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anno VIII
numero 73/74
aprile/maggio 2011
CINEMA ROCK
Qualche anno fa a carnevale mi vestii da
Frank–n–Furter, lo scienziato bisex e travestito
di Rocky horror picture show, il mitico film
del 1975 pieno di musica, trasgressione e
travestimenti. Un’opera che esce mentre intorno
incalza il glam, sintonizzata alle rivoluzioni
sessuali in corso, precorritrice di tempi e modi
che avrebbero animato gli anni a venire.
Potenza del cinema capace di congelare il senso
del tempo e di renderlo immortale.
Non dimenticherò mai, ad esempio, uno di quei
mitici film con i cantanti famosi, genere lanciato
da Elvis, che arrivò anche in Italia con il nome di
musicarello. Beh, in un film con Little Tony c’è
lui che va a Londra in pieno periodo swinging,
tra le varie vicissitudini ad un certo punto finisce
nel pieno di una festa psichedelica, e lì dove tutto
stava succedendo ti accorgi che l’Italia viveva
ancora nel suo mesozoico musicale.
Oppure basta vedere i film documentario su
Woodstock e Gimme Shelter sul concerto ad
Altamont dei Rolling Stones. In un anno, il
‘69, una generazione, un movimento nasce e
muore, l’amore celebrato da Woodstock viene
spazzato via dalla violenza degli Hells Angels
documentata in Gimme Shelter. Due pellicole
meglio di ogni articolo o libro sono capaci di
sintetizzare una rivoluzione e un cambio epocale.
E pur non essendo un appassionato, potrei
continuare a lungo elencando cose che ho visto
e che mi hanno fatto capire molto della musica,
della sua storia e di come siamo adesso.
Un rapporto, quello tra rock e cinema, capace di
raccontare il secolo scorso, di restituircelo oggi
con gli occhi dei suoi protagonisti, di travalicare
la musica e farsi simbolo dei cambiamenti
o semplicemente specchio della vitalità di
quegli anni. Ed è per questo che abbiamo
voluto dedicargli questo numero cercando di
esaminarne le varie forme e raccontarvi qualche
storia. L’argomento è vastissimo e pieno di
sfaccettature e definizioni di genere, noi ve ne
regaliamo solo un’introduzione, un assaggio, una
sorta di aperitivo per stuzzicare la vostra fame di
conoscenza musicale.
E poi ce n’è per tutti i gusti. Abbiamo le interviste
ad artisti internazionali (Sara Lov) e di casa
nostra (Mannarino, Paolo Benvegnù, Musica
Nuda) le recensioni di dischi, libri e gli eventi.
Buona lettura
Osvaldo Piliego
Editoriale 3
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Via Vecchia Frigole 34
c/o Manifatture Knos
73100 Lecce
Telefono: 0832303707
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Anno 8 Numero 73-74
aprile - maggio 2011
Iscritto al registro della
stampa del tribunale di Lecce
il 15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Cesare Liaci, Antonietta
Rosato, Dario Goffredo,
Pierpaolo Lala, Tobia
D’Onofrio
Hanno collaborato a questo
numero: Giancarlo Susanna,
Lori Albanese, Alfonso
Fanizza, Roberta Cesari, Lucio
Lussi, Giuseppe Arnesano,
Nino G. D’Attis, Pierpaolo
Rizzo, Daniele Coluzzi, Marco
Chiffi, Al Miglietta, Ofelia
Colaci, Dino Amenduni, Laura
Casciotti, Rossano Astremo.
In copertina: Leningrad
Cowboys
Ringraziamo Manifatture
Knos, Officine Cantelmo,
Cooperativa Paz di Lecce,
Laura Casciotti e le redazioni
di Blackmailmag.com, Radio
Popolare Salento, Controradio
di Bari, Mondoradio di
Tricase (Le), Ciccio Riccio
di Brindisi, L’impaziente di
Lecce, quiSalento, Lecceprima,
Salento WebTv, Radiodelcapo,
Musicaround.net,
Salentoconcerti.com, Radio
Venere e Radio Peter Pan.
Progetto grafico
erik chilly
Impaginazione
dario
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione con il
benestare del Professore
Per inserzioni pubblicitarie e
abbonamenti:
[email protected]
3394313397
CINEMA ROCK
E il cinema diventò musica 6
The Beatles in the movies 10
Quando la musica brucia lo schermo 12
Jesus Christ Superstar 16
musica
Sara Lov 18
Mannarino 20
Recensioni 27
Salto nell’indie - White Zoo 42
Libri
Alessandro Bertante 44
Dado Minervini 46
Recensioni 48
Cinema Teatro Arte
Emilio Solfrizzi 56
Festival del Cinema Europeo 58
Eventi
Calendario 60
sommario 5
6
E IL CINEMA
DIVENTÒ MUSICA
Intervista a Roberto Curti, autore di Rock-o-Rama
In questo nostro viaggio alla scoperta della liaison amoureuse tra cinema, immagini e musica
non potevamo non parlare con Roberto Curti
giornalista che collabora con il dizionario Mereghetti, Blow Up e Nocturno Cinema. Ha pubblicato diversi libri tra cui Rock-o-rama (Tuttle
edizioni) volume che percorre le varie contaminazioni tra rock e cinema. Una guida utile non
solo per capire e approfondire alcune delle pellicole più vivide nel nostro immaginario ma anche
per scoprirne di nuove e inedite.
In quanti modi e in quali forme il rock diventa film o interviene nell’universo cinematografico? Quanti “generi” riconosci?
Per inquadrarli meglio, permettimi un breve
(spero) excursus storico. Inizialmente il cinema si appropria del rock’n’roll come attrazione,
utilizzata ancora ambiguamente in film degli
anni ’50 come Il seme della violenza, dove Rock
Around the Clock è la colonna sonora di una vicenda di violenza giovanile. I primi divi del r’n’r
come Elvis vanno a Hollywood e un po’ si ammorbidiscono. Ma la prima vera rivoluzione arriva con i film di Richard Lester sui Beatles, Tutti
per uno e Aiuto!: è il cinema che si piega alle icone pop e non viceversa. Un altro passo importante è il documentario, che poi diventerà film concerto. Ancora i Beatles protagonisti con lo storico documentario girato da Albert Maysles, poi
tocca a Bob Dylan (Dont Look Back), ai Rolling
Stones, l’evento Woodstock eccetera. I Settanta
sono l’era delle opere rock, come Tommy, dei film
concerto un po’ pretenziosi come quelli dei Pink
Floyd a Pompei e The Song Remains the Same,
di ibridi folli come Il fantasma del palcoscenico
di De Palma, che è un misto tra horror e musical
rock… Con il punk va tutto di nuovo all’aria, con
pellicole permeate di spirito ribellista e anarchico (Jubilee, il discusso The Great Rock’n’Roll
Swindle, le pellicole legate alla no wave newyorchese) tanto nei contenuti quanto nella forma. E
col punk nasce una generazione di cineasti molto
interessanti (alcuni nomi: Julien Temple, Alex
Cox, Amos Poe, Jim Jarmusch…) che nei loro
film, anche non strettamente musicali, intrecceranno un rapporto strettissimo con la musica.
Con gli ’80 e il crescente business degli lp con le
colonne sonore e la nascita di MTV assistiamo
a un uso del rock come mezzo di marketing potentissimo (penso ai videoclip con immagini del
film, es. il successo di The Breakfast Club anche
grazie al popolarissimo pezzo dei Simple Minds,
Don’t You), e come presenza abituale nei film al
punto da sorreggere la narrazione o reinventarla. C’è poi il biopic, genere vecchio come il cinema, che negli ultimi anni si è dedicato spesso a
icone rock (Darby Crash, Ian Curtis, la scena
di Manchester, Dylan, Lennon ecc.ecc.). E oltre
a ciò, vi sono registi come Jarmusch, Jonathan
Demme, lo stesso Martin Scorsese che si dividono tra cinema narrativo e documentari rock, artisti che diventano registi di se stessi come Neil
Young o Prince, film d’animazione, documentari
celebrativi o commemorativi, finti documentari,
addirittura ibridi come 9 songs di Winterbottom,
che è in sostanza un film concerto intervallato da
scene hard non simulate… Insomma, il rock al
cinema è ormai un universo nell’universo.
La musica è parte integrante di tutti i film
ma a volte è come se oltrepassasse un confine diventando protagonista della pellicola
e più potente forse delle immagini. Cosa ne
pensi?
Certo, penso ai brani di Morricone per Leone, o
all’uso straordinario che Kubrick fa di composizioni classiche come il valzer di Strauss che accompagna le evoluzioni delle astronavi in 2001.
La musica dona alle immagini un che di trascendente, fa sì che esse si imprimano a fondo
nella memoria, e talvolta le carica di ulteriori
significati. Non è un discorso che vale solo per
le colonne sonore di grandi compositori. Con un
regista in grado di valorizzarlo, anche un pezzo rock diventa quel qualcosa in più che rende
CINEMA ROCK 7
una buona scena un momento indimenticabile.
Tre esempi sparsi: Won’t Get Fooled Again degli
Who utilizzata da Spike Lee in S.O.S.-Summer
of Sam, Needle in the Hay di Elliott Smith nella
scena del tentato suicidio di Luke Wilson nei
Tenenbaum di Wes Anderson e il drone degli
Earth nell’ultimo film di Jarmusch The Limits
of Control.
A volte invece alcune rock star entrano nel
cinema con dei piccoli cammei in cui magari suonano un brano. Quali ricordi come i
più significativi?
Un cammeo che amo molto è quello di Joe
Strummer, che in Ho affittato un killer di Aki
Kaurismaki suona Burning Lights in un bar,
accompagnandosi con la chitarra. È molto simpatica l’apparizione di Bruce Springsteen in Alta
fedeltà, come spirito guida del protagonista John
Cusack: peccato che nella versione italiana abbiano doppiato il Boss. Una bestemmia! E poi c’è
quel capolavoro di The Blues Brothers, che è un
fuoco di fila di apparizioni di grandi bluesmen e
artisti soul…
Il cinema diventa molto spesso documentario che racconta il rock. Un modo per consegnare alla storia figure, momenti, grandi
concerti. Quali sono i tuoi preferiti e perché?
Amo molto Dont Look Back (1967) di Pennebaker, che segue la tournee londinese di Dylan nel
suo periodo di maggior fulgore. È un documentario non certo celebrativo, all’insegna del realismo
più assoluto: Dylan è scostante, antipatico, circondato dal caos e da loschi figuri. Però Pennebaker ne coglie la genialità: c’è una scena da brividi
in cui Dylan e Donovan strimpellano insieme in
una stanza d’albergo. Donovan, all’epoca famosissimo in Uk, fa sentire a Dylan una delle sue
canzoni, Dylan lo ascolta, gli dice “bravo”. Poi
prende la chitarra e suona un pezzo nuovo, It’s
All Over Now, Baby Blue. E negli occhi di Donovan vedi la consapevolezza di essere di fronte
a un genio e al tempo stesso la coscienza della
propria mediocrità.
Un altro documentario eccezionale è Gimme
Shelter, del 1970, che doveva essere una celebrazione dei Rolling Stones impegnati in un mega
concerto ad Altamont, la loro risposta a Woodstock. Solo che l’organizzazione è un disastro,
e come servizio d’ordine vengono ingaggiati gli
Hell’s Angels, che cercano la rissa col pubblico. E
alla terza canzone, mentre Jagger canta Under
My Thumb, ci scappa il morto. Un tizio viene accoltellato proprio davanti al palco, e la cinepresa
8
CINEMA ROCK
coglie quell’attimo. È la fine di un’era, il mito del
peace & love si dissolve, e il cinema lo registra
implacabile.
Ci sono poi i film con le canzoni che vedono
rock o pop star improvvisarsi attori. Film
in cui le storie sono la cornice in cui inserire i brani degli artisti come videoclip. Come
nasce il fenomeno e come si sviluppa?
Uno dei primissimi esempi è Gangster cerca
moglie (1956), una divertente commedia dove le
esibizioni di Gene Vincent, Little Richard e altri
punteggiano la vicenda. Anche i film con Elvis
(come Il delinquente del rock and roll) seguono
uno schema simile, e la sequenza in cui il Re
canta Jailhouse Rock è già un video clip ante
litteram. Poi, come detto, arrivarono i Beatles…
ma ci sono anche esempi bizzarri come Sadismo
(1970) di Donald Cammell e Nicolas Roeg, che
è la storia di un gangster che si rifugia in casa
di una rockstar (Mick Jagger), dando vita a uno
strano rapporto: un film sperimentale e ostico,
che contiene una sequenza allucinatoria in cui
Mick Jagger canta Memo from Turner, che è un
vero e proprio videoclip. E gli esempi potrebbero
continuare…
A proposito di videoclip. Alcuni sono veri
e propri minifilm, altri vedono alla regia
nomi importanti, altri grandi attori…
Qui entriamo in un altro universo, che comunque è permeabile con il cinema. Registi celebri
si sono misurati con i video (anche se non sempre con successo: penso a Dancing in the Dark di
Springsteen diretto da Brian De Palma, Fotoromanza della Nannini, di Michelangelo Antonioni) e viceversa nomi importanti si sono fatti le
ossa con i video, da David Fincher a Mark Romanek a Michel Gondry, che ha diretto alcuni dei
più bei video di sempre…
E poi ci sono i musical in cui oltre al canto e alla musica interviene la danza. Alcuni hanno segnato il costume e la società in
modo dirompente. Cosa ne pensi?
Molto prima del rock, i musical hollywoodiani
erano fenomeni di costume e straordinari esempi
di invenzione formale (penso alle coreografie di
Busby Berkeley). In più, molti musical teatrali
sono stati portati sullo schermo: Jesus Christ Superstar, Hair, The Rocky Horror Picture Show...
quest’ultimo un vero fenomeno di culto, con le
proiezioni nei cinema trasformate in happening
dove gli spettatori rifacevano quanto accadeva
sullo schermo.
Da dove nasce l’idea del tuo libro?
Dall’amicizia con Stefano Isidoro Bianchi, direttore del mensile “Blow Up – rock e altre contaminazioni” a cui collaboro, e a sua volta grande
appassionato di cinema. Una volta deciso di
scrivere Rock-o-rama abbiamo capito che l’idea
poteva funzionare anche per una rubrica fissa
su cinema e rock all’interno della rivista, intitolata Blow Out, e caratterizzata da un approccio
un po’ anomalo. In quel preciso momento abbiamo capito che c’era anche parecchio materiale
per un libro.
Oltre ad alcuni titoli celebri poni l’accento
su pellicole quasi sconosciute. Ce ne citi
qualcuno e ci spieghi il perché della tua
scelta?
Mi divertiva l’idea di spiazzare e incuriosire il
lettore, e al tempo stesso avevo voglia di parlare di film poco conosciuti eppure degni di interesse, e comunque significativi nell’ambito
dell’analisi del rock in rapporto al cinema. E
per fare tutto ciò, ho utilizzato una struttura a
schede non più lunghe di due o tre pagine l’una,
più agili e facili da leggere, con spazio all’aneddotica e ad annotazioni storiche e di costume.
Un manuale da consultare con il sorriso sulle
labbra piuttosto che una ponderosa trattazione
saggistica. Dovevano essere 100 titoli, ne abbiamo lasciato uno in più. Come il macellaio che
fa porzioni abbondanti e poi ti dice “Che faccio,
lascio?”. Con un’avvertenza: non è un libro sui
“migliori” 101 film rock di ogni tempo. Tutt’altro. Ho voluto scrivere un libro che rispecchiasse i miei gusti (per cui, ad esempio, no a Jesus
Christ Superstar, sì ai documentari sulla scena
punk di L.A.), evitando però di mettere assieme solo “bei” film ma lasciando spazio anche a
prodotti magari brutti ma comunque interessanti per i motivi di cui sopra. Alcuni titoli: The
World’s Greatest Sinner (1962), unica regia del
caratterista Timothy Carey, storia di un predicatore-rockstar adorato come un Messia, che
punta alla Casa Bianca; Orfeo 9 (1973) di Tito
Schipa jr., prima opera rock italiana (e non solo)
con Loredana Berté e Renato Zero; Kiss Phantoms (1978), il demenziale film con protagonisti
i Kiss; Superstar: The Karen Carpenter Story
(1987) di Todd Haynes, la storia della cantante pop morta per anoressia realizzata esclusivamente con bambole di Barbie e Ken, un film
straordinario e sconvolgente; il giapponese
Electric Dragon 80.000V (2001) di Sogo Ishii, la
storia di un supereroe cyberpunk che si nutre di
elettricità suonando la chitarra elettrica.
Mi segnali un titolo dagli anni 50 ad oggi?
Scelgo un titolo inusuale. Il finlandese Leningrad Cowboys Go America di Aki Kaurismaki,
la storia di un improbabile, scalcagnato gruppo
rock russo che, appunto, va in America a cercare fortuna. Divertentissimo e amarissimo, è un
road movie surreale zeppo di musica, e anche
una visione disincantata del Sogno americano
visto dall’esterno.
Quale futuro immagini per il rock nel cinema?
Vorrei darti una risposta positiva, ma credo che
il cinema stesso sia in forte crisi di idee, almeno quello di largo consumo. Gli spunti più interessanti oggi vengono da progetti indipendenti
come Stingray Sam (2009) di Cory McAbee, che
è un bizzarro serial musicale in sei puntate di
dieci minuti l’una, pensato per essere visionato
su schermi di ogni tipo. Nell’era di YouTube e
della fruizione del cinema a spizzichi e bocconi,
magari in viaggio, su un dispositivo tascabile,
mi sembra un’idea geniale.
Osvaldo Piliego
THE BEATLES
IN THE MOVIES
Quando diciamo che l’esperienza dei Beatles
è ancor oggi valida e interessante da molti
punti di vista non è per partito preso o per
un’acritica adesione al loro “fan club” planetario.
I Beatles hanno lasciato un segno in ogni
settore della comunicazione ed è chiaro che
il cinema non poteva mancare e costituire
quindi un’eccezione. Quella dei film musicali
– perché di questo si trattò, almeno all’inizio –
era inoltre per loro un’eredità un po’ scomoda,
un lascito degli anni ’50, e di Elvis Presley in
modo particolare. I quattro “boys”, che stavano
attraversando l’incredibile tornado mediatico
che la stampa inglese definì con un termine felice
“Beatlemania”, facevano gola a molti uomini
d’affari e accettarono di sottoscrivere la proposta
di contratto che la United Artists aveva fatto a
Brian Epstein. Non posero condizioni che non
riguardassero la qualità dei film cui avrebbero
10 CINEMA ROCK
dovuto prender parte, ma forse in quel momento
non si rendevano neppure conto che erano già
arrivati (e che ci sarebbero rimasti per sempre)
al “toppermost of the poppermost”, come diceva
sempre John. Nessuno avrebbe opposto un
rifiuto alle loro richieste, ma neppure Epstein
aveva l’esatta percezione di quello che stava
succedendo e chiese, come si scoprì parecchi anni
dopo, una cifra nettamente inferiore a quella che
la United Artists era pronta a concedere senza
battere ciglio.
A HARD DAY’S NIGHT
La travolgente sequenza dei titoli di testa di A
Hard Day’s Night, affidati all’amico fotografo
Robert Freeman, con un’orda di fans scatenate
a caccia dei quattro “ragazzi” nella stazione
londinese di Marylebone, rende perfettamente
quello che stava accadendo in Inghilterra (e
negli USA) nei primi mesi del 1964 ed è anche il
biglietto da visita del regista americano Richard
Lester. L’idea di fondo dello sceneggiatore Alun
Owen – nonostante l’apparente spontaneità delle
battute e delle situazioni lo script era costruito con
grande abilità - era quella di costruire una fiction
aderente alla realtà. Basta rivedere i documenti
filmati durante le vere conferenze stampa o
i veri spostanenti dei Beatles e confrontarli
con A Hard Day’s Night per constatarne la
riuscita. Girato in un bel bianco e nero nell’arco
di due mesi negli studi di Twickenham, nel
Middlesex (per gli interni), e in varie location
intorno a Londra (per gli esterni), il film resta
il migliore nella frenetica storia del quartetto.
Sorprende tuttora la freschezza noncurante dei
“boys”: non erano attori professionisti, ma non
sembravano imbarazzati di fronte alle cineprese
e a una troupe che comprendeva veterani come
Wilfrid Brambell (il pestifero nonno di Paul) o
Victor Spinetti (il nevrotico regista tv). Della
musica è quasi inutile parlare: è semplicemente
superlativa e comunica una gioia di vivere e
un’energia incontenibili. P.S. Il titolo – “La sera
di una giornata difficile” – pare fosse farina del
sacco di Ringo, anche se nel primo libro di John,
pubblicato il 23 marzo del 1964, c’è un racconto,
Sad Micheal, in cui il protagonista “quel giorno
aveva avuto una sera di una giornata difficile”.
HELP!
