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NOTA A CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA
SENTENZA 28 GIUGNO 2016, n. 13
Riflessioni in tema di diritto di accesso con riferimento al rapporto di impiego di natura privata:
il caso Poste italiane S.p.A.
A cura di GIUSTINO VALERIANO AGOSTINONE
“É propria dell’Amministrazione, infatti, la cura concreta di interessi della collettività, che lo Stato
ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai cittadini e che pertanto, anche ove affidati a soggetti
esterni all’Apparato amministrativo vero e proprio, debbono comunque rispondere a corretti
parametri gestionali, sul piano dell’imparzialità, del buon andamento e della trasparenza. A detti
principi non può non considerarsi ispirato anche l’art. 22, comma 1, lettera e) della più volte citata
legge n. 241 del 1990, nel ricondurre alla nozione di pubblica amministrazione anche i “soggetti di
diritto privato, limitatamente alla loro attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto
nazionale e comunitario”.
“Per quanto riguarda il rapporto di lavoro – strumentale a tutte le attività svolte – gli obblighi di
trasparenza appaiono dunque coerentemente suscettibili di delimitazione, con riferimento al
combinato disposto degli articoli 11, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013 (ambito soggettivo degli
obblighi di trasparenza), 1, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 (ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in tema di organizzazione degli uffici e di ottimale
utilizzazione delle risorse umane) e 1, comma 16 della già ricordata legge delega n. 190 del 2012:
disposizioni, quelle appena richiamate, che consentono di circoscrivere l’accesso ai settori di
autonoma rilevanza pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto di lavoro), ovvero alle
prove selettive per l’assunzione del personale, alle progressioni di carriera e a provvedimenti
attinenti l’auto-organizzazione degli uffici, quando gli stessi – benché doverosamente ispirati a tutti
i principi, di cui all’art. 24 del già citato d.lgs. n. 150 del 2009 – incidano negativamente sugli
interessi dei lavoratori, protetti anche in ambito comunitario (ad esempio, in tema di mobilità, o di
stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari)”.
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SOMMARIO: 1. Preambolo - 2. Il caso - 3. I destinatari delle norme sul diritto di accesso - 4.
Causa est, quia in iudicium… - 5. Conclusioni.
1. Preambolo.
Con la pronuncia in questione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nelle vesti di sentenza, ha
risolto una questione concernente l’ambito di applicazione dell’art. 22 della l. 241/1990 (Definizioni
e principi in materia di accesso) in riferimento al rapporto di impiego di natura privata ma connesso
a settori di autonoma rilevanza pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto di lavoro),
ovvero alle prove selettive per l’assunzione del personale, alle progressioni di carriera e a
provvedimenti attinenti l’auto-organizzazione degli uffici quando incidano negativamente sugli
interessi dei lavoratori.
2. Il Caso
In seguito al ricorso in appello volto alla riforma di sentenza emessa dal T.A.R Emilia Romagna Sezione di Bologna, concernente l’annullamento della procedura selettiva, indetta dalla società
Poste Italiane S.p.A. per un posto di “Capo Squadra”, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,
viene adita per risolvere la questione relativa all’applicazione degli art. 22 e ss. della l. 241/1990
con riferimento al pubblico servizio di cui è affidataria la società Poste Italiane S.p.A. e se il diritto
di accesso è esercitabile dai dipendenti della medesima.
Nel ricorso di primo grado, il ricorrente chiedeva l’accesso alla seguente documentazione:
1) elaborati relativi alle prove scritte della selezione, con riferimento a quelli depositati da lui stesso
e dagli altri candidati, risultati vincitori o idonei;
2) documenti contenenti i criteri valutativi adottati;
3) verbali della Commissione esaminatrice.
Il Tribunale territoriale, con la sentenza n. 1042 del 31 ottobre 2014, aveva accolto il ricorso
proposto per l’annullamento della procedura selettiva, indetta dalla società Poste Italiane s.p.a. per
un posto di “Capo Squadra”, procedura svoltasi il giorno 6 novembre 2013 presso il CMP di
Bologna.
