Sbobinature del corso di Oncologia A.A. 2013/2014

Lezione n°1 di ONCOLOGIA MEDICA Prof. Ciardiello 4/03/2014
Sbobinata da Angela Barillaro
INTRODUZIONE AL CORSO
COS'E' L'ONCOLOGIA MEDICA?
E' l'approccio clinico e, quindi, la gestione clinica, dei pazienti affetti da neoplasia. Non è, quindi,
una disciplina medica di patologia d'organo, come possono essere la gastroenterologia oppure la
pneumologia, ma è una disciplina fondamentalmente internistica che si occupa dei tumori maligni, e
principalmente dei tumori maligni solidi dell'adulto.
Come viene strutturato il corso?
-ONCOLOGIA MEDICA GENERALE
-ONCOLOGIA MEDICA SPECIALE
Inizieremo con l' oncologia medica generale, che è la prima parte del corso, per poi passare a quella
più specifica in cui andremo a studiare alcune patologie neoplastiche, che sono state selezionate in
base ad alcuni principi. Il principio più importante è la frequenza di neoplasie solide dell'adulto,
quindi tratteremo di alcuni tumori con un rilevanza epidemiologico - sociale come il tumore della
mammella, del polmone e così via. Altri tumori sono importanti perché ci permettono di capire
quale sia l'approccio o anche delle caratteristiche particolari. Tratteremo in particolare di quelli di
origine epiteliale, che rappresentano circa il 90% delle neoplasie solide dell'adulto. Alcuni tumori
non epiteliali sono tipici dell'età pediatrica e quindi non di nostra competenza, ma di una branca
specialistica della pediatria. Essi hanno una eziopatogenesi diversa, caratteristiche cliniche diverse,
e necessiteranno, quindi, di un comportamento terapeutico differente. Con la parte generale vi darò
le basi dell'oncologia medica di tipo concettuale ed alcune lezioni saranno dedicate alla
farmacologia clinica in oncologia. Essa non sarà di tipo specialistico, ma dovete comunque avere, a
prescindere dal tipo di medico che sarete, una conoscenza dei principi terapeutici di base.
ONCOLOGIA MEDICA GENERALE
DEFINIZIONE DI CANCRO
Dalla patologia generale, lo definiamo come una crescita inappropriata di cellule geneticamente
alterate. Esse, non seguendo il normale programma di proliferazione o differenziamento, crescono
fino ad assumere delle caratteristiche dannose per l'ospite. La principale caratteristica è, non solo la
crescita più rapida, ma la capacità di invadere le strutture vicine, invadere i vasi linfatici e
sanguigni, arrivando a tessuti lontani da quello di origine, dando metastasi. Il tumore maligno
diviene quindi una malattia sistemica, e questo è un grande problema. Se abbiamo un tumore
epiteliale che ancora non abbia infiltrato la membrana basale (la quale, ricordando l'anatomia
microscopica, è la zona che separa l'epitelio dallo stroma e dai vasi), abbiamo allora un tumore
maligno "in situ": la rimozione chirurgica porta alla guarigione, rendendolo identico, come entità
biologica, al tumore benigno (che è la crescita inappropriata che, però, avviene generalmente
all'interno di una membrana o capsula, che non infiltra i tessuti vicini). La terapia del tumore
benigno consiste quindi sempre nell'asportazione chirurgica, quella del tumore maligno invece non
sempre si esaurisce con l'asportazione radicale della neoplasia primitiva.
ORIGINE DEL TUMORE MALIGNO
Il tumore maligno origina sempre da alterazioni genetiche. In patologia generale avete studiato i
principali geni coinvolti nel controllo della proliferazione cellulare che, in seguito a mutazioni
puntiformi, delezioni eccetera possono dare prodotti proteici alterati i quali possono poi, ad
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esempio, provocare una attivazione costitutiva del prodotto proteico (nel caso degli oncogeni) o
inattivazione costitutiva del prodotto proteico (nel caso dei geni oncosoppressori).
Accumulando alterazioni genetiche, i geni chiave della proliferazione cellulare fanno sì che la
cellula iperproliferante diventi una cellula neoplastica, da cui poi deriva il clone maligno. E' un
processo di non ritorno.
Quindi, in origine, il tumore maligno è sempre monoclonale, cioè deriva da una singola cellula, ma
in realtà quando noi facciamo la diagnosi il tumore è già policlonale, localizzato nell'organo ma
formato già da miliardi di cellule. Se accumuliamo delle iniziali alterazioni genetiche, è più
probabile che poi ad ogni divisione cellulare si accumulino sempre più mutazioni, quindi da un
singolo clone derivi una serie di sottocloni, con alterazioni genetiche successive, se queste
alterazioni offrono un vantaggio selettivo alla cellula tumorale. Ad esempio, se l'alterazione
genetica di un sottoclone permette di vivere in ambiente ipossico (tenete presente che un qualsiasi
tumore ha bisogno di ossigeno e nutrienti) allora ha maggiori possibilità di sopravvivere. Se un
clone ha una mutazione che porta all'alterazione di un processo biochimico in modo tale da riuscire
ad invadere più facilmente la matrice extracellulare, o un tropismo maggiore per i vasi sanguigni e
linfatici, allora avrà un vantaggio selettivo rispetto ad altri perché riesce a crescere anche in un
ambiente diverso. A maggiore ragione questo può avvenire quando andremo a fare la terapia con
farmaci, perchè un'alterazione genetica che permetta in qualche modo di riparare il danno dal
farmaco, permette un enorme vantaggio selettivo. Nel tempo, si accumulano sempre più mutazioni e
quindi avremo un tumore dalle caratteristiche sempre più variabili. Questo è il motivo per cui,
quando il tumore diventa metastatico, è difficile poi riuscire a guarire completamente.
Ma quando avvengono queste mutazioni?
Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di mutazioni somatiche, ambientali, cioè acquisite
nel corso della vita dell'individuo, e sono causate da sostanze cancerogene. Vedremo che nel tumore
del polmone il cancerogeno più potente è il fumo di sigaretta. Altro esempio è l'esposizione a
sostanze cancerogene in un ambiente di lavoro industriale, ad esempio un ambiente ricco in
amianto. Altra causa di mutazioni sono le radiazioni ionizzanti. Queste cause sono, fortunatamente,
oggi altamente controllate. Ve ne sono altre, invece, di più difficile controllo, come le sostanze
presenti nell'atmosfera. Anche l'abuso di alcool, che di per sé non è un cancerogeno, può essere un
importante cofattore, soprattutto nei pazienti fumatori.
A proposito del fumo di sigaretta, dobbiamo porci un obiettivo molto importante, e cioè di smettere
tutti di fumare e far smettere le persone che conosciamo. Siete studenti di medicina e dovete dare
l'esempio. La migliore arma terapeutica è data dalla prevenzione. Eliminando il fumo di sigaretta
facciamo la migliore prevenzione primaria perché il rischio di ammalarsi di cancro, per un
fumatore, è direttamente proporzionale al numero di sigarette fumate nel corso della giornata e al
numero di anni in cui ha fumato; quindi, se avete iniziato a fumare in età adolescenziale (fumate
cioè da qualche anno) potete rendere il processo reversibile, anche nel giro di qualche anno,
arrivando ad avere un rischio equivalente ad un soggetto che non ha mai fumato.
Il fumo di sigaretta incide molto di più rispetto all'inquinamento ambientale ed altri cancerogeni.
In realtà esiste anche la trasmissione ereditaria, quindi per via germinale. Tutte le cellule
dell'individuo avranno quindi la stessa copia del gene alterato e che in alcune situazioni porta ad
una predisposizione all'insorgenza di neoplasie. Lo vedremo quando parleremo del tumore alla
mammella, del tumore del colon-retto e del tumore dell'ovaio. Possiamo avere una trasmissione con
penetranza completa, autosomica dominante o recessiva oppure può trattarsi più semplicemente di
un incrementato rischio di neoplasia. Tutto dipende dall'alterazione iniziale, presente dall'inizio
della vita dell'organismo, da cui derivano le successive alterazioni che portano al cancro. L'esempio
più semplice è quello del retinoblastoma del bambino, in cui l'alterazione riguarda il gene RB, che
controlla la progressione del ciclo cellulare. Inattivato in entrambi gli alleli può portare
all'alterazione nelle cellule retiniche. Il bambino può aver ereditato un allele malato dalla madre ed
uno dal padre, in questo caso la malattia si manifesta molto precocemente; oppure potrebbe avere
un solo allele mutato e sviluppare la malattia in seguito ad una successiva mutazione; ancora, nel
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caso del rarissimo retinoblastoma sporadico, tutti e due gli alleli vengono mutati nel corso della
vita.
Passando al cancro della mammella, sappiamo che nel 10% dei casi si sviluppa sulla base di una
predisposizione ereditaria. In genere, i tumori familiari insorgono più precocemente: se il tumore
della mammella si sviluppa generalmente dopo i 50 anni di età, quello di tipo familiare ha
un'insorgenza al di sotto dei 40 anni, questo perché la donna fin dal concepimento aveva quel gene
alterato, e quindi le eventuali successive mutazioni si sono accumulate molto presto e ne sono state
necessarie molte di meno per arrivare alla trasformazione neoplastica.
APPROCCIO CLINICO
Non è che un paziente viene da voi e vi dice "salve, ho il cancro", è quindi necessario un adeguato
approccio clinico al paziente. Quali sono i segni del cancro? Quelli iniziali purtroppo sono molto
sfumati, possono facilmente essere confusi con quelli di altre patologie benigne oppure, addirittura,
possono non essere proprio presenti fino a che la malattia non si manifesti in maniera molto
avanzata. Al minimo sospetto dovete essere in grado di sapere cosa fare per arrivare alla diagnosi.
Ci sono tumori che possono portare alla guarigione, altri invece che, o per motivi biologici, o per
motivi di ritardo dell'intervento clinico , o per mancanza di armi terapeutiche adeguate portano alla
morte del paziente. Ad esempio, se prendete il tumore germinale del testicolo maschile, che è quello
più frequente nella fascia di età di popolazione maschile presente in quest'aula, se si fa la diagnosi
nel modo giusto e si fa una adeguata terapia, si arriva nel 99,9% dei casi alla guarigione.
Se prendete, invece, pazienti con tumori maligni cerebrali, nonostante abbiano una malattia
localizzata solo al cervello, molto probabilmente essi muoiono. Ovviamente il progresso nella
terapia e nel successo terapeutico è molto variabile da tumore a tumore, in rapporto alla storia
naturale e biologica della malattia e alle tecniche terapeutiche che si sono sviluppate negli anni: ad
esempio nel caso delle leucemie, soprattutto linfoblastiche o del bambino (si tratta spesso di
bambini molto piccoli), nonostante necessitino di terapie molto aggressive, nella stragrande
maggioranza dei casi si arriva alla guarigione oggi, 20-30 anni fa invece esse portavano nella
maggioranza dei casi a morte, molto probabilmente.
Diagnosi di cancro non significa quindi diagnosi di morte!
Cosa dobbiamo fare noi? Allora, abbiamo di fronte a noi una persona che viene con un problema
clinico, con dei sintomi, segni clinicamente rilevabili all'esame obiettivo o ad un esame di
laboratorio, dobbiamo formulare un'ipotesi diagnostica, arrivare ad una certezza di diagnosi.
Nell'oncologia la diagnosi di certezza è istologica: cioè, fino a quando non avete un esame
istologico di anatomia microscopica di un campione adeguato, non avete una diagnosi di certezza.
Dovete poi riconoscere dove la malattia si è sviluppata ed estesa, perché, nel caso del tumore
maligno, è molto probabile che esso sia migrato a distanza; bisogna fare un processo che porta alla
stadiazione. Fatto ciò, avrete tutti gli elementi clinici utili per formulare un giudizio prognostico e
per formulare una pianificazione terapeutica, la quale, in oncologia, è spesso complessa, perché può
richiedere un approccio terapeutico sequenziale integrato, in cui possono avere un ruolo una serie di
trattamenti loco-regionali, oppure una serie di trattamenti e terapie sistemiche.
Quali sono le terapie loco-regionali? Sono essenzialmente la chirurgia e la radiografia. La chirurgia
consiste in un'asportazione, mentre la radiografia utilizza le radiazioni ionizzanti.
I trattamenti sistemici sono invece per definizione di tipo medico.
Questi trattamenti possono anche essere utilizzati in sequenza, seguendo una logica razionale
perché, una volta che abbiamo fatto diagnosi di certezza e fatto la stadiazione del tumore, dobbiamo
parlare alla nostra paziente e dire, ad esempio: "signora, lei ha un tumore alla mammella con queste
caratteristiche, le proponiamo questa terapia con questi obiettivi".
E allora, quali sono fondamentalmente gli obiettivi terapeutici?
Sono almeno due: o mettere in atto una serie di procedure terapeutiche che hanno come fine la
guarigione, oppure, purtroppo, abbiamo una malattia non più curabile portando alla guarigione e
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quindi l'approccio terapeutico viene definito di tipo esteso-palliativo, che ha come obiettivo quello
di far vivere meglio il paziente e più a lungo.
Tornando al principio, abbiamo una persona di fronte a noi che ci dice "ho una febbre di 38°-39°
intermittente - remittente da due settimane che non scende nonostante il cortisone". Visitate il
paziente, ed iniziate a pensare alla causa. Nel caso di tratti di un tumore maligno, voi dovete poi
arrivare a trovare l'indagine giusta. Se arrivate, ad esempio, all'esame istologico che vi dice di avere
un adenocarcinoma polmonare, dovete poi proseguire con ulteriori indagini per chiarire l'estensione
della malattia. A questo punto avrete una serie di parametri di valutazione prognostici, e a questo
punto potete dire al paziente se può guarire o meno, come può migliorare la sua qualità di vita.
Nel caso del cancro alla mammella, la presentazione clinica più frequente è la presenza di un
nodulo. E' proprio l'evidenza della presenza di una massa che porta la donna a consultare il medico,
ma non si tratterà di un oncologo o di un senologo, ma di un qualsiasi medico che conosce. Voi
sarete quindi, tutti, molto probabilmente il primo medico che un paziente con cancro incontra.
Avete quindi una grossa responsabilità, tanto più elevata quanto più il tumore è potenzialmente
guaribile! (Se voi avete un paziente anziano con tosse, versamento pleurico, febbre, con un tumore
metastatico al polmone e agli organi circostanti, anche se non arrivate alla diagnosi giusta, non fate
un grosso danno perché probabilmente quel paziente morirà comunque in un arco di tempo breve.)
Tornando all'esempio della signora, l'anamnesi è importantissima. Bisogna chiedere se la massa è
recente o no. Ci sono noduli mammari maligni ed altri che invece niente altro sono che lesioni
benigne. Se lei vi dice che già 20 anni fa, quando ha avuto la gravidanza, ha notato questa
masserella che poi nel tempo è cambiata, potrebbe, fortunatamente, trattarsi di una condizione
benigna. Se invece la signora vi riferisce di essere andata sei mesi fa dal ginecologo e di aver fatto
anche la mammografia (che era negativa), e poi aver notato un aumento di dimensioni di 1 cm della
massa, dovrete preoccuparvi di più, dovrebbe scattare in voi un campanello d'allarme.
L'anamnesi serve a capire l'evoluzione della lesione, cosa è successo nel passato della donna.
Impareremo l'esame obiettivo della mammella, come funzionerà l'esame istologico ecc. Farete fare
una biopsia incisionale che consiste nel prelevare una piccola porzione di nodulo rappresentativa
dello stesso; se, invece, faceste asportare tutto il nodulo, si tratterebbe di una biopsia escissionale.