Visto il successo di Tutti per uno (questo il
titolo italiano del loro primo film), la macchina
della United Artists si rimise in moto con un
investimento molto più consistente: si passò
dai 500.000 dollari di A Hard Day’s Night al
milione e mezzo di Help!. La storia è più debole
della “docufiction” di A Hard Day’s Night, ma
tutto sommato è abbastanza divertente. Grosso
modo come può esserlo una storia a fumetti,
con i “thugs” cattivi di salgariana memoria e un
Ringo ancora più buffo, impacciato (e bravo). I
Beatles sono sempre di corsa e sempre in fuga
– dall’Austria alle Barbados – ma in questa
bizzarra disavventura in technicolor in un
primo momento non capiscono neppure perché
rischiano di essere fatti fuori dai seguaci di
Kaili. Forse la sequenza più riuscita è quella
della casa in cui i quattro vivono insieme. Sugli
scaffali di una libreria ci sono soltanto delle
copie di In His Own Write, il già citato libro di
John! Un’altra curiosità riguarda lo stereotipo
indiano, non grave ma comunque bizzarro per
una persona come George Harrison, che avrebbe
dato un contributo decisivo al dialogo tra India
e Occidente anglosassone. Richard Lester e i
Beatles se la cavano anche con un soggetto e una
sceneggiatura non proprio brillantissimi. Quella
che funziona alla grande è – come sempre – la
musica, che diventa più sofisticata senza perdere
un filo di impatto e irruenza.
YELLOW SUBMARINE
Brian Epstein diede il via al progetto di un
cartoon di lunga durata convinto che potesse
servire a chiudere il contratto con la United
Artists. Non era così, ma non abbiamo certo lo
spazio per ricostruire tutta la complessa vicenda
di Yellow Submarine. Ci basterà dire, senza tema
di smentite, che questo film è un capolavoro e che
ha segnato una svolta storica nell’evoluzione dei
cartoni animati. I Beatles non se ne occuparono
molto, ma alla fine dovettero prendere atto della
sua straordinaria bellezza. Si tratta di una fiaba
– così come la canzone del sottomarino giallo
da cui prende spunto è un gioco per i più piccoli
– ma anche di una mirabolante esplosione di
invenzioni grafiche e pittoriche. Onore al merito
di tutta la squadra dei realizzatori, a partire
dal disegnatore di origine ceca Heinz Edelmann
e dall’autore di quasi tutta la storia, il poeta di
Liverpool Roger McGough. La visione di Yellow
Submarine è ancora oggi uno dei modi migliori
per entrare nel mondo dei Beatles e comprendere
la portata del loro lavoro.
LET IT BE
Nelle intenzioni di Paul tutto il progetto di Let
It Be avrebbe dovuto ridare slancio a un gruppo
che ai suoi occhi aveva perso forza e spontaneità.
Il fatto che lui stesso abbia voluto rimettere
mano all’album tirando, fuori dal suo cilindro
un Let It Be Naked abbastanza discutibile, ci
sembra emblematico di una frattura ormai
insanabile. Girato da Michael Lindsay-Hogg con
la tecnica del “cinema verità”, Let It Be contiene
anche la celeberrima performance dei Beatles
sul tetto della Apple. “Speriamo di aver superato
l’audizione”, dice John con il suo abituale sense
of humour. Il film lascia un po’ di amaro in
bocca, ma va comunque visto, sperando che Paul,
Ringo e le vedove di John e George si decidano
finalmente a farlo uscire in DVD.
P.S. Rimandiamo a una “seconda puntata”
un’analisi di Magical Mystery Tour, realizzato
soprattutto da Paul per essere mandato in onda
dalla televisione alla fine del 1967, dei protovideoclip beatlesiani e del divertentissimo All
You Need Is Cash dei Rutles, felice parodia della
storia della band più amata del mondo.
Giancarlo Susanna
CINEMA ROCK 11
QUANDO LA MUSICA
BRUCIA LO SCHERMO
Control e i biopic che ci fanno sognare
Quando l’amore brucia l’anima, così recitava il
titolo italiano di Walk The Line, il film di James
Mangold del 2005 tratto dall’autobiografia del
cantautore americano Johnny Cash. Una delle
solite italiche trovate per aiutare il pubblico
e spingerlo in sala, perché certamente in
pochissimi avrebbero riconosciuto il titolo della
celebre canzone di uno dei musicisti country
più importanti di sempre. Quello su Cash
non è che uno dei tantissimi biopic che hanno
popolato il grande schermo negli ultimi anni. A
volersi addentrare in quel pianeta multistrato,
labirintico, con lo sguardo dell’appassionato,
dell’eccentrico che consuma film e musica in
dosi da sociopatico ci si avventura in un viaggio
impavido e schizofrenico, senza logica temporale,
tra film che documentano, romanzano, o
semplicemente s’ispirano alle incredibili vite
di grandi personaggi della musica. Dal Charlie
Parker raccontato da Clint Eastwood alla Billie
12 CINEMA ROCK
Holiday interpretata da Diana Ross, dal Ray
Charles col volto di Jamie Foxx al Jim Morrison
di Oliver Stone; a volerne tenere il conto non
se ne esce, sono troppi, e di tutti ci sarebbe di
che parlare. Solo nell’ultimo anno sono arrivate
in sala (non in Italia, purtroppo) due pellicole
che ci fanno fremere d’attesa. Una è Serge
Gainsbourg (vie héroïque), il film tratto da una
graphic novel di Joann Sfar, e da lui diretto, per
il quale il protagonista Eric Elmosnino ha vinto
un Cesar come miglior attore. L’altra è Louis, il
silent movie a metà tra documentario e musical
- diretto da Dan Pritzker e musicato da Wynton
Marsalis - sull’infanzia di Louis Armstrong a
New Orleans. Un’esperienza che deve aver molto
appassionato il musicista e regista Pritzker, che
ora sta lavorando a un film su Buddy Bolden,
passato alla storia come l’inventore del jazz. E poi
ci sono biopic già annunciati da qualche anno, ma
ancora in fase di preproduzione, come The Prince
of Cool, il film su Chet Baker per il cui ruolo
Josh Hertnett pare abbia scalzato Leonardo Di
Caprio; quello su Miles Davis, che avrà il volto di
Don Chadle e le musiche orchestrate da Herbie
Hancock; e ancora quelli su Marvin Gaye,
Janis Joplin, Freddy Mercury e John Lennon,
alla cui realizzazione pare che Yoko Ono abbia
dato il suo consenso nei mesi scorsi, convinta
dall’entusiasmo di Brad Pitt, che interpreterà
il ruolo del cantante. Tra vecchi e nuovi, nella
maggior parte dei casi i biopic raccontano storie
e vite piene di blues, in senso musicale, ma
anche inteso come quell’inquietudine atavica,
quella specie di tristezza, l’inestirpabile scheggia
piantata nel cranio o vicino al cuore. Il pensiero
puro della musica, o la sua degenerazione in
loop. Il demone con cui hanno vissuto creature
speciali che la musica ha reso immortali. Su
due di loro vale la pena soffermarsi un po’ più
a lungo, non tanto - o non solo - per il modo in
cui hanno influenzato il corso musicale della
storia, quanto per l’approccio con cui gli autori
ne hanno trasposto la vita sulla schermo.
Su Kurt Cobain, leader dei Nirvana, hanno
lavorato in molti, e adesso anche il regista
premio Oscar David Fincher si prepara a girare
un nuovo film sulla sua storia. Agli ultimi giorni
della vita di Cobain si è ispirato anche Gus
Van Sant per chiudere, nel 2005, la trilogia
della morte iniziata con Gerry e continuata con
Elephant. Nient’altro che un’ispirazione, perché
in Last Days l’associazione tra il protagonista
Blake e il frontman dei Nirvana sta tutta nella
somiglianza del soggetto con l’attore Michael
Pitt - capello biondo lungo e unto, abiti molli e
sdruciti - e in quel senso di disorientamento e
solitudine che precede un gesto folle come quello
compiuto dal leader della band di Seattle nel
’94. Un film ossessivo, scarno, silenzioso, con
pochissimi dialoghi perlopiù surreali e sconnessi;
un film in cui a parlare sono solo le immagini e la
musica, ma dove non c’è nemmeno una nota dei
Nirvana. Attraverso un montaggio atemporale,
una ricerca maniacale della fissità, della
ripetizione, e l’esaltazione del piano sequenza
di cui è maestro, Van Sant consegna la sua
personale visione delle ultime ore di un essere
disperato e fragile, senza indagarne l’emotività,
riportando una dietro l’altra azioni meccaniche
e senza senso. Quello che viene fuori dal film è
quasi sempre un insopportabile freddo, mitigato
da una colonna sonora bellissima, in gran parte
eseguita da Micheal Pitt, che nella vita è anche
leader della band post-grunge Pagoda, e in
cui compaiono anche Venus in Furs dei Velvet
Underground e A Pointless Ride degli Hermitt.
Due brani valgono tutto il film: quello in cui
Blake, chitarra e voce, esegue Death to Birth, e
la jam elettrica in solitudine di That Day.
Da Seattle a Manchester, un salto all’indietro
di quindici anni per raccontare un’altra storia,
quella del leader dei Joy Division Ian Curtis,
nel film di Anton Corbijn Control. Il nome di
Corbijn è strettamente legato a celebri videoclip
di Depeche Mode, Nirvana, U2; ma suo è anche
l’occhio dietro l’obbiettivo di scatti memorabili
come quello che ha immortalato Miles Davis in
una stanza d’albergo di Montreal nell’85, con lo
sguardo fisso, la pupilla dilatata e le mani sulla
faccia; quello della copertina di The Joshua Tree
degli U2, e soprattutto quello che ritraeva i Joy
Division di spalle nel tunnel della metropolitana
di Londra nel ‘79. Uno scatto in cui molti
hanno visto sintetizzata tutta la poetica del
gruppo, e un bianco e nero che Corbijn ha
voluto riportare anche sullo schermo. Alla band
di Manchester e a Ian Curtis, morto suicida a
ventitré anni, il fotografo e regista olandese è
sempre stato legato da qualcosa che andava
molto oltre la pura ammirazione. Quando, nel
2006, ha cominciato a girare Control, Corbijn
ha dichiarato di averlo fatto per chiudere quel
cerchio apertosi trent’anni prima, quando
proprio la musica dei Joy Division gli fece
decidere di lasciare l’Olanda per l’Inghilterra.
E forse è per quel legame così speciale che il
regista è riuscito a cucire un film così delicato e a
descrivere in maniera così semplice i contorni di
una personalità drammatica e romantica, senza
cadere in esasperazioni, e senza alcun desiderio
di mitizzarla. Forse per questo ha messo
tanta attenzione nella scelta del protagonista,
riuscendo a trovare un attore perfetto come Sam
Riley, così somigliante a Curtis da disorientare.
E non solo per l’incredibile vicinanza dei
lineamenti del viso, ma per quella naturalezza
nel restituire i gesti, il modo di fumare,
stringersi nella giacca, tenere il microfono; per
il suo modo di riprodurre i balletti spastici con
cui Curtis metteva in scena sul palco l’epilessia
di cui soffriva. Ma, soprattutto, Riley (che ha
militato a lungo nella band 10,000 Things) ha
cantato con la sua voce i brani dei Joy Division
che fanno parte della colonna sonora del film,
da Dead Souls a Transmission, da Digital a She
Lost Control. E lo ha fatto terribilmente bene.
Tanto da farci sentire una volta di più che la
musica di Ian, la sua insicurezza, il suo sguardo,
ci mancano sempre. Molto.
Lori Albanese
CINEMA ROCK 13
THE WALL
Abbattete quel muro
L’importanza di un film cult come The Wall è
sicuramente da riscontrare nella sua essenza
propriamente musicale. Infatti, mai prima di allora, musica e immaginazione, cartone animato e
azione viva erano stati fusi tra loro in modo così
magistrale. Nonostante la quasi totale assenza di
dialoghi, The Wall non è un musical, ma è un opera-rock di pregevole fattura, un capolavoro filmico
partorito dal quel genio di Roger Waters e reso
possibile dalla regia di Alan Parker e dall’animazione geniale di Gerald Scarfe.
Il film è la degna trasposizione cinematografica
dell’omonimo disco, pubblicato nel 1979 dalla storica band londinese dei Pink Floyd, un film che
trova ancora oggi un significativo riscontro sociopolitico all’interno delle società moderne, nonostante siano trascorsi quasi trent’anni dal suo
debutto cinematografico nelle sale inglesi.
14 CINEMA ROCK
Il film racconta la storia di Pink, interpretato da
un allora sconosciuto Bob Geldof. Cresciuto senza
un padre, scomparso durante la Seconda Guerra
Mondiale, Pink viene tirato su dalla sola madre
che l’opprime con il solito amore edipico materno,
ed educato da crudeli insegnanti che riversano
negli alunni tutta la loro frustrazione. In seguito,
Pink sposa la tranquilla amica d’infanzia e divenuto adulto diventa una famosa rockstar. Sedotto
dalla fama, il protagonista ha sempre più voglia
di attenzione e applausi, un atteggiamento che lo
porterà a isolarsi da tutti anche dalla moglie che
finirà per tradirlo.
Il film inizia con la scena significativa di Pink seduto nella sua stanza d’albergo, fermo a fissare la
tv, la visione di un vecchio film di guerra scatena
in lui i ricordi del passato, avvenimenti rappresentativi della sua vita che daranno il via al suo
lento e inesorabile logorio mentale.
Per il protagonista queste alienanti esperienze
passate rappresentano i “mattoni” essenziali per
la costruzione finale di quel “muro” interiore difensivo attorno ai suoi sentimenti, innalzato per
ripararsi da altre sofferenze. L’accostamento tra
musica e immagini è un fattore essenziale che ritroviamo nelle singole sequenze con sorprendente
simbologia, infatti, le singole immagini avrebbero
poco senso se non accostate a determinate canzoni. Nella prima parte questo è molto evidente:
l’essere cresciuto senza un padre (Another brick
in the wall part. I), una madre morbosa (Mother),
insegnati inappagati e crudeli (The happiest days
of our lives e Another brick in the wall part II),
la fama e le assillanti groupies (Empty spaces e
Young lust) porteranno a quel fatidico ultimo
“mattone” (Another brick in the wall part III) e
alla sua completa estraneazione dal mondo (Goodbye cruel world). Il “muro” è finalmente costruito. Nella seconda parte, cambia tutto. Si scatena
l’immaginifico vagabondare di Pink verso gli ulteriori approdi della sua mente, delle sue paure
e delle sue nevrosi, che lo porteranno ad immaginare di essere un neonazista che parla alla folla
plagiata dal suo carisma. Man mano che le allucinazioni aumentano il distacco dalla realtà diventa sempre più profondo fino a svanire del tutto.
Alla fine, stanco di quest’allucinante situazione
Pink si ribella. Il film termina con una sorta di
processo giudiziario interiore, dove sfilano i testimoni della sua vita passata, coloro che hanno
contribuito a costruire il “muro”. Sentenza finale:
demolire il “muro” prima che lo conduca al totale
degrado mentale. The Wall è un film epocale che
ha fatto la storia del cinema, già all’epoca della
sua uscita ottenne riscontri positivi sia di critica
sia di pubblico, ma venne tacciato di eccessiva
crudezza per la visione di alcune immagini. È un
film dalle diverse sfaccettature e interpretabile
secondo diversi punti di vista. Nel risvolto visivo:
memorabili le figure create da Scarfe, su tutte il
processo di The trial. Nel risvolto autobiografico:
la morte in guerra del padre di Waters, i problemi
dell’educazione scolastica nel periodo delle rivolte
studentesche, la madre iperprotettiva di Syd Barrett. Nel risvolto di osservazione e critica sociale:
l’incomunicabilità nei rapporti di coppia, la rockstar onnipotente e i chiari ed evidenti riferimenti
alla società inglese d’impronta thatchteriana. Infine, il risvolto che rappresenta l’evoluzione della
follia del protagonista, nel quale si intravede un
riferimento a Syd Barrett.
La crisi di Pink è un percorso simbolico, una sorta
di minaccia che incombe su ognuno di noi.
Alfonso Fanizza
CARTOON
ANNI ’80
Dal Giappone arrivano sesso
e rock and roll
Gli anni ottanta, così come gli anni novanta sono sempre stati considerati un periodo
quasi vuoto dal punto di vista prettamente
culturale e sociale, perché compresi tra due
fasce storiche che hanno segnato delle rivoluzioni nei costumi molto forti. Da una parte
gli anni settanta contraddistinti dall’impegno sociopolitico e da una forte lotta contro
i dogmi, e dall’altra il secolo della tecnologia,
dell’alienazione e degli avatar. E nel mezzo?
Appunto gli anni ottanta nel loro senso più
esteso. Né carne né pesce? Forse no, quanto meno possiamo con certezza affermare
che convenzionalmente indicano gli anni dei
cartoni animati. Quelli veri. Quelli sportivi,
ma anche quelli derivanti dallo shojo manga, pensati per le ragazzine ma che non dispiacevano neanche ai ragazzini. Questi
nuovi cartoon sono fortemente connotati da
un’esplosione dei corpi e della sensualità che
lentamente si riperderà negli anni ’90 quando tutti ritorneranno a fare i buoni e anziché
combatterlo, il perbenismo lo imporranno.
La dedizione e la compostezza di Mimì e la
sua nazionale di pallavolo faranno spazio alle
stravaganze di Jem e le Holograms, il candore di Heidi, sarà esorcizzato da una Lycia che
nonostante le buone intenzioni non disdegna
di disobbedire a M’arrabbio per inseguire
Mirko ciuffo bicolore, ma pur sempre bello e
maledetto. Ed è proprio accanto a queste fi15
JESUS CHRIST
SUPERSTAR
Passione rock
Non chiamatelo musical, Jesus Christ Superstar
è una rock opera. La differenza c’è e si vede, anzi
si sente. La creatura della premiata ditta Andrew
Lloyd Webber & Tim Rice (rispettivamente compositore delle musiche e autore dei testi) nasce
innanzitutto come long playing nel 1970 e solo
successivamente approda a teatro (1971) e al cinema (1973) diventando fenomeno cult.
È un’evoluzione del concept-album, una rock opera appunto, proprio come lo sono Hair, Evita, The
Wall e tutti i prodotti di questo tipo dove non esi16 CINEMA ROCK
stono, o quasi, parti recitate ma c’è invece una
sequenza di canzoni con una struttura drammatica ben precisa, con personaggi, ambientazioni e
così via. Da questo punto di vista il Rocky Horror
Picture Show cos’è? Un musical, bravi.
Fatta questa doverosa precisazione, a più di quaranta anni dalla sua prima uscita discografica,
molte polemiche, numerosi premi e innumerevoli
rifacimenti, JCS non manca di conquistare ancora oggi fan e appassionati in tutto il mondo. Il
film, diretto da Norman Jewison, è considerato,
insieme ad Hair il capostipite di un genere
che avrà lunga vita e un grandissimo successo. JCS è il racconto in chiave hippie della
favola pop più famosa di tutti i tempi, gli ultimi giorni di Cristo prima della crocifissione; i
protagonisti ci sono quasi tutti: c’è Gesù (Ted
Neely) in tunica bianca e già hippie di suo, c’è
Giuda Iscariota (Carl Anderson) in pantaloni a zampa di elefante, c’è Maria Maddalena
(Yvonne Elliman) in casacchina sgargiante,
cerchioni alle orecchie e collanine freak, c’è
Erode, Ponzio Pilato, Pietro (l’attore Paul
Thomas che successivamente si darà al porno)
e naturalmente ci sono gli apostoli.
Per la prima volta Cristo si fa uomo tra gli uomini anzi, rockstar, ma è un essere umano quasi sconfitto che cede la parte del protagonista a
Giuda, vera figura cardine dell’opera, traditore
suo malgrado che nel finale, mentre la folla si
accinge a crocifiggere Gesù, gli chiede: “secondo te Buddha sapeva il fatto suo? E Maometto
muoveva la montagna o era tutta pubblicità?
Hai voluto morire in quel modo o è stato un errore? Sapevi che quella tua morte sarebbe stata
insuperabile?”, una sorta di intervista al Cristo
morente che lascia sulla terra una Maddalena
perdutamente innamorata di lui. Nonostante
le prevedibili polemiche che accompagnarono
in tutto il mondo l’uscita dell’opera, incredibilmente le canzoni di JCS (censurate in tutta
Italia) furono invece trasmesse da Radio Vaticana; pare infatti che un indefinito monsignore
inviato dall’Osservatore Romano a Londra per
assistere alla proiezione dell’opera presso i Pinewood Studios, fosse rimasto positivamente
colpito dalla carica emotiva del film e lo avesse
riferito a Roma. Misteri della fede.
Riff memorabili (What’s the buzz?, Heaven
on their minds, Everything’s all right), interpretazioni straordinarie (Ted Neely e Carl
Anderson sono candidati al Golden Globe nel
1974) e una indimenticabile sound-track rockprogressive, ecco spiegato l’enorme successo
di quest’opera.
JCS è quel genere di fenomeno che attrae veri
e propri estimatori, fini conoscitori di aneddoti e curiosità, frequentatori assidui di forum
a tema, insomma quel tipo di ammiratori che
rientrano piuttosto nella categoria del fan
“sfegatato”, quelli - per intenderci - che aprono una pagina facebook dedicata anche se
ne esistono già migliaia e che, da Heaven On
Their Minds a King Herod’s Song, conoscono
nei minimi particolari gli ultimi giorni di vita
di Cristo. La loro catechista non avrebbe saputo fare di meglio.
Antonietta Rosato
gure talvolta molto trasgressive, soprattutto
per il panorama dei cartoni italiani, che si
delineano anche dei personaggi musicali. Il
processo di emancipazione è stato graduale,
da una ancora molto sofisticata Creamy, che
chiedeva di essere amata teneramente, si è
arrivati alla già citata Jem icona animata di
questi anni fatti di fiocchi e colori sgargianti.