In secondo grado si costituiva la società Poste Italiane S.p.A che chiedeva il rigetto del gravame. In
via preliminare, l’appellante affermava tuttavia l’interesse dell’ente ad un riesame dell’indirizzo
giurisprudenziale, formatosi prima che intervenissero per il medesimo “radicali mutamenti
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giuridici”: dal carattere ormai ampiamente concorrenziale dell’attività svolta alla recente quotazione
in borsa del 40% del capitale, disposta con d.p.c.m. del 16 maggio 2014. L’attuale assetto di Poste
Italiane sarebbe, dunque, del tutto svincolato da quel controllo di altre Amministrazioni, che era
stato in precedenza richiamato dalla giurisprudenza come prova di una persistente natura
pubblicistica, ormai completamente superata. La società Poste Italiane S.p.A, in primo luogo, ha
sottolineato la non configurabilità del diritto di accesso ex lege n. 241 del 1990 in capo ai dipendenti
della medesima società, in quanto il regime contrattuale degli stessi non sarebbe funzionalmente
connesso alla gestione del servizio pubblico. Gli atti di gestione dell’imprenditore privato, infatti,
non sarebbero in alcun modo strumentali a detto servizio, costituendo “esclusivamente esercizio
della libertà di iniziativa imprenditoriale, prevista dall’art. 41 della Costituzione e dall’autonomia
negoziale”, di cui agli articoli 1321 e seguenti del codice civile, in corrispondenza al perseguimento
di un interesse privato e non pubblico, come comprovato dalla differenza delle regole,
disciplinatrici del rapporto di lavoro presso pubbliche amministrazioni, pur essendo stato anche tale
rapporto privatizzato, ma con una fitta serie di regole speciali, contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001.
Inoltre ribadiva l’eccezione di incostituzionalità, per ingiusto aggravamento della posizione
dell’Ente rispetto a qualsiasi altro datore di lavoro privato, con oltre 2000 competitors solo sul
territorio nazionale e con titoli quotati sul mercato azionario e si chiede, conclusivamente, di
dichiarare il ricorso proposto in primo grado inammissibile o infondato.
Si costituiva in giudizio il resistente che sottolinea invece il carattere ampio e incondizionato del
diritto di accesso, che non potrebbe essere precluso a soggetti titolari di un interesse qualificato,
come dipendenti dell’Ente. Anche una delibera (mai impugnata) del CdA di Poste Italiane del 2
giugno 1999 – nel disciplinare i casi di esclusione dal diritto di accesso – non avrebbe considerato
istanze, come quelle di cui si discute nel caso di specie, non avallando quindi (in conformità a
giurisprudenza consolidata) la totale sottrazione, che ora si vorrebbe introdurre, del rapporto di
lavoro dall’ambito di riferibilità del diritto in questione. La stessa giurisprudenza ha peraltro
ribadito, al riguardo, come l’accesso sia anche svincolato dalla proposizione effettiva di un giudizio,
dovendosi avere riguardo solo per l’esistenza di una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento, al quale si chieda di accedere. L’attività di Poste Italiane, relativa alla gestione del
rapporto di lavoro con i propri dipendenti, infine, dovrebbe in ogni caso ritenersi strumentale al
servizio pubblico fornito dall’Ente, in quanto non certo estranea alla qualità del servizio stesso.
In vista dell’udienza di discussione le parti hanno depositato memorie.
All’udienza pubblica del 9 dicembre 2015, uditi i patrocinatori delle parti, la causa è stata trattenuta
in decisione.
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I giudici di Palazzo Spada, respingendo l’appello, hanno dichiarato che la società Poste Italiane
S.p.A. è soggetta alla disciplina, di cui gli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241,
con riferimento al pubblico servizio di cui è affidataria ed il diritto di accesso è esercitabile dai
dipendenti della medesima società, limitatamente alle prove selettive di accesso, alla progressione
in carriera ed ai provvedimenti di auto-organizzazione degli uffici, incidenti in modo diretto sulla
disciplina, di rilevanza pubblicistica, del rapporto di lavoro.
3. I destinatari delle norme sul diritto di accesso
La questione sottesa alla pronuncia in commento, evidenzia vari caratteri del diritto di accesso e del
suo ambito applicativo a determinati soggetti di diritto privato. A ben vedere, è utile ricordare come
il diritto di accesso viene introdotto come istituto a carattere generale con la legge 7 agosto 1990, n.
241, sul modello della disciplina esistente da tempo nell’ordinamento statunitense e in alcuni paesi
nordici. In passato, nel nostro ordinamento l’accesso trovava riconoscimento in alcune legislazioni
di settore, come la legge 27 dicembre 1985, n. 816 che permetteva ai cittadini la visione dei
provvedimenti adottati dalle Amministrazioni locali, dalle aziende speciali degli enti territoriali e
dalle unità sanitarie locali. Come dimenticare anche la legge 8 luglio 1986, n. 349, che nell’istituire
il Ministero dell’Ambiente, garantiva a tutti i cittadini il diritto di accedere alle informazioni sullo
stato dell’ambiente disponibili.