Questo dipende dal caso in cui ci troviamo, se richiede l'asportazione in toto del nodulo oppure se è
più utile o semplice l'asportazione di una porzione con un ago sottile. Ci sono altri casi in cui anche
l'esportazione incisionale con ago non sia possibile in quanto ci sia molta difficoltà ad arrivare al
nodulo, con alto rischio di sanguinamento: in questo caso facciamo l'agoaspirato, o aspirazione per
citologia.
Qual è la differenza tra esame istologico e citologico? L'esame citologico viene eseguito su
materiale ottenuto mediante aspirazione con siringa, o preso per esfoliazione (come nel caso del
Pap-test) oppure preso da un liquido (ad esempio da un liquido pleurico), e consiste nell'analisi
delle singole cellule. Nell'esame istologico viene invece analizzato un pezzo di tessuto da un
anatomopatologo. L'esame citologico ha dei limiti: potrebbe trattarsi di un materiale inappropriato,
ad esempio potremmo aver preso poche cellule tumorali e molte dello stroma, dei vasi sanguigni;
non ci da indicazioni precise sulle caratteristiche del tumore. Ci sono infatti molte varietà
istologiche, come ad esempio nel caso del tumore polmonare a piccole, grandi cellule ecc.
L'analisi citologica ci dice che si tratta ad esempio di un tumore non-Hodgkin, ma senza aggiungere
ulteriori informazioni circa il tipo specifico.
Ogni volta che è possibile l'asportazione della massa sospetta, va fatta la biopsia. Se ciò non è
possibile, si fa l'esame citologico di cellule singole.
Se ci rendiamo conto che la signora ha un tumore maligno, dobbiamo comprenderne l'estensione,
cioè fare quello che tecnicamente è chiamato stadiazione. Bisogna mettere in campo tutta una serie
di esami di diagnostica per immagini. Nel caso del tumore alla mammella, ad esempio, verificare
innanzitutto la situazione dell'altra mammella. Ci accontenteremo, per un primo momento, di una
Rx diretta del torace e di una scintigrafia ossea, per poi passare ad indagini più specifiche di
approfondimento.
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Se, per esempio, l'ecografia epatica mostra 5 noduli metastatici nel fegato, andiamo a fare la TAC
dell'addome e troviamo altre lesioni, allora abbiamo una malattia che ha già dato metastasi per via
ematologica al fegato, quindi il processo terapeutico sarà un po’ più complicato, per tenere la
malattia sotto controllo. Non riusciamo ad arrivare rapidamente alla guarigione, ma cercheremo di
rendere la malattia cronica.
Studente: Se noi abbiamo già la diagnosi di tumore metastatico di origine mammaria, dobbiamo
fare anche una biopsia epatica?
Questa è una domanda molto intelligente, cioè quando dobbiamo fare biopsia nelle lesioni
metastatiche. Ciò dipende da caso a caso e da una serie di motivazioni cliniche. Se la lesione è
chiara, non vado a fare la biopsia al fegato, che sarebbe una seconda inutile biopsia. Però se ad
esempio nel paziente compare, dopo tre anni, una singola lesione epatica sospetta, in quel caso
potremmo dover fare la biopsia, innanzitutto perché voglio la diagnosi di certezza di malattia
metastatica, e poi anche perché vorrei valutare se ci sono una serie di caratteristiche biologiche,
anatomopatologiche, morfologiche, molecolari cambiate rispetto al tumore iniziale, per indirizzare
la scelta terapeutica.
SISTEMA TNM
Il T varia da tumore in situ, a tumore molto esteso. Non sempre il T peggiore è quello di un tumore
più grande: possiamo avere un T di 2 cm che invade i grossi vasi, più grave di un T di 4 cm che non
lo fa.
N indica lo stato di infiltrazione dei linfonodi. La malattia si trasmette per via linfatica verso il
linfonodi loco-regionali. M indica la presenza di metastasi a distanza o meno. Anche le metastasi
dal punto di vista prognostico sono differenti. Ovviamente, il TNM più preciso si ha in un secondo
momento. Tornando al solito esempio della signora, se avessimo fatto un intervento chirurgico sulla
ghiandola mammaria, avremmo potuto conoscere in maniera definitiva se c'era stato un
coinvolgimento dei linfonodi ascellari che sono i principali linfonodi di drenaggio della ghiandola
mammaria. Abbiamo, quindi un TNM clinico-strumentale, ed un TNM chirurgico-patologico.
FATTORI PROGNOSTICI
I fattori prognostici che abbiamo in oncologia sono tutti quegli elementi che ci permettono di
definire l'evoluzione della malattia. Vi sono fattori prognostici legati alla malattia e fattori
prognostici legati al paziente. Tra questi ultimi il più importante è la presenza di altre malattie o
comorbidità. Il sesso raramente influenza l'insorgenza di un tumore. Abbiamo poi l'età biologica:
con l'avanzare dell'età aumenta l'esposizione ad elementi cancerogeni, aumenta la possibilità di
presenza di altre malattie, e quindi con l'età si ha una prognosi peggiore. Ciò che può condizionare
la prognosi è la capacità di un paziente anziano di sopportare un intervento chirurgico lungo ed
esteso, o una terapia. Il paziente potrebbe avere una patologia neoplastica molto semplice, ma
accompagnata ad esempio da una cirrosi, oppure un tumore iniziale del colon (facilmente
asportabile mediante endoscopia) ma accompagnato da una situazione cardiovascolare molto
precaria. Non bisogna pensare che il tumore sia la patologia peggiore che possa esistere.
Quali sono invece i fattori prognostici legati alla malattia?
1) il tipo di malattia. Si tratta del tipo istologico che si arricchisce di tutte le caratteristiche
biologiche, morfologiche, di differenziazione, presenza di alterazioni molecolari.
Prima parlavamo di adenocarcinoma mammario duttale, infiltrante, nodulare, con eventuali recettori
ormonali, oncogeni, fattori di crescita, quindi tutto ciò che riguardava la biologia e le caratteristiche
della neoplasia indipendentemente dalle dimensioni.
2) Poi ci sono i fattori prognostici TNM, che prendono in considerazione le dimensioni del tumore,
il coinvolgimento linfonodale e le metastasi a distanza. Potremmo ad esempio avere un tumore
aggressivo biologicamente, anche con N0 ed M0, prognosticamente più sfavorevole di un altro
tumore con caratteristiche biologiche più moderate, cioè più a lenta crescita. Nel secondo caso si
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tratta di una patologia che si è estesa nel tempo, mentre nel primo caso il tumore è piccolo ma
aggressivo.
Alcuni di questi parametri possono assumere un significato anche predittivo di risposta specifica e
terapeutica.
Esempio: Nel cancro della mammella vedremo che una terapia medica molto efficace è quella
ormonale nel caso in cui vengano espressi recettori per gli estrogeni (si parla quindi di un tumore
estrogeno-dipendente o estrogeno-sensibile). La presenza del recettore per gli estrogeni ha, quindi ,
un valore predittivo prognostico di risposta alla terapia ormonale. Se invece il recettore non è
presente, allora questo tipo di terapia sarebbe praticamente inutile.
Il valore predittivo di risposta è, dunque, una caratteristica del tumore (presenza di un recettore, di
un gene mutato ecc.) che ci permette di identificare se quel tumore può rispondere bene o non
rispondere affatto alla terapia ormonale.
Alcuni fattori sono sia prognostici che predittivi. Ad esempio, nel cancro della mammella,
l'amplificazione del recettore per i fattori di crescita, come ErbB2/HER2, che si ha in circa 1/4 dei
cancri alla mammella, è un fattore prognostico sfavorevole, ma è anche un fattore predittivo di
risposta quando c'è questo bersaglio molecolare.
Ricapitolando, abbiamo visto una donna con un banale nodulo alla ghiandola mammaria, abbiamo
fatto un percorso logico che ce l'ha fatta visitare, ci ha fatto fare analisi istologiche, le caratteristiche
di eventuali altre malattie, per poter poi arrivare a dire alla signora "Sì, facendo questo tipo di
terapia potresti guarire".
PREVENZIONE
Passiamo a questo altro aspetto generale.
Se abolissimo il fumo, si tratterebbe di un tipo di prevenzione primaria. Esiste anche la prevenzione
secondaria, che consiste nell'individuare il tumore maligno in una fase iniziale di malattia
determinando la guarigione completa. Con la prevenzione secondaria, quindi, noi non ci poniamo lo
scopo che la malattia non avvenga mai, ma di trovare uno strumento che ci dica "la malattia è così
iniziale, così precoce che, ad esempio, tramite un intervento chirurgico, è possibile tranquillamente
far guarire il paziente". E' necessario uno strumento ad alta specificità e sensibilità che consenta il
cosiddetto screening oncologico, che sia semplice, poco costoso, riproducibile, estensibile su
un'ampia popolazione generale che fino a prova contraria sia sana ed in una popolazione a rischio.
Possediamo elementi efficaci di prevenzione secondaria? La risposta è "sì e no", perchè li abbiamo
per alcuni tumori, ma per altri no.
L'esempio più importante di prevenzione secondaria è il cancro alla cervice uterina. Possiamo oggi
individuare in una fase iniziale una malattia che sta per diventare cancro, o che è diventato cancro
da poco. Prendiamo cellule dalla cervice uterina per esaminarle e vedere se ci sono delle anomalie;
le classifichiamo in vari modi, da cellula epiteliale normale a cellula neoplastica. Si effettua il Paptest (test di Papanicolau) per due o tre anni in genere, iniziando dall'età in cui la donna inizia ad
aver rapporti sessuali, da ripetere ogni 2-3 anni. Se si scopre che c'è un carcinoma in situ, si fa un
piccolissimo intervento chirurgico, che da un punto di vista funzionale ha un effetto minimo
sull'utero della donna.
Un altro esempio è la mammografia bilaterale, cioè l'esame radiologico specifico della ghiandola
mammaria, da fare a tutte le donne dai 50 ai 70 anni, ogni anno oppure ogni due anni. Si tratta,
quindi, di uno screening oncologico fatto su una popolazione bersaglio, andando a ridurre la
mortalità per il cancro alla mammella di almeno un 20%. Queste donne guariscono decisamente
prima rispetto al caso in cui il tumore venga individuato tre anni dopo.
Inoltre, si consiglia vivamente, a tutte le bambine dagli 11 ai 15 anni, il vaccino contro i principali
tipi di papillomavirus, direttamente correlati all'insorgenza del cancro alla cervice uterina (possono
essere una concausa, oppure addirittura la causa principale).
Un altro tentativo di prevenzione è quello tecnicamente definito come chemioprevenzione: consiste
nella somministrazione, a soggetti predisposti al rischio di sviluppare un particolare cancro, di
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sostanze farmacologicamente attive, le quali permettono che il tumore non si sviluppi.
Immaginiamo di poter trovare una sostanza che, somministrata ad un forte fumatore che ha una
serie di cellule displastiche che stanno per dare origine ad un cancro, permetterebbe la reversione
delle alterazioni genetiche, evitando l'evoluzione verso il cancro. La chemioprevenzione è stata una
chimera che negli ultimi vent'anni sta dando grandi speranze, così come la terapia immunologica
dei tumori.
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Oncologia 14/03/14
D’Onofrio Ginevra
Prof.ssa Martinelli
Tumore della prostata
Il tumore della prostata è un "big killer" in oncologia insieme al tumore del polmone, della
mammella e a quello del colon. Dunque è una neoplasia molto comune rappresentando nell'uomo
la seconda causa di mortalità dopo il cancro del colon. Il tumore si presenta in età avanzata circa
60-70 anni,molto raro che ci sia un tumore prostatico sotto i 50 anni.
Spesso questa neoplasia viene scoperta durante autopsia essendo frequentemente del tutto
asintotica. L'incidenza è aumentata soprattutto grazie ai programmi di screening su pazienti sopra
i 60 anni come la misurazione del PSA (antigene prostatico specifico);tuttavia la mortalità non è
diminuita.
Ci sono tre zone dove la neoplasia si può sviluppare:
zona periferica (dove c'è la maggiore incidenza a sviluppare la malattia)
 zona di transizione (dove c'è il tessuto perimetrale, qui 20% di possibilità di sviluppare questa
neoplasia)
zona centrale
Da un punto di vista istologico il tessuto prostatico è formato da cellule che fanno parte del
compartimento basale ,che sono cellule pluripotenti che si differenziano ,poi abbiamo l'epitelio
colonnare che ha un'attività secernente sotto stimolo ormonale degli androgeni. Il tumore della
prostata è un tumore ormone secernente come quello della mammella perché sull'epitelio
ghiandolare della prostata questi ormoni androgeni creano uno stimolo alla proliferazione.
Per quanto riguarda le cause della neoplasia vi sono evidenze che fattori di rischio sono
rappresentati :
-dalla predisposizione familiare infatti nel tumore della prostata quando si ha un familiare di
primo grado malato il rischio di sviluppare questa neoplasia aumenta, può raddoppiare oppure
può essere anche di 5 volte maggiore. Questo perché ci sono dei geni passati da padre in figlio che
potrebbero essere responsabili del cancro della prostata
-fattori ambientali é stato visto che l'incidenza è maggiore in Usa e in Nord Europa, basso rischio
invece in Asia.Si è potuto constatare che asiatici andati negli Stati Uniti sviluppavano la stessa
incidenza della popolazione autoctona da ciò si è potuto dedurre che lo stile di vita influenza la
malattia. Tra i fattori ambientali un ruolo importante è svolto dall'alimentazione: il consumo di
carni rosse rispetto a verdura e frutta potrebbe predisporre al tumore prostatico perché ci sono
agenti ossidanti responsabili della cancerogenesi.
PATOGENESI: Le cellule da normali si trasformano in neoplastiche. Queste proliferano in maniera
incontrollata rispetto agli stimoli che ricevono, stimoli che nel cancro della prostata sono
rappresentati dagli androgeni. Le cellule neoplastiche della prostata hanno un aspetto molto
simile a quelle colonnari del normale tessuto infatti mantengono l'espressione del PSA e sono
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sensibili ai recettori per gli androgeni .Il testosterone prodotto dal testicolo viene dalle cellule
prostatiche trasformato in diidrotestosterone forma più attiva. Questo interagisce con i recettori
degli androgeni che si trovano a livello citoplasmatico dove abbiamo una porzione N-Term che
lega il diidrotestosterone e una che interagisce con i frammenti di DNA. Una volta attivato, il
recettore si dissocia dalle hsp , dimerizza e lega sequenze specifiche del DNA. Da questa
interazione si attivano geni target che controllano elementi fondamentali per la crescita della
cellula tumorale:proliferazione ,differenziazione ,angiogenesi e apoptosi. Ma se inizialmente le
cellule hanno bisogno della stimolazione androgenica per crescere e proliferare ,successivamente
soprattutto quando la malattia dà metastasi diventano androgeno indipendente ( ad esempio in
seguito a mutazione a carico dei recettori che risultano costruttivamente attivi
indipendentemente dal legame con il ligando oppure perché si attivano altri pathway come
PI3K\Akt che regola la proliferazione delle cellule e RAS che regola la sopravvivenza).
ISTOPATOLOGIA Il tumore della prostata origina prevalentemente dalla zona periferica e nella
maggior parte dei casi parliamo di adenocarcinomi, spesso multifocali. In oncologia esistono dei
fattori prognostici legati al paziente e/o alla malattia che definiscono la prognosi. Il grading
istologico ci dice quanto la cellula è indifferenziata, più è indifferenziata la cellula maggiore è la sua
malignità e il potenziale proliferativo .