Con una notevole capigliatura e un sex appeal che inevitabilmente ricorda Miss Rettore,
e che nonostante i nefasti avvenimenti della
sua vita, riesce a sfondare nel mondo della
musica, e soprattutto del rock, con canzoni
molto meno banali del genere cartoon, grazie
ad un super potere che la trasforma in una
star, alla grinta che si attribuisce esclusivamente a questo nuovo ruolo di donna “bella e
stravagante”, supportato da una band per la
prima volta nella storia dei cartoni composta
da sole donne che tengono alta l’attenzione
del pubblico grazie ad abiti e make up, che
nonostante siano più anni ottanta degli stessi
anni ottanta rivendicano molta più personalità delle tutine\pigiama in cui sono costretti
gli sventurati alunni della scuola di Maria
de Filippi. Forse un’interpretazione troppo
forzata la mia, ma attenendosi al testo della
sigla (tra l’altro è la sigla che in poco più di
un minuto riesce a raccogliere più rime in –
ante), l’eccesso del personaggio è quello che
più traspare (Il mio nome è Jem sono una
cantante bella e stravagante e ballo il rock’n
roll, sono un tipo esuberante, etc… e il resto è
storia). Così sul fronte maschile a tenere alta
la competizione troviamo i Bee Hive, con tutte le credenziali dei veri rocker: parrucconi
imbarazzanti (e non solo quella di Mirko, ma
anche il lungo crine viola di Satomi, il tastierista), canzoni rock melodiche, l’uso molesto
del soprannome baby (che fa molto macho
poco micio), evidente propensione all’alcol
post concerto, l’immancabile triangolo amoroso, un passato turbolento che incrementa
l’alone di mistero, e le groupies. Perché anche
se malcelate, con delle relazioni semistabili,
come quella di Satomi e Manuela, queste brave ragazze benvestite non esitavano ad assecondare la vita sregolata del gruppo. Non a
caso Licia, tipica ragazza della porta accanto,
più volte ha sofferto d’amore per l’infedeltà
del longilineo frontman che si divideva tra
donne e vino. Ma se nel bel mezzo di una performance, lui ti guarda e ti dice che “vorrebbe
essere tu e lui già sull’autostrada, freeway”, è
chiaro che ti passa la fantasia... E quasi quasi
nonostante il piglio della donna che non deve
chiedere mai e disobbediente, a casa ci resti
a crescere fratellino e gatto. Ma cosa ci facevano guardare?
Roberta Cesari
17
MUSICA
18
SARA LOV
Canzoni che amavamo e che ameremo di più
Molti la ricorderanno al fianco di Dustin’ O’Halloran nel sognante duo Devics, un’esperienza
musicale che ha segnato con una manciata di
album la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo
millennio. Da qualche anno i due hanno preso
strade differenti, la voce di Sara ha trovato un
suo carattere e la sua musica un suono acustico, delicato ed esotico. Dopo Seasoned Eyes were
Beaming del 2009 arriva I already love you, un
disco di cover, il modo più bello forse che ha una
cantante per raccontarsi. Abbiamo intervistato
Sara in occasione del suo tour italiano.
Sono un amante delle cover, quindi mi sono
avvicinato a questo album con la convinzione di vivere un’esperienza piacevole.
Come hai scelto le canzoni di questo disco?
Grazie. Avevo una lunga lista di canzoni che
amavo in modo particolare e pensavo sarebbe
stato divertente rifarle. Io e il mio produttore
Zac Rae abbiamo deciso che dovevamo entrambi
amare i brani. Ha controllato la lista e ha tirato fuori i pezzi che non gli piacevano o che non
riteneva di voler registrare. Alla fine ne sono rimaste circa venti. A partire da questa selezione
abbiamo poi scelto quelle che si adattavano meglio alla mia voce e sembravano più interessanti
da un punto di vista musicale.
Scoprire gli ascolti di una persona è un po’
svelarne l’intimo, una dimensione domestica e personale. Cosa ne pensi?
Sono completamente d’accordo. Credo che amiamo certa musica perché in qualche modo sembra
che venga fuori da noi stessi e non dalla persona
che l’ha scritta. La musica che amo è una mappa
di chi sono.
Al margine dei Devics hai trovato una
strada musicale fortemente caratterizzata
dalla tua particolarità vocale e da un certo
minimalismo musicale. Come hai scoperto
la tua musica?
Credo che il processo di scoperta non sia ancora
terminato. Il miglior modo per trovare la pro-
pria musica è continuare a esplorare la propria
espressività e alla fine viene fuori la vera voce e
un po’ meno le influenze.
Tra i brani anche un omaggio all’Italia, ci
parli de La Bambola di Patty Pravo e del
tuo rapporto con il nostro paese?
Certo. Il mio rapporto con questa canzone deve
essere completamente diverso dal vostro. Non
sono cresciuta ascoltando questa canzone oppure Patty Pravo. L’ho ascoltata per la prima volta
una decina di anni fa, quando vivevo in Italia e
alcuni amici l’hanno suonata a una festa… poi
mi hanno registrato una compilation. Me ne sono
subito innamorata. All’epoca non capivo le parole, quindi mi piaceva la sua profonda voce soul,
gli strumenti e gli arrangiamenti. Quando ho deciso di fare un disco di cover volevo cantare un
pezzo in italiano. Ho vissuto in Italia per circa
sei anni ed è un posto molto vicino al mio cuore.
La gente ha sempre apprezzato la mia musica,
quindi volevo cantare in italiano. È stata la prima canzone che ho scelto. L’ho suonata a Zac e
gli è piaciuta subito. Aveva un sacco di idee per i
suoni da utilizzare, con una bella cassa anni ’60 e
tutto ciò che si sente nel risultato finale.
Cosa possono fare le canzoni? Come ci aiutano? Cosa è per te la musica?
Possono portarti via e farti vivere in un altro
tempo in cui tutto il resto non importa. La musica mi fa emozionare e mi rende felice, non potrei
vivere senza le mie orecchie.
Hai appena concluso il tuo tour in Italia.
Com’è stato?
Il tour che si è appena concluso era con Scott
Mercado, un musicista con cui avevo già suonato. Lui suona chitarra e piano, io suono la chitarra e utilizziamo anche delle basi. Le canzoni
sono prese dall’album vecchio e dal nuovo, circa
metà e metà.
Osvaldo Piliego
MUSICA 19
MANNARINO
La libertà che fa bene alla scrittura
Dopo due anni di concerti, Alessandro Mannarino
è tornato con il secondo album, Supersantos, una
perla musicale sorprendente ed esplosiva. E le
vendite lo confermano. Lo abbiamo intervistato e
abbiamo scoperto che, da buon erede di Trilussa,
ce l’ha a morte con la mediocrità dei potenti.
Cosa è successo tra il Bar della Rabbia e Supersantos?
Ho fatto tanti concerti e poi sono stato impegnato
nella registrazione del nuovo album. Ho preferito
fare un lavoro diverso rispetto al Bar della Rabbia, che era una specie di best of con pezzi orecchiabili e diretti.
In che modo sono nate le tracce di Supersantos? Prima i testi o prima la musica?
A volte prima i testi, a volte prima la musica, a
volte insieme. In questo album ho fatto molta attenzione ai testi e questo mi ha concesso tante
opportunità. A volte può essere debilitante per i
testi partire dalla melodia.
Quello che ho notato ascoltando Supersantos
è una maggiore maturità rispetto al primo
album e una certa evoluzione della scrittura.
20 MUSICA
Grazie! Delle canzoni del genere c’erano anche
nel Bar della Rabbia, come Le cose perdute. In
questo disco sono stato più libero e la libertà ha
fatto molto bene alla scrittura. Bar della Rabbia
era il mio primo disco e ho cercato di metterci
dentro tutte le cose che erano più forti e in grado di “arrivare” facilmente, ma ho scritto i testi
dell’album tra i 20 e i 29 anni. Supersantos, invece, è stato scritto a 30 anni ed è inevitabile che i
pezzi siano più maturi.
Almeno in due canzoni c’è il termine paura.
Cosa ti fa davvero paura?
La morte, anche quella da vivi, e l’assentarsi. Mi
fanno paura quelle mattine in cui ti svegli e cammini come uno zombie e senti un vuoto dentro. E
poi mi fa paura il cielo nero della sovrastruttura
che ci schiaccia e ci mette in fila, uccidendoci o
rendendoci meno vitali.
Hai scritto un pezzo che si chiama Svegliatevi italiani, secondo te gli italiani si sono
svegliati?
Se prima eravamo in un sonno profondo adesso
ci stiamo per svegliare. Durante il sonno i sensi
vanno in stand by e non si sente alcun dolore. En-
triamo in un sistema che ci impedisce di essere
ricettivi o di farci del male. Adesso, invece, siamo
in quel momento in cui il corpo si risveglia, comincia a muoversi e a sentire nuovamente il dolore. Il torpore di qualche anno fa è solo un ricordo,
anche perché viviamo una situazione ancora più
triste.
In questo album quali generi hai mischiato?
Sono stato molto libero. Mi viene in mente l’immagine del cuoco che cucina e annusa contemporaneamente vari odori e a intuito dice “queste
spezie vanno bene, ora aggiungo un po’ di olio,
e poi due pomodorini”. La preparazione dell’album è stato un navigare a vista, non sono partito dall’idea di mischiare vari generi. Sono stato
influenzato anche dagli ultimi ascolti che ho fatto: suoni composti con la musette (la cornamusa
francese), o la musica da balera francese e la manouche. Intanto continuo ad ascoltare chitarre e
ritmi boliviani.
Come mai nell’album ci sono due serenate?
Una è lacrimosa e una è silenziosa. Sono due serenate tristi e in realtà non sono nemmeno serenate. I titoli di solito vengono da soli, e poi metterli è una cosa molto strana. Serenata lacrimosa
è cantata sui gradini della chiesa ed è condivisa,
infatti c’è un coro. Serenata silenziosa, invece, è
cantata sottovoce in totale solitudine a casa. Le
ho chiamate nello stesso modo perché la differenza tra questi due brani coglie un po’ l’anima del
disco: l’intimità e la condivisione. Si passa dalla
sofferenza ad una ricerca del senso della propria
vita, a volte intimo e a volte collettivo.
Come mai hai scelto proprio Scordia in provincia di Catania per registrare Supersantos?
Perché c’è una buona sala di registrazione, e poi
perché quasi tutti i musicisti con cui suono sono
di Scordia (il batterista, il trombonista…), il contrabbassista, invece, è di Catania e Tony Canto,
il mio produttore, è di Messina.
A chi dedichi il tuo successo?
Lo dedico a tutte le persone che mi hanno detto
no.
Quanto ci avevi creduto?
Tantissimo, forse anche troppo, ma sin dall’inizio
sono stato convinto di quello che facevo.
Oltre a Roma quale città senti tua?
Bella domanda. Qualche tempo fa sono stato a
Marrakech, ma non posso dire che si tratti della
mia città ideale. Anche Lecce è un posto fantasti-
co e in Salento ci vengo ogni estate in vacanza.
Ma da qui ad affermare che si tratti di un posto
che sento mio ce ne vuole. Forse l’unica città che
sento mia è la città che sogno a volte di notte, non
so dove sia né come si chiami, ma c’è una luce
bellissima.
In che modo vivi la capitale?
A testa bassa.
Con paura?
Si, con paura. Ho un carattere in parte schivo, ma
divento aperto e spontaneo con gli estranei, con
chi non mi conosce e non sa che faccio questo lavoro. Poi quando mi capita di essere fermato per
strada, o mi sento guardato, mi intimidisco e abbasso la testa. La paura è quella dell’esposizione.
Qualcuno “si allarga”, vero?
Non è proprio questo il punto, cominciando anche dalla gente che mi vuole bene e da chi lavora
con me, cominciano tutti a dirmi sempre di si o a
idealizzarmi.
E pensi che tutto questo sia poco sincero?
Si, a volte si, ma anche una risata dopo una battuta, sembra quasi che si debba ridere per forza perché la battuta l’ho fatta io. Vorrei essere
trattato come una persona normale da chi lavora
con me, da chi mi sta vicino, da chi conosco. Ecco
perché preferisco frequentare estranei e persone
che non mi conoscono, perché secondo me si tende
ad avere un determinato comportamento per convenienza o per idealizzazione. Io sono una persona semplice, mi piace guardare le persone negli
occhi, e mi piace essere guardato negli occhi per
quello che sono nel profondo. Ci tengo alla mia
umanità e non mi va di impazzire e diventare un
pallone gonfiato o un pavone.
Apprezzi qualcuno dei politici attuali?
Nessuno. Nemmeno Vendola, perché non ha il coraggio di andare in fondo. Ad esempio, è possibile
che oggi per candidarsi alla presidenza del Consiglio con il centrosinistra sia indispensabile il voto
dei cattolici? Se Vendola si professa cattolico pur
non essendolo, perché altrimenti la nonnina non
lo vota, a me non piace. Credo di essere materialista, comunista e laico. Secondo me il Vaticano
e la Chiesa sono delle ingerenze moleste e delle
metastasi nella politica, nell’informazione, nella
Pubblica Amministrazione. È un potere sporco
che va combattuto. Se un uomo politico di sinistra si assumerà la responsabilità di affermare
questi concetti avrà la mia stima.
Lucio Lussi
MUSICA 21
Ph: Mauro Talamonti
PAOLO BENVEGNÙ
Un capolavoro narrativo brillante
A quasi un mese dall’uscita del nuovo ed ipnotico album Hermann, I Paolo Benvegnù scalano la
classifica dei dischi più venduti. Il nuovo progetto artistico, pubblicato con la propria etichetta La Pioggia di Dischi/Venus, comprende
tredici brani che si avviluppano sull’eterno “mito” dell’uomo e “degli archetipi del
pensiero occidentale”. Hermann è un capolavoro “narrativo” e poeticamente brillante carico di sonorità sempre vive, oniriche
e magicamente affascinanti.
Dopo la tappa romana goduta sul palco del
22 MUSICA
Circolo degli artisti l’Hermann Tour 2011
prosegue alla volta di altre città italiane.
Il tuo ultimo lavoro prende il nome di Hermann, come è nata l’idea del tuo terzo LP?
Hermann è un disco sull’umano. E l’idea era di
musicare un disco di letteratura, come ad esempio musicare L’Orlando furioso. Ovviamente badando alle nostre intuizioni, usando il mito e gli
archetipi del pensiero occidentale come partenza
per sviluppare prospettive diverse. Così abbiamo scritto una sceneggiatura, come in un film,
ne abbiamo colto gli aspetti che più ci interessavano, ne abbiamo fatto una colonna sonora.
In questo disco ti confronti con personaggi
del passato, del presente e del futuro dialoganti con personalità come Sartre, Ulisse,
Perseo e Narciso, che cosa ti ha colpito di
questi eterni personaggi?
In realtà, i racconti riguardanti l’umanità antica o moderna, inventata o no che hai citato, mi
colpiscono esattamente come il taxista davanti
alla stazione, il fruttivendolo, il falegname. I
problemi, una volta esaurita l’ansia da cibo, sono
sempre gli stessi dalla notte dei tempi. Piccole
diversità socio-politiche spazio-temporali, ma gli
uomini sono sempre gli stessi. Ed io sono interessato a tutta l’umanità, me compreso. Il meno
capibile. Nel brano Avanzate, Ascoltate metti in musica “le pazzie degli uomini”, secondo te
esiste un rimedio?
Il rimedio alle pazzie è sempre lo stesso. Leggerezza, comprensione, Amore, Giustezza. Difficile
è arrivarci. Ma non impossibile. Il brano Andromeda Maria mi ha particolarmente emozionato, cosa ti ha ispirato
nella composizione?
Il brano è sgorgato fluidamente dalla lettura
de Le mille e una notte. Sherazade è come Andromeda, imprigionata al destino di narratrice
per sopravvivenza, ma anche come Maria, che
attende nel Figlio il Padre, l’Assassino ed anche
se stessa. Quale è il messaggio dell’uomo raffigurato
in copertina?
I Paolo Benvegnù hanno i loro occhi che sono
Mauro Talamonti, Francesco Prosperi e lo staff
visuale di Capicoia. Abbiamo insieme e contemporaneamente lavorato al disco. La copertina
che hanno ideato è simmetrica alla musica. Possiede diverse chiavi di lettura. Ed il gesto delle
mani adolescenti femminili che coprono o giocano con il viso di un uomo adulto è sintomo, a mio
parere, di un’eterna metempsicosi del Sentire,
tramandata da Madre in figlio. È un messaggio
potente, quanto ovvio, e per questo spesso colpevolmente dimenticato. La Saggezza è Figlia e
Madre. Sempre. Le tredici tracce del nuovo disco narrano
la “storia dell’uomo”, quest’ultimo continua la sua evoluzione oppure è in una fase
drammaticamente involutiva?
Non è un’ascesa. Nemmeno un’involuzione. Per
effettuare questo, l’uomo dovrebbe poter comprendere per poi Sentire. Ma non è così. Procede per avamposti. Poi dimentica. Io sorrido. Come ti rapporti con la scrittura?
Ne fruisco. La rispetto. La cerco con tutte le
Forze. La manco e la ricerco. Come la Vita. Quali sono stati i frutti del live Dissolution?
Dissolution è un margine personale e collettivo
contro il Vuoto. È una piccola e mossa fotografia delle settimane precedenti. E non di frutti
si tratta. Ma di fiori. Glicini, per l’esattezza. Quest’anno l’Italia Wave si farà a Lecce,
come vedi la realtà musicale pugliese?
La realtà culturale pugliese è l’unica ricca di
sorriso in Italia, attualmente. Per questo sono
felice che Italia Wave sia approdata da voi. Ma
davvero felice e convinto. Per quanto riguarda la
musica, conosco ovviamente le realtà più conclamate che non hanno bisogno di commenti, visti i
risultati ottenuti.
Puoi farci qualche nome?
Se mi devo sbilanciare, penso che La fame di Camilla sia un progetto bellissimo che ha già scritto
pagine importanti e dense e che Amerigo Verardi sia un Poeta di Bellezza. Come è lo stato della musica Indie in Italia?
In Italia ci sono progetti musicali meravigliosi.
Molto meglio che nel mondo anglosassone. Ma
non ce ne rendiamo conto e ci facciamo colonizzare. Poi c’è l’intrattenimento. Bieco. Terribile.
E abbiamo un leghista come Ministro della Cultura. Nel 2010 Mina nel cd Caramelle ha reinterpretato un tuo brano Io e te, che reazione
hai avuto?
Stupore, ammirazione, incredulità. Ed una promessa. Se dovessi un giorno riuscire ad andare
in Svizzera, Mina mi invita a pranzo e fa le polpette. Quale è l’eredita degli Scisma?
L’eredità degli Scisma sono i Paolo Benvegnù. Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vivere. Contemplare. Essere. Sparire.
Grazie per lo spazio donatoci, anche a nome dei
miei compagni. Siate felici. Giuseppe Arnesano
MUSICA 23
Lo scorso 17 Marzo dal palco dell’Auditorium
Parco della Musica di Roma è iniziato il tour europeo dell’equilibrato e vivace duo Musica Nuda
composto da Petra Magoni (voce) e Ferruccio
Spinetti (contrabbasso). Petra e Ferruccio hanno
presentato Complici il nuovo album pubblicato
dall’etichetta Blue Note/Emi Music Italy. Il disco
è una brillante opera di “ampio respiro” che mette in risalto la bellezza di quell’incontaminata
armonia ritmica ed espressiva alchemicamente
estrinsecata da due acuti complici. Di seguito vi
proponiamo le interviste ai componenti del duo.
PETRA MAGONI
Come nasce l’idea di Complici?
Già negli album precedenti erano presenti brani
inediti, nuovi, scritti da noi e da altri artisti e già
da qualche anno pensavamo ad un intero disco
con pochissime cover, adesso è il momento per
farlo, con la giusta maturità artistica ed umana.
Questa nuova sfida ha tirato fuori una bellissima energia.
Qual è il significato della copertina del disco?
L’idea è di Luca Quaia, cerca di rappresentare
la nostra complicità percorrendo su e già le dune
del contrabbasso! Lo sfasamento di dimensioni è
un gioco grafico per accentuare il senso di questa
complicità e raccontare in una semplice posa chi
sono Petra e Ferruccio. E poi non ne possiamo
più di facce in copertina! Alcuni dei brani del disco portano la firma di autori come Pacifico, Max Casacci
(Subsonica), Pasquale Ziccari Carlo Marrale, Alessio Bonomo, Alfonso De Pietro, Al
Jarreau, Sylvie Lewis e Luigi Salerno, ci
racconti come si è sviluppata questa corale
collaborazione?
Sono tutte persone con cui abbiamo un rapporto di amicizia, o quantomeno di conoscenza e
senz’altro di stima. Non abbiamo la presunzione
di saper fare tutto, amiamo molto collaborare
con gli altri, cosi si cresce musicalmente ed umanamente e come in passato abbiamo collaborato
con musicisti e cantanti adesso è stata la volta di
coinvolgere autori e compositori!
Sulla pagina ufficiale di Facebook avete
realizzato geniali “spot” sui singoli brani,
che cosa rappresentano?
Queste “pillole” volevano essere un conto alla rovescia dall’1 al 14 marzo (vigilia dell’uscita dell’album), un brano al giorno da cui estrarre qualche
24 MUSICA
MUSICA N
Magoni e Spinetti “compli
breve frase del testo; li abbiamo girati quasi tutti
in Spagna, fra la sera del 19 febbraio dopo il concerto a Valladolid e la mattina del 20 all’aeroporto
di Madrid. Sono stati fatti in modo molto veloce,
improvvisato, “jazz” da me e Ferruccio e dal nostro fonico (ed in questo caso anche molto di più)
Alessio Lotti che ha poi curato anche gli effetti ed
i montaggi. Sicuramente mostrano il nostro “giocare” anche al di fuori della musica!