La sentenza in commento, in realtà, ci pone una questione molto intricata, ossia nella categoria dei
destinatari delle norme sul diritto di accesso rientrano anche le società che offrono servizi pubblici?
I destinatari delle norme sul diritto di accesso sono specificati nell’art. 23, legge n. 241/1990. Difatti
è possibile rilevare con molta facilità i soggetti che ne sono indiscutibilmente sottoposti perché
appartenenti alla P.A. e quelli che suole definirsi “concessionari di pubblici servizi”. In realtà già
con la legge n. 265/1999 tale categoria veniva estesa attraverso il dettato dell’art. 4 della legge
medesima, in quanto l’ambito di applicazione del diritto comprendeva anche i gestori di pubblici
servizi.
L’asse definitorio si spostava, pertanto sull’attività svolta e non su un precipuo dettato letterale della
norma: è chiara l’irrilevanza della forma giuridica dei soggetti a cui è destinata l’applicazione del
diritto, essendo sufficiente che l’attività svolta appartenga alla grande categoria dei “servizi
pubblici”.
A ben vedere l’art. 23 è connesso alla definizione di “pubblica amministrazione” di cui all’art. 22,
lett. E), ovvero l’insieme di “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alle loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
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comunitario”. I due articoli vanno quindi adeguatamente raccordati e questo potrebbe creare
qualche problema dovendo inquadrare chiaramente la competenza del diritto d’accesso fuori dalla
P.A. in senso stretto. Tale assunto rispecchia praticamente quello che al T.A.R. dell’Emilia
Romagna è accaduto nell’affrontare tale questione. Il comma 4 dell’art. 23 limita difatti la
possibilità di accedere alle informazioni in possesso di una pubblica amministrazione se non hanno
forma di “documento amministrativo”. In tale contesto normativo le società pubbliche sono state
inizialmente interessate mediante l’attività ermeneutica (Cons. Stato, Ad. Plen. 22 aprile 1999, n. 4
e successive pronunce, in ampia prevalenza conformi) ma poi anche espressamente con le
modifiche alla citata legge n. 241/1990 apportate dall’art 1, legge n. 15/2005, che ha aggiunto il
comma 1 ter all’art. 1 (soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative), ma
soprattutto dalla norma speciale dedicata alle società con totale o prevalente capitale pubblico: l’art.
29, comma 1, secondo periodo, come modificato dall’art. 10, legge n. 69/2009. Questo genere di
società sono quindi equiparate alle amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali, seppure
“limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative”.
A parer di chi scrive, va comunque evidenziato che dal punto di vista soggettivo la disposizione
dell’art. 1, comma 1 ter, si presta ad essere applicata ai soggetti formalmente e sostanzialmente
privati; ai soggetti per i quali la legge opera una riqualificazione in senso pubblicistico in relazione
a determinate attività (ad esempio attraverso l’inquadramento degli stessi come “organismi di diritto
pubblico” ai sensi dell’art. 3, comma 26, D. Lgs. n. 163/2006); ai soggetti formalmente privati, ma
sostanzialmente pubblici, ovvero ai soggetti per i quali la giurisprudenza, sulla scorta della
promiscuità societaria, non si esime dall’operare una vera e propria riqualificazione tout court in
senso pubblicistico. È il caso ad esempio delle Poste italiane S.p.A.
Inoltre, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale comunitario e nazionale che qualifica tale
tipologia di soggetti come organismo di diritto pubblico, una volta riconosciuta esistente un ramo
dell’attività svolta da un ente, deve considerarsi estesa anche ai restanti contesti nei quali lo stesso
ente opera, come è stato rilevato in sentenza la c.d. teoria del contagio (Corte di Giustizia, sentenza
15 gennaio 1998, causa 44/96 Mannesman, i cui principi sono sostanzialmente ribaditi nella
sentenza della medesima Corte 10 maggio 2001, cause riunite C-229 e 260/99, Ente Fiera di
Milano).
Pertanto, volendo sintentizzare il concetto, il diritto di accesso opera senza dubbio quando la società
è partecipata totalmente o in maggioranza da parte di enti pubblici. Fuori da questa situazione va
accertata l’attività svolta, indipendentemente dalla partecipazione pubblica al capitale della società:
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se si tratta di un servizio pubblico, ovvero di attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto
nazionale o comunitario, il diritto di accesso compete in generale a tutta l’attività svolta con
riferimento ai “documenti amministrativi”, ossia quegli atti che originano da attività
procedimentalizzate destinate a concludersi con l’adozione di un vero e proprio provvedimento
amministrativo. È il caso ad esempio di quelle attività poste in essere da un soggetto privato tenuto
ad adottare procedimenti concorsuali per l’assunzione di dipendenti da adibire allo svolgimento di
un servizio pubblico.