Esistono tre tipi di grading :
G1 cellule tumorali ben differenziate
G2 moderatamente differenziate
G3 indifferenziate
Per la prostata abbiamo un GLEASON SCORE che definisce il grading e che va da 1 a 5.Questo però
si complica perché il tumore della prostata è molto eterogeneo e si possono trovare pattern
ghiandolari diversi e perciò in questo caso si fa la somma tra i diversi pattern. Se il gleason score è
di 2-4 la prognosi è più favorevole, 5-6 prognosi intermedia ,7-10 prognosi sfavorevole
.Inizialmente i tumori invadono le strutture circostanti come le vescichette ,gli ureteri,l’ uretra poi
successivamente la rete linfatica con interessamento iniziale dei linfonodi loco regionali
(otturatori, ipogastrici..) poi extraregionali (ilari esterni iliaci comuni..) ,anche se a volte vi può
essere interessamento del linfonodi extraregionali senza che vi sia stato quello dei regionali. Infine
abbiamo le metastasi a distanza con interessamento di organo parenchimatosi. Da un punto di
vista probabilistico abbiamo metastasi che nel caso del tumore alla prostata interessano i polmoni
,il fegato ma soprattutto lo scheletro dove sono tipicamente osteoaddensanti ( il tessuto
neoplastico sovverte la struttura scheletrica però non induce lisi attivando osteoclasti ma lo
sostituisce ,questo è un vantaggio perché ad esempio nelle metastasi della colonna vertebrale non
si ha un crollo ma comunque si ha dolore) .La colonna vertebrale è spesso sede di metastasi per la
presenza di un plesso venoso di BATSON che mette in comunicazione i sistemi venosi
periprostatici con quelli vertebrali.
SINTOMI Dipende dalle dimensioni del tumore ,infatti spesso i tumori piccoli sono asintotici con
rilievo casuale. Quando però vi è interessamento delle vescichette,dell’ uretra possiamo avere
sintomi di tipo ostruttivo e irritativo come disuria ,pollachiuria che creano problemi di diagnosi
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differenziale con l’ipertrofia prostatica benigna invece l'ematospermia è un tipo di segno più
specifico di tumore. In caso di lesioni ossee il primo sintomo è il dolore. Nelle fasi più avanzate
possiamo riscontrare edema agli arti inferiori quando sono colpiti i linfonodi inguinali con ritorno
linfatico compromesso. Si può avere pancitopenia generalizzata per sovvertimento della struttura
ossea da metastasi .
DIAGNOSI Spesso pazienti con riscontro di elevati valori di PSA vanno dall'urologo che li sottopone
ad esplorazione rettale, quando questo esame è positivo significa che l'impegno della prostata è
importante ovvero la neoplasia è grande. Anche in questo caso abbiamo problemi di diagnosi
differenziale con l’ipertrofia, prostatiti. Successivamente viene fatto il dosaggio del PSA che è un
marker tumorale molto sensibile ma poco specifico perché può essere aumentato anche in caso di
patologia prostatica benigna, inoltre va sempre fatto prima dell'esplorazione rettale perché il
massaggio prostatico può far aumentare il PSA. Per rendere l'esame più specifico si calcolano il:
PSA VELOCITY calcolato in base alla variazione quantitativa su base annuale
PSA DENSITY calcolata dal rapporto tra il valore del PSA e le dimensioni prostatiche.
Il valore limite del PSA è di 4 ng/ml. Quanto più questo valore è aumentato tanto più è probabile
che ci troviamo davanti ad una patologia maligna. Il PSA è utilizzato anche a livello prognostico
dopo diagnosi di tumore per follow up oppure quando si fa una terapia ormonale.
CLASSIFICAZIONE TNM
T= grandezza del tumore
N= interessamento linfonodale
M= metastasi
Questa classificazione viene utilizzata per stadiare la malattia. T1 tumore molto piccolo non
palpabile nè visibile ;T2 tumore localizzato alla prostata che può interessare uno o entrambi i lobi
;T3 tumori che sono localmente più avanzati andando ad interessare le vescichette; T4 tumore più
esteso che va ad interessare anche la vescica.
N0 non interessamento dei linfonodi, N1 interessamento non >2 cm ,N2 tra 2 e 5 cm, N3 >5cm
M0 assenza metastasi M1 presenza di metastasi a distanza (non solo è un indice prognostico ma
anche terapeutico in quanto il paziente in stadio 4 non andrà incontro ad intervento chirurgico ma
ad un trattamento sistemico)
TERAPIA
Chirurgica-quando non ci sono metastasi e non vi è interessamento linfonodale la terapia
d'elezione è l'intervento di prostatectomia radicale che può essere oggi fatta anche per via
laparoscopica. Gli effetti collaterali sono rappresentati da disturbi urinari di incontinenza presenti
soprattutto nei primi mesi che possono talvolta durare per tutta la vita e la disfunzione erettile che
con la tecnica del nerve sparing è oggi sconfessata.
Radioterapia raggi a livello della loggia prostatica ,tecnica che può in alcuni casi anche sostituire
la chirurgia con vantaggi molto simili. Può essere inoltre utilizzata a scopo palliativo in caso di
metastasi ossee per ridurre la sintomatologia dolorosa.
Ormonale-primo approccio terapeutico nella fase di ormono-dipendente. Bisogna per prima
cosa deprivare il paziente degli androgeni che rappresentano uno stimolo alla proliferazione
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usando o analoghi del fattore LHRH o dando antagonisti dei recettori steroidei. In passato si
utilizzavano entrambi con un BLOCCO ANDROGENICO TOTALE ma con gli studi clinici è stato visto
che il vantaggio in sopravvivenza è simile a quando i farmaci sono somministrati separatamente.
Chemioterapia utilizzata nella fase ormone-indipendente
SCREENING DEL PZ
Dopo i 60 anni si utilizza il PSA nei programmi di screening insieme all'esplorazione rettale(EDR).
Se EDR -/PSA>4 follow up annuale; EDR+ e/o PSA>10 biopsia transrettale sotto guida ecografica
CASO CLINICO :Pz di 70 anni con varie comorbidità (ipertensione arteriosa ,epatopatia..). si rivolge
all'urologo per NICTURIA. Viene fatta l'EDR poi ecografia transrettale con biopsia e gli esami
ematochimici con il PSA.
DIAGNOSI PSA=80 ng/ml ;all’esame istologico abbiamo diagnosi di adenocarcinoma della prostata
con gleason di 8(prognosi più sfavorevole) .Già da queste prime informazioni possiamo pensare
che il pz ha metastasi a distanza perché il PSA è molto elevato e il gleason anche. ESAMI DI
STADIAZIONE Mentre la Tc total body mdc è negativa la scintigrafia ossea mostra lesioni
compatibili con metastasi
Tumore del rene
Il tumore del rene rispetto a quello della prostata è meno frequente e non rappresenta un “big
killer”perché è il settimo tumore per incidenza e soprattutto è il quattordicesimo per quanto
riguarda la mortalità per neoplasia; una volta era il secondo. Mentre il tumore alla prostata è un
problema che riguarda solamente il sesso maschile, il tumore del rene mostra un incidenza nei
maschi maggiore rispetto a quello delle femmine. Anche questo tumore non è un tumore della
gioventù, è un tumore che soprattutto tende ad interessare più gli uomini che le donne verso i 5060 anni. Come per tutti i tumori anche per quello del rene dobbiamo ricercare le cause e i fattori di
rischio. Sicuramente ci sono dei fattori genetici che intervengono nello sviluppo di questa
patologia, come per esempio il carcinoma renale ereditario papillare che è legato ad una
mutazione del gene che codifica per il recettore C. Questo recettore si trova sulla membrana
cellulare ed è mutato nel suo dominio tirosin-chinasico che quando è attivato media la
proliferazione e la transizione delle cellule in cellule mesenchimali ,per cui attiva la crescita
cellulare. Un’altra sindrome è quella di Von Hippel Lindau legata alla mutazione del gene VHL. Il
gene che è verosimilmente un oncosopressore quando è mutato induce un’iperattivazione del
fattore (non capisco come si chiama) che media ipossia e che, quando è molto presente, stimola
fattori proangiogenetici come IGF-receptor e il vascular endotelial grow factor, per cui c’è una
spinta alla crescita e all‘angiogenesi.
Ci sono poi dei fattori ambientali: il fumo di sigaretta per esempio, che chiaramente non è così
importante come nel carcinoma polmonare, ma comunque ha un ruolo nello sviluppo della
patologia. Altri fattori sono stile di vita: una dieta ricca di grassi e proteine rispetto ad una dieta
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sana povera di queste sostanze; l’ obesità perché abbiamo un’iperproduzione di Insulin-like Grow
Factor, anche questo considerato importante fattore di proliferazione.
Il tumore del rene dal punto di vista anatomico possiamo dire che origina sopratutto dalle cellule
tubulari del tubulo contorto prossimale. Ci sono della varianti istologiche che hanno una prognosi
differente. La maggior parte dei carcinomi renali ha questa istologia cioè carcinoma renale a
cellule chiare (che è l’istologia più frequente), poi abbiamo altre varianti come la variante papillare
e la variante cromofoba che rispetto a quello a cellule chiare hanno una prognosi migliore. Anche
in questo caso l’esame istologico ci dà una prima indicazione su quella che è la prognosi del
paziente.
I sintomi sono un molto variabili. Tenete presente che molte volte la patologia si manifesta già in
fase avanzata. Il primo sintomo può essere sicuramente ematuria: un paziente che viene da voi
con un ematuria imponente ha sicuramente un problema, dobbiamo fare una diagnosi
differenziale con calcoli renali se si accompagna all‘ematuria dolore e febbre; diagnosi
differenziale con problemi vescicali, anche il tumore alla vescica si accompagna ad ematuria. Però
poi molto spesso possiamo avere una massa palpabile quando ovviamente il paziente è molto
magro altrimenti è un po’ difficile palpare un tumore renale; e qualche paziente può presentare
varicocele acuto per trombosi della vena renale, un fatto che a 50-60 è molto poco frequente per
altre cause. Quello che ci capita vedere è sicuramente dei pazienti con dei sintomi generali non
specifici che non hanno nemmeno ematuria, che è già un segno che ci fa pensare al rene e alle vie
urinarie, ma hanno febbricola, febbre, astenia, anemia, perdita di peso. Quindi hanno quest’
insieme di sintomi aspecifici che ci fa ritardare la diagnosi perchè nessuno di questi sintomi è un
segno specifico della neoplasia renale come lo è invece l’ematuria. Anzi molto spesso in questi
pazienti sono evidenti anche sintomi di sindromi paraneolplastiche:
l’ ipercalcemia a causa della produzione da parte del tumore di una sostanza paratormone-like
ipertensione, perché c’è un aumentata produzione di EPO
 sindrome di Stauffer, molto rara ma descritta, caratterizzata da epato-splenomegalia
accompagnata ad insufficienza renale.
La storia naturale della malattia dipende da quanto è grande il tumore e da quanto ha invaso le
strutture vicine. Il rene non è come la prostata che è circondata da molti organi e subito da segni
della sua infiltrazione. Il tumore del rene prima invade la capsula renale, la fascia del Gerota e da
qui si porta in circolo. Si può portare in circolo attraverso i vasi linfatici e raggiungere i linfonodi
regionali cioè i linfonodi ilari, poi successivamente quelli paraotici e cavali. Si possono formare
anche dei trombi neoplastici nella vena renale che possono attraverso la cava inf. arrivare fino
all’atrio dx. Infine le lesione metastatiche possono interessare organi distanti: principalmente
vengono colpiti i polmoni, il fegato e anche in questo caso possiamo avere delle lesione
scheletriche. Tenete presente che quando noi parliamo di metastasi, in tutti i tumori, parliamo di
probabilità, ma tutte le neoplasie sono capaci di dare metastasi anche nei posti più inattesi. Infatti
oltre alle metastasi che vediamo più di frequente, abbiamo visto metastasi a localizzazione
cutanea, cosa molto strana e inattesa.
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La diagnosi come si fa? L‘ecografia è la cosa più semplice, meno invasiva e costosa da fare ad un
paziente che mostra un quadro sospetto.Ha il vantaggio che ci può far distinguere le cisti semplici
renale che sono frequenti in età avanzata, dalle cisti più complicate che possono nascondere dei
tumori renali. Però diciamo che se l’ ecografia ci evidenzia la malattia e ci fa sospettare la malattia,
successivamente vengono chieste delle indagini di secondo livello, indagini più appropriate per
farci capire se la malattia è rimasta confinata al rene o se abbia interessato i linfonodi o se abbia
già dato metastasi a distanza. Il paziente con metastasi per esempio al polmone non va operato a
meno che non abbia un emorragia franca (questo è l unico caso in cui va operato). Chiediamo
quindi una TAC addome e pelvi e TAC torace per vedere l’eventuali metastasi e per definire la
malattia cioè vedere se ci sono linfonodi interessati a livello addominale. Chiediamo inoltre una
Risonanza dell’ addome e della pelvi che serve principalmente al chirurgo per vedere quanto la
malattia si sia estesa cioè vedere se il tumore ha infiltrato la capsula, il tessuto del Gerota o
linfonodi ilari e paraotici ecc..
Gli esami di laboratorio che vengono chiesti sono la calcemia perché molto spesso un’
ipercalcemia maligna può essere legata ad una sindrome paraneolplastica di origine renale.
Terminiamo la stadiazione chiedendo anche una scintigrafia perché dobbiamo verificare che tutti i
siti metastatici siano puliti dalla malattia.
La stadi azione viene fatta utilizzando il TMN che può essere ricavato radiologicamente chiedendo
esami come TAC, RMN ecc.. per stabilire caratteristiche del tumore, linfonodi e metastasi. Un altro
modo è invece quello di fare un TNM applicato dopo l ‘intervento chirurgico, cioè il TNM
patologico e in questo caso per ogni tumore è diverso. Nel caso del rene T1 parliamo di tumore
confinato al rene più piccoli di 4cm o più grandi ma sempre inferiori a 7cm; T2 superiore a 7cm ma
sempre confinato al rene; T3 tumore che ha invaso il surrene, T3a è un tumore che invade la
porzione perineale o che interessa la porzione cavale al di sotto del diaframma o fino all’atrio dx
(emboli neoplastici); T4 che ha invaso oltre la fascia del Gerota.Invece per quanto riguarda l’ N
abbiamo: N1 il tumore ha interessato i linfonodi regionali; N2 più linfonodi regionali. E poi
abbiamo la definizione di M che sono le metastasi a distanza che possono essere localizzate in
qualsiasi organo a distanza soprattutto polmone osso e fegato.
Una volta che abbiamo fatto diagnosi e abbiamo stabilito le caratteristiche del tumore e verificato
che il tumore non abbia dato metastasi a distanza possiamo fare l’ intervento chirurgico “la
nefrectomia radicale allargata ai linfonodi logoregionali” . Molto spesso si può fare anche una
“nefrectomia parziale”evitando la dialisi permanente al paziente quando il tumore è minore di
5cm. Nel caso ci siano emboli metastatici si può fare un’asportazione di un frammento cavale.
Soltanto in un caso al paziente metastatico viene fatta la nefrectomia totale e cioè quando ha
problemi di emorragia importanti. Quando invece la malattia è avanzata si possono fare vari
trattamenti con vari farmaci. Ricordiamo che i tumori renali hanno un alto grado di
vascolarizzazione e quindi risultano efficaci farmaci a bersaglio molecolare che inibiscono l’
angiogenesi; l’ immunoterapia ha dato alcuni vantaggi. Nei tumori renali non vengono usati i
chemioterapici, che non hanno dato risultati importanti, ma i farmaci a bersaglio molecolare come
il Sorafenib, l’ Sunitinib e il Bevacizumab che hanno tutti un bersaglio angiogenico. Infatti il
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Bevacizumab è un anticorpo monoclonale diretto contro il VEGF; il Sunitinib anche esso inibisce i
recettori per la crescita vascolare ma ha anche altri target; il Sorafenib oltre ad inibire l
angiogenesi perché blocca i recettori per VEGF e per il TGF (??), ma ha anche altri target perché
blocca C-raf, C-bif(???), B-raf che sono invece delle proteine coinvolte nella crescita cellulare.