Pregi e difetti di Ferruccio.
È affidabile. Su tutto: dall’intonazione (che in
un contrabbassista non è una cosa scontata!) al
tenere i contratti e i nostri archivi in perfetto
ordine. Da quando è diventato papà ha anche
più energia di prima, perché si è finalmente reso
conto che stare a casa con dei bambini piccoli è
più faticoso di stare in giro in tour!
Cosa “rimandi” a domani?
Mmm… quello che non riesco a fare oggi! (ad
esempio mettere ordine)
tradurre gli accordi dal pianoforte al contrabbasso. Professionalità è nata perché due anni
dopo aver acquistato casa (mutuo a venti anni)
pensavo d’aver risolto tanti problemi ed invece
incominciavano per via della poca professionalità di idraulici, muratori, antennisti. Poi confrontandomi con Petra è stato facile chiudere
il testo dato che la mancanza di professionalità
regna sovrana nel nostro paese.
Carina l’idea di produrre anche il disco in
vinile, come mai questa scelta “vintage”?
L’avevamo già fatto con 55/21. È un altro modo
per far capire come ci piace fare musica ispirandoci a periodi in cui fare un disco era una
cosa seria e per chi lo acquistava, il momento di
aprirlo ed ascoltarlo era una sorta di rito. Oggi
la musica è “uso e getta” e a noi non piace cosi.
NUDA
ici” di un grande disco
FERRUCCIO SPINETTI
Il nuovo album contiene tre cover, Mirza
di Nino, Mon amour di H. Salvador e Felicità di Lucio Dalla perché la scelta è ricaduta proprio su questi brani?
Da cinque anni frequentiamo la Francia in maniera assidua, per questo motivo abbiamo deciso di fare un omaggio a due grandi artisti francesi, come del resto era già successo in passato
con Brel e Nougaro. Felicità invece, è un pezzo
che suoniamo dal vivo da un po’ di tempo e ci
piaceva chiudere il cd con un pezzo che è per noi
come una finestra aperta sul futuro.
Come è stata la fase della scrittura e composizione “a quattro mani” durante la lavorazione dei brani Cinema e Professionalità?
Avevo scritto Cinema al pianoforte per gli
Avion Travel ma all’epoca non siamo riusciti
a dargli una forma di canzone. Petra ha avuto
questa intuizione sul testo e cosi ho cercato di
Quali sono i punti di contatto e le evoluzioni stilistiche tra il primo album Musica
Nuda e Complici?
Prima di tutto il contatto è che non a caso siamo
tornati ad essere solo io e Petra su un cd. In
passato spesso avevamo avuto ospiti strumentisti. Evoluzioni tante siamo cresciuti grazie a
otto anni di duro lavoro. Più di cento concerti
ogni anno ci hanno fatto mettere a fuoco meglio
quello che siamo oggi.
Cosa è cambiato dalla prima volta che
avete affrontato Roxanne dei Police?
Maggiore forza e consapevolezza dei nostri
mezzi e riconoscibilità del marchio Musica
Nuda tra gli addetti ai lavori e nel pubblico.
Oramai esistiamo come gruppo cosi come i Dik
Dik o la PFM.
Che cosa ti ha lasciato l’esperienza vissuta
con gli Avion Travel?
Tanto. Quindici anni indimenticabili. Con loro
ho imparato a stare su un palco e soprattutto
anche l’approccio alla composizione e alla scrittura di una canzone.
Pregi e difetti di Petra.
Energia, forza, testardaggine. Quest’ultima forse a volte può essere anche un difetto. Cosa “rimandi” a domani?
Curarmi da un’influenza. Ieri ho dovuto suonare con trentanove di febbre.
Giuseppe Arnesano
MUSICA 25
26
PRIMAL SCREAM
Screamadelica-20th
Anniversary Deluxe Edition
Sony
Nella mia personale lista dei
dischi da isola deserta, Screamadelica si incastra perfettamente tra Bitches Brew di Miles Davis e Metal Box dei P.I.L.
È un album che quando uscì
per la prima volta, nel settembre del 1991, cambiò radicalmente l’opinione di molti verso
la band fondata da Bobby Gillespie all’indomani della breve
militanza come batterista nei
Jesus & Mary Chain. Il lavoro
di un team di cervelli in stato
di grazia coordinato dal produttore-Dj Andrew Weatherall,
all’epoca non ancora trentenne.
Una squadra con una visione
della musica aperta a 360°: il
rock’n’roll e i suoni della rave
culture, i Velvet Underground
in versione elettronica per la
generazione che cominciava ad
apprezzare gli Orb e guardava
a Manchester come alla terra
promessa dello sballo acid house. A riascoltarlo oggi, si scopre
che non è invecchiato per niente (ecco l’arcana alchimia delle
opere immortali: apparterranno sempre al presente e soprattutto al futuro!). L’edizione
del ventesimo anniversario è
doppia nella versione standard
(packaging in deluxe vinyl replica, il Dixie Narco EP come
bonus), quadrupla in quella per
feticisti impuniti (box rotondo
formato 12” con l’inedito Live
in L.A., un disco di remix, Dvd,
doppio vinile, booklet di 50 pagine, t-shirt, cartoline, etc.). In-
teramente curata da Gillespie
e dal suo socio storico Andrew
Innes insieme a Kevin Shields
(My Bloody Valentine) è pura
gioia per le orecchie: “I was
blind, now I can see / You made
a believer, out of me…” Il viaggio per il paese delle meraviglie
comincia con Movin’ on up ed è
davvero come tornare a vedere
dopo un lungo periodo di cecità.
Una pietra miliare scagliata in
faccia a chi ieri sbavava per i
New Kids on the Block e oggi si
fa le pugnette per i divi di polistirolo di X Factor.
Nino G.D’Attis
ANNA CALVI
Anna Calvi
Domino
Fedele alla tradizione blues che
nacque dal patto col diavolo di
Robert Johnson, l’italo-inglese
Anna Calvi scrive un folgorante esordio che pare esorcizzare
i demoni del suo inferno personale. Nonostante i pertinenti
paragoni con Patty Smith,
Siouxie, PJ Harvey o Beth Gibbons, per una volta possiamo
tranquillamente sbilanciarci:
è nata una star che ha classe
da vendere. L’intensità dei
brani e la singolare personalità dell’autrice superano ogni
citazione. La voce della Calvi e
il suo twang di chitarra vibrano
di sensuali movenze blues, conoscono Edith Piaf, il fuoco del
tango, incrociano i toni epici
dei western morriconiani con le
atmosfere noir di Badalamenti
(First We Kiss, The Devil). Si
alternano sonorità spettrali
ad esplosioni spectoriane con
poche concessioni all’odierno
pop da classifica, tranne forse
Blackout, la splendida Desire,
o la conturbante Suzanne And
I, un numero da pelle d’oca
che potrebbe essere la sigla di
un immaginario film di James
Bond. In un album dove ogni
sospiro o rintocco è calibrato
alla perfezione, Love Won’t Be
Leaving porta i titoli di coda
chiudendo il viaggio in una
sintesi magistrale dei diversi
moods. Altamente consigliato
l’utilizzo del tasto repeat del
lettore (tdo).
AUTECHRE
EPS 1991 - 2002
Warp
Cinque ore, trentanove minuti
e cinquantanove secondi di paesaggio urbano contemporaneo
che diventano il tempo di un
lungo sogno di scenari alieni,
silhouettes compresse dal movimento, immagini mosse contro la nitidezza teutonica dei
padri (Kraftwerk, Tangerine
Dream). Il marchio Autechre,
creato da Sean Booth e Rob
Brown, rispolvera il catalogo
degli EP in un cofanetto nero
che comincia cronologicamente con Cavity Job (finora mai
pubblicato su cd) e arriva fino
a Gantz Graf del 2002. Cinque
ore e passa di tensioni e increspature ombrose, di tempi
dispari che da soli fondano la
soundtrack di un film immaginario tutto intrighi, luci notturne, dialoghi asincroni che
non coincidono con il labiale.
Musica di macchine che centrifugano in una alterazione/
MUSICA 27
dispersione di effetti le scorie
del passato (synth-pop, hiphop, Clock DVA, Eno e Ligeti)
per distillare partiture adatte
al nuovo millennio. Gli Autechre affrontano la materia musicale così come dovrebbe essere
più spesso affrontata: raddoppiamenti, decalcomanie alla
Oscar Domìnguez, lame di rasoio che spaccano pupille (passando attraverso l’orecchio),
cupezze techno-industrial in
occasionale rapporto simbiotico
con melodie abissali. L’arco di
tempo preso in considerazione
da questa raccolta della Warp
è sicuramente il migliore nella produzione del duo inglese:
dopo verranno i momenti di
calma piatta (in particolare
Quaristice, uscito nel 2008) e
bisognerà attendere Oversteps
(2010) per ritrovare almeno in
parte lo stesso fervore creativo.
Nino G. D’Attis
lon Brando e Blue, il suggestivo duetto con Patty Smith).
Diciamo quindi che il lavoro
aggiunge un pugno di canzoni
nuove alla nutrita discografia
della band di Athens, senza
preoccuparsi però di ricercare
atmosfere inedite o di innovare
uno stile che è ormai un marchio di fabbrica. Dopo una
brillante carriera trentennale,
amiamo questa band al punto
da potergli perdonare qualche
uscita “minore”. Ed è per questo che l’attesa per il prossimo
album è appena cominciata
(tdo).
PJ HARVEY
Let England Shake
Island
cite dal disco maturo che le
Cocorosie non hanno ancora
inciso (Written On The Forehead). Polly Jean strimpella
l’autoharp e canta le sue evocative storie in musica, senza mai
dimenticare come si incolla una
melodia all’orecchio. The Glorious Land è un ipnotico viaggio
su una locomotiva dall’incedere
krauto (con la tromba che suona l’adunata nordista), Hanging In The Wire non è troppo
distante dalla malinconia Yo
La Tengo, mentre Colour of
The Earth recupera tamburelli
e cori da falò fricchettone, ricalcando il mood di bands come
Akron Family e Bowerbirds.
Un’inedita PJ che ci sorprende
con l’ennesimo grande disco.
Una vera fuoriclasse (tdo).
JAMES BLAKE
James Blake
Atlas/A&M
REM
Collapse Into Now
Warner
Ogni volta che esce un album
dei Rem incrocio le dita aspettando una svolta epocale tipo
Automatic For The People o
magari Monster. Poi, invece,
è sempre la stessa storia: ti
sembra di ascoltare un frullato di brani già noti con le
strofe di questa vecchia canzone appiccicate al ritornello
di quell’altra. Non fa eccezione
questo Collapse Into Now che
però non può essere liquidato
in due righe, infarcito com’è di
grandi canzoni (Uberlin, Discoverer, Oh My Heart, Me Mar28 MUSICA
Dopo l’abrasività degli esordi,
una serie di camaleontiche
mutazioni e l’abisso introspettivo di White Chalk, PJ Harvey
ritrova nuova luce e dedica un
ciclo di canzoni al significato
di esser British. Non era facile
immaginare in che direzione
avrebbe sterzato Polly, che ha
sempre arricchito il guardaroba con i colori della sua anima,
spesso anticipando tendenze
musicali o spiazzando ogni
previsione. Stavolta si tratta
dei colori della campagna,
di vecchi villaggi e campi di
battaglia. Let England Shake
parla di guerra, ma la narrazione, spesso sorniona, procede
con leggerezza e freschezza di
modi. Le melodie rimandano
alla tradizione folk, alcune
potrebbero ricordare Bjork
o Kate Bush (On Battleship
Hill), altre sembrerebbero us-
L’era post del dubstep è cominciata. Se il singolo Limit To
Your Love, la cover di Feist,
era stata la sorpresa del 2010,
James Blake, il primo LP, può
essere facilmente definito uno
dei più importanti di questo
2011. In un solo anno e mezzo,
James Blake, classe 1989, proveniente dalla zona South-East
di Londra, ha attirato su di sé
l’attenzione del mondo. Merito
del suo modo tutto nuovo ed
intrigante di coniugare i suoni
duri della dubstep, corrente
musicale della sottocultura
inglese dub, dove il raggae incontra l’elettronica e ormai di
moda in tutto il panorama musicale (pare che anche il nuovo
album di Britney Spears sia
influenzato dalla dub) con uno
strumento classico per eccellenza, il pianoforte. Tutto dalla
stanza di casa grazie ad un laptop. Il risultato è un insieme di
undici canzoni in cui il suono
del pianoforte viene destrutturato e ricomposto in un nuovo
sound. La ciliegina sulla torta
è la sua voce a tratti soul che
viene spezzata dal sound electro, senza perdere di incisività,
Lindesfarne è l’esempio più
riuscito. Insomma quest’opera
prima sembra mantenere tutte
le aspettative che si avevano
sul giovane talento. Con lui il
dubstep sembra essere definitivamente sdoganato per un
pubblico meno black. Post appunto.
Pierpaolo Rizzo
SUBSONICA
Eden
Emi
Eden. Mica tanto. Tra i fan dei
Subsonica è già partito lo scontro. Chi suggerisce un ascolto
più attento, chi lo cestina automaticamente, chi vuole trovargli una bellezza particolare,
chi arriva a piangere la fine di
una grande band. Eden è controverso, è irrisolto, è ciò che,
dopo sei album, non ci aspettavamo dai Subsonica. L’eclissi,
del 2007, correva nella direzione contraria: atmosfere cupe,
testi intensi, melodie riuscite.
Eden cerca invece la luce, la
melodia pop e di buon gusto,
ma fallisce. Cade giù negli inferi, o più semplicemente nel
dimenticatoio. Non è un album
CAPAREZZA
Il sogno eretico
Universal
In modo un po’ silenzioso e inaspettato, ma con nostra grande
gioia, Michele Salvemini, in arte Caparezza, torna dopo tre
anni con un nuovo album (e tornerà a Lecce il 23 aprile al
Palafiere), Il Sogno Eretico, composto da sedici tracce brillanti e pungenti. Il tema dell’eresia, presente da sempre
nella produzione dell’artista, diventa ora centrale e viene
analizzato in tutte le sue manifestazioni: religiosa, politica,
culturale, musicale. Una carrellata di personaggi storici, da
Galileo a Giovanna d’Arco, ci guida, infatti, in un percorso
di convinzioni e libertà negate, di impossibilità di espressione e progresso. I testi sorreggono come sempre l’intera
struttura del disco, risultandone la vera forza trainante;
un sapiente uso dell’ironia genera una satira intelligente
e salva da luoghi comuni; gli arrangiamenti sono caratterizzati da varie contaminazioni, passando dall’elettronica al
rock al reggae. Tutto come sempre insomma, e il problema
è proprio questo. Nonostante i pezzi scorrano in modo piacevole, tutto è un po’ troppo prevedibile, tutto è come nei
precedenti album. Niente di nuovo viene aggiunto, nessuno
dei particolari e divertenti spunti di Le Dimensioni del mio
caos viene ripreso, e la sensazione è un po’ quella di tornare
indietro, a Verità Supposte, del 2003. Tra le tracce spiccano
comunque Chi se ne frega della musica, la medie-valeggiante Sono il tuo sogno eretico, Cose che non capisco, forse la
migliore, e Goodbye Malinconia, il singolo di lancio, con la
curiosa collaborazione di Tony Hadley degli Spandau Ballet. L’altra collaborazione è poi con Alborosie, nella più che
mai esplicita Legalize the premier. L’album insomma non
deluderà nessun vecchio fan dell’eretico rapper pugliese; c’è
da dubitare però che ne porti di nuovi.
Daniele Coluzzi
che si riascolta con piacere, e,
attenzione, non perché sia più
pop degli altri. È che il pop va
fatto bene, è che pop non è sinonimo di vuoto e di anonimo.
Anticipato da diversi brani
disponibili per il download
da Itunes, l’album ha, già dal
primo singolo, l’omonimo Eden,
deluso tantissimi fan.
MUSICA 29
È un pezzo difficile, poiché è
difficile trovargli la bellezza
che, per fiducia, vorremmo trovargli. In realtà non è un gran
pezzo. Se lo si ascolta più volte
lo si apprezza un po’ di più, ma
la storia finisce lì. Non rimane,
scivola via. La stessa cosa per
Istrice, il secondo singolo, con
vuoti d’arrangiamento così
evidenti da somigliare ad una
versione demo, o Prodotto interno lurido, invettiva sociale
poco convincente. Apprezzabili
grazie a qualche ascolto in
più, noiosi subito dopo. Buone
invece Il diluvio, più vicina ai
vecchi lavori, e Serpente. Il pezzo migliore, che vale davvero
la pena ascoltare, è però Benzina Ogoshi, scritta con l’aiuto
dei fan attraverso lo scambio
di mail e consigli. Come recita
il pezzo stesso, i Subsonica
“non sono riusciti a bissare
Microchip Emozionale”. Decisamente. In questo pezzo
l’ironia, benché riuscita, non
aiuta; mettere le mani avanti
nemmeno. L’album riceve delle
critiche, il gruppo lo sa, cerca
di scherzarci su, ci riesce anche. Ma il risultato finale è pur
sempre quello. Eden rispecchia
il problema della musica italiana di oggi: avvicinarsi ad
un sound più pop non significa
scendere a compromessi, scendere di qualità. Cercare una
certa orecchiabilità non significa automaticamente perdere
di intensità. Non è un discorso
così facile, e chi se ne frega se
si è meno o più commerciali.
L’importante è realizzare qualcosa di bello, e questo album
non è bello. È un Eden insicuro, un Eden mal riuscito, che
scivola via molto, molto presto.
Daniele Coluzzi
LOVE INKS
E.S.P.
Hell Yes!/City Slang
Ottimo esordio per questo trio
texano capitanato dalla can30 MUSICA
tante Sherry LeBlanc. Qui si
gioca con la drum-machine per
stendere un tappeto pulsante
su cui poggiano melodie dreampop. Il basso sempre in primo
piano, la struttura minimale
dei brani e le voci riverberate
ricordano un po’ i celebrati
The XX, ma qui gli strumenti
hanno la meglio sulle parti sintetiche e le melodie pescano nei
Sixties più che negli Eighties.
I brani hanno un potenziale
“radiofonico” lievemente inferiore rispetto alle hits dei su
citati inglesi. E in effetti ciò
che manca per rendere perfetto questo E.S.P. è proprio
una manciata di singoli che lo
rendano memorabile, magari
un ritornello o due da portarsi
dietro per giorni. Proprio per
questo, mentre ascoltiamo con
piacere, attendiamo fiduciosi il
prossimo giro di boa (tdo).
CASA DEL MIRTO
1979
Mashhh!
Marco Ricci è un musicista di
Trento e la sua creatura Casa
Del Mirto è già stata notata
dal prestigioso quotidiano inglese The Guardian che lo ha
inserito tra i migliori dischi di
marzo. Tra momenti più dilatati e rarefatti (The Haste),
ballate acustiche (Pain in my
hands), brani più aggressivi
(I Know), evocative stratificazioni di suono (Life Is A Mess)
e tanto pop venato di psichedelia, quest’album di chillwave
va giù fresco come un bicchier
d’acqua conquistando un posto
di rilievo al fianco di artisti
come Neon Indian o Ariel Pink
(tdo).
L’ALTRA
Telepathic
Aquarela Records
Il duo di Chicago formato da
Lindsay Anderson e Joseph
Desler Costa ci regala una
buona raccolta di ballate che
alternano musica da camera,
sonorità intimiste e arrangiamenti più complessi e barocchi.
Le canzoni sono segnate da atmosfere vagamente psichedeliche e da un umore crepuscolare
che affonda le radici dentro
gothic rock, synth-pop (Nothing Can Tear It Apart, When
The Ship Sinks) e folk (This
Bruise, Telepathic), ma le melodie e la doppia voce evidenziano un’anima profondamente
pop. Tra gli ospiti dell’album,
membri di Telefon Tel Aviv e
Bonnie Prince Billy (tdo).
ERLAND AND THE
CARNIVAL
Nightingale
Full Time Hobby
Gli Erland and The Carnival
non sono una band emergente.
Dietro a questo progetto infatti
ci sono personaggi che vivono
nel panorama musicale inglese
da anni, primo fra tutti Simon
Tong, cofondatore dei Verve
e collaboratore di Blur e The
Good, The Bad & The Queen.
Il primo disco omonimo della
band (datato 2010) era una manipolazione in chiave moderna
di classiche melodie folk inglesi
e scozzesi, con un risultato finale degno di ascolto. Questo
secondo Nightingale invece,
pur partendo da quelle stesse
basi, si arricchisce di elettronica elegante creando un perfetto
mix tra folk tradizionale, attitudine brit e ricerca sonora. Inoltre l’intero disco è stato registrato nella stiva di una nave
ancorata sul Tamigi. Roba da
bucanieri del terzo millennio.
Marco Chiffi
THE VACCINES
What did you expect from
The Vaccines?