4. Causa est, quia in iudicium…
Rintracciare il ragionamento dei giudici di palazzo spada è un compito molto arduo anche se
entusiasmante dal punto di vista della ricerca della “verità del diritto”. Difatti la rimessione
all’Adunanza plenaria era stata stabilita dalla sez. III del Consiglio Stato, con ordinanza n. 4230 del
10 settembre 2015 (e, prima ancora, dal Consiglio di Stato sez. III, con l’ordinanza del 28 agosto
2015, n. 4028 e con l’ordinanza del 26 agosto 2015, n. 4018), che aveva posto la questione se la
disciplina dell’accesso ai documenti si applica anche ai rapporti fra la società Poste Italiane S.p.A e
i suoi lavoratori dipendenti, quali che siano il loro livello e il ramo di servizio cui sono addetti, non
sussistendo un rapporto di connessione tra gli atti oggetto di ostensione ed il servizio di pubblico
interesse svolto dalla società Poste. La stessa sezione aveva messo in dubbio l’indirizzo
giurisprudenziale, iniziato con la pronuncia 22 aprile 1999, n. 4 dell’Adunanza plenaria e poi
confermato dalle successive decisioni sulla possibilità di proporre l’accesso ai documenti nei
confronti di soggetti privati affidatari di pubblici servizi. Nell’occasione era stato evidenziato che la
natura privata dell’Ente Poste e del rapporto di lavoro dei relativi dipendenti poteva far considerare
che non tutta l’attività svolta ed i rapporti in essere fossero funzionalmente connessi alla gestione
del servizio; dovrebbe, anzi, ritenersi che l’obbligo di trasparenza, cui risponde l’istituto
dell’accesso, non sia riferibile ai “rapporti giuridici privatistici diversi, da quelli nei quali il
soggetto che chiede l’accesso si presenti e si qualifichi come utente…o comunque come portatore di
un interesse (anche diffuso) al servizio pubblico in quanto tale”. Per mezzo della l. n. 241 del 1990,
in altre parole, sarebbero state estese “al cittadino/utente (ossia al destinatario dell’attività della
p.a. quale erogatrice di servizi) quelle tutele, che primariamente erano state escogitate a tutela del
cittadino/amministrato (ossia al destinatario dell’attività della p.a. quale fonte di atti autoritativi)”.
A ben vedere l’esclusione non si estenderebbe, però, al caso in cui il rapporto fra il soggetto che
chiede l’accesso e il privato gestore del pubblico servizio fosse di altro tipo, come ad es. di rapporto
di lavoro subordinato, senza alcuna incidenza di profili pubblicistici e con piena possibilità di tutela
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innanzi al giudice ordinario. Non sarebbe dunque giustificato il diverso trattamento dei lavoratori
dipendenti di un soggetto privato, a seconda del fatto che quest’ultimo sia o meno, occasionalmente,
gestore di un pubblico servizio.
Secondo l’impostazione dei giudici de quo il superamento della pronuncia n. 4 del 1999
dell’Adunanza plenaria risiederebbe nella nuova formulazione dell’art. 22, l. 7 agosto 1990, n. 241
che, nel testo antecedente la novella introdotta dall’art. 15, comma 1, l. 11 febbraio 2005, n. 15,
non delineava dei “limiti”, che ora delimitano l’accesso con riferimento all’attività dei soggetti
privati, chiamati a svolgere funzioni di interesse pubblico (pubbliche amministrazioni sono “tutti i
soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse, disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”).
L’Adunanza plenaria in questa occasione ha rilevato innanzitutto che la società Poste Italiane S.p.A
può essere qualificata come “come organismo di diritto pubblico”, come definito dall’art. 3, comma
26, d.lgs. n. 163 del 2006 (sul punto v. Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2001, n. 1206 e 24 maggio 2002,
n. 2855; id., sez. III, 27 maggio 2014, n. 2720). Come è stato già rilevato in precedenza ed
affermato anche dall’Adunanza, l’organismo di diritto pubblico si fonda sulla «rilevanza degli
interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali – anche qualora la gestione fosse produttiva di
utili – non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, da intendere come possibilità
di condizionamento aziendale, anche in termini di scelta maggioritaria degli amministratori,
chiamati a perseguire determinati obiettivi di qualità del servizio».
L’Alto Consesso rileva inoltre che «la qualificazione di Poste Italiane S.p.A. come organismo di
diritto pubblico è fattore che rende pacifica l’estensione a detta società delle norme in tema di
accesso, ma non chiarisce i limiti, entro cui l’attività societaria deve ritenersi di “pubblico
interesse”».