Quindi qua abbiamo un doppio effetto antiangiogenico e antiproliferativo. Esistono altri farmaci
(due farmaci ???) che inibiscono il pathway di m-Tor coinvolto sempre nella proliferazione
cellulare.
Non esistono per quanto riguarda il rene dei programmi di screening e il pz con pregressa diagnosi
di tumore renale deve essere sottoposto a dei programmi di follow up con frequenza semestrale
inizialmente e poi con frequenza annuale degli esami come ecografia, TAC, esami del sangue e a
differenza del tumore alla prostata non esiste nessun marcatore specifico, abbiamo tutti
mancatori aspecifici.
Sul libro troverete anche la classificazione di Mozen(???) per quanto i fattori prognostici che non
spiego e la capirete dopo la lezione generale sui fattori prognostici tanto sul libro la trovate.
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19/3/2014
ONCOLOGIA prof. Ciardiello
Farmaci antineoplastici
Che cos’è una neoplasia? È una malattia su base genetica in cui una serie di geni alterati che hanno un ruolo
chiave nella proliferazione cellulare, nell’invasione, nel differenziamento cellulare quando sono alterati ed in numero significativo, rendono una cellula incapace di rispondere agli stimoli che normalmente ne regolano l’attività,
quindi una crescita disregolata.
La terapia medica del cancro si basa su gruppi di farmaci che sono riconducibili a 4 classi funzionalmente diverse:
1. Farmaci chemioterapici o citotossici cioè farmaci che agiscono determinando la morte cellulare,
quindi causando nella gran parte dei casi apoptosi ed esplicando l’effetto terapeutico distruggendo le
cellule neoplastiche. Costituiscono ancora oggi i farmaci più spesso utilizzati nelle neoplasie umane,
sia ematologiche che solide dell’adulto;
2. Farmaci per terapia ormonale o ormonoterapia o terapia endocrina dei tumori che è basata sull’uso
di sostanze ormonali o anti-ormonali che interferiscono con la proliferazione di neoplasie che da un
punto di vista etiopatogenetico e del comportamento sono ormono-sensibili e ormono-dipendenti,
quindi la loro terapia è di tipo medico utilizzabile solo in alcuni tipi di neoplasie. Esempio di terapia
ormonale efficace: cancro della prostata e cancro della mammella;
3. Farmaci per immunoterapia o terapia immunologica delle neoplasie: sappiamo certamente che il
nostro S.I. costituisce un ottimo baluardo di difesa su tutto quello che è estraneo ad ogni fisiologica
reazione e quindi attua dei meccanismi di difesa nei confronti di patogeni per esempio ma viene attivato anche per proteggere da alterazioni funzionali non normali, quindi patologiche del nostro organismo. Molto spesso la sorveglianza del S.I. permette di evitare lo sviluppo di neoplasie del nostro
organismo perché meccanismi immunitari possono distinguere cellule che stanno per diventare neoplastiche o cloni inizialmente neoplastici. Se facciamo una terapia che attiva o potenzia o permette un
migliore funzionamento del S.I. potremmo avere un efficace trattamento anti-neoplastico. Fino a
qualche anno fa questa via non era molto efficace sia perché si usavano sostanze ad ampio spettro di
attività del S.I. ma poco specifiche e selettive (interferoni, IL-2 per attivare il S.I. di fronte ai tumori)
si usavano per lo più per tumori del rene e melanoma ma in ogni caso insoddisfacenti.
Si è pensato poi ad utilizzare i cosiddetti vaccini antitumorali partendo dal principio che alcuni tumori possono esprimere preferenzialmente delle molecole alterate, ad esempio un oncogene alterato come proteina o degli antigeni più specifici oppure più selettivi o più espressi nel tumore. Prelevando
quindi una porzione di antigene e ottenere una risposta immunitaria utilizzando questo frammento
come fonte di vaccinazione. Anche come prevenzione primaria si possono usare vaccini che normalmente utilizziamo per preparare una R.I. prima che l’agente patogeno venga a contatto con noi. È
risultato efficace in almeno due esempi: nella vaccinazione contro il virus dell’epatite B e più recentemente contro alcuni ceppi di papillomavirus che sono maggiormente responsabili allo sviluppo del
cancro alla cervice uterina. Questo però è un meccanismo di tipo attivo-preventivo rispetto alla vaccinoterapia anti-tumorale propriamente detta che si inizia alla comparsa del tumore.
4. Farmaci a bersaglio molecolare chiamati anche farmaci intelligenti, rappresentano una via più moderna, entrati nella corrente pratica clinica. Selettivamente interferiscono, bloccandone la funzione,
con molecole che sono attivate in quel determinato tumore, con quella particolare via metabolica. Gli
esempi più utili sono i farmaci contro alcuni fattori di crescita come l’angiogenesi indotta da tumore.
Dunque la terapia medica può avvalersi di 4 vie di intervento, con obiettivi diversi, differenziandosi da una
terapia loco-regionale (la chirurgia è quella per eccellenza seguita dalla radioterapia). La terapia medica è preponderante quando la malattia diventa sistemica e metastatica. Essa può essere usata secondo tre modalità:
modalità terapeutica precauzionale, terapia adiuvante: a seguito di intervento chirurgico e/o radioterapia abbiamo eradicato la malattia loco-regionale (es: tumore mammario primitivo);
• modalità terapeutica di supporto, adiuvante: in presenza di indicazioni prognostiche che ci fanno pensare ad
una probabilità di micro-metastasizzazione a distanza, dopo l’intervento regionale si effettua una terapia medica sistemica per un certo tempo che serve a consolidare la guarigione della paziente (in questo caso);
•
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•
modalità terapeutica preparatoria, neoadiuvante: per ridurre le dimensioni della massa tumorale prima di
intervenire chirurgicamente con un intervento meno invasivo o per lo meno per migliorare la preservazione
dell’organo.
FARMACI CITOTOSSICI
Il termine chemioterapia è storico, è meglio definirli citotossici proprio per l’uccisione per apoptosi della cellula
tumorale. Questi farmaci agiscono in attiva proliferazione cellulare, in fase S G2 M perché agiscono su meccanismi chiave. Il fatto che questi agiscano in proliferazione cellulare costituisce da una parte un elemento di forza e
di efficacia dei farmaci citotossici ma anche di maneggevolezza e potenziale tossicità perché sono farmaci estremamente specifici per le cellule in attiva proliferazione ma non sono selettivi per le cellule neoplastiche in progressione. Essi sono ugualmente attivi in qualsiasi altra cellula in proliferazione del nostro corpo come le cellule
della mucosa gastroenterica, quelle del bulbo capillifero, della cute ma soprattutto i precursori del midollo osseo.
Essi sono dunque dotati di notevole potenza ma potenziale e rilevante tossicità.
Scoperti per caso, durante sperimentazioni avvenute durante la seconda guerra mondiale da parte dell’esercito
degli Stati Uniti che stava sviluppando armi chimiche, il gas tossico era niprite che non era altro che il precursore
di tutti i farmaci citotossici, una classe chiamata agenti alchilanti, la mostarda azotata. A seguito di un’esplosione
su una nave militare molti marinai risultarono contaminati e cominciarono ad avere alterazioni fino ad una aplasia midollare significativa, effetti gastroenterici importanti, dunque si capì che queste sostanze potessero uccidere
cellule in proliferazione. Alla fine degli anni ’40 alcuni farmacologi come Goodman e Gilman assieme ad oncologi a New York al Memorial Hospital dimostrarono per la prima volta che ad alcuni dei pazienti affetti da linfoma
non-Hodgkin che la somministrazione per un certo tempo di una mostarda azotata determinava una regressione
tumorale (in questo caso una regressione della massa linfonodale). Da questo iniziarono gli studi che portarono
alla ricerca di farmaci che avessero anche un’efficacia terapeutica.
Se le cellule tumorali proliferassero continuamente
e incondizionatamente, da una cellula con fenotipo
tumorale si avrebbe un aumento lineare nel tempo,
quindi direttamente proporzionale al tempo, simile
alla crescita dei batteri. Se questo fosse possibile la
stragrande maggioranza delle cellule tumorali sarebbe
sensibile ai farmaci citotossici.
La realtà non è così perché questo avviene in tempi
molto brevi, in una fase iniziale, poi da progressione
lineare si arriva ad un plateau. Questo grafico descrive
molto meglio la curva di crescita di un tumore nell’organismo umano. Abbiamo un momento in cui la
gran parte delle cellule tumorali sono in attiva proliferazione, quasi il 100% delle cellule all’inizio quando
abbiamo poche cellule quindi quando i nutrienti e i
vasi sono sufficienti a dare sostegno alla proliferazione
continua, poi succede che la cellula va incontro a fenomeni di ipossia, quindi deve essere attivato un sistema per
produrre vasi che portano nutrienti e ossigeno. Una massa tumorale diventando grande all’interno può essere poco vascolarizzata, può andare incontro a fenomeni di necrosi, un certo numero di cellule va comunque incontro a
differenziazione terminale per cui soltanto una componente può continuare a proliferare, quindi succede che può
esserci un equilibrio tra cellule tumorali in quiescenza, cellule che muoiono e cellule che proliferano per cui se
idealmente nel caso A avessimo avuto il 100% delle cellule che sono in attivo, gran parte di loro sono in fase S G2
o M, quindi gran parte di loro sono suscettibili e possono essere uccise da un farmaco nel tempo. Nel caso B invece la quantità di cellule in attiva proliferazione è estremamente variabile. Un primo problema intrinseco all’efficacia di una terapia con farmaci citotossici è la popolazione bersaglio potenzialmente sensibile e maggiore è la massa
tumorale, maggiore è il numero di metastasi, più è lunga la storia clinica maggiore è la probabilità che si possa
instaurare un equilibrio sulla parte destra della curva che si chiama Modello di Gompertz. Se noi usassimo un farmaco efficace esso risulterebbe tale soltanto sul 5, 10 o 30% dipende dallo stato di crescita del tumore con effetto
dunque minimo sulla terapia. Da qui deriva un primo importante messaggio: è impossibile che con una singola
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somministrazione del farmaco citotossico abbiamo un effetto terapeutico importante e duraturo, perciò la terapia
deve essere per forza prolungata nel tempo. Possiamo però fare una terapia con un farmaco citotossico per un
lungo tempo? No, ci sarebbero effetti collaterali importanti,
allora noi siamo costretti a fare un equilibrio tra effetto terapeutico e tossicità e dunque possiamo fare una terapia intermittente o ciclica quindi nella realtà noi faremo una terapia
di questo tipo. Mettiamo che cominciamo la terapia quando
le cellule tumorali sono a t0 ipotizzando un 20% di cellule
sensibili a questo farmaco trattandole col farmaco A. Però
non possiamo ripetere il giorno dopo il trattamento quindi
succede in generale che una quota di cellule tenderà a crescere. Poi si somministra una nuova dose e se ne uccide un altro
20%. Quindi poi se fate periodicamente queste operazioni per un certo numero di volte dovreste trovarvi con il
numero di cellule che si riduce sempre di più e o si arriva ad un punto in cui non si hanno più cellule tumorali
avendo quindi la guarigione totale o il numero di cellule responsive a quel farmaco si azzera ma nel frattempo
abbiamo altre cellule che proliferano, quindi si riotterrà una curva crescente, lineare o esponenziale.
Problemi derivanti dall’uso dei farmaci citotossici: sono molto specifici ma poco selettivi per le cellule tumorali e pertanto difficili da trattare, quindi si continuano ad usare dosaggi tollerati dall’organismo per minimizzare gli
effetto collaterali e utilizzare il farmaco in maniera ciclica per dare il tempo all’organismo di riprendersi; altro
problema è quello della resistenza al farmaco da parte delle stesse cellule tumorali in quanto è intrinseca la capacità di accumulare mutazioni dato che non ha più i freni inibitori di controllo che riparano il DNA alterato e tende
col tempo a fare più mutazioni che possono comparire anche in assenza di trattamento. Queste mutazioni possono essere letali e quindi la cellula tumorale muore, ininfluenti oppure mutazioni che danno un vantaggio selettivo
(esempio: la cellula confinata nell’epitelio ghiandolare adesso è capace di digerire la matrice extracellulare e mediante un vaso linfatico/ematico va a metastatizzare a distanza). Pertanto le cellule tumorali ad un tempo diverso
da t0 possono essere considerate una miscela di clone A, B, C, D ecc ecc che hanno una serie di mutazioni base
più mutazioni accumulate, diverse per ogni clone. Ciò si è sempre ipotizzato e saputo ma solo recentemente è
stato dimostrato con recenti metodiche di genetica e diagnostica molecolare con un lavoro uscito sul NEJM un
paio di anni fa in cui un gruppo di studiosi su 5-6 pazienti affetti da cancro al rene ha prelevato in varie aree del
tumore primitivo del rene e varie metastasi in organi diversi ed mediante un’analisi genetica sofisticata che prevedeva il sequenziamento di centinaia di geni hanno scoperto che esisteva certamente un clone iniziale ma da questo clone iniziale anche all’interno della massa primitiva del rene c’erano dei sottocloni tanto che addirittura si
poteva fare un albero genealogico con una derivazione ogni volta che avveniva una mutazione. Questo significa
purtroppo che quando andiamo a trattare un paziente con una neoplasia non andiamo a trattare una malattia
omogenea.
L’esposizione a farmaci di un solo tipo uccide sì le cellule di quel tipo ma espone gli altri cloni a vantaggio
selettivo di tipo darwiniano che favorisce la crescita, un po’ come succede con l’antibioticoterapia verso i batteri
che è concettualmente la stessa cosa seppur con meccanismi molto diversi chiaramente.
Se facciamo una terapia ciclica del tipo A -> A -> A -> A -> A questa potrebbe essere efficace per un certo
tempo ma poi diventa inefficace. Come possiamo riuscire a renderlo più efficace? Alternanza di diversi farmaci
non cross-resistenti cioè con meccanismo di azione diverso; altre modalità terapeutiche di modalità non citotossiche da usare in alternanza con la chemioterapia; aumentare la dose è stato fatto in alcuni casi ed è molto complesso in quanto aumentano anche il rischio e la tossicità sui tessuti normali; la via più semplice e più utilizzata è
quella che prevede una polichemioterapia sequenziale che empiricamente è quella che può offrirci maggiore probabilità di successo. Presupposti pratici: usare farmaci non cross-resistenti ma che hanno una minima possibilità
di incrementare la tossicità l’un dell’altro ma per arrivare a questo purtroppo si deve arrivare sempre ad un compromesso terapeutico cioè le dosi dei diversi farmaci non sarà mai il 100% per tutti in quanto si amplificherebbe
il danno ai tessuti normali, diventando inaccettabili (esempio: tossicità midollare, ciò che gran parte dei farmaci
hanno) per questo spesso si “ricicla” il trattamento almeno 2-3 settimane dopo.
Dal punto di vista statistico i trattamenti iniziali sono sempre quelli più efficaci! Cioè quella che noi chiamiamo prima linea di trattamento.