Columbia Records
La band nasce lo scorso anno
a Londra da quattro poco più
che ventenni. Il chitarrista è
il fratello di uno dei The Horrors. I riferimenti ammiccano
a Strokes ed Editors ma si sviluppano più sulla scia diretta
di Ramones e tutto quel garage
rock 50/60. Sembrano i fratelli
ubriachi dei Glasvegas. Con
questi ingredienti un po’ di pregiudizi ci sono, ammettiamolo,
non verrebbe di scommettere
su un secondo o terzo disco dei
Vaccines. Eppure ascoltando
quest’esordio non sembrano gli
ultimi arrivati. Pezzi come If
You Wanna, Norgaard o l’open
track Wreckin’ Bar (Ra Ra Ra)
non possono lasciarti seduto
RADIOHEAD
The King Of Limbs
XL Recordings
Il nuovo album dei Radiohead abbandona la fisicità
dell’ultimo lavoro In Rainbows, per rivisitare le sonorità di
Kid A e Amnesiac (Codex) in una forma canzone circolare
sempre più inconsistente. La prima metà dell’album esplora
una percussività frenetica basata su stratificazioni ritmico/
melodiche che fanno da tappeto alla voce di Yorke, qui più
eterea che mai. La lezione è la stessa di Remain In Light
dei Talking Heads (e Brian Eno) rivisitata con sonorità contemporanee. Niente di nuovo, dunque, in casa Radiohead,
a parte qualche percussione che aggiunge un sapore latino
alla materia sonora (Bloom). Tom non canta motivi memorabili neanche quando il tono si fa pastorale in Give Up The
Ghosts. Il singolo Lotus Flower è forse l’unica eccezione che
ricalca il sound “pieno” di In Rainbows, mentre Separator
riserva un’inattesa apertura melodica, ed è di nuovo luce. Il
“pregio” del disco sembra essere la sua assoluta impalpabilità. Dura 37 minuti, necessita ascolti ripetuti, ma non resta
impressa neanche una canzone. Come se fosse un album di
musica ambient cantata, è destinato a risuonare come sottofondo, si presta ad ascolti distratti, è musica sfuggente.
Se questo era l’intento di Yorke e soci, l’esperimento può
dirsi riuscito, ma personalmente considero questo lavoro un
passo indietro nel percorso discografico di una grande band.
Tobia D’Onofrio
sul divano, i ritmi travolgono
e le melodie restano. Insomma,
se vi piace il genere, ne sentirete parlare presto e a lungo.
Marco Chiffi
KIPPLE
The Magical tree & the
land of plenty
I Dischi del Minollo
Uno di quei dischi che non importa sapere da dove viene e
come è stato fatto. Roba da feticisti quella o che ha a che fare
con altri mondi musicali. Kip-
ple è un progetto con davvero
qualcosa di serio, vivo e fluente
alle spalle, uno sguardo interiore e lento a cui è stato dato
il nome di Baby kisser baby
killer, On Cloud nine e Missing
children day. Rievocare nomi di
valore indiscusso come Cocteau
Twins non può che essere un
grande complimento, visto che
poi il disco è così ricco di sfumature e di buone idee (Fisting,
Ex-boyfriend) che non vale la
pena sprecare così tanto fiato
e ascoltare, ascoltare con cura.
MUSICA 31
Tra i nomi da tenere d’occhio
per i mesi a venire, l’esordio dei
Kipple è un disco bello e finito,
altro che demo. Complimenti e
alla prossima.
Al Miglietta
MAFALDA ARNAUTH
Fadas
Egea distribution
MASCARIMIRÌ
Gitanistan
Dilinò/Anima Mundi
ROBERTO GIORDI
Con il mio nome
Odd Times Records/ Egea
Con il mio nome non è solo il
titolo del disco di esordio del
“giramondo” Roberto Giordi,
ma è anche quello del primo
brano che inaugura il raffinato
album. Il preludio alle successive dieci tracce, si apre con
un’incalzante e coinvolgente
“sonorità” jazz. Anche attraverso una ritmica swing, che
ben sostiene la ferma voce di
questo introverso cantautore
napoletano, approdiamo delicatamente su romantici ed a
tratti malinconici fraseggi musicali pop. Questo variopinto
viaggio d’esordio, nel cuore
della cultura musicale europea e d’oltreoceano, continua e
Roberto colora i suoi brani con
altrettante sfumature latinoamericane; più frizzanti e corali risultano, invece, le composizione ed i duetti con deliziose
voci femminili cadenzate in
un’allegra bossa nova. Il disco
contiene una “chicca”, ossia
una calda e passionale reinterpretazione in lingua originale
di un brano di Astor Piazzolla.
Quella di Michelangelo Giordano in arte Roberto Giordi è
una discreta e melodica “prova
del fuoco” sentimentalmente
vissuta e professionalmente
musicata.
Giuseppe Arnesano
32 MUSICA
È la tipica artista che per uscire dai confini della sua terra
è ritornata all’origine di questa
terra, alle radici, alle note malinconiche del fado, ai suoni
dolci che hanno l’odore del Porto. Lei nasce a Lisbona e comincia la sua carriera come cantante quasi per caso. Ora il suo
talento è apprezzato non solo in
Portogallo, ma anche in Europa. Questo nuovo album, composto da dodici tracce, è dedicato alle donne, e all’universo
femminile. Affiancata da uno
straordinario cast di musicisti
internazionali - Luís Guerreiro (chitarra portoghese),
Luís Pontes e Ramón Maschio
(chitarra classica), Fernando
Júdice (basso acustico), Pedro
Santos (fisarmonica), Daniel
Salomé (fiati) e Davide Zaccaria (violoncello) - reinterpreta
in maniera personale canzoni,
delle personalità femminili fadiste che l’hanno ispirata nel
suo percorso. “In Fadas – spiega Mafalda – ho deciso di cantare alcune di quelle voci, donne uniche, magiche, che in alcuni casi ho avuto il privilegio
di conoscere e altre che non ho
conosciuto, ma che sono state
allo stesso modo cruciali per
la mia crescita ed evoluzione
come fadista”. Una creazione
per orecchie decisamente sensibili e viaggiatori dell’anima.
Roberta Cesari
Non sono un grande intenditore
di musica popolare e di quella
salentina in particolare. Credo che molti gruppi e musicisti
abbiamo “cavalcato l’onda” senza apportare nulla di nuovo (e
neanche di vecchio) allo studio,
alla riscoperta e alla riproposizione della pizzica e della taranta. Premessa indispensabile
per apprezzare, invece, il lavoro
svolto da Claudio Cavallo Giagnotti e dai Mascarimirì. Oltre
dieci anni di carriera e di musica che amano definire punk
dub tarantolato. Cavallo è un
nomade, ha origini rom, e dalla
sua Muro Leccese propone musica che parte dal Salento ma
viaggia lontano. La sua nuova
creatura è Gitanistan, che non è
solo un cd ma un progetto molto
ampio che va avanti da un paio
di anni e che ci consegna un affascinante cammino tra le musiche da danza del Mediterraneo
che hanno subito influenze Rom.
“Gitanistan è un disco “tradizionale”, precisano i Mascarimirì,
“nel senso che noi diamo al termine, capace, cioè, di parlare
con gli strumenti tradizionali di
oggi, come il computer, i distorsori e le effettistiche, perché qui
la Tradizione è viva e ci permette ogni giorno di assaporare i
suoni e i colori di una terra forte
ed unica come il Salento”. Diciassette brani tra pizzica, suoni andalusi, strumenti occitani,
tammurriate, falmenco, fanfare
balcaniche che vedono l’incontro
tra i Mascarimirì e numerosi artisti come Nux Vomica, Dje Ba-
leti “Gigi D Nissa” Spina, Manu
Theron, Arnaud Fromont dei
“D’aqui Dub”, Sam Karpienia,
Jagdish Kinnoo, Anna Cinzia
Villani e molti altri. Un disco
da ascoltare per entrare in questo paese, Gitanistan, che vuole
“più razze, più colori”. C’è un
Salento che ha paura e fa la caccia al diverso, c’è un Salento che
accoglie e si mescola, almeno in
musica (pila).
ANGELO BRANDUARDI
Così è se vi pare
Emi
PLAY ON TAPE
A place to hide
Rivolta records
Da tempo non si sentiva, da
queste parti, una band con l’attitudine di un gruppo. Mi spiego, mi riferisco a quella strana
sensazione che si ha quando si
ascolta un disco, sempre più
rara, in cui sembra che tutti
i musicisti si muovano nella
stessa direzione, siano immersi
nella stessa materia sonora. E
non è poco. Poi c’è la musica.
I Play on tape sono la via di
uscita dalla melma anni ‘90 in
cui sembra essersi intrappolato molto del nuovo rock. Sfacciatamente connotabili in un’
“onda nuova”, hanno il pregio
di avere il suono del momento,
di suonare quello che in Europa
e nel mondo ragazzi della loro
età amano ascoltare. Mi riferisco al sound di band come White lies o Interpol senza perdere
di vista una certa spinta alla
Placebo e l’eredità dei Joy Division. Tra le maglie dei sinth
si sente una certa influenza
Kraut, e in alcune inflessioni
vocali l’amore per i Cure.
Osvaldo Piliego
Se gli chiedi quale musica preferisce ascoltare, ti risponderà
quella americana, “perché quella occidentale e inglese è
paranoica”. Il suo sogno nel cassetto? Dirigere la tetralogia
di Wagner. I suoi fan dice che si chiamano Branduardians
e La fiera dell’est l’ha reso immortale perché cantata negli
asili, dove la gente neanche sa chi è Angelo Branduardi. Insomma noi abbiamo ben capito di chi si parla. Branduardi,
in ordine con questo suo mondo diversamente ordinario, e
con la genialità dei suoi capelli, torna a proporre un nuovo
lavoro. Così è se vi pare. Pirandelliano e sarcastico esprime
il suo vo-ler remare contro ad un mondo che sa sempre ben
raccontare. E riesce a farlo in sole sei tracce, perché come lui
stesso dichiara: “Col passare del tempo sono diventato sempre più esigente con me stesso. Monto e smonto il giocattolo,
come i bambini finché non mi piace. Meno c’è, più c’è!”. In
pieno stile Branduardi, il cd costerà solo 9,99 perché il suo
intento è quello di rendere accessibile la musica per avvicinarne sempre più gente. In pieno stile Branduardi non fa
una piega. Così è, se vi pare.
Roberta Cesari
LENULA
Lenula
Pelagonia Music
La musica dei Lenula è impastata di fumo e alcol, crepuscoli
blues, progressioni lisergiche,
cabaret decadente. La band di
Villa Castelli ha un colore piacevolmente retrò capace di conciliare tinte più forti e claustrofobiche ad ariose aperture. A
questo si accosta una tendenza
verso un cantautorato insolito
contraddistinto da una voce
matura che delinea il carattere
dell’intera band, un trio in stile
Doors capace di scrivere canzoni che già convincono. (O.P.)
AA.VV.
Quisalento Compilescion
Guitar
Nel panorama editoriale salentino da dieci anni a questa parte
c’è una certezza e si chiama quiSalento, un mensile (quindicinale nel periodo estivo) che si occupa di eventi (una specie di bibbia
per i turisti) ma non solo. Nelle
sue rubriche il giornale presenta
e accoglie riti, sagre, percorsi turistici, personaggi da conoscere,
MUSICA 33
musica, cinema, arte. In molti
sono (e siamo) passati da quelle
colonne, palestra di giornalismo
culturale e “territoriale”. In molti in questi anni hanno deciso di
allegare il proprio cd, libro, documentario al giornale. Così per
i dieci anni di vita del giornale,
nato dall’esperienza e dalla follia di Roberto Guido e Marcello
Tarricone, quiSalento propone
in allegato un cd con venti pezzi che ospitano il meglio della
produzione “etnica” di questi
anni. Dai Kaus Meridionalis
(con La quistione meridionale,
pezzo scritto da Rina Durante per il Canzoniere Grecanico
Salentino), ai Ghetonia, dagli
Zoè ai Menamenamò passando
per il reggae di Sud Sound System e Treble, il balcan degli
Opa Cupa, il mediterraneo di
Bandadriatica e Mascarimirì,
l’elettronica degli Insintesi, sino
a giungere al cantastorie Mino
De Santis, solo per citarne alcuni. Per festeggiare i dieci anni
quiSalento ha organizzato una
festa per venerdì 15 aprile ai
Cantieri Koreja per discutere di
quello che è stato e di quello che
sarà (pila)
PELUCHERIA
HERNANDEZ
Hamaresque
Audiar/Radiocoop
VALENTINA GRAVILI
Roma, una sorridente balena gonfiabile si aggira indisturbata
nelle rumorose acque di fontana di Trevi. Qualche giorno fa la
giovane Valentina Gravili ha presentato il suo quarto album
intitolato La Balena nel Tamigi. Sonorità affascinanti e composizioni “rockettare” sostengono ritmicamente la scrittura
fresca e contemporanea abilmente enfatizzata dalla fluida ed
accattivante voce della cantautrice brindisina.
Sei al tuo quarto lavoro discografico cosa ci racconta La
Balena nel Tamigi?
La Balena racconta di bimbe brillanti che hanno rinunciato ai
propri sogni, di città spietate, di amori che lasciano il vuoto e di
necessità a cui l’amore da solo non può provvedere, come l’affitto da pagare o l’inarrestabile esigenza di riconoscere la malafede che si nasconde dietro le cose che ogni giorno ci raccontano e
ci propongono. Ma parla anche della fiducia nella gente, della
follia che ti aiuta a sopravvivere e che ti fa vedere la bellezza
anche lì dove non c’è, delle piccole e magiche gioie quotidiane,
delle grandi imprese che l’arte può compiere.
Titolo vagamente “surrealista” ci spieghi come nasce
I Calibro 35 hanno sicuramente
riacceso i riflettori sulla musica cinematica e strumentale
made in Italy e l’interesse nel
pubblico di indie chic del nuovo millennio. Una scuola che
ha conquistato il mondo intero
e che ancora oggi continua ad
34 MUSICA
affascinare ascoltatori e registi.
Ed è così che la fantasia di un
disegnatore come Mauro Marchesi mette su una band per colonne sonore di film immaginari. Pelucheria Hernandez è un
gioco musicale fatto di rimandi
dove le balere accennano al
surf, giogioneggiano con assolate ambientazioni mariachi per
poi sorprendere con sferzate più
post alla Morphine. Un gran disco, buon divertimento. (O.P.)
EXPLOSION IN THE SKY
Take care, take care, take
care
Tamporary Residence Ltd
Ritornano gli Explosion In The
Sky con Take care, take care, take
care album che conserva lo stesso spirito dei precedenti. I brani
sono autentiche esplosioni in
un’innata calma, passano dalla
solitaria e logorante malinconia
alla violenza più totale, ognuno
sembra un’attenta riflessione
l’idea del nome?
Se bene quasi “onirico” in realtà una balena
nel Tamigi è davvero esistita. Giunse nel 2006
nelle acque londinesi dopo aver perso il senso
dell’orientamento. Così ho deciso di fare del povero cetaceo la metafora del senso di smarrimento che ci attanaglia in questo momento di crisi
economica e di valori, in cui i punti fermi tipici
di una società sana, come la scuola, la cultura,
il lavoro o la stessa classe dirigente, vengono a
mancare. Si brancola nel buio e ci si sente persi,
appunto smarriti come una balena nel Tamigi.
A che punto è la tua “metamorfosi” artistica?
La metamorfosi non arriva mai a compimento, si
passa semplicemente da uno stadio all’altro, oggi
sono una balena ma dentro di me è già in atto una
nuova trasformazione. Anche rispondere alle tue
domande in questo momento mi sta cambiando.
In che modo vivi la scrittura durante la
composizioni dei tuoi brani?
Il momento della composizione è sempre molto
stimolante, mi piace cimentarmi con la nostra
bella lingua che offre soluzioni sempre nuove,
con effetti inaspettati e originali. È per me fondamentale comporre musica e testo contemporaneamente. Odio il finto inglese, perché ti conduce
verso melodie già trite e ritrite mentre mettere in
musica un testo già finito può dar vita a un “effetto menestrello” piuttosto stantio e noioso. Solo
quando parole e musica viaggiano di pari passo
riesco ad essere soddisfatta del mio lavoro.
Cos’è cambiato dall’album Alle ragazze nulla accade a caso a quest’ultimo?
In comune c’è ancora uno staff di lavoro già collaudato nel quale credo molto. Mi riferisco ad
Amerigo Verardi, Max Baldassarre e Silvio Trisciuzzi, i miei produttori artistici. Questo nuovo
su un’opaca realtà. Last Known
Surroundings e Trembling Hands sfoggiano una più completa
maturità. Ascoltando si fantastica su sensazioni intime, cullati
da un suono spontaneo che si
ripete costante e, usando un loro
vecchio brano, sembra di trarre il
“primo respiro dopo il coma”. La
malinconia si insinua nella placida calma con chitarre distorte
che sostituiscono un effluvio di
parole. Be Comfortable, Creatu-
disco ha in se una vena psichedelica molto più
accentuata, anche grazie all’utilizzo di strumenti insoliti come lo zither o il bouzouki. Nei testi
della Balena ho rivolto lo sguardo verso l’esterno,
mentre Alle ragazze era decisamente molto più
introspettivo. Ora non amo più molto quello scriversi “addosso”
Brindisina di origine ma romana di adozione, com’è il tuo rapporto con la città eterna?
La capitale offre tante possibilità, specie per il
mio lavoro, ti sembra di avere tutto a portata di
mano ma poi ti accorgi che il traffico ti blocca, gli
spostamenti richiedono tempi esagerati, i rapporti con la gente restano superficiali e soprattutto
mi manca il mio mare “come lui non c’è nessuno”!
L’iniziativa delle “balene nelle fontane
italiane” ha coinvolto città come Roma,
Milano, Torino e Lecce, ci dici com’è nata
quest’idea e come è andata?
Sta andando molto bene. L’idea è di un gruppo di
ragazzi che dopo aver sentito il mio disco in anteprima si è rivisto nella metafora della Balena nel
Tamigi e mi ha proposto di creare un movimento che prende in prestito il titolo del mio album.
Nella pagina facebook raccogliamo i pensieri di
chi sente quel senso di smarrimento che abbiamo
definito “sindrome da balena nel Tamigi”. Il gruppo si sta espandendo, spesso esce dalla virtualità
di internet per prendere parte ad eventi come la
manifestazione delle donne del 13 febbraio ed
operazioni “simboliche” come quella delle Balene
nelle fontane italiane, durante la quale misteriose balene gonfiabili hanno perso la strada per il
mare e si sono ritrovate a sguazzare nella Fontana di Trevi o in quella di Piazza Navona(potete
guardare il video su you tube). Il 26 Marzo le balene arriveranno a Milano, il 9 Aprile a Torino e
il 23 Aprile a Lecce.
Giuseppe Arnesano
re e Human Qualities hanno un
più alto impatto emotivo in cui la
melodia sognante è interrotta da
sprazzi di lucidità. Let Me Back
In e Postcard from 1952 rinnovano l’invito del titolo a prendersi
cura di sensazioni fuori controllo
che spesso emergono solo con la
musica.
Ofelia Colaci
SEAHOUSE
T.e.d
La casetta produzioni
Seahouse è un luogo, una casa
fatta di musica dove amici vivono da anni il loro personale
viaggio alla ricerca di un linguaggio nuovo capace uscire
dagli schemi in cui la musica è
abituata. Forse anche a questo
allude ironicamente il titolo di
questo nuovo T.e.d. (The emotional discount), un disco senza
MUSICA 35
36
tempo in cui caratteri musicali
diversi riescono a condensare
retaggi punk, psichedelia, tinte
dark, rimembranze progressive, tutto in chiave strumentale. (O.P.)
MARCO BARDOSCIA
The Dreamer
My Favorite Records
JOGGER
This Great Pressure
Magical Properties
Qui da noi nessuno se li è filati
più di tanto, può succedere
per carità. I Jogger spuntano
fuori pescati da Daedalus e la
sua etichetta, arrivano da Los
Angeles e hanno le carte giuste per diventare un piccolo
fenomeno nei mesi a venire. Il
disco è del 2010, il titolo dà già
un’idea precisa di sé prima ancora dell’ascolto, oltreché molto
attuale: una valanga di spunti,
suoni, influenze accorpati con
lo scopo preciso di dare ogni
volta un sapore diverso. Le
voci di Amir (chitarre, violino)
e Jonathan (laptop, controller)
non sono mai banali (Napping
Captain, In America), e il taglia
e cuci del duo ci regala canzoni
come Gorilla Meat e Champing
at the bit, fino al singolo davvero
geniale Nephicide: un viaggio allucinato tra metal, Aphex Twin
e Club 8, con tanto di video da rivedere per giorni. Dove li posiziamo sullo scaffale? Non ho idea,
i ragazzi dimostrano un gusto
fuori dal comune per fare un
disco del genere, li aspettiamo
a braccia aperte anche in Italia.