Fatta questa premessa, l’Adunanza plenaria chiarisce che «il diritto di accesso ai documenti è
esercitabile dai dipendenti della società Poste Italiane S.p.A. limitatamente alle prove selettive di
accesso, alla progressione in carriera ed ai provvedimenti di auto-organizzazione degli uffici,
incidenti in modo diretto sulla disciplina, di rilevanza pubblicistica, del rapporto di lavoro».
Per quanto concerne il rapporto di lavoro – strumentale a tutte le attività svolte dalla società – i
giudici nel caso de quo sostengo che «gli obblighi di trasparenza appaiono coerentemente
suscettibili di delimitazione, con riferimento al combinato disposto degli artt. 11, comma 3, d.lgs. n.
33 del 2013 (ambito soggettivo degli obblighi di trasparenza), 1, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001
(ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in tema di organizzazione
degli uffici e di ottimale utilizzazione delle risorse umane) e 1, comma 16, l. n. 190 del 2012;
disposizioni, queste, che consentono di circoscrivere l’accesso ai settori di autonoma rilevanza
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pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto di lavoro), ovvero alle prove selettive per
l’assunzione del personale, alle progressioni di carriera e a provvedimenti attinenti l’autoorganizzazione degli uffici, quando gli stessi – benchè doverosamente ispirati a tutti i principi, di
cui all’art. 24 del già citato d.lgs. n. 150 del 2009 – incidano negativamente sugli interessi dei
lavoratori, protetti anche in ambito comunitario (ad esempio, in tema di mobilità, o di
stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari)».
Su tali premesse di principio l’Adunanza plenaria respingendo l’appello ha considerato che nella
situazione sottoposta al suo esame l’accesso agli atti richiesti è ammissibile, in quanto attinenti a
procedura selettiva di avanzamento, soggetta alle ricordate regole di imparzialità e trasparenza.
5. Conclusioni
In conclusione, è necessario rilevare come il Consiglio di Stato ha assunto da tempo un approccio
molto ampio in merito alla questione che si discute in questo scritto, adottando intensamente quel
criterio del “contagio” di cui si è fatto accenno.
In tal senso, il giudice amministrativo considera, infatti, che il diritto di accesso possa essere
esercitato anche sulle altre attività dei gestori di pubblici servizi, ricomprendendole, di fatto, quasi
tutte, non escludendo nemmeno le “attività residue”. In realtà questa impostazione secondo cui «la
legge consente l’accesso alle loro (gestori/concessionari di pubblico servizio) attività di interesse
pubblico, anche se sottoposte in tutto o in parte alla disciplina sostanziale del diritto privato; gli
interessi collettivi meritano una identica tutela quando è gestito un servizio pubblico, poco
importando sotto tale aspetto se esso sia svolto da un soggetto pubblico o da un privato in regime di
mercato e di concorrenza o di esclusiva (il che fa risultare al pubblico un vero e proprio alter ego
dell’amministrazione)» (Cons. Stato, Ad. Plen. 1999, n. 4 e 5) è stata superata con la decisione in
commento, in forza della quale «per quanto riguarda il rapporto di lavoro – strumentale a tutte le
attività svolte – gli obblighi di trasparenza appaiono dunque coerentemente suscettibili di
delimitazione, con riferimento al combinato disposto degli articoli 11, comma 3, del d.lgs. n. 33 del
2013 (ambito soggettivo degli obblighi di trasparenza), 1, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001
(ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in tema di organizzazione
degli uffici e di ottimale utilizzazione delle risorse umane) e 1, comma 16 della già ricordata legge
delega n. 190 del 2012: disposizioni, quelle appena richiamate, che consentono di circoscrivere
l’accesso ai settori di autonoma rilevanza pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto
di lavoro), ovvero alle prove selettive per l’assunzione del personale, alle progressioni di carriera e
a provvedimenti attinenti l’auto-organizzazione degli uffici, quando gli stessi – benché
doverosamente ispirati a tutti i principi, di cui all’art. 24 del già citato d.lgs. n. 150 del 2009 –
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incidano negativamente sugli interessi dei lavoratori, protetti anche in ambito comunitario (ad
esempio, in tema di mobilità, o di stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari)».
Pertanto in conclusione è sufficiente che si manifesti un interesse pubblico prevalente rispetto a
quello imprenditoriale, sulla base di un giudizio di bilanciamento. Tale giudizio dovrà tenere conto
del pubblico servizio in concreto svolto e della strumentalità rispetto ad esso, dell’attività oggetto
della domanda di accesso.
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