Potenzialmente possiamo avere 3 situazioni: immaginiamo che una donna, paziente metastatico, che ha 5 metastasi epatiche di certe dimensioni, 2 metastasi al polmone dx, 2 al polmone sx e metastasi ossee. Fate una terapia
con alcuni farmaci citotossici, dopo un certo numero di cicli pari a circa 2-3 mesi andremo a ripetere gli esami di
laboratorio, di diagnostica, se si trovano le metastasi di ridotte dimensioni allora significa che la donna ha avuto
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una risposta parziale ma non significa che il tumore sta guarendo ma che noi stiamo controllando la malattia. Se
andassimo a fare una TAC dopo 6 cicli non vediamo più nessuna lesione questo non significa che avremo quasi
mai guarigione completa ma risposta completa perché le dimensioni della metastasi possono scendere al di sotto
del potere di risoluzione della TAC. Se invece avremo una comparsa di una nuova lesione o ingrandimento di
precedenti lesioni (esempio: alla signora compaiono linfonodi laterocervicali che prima non aveva oppure una
delle lesioni epatiche che prima era 2 cm ø ora è diventata 7 cm ø) si avrà progressione della malattia e fallimento
terapeutico. È proprio l’eterogeneità tumorale a volte può farci trovare in situazioni in cui delle 5 metastasi epatiche 3 sono scomparse alla TAC, 2 sono diventate più grandi e al livello polmonare si sono ridotte moltissimo.
Questo perché avendo il tumore la caratteristica di adattarsi geneticamente molto rapidamente perché può fare
tutte le mutazioni che vuole con meccanismi di selezione darwiniana si adatta all’ambiente e l’ambiente è l’ospite
e il trattamento che gli fate, per questo è molto più semplice far guarire un paziente con tumore benigno localizzato e mediante un intervento chirurgico vengono asportate tutte le cellule maligne tumorali ma nel caso di un
tumore maligno non sempre l’apparente guarigione loco-regionale corrisponde ad una guarigione definitiva perché c’è il rischio che il tumore abbia già dato micrometastasi per via ematica/linfatica ed è il motivo per cui la
terapia medica anche nelle prime fasi è spesso indispensabile. Per quanto riguarda la serie rossa i globuli rossi sono
quelli che hanno l’emivita più lunga per cui la tossicità si manifesta solo dopo un lungo periodo, le piastrine sono
in attiva proliferazione sebbene variabile; per la serie bianca invece i granulociti neutrofili, la cui emivita è di 7-10
giorni allo stadio maturo, sono gli elementi che hanno turn-over più rapido, quindi significa che ogni 7-10 giorni
il 50% dei nostri neutrofili viene ripopolato e quindi la componente staminale committed che sta per dare attiva
proliferazione sarà quella che riceverà maggior danno citotossico dei farmaci tanto che dopo la somministrazione
abbiamo il punto più basso della concentrazione dei neutrofili tra i 7 e i 14 giorni, dipende dalla dose, quindi è
per questo motivo che noi rifaremo un secondo ciclo dopo 3 settimane permettendo la ripopolazione dei neutrofili. Rappresentando questi la prima difesa aspecifica contro gli antigeni esterni, quindi la più importante è molto
probabile che in questo intervallo il paziente subisca infezioni importanti anche da germi opportunisti. Fare dunque un trattamento ciclico permette alle difese alla loro funzione accettabile.
Se usiamo per esempio farmaci A, B e C assieme potrebbero creare una severa neutropenia e potrebbe anche
non esserci un recupero funzionale, questo è il motivo per cui si riducono le dosi. Gran parte degli schemi per la
terapia sono nati da regole empiriche perché non possiamo sapere le percentuali di ogni clone tumorale diverso.
Anche la radioterapia dà resistenza con danno tossico diretto sul DNA anche se i meccanismi di resistenza alla
terapia possono essere diversi (attivazione pathways di riparo del DNA da radiazioni ionizzanti) ma il concetto
può essere considerato lo stesso.
I farmaci ad azione citotossica sono quasi sempre per somministrazione endovenosa, con la siringa o più spesso diluiti e somministrati in maniera cronomodulata per un certo tempo, alcuni farmaci sono somministrabili
anche come soluzione orale. Quando parliamo quindi di ciclo chemioterapico parliamo sempre di infusione endovena. Come stabiliamo la dose? Ciò deriva da un’estesa sperimentazione di fase 3 che hanno permesso di stabilire quale sia la massima dose tossica, quella attiva e quella efficace. Si è pensato quindi di non dare un dosaggio
uguale a tutti gli individui né basarsi semplicemente sul peso corporeo ma di utilizzare un parametro che è la superficie corporea. In base ad un algoritmo molto semplice che è possibile fare a mano si può calcolare la superficie
corporea partendo da alcuni parametri molto banali come il sesso, l’altezza e il peso, pensate bastano 50 mg in
più o in meno ad un paziente che ha una superficie corporea diversa a determinare più o meno gli effetti terapeutici o la comparsa o meno di effetti tossici.
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CATEGORIE E GRUPPI DI FARMACI CITOTOSSICI
Cosa sono le mostarde azotate? Sono agenti alchilanti, cioè sostanze che in maniera covalente determinano
sostituzione di un gruppo alchilico in genere -CH3 su una base azotata del DNA, più frequentemente sull’azoto 7
della guanina. Quando succede un’alchilazione del DNA succede che se ne altera la struttura quindi se siamo in
fase S abbiamo un errore di lettura e di accoppiamento, per cui la cellula cerca ma non riesce a ripararlo, frammenta il DNA, va in apoptosi e muore. Uccidono in fase S determinando quindi errori irrecuperabili al DNA.
Ovviamente se la cellula riesce a riparare, prolifera. Questi farmaci sono i primi ad aver avuto un’efficacia terapeutica soprattutto per le malattie ematologiche e poi via via per i tumori solidi.
Farmaci chiave:
•
ciclofosfamide può essere somministrata anche ad alte dosi e anche per os perché assorbita in maniera
abbastanza adeguata dal tratto gastroenterico, con questa caratteristica è uno dei pochi farmaci citotossici
che può essere somministrato anche oralmente. Nella pratica clinica però viene usata endovena. Utilizzata
in numerose neoplasie ematologiche (linfomi Hodgkin e non-Hodgkin) e in numerosi tumori solidi
(mammella, ovaio). Effetti collaterali in genere comuni ad altri farmaci citotossici tranne che per eccezioni
tra cui:
1.
Alopecia. Caduta dei capelli essendo il bulbo capillifero una zona ricca di cellule in attiva proliferazione. Effetto collaterale più legato nell’immaginario comune anche cinematografico. Completamente reversibile! Ciò è importante quando facciamo la terapia adiuvante nel cancro della mammella perché per la donna è estremamente rassicurante. Ci sono stati molti tentativi per prevenire l’alopecia ma c’è forte variabilità individuale;
2.
Tossicità midollare. Effetto collaterale correlato alla tossicità ed è dose limitante, maggiore implicazione sulle complicanze possibili e sulla gestione dell’ulteriore terapia. È cumulativa, non possiamo
certamente dire che sia completamente reversibile, se la terapia si protrae a lungo la ripresa midollare
è certamente minore;
3.
Nausea e vomito. Nella quasi totalità dei casi con trattamento di farmaci citotossici, entro alcuni minuti o ore dalla somministrazione del farmaco. Si usa fare una prevenzione utilizzando farmaci antiemetici e quelli più attivi sono gli inibitori serotoninergici perché bloccano i recettori H3 in maniera
molto efficace;
4.
Diarrea per cause chimiche.
Questi effetti collaterali sono condivisi anche da altri farmaci citotossici. Ogni farmaco può avere tossicità d’organo dipendente dal proprio meccanismo d’azione o di quello dei suoi metaboliti: ciclofosfamide e
il suo derivato ifosfamide, molto utilizzato nella terapia dei sarcomi, sono metabolizzati nel fegato ed escreti
dalle vie renali e questi metaboliti sono particolarmente irritanti per la mucosa vescicale per cui quando si
somministrano questi farmaci, generalmente ad alte dosi, dobbiamo avere adeguata idratazione del paziente per permettergli una diuresi rapida e forzata in modo che i metaboliti potenzialmente tossici stiano in
vescica meno tempo possibile, altrimenti si potrà determinare una cistite su base chimica o, nei casi più
gravi, anche diventare una cistite emorragica.
Dunque per la ciclofosfamide si usa indurre la diuresi, per l’ifosfamide si usa un antidoto inerte che costituisce quasi un film protettivo chiamato mesna.
Esistono tantissimi altri agenti alchilanti che non tratteremo qui. Possiamo calcolare anche l’intensità di
dose nel tempo: se noi facciamo A di 100 ogni 4 settimane ci ritroviamo con una dose settimanale di 25, se
invece facciamo A ogni 4 settimane seguito da B ogni 4 settimane avremo 12,5 settimanale di A e 12,5
settimanale di B. In alcuni casi si è pensato nei tumori ematologici che l’intensità di farmaco considerando
la quantità di farmaco nell’intervallo di tempo (per esempio ogni settimana) è un valore importante per
l’efficacia terapeutica. Ciò è relativamente valido per tumori ad alta frazione di crescita in cui si usano più
farmaci per cercare la guarigione, questo però non risulta così importante per alcuni tumori solidi a bassa
frazione di crescita.
Altre domande? No? Ok, siete pronti per il pranzo!
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FARMACI CITOTOSSICI
Tutti i farmaci citotossici con modi o meccanismi diversi hanno bersaglio la sintesi del DNA o
meccanismi inerenti la replicazione o proliferazione cellulare. I citotossici non sono selettivi per le
cellule tumorali ma semplicemente sono attivi su cellule in fase S e M del ciclo cellulare, creando
un danno strutturale al DNA.
Altri farmaci che creano danni a livello del DNA sono i derivati del platino.
Si chiamano cosi perchè contengono un atomo di platino nella loro struttura e hanno un
meccanismo d’azione misto: sono alchilanti e intercalanti, si legano in varie zone del DNA
intercalandosi tra le basi azotate e a volte inducendo anche un’alchilazione.
Cisplatino
Inorganico, molto attivo nel trattamento di parecchie neoplasie dell’adulto ma qualche volta anche
nel caso di linfomi o neoplasie ematologiche. Più frequentemente: ovaio, polmone (microcitoma e
tumori non a piccole cellule), tumori dell’esofago, dello stomaco, della vescica e tumori a cellule
germinali del testicolo.
Pur avendo molti effetti collaterali, entra anche in schemi di polichemioterapia perchè molto
efficace nel contrastare le suddette neoplasie.
Effetti collaterali: tossicità midollare: neutropenia, anemia, piastrinopenia; oltre a questa, ha anche
potenziale nefrotossicità, perchè essendo escreto nel rene, se il flusso ematico renale non è
elevato, ha alta probabilità di precipitare nel tubulo renale e causare danno chimico diretto o
necrosi tubulare acuta per poi portare ad insufficienza renale acuta o cronica. La somministrazione
è molto delicata: quando si fa il bolo endovena di cisplatino, si deve eseguire una buona
idratazione del paziente, anche un litro di soluzione fisiologica o salina, dopo, l’infusione di
cisplatino e successivamente ancora idratazione con un altro litro di soluzione fisiologica o salina
per poi concludendo con un diuretico dell’ansa come la furosemide. In questo modo tutto il
cisplatino in eccesso viene rapidamente eliminato senza causare alcun danno renale. Va da sé
che in pazienti con problemi renali, si deve fare la terapia attentamente altrimenti nel caso di una
filtrazione glomerulare eccessivamente bassa, tale paziente non risulta essere un buon candidato
per il trattamento con cisplatino. Per quanto sia un farmaco fondamentale, ha anche una forte
neurotossicità di tipo sensoriale. Dal punto di vista clinico ha una riduzione di sensibilità alle mani,
accentuata dal caldo o dal freddo, tuttavia si tratta di un fenomeno reversibile. Possibili concause
possono essere un’ arteriopatia periferica coadiuvata da ipertensione e problemi di
vascolarizzazione. Di solito è reversibile ma in un 5-10% dei pazienti dopo l’interruzione della
terapia, resta come effetto collaterale anche per più di 6 mesi. Nell’ambito della neurotossicità, in
pazienti anziani soprattutto, può risultare anche ototossico. In qualche caso, può portare anche
fino alla sordità se agisce su un substrato già patologico. In ultimo, ma non per importanza,
l’induzione di nausea e vomitosia precoce che ritardata; va fatta prima una buona medicazione con
anti-emetici serotoninergici e cortisonici.
Carboplatino
Per cercare di ovviare a tutti questi effetti collaterali si è cercato di sviluppare un farmaco meno
tossico ma efficace allo stesso modo (o quasi) introducendo un analogo: il carboplatino.
Si tratta di un farmaco di seconda generazione. A dosi efficaci può essere utilizzato al posto del
cisplatino in tutte le neoplasie in cui quest’ultimo è attivo. Si tratta di un farmaco estremamente
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efficace. Certamente non c’è bisogno di idratare il paziente, è emetizzante ma non come il
cistplatino. Tuttavia è molto più tossico sul midollo specialmente per quanto riguarda le piastrine e
globuli rossi. Ha minore neurotossicità e soprattutto non ha tossicità renale diretta, ma non si deve
sottovalutare tale cosa in quanto il carboplatino è escreto esclusivamente per via renale per cui se
in pazienti con riduzione della funzionalità glomerulare viene somministrato tale farmaco, a causa
della meggiore permanenza in circolo, si manifesterà sicuramente una maggiore tossicità
midollare. Come si può ovviare a tale problema? Per tutti i citotossici, il dosaggio viene calcolato in
base alla superficie corporea, ma in questo caso oltre a tale parametro, è tenuta in considerazione
anche la clearance della creatinina, in modo tale da avere una determinata AUC per rendere
efficace l’azione farmacologica. Carboplatrino può sostituire il cisplatino ma molta attenzione.
Oxaliplatino
Quello che si è cercato di fare è stato trovare un farmaco con una buona maneggevolezza ma
anche una buona attività ed efficacia in altre neoplasie in cui i precedenti due non hanno ampio
utilizzo, da qui l’oxaliplatino.
Molto simile agli altri due, ma con alcune peculiarità. Prima di tutto anch’esso viene somministrato
endovena, in base alla superficie corporea. Non risulta essere nefrotossico. Per quanto riguarda lo
spettro d’azione, non sostituisce i primi 2 analoghi ma viene utilizzato in: tumore del colon retto, sia
in terapia adiuvante che neoadiuvante, tumore del pancreas, tumore delle vie biliari.
Effetti collaterali: grosso modo gli stessi dei precedenti, ma soprattutto neurotossicità sensoriale
periferica, che può diventare davvero fastidiosa interferendo con la qualità della vita dei pazienti,
soprattutto se si protrae per lunghi periodi.
INIBITORI DELLE TOPOISOMERASI
Un altro meccanismo farmacologico usato in terapia anti - neoplastiche è quello che agisce sugli
enzimi coinvolti nella strutturazione del DNA: da qui i farmaci attivi sulle topoisomerasi.
Cosa sono le topoisomersai? Sono enzimi fondamentali che tagliano e ricuciono segmenti di DNA
in modo da srotolare e riavvolgere le 2 eliche. Le topoisomerasi 1 tagliano un filamento per volta,
invece le topoisomerasi 2 tagliano insieme entrambe le eliche del DNA.
Si è scoperto che farmaci attivi su questi enzimi possono essere utilizzati in terapia anti - tumorale,
perché gli inibitori delle topoisomerasi 1 e 2 si legano covalentemente all’enzima e come se lo
congelassero nella sua fase di clivaggio, facendolo funzionare in fase di taglio ma non nella fase di
ricucitura.
Inibitori della topoisomerasi 2
Gran parte di questi farmaci derivano da sostanze naturali, per esempio tra gli inibitori della
topoisomerasi 2 c’è la doxorubicina (o adriamicina) (unico farmaco anti neoplastico scoperto in
italia negli anni ’60) utilizzata in leucemie acute, linfomi, tumori della mammella, tumori dell’ovaio e
sarcomi. Si tratta di un farmaco citotossico, appartenente alla classe delle antracicline, e funziona
come inibitore della topoisomerasi 2.