Al Miglietta
Succede, qualche volta, di far girare un disco e di doverlo
ascoltare più volte prima di trovare la chiave per goderselo
fino in fondo. E non perché sia difficile, ma perché l’iniziale
resistenza deve avere il tempo di cedere a ogni brano, così
da poter cogliere il tassello nascosto che ne riveli il senso e la
bellezza. In The Dreamer, secondo disco da leader di Marco
Bardoscia prodotto dalla My Favorite Records di Patrizio
Romano, di quei tasselli ce ne sono parecchi. Intanto perché
il contrabbassista salentino, ovvero il sognatore del titolo,
lo ha permeato di quella sensibilità aperta e curiosa di cui
era carico anche Opening, il suo bell’esordio discografico del
2007 su etichetta Jazz Engine. Poi perché ha confermato
di possedere una vena compositiva ricca e matura che
gli ha permesso di sviluppare il concept del sogno senza
lasciarsi intrappolare nelle atmosfere rarefatte che il
tema evocherebbe, ma dando al tutto un respiro vario, con
cambi di velocità e di registro, passando da melodie dolci
e tranquillizzanti ad altre più inquiete e rabbiose, come
fosse lo stesso sogno che attraversa varie fasi nel corso di
un’unica notte. Accompagnato da un organico di livello
(che comprende anche Luca Aquino, Giorgio Distante,
Gianluca Ria e gli amici con cui lavora ormai da anni e che
con lui sono tra quei musicisti che stanno dando lustro e
visibilità al jazz pugliese), Bardoscia mette insieme sette
brani originali, più un’improvvisazione collettiva con effetti
elettronici e un’audace rivisitazione del celebre standard
Stella by Starlight, realizzando cinquanta minuti di musica
ben scritta e molto ben suonata, e dimostrando di essere un
abile solista, ma anche un leader capace di valorizzare il
talento dei suoi compagni. Così, in Reve au petit sablon e 3112-2009, si fa notare il giovane e brillante pianista William
Greco; nelle fasi più malinconiche e inquiete di Chica y
nano e Jet spicca il suono lirico e irrequieto di Raffaele
Casarano; e poi c’è la gioiosa esplosione di Hallelujah per
il mondo; ci sono i raffinati innesti della chitarra di Alberto
Parmegiani, e il sempre ottimo sostegno ritmico di Fabio
Accardi. Insomma, una seconda prova convincente, molto
ben riuscita.
Lori Albanese
37
AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub
Radiohead - Lotus Flower
Qualcuno dirà: e che
c’azzeccano i Radiohead con la parola pop?
Bè, la risposta è che
Thom Yorke e compagnia hanno contribuito
alla costruzione della
cultura popolare musicale contemporanea
e che, continuo a dirlo,
il loro contributo è a mio avviso ancora sottostimato. Perché i Radiohead sono artisti, più che
musicisti; hanno scelto la musica ma avrebbero
potuto dipingere, o fare i creativi. Lotus Flower,
il suo video tarantolato, la strategia di promozione di King of the Limbs dice tutto questo. E se
fossero il gruppo pop per eccellenza?
Carmen Consoli - AAA cercasi
In molti aspettavano che
questo brano diventasse
singolo. E così è stato: il
secondo estratto dal suo
best of, Per niente stanca, inciso ben prima che
scoppiassero
scandali
arcorini e dimore orgettine, è apparso da subito
profetico, irriverente, impietoso. Non è un caso
che Carmen Consoli sia diventata una delle
eroine di Se non ora quando, la manifestazione
corale con cui le donne (ancora troppo poche, e
troppo di sinistra, purtroppo), hanno deciso di
invertire la tendenza e provare a riprendersi la
dignità.
Adele - Someone like you
La canzone dell’anno.
Almeno per me. Prima in Inghilterra da
un mese nella classifica dei singoli più
venduti, è destinata a
diventare un classico.
Adele è l’unica Diva dei nostri tempi. Provate
a cercare la sua esibizione ai Brit Awards 2011
per una controprova. Le pubblicità fanno la fila
per le sue canzoni, il suo nuovo album, 21 è sui
livelli del primo (che, per inciso, è l’unico a cui
ho messo un dieci in pagella nella mia carriera
di mediocre recensore). No, non sono il suo addetto stampa.
Yasmin - On my own
Per una Diva che cresce, una mini-fenomena fa il suo pezzo di
strada. Con un singolo
molto grintoso e un
paio di campionamenti fatti bene, ognuno
può avere diritto ai
suoi quindici minuti
di celebrità. E allora,
suvvia, concedetevi un ballo in compagnia di
Yasmin, dj nata il 21 dicembre del 1988 a Glasgow, mandata in pista dall’etichetta del Ministry of Sound e adorata da Pete Tong ed Annie
Mac. Poi tornate su Adele, ovviamente.
Robyn - Call your girlfriend
Una sorprendente e costante crescita. Questo
è il vero dato su Robyn.
In fondo, è esplosa a 30
anni, dopo 10 di carriera. Non è che aggiungesse novità inaudite alla
scena musicale. Scandinava tra scandinavi,
bionda tra bionde, electro-popper tra (troppo)
electro-pop. Eppure, causa dipendenza. Da
quando si è messa a battere la cassa in quattro
sembra inarrestabile. E piace in mercati a mio
avviso assolutamente sorprendenti: sono gli
Stati Uniti, infatti, a galvanizzarla più di ogni
altro paese del mondo, cara Svezia permettendo, ovviamente.
Dino Amenduni
39
40
DAMMI UNA SPINTA
Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...
James Blake - CMYK
21 anni e già tutti ne
parlano. Al liceo, mentre si divertiva con sequencer, drum machine, pianoforti e computer, manda in giro
un brano che è subito
rilanciato da Gilles Peterson, un ponte sicuro
tra l’anonimato e il successo. La carriera è fulminante almeno quanto la sua ascesa: pubblica tre
EP nel 2011 e nei primi mesi dell’anno è già nei
negozi di dischi. Ad aprile arriva in Italia, con un
set che fa già registrare il tutto esaurito. Questo
brano, tra l’altro, è veramente fortissimo.
Agoria - Heartbeating
So che avere undici
minuti liberi, di questi tempi, può essere
un’impresa. Ma forse è
il caso di ammortizzare
il tempo di questa piccola suite post moderna di Agoria (da Lione,
Francia) e utilizzarla
mentre vi preparate a
uscire, mentre cucinate, mentre vi lavate i denti,
durante un tragitto a piedi prima di un colloquio
di lavoro, dopo aver litigato fino alle lacrime con
la vostra fidanzata. O in loop durante un viaggio
in auto verso l’infinito.
Gil Scott-Heron e Jamie XX - I’ll take care
of you
Prendi un poeta impertinente di 62 anni.
Fagli fare amicizia con
un arrangiatore impertinente. Prendi un
album del 2010, I’m
new here. Fai fare compagnia ai due creatori,
fai trasformare l’Io in
Noi. Ne emergerà un album fresco come una rosa
(“We’ll here now, appunto), pieno di spunti e di
scorci inediti come questa “I’ll take care of you”.
Fossi nel poeta, mi farei arrangiare dall’arrangiatore vita natural durante. Cassa in quattro
e pedalare.
Black Rose - Anthem
Il progetto Black Rose
tiene insieme due dj di
fama internazionale:
Jesse Rose e Henrik
Schwarz. Da Berlino
hanno fatto partire
un anthem (inno) che
sembra fatto apposta
per i club che ospiteranno masse informi di informe umanità durante l’estate 2011. Questo pezzo, almeno per il
momento, non sembra essere ancora stato contaminato dal piacere di un brano e pur essendo a
tutti gli effetti un potenziale tormentone dance,
è così elegante e ben fatto da farsi apprezzare
anche da orecchie un po’ pregiudizievoli.
Royksopp - The drug
Difficile scegliere un
solo brano del loro ultimo album, Senior,
uscito a brevissima
distanza da Junior.
Dopo un po’ di ascolti dell’uno e dell’altro
non si fatica a preferire il “grande” al piccolo”. The drug vince perché è l’unico singolo pubblicato sinora e anche
perché rappresenta il meglio della capacità dei
Royksopp, decisamente più bravi quando si va
sotto ritmo rispetto a quando tentano di fare i
“divertenti” a tutti i costi. In ogni caso, se un duo
fa due album così in un anno, merita rispetto e
ammirazione a tempo indeterminato.
Dino Amenduni
41
SALTO NELL’INDIE
42
WHITE ZOO
Piccoli punk crescono. Quando andavo alle scuole
elementari a carnevale mi vestii da punk. Insieme a me c’era Sergio Chiari. Oggi lui ha aperto
un’etichetta discografica, produce punk in vinile,
di quello fatto bene, e io non posso fare altro che
intervistarlo.
Mettere su un’etichetta discografica nel 2011
è una follia, figuriamoci poi se produce vinili. Oppure questa incredibilmente è l’unica
cosa che ha senso, l’unico modo di opporre
resistenza alla scomparsa del genere disco
dalla faccia della terra. Cosa ne pensi?
È una follia sì, viviamo in un mondo abbastanza
folle del resto. Per me è stato un processo piuttosto naturale, da piccolo sognavo di comprare tutti
i numeri del catalogo Earache o Alternative Tentacles. Comunque non sono un feticista del vinile,
le differenze nella riproduzione della musica fra
cd e vinile sono enormi e io spesso ho comprato entrambi i supporti per lo stesso titolo. Da un punto di vista meramente commerciale oggi ha più
senso produrre vinile che cd, se di punk si tratta.
Ad ogni modo il vinile non scomparirà mai, l’industria discografica se ne è accorta, mi pare.
Produci punk e affini, come ti giustifichi?
Cosa pensi sia il punk in Italia oggi?
Non credo di dovermi giustificare, sono figlio
dell’elettricità e dei Ramones. Il punk mi ha segnato nel modo di pensare. Da Kurt Cobain a Dj Hell
sono in buona compagnia. Chiunque è stato contagiato dal punk, anche senza saperlo. Con questa
label volevo pagare un tributo alla mia formazione.
Il punk rock in Italia oggi è più eccitante di quanto
non fosse in passato, più band, più etichette indipendenti, meno politica e spocchia.
Le tue scelte pongono White Zoo fuori dal
mercato ordinario, esiste evidentemente un
altro mondo fatto di ascoltatori, collezionisti, gente che ancora va ai concerti. A chi si
rivolge la tua etichetta?
Mi piacerebbe tanto rientrare nel mercato ordinario e fare il salto commerciale. A parte gli scherzi,
quel mondo al quale ti riferisci esiste da sempre
ed esisterà sempre, è il classico zoccolo duro, ogni
genere musicale ha il suo. D’altro canto mi piacerebbe che questa etichetta facesse scoprire un
mondo a chi ancora non ne fa parte, come è successo a me in passato.
Avete scelto di stampare in vinile e di prestare molta attenzione alla grafica. Come
nascono i vostri dischi?
Siamo in tre “in ufficio”, affianco a me ci sono Cristina Diez e Stefano Materazzi, entrambi talentuosi grafici. Un ottimo disco con una pessima copertina equivale a un fumetto con una bella storia
e dei disegni di merda. Cristina poi ha curato interamente la parte grafica del disco dei Transex,
dove sulla cover potete ammirare dei loschi personaggi leccesi, ha inventato il logo dell’etichetta
ecc. Le altre band possono confermarti la nostra
natura di grandissimi rompicoglioni in questo
senso. Silver Cocks e Steaknives si sono affidati
alle cure dei ragazzi del Daltonico Vision Studio, i
Giuda a un eccellente grafico francese, Tony Crazeekid, che gestisce un meraviglioso blog sul glam
rock, Crazee Kids Sound.
Ci parli brevemente delle vostre prime uscite?
Absolutely! The Heart of the State dei Transex è
un omaggio al punk rock primigenio e agli anni
di piombo, pura provocazione, il loro cantante è
il mio cattivo maestro Pierpaolo de Iulis e per
questo tutte le copie sono state stampate chiaramente in vinile rosa. Il disco dei Silver Cocks
si ispira pesantemente al punk minore di oscure
band dell’est Europa con un approccio più moderno, un disco punk e basta. Devil Inside degli
Steaknives è una rasoiata che piacerà a tutti gli
amanti dell’early hc californiano come ai fan del
puro punk rock. Il disco dei Giuda, che dire, ho
amato morbosamente i Taxi, gli avrei stampato
anche una mazurka. Fortunatamente hanno sfornato il miglior disco di glam rock ballabile da quarant’anni a questa parte.
Cosa significa creare un’etichetta a Lecce?
È la domanda più difficile. Amo e alle volte odio
questa città, ma non la abbandonerei a se stessa
per niente al mondo. Scoprire il punk rock e cercare di viverselo a Lecce piuttosto che a Milano,
a Londra, a New York, come potrebbe non insegnarti qualcosa? Creare un’etichetta qui equivale a non arrendersi e ad avere ancora voglia di
provocare e di far riflettere. Mi alzo la mattina e
spedisco un pacco in Svezia, uno in Giappone, ma
alla fine dei conti sto sempre aspettando il giorno
che mi si presenti qualche marmocchio alla porta
di casa e con inequivocabile accentaccio mi faccia
sapere che esiste.
Osvaldo Piliego
MUSICA 43
LIBRI
ALESSANDRO
BERTANTE
Nina dei lupi è la vera nuova epica italiana
È uscito da poco ed è già un caso editoriale, di
quelli nati dal basso, dove i social network giocano un ruolo centrale. Su Facebook è nato un
gruppo per proporre Nina dei lupi al Premio
Strega. Il suo autore, Alessandro Bertante, ha
la consapevolezza di aver scritto un libro pregno
di sensi e di significati che come dice Giuseppe
Genna scava “pozzi artesiani letterari”. Abbiamo rivolto ad Alessandro alcune domande. Sul
sito www.coolclub.it potrete leggere l’intervista
integrale.
Nina dei lupi è un libro potente, visionario
44 LIBRI
e profetico. Lo scenario post-apocalittico,
il rapporto tra un adulto e un bambino, le
scene di violenza dissennata e selvaggia
mi hanno fatto pensare immediatamente
a The road di Cormac McCarthy, dal quale
però il tuo romanzo si discosta notevolmente per una serie di tematiche. Quanto sei
stato influenzato dal romanzo di McCarthy,
e quali in generale sono le opere e gli autori
a cui ti ispiri?
Certo The road di Cormac McCarthy è stato un
punto di riferimento importante ma più che per
le tematiche per il modello di scrittura scarna ed
essenziale che qui raggiunge il suo apice. Il suo è
un viaggio nella catastrofe, in un mondo desertificato post disastro nucleare. Io non volevo dare
vita a un immaginario del genere, secondo me
abusato. Sono europeo e credo il nostro retaggio
culturale sia più profondo e diversificato. Quello
che mi interessava era pensare a uno scenario
post apocalittico nel quella la natura fosse egemone e rigogliosa. E in questo contesto primitivo
vedere mutare l’idea stessa di realtà da parte
protagonisti che per affrontare i pericoli e le privazioni sono costretti a sviluppare una sensibilità e un linguaggio magico. E poi Nina dei lupi è
un romanzo di attese, non di percorsi.
incarna pienamente il ruolo dell’eroe?
L’eroe è Alessio, l’uomo dei lupi. L’ultimo rappresentate del vecchio mondo. Con lui finisce un’era.
Lui incarna la forza e la tenacia. Ma anche la
metropoli e il razionalismo. I predoni, la sua nemesi, fanno parte dello stesso mondo e la loro è
una lotta, certo feroce e implacabili, ma fra creature tutto sommato simili.
I personaggi femminili hanno quasi tutti
un ruolo molto importante, anche quelli
apparentemente secondari come la nonna
di Nina (che però con il suo estremo sacrificio permette al mito di sopravvivere e
crescere). E poi Diana, che mi sembra sia
la vera portatrice di senso in un mondo
che va alla deriva (in fondo è lei che costruisce il futuro della rinata comunità di
Piedimulo). Nina, ovviamente, il mito. Ma
anche Giovanna, Maria, perfino la zoppa,
tutte le donne presenti nella storia in qualche modo influenzano gli eventi e costituiscono, coscientemente o incoscientemente
una chiave di volta. Mi parli del ruolo della
donna nella tua narrazione?
Fino a Nina dei lupi il ruolo dei personaggi femminili nei miei romanzi è stato secondario, anche
in modo colpevole. In questo lavoro diventa invece centrale. La figura chiave di questo cambiamento è Diana, e il suo antichissimo e simbolico
nome lo testimonia. Lei è madre e protettrice ma
come tutte le divinità dualistiche precedenti al
cristianesimo incarna sia la funzione della fertilità che quella della distruzione. E sempre suo
è il compito di elaborare il linguaggio magico,
base dell’edificazione di una nuova società matriarcale. Il lavoro sulla religione antica dell’arco
alpino in questo senso è stato fondamentale. Documentandomi sulle leggende e su ciò che resta
delle ritualità pagane ho cercato di raggiungere
il nocciolo mitico della nostra identità di occidentali, scoprendo figure fondamentali, si pensi ad
esempio a Santa Brigida che vediamo arrivare
a noi quasi invariata del neolitico, quando era
una delle tante emanazioni della Grande Madre
mediterranea, passando per la religione celtica,
quella romana e infine quella cristiana.
Un altro sottotema è sicuramente la critica
alla nostra società attuale, l’invito a pensare in modo ecologico. Ma quello che mi
colpisce di più nel tuo romanzo è la presenza di un messaggio di speranza. Dove sta
andando secondo te il mondo occidentale?
Ci dirigiamo davvero verso la catastrofe (e
quello che succede in Giappone in questi
giorni ci dovrebbe fare riflettere)?
Il mondo occidentale sta vivendo un momento di
crisi molto grave. E questa è soprattutto una crisi identitaria. Non sappiamo più cosa significhi
essere occidentali, quale proposta etica e culturale possiamo ancora da fare al mondo. Il nostro
ciclo virtuoso ed espansivo sembra essere terminato, di conseguenza abbiamo perso o perderemo
la centralità anche in tutti gli altri campi: economico, scientifico e in ultima istanza militare. Noi
come italiani siamo all’avanguardia in questo
processo di disgregazione, credo che questi anni
saranno ricordati come i più volgari, insensati e
decadenti della storia contemporanea.
Ciò detto, non possiamo rinunciare alla speranza.
Il tuo è un romanzo fortemente archetipico, ma c’è un personaggio, secondo te, che
Il sacrificio mi sembra uno dei sottotemi
più presenti nel tuo romanzo…
Il sacrificio è la premessa obbligata della rigenerazione. Sta alla base di ogni nuova fondazione
umana.
Un’ultima domanda sulla narrativa italiana contemporanea. Che cosa salveresti e
che cosa sommergeresti?
Credo che la letteratura italiana sia messa piuttosto bene e l’editoria sia messa molto male. Nelle dirigenze delle case editrici non c’è stato il necessario cambio generazionale. E si vede. Troppo
spesso si cerca con ottusità il successo commerciale inseguendo di volta in volta il caso specifico
di un autore che ha sfondato con il grande pubblico (che non a caso era peculiare) mettendo in
moto dei processi mimetici talvolta demenziali.
A livello contenutistico io credo che sia finita una
stagione ben precisa: quella d’ironia come unico
linguaggio, e quella del disimpegno.
Dario Goffredo
LIBRI 45
CORRADO MINERVINI
Fra le righe dei Coldplay
“Raccontare i sentimenti e le reazioni dell’uomo
medio degli anni zero attraverso la band più popolare del decennio”. Corrado Minervini presenta così Life is for living. Testi Commentati il suo
ultimo libro appena uscito per Arcana. L’autore
è un giornalista e critico musicale, già presente
in libreria con Sulla strada. In viaggio con Luciano Ligabue (2007) e Volere è Volare. Domenico
46 LIBRI
Modugno: cantante, poeta, rivoluzionario (2008).
Questa volta interpreta i testi delle canzoni dei
Coldplay consegnando al pubblico un piccolo manuale di storia degli ultimi dieci anni, impreziosito dalla prefazione di Giuliano Sangiorgi.
Cosa ti ha “guidato” nell’interpretazione
dei testi?
Scrivere un disco, una poesia, la sceneggiatura
di un film rende quell’opera soggetta a interpretazioni che potrebbero non riflettere le intenzioni dei loro fautori. È un rischio che si corre ed
è uno degli elementi che trasforma l’espressione
di un sentimento o di un’ispirazione individuale in un’opera condivisibile, talvolta, da milioni
di persone. Paradossalmente, anche il mio libro
potrebbe diventare, a sua volta, fonte di nuove
interpretazioni. La mia scrittura è stata guidata
dal tentativo, spero riuscito, di contestualizzare
quelle opere, di individuare l’origine della scelta
di un termine specifico o di un’immagine, di comprendere la fonte di uno stato emotivo espresso
in forma di canzone. Ad esempio: Yellow è oggetto, da oltre dieci anni, di tentativi d’interpretazione e contestualizzazione e la band stessa ha
spesso giocato con i riferimenti, lasciando suggerimenti fuorvianti e dando risposte contraddittorie, proprio in relazione alla scelta di quel
colore giallo. In innumerevoli circostanze sono
andato alla ricerca di possibili fonti d’ispirazione letterarie e musicali, passando naturalmente
per Shakespeare e la Bibbia, per i Beatles e George Byron e individuando centinaia d’influenze
insospettabili.
Qual è secondo te il ruolo dei Coldplay nel
panorama musicale, e non solo, dell’ultimo
decennio? Qual è la loro forza?
