, il fanatismo
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