Effetti collaterali: cardiotossicità, provocando morte dei cardiomiociti, per cui prima di trattare un
qualsiasi paziente deve essere eseguito un buon studio della funzione cardiaca. In particolare la
FE del ventricolo sinistro deve essere superiore al 50%. La tossicità potrebbe essere anche
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cumulativa, quindi aumentando la dose aumenta il rischio di tossicità cardiaca, ma si può
incrementarla fino alla dose cumulativa di 500-550 mg/m2 di superficie corporea.
Epidoxorubicina
Alcuni analoghi successivi sono stati sviluppati per avere una minore tossicità cardiaca essendo
comunque efficaci farmacologicamente, quindi epidoxorubicina. In gran parte di tumori è
sostituibile alla doxorubicina.
Una nuova strategia è stata studiata dalla farmacologia, data dall’utilizzazione di liposomi, che
sono dei sacchetti attraverso i quali si puo formire un farmaco in maniera efficiace. Nel caso della
doxorubicina, se somministrata con liposomi, risulta essere meno cardiotossica, probabilmente
perché il farmaco si concentra molto meglio localmente piuttosto che andare a creare danni a
livello cardiaco. Tuttavia queste preparazioni sono molto più costose rispetto alla normale
formulazione della doxorubicina.
Etoposide
Classico inibitore della topoisomoreasi 2, utilizzato nel trattameno del microcitoma. Ha purtroppo
tutte le tossicità anche se ovviamente in misura minore, tuttavia spicca la mielotossicità.
Inibitori della toposiomerasi 1
Sono farmaci derivati dalla camptotecina, il cui capostipite è dato dall’irinotecano che viene
utilizzato soprattutto nel trattamento dei tumori dello stomaco, del colon retto, del pancreas e delle
vie biliari. Si tratta di un induttore della diarrea, per danno diretto della mucosa intestinale (effetto
un po’ comune di tutti i farmaci anti – neoplastici) ed in maniera indiretta attraverso la stimolazione
riflessa vagale, anche dopo pochi minuti dopo somministrazione.
Topotecano
Inibitore della topoisomerasi 1, utilizzato nel trattamento del tumore dell’ovaio chemioresistente e
del microcitoma polmonare. Si tratta di un farmaco in disuso perchè estremamente mielotossico.
ANTIMETABOLITI (METABOLITI FRAUDOLENTI)
Si tratta di farmaci che o inibiscono enzimi chiave per la sintesi dei precursori degli acidi nucleici
che faranno parte del DNA o sono farmaci che si sostituiscono specificamente ai precursori del
DNA in modo tale da indurne mal funzionamento. Vengono adoperati in tumori ematologici e in
quelli solidi. In particolar modo devono essere considerati il metotrexate e il 5-fluorouracile.
Metotrexate
Si tratta di un farmaco molto vecchio ormai che mima la tetraidrofolato reduttasi, blaccando la
sintesi degli acidi nucleici. Ormai è utilizzato solo per il trattamento dei sarcomi e di alcune forme
del cancro del polmone.
5-fluorouracile
Appartiene alla classe dei metaboliti fraudolenti delle pirimidine, è un farmaco estremamente utile
nel trattamento del cancro della mammella ma soprattutto nella terapia di neoplasie del tratto
gastrointestinale nelle quali viene somministrato quasi sempre in associazione con altri farmaci. Si
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presta molto bene alla somministrazione a lungo termine ed essendo poco mielotossico può
essere facilmente associato ad altri farmaci con spiccata tossicità midollare. Viene somministrato
con bolo endovena o in infusione prolungata e continua. Più è esposta la cellula tumorale a tale
farmaco, maggiore probabilità c’è di andare a colpire la cellula neoplastica.
Capecitabina
Esiste tuttavia una formulazione analoga, in realtà profarmaco del 5-fluorouracile somministrabile
per os, rappresentata dalla capecitabina. Teoricamente presenta innumerevoli vantaggi poiché
evitando l’infusione o il bolo endovena, si riducono i suoi effetti tossici. In genere viene
somministrata continuamente per os per 2 settimane. Tutte le volte che dovremmo usare 5fluorouracile, possiamo usare la capecitabina. Trattandosi di un profarmaco, dopo il primo
passaggio epatico, viene creato un metabolita intermedio che entra prima in circolo e poi nelle
cellule, dove verrà trasformato in 5-fluororuracile ad opera della timidina-fosforilasi. Nella cellula
tumorale ciò avviene più frequentemente perchè nelle cellule neoplastiche c’è una maggiore
espressione di tale enzima. Anche questa può dare diarrea, ma la sua tossicità principale è data
dalla sindrome mano-piede che da’ dolori alle estremità, arrossamento, ridotta sensibilità che porta
alla ridotta mobilità ed autosufficienza deambulatoria del paziente.
Gemcitabina
Metabolita fraudolento purinico, dotato di scarsa tossicità midollare, buona maneggevolezza ed è
spesso associato a derivati del platino per il trattamento del microcitoma, del cancro della vescica
e del pancreas.
Pemetrexed
Inibitore enzimatico e metabolita fraudolento utilizzato nel trattamento del tumore polmonare non a
piccole cellule e del mesotelioma pleurico.
INIBITORI DELLA MITOSI
Vengono suddivisi in 2 categorie: gli alcaloidi della vinca e i taxani (derivati dal tasso). I microtubuli
ed il fuso mitotico sono fondamentali per la corretta migrazione cromosomica e quindi divisione
cellulare e vengono citati in quanto costituiscono il bersaglio farmacologico di questa classe di antineoplastici.
Alcaloidi della vinca
Essi distruggono i microtubuli, per cui la cellula in fase M non potendosi più dividere muore. Il
farmaco più importante di questa classe è rappresentato dalla vincristina utilizzato soprattutto in
tumori ematologici e la sua particolarità sta nel fatto che non ha mielotossicità ma causa stipsi.
Quello che in ogni caso si usa più frequentemente è la vinorelbina. Viene adoperata nel tumore
della mammella e del polmone non a piccole cellule. Quest’ultima non causa stipsi ma presenta
una mielotossicità non sottovalutabile.
Taxani
Farmaci che distruggono il fuso mitotico legando la beta-tubulina e la congelano in una forma che
non è più depolimerizzabile o polimerizzabile. I farmaci facenti parte di questa classe sono il
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paclitaxel ed il docetaxel che sono adoperati nel trattamento del tumore del polmone, della
mammella, dell’ovaio e dello stomaco.
Hanno tutti gli effetti collaterali dei farmaci antineoplastici ma presentano spiccata tossicità
neuronale che si esplica nel coinvolgimento del motoneurone, che si manifesta con una classica
algia diffusa molto simile quella influenzale. In ogni caso a questa tipologia di neurotossicità può
essere accoppiata la neurotossicità sensoriale dovuta combinazione terapeutica che prevede
molto spesso l’associazione dei derivati del platino.
ORMONOTERAPIA
Si può effettuare una terapia ormonale selettiva perché abbiamo alcune neoplasie che sono sotto
stimolo proliferativo ormonale. Quindi nel momento in cui interrompiamo lo stimolo ormonale, la
crescita si blocca. Si tratta di una considerazione molto importante in quanto i tumori ormonodipendenti sono il tumore della mammella e quello della prostata, per cui dal punto di vista
epidemiologico importanti cause di mortalità.
In oncologia andremo ad intervenire con una terapia ormonale che possa interferire nella normale
sintesi e secrezione di ormoni sessuali.
La produzione di estrogeni viene regolata da una serie di feedback ormonali che coinvolgono molti
organi rappresentati soprattutto da ipotalamo che rilascia fattori che stimolano o inibiscono l’ipofisi
anteriore e quest’ultima avrà effetti su organi produttori di ormoni sessuali in periferia.
L’ormonoterapia però agisce più sull’ospite piuttosto che su cellule tumorali.
Il primo approccio ormonale alla terapia antineoplastica era rappresentato dalla chirurgia
escissionale di organi produttori di ormoni.
Ora non si interviene più chirurgicamente bensì si procede attraverso via farmacologica
introducendo analoghi strutturali che bloccando i recettori, inibiscono la produzione ormonali.
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ONCOLOGIA
Prof. Ciardiello
04.04.2014
seconda lezione
la parte iniziale della seconda lezione riprende l'ormonoterapia.
Ormonoterapia ablativa alle donne in menopausa con cancro della mammella.
Ormoni steriodei di tipo estrogenico vengono prodotti anche in menopausa in minori quantità ma
sufficienti per stimolare la crescita del tumore della mammella principalmente nel surrene e nel
tessuto adiposo.
La steroidogenesi nel surrene e nel tessuto adiposo avviene partendo da precursori androgenici
attraverso enzimi che aggiungono gruppi idrossilici, le idrossilasi, chiamate anche aromatasi. Se
utilizziamo inibitori delle aromatasi (enzimi che normalmente convertono precursori steroidei in
estrogeni nel tessuto adiposo o nella ghiandola surrenalica), avremo un'ablazione estrogenica.
Quando studieremo il tumore della mammella, studieremo piccole molecole che sono responsabili
dell'inibizione reversibile dell'attivita aromatasica (farmaci utilizzati per os nel trattamento
adiuvante del cancro alla mammella ma anche nella malattia metastatica) che determinano quindi
inibizione della produzione estrogenica.
Terapia adiuvante ormonale va fatta per 5 anni
darà come effetti collaterali:
 nella donna in premenopausa la comparsa della menopausa
 nella donna in menopausa aumentiamo ulteriormente la fragilità ossea e il rischio
cardiovascolare
sia in premenopausa che in menopausa possiamo bloccare la funzione dell'ormone bloccando
recettore degli estrogeni, principio di azione del TAMOXIFEN (derivato non steroideo che agisce
da antiestrogeno legandosi nelle cellule tumorali al recettore per gli estrogeni a localizzazione
nucleare).
Mentre farmaci che bloccano la produzione di ormoni steroidei agiscono sull'ospite, il tamoxifene
agisce sulla cellula tumorale funzionando sia sulla donna in premenopausa che in menopausa.
prerequisito per il funzionamento del tamoxifene è che la donna abbia sulle cellule tumorali il
recettore per gli estrogeni. A complicare le cose dobbiamo aggiungere che il tamoxifene non è un
antiestrogeno puro, infatti in realtà c'è un'azione similestrogenica in alcuni tessuti sani (alcuni effetti
positivi come il favorire il metabolismo lipidico abbassando colesterolemia e aumentando
lipoproteine ad alta densità, altri effetti potenzialmente dannosi a livello dell'endometrio
determinando iperplasia benigna che con lo stimolo continuo, dovuto ad una terapia che può durare
fino a 5 anni, può determinare displasia fino ad arrivare al carcinoma dell'endometrio). Nel
trattamento con tamoxifene dobbiamo sempre valutare spessore della parete endometriale, indice di
proliferazione, tramite ecografia transvaginale 1 volta l'anno. Nel caso di ispessimento elevato o
iperplasia/displasia si sospende il trattamento.
Ormonoterapia si fa solo alle donne il cui cancro è potenzialmente ormonosensibile. Per sapere se
tumore è ormonodipendente ricerchiamo un biomarcatore, che diventa fattore predittivo di risposta
alla terapia. Il biomarcatore è la presenza del recettore per estrogeni nel nucleo, ricercato durante
l'esame istologico, mediante un esame di immunoistochimica.
Circa 2/3 dei tumori della mammella sono estrogeno-dipendenti, 1/3 è ormonoindipendente per cui
fare ormonoterapia sarà inutile.
Quindi prima di fare ormonoterapia nel tumore alla mammella dobbiamo valutare se ci sarà risposta
agli estrogeni, eventualmente anche al progesterone, al momento della diagnosi istologica.
Nel cancro della prostata invece il recettore per gli androgeni è presente nel 100% dei casi e ,
almeno inizialmente, tutti i tumori della prostata sono ormonodipendenti quindi ormonosensibili. Si
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comincia quindi con ormonoterapia e si passa poi eventualmente ad altri tipi di trattamento che
saranno trattati nella lezione sul tumore prostatico.
La terapia di tipo ablativo é basata su analoghi di LHRH (è ormai superata la castrazione
chirurgica), è possibile anche utilizzare degli antiandrogeni sullo stesso principio del tamoxifene,
che vanno a legarsi al recettore per gli androgeni sulla cellula prostatica con effetto antitumorale
diretto. L'antiandrogeno più frequentemente utilizzato è la BICALUTAMIDE.E' possibile anche
usare in combinazione un analogo di LHRH e un antiandrogeno per il tumore della prostata (o un
antiestrogeno per il tumore della mammella).
FARMACI A BERSAGLIO MOLECOLARE
classe di farmaci della terapia medica più innovativa e recente nell'oncologia e nell'ematologia
basata sulla conoscenza dei meccanismi biomolecolari alle base della trasformazione neoplastica.
Prodotti alterati derivati da geni modificati possono essere la chiave di attivazione di un cancro o di
alcune fasi della crescita tumorale (proliferazione, migrazione, differenziazione, metastatizzazione).
Nei tumori ematologici vi sono minori alterazioni geniche, probabilmente una singola mutazione,
meccanismo meno evidente nei tumori solidi in cui vi sono più mutazioni che concorrono alla
trasformazione neoplastica quindi bloccando solo una delle proteine modificate non sempre si
ottiene un effetto antitumorale importante.
Con i farmaci a bersaglio molecolare cerchiamo di individuare quelle mutazioni che sono specifiche
di quel tumore in modo da effettuare una terapia mirata (come avviene nell'ormonoterapia),
individualizzata per quel tipo di tumore che abbia il minor numero possibile di effetti collaterali e il
massimo di efficacia.
Seria di problemi legati alla terapia a bersaglio molecolare:
 tumori sono malattie molto eterogenee anche dal punto di vista delle alterazioni chiave del
tumore stesso (non avremo il 100% di cellule con recettore per estrogeni o la specifica
mutazione x)
 variabilità nel tempo del bersaglio
 capacità della cellula tumorale che si adatta sempre per sopravvivere (ad esempio capacità di
resistere al trattamento farmacologico)
bisogna inquadrare nel trattamento il gruppo di pazienti che è sensibile (nel cancro della mammella
valutiamo al microscopio se c'è almeno il 10% di cellule che hanno il recettore per estrogeni)
non abbiamo fattori predittivi di risposta per tutti i farmaci a bersaglio molecolare ma solo per
alcuni.
Cerchiamo bersagli molecolari validi (ad esempio in molti tumori risulta mutato p53, ma al
momento non abbiamo alcun farmaco anti p53, come non abbiamo farmaci attivi e specifici per le
mutazioni di ras).
I migliori esempi di farmaci a bersaglio molecolare sono attivi su fattori di crescita e recettori per
fattori di crescita, che intervengono su meccanismi di regolazione autocrina e paracrina alla base
della crescita tumorale o della neoangiogenesi. esempi più recenti sono inibitori di molecole chiave
della trasduzione del segnale. Via che dalla membrama cellulare attraverso fattori di crescita e
recettori per fattori di crescita tirosina kinasi trasduce il messaggio al nucleo attraverso una cascata
di messaggeri come ras, raf, mek, erk che porta al nucleo il segnale di proliferazione, l'altra via che
sempre attraverso recettori per fattori di crescita e ras porta segnali di sopravvivenza cellulare e
metabolismo il cui ha un ruolo chiave la chinasi fosfatidil inositolo dipendente, akt e il complesso
mTOR.
Queste due vie di trasduzione del segnale sono frequentemente attivate nei tumori umani per
mutazioni attivanti o inattivanti (come nel caso di pten). Molte di queste vie sono oggetto di farmaci
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ancora in sviluppo.