Partiamo da un dato di fatto: da quasi vent’anni,
diciamo dall’esplosione del grunge, il rock non è
più in grado di agire sulle masse; le rivoluzioni
di costume avvenute, ad esempio, negli anni 60
o nei ’70, sono un fenomeno irripetibile. Il ruolo “sociale” delle popstar è stato ridimensionato
molto e, detto tra noi, lo stesso Bono rischia spesso di trasformarsi in una figura caricaturale. Esistono, invero, artisti che potrebbero raccogliere
una sorta di leadership intellettuale e porsi a
capo di un movimento di opinione: penso ai Radiohead, ad esempio, i quali però, non hanno mai
cercato quella popolarità universale preferendo
rivolgersi a una cerchia ristretta; non esattamente un’élite ma, sicuramente, un sottoinsieme
all’interno di un pubblico di milioni di potenziali ascoltatori/consumatori. Quello che il rock ha
smarrito è il potere di aggregare un ampio consenso attorno a una band, a un disco, talvolta
a un personaggio. La forza dei Coldplay è esattamente quella di aver raccontato i sentimenti
di smarrimento e impotenza della maggioranza
silenziosa dinanzi alle grandi trasformazioni sociali e politiche, al cospetto della tensione d’inizio
millennio oppure di fronte ad eventi catastrofici
provocati dall’uomo o dalla natura. Chris Martin
ha raramente atteggiamenti da predicatore in
stile Bono (pur avendo, da sempre, il leader degli
U2 come punto di riferimento), nonostante il suo
ruolo di testimonial per numerose organizzazioni non governative: il suo obiettivo principale è
quello di sollevare domande, di dare voce innanzitutto alle sue perplessità, ad esempio, dinanzi
alla follia della guerra. Va letta in quest’ottica la
domanda cardine di Violet Hill, un inno pacifista
che non si limita a un generico “no” alla guerra
ma descrive, in 49 versi, la condizione di precarietà di un genere umano che pone ai suoi leader
una domanda tutt’altro che retorica: “If you love
me won’t you let me know”.
Perché hai scelto la farfalla dell’album dei
Coldplay Leftrightleftrightleft per la copertina?
L’idea era legata a un concetto di apparente
leggerezza che caratterizza la scrittura di Chris
Martin, lo stesso che caratterizza le ali delle farfalle che sono, a mio parere, una delle più incredibili manifestazioni della bellezza della natura:
un prodigio autentico, fatto di grazia ed equilibrio. Toccare quelle ali significherebbe disintegrarle. Osservando la farfalla stilizzata (usata
dai Coldplay per la copertina del minialbum live
Leftrightleftrightleft) si possono intuire, nei suoi
profili, i lineamenti di due volti che si incontrano, uno di fronte all’altro. Una rappresentazione
grafica di una delle esigenze artistiche dei Coldplay e della poetica di Chris Martin è la ricerca
costante del dialogo, dell’interrelazione con l’altro. Usando un verso di uno dei loro brani più
celebri, direi Let’s talk.
Quanto troviamo del fan e quanto del giornalista nel libro?
In realtà non mi sono mai considerato fan dei
Coldplay. Sono troppo vecchio per questo tipo di
rapporto con la musica e con gli artisti... Al di là
della grande ammirazione che provo nei confronti di Chris Martin, credo che in Life is for living
ci sia, soprattutto, il lavoro di un giornalista che
ha mosso i primi passi nel mondo della carta
stampata esattamente negli stessi giorni in cui il
mondo scopriva il debutto della band britannica.
E che ha seguito da vicino, “per motivi di lavoro”,
l’incredibile ascesa al successo di un gruppo di
ragazzi agli antipodi rispetto agli stereotipi del
rock che sono diventati – loro malgrado – i più
credibili narratori del primo decennio di questo
terzo millennio.
Laura Casciotti
LIBRI 47
VICTOR GISCHLER
Notte di sangue a Coyote
Crossing
Meridiano Zero
Il western con camion Peterbilt e automobili Nova e Ford
Mustang Mach 1 che filano su
strade polverose mentre gli
Abba cantano Dancing Queen.
Roba di bettole dell’Oklahoma, regolamenti di conti, notti
calde e stagnanti annebbiate
dall’alcool, cappelli di paglia,
pacchetti di Winston, sudore e
naturalmente raffiche di piombo. Pulp (metabolizzato da un
pezzo) che da noi appartiene
unicamente a due scrittori
come Ammaniti e Di Monopoli
e negli States vanta invece una
lunga tradizione e maestri indiscussi (Elmore Leonard e Joe
R. Lansdale in testa al branco).
Qui c’è un giovane aiuto sceriffo, Toby Sawyer (in aperto
omaggio a Mark Twain) a caccia di un cadavere scomparso
nel tempo di una notte lunga e
pericolosa e nello spazio di un
posto da coglioni senza futuro.
È lui a raccontarci la storiaccia,
fin da quel colpo di tosse simulato nell’incipit per mascherare
il riso davanti al corpo morto
di Luke Jordan. Gischler viene
dalle sceneggiature per fumetti
Marvel, in Italia la casa editrice Meridiano Zero ha pubblicato La gabbia delle scimmie e
Anche i poeti uccidono e in diverse interviste ha dichiarato
una grande influenza cinematografica nella sua scrittura.
Confeziona un romanzo veloce
48 LIBRI
(tempo di lettura stimato: due
ore scarse) tutto muscoli e inseguimenti coreografati; una
commedia action lodevole per
la cura artigianale della manifattura e il sale dell’irriverenza (modello Kurt Vonnegut)
versato sui sacri testi dell’hard
boiled firmati da Chandler,
Hammett e Spillane. Frase per
i posteri: “Mi era venuta l’idea
di mettere su una band, ma in
città c’erano solo dei liceali del
cazzo che continuavano a inciamparsi sull’uccello, oppure
dei vecchietti con il banjo.”
Nino G. D’Attis
deposito di uno sfasciacarrozze,
una tangenziale e i binari dove
corrono i treni. È una storia di
abusi sessuali, violenza genitoriale e sentimenti ambivalenti
che tagliano le figure dei protagonisti. L’autore alterna scrittura pulp ed intimista, con una
particolare attenzione rivolta
agli aspetti immaginifici della
mente del giovane prigioniero.
Merico si presenta come una
sorta di Ammaniti del Salento
offrendo un esordio sulla distanza lunga del romanzo davvero convincente.
Rossano Astremo
GIUSEPPE MERICO
Io non sono esterno
Castelvecchi Editore
SERGE QUADRUPPANI
La rivoluzione delle api
Edizioni Ambiente
Il suo nome è Giuseppe Merico,
ha 37 anni, è nato e cresciuto
a San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi, ma vive da
molti anni a Bologna. Dopo il
suo esordio del 2007 con una
raccolta di racconti dal titolo
“Dita amputate con fedi nunziali” (Giraldi), ad inizio 2011
ha pubblicato per Castelvecchi
Editore il suo primo romanzo,
“Io non sono esterno”, una storia ambientata in un Salento
fantasma. Un ragazzino viene
segregato dal padre nella cantina di casa. Nei sotterranei della sua anima impara ad amare
l’uomo che lo tiene prigioniero
e a perdonarlo. In un continuo
alternarsi di flashback si ripercorre il periodo che lo ha portato alla prigionia in un succedersi di fatti che si svolgono in
una periferia desolata tra un
Nei romanzi di Quadruppani
c’è, sempre, qualcosa che ti sorprende, ti lascia interdetto, per
quella capacità che ha di raccontare cose agghiancianti con
uno stile lineare, semplice, mai
ampolloso. Per quella capacità che ha di costruire trame
e intrecci perfetti, senza sbavature, creando cortocircuiti
mentali nel lettore che, inutile
provarci, non riesce a staccare
le mani dalle pagine del libro
e gli occhi dalle parole che lo
compongono. La rivoluzione
delle api, uscito per le Edizioni
Ambiente, nella collana Verdenero (che conferma così di essere una delle case editrici italiane dove la qualità dei testi
proposti è sempre altissima), è
un romanzo ambientato nella
pacifica Val Pellice, in Piemonte, tra apicoltori, dolcissimo
SANGU
La Puglia maledetta si racconta
Quando ho letto la notizia che Manni stava per
pubblicare questo libro, quando ho letto i nomi degli autori che ne avrebbero fatto parte, ho pensato
che forse presto avrei avuto tra le mani un gran
bel volume di racconti. E ho iniziato ad aspettare.
Poi finalmente ho avuto l’antologia tra le mani e
ho iniziato a leggerla.
Si parte col botto. Racconto di Cosimo Argentina dai risvolti più che pulp, condito con del sano
dialetto tarantino e un sorriso da folle che spesso
arriva leggendo Argentina. Si chiude con un senso
di leggera amarezza dato dal testo di Enzo Verrengia (già amato dal sottoscritto per il suo La
notte degli stramurti viventi), dove sembra che di
buono nella nostra terra e nel nostro tempo sia
rimasto ben poco, e che tolti gli interessi personali
lo spazio per ilr esto sia piuttosto ristretto.
I racconti sono in ordine alfabetico per autore,
scelta saggia da parte dell’editore che si è trovato
ad affrontare dieci cavalli di razza, dieci nomi tra
i più interessanti del panorama narrativo contemporaneo e non solo pugliese.
Come al solito cercare una linea comune tra questi autori è impossibile, si passa dal delirio puro
di Argentina, Livio Romano che ci regala una
sua inaspettata versione cattiva e dissacratoria e
Piero Calò che ci racconta una storia dai risvolti paradossali e imprevedibili alle pregiatissime
sperimentazioni linguistiche di Carlo D’Amicis
che inventa una lingua che è una miscela di albanese, italiano e dialetti pugliesi, e a quelle di
Piero Manni, che per restituirci l’atmosfera di inizio novecento in cui è ambientato il suo racconto
trova una lingua che sembra congelata e che ci
arriva con tutta la sua forza espressiva. Abbiamo
i racconti ispirati a fatti di cronaca di Rossano
Astremo ed Elisabetta Liguori (i due, reduci da un
libro a quattro mani, mostrano ancora una volta
di avere in comune background e ispirazione) o comunque alla cronaca vicini, come quello di Donpasta dove le vicende di clandestini e neocaporalato
fanno da sfondo a una storia di amore e dolore.
Su questo vorrei spendere due parole. Sulla bellezza della narrativa sia quando è capace di farti
volare lontano dalla realtà che ti circonda, anche
quando prende spunto da essa per poi allontanarsene, sia quando parte da lontano, da quello che
dici non potrebbe mai accadere, e poi invece ti ritrovi a pensare che però, forse, in effetti, chissà
potrebbe anche accadere. È questo che cerco nella narrativa cosiddetta di genere: la capacità di
sorprendermi, di farmi volare con la fantasia, di
staccarmi per qualche ora dalle cronache barbare
e prive di slancio dei telegiornali.
Chiudo il discorso spendendo due parole su Omar
Di Monopoli, quello tra gli scrittori presenti
nell’antologia che più si avvicina nel suo quotidiano mestiere di scrivere al genere noir.
Il suo racconto è una conferma delle sue capacità
narrative, della sua grandissima abilità nel maneggiare e plasmare la materia e la lingua di cui
compone le sue storie. Un racconto, il suo, dove
magia, antiche paure e superstizioni, favole e leggende si fondono per restituirci un mondo turpe,
dove il male non è solo una cosa lontana e straordinaria ma permea di sé ogni momento e ogni
molecola del nostro mondo e della nostra vita. La
ciliegina sulla torta di un libro che assolutamente
merita di essere letto. (dg)
49
miele, ecologisti arrabbiati e
una fabbrica che non sappiamo
bene che cosa produce, ma che
non piace agli ambientalisti del
luogo. Intorno a queste tracce
si muovono, come al solito nei
romanzi del maestro del noir
francese, personaggi incredibili
ma estremamente verosimili,
personaggi ordinari ma estremamente imprevedibili, situazioni limite in cui la resistenza
e le convinzioni dei personaggi
vengono messe a dura prova e
al lettore non resta che dispiacersi che il romanzo alla fine,
debba finire. (dg)
WU MING
Anatra all’arancia
meccanica
Einaudi
L’anima punk dei Wu Ming
riaffiora in superficie. Acida,
surreale, spudorata, espressa
attraverso 16 racconti scritti
nell’ultimo decennio e sparsi
in precedenza sul web e su carta. “Con la Nona del “Ludovico
Van” in sottofondo, il libro va
gustato freddo come la peggiore vendetta, così da esaltare i
sapori di una comicità grassa,
a tratti greve, sovente manesca
e facinorosa.” scrive Tommaso
De Lorenzis nella prefazione. Beethoven o i Residents,
o magari i Dread Zeppelin di
Tortelvis, perché no? Nell’insieme, il sound è lontano dal
rigore epico-rutilante che caratterizza gran parte dei romanzi fin qui pubblicati dal
collettivo; prevale piuttosto
l’urgenza di raccontare (quasi)
THOMAS PYNCHON
Vizio di forma
Einaudi
Puro effetto illusorio la caccia
all’unico Grande Romanzo
Americano. Esercizio sterile
e ricorrente, meno simpatico
di una gag fissata sulla carta
dal signor Pynchon in questo
romanzo-monstre camuffato
da commediola noir (e invece
è un kolossal quanto Mason
& Dixon, Contro il giorno o il
famigerato Arcobaleno della
Gravità). Doc Sportello, occhio privato fuori asse nella
California dell’era Nixon, fa
l’hippie rintronato modello
Lebowski muovendosi tra bellezze abbronzatissime, bykers
nerboruti, reduci dal ‘Nam
e morti viventi. Deambula,
più che muoversi: si pone di
sbieco davanti alle situazioni
più improbabili sapendo di
senza filtri il presente in tanti
lapsus cortocircuitanti e molte
sue sfaccettature: dal grottesco
verosimile di Benvenuti a ‘sti
frocioni 3 (nato dai primi contatti del collettivo con il folle
universo del cinema) a Gap99,
incursione nei temi familiari
a Irvine Welsh (discoteca/buttafuori/spacciatori neri), passando per testi come Bologna
Social Enclave, scritto poco prima del tragico vespaio del G8
a Genova nell’estate del 2001 e
I Trecento boscaioli dell’Imperatore, donato alla campagna
essere una gocciolina d’acqua
nell’oceano di tutti i Grandi
Romanzi Americani già scritti
da Pynchon come da Hunter S.
Thompson, da Mailer a DeLillo. Ma ogni goccia è importante (Doc lo è per la sua ex, per
gli sbirri che gli stanno alle
costole, per il Grande Scrittore
che sceglie l’anonimato mediatico e alla lunga risulta più
amabile del fu psicoparanoico
Salinger). Goccia che può dissetare chiunque abbia finora
girato alla larga dai labirinti
creati dal geniaccio onnivoro
di Glen Cove, oppure mandare in orbita lisergicamente
il pubblico dei fedelissimi.
Finto noir, finta commedia
(di psichedelia, speculazione
edilizia, surf-music, Federali
sguinzagliati da Hoover e caraffe di Margarita): forme solo
apparentemente negate alla
sperimentazione. In questo
senso, il suo essere scanzonata/trasandata parodia blakeedwardsiana dei territori
artificiosi di Raymond Chandler è esemplare: qualcosa che
disegna scie caleidoscopiche
e proietta la letteratura al di
là dell’intrattenimento senza
perdere di vista la leggerezza.
Nino G. D’Attis
di Greenpeace “Scrittori per le
foreste”. Dal reale, i Wu Ming
prelevano mostri, maschere,
pagliacci e li mettono in pista.
Mutano e deformano i corpi da
cartoon disneyani, ne storpiano i nomi, i tratti caratteriali,
in aperta beffa al potere retrivo delle holding ma anche per
ricordare come la coscienza di
lavorare su storie di storie sia
da sempre patrimonio di tutti.
L’anatra è un’autobiografia in
pezzi narrativi (atto secondo,
dopo la sistemazione teoricocritica di articoli e saggi in
LIBRI 51
52
Giap! nel 2003). Una selezione
di dissolvenze/sovrimpressioni/
cazzeggi a rilascio differenziato. Se ne consiglia l’uso (smodato) per combattere l’ignoranza
meccanica del XXI secolo.
Nino G.D’Attis
RICHARD KERN
Action - DVD Edition
Taschen
A memoria, non ricordo di aver
mai visto uno scorcio di Manhat-
tan nei lavori di Richard Kern,
negli sguardi delle sue modelle,
degli attori apparsi in qualche
suo Super 8. Ancora oggi, per
questo straordinario artista
nato nel 1958, la Mela è, essenzialmente, la visione eccentrica,
(gin)ecologica di un reale, di una
piena materialità spazio-temporale pre-11 settembre: ragazze
di Coney Island meravigliosamente angeliche/infernali come
quelle cantate da Lou Reed; bellezze dei bassifondi lontane anni
luce dai set vischiosi dei photographers più blasonati, forse
parte di quell’esercito in guerra
contro la Società dello Spettacolo invocato da Debord. Con Kern
siamo sicuri di avere a che fare
con un artista che (similmente a Terry Richardson, ad Abel
Ferrara) si diverte ad occultare
nello sporco, nel politicamente
scorretto, lo splendore della sua
arte. È un erotismo tutto di carne e incidentalmente di carta
quello che si sprigiona sfogliando le pagine del bel volume targato Taschen (e annessa appendice in Dvd). Seduzione espressa
(non pensata: la seduzione non
ammette qualsiasi lavoro preparatorio) allo scopo di scongiurare
la smaterializzazione dell’individuo e della sua ombra nel caos
contemporaneo. Estremizzata,
anche, alla maniera dei cari vecchi corpi rock oggi soppiantati
dall’ologramma Lady Gaga: fuori dalla virtualità, verso il limite
più impensabile (e decretando la
morte per procurata noia ai fautori della posa plastico-perfetta),
ci sono ancora le non professioniste “Barely Legal” di Kern.
Nino G. D’Attis
53
Arena Live Music
Z.I. Carpignano Salentino (Le)
Info 3388558873 - www.arenalivemusic.com
CITOFONARE INTERNO 7
Era il maggio del 2008 quando, dopo aver organizzato, per anni, eventi letterari in librerie, associazioni culturali, biblioteche, bar, pub, gallerie
d’arte, enoteche, ristoranti, decisi che, in questa
proliferazione di libri nei contesti più vari, alcuni consueti altri meno, era giunto il momento di
sparigliare le carte e di osare l’insolito. L’idea fu
quella di invitare tre giovani scrittori italiani,
Francesco Pacifico, Veronica Raimo e Nino D’Attis nel salotto di casa mia a leggere estratti dei
loro romanzi ancora inediti. Era un tardo pomeriggio di fine maggio e da lì, da quell’aperitivo
fortemente alcolico consumatosi a Roma, a Torpignattara, dopo aver organizzato e partecipato a
un numero spropositato di presentazione di libri
svilenti e noiose, che nacque il nucleo originario
dell’evento Citofonare Interno 7. Da quel giorno
Citofonare Interno 7 porta, nel clima conviviale di
un salotto, la lettura di alcuni passi di libri inediti e uno spettacolo musicale live. È una sorta di
reading-mob che mobilita la cultura e la offre a
domicilio. Il format è stato ripreso diverse volte
a Roma e dal marzo 2011, oltre ai lidi capitolini,
sbarca nei contesti delle principali città italiane.
Fino ad ora hanno partecipato alcuni tra i giovani
scrittori italiani più importanti, e l’elenco sarebbe davvero lungo. L’obiettivo è quello di svicolare
l’idea di letteratura dal concetto dell’imperante
marketing editoriale, secondo il quale ogni evento
è legato all’idea di vendere l’oggetto libro e, inevitabilmente, per ammaliare un numero crescente di potenziali lettori e acquirenti, l’idea dello
scrittore sempre meno intellettuale e sempre più
personaggio. Ci è sembrato giusto, fin dall’inizio,
in un momento politico e sociale difficile, con il
crescente numero di disoccupati, che non sono più
soltanto giovani, ma anche uomini e donne di 40,
50 anni, per i quali inserirsi in un mercato del
lavoro sempre più in crisi diventa una missione
che sfiora l’impossibile, con l’aumento di famiglie
che non riescono più ad arrivare a fine mese, con
la tragica situazione di chi non è più in grado di
pagare le rate del mutuo, legare l’evento letterario domestico ad azioni di sostegno per chi non
possiede più una casa. Da qui la collaborazione
con l’associazione di promozione sociale La casa
di cartone, costituita da ragazzi che da anni lavorano per migliorare le condizioni di vita dei senza
fissa dimora. È da questo legame tra letteratura
e promozione sociale che nasce l’idea di dare alle
stampe un volume, il primo del neonato marchio
editoriale Citofonare Interno 7, dal titolo La letteratura non conta niente che accoglie dieci racconti aventi come tema quello delle presentazioni
di libri dall’esito disastroso (gli autori presenti
sono: Saverio Fattori, Marco Montanaro, Roberto
Mandracchia, Giuseppe Braga, Angela Scarparo,
Omar Di Monopoli, Ilaria Mazzeo, Marco Candida, Livio Romano ed Elisabetta Liguori), i cui ricavati andranno a sostenere proprio un progetto
promosso da La casa di cartone dal titolo B.I.P.
(beni immateriali primari), che prevede l’utilizzo
di performance artistiche nei luoghi del disagio
per l’integrazione tra fasce emarginate di popolazione e il territorio. Come afferma Girolamo
Grammatico, presidente dell’associazione: «Sulla
scia della Notte dei senza dimora, appuntamento
del 17 ottobre di ogni anno, La casa di cartone
chiamerà artisti di ogni risma per offrire uno
spettacolo di arte performativa a persone che vivono in uno stato temporaneo di disagio. La serata sarà, inoltre, aperta ad un pubblico interessato: entrare in luoghi solitamente rimossi significa
anche erodere un po’ del silenzio che circonda
questi spazi». È solo un piccolo sasso nello stagno
dell’indifferenza nei confronti dei senza fissa dimora. La letteratura deve smuovere simili acque:
è la nostra piccola missione.
Rossano Astremo
LIBRI 55
CINEMA TEATRO ARTE
EMILIO SOLFRIZZI
L’attore barese mattatore del piccolo e del
grande schermo
Tutti pazzi per… Emilio. Continua senza
sosta l’ascesa dell’attore barese Emilio Solfrizzi tra tv (a novembre ritorna sugli schermi con Tutti pazzi per amore 3) e cinema.
Dal successo di Femmine contro maschi alla
nuova opera di Eugenio Cappuccio Se sei così ti
dico di sì, che uscirà nelle sale il 15 aprile, la
carriera di Solfrizzi vive un momento particolarmente felice. Intanto la scena del bacio tra Emilio e Belen Rodriguez stuzzica la curiosità dei
fan e non solo. Ne abbiamo parlato con l’attore.
Emilio, cosa hai provato durante la scena
del bacio?
56 cinema teatro arte
È stato un bacio professionale e poi Belen era
molto tesa non avendo esperienze cinematografiche alle spalle. È stato un bacio bello e facile
proprio perché si trattava di Belen, l’emblema
del terzo millennio. Se al suo posto ci fosse stato Nino Frassica non sarebbe stato così facile...
Com’è stata l’esperienza con Eugenio Cappuccio?
Eugenio è un regista di grande talento e avevo
voglia di lavorare con lui. Sono entusiasta di essere stato diretto da un regista innamorato della
Puglia. Quando mi ha detto che avremmo girato a Savelletri mi ha aperto le porte del cuore.
un fulmine a ciel sereno viene invitato ad una
trasmissione dedicata alle meteore della musica, a Roma. Qui sfiora per caso Talìta Cortes
(Belen), una stella mondiale del mondo dello
spettacolo molto chiacchierata nel gossip. Talìta è un’icona del momento e del nuovo modo
di fare fortuna tramite bugie e sotterfugi. Improvvisamente la vita di Piero cambia, parte per
l’America e riesce a riscattarsi, eseguendo una
sua canzone che era stata scartata a Sanremo.
Sei uno tra i protagonisti di Femmine contro Maschi di Fausto Brizzi. Cosa ne pensi
della guerra dei sessi?
Ma quale guerra? Io mi auguro che si arrivi presto alla parità dei diritti. L’8 marzo ho partecipato con onore ad una manifestazione dedicata
alla festa della donna e vorrei dare concretamente il mio contributo a rendere il nostro paese
più adatto alle donne. Se le donne si emancipassero e fossero davvero a loro agio, vivremmo in
un paese più evoluto.
Guardando il film di Brizzi si capisce che
vi siete divertiti a girarlo…
Infatti con Luciana Littizzetto, Claudio Bisio,
Fabio de Luigi e gli altri si è trattato di tanto
divertimento e poco lavoro! Con Luciana, poi, è
stata un’esperienza di lavoro memorabile.
Ancora una volta è la Puglia la location di
lungometraggi “nazionali”.
In effetti c’è una fotografia eccezionale, merito anche di Gian Filippo Corticelli, poi c’è la forza del
mare, le luci e i colori tipici della nostra regione.
Raccontaci in breve la trama del film.
È la storia di un cantante di successo, Piero Cicala, che ama molto poco la sua unica hit estiva che
lo ha reso famoso negli anni Ottanta. Nel corso
degli anni, però, non è riuscito a riannodare i
fili con il suo pubblico ed è caduto nell’oblio. Lo
ritroviamo a lavorare come cuoco nel ristorante
della ex moglie. È un ex marito, un ex cantante, insomma un fallito a tutti gli effetti. Come
Domanda banale: come mai Toti e Tata
non hanno sfondato a livello nazionale?
Era un’epoca diversa e le distanze per girare
l’Italia sembravano incolmabili. Noi ce la mettemmo tutta, ma forse il paese non era ancora
pronto per accogliere benevolmente un duo comico con la parlata barese. I comici attuali hanno la fortuna di vivere in condizioni nettamente
migliori. Ci rincuora il fatto che Toti e Tata siano rimasti nel cuore di tanti meridionali. È evidente, inoltre, che i comici pugliesi venuti dopo
hanno saccheggiato molto spesso il nostro repertorio e farebbero bene a ringraziarci ogni tanto.
Segui ancora la scena culturale pugliese?
Vivo a Roma però continuo a seguire la scena
culturale pugliese e devo dire che mi piace tanto. La cultura ha permesso alla nostra regione
di fare uno scatto in avanti nella considerazione
nazionale e internazionale. È molto importante,
ad esempio, il contributo dell’Apulia Film Commission, che ha permesso di attrarre in Puglia
risorse economiche ingenti e attraverso la creazione di nuove professionalità è stato reso accessibile ciò che prima non lo era.
Lucio Lussi
cinema teatro arte 57
FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO
Dal 12 al 16 aprile a Lecce
Gli attori Toni Servillo e Riccardo Scamarcio, il
produttore portoghese Paulo Branco, il regista
Emidio Greco saranno alcuni degli ospiti della
dodicesima edizione del Festival del Cinema Europeo, che si terrà dal 12 al 16 aprile presso il
Multisala Massimo di Lecce. Diretto da Cristina
Soldano e Alberto La Monica il Festival, come
ogni anno, offre al pubblico e agli addetti ai lavori film, eventi speciali, mostre fotografiche. Oltre
ai film in concorso - che saranno valutati dalla
giuria composta da Paulo Branco, Alberto Barbera (direttore del Museo Nazionale del Cinema
di Torino), Giuseppe Battiston (attore), Marina
Sanna (caporedattore de La Rivista del Cinematografo), Elizabeth Missland (direttore Artistico
e Presidente Onorario dei Globi d’Oro) saranno
numerose, infatti, le proiezioni tra retrospettive, anteprime, premio Mario Verdone (che torna
per il secondo anno consecutivo) e Puglia Show
58 cinema teatro arte
(concorso di cortometraggi di giovani registi pugliesi). Il Festival si consolida di anno in anno
diventando una prestigiosa vetrina per registi
esordienti e affermati. Tra le anteprime ospitate
a Lecce segnaliamo Henry, nuovo film del regista barese Alessandro Piva, Cocapop di Pasquale
Pozzessere, Il sesso aggiunto di Francesco Antonio Castaldo, Via Appia di Paolo De Falco. Il 13
aprile prima assoluta per W Zappatore di Massimiliano Verdesca, una commedia con Marcello
Zappatore, un ragazzo di trentatré anni che, per
guadagnarsi da vivere, suona la chitarra elettrica in una band metal satanista nota nella provincia di Lecce. La vita di Marcello viene presto
sconvolta da uno straordinario avvenimento: un
fastidioso prurito al costato si rivela, in seguito,
essere una Stigmate. Nel cast anche una divertita e divertente Sandra Milo.
Info festivaldelcinemaeuropeo.it
IL GENIO DI DALÌ A OTRANTO
Dopo il grande successo delle mostre di Joan Mirò
e Pablo Picasso, il Castello Aragonese di Otranto
questa estate ospiterà Il genio di Salvador Dalì.
La mostra, a cura di Alice Devecchi, accoglie sei
sculture originali in bronzo, tra le quali Elefante
cosmico (di grandi dimensioni - h 120 x 90 x
350 cm), e una selezione di cinquantaquattro
litografie originali, che spaziano nel mondo del
surreale per illustrare temi e testi letterari e
che ancora una volta testimoniano la grande
capacità grafica del maestro spagnolo. Dal clima
gotico travasato in surrealismo bianco/nero
del Castello di Otranto, ai colori pallidi delle
Fiabe Giapponesi, al vuoto di colore della carta
lasciata nuda in Tristano e Isotta, al nero e oro
glitterato degli Amours Jaunes. Personalità
complessa e ricca di fantasia, Salvador Dalì
(Figueras, Catalogna, 1904-1989) ha operato con
vivace sensibilità e singolare estro creativo in
vari campi dell’arte: pittore, scultore, scrittore,
illustratore, scenografo, disegnatore di gioielli
e di mobili. Le sue molteplici manifestazioni
artistiche hanno suscitato da parte della critica
giudizi contrastanti che coinvolgono assieme
all’opera anche l’uomo, anzi, il personaggio, per
taluni atteggiamenti di vistoso gusto eccentrico.
L’inaugurazione è prevista il 27 maggio mentre
la mostra sarà aperta sino al 25 settembre
(ingresso 6/4 euro).
Tutte le info sul sito www.daliotranto.it
59
EVENTI
APRILE
GIOVEDÌ 7
Rocking finger al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Max Gazzè per Officine della musica alle Officine Cantelmo di Lecce
Bebo Ferra al Vite di Nardò (Le)
Marco Baliani in Kohlhaas ai
Cantieri Koreja di Lecce
VENERDÌ 8
Noisture, Shotgun Babies e Hate
Inc all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
Marcello Nisi e Dino Plasmati al
Vite di Nardò (Le)
Marco Baliani in Tracce ai Cantieri Koreja di Lecce
Bebo Ferra al Club84 di Maglie
(Le)
SABATO 9
Non voglio che Clara alle Officine
Cantelmo di Lecce
Colle der Fomento all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
The Return of Kingshiloh Sound
all’Arena Live di Carpignano Salentino (Le)
Glitterball all’Arci Lebowsky di
Gioia del Colle (Ba)
Marco Baliani in Frollo ai Cantieri Koreja di Lecce
DOMENICA 10
Cesko in “Ricordi di una vita” al
Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Radicanto al Kismet di Bari
Sounday Women al Coffeandcigarettes di Lecce
Glitterball all’Ass. Culturale Mujmunè di Leverano (Le)
Marta sui tubi a Bisceglie (Ba)
Dalla-De Gregori al Politeama
Greco di Lecce
MARTEDÌ 12
Io sono un alieno in tre metri per
due (rassegna teatrale) al Coffeandcigarettes di Lecce
MERCOLEDÌ 13
Jam Session al Coffeandcigarettes
di Lecce
DA GIOVEDÌ 14 A SABATO 16
Raccontare il territorio a Patù (Le)
60 EVENTI
GIOVEDÌ 14
Tobia Lamare and the Sellers al
Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Kocani Orkestar incontra Municipale Balcanica e Roberto Ottaviano al Teatro Tatà di Taranto
Mafalda Arnauth al Teatro Garibaldi di Lucera
Icone Award Music Wine al Vite di
Nardò (Le)
Marta sui tubi al Livello 11/8 di
Trepuzzi (Le)
VENERDÌ 15
Mafalda Arnauth al Teatro Roma
di Ostuni (Br)
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
New Orleans Dixieband al Vite di
Nardò (Le)
Massimo Altomare alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
Carla Casarano e William Greco
al Club84 di Maglie (Le)
Dieci anni di quiSalento ai Cantieri Koreja di Lecce
SABATO 16
Raw Power all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Heavy Hammer/Irie Crew all’Arena Live di Carpignano Salentino
(Le)
Esperanto. Note di speranza con
Niccolò Fabi, Radiodervish, Paola Turci, Simone Cristicchi e Yo
Yo Mundi al Politeama Greco di
Lecce
La fame di Camilla al Demodè di
Modugno (Ba)
Anansi alle Officine Cantelmo di
Lecce
DOMENICA 17
Michele Cortese e il teatro dei burattini al Jack’n Jill di Cutrofiano
(Le)
Sounday Women al Coffeandcigarettes di Lecce
MARTEDÌ 19
Manitou Project al Teatro Kismet
di Bari
Io sono un alieno in tre metri per due
(rassegna teatrale) al Coffeandcigarettes di Lecce
Bob Corn e Stranded Horse ai Sotterranei di Copertino (Le)
MERCOLEDÌ 20
Memorie di Adriano. Le canzoni
del Clan di Celentano al Teatro
Curci di Barletta
Lezioni di Rock a cura di Ernesto
Assante e Gino Castaldo al Cinema Armenise di Bari
Jam Session al Coffeandcigarettes
di Lecce
GIOVEDÌ 21
Papa Chango al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Backjumper + Meet my maker
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Icone Award Music Wine al Vite di
Nardò (Le)
Andrea Baccassino al Club84 di
Maglie (Le)
VENERDÌ 22
Mezza Testa & Soci all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
Rock in the Arena all’Arena Live
di Carpignano Salentino (Le)
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
Monroe Duo al Vite di Nardò (Le)
Dj Tayone e Tarantavirus al Livello 11/8 di Trepuzzi (Le)
SABATO 23
The party – Rock’n’Roll Disco
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Kalibandulu & Bleizone all’Arena
Live di Carpignano Salentino (Le)
Caparezza al Palafiere di Lecce
DOMENICA 24
Rock in the Arena all’Arena Live
di Carpignano Salentino (Le)
Sounday Women al Coffeandcigarettes di Lecce
Busta Rhymes al Livello 11/8 di
Trepuzzi (Le)
LUNEDÌ 25
Pasquetta rock alla Masseria
Ospitale di Torre Chianca (Le)
Apres La Classe, Verdena e altri
gruppi al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
Roy Paci & Aretuska a San Vito
dei Normanni (Br)
MARTEDÌ 26
Io sono un alieno in tre metri per
due (rassegna teatrale) al Coffeandcigarettes di Lecce
MERCOLEDÌ 27
Jam Session al Coffeandcigarettes
di Lecce
GIOVEDÌ 28
Etnia Supersantos al Jack’n Jill di
Cutrofiano (Le)
Icone Award Music Wine al Vite di
Nardò (Le)
Rookie e Howie Lee ai Cantieri Koreja di Lecce
VENERDÌ 29
Casino Royale alle Officine Cantelmo di Lecce
Spread Your Legs all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
Nudo al cubo al Vite di Nardò (Le)
Francesca Romana alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
Filosofia nel boudoir ai Cantieri
Koreja di Lecce
Western & Country acoustic trio
al Club84 di Maglie (Le)
SABATO 30
Special night- electro-dub-d’n’bbreak beat all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Arena inna Dancehall all’Arena
Live di Carpignano Salentino (Le)
Western & Country acoustic trio al
Vite di Nardò (Le)
Ministri alle Officine Cantelmo di
Lecce
Luna ai Cantieri Koreja di Lecce
MAGGIO
DOMENICA 1
Republika Mod al Jack’n Jill di
Cutrofiano (Le)
Sounday Women al Coffeandcigarettes di Lecce
MARTEDÌ 3
Io sono un alieno in tre metri per
due (rassegna teatrale) al Coffeandcigarettes di Lecce
MERCOLEDÌ 4
Jam Session al Coffeandcigarettes
di Lecce
GIOVEDÌ 5
Bundamove al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Icone Award Music Wine al Vite di
Nardò (Le)
VENERDÌ 6
Anthony Johnson all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
Luigi Mariano alla Saletta della
Cultura di Novoli (Le)
SABATO 7
Numero 6 all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Riccardo III ai Cantieri Koreja di
Lecce
DOMENICA 8
Mauvaise Reputation al Jack’n Jill
di Cutrofiano (Le)
Sounday Women al Coffeandcigarettes di Lecce
Riccardo III ai Cantieri Koreja di
Lecce
MARTEDÌ 10
Io sono un alieno in tre metri per
due (rassegna teatrale) al Coffeandcigarettes di Lecce
MERCOLEDÌ 11
Jam Session al Coffeandcigarettes
di Lecce
GIOVEDÌ 12
The Crickets al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Icone Award Music Wine al Vite di
Nardò (Le)
VENERDÌ 13
Red Bull Tourbus all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
Glitterball al Prime di Castrignano dei Greci (Le)
SABATO 14
Rino’s Garden all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Giancarlo Onorato alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
Glitterball all’Arci Rubik di Guagnano (Le)
24 grana al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
DOMENICA 15
Shok in town al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Sounday Women al Coffeandcigarettes di Lecce
Marco Bardoscia alle Officine
Cantelmo di Lecce
Elisa al Teatro Petruzzelli di Bari
MARTEDÌ 17
Io sono un alieno in tre metri per
due (rassegna teatrale) al Coffeandcigarettes di Lecce
MERCOLEDÌ 18
Jam Session al Coffeandcigarettes
di Lecce
GIOVEDÌ 19
The Selecter alle Officine Cantelmo di Lecce
Puccia “Io, te e Puccia” al Jack’n
Jill di Cutrofiano (Le)
Icone Award Music Wine al Vite di
Nardò (Le)
VENERDÌ 20
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
Naif Herin alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)
SABATO 21
I Mostri all’Istanbul
Squinzano (Le)
Cafè
di
DOMENICA 22
Gardenia al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Sounday Women al Coffeandcigarettes di Lecce
MARTEDÌ 24
Io sono un alieno in tre metri per
due (rassegna teatrale) al Coffeandcigarettes di Lecce
MERCOLEDÌ 25
Jam Session al Coffeandcigarettes
di Lecce
GIOVEDÌ 26
Blackout al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Icone Award Music Wine al Vite di
Nardò (Le)
VENERDÌ 27
Live al Coffeandcigarettes di Lecce
Edoardo De Angelis alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
EVENTI 61
KEEP COOL
Casino Royale
Ph: Lorenzo Barassi
Rock, punk, ska, musica d’autore, folk sono alcuni degli ingredienti della settima edizione di
“Keep Cool. La musica del Sud est indipendente”, a cura di Coolclub con la direzione artistica
di Cesare Liaci, che va in scena tra le Officine
Cantelmo di Lecce e l’Istanbul Cafè di Squinzano. Keep Cool (che in italiano significa Stai
Calmo) è un invito a fermarsi a guardare le cose
nascoste - quelle che da alcuni sono chiamate di
nicchia - ma che rappresentano il folto substrato
(inteso come essenza base) della cultura urbana.
Sei appuntamenti per tentare, con una programmazione interessante ma non eclatante, di mettere al centro dell’attenzione suoni lontani dalle
frequenze a cui questa terra è abituata. Dopo
l’apertura affidata ad Erica Mou, sabato 9 aprile
alle Cantelmo, spazio ai Non voglio che Clara
(ore 22.30 - ingresso 5 euro) con i brani del cd Dei
cani, un concept album, una storia d’amore che
diventa ossessione, follia e tragedia. Sabato 16
aprile (ore 23.00 - ingresso 5 euro) all’Istanbul
Cafè di Squinzano con il punk hardcore dei Raw
Power. Venerdì 29 aprile (ore 22.30 – ingresso
10 euro) alle Officine Cantelmo appuntamento
con i Casino Royale, nella prima data del nuovo tour prodotto in Puglia da Puglia Sounds. A
metà maggio uscirà, infatti, il nuovo disco Io e la
mia Ombra. Sabato 7 maggio all’Istanbul Cafè
di Squinzano (ore 23.00 - ingresso 3 euro) Keep
Cool porta sul palco i Numero6 che propongono un pop-rock frizzante, talvolta ironico e naif,
in cui trovano spazio armonie e progressioni di
accordi insolite, strutture di brani spiazzanti e
sonoritaà elettroniche, senza che per questo si
rinunci a lavorare su melodie innegabilmente
imbevute di certa tradizione italiana. La rassegna chiude i battenti alle Officine Cantelmo
giovedì 19 maggio con The Selecter (ore 22.00
- ingresso 10 euro). Too Much Pressure è il disco
più famoso pubblicato dalla band ed uno degli
album più importanti della stagione ska inglese
dei primi anni ’80 e insieme agli esordi discografici di Specials e Madness è uno dei dischi fondamentali del movimento ska.
Info 0832303707 – www.coolclub.it
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Lecce, Castello Carlo V, Torre di Merlino, Trumpet,
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Codacci Pisanelli, Sperimentale Tabacchi, Palazzo
Parlangeli, Buon Pastore, Ecotekne, La Stecca, Bar
Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio, Associazione
Tha Piaza Don Chisciotte), Calimera (Cinema Elio),
Cutrofiano (Jack’n Jill), Maglie (Libreria Europa,
Music Empire, Suite 66, Club 84), Melpignano
(Mediateca, Kalì), Otranto (Anima Mundi),
Alessano (Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo
della Cultura, Gamestore), Nardò (Libreria i
volatori, Vite, Aioresis Lab), Novoli (Saletta della
Cultura Gregorio Vetrugno), Squinzano (Istanbul
Cafè), Ugento (Sinatra Hole), Gagliano Del
Capo (Enoteca Torromeo, Tabacchino Ricchiuto),
Presicce (Jungle pub, Arci Nova), Salve (Chat
Noir, Le Beccherie), Ruffano (Soap), Casarano
(Caffè Cortes), Castrignano del Capo (Extrems),
Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy
Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini),
Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee),
Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli,
Kismet teatro, New Demodè, TimeZones, Teatro
Forma, H25, Casa della musica Puglia Sounds),
Giovinazzo (Arci 37), Trani (Spazio Off), Taranto
(Associazione Start, Trax vinyl shop, Gabba Gabba,
Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì Phone’s
Center, Artesia, Radiopopolaresalento), Manduria
(Libreria Caforio), Roma (Circolo Degli Artisti) e
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Come tutte le grandi città,
Gotham è ricca di storie e
leggende, alcune reali, altre
meno. Tra le sue strade si
consumano ogni giorno grandi
e piccole tragedie.
FRANCESCO CORTONESI
GOTHAM
POLAROID
Francesco Cortonesi ha lavorato
come speaker radiofonico notturno
ed è cofondatore della Filmhorror.
com, portale di cinema horror. Suoi
racconti sono stati pubblicati da
Ferrara, Alacran e Dagon Press.
Con il suo nick name Deadtoday ha
pubblicato “Storie di Gente Morta”,
racconti illustrati dalla Muzakiller
Foundation. Vive ad Arezzo. Ogni
notte sogna Bela Lugosi. E ci parla!
“Le ambulanze strillano più forte
quando portano i morti ammazzati”
AA. VV.
LIBRO SUI LIBRI
9 RACCONTI SULL’ESPERIENZA DELLA LETTURA
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