I farmaci per i quali si è avuto un cerco successo terapeutico sono:
-inibitori di braf mutato (mutazione molto frequente nel melanoma)
-inibitori del complesso mTOR ( tumore del rene e in alcuni casi di tumore della mammella)
farmaci che bloccano attivazione, a livello della membrana cellulare della cellula tumorale, di
fattori di crescita e recettori per fattori di crescita
farmaci che bloccano l'angiogenesi mediata da VEGF e VEGFR
farmaci che bloccano enzimi chiave nella via di trasduzione del segnale per la proliferazione (raf) o
per la sopravvivenza (mTOR)
RECETTORI PER FATTORI DI CRESCITA
esempi migliori della famiglia di farmaci che bloccano recettori per fattori di crescita appartengono
alla famiglia del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR). Scoperto da Stanley Cohen
negli anni '60 fu osservato per la prima volta nelle cellule epidermiche della cute, poi osservato
anche in altri tessuti epidermici.
EGFR appartiene ad una famiglia di quattro recettori (HER O ErbB, rispettivamente numerati da 1 a
4) molto simili tra loro (porzione extracellulare, porzione transmembrana e porzione intracellulare
con attività tirosino-kinasica sulla quale avviene l'autofosforilazione formando dimeri e quindi
l'attivazione della cascata del segnale che porta all'attivazione della proliferazione cellulare).
Bersagli importanti nella terapia farmacologica sono EGFR e HER2 (o ErbB2).
EGFR è un bersaglio importante nel cancro del colon retto e in un sottogruppo di pz con cancro del
polmone non a piccole cellule.
HER2 è u bersaglio molecolare importante per la terapia in un sottogruppo di pz con cancro della
mammella e in un sottogruppo di pz con cancro dello stomaco.
ErbB2 nel cancro della mammella è bersaglio molecolare della terapia quando in gene ErbB2 è
amplificato e come conseguenza si ha un'iperespressione della proteina corrispondente. Questa
condizione è presente nel 20-25% dei cancri della mammella. L'individuazione avviene attraverso
FISH (ibridazione in situ con immunofluorescenza). L'iperespressione di ErbB2 è un fattore
predittivo di risposta nei confronti di una terapia a bersaglio molecolare. Quindi quando
caratterizziamo un tumore della mammella dobbiamo verificare la presenza del recettore per gli
estrogeni (per ormonoterapia) e se amplificato e iperespresso ErbB2 (per terapia a bersaglio
molecolare). Possiamo avere un farmaco che blocca l'attività del recettore dalla porzione
extracellulare limitandone la sua attività enzimatica tirosinokinasica andando ad esempio a bloccare
l'interazione con il ligando, oppure un farmaco che entra nella cellula, si lega alla porzione
recettoriale con attività tirosinokinasica bloccandone la funzione.
Per bloccare la cellula dall'esterno possiamo utilizzare un anticorpo monoclonale (anticorpi diretti
contro uno specifico antigene che possono essere prodotti in laboratorio) che legandosi alla
porzione extracellulare del recettore ne impedisce l'attivazione. L'anticorpo monoclonale viene
prodotto in una cellula murina (un ibridoma) in grado di produrre un'immunoglobulina umana.
Anticorpi originali sono molecole di topo, quindi l'organismo crea anticorpi per neutralizzare questa
proteina, quindi i primi anticorpi monoclonali murini dopo la prima somministrazione diventavano
inefficaci. Per ovviare a questo problema, mediante tecniche di ricombinazione genica, si sono
umanizzati gli anticorpi monoclonali, si è sostituita la porzione fc che non riconosce l'antigene con
l'equivalente porzione umana, costruendo un gene ibrido che contiene l'80-90% di
immunoglobulina umana lasciando la porzione ipervariabile solo nella regione che riconosce
l'antigene.
Anticorpi chimerici contengono 20-25% di DNA murino
Anticorpi umanizzati contengono 5-10% di DNA murino
Anticorpi monoclonali completamente umani sono stati ottenuti recentemente grazie alla possibilità
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di utilizzare topi transgenici.
Maggiore sarà la componente umana, minori saranno le reazioni avverse al trattamento con
anticorpi monoclonali, ricordando che sono farmaci che richiedono un lungo trattamento (mesi).
TRASTUZUMAB: anticorpo monoclonale umanizzato anti ErbB2, che riconosce la porzione
extracellulare del recettore, inattivandolo. Utilizzato nel trattamento del cancro della mammella in
cui si abbia un'amplificazione di ErbB2 (20-25% casi) e anche nel cancro dello stomaco (10-15%
casi).
Trastuzumab è stato il primo anticorpo monoclonale ad essere utilizzato in un tumore solido,
attualmente utilizzato sia nella terapia adiuvante che nella terapia metastatica del cancro della
mammella.
Attualmente anticorpi monoclonali si somministrano endovena. Sono in sviluppo delle preparazioni
sottocute ma al momento ancora non vengono utilizzate nella terapia. Gli anticorpi monoclonali
sono somministrati ciclicamente e la periodicità di somministrazione è correlata con la
biodisponibilità e con la permanenza in circolo dell'anticorpo (un anticorpo chimerico verrà
somministrato quindi più frequentemente di un anticorpo umanizzato o completamente umano).
La somministrazione del trastuzumab varia da una volta a settimana a una volta ogni 2 o 3
settimane(attualmente negli schemi di terapia viene utilizzato ev ogni 3 settimane).
In generale la somministrazione è in associazione con altri farmaci, per esempio in donne con
cancro della mammella metastatico responsivo ad ErbB2 vi è una buona risposta terapeutica in
associazione con farmaci citotossici (politerapia con farmaci con meccanismo d'azione diverso che
possono agire sulla stessa cellula, avendo un effetto sinergico, bloccando in maniera maggiore le vie
di fuga della cellula tumorale che andrà incontro a morte).
Effetti collaterali: non sono gli stessi effetti collaterali dei farmaci citotossici (per esempio
mielotossicità, vomito). L'effetto tossico più importante del trastuzumab è la cardiotossicità, in
quanto recettore ErbB2 è importante per il miocardiocita (diversa dal punto di vista molecolare
dalla cardiotossicità da antracicline ma richiede lo stesso tipo di monitoraggio (valutazione della
frazione di eiezione ed ecocardio). Possiamo anche associare antracicline con trastuzumab
potenziandone l'attività sul cancro della mammella, ma come conseguenza avremo anche un
aumento della tossicità cardiaca. In genere quindi nell'associazione di questi due farmaci viene
intrapresa una terapia sequenziale per ridurre la tossicità. Cercare di associare farmaci con profili di
tossicità non sovrapponibile come ad esempio trastuzumab + taxani o aminolevulina. Purtroppo non
può essere associato con le antracicline se non aumentando la tossicità cardiaca, condizione che
nella pratica clinica viene difficilmente accettata. Nelle forme più avanzate di tossicità potremmo
arrivare ad un'insufficienza cardiaca congestizia e ad uno scompenso cardiaco.
Più recentemente è stato sviluppato un altro anticorpo monoclonale anti ErbB2 detto
PERTUZUMAB, molto simile al trastuzumab ma si lega ad una porzione diversa del recettore
sempre al di fuori della membrana cellulare. Sono quindi 2 anticorpi monoclonali contro lo stesso
recettore ma contro porzioni diverse che possono essere utilizzati insieme per aumentare la
funzionalità inibendo maggiormente la formazione della strutture recettoriale dimerica utile alla
trasduzione del segnale. Pertuzumab è un farmaco più recente e ancora in sperimentazione nella
terapia adiuvante.
Altro modo di utilizzare gli anticorpi monoclonali è un coniugato con un alchilante, sfruttiamo
l'effetto citotossico del farmaco alchilante e la capacità dell'anticorpo monoclonale di trasportare
l'alchilante direttamente sulla cellula bersaglio (il coniugato si chiama T-DM1).trastuzumab blocca
recettore ErbB2, segue una endocitosi del complesso recettore-ligando quindi verrà rilasciato nella
cellula l'alchilante legato. Questa associazione viene utilizzata nel trattamento della malattia
metastatica.
Non è detto che pazienti positivi alla mutazione per estrogeni o di ErbB2 rispondano nel 100% dei
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casi alla terapia, poiché la cellula potrebbe avere meccanismi di resistenza intrinseca nonostante
abbia il bersaglio molecolare. La cellula può tanto essere resistente all'inizio del trattamento, tanto
può acquisire la resistenza. Non tutte le associazioni tra anticorpo monoclonale e citotossico sono
tra l'altro possibili, in quanto potrebbero non essere somministrabili poiché, semplicemente, non si
riesce ad ottenere una preparazione farmacologica idonea.
Altra modalità di funzionamento è bloccare direttamente la funzione enzimatica del recettore.
In presenza di ATP, il recettore aggiunge un gruppo fosfato su specifici gruppi di tirosina,
autofosforilandosi. Possiamo utilizzare ATP-mimetici che si inseriscono nella tasca tridimensionale
enzimatica al posto dell'ATP. In genere sono inibitori reversibili, sono però in sviluppo inibitori
irreversibili che si legano covalentemente e distruggono il recettore. Sono molecole piccole (come
ATP, 500-600 Da), entrano per diffusione all'interno della membrana, riconoscono sito del recettore
e ne bloccano la funzione. Sono chiamate PICCOLE MOLECOLE INIBITORI DELLA TIROSIN
KINASI. Uno dei vantaggi di queste molecole è l'assorbimento a livello del tratto gastroenterico
(somministrati per os). Appartiene a questa categoria di molecole il LAPATINIB, usato nel cancro
della mammella dopo fallimento della terapia con trastuzumab. Vi sono anche studi di associazione
più funzionali ma certamente anche più tossici. Anche il lapatinib è gravato da cardiotossicità.
EGFR importante nei tumori del distretto cervico-facciale (sono tumori squamosi), nel tumore del
colon retto e nel tumore del polmone. EGFR è molto simile a ErbB2 però per EGFR conosciamo i
quattro ligandi (EGF, ma più importanti nei tumori umani sono TGF alfa, epiregulin e anfiregulin),
che in genere la cellula tumorale è in grado di autoprodursi determinando una regolazione autocrina
della crescita. Anticorpi monoclonali contro EGFR si legano alla porzione extracellulare del
recettore impedendo il legame con il normale ligando. la successiva endocitosi del recettore
diminuisce la concentrazione recettoriale di membrana che a lungo tempo determinerà una
riduzione dell'espressione del recettore.
Nel tumore del colo retto possiamo utilizzare due anticorpi monoclonali anti EGFR (ancora non
sono utilizzati nel tumore del polmone) CETUXIMAB (anticorpo chimerico anti EGFR) e
PANITUMUMAB (anticorpo completamente umano)
suffissi indicano
-ximab anticorpi chimerici
-zumab umanizzato
-mumab completamente umano.
Cetuximab e panitumumab cancro del colon retto (cetuximab anche nei tumori del distretto cervicofacciale). Monoterapia, associati alla chemioterapia o alla polichemioterapia. Utilizzati nel tumore
del colon retto metastatico. Dobbiamo cercare fattori predittivi di risposta. nel trastuzumab
pertuzumab e lapatinib abbiamo detto che abbiamo fattori predittivi di risposta positivi., nel tumore
del colon retto EGFR raramente viene amplificato come gene è poco utile valutare i livelli di
espressione del recettore o se c'è l'alterazione molecolare del recettore (in genere non c'è). si
selezionano pazienti i cui tumori sono sicuramente resistenti alla terapia con anticorpi monoclonali
anti EGFR, escludendo questi pazienti dal trattamento, è quindi molto probabile che pz che non
hanno questo fattore di resistenza siano responsivi alla terapia. escludendo questi pazienti evitiamo
loro di somministrare una tossicità inutile al paziente.
Fattore predittivo di risposta negativo: cerchiamo un determinato fattore nel tumore del paziente e
se presente sappiano che non risponderà alla terapia al 100%, somministriamo invece il farmaco ai
pazienti che non presentano il fattore perché potrebbero essere responsivi.
Unione ligando recettore, dimerizzazione recettoriale, si autofosforila, arrivano proteine di
ancoraggio (es grab), enzima che porta al reclutamento della proteina ras che quando funziona è
legato al GTP e attiva la serina treonina kinasi raf, segue mek quindi erk che va al nucleo e attiva
geni iniziali della trascrizione (fos jun ecc). Normalmente se utilizziamo cetuximab o panitumumab
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blocchiamo questo processo impedendo quindi che arrivi un segnale al nucleo ma potremmo avere
una mutazione costitutiva di ras (da protooncogene a oncogene), e il blocco del recettore non ferma
la proliferazione cellulare. Quindi in pazienti con tumore del colon retto metastatico che hanno una
mutazione di ras,che sono il 50-55% dei pz con questo tipo di cancro (sono importanti nel colon
retto i geni k-ras e n-ras), il trattamento con anti EGFR non sarà efficace. Se pz ha ras wild type
(configurazione normale), possiamo somministrare cetuximab e panitumumab, se geni sono mutati
non effettueremo questo trattamento.
Effetti collaterali: tossicità più importante è cutanea, anche da un punto di vista psicologico.
L'EGFR è localizzato negli strati basali della cute.
Dopo 3-4 settimane la cute diviene secca, può divenire pruriginosa e insorge un processo
infiammatorio nelle aree con follicoli piliferi, fino ad assomigliare ad un rash cutaneo di tipo
acneiforme (l'acne ha un altro tipo di meccanismo fisiopatologico dovuto ad una sovrainfezione
batterica) dovuto ad un'alterata funzione dell'attivazione cellulare. Aree maggiormente colpite sono
la porzione superiore del tronco e il volto. Per evitare questo effetto collaterale possiamo utilizzare
creme emollienti o l'effetto antiinfiammatorio di una tetraciclina, la doxiciclina a basse dosi per os.
Possiamo usare antibiotici locali nel caso di una sovrainfezione batterica, quando c'è prurito
utilizziamo antiistaminici e nella reazione infiammatoria importante possiamo utilizzare il
cortisone.
Altro effetto collaterale molto importante è la diarrea.
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Riassunto dei farmaci trattati dal professore a lezione
ORMONOTERAPIA
TAMOXIFENE
lega recettore per gli estrogeni, bloccandolo
ha però un effetto similestrogenico, non essendo un antiestrogeno puro in alcuni tessuti sani:
 effetto positivo: abbassa colesterolemia e aumenta HDL
 effetto negativo: iperplasia endometriale che se sostenuta per 5 anni (durata della terapia
ormonale) può determinare displasia fino al carcinoma endometriale
per sostenere ormonoterapia dobbiamo valutare ormonosensibilità ricercando recettore per estrogeni
tramite immunoistochimica.
2/3 dei tumori della mammella sono ormonosensibili, 1/3 sono ormonoindipendenti quindi il
trattamento con antiestrogeni è inutile.
Nel cancro della prostata 100% casi è inizialmente ormonodipendente
BICALUTAMIDE
antiandrogeno che come funzionamento può essere assimilato al tamoxifene.
FARMACI A BERSAGLIO MOLECOLARE
cerchiamo di effettuare una terapia mirata, individualizzata per quel tipo di tumore, cercando di
ridurre effetti collaterali e di massimizzare l'efficacia.
Problemi:
 tumori sono eterogenei, anche nelle alterazioni chiave del tumore stesso
 variabilità nel tempo del bersaglio
 capacità adattativa della cellula tumorale
importante inquadrare pz che sono sensibili al trattamento (es nel tumore della mammella
ormonodipendente valutiamo al microscopio che almeno il 10% delle cellule abbiano il recettore
per estrogeni)
RECETTORI PER FATTORI DI CRESCITA
TRASTUZUMAB: anticorpo monoclonale umanizzato anti ErbB2 (o HER, famiglia di EGFR), che
lega la porzione extracellulare del recettore, inattivandolo.
Trattamento del tumore della mammella con amplificazione di ErbB2 (20-25% casi) sia in terapia
adiuvante che nella terapia del tumore metastatico e del cancro dello stomaco (10-15% casi)
somministrazione endovena (sono in sviluppo somministrazioni sottocute) attualmente una volta
ogni 3 settimane.
Buona associazione con farmaci citotossici
effetti collaterali: cardiotossicità
PERTUZUMAB: altro anticorpo monoclonale anti ErbB2, che lega una porzione diversa del
recettore rispetto al trastuzumab
PICCOLE MOLECOLE INIBITORI DELLA TIROSIN KINASI
LAPATINIB: ATP-mimetico che blocca la funzione autofosforilante del recettore determinando
inattivazione.
Trattamento del cancro della mammella dopo fallimento della terpia con trastuzumab
Vantaggi correlati alla somministrazione per os
effetti collaterali: cardiotossicità
ANTI EGFR
CETUXIMAB: anticorpo chimerico anti EGFR utilizzato nel cancro del colon retto e nei tumori del
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distretto cervico facciale (ancora non utilizzato nel tumore del polmone).
PANITUMUMAB:anticorpo umanizzato anti EGFR.
Trattamento del cancro del colon retto
sia cetuximab che panitumumab possono essere somministrati in monoterapia o nella
polichemioterapia.
Effetti collaterali:
-tossicità cutanea che ha un impatto importante anche dal punto di vista psicologico.
-diarrea
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9/04/2014
Prof. Ciardiello
Abbiamo parlato dei farmaci antineoplastici a bersaglio molecolare cioè farmaci che sono stati, in
maniera mirata (con tecniche di DNA ricombinante, anticorpi monoclonali, sintesi chimica), diretti
contro specifiche proteine che hanno una funzione importante nei meccanismi di proliferazione
cellulare, trasformazione neoplastica, invasione neoplastica, vascolarizzazione, quindi idealmente
tutti i geni la cui alterazione porta ad una proteina alterata, che hanno un ruolo nello sviluppo e nella
progressione della neoplasia, potrebbero essere ideali bersagli molecolari con l'obiettivo di utilizzare
il blocco di questi bersagli come effetto citotossico diretto nei confronti delle cellule e quindi fare una
terapia.
I prodotti proteici però hanno funzione fisiologica anche in cellule normali.
I farmaci a bersaglio molecolare più utilizzati sono quelli che bloccano i recettori per fattori di
crescita come Erb o EGFR, in particolare farmaci che bloccano ErbB-2 nel cancro della mammella o
dello stomaco, farmaci che bloccano EGFR nel cancro del colon e nel tumore del polmone.
Questo tipo di terapia è utile perché blocca una via metabolica fondamentale per l'autonomia
proliferativa delle cellule neoplastiche, i cosiddetti circuiti autocrini proliferativi, cioè l'attivazione
mediante uno specifico recettore per fattori di crescita, che nel caso della famiglia Erb è un recettore
con attività tirosino chinasica, che attivato si autofosforila e porta alla trasmissione del segnale
all'interno della cellula fino allo stimolo proliferativo. Abbiamo visto che è possibile bloccare il
recettore con un anticorpo monoclonale che blocca l'interazione con il ligando impedendo la
dimerizzazione del recettore, oppure costruendo una molecola che entra nella cellula sostituendosi
all'ATP ed impedendo così l'autofosforilazione del recettore.
Il cetuximab e panitumumab vengono utilizzati principalmente per il tumore del colon retto
metastatico.
Gli effetti collaterali di farmaci anti ErbB-2 (tipo trastuzumab) sono la cardiotossicità.
Nel tumore del colon retto metastatico per poter selezionare i pazienti nei quali è più probabile che i
farmaci antiEGFR funzionino dobbiamo conoscere lo stato mutazionale dei geni ras perché, quando i
geni ras sono mutati, la proteina prodotta dal gene attivo non è bloccabile se non blocchiamo il
recettore. Le proteine ras hanno attività GTPasica e sono attive quando legate a GTP.
Alcuni farmaci anti-EGFR si usano in alcune forme di tumore del polmone e, soprattutto nel tumore
del polmone non a piccole cellule, alcuni geni sono mutati e per alcuni esistono farmaci specifici. La
prima scoperta su questo fronte è avvenuta quando ci si rese conto che, in un gruppo di circa 10-15%
di pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule, la somministrazione di farmaci anti-EGFR
specifici (gefitinib ed erlotinib) si avevano risposte terapeutiche durature anche in pazienti trattati
con farmaci chemioterapici tossici, quindi malattie sicuramente chemioresistenti. Si pensò che
probabilmente o si trattava di un istotipo di adenocarcinoma del polmone, oppure di soggetti che non
avevano fumato. L’85-90% di tumori del polmone insorgono in pazienti che hanno fortemente
fumato nel corso della loro vita, c'è però un 10-15% di persone che sviluppano il tumore del polmone
pur non avendo mai fumato. Poiché molti di questi pazienti erano donne non fumatrici si pensò che
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gli adenocarcinomi di donne non fumatrici erano geneticamente diversi e rispondenti a terapia antiEGFR. Quando si iniziarono a fare gli studi nei paesi occidentali e nei paesi orientali, si vide che in
Cina, in Giappone, in Corea, c'erano molte più donne non fumatrici con adenocarcinoma che
rispondevano alla terapia anti-EGFR e per alcuni anni non si capirono i motivi per cui questo
avveniva finché, nel 2004, si fece uno studio andando a guardare i casi clinici. C'era un'infermiera
<40 anni con adenocarcinoma resistente e le somministrarono gefitinib e questa donna, che era a letto
in condizioni molto gravi, nel giro di un paio di settimane tornò al lavoro ed ebbe una risposta
positiva per più di un anno. Questa era una donna non fumatrice e scoprirono così che in circa il 1015% di tumori (quasi tutti sono adenocarcinomi e qualcuno anche carcinoma squamoso) è presente
una mutazione attivante del gene EGFR, perché la cellula con la mutazione ha un segnale più
prolungato e forte. Questo rappresenta un vantaggio selettivo per la cellula e infatti questa mutazione
è probabilmente la mutazione più importante che determina, in questo 10-15% di casi con tumore del
polmone non microcitoma, il tumore stesso. Gefitinib ed erlotinib sono molto attivi quando il gene è
mutato in determinate posizioni, probabilmente da un punto di vista molecolare c'è una maggiore
affinità e il farmaco funziona bene per cui in questi pazienti si ha una citotossicità diretta e quindi
l'effetto terapeutico. La mutazione avviene nella zona che codifica la porzione TK ed esiste anche
una mutazione di resistenza per cui il farmaco funziona di meno.
I tumori del polmone che presentano una mutazione attivante del gene dell’EGFR, che avviene in
genere nell’esone 19 e 21, utilizzano un farmaco anti-EGFR come gefitinib ed erlotinib e questa è
una terapia più utile della chemioterapia con farmaci citotossici che è molto tossica. Invece gli effetti
collaterali dei farmaci anti-EGFR sono principalmente rash cutanei e poi un altro vantaggio di questi
farmaci è che sono farmaci orali quindi somministrabili a casa però senza gli effetti collaterali dei
farmaci citotossici, quindi la terapia con platino o un altro farmaco che è la terapia standard nei
tumori del polmone senza mutazione dell’EGFR è nettamente più tossica e anche meno attiva della
terapia con gefitinib o erlotinib. Quindi probabilmente l'associazione con il sesso femminile e i paesi
asiatici, è casuale e legata alla maggiore frequenza. La carcinogenesi non da fumo di sigaretta è
caratterizzata da una mutazione nell’EGFR, invece nei pazienti in cui il tumore ha una patogenesi
legata al fumo di tabacco ci sono mutazioni in altri geni per esempio in Kras. Le mutazioni di ras
costituiscono un meccanismo di resistenza ai farmaci anti-EGFR quindi o ci sono mutazioni in ras
oppure in EGFR per cui si dice che le due mutazioni sono mutuamente esclusive. Per quanto riguarda
i farmaci usati nel tumore del polmone per mutazioni attivanti di tipo somatico cioè acquisite e non
trasmesse a livello germinale, gli effetti collaterali sono reazioni cutanee di tipo rashiformi legate alla
fisiopatologia della cute e diarrea. Altri farmaci che bloccano i recettori importanti in alcuni tumori
umani e che sono stati anche dei grossi successi terapeutici? In realtà il primo farmaco con attività
anti-TK è stato l’imatinib che fu introdotto in terapia perché si scoprì, una quindicina di anni fa, che
in pazienti affetti da una rara forma di leucemia mieloide cronica caratterizzata dell'alterazione
citogenetica (cromosoma philadelphia che contiene un riarrangiamento genico) è l’inibitore TK che
blocca il genere riarrangiato nella LMC e tuttora è la terapia standard di questa patologia. Qualche
anno dopo casualmente si scoprì che in un tumore mesenchimale raro gist, cioè un tumore stromale
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associato al tratto gastroenterico, imatinib funzionava benissimo. Questo è un tumore estremamente
chemioresistente in cui soltanto la chirurgia è efficace poi si scoprì che gran parte dei gist sono
tumori in cui c'è un’alterazione in un recettore per fattori di crescita che si chiama Kit e imatinib
inibisce Kit attivato.
Un'altra classe di farmaci utili sono i farmaci che bloccano in maniera diretta o indiretta i processi di
angiogenesi quindi i farmaci antiangiogenetici fanno parte del gruppo di farmaci a bersaglio
molecolare. L’angiogenesi è un processo complesso che deriva dall'interazione tra cellule tumorali e
cellule normali del paziente, è un processo dinamico multifattoriale. L’angiogenesi indotta dal
tumore o neoangiogenesi è un processo necessario e indispensabile per la crescita locale, invasione e
localizzazione a distanza delle cellule tumorali, attivato nelle fasi precoci della trasformazione
neoplastica. Quando avviene? Quando le cellule tumorali maligne raggiungono una massa critica che
non permette una sopravvivenza adeguata perchè non permette l'arrivo di nutrienti e ossigeno a meno
che non si formino nuovi vasi. Le cellule tumorali maligne producono fattori di crescita che attivano
una serie di cellule normali endoteliali e quindi ne favoriscono la migrazione, la proliferazione, la
differenziazione funzionale. Perchè i vasi neoformati sono diversi da quelli normali? Perché sono più
permeabili, più tortuosi, più aggrovigliati. A questo processo partecipano non solo le cellule
endoteliali ma anche le cellule stromali tra cui i periciti, i miociti e tutte queste cellule migrano e
proliferano attorno ai vasi perché le cellule tumorali producono o inducono fattori di crescita pro
angiogenetici, tra questi il più importante è il VEGF. Il VEGF è una famiglia di fattori di crescita
quello che noi comunemente indichiamo con VEGF è il VEGFa che sulla cellula endoteliale attiva il
recettore più importante per la migrazione, proliferazione e differenziazione delle cellule tumorali
stesse, il VEGFR2. Il recettore di tipo 1 è importante nella migrazione, quello di tipo 3 nella
linfoangiogenesi. Abbiamo quattro fattori VEGF di tipo a,b,c,d e poi è stato scoperto anche un quinto
fattore Placental growth factor (PGF) e questi attivano vari recettori sempre formando dimeri e
trasmettendo i segnali con gli stessi pathway molecolari (Ras, Raf, Mek, MAPK, oppure la via della
sopravvivenza cellulare attraverso AKT). Se la cellula tumorale non attiva questo processo, il tumore
non va avanti e si è pensato che l'angiogenesi fosse un processo fondamentale per la crescita, lo
sviluppo, la metastatizzazione per cui bloccare l’angiogenesi era il miglior modo per bloccare in
maniera decisiva la neoplasia. Si arrivò così ad individuare delle possibilità terapeutiche in alcuni tipi
di farmaci per alcune patologie, il primo farmaco antiangiogenetico di successo è stato un anticorpo
monoclonale umanizzato contro il VEGFa, il bevacizumab, che è il prototipo di farmaci sviluppati
contro l’angiogenesi indotta da tumore. Questo è attivo contro i fattori di crescita e non contro il
recettore quindi quando facciamo terapia con bevacizumab noi andiamo a neutralizzare il VEGFa,
prodotto principalmente dalle cellule tumorali e impediamo che il VEGFa attivi il recettore sulle
cellule endoteliali. Questa è una terapia a lungo termine cronica, noi togliamo in questo modo uno
stimolo cronicamente necessario al mantenimento di vasi all'interno del tumore perché il VEGFa non
solo induce le fasi iniziali ossia la migrazione, la proliferazione, ma è indispensabile per il
mantenimento dello stato attivo funzionale per cui, se noi togliamo il VEGFa, i vasi all'interno del
tumore regrediscono e ritornano allo stato di quiescenza simile ai vasi normali nel resto
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dell'organismo. Quindi, una terapia cronica con anticorpi anti-VEGFa, permette un ritorno ad un’
angiogenesi normale con distruzione dei neovasi indotti dalle cellule tumorali, questa non è una
terapia rivolta direttamente contro il tumore ma comunque, distruggendo la neovascolarizzazione
indotta dal tumore, riduciamo anche l'apporto di ossigeno e nutrienti al tumore stesso e quindi in
ultima analisi ha un effetto anti tumorale. Quando tratto con bevacizumab non abbiamo una morte
delle cellule tumorali come principale effetto, ma il blocco della vascolarizzazione che, a lungo
termine, porta alla necrosi tumorale perché non abbiamo vasi che portano ossigeno e nutrienti al
tumore. Il bevacizumab viene usato in associazione ai farmaci citotossici perché potenzia il loro
effetto in quanto, probabilmente, bloccando la neoangiogenesi permette una migliore distribuzione
dei farmaci citotossici nel tumore stesso. Il bevacizumab entra in associazione con la chemioterapia
nel caso di tumore del colon retto metastatico, in alcuni tipi di tumori del polmone di tipo
adenocarcinoma, tumori dell'ovaio, nel carcinoma della mammella metastatico, in alcuni tipi di
tumori del surrene. Gli effetti collaterali del bevacizumab sono legati al suo meccanismo d'azione.
Un aspetto importante, per fortuna controllabile, è l’induzione dell'ipertensione arteriosa, quindi
ipertensione arteriosa lieve, moderata e grave può essere individuata nella maggioranza dei pazienti
trattati a lungo termine con bevacizumab, raro invece è il rischio di distruzione dei vasi intratumorali
con emorragia o trombosi arteriosa o venosa. Per cui, in alcuni casi, è controindicato l’uso di
bevacizumab, per esempio in pazienti che hanno avuto recentemente (per es. sei mesi precedenti alla
terapia) un accidente cardiovascolare acuto o una patologia cardiovascolare cronica importante (una
trombosi arteriosa o venosa profonda o che hanno avuto un recente infarto) non vanno trattati con
bevacizumab per il rischio di avere importanti effetti collaterali. Pazienti poi che hanno masse
tumorali già sanguinanti alla diagnosi non devono essere trattati con bevacizumab, perché si può
peggiorare. Si è visto che in alcuni tumori del polmone che istologicamente sono squamosi e che in
genere hanno una localizzazione centrale cioè ai grossi bronchi, spesso con cavitazione e con
infiltrazione dei grossi vasi, il trattamento con bevacizumab può portare a emorragie importanti per
distruzione dei grossi vasi, per cui il bevacizumab non si usa nei tumori squamosi o nei tumori
localizzati centralmente. L'ipertensione arteriosa non è tanto una controindicazione perché in genere
viene controllata abbastanza facilmente da un punto di vista farmacologico e l'ipertensione da
antiangiogenetici viene trattata normalmente come viene trattata l'ipertensione arteriosa. Il VEGFa
controlla le cellule muscolari lisce dei vasi quindi abolendolo si ha un incremento della pressione
arteriosa. Un altro effetto collaterale importante è la tossicità renale che si manifesta con un danno
tubulare renale, si valuta poi la proteinuria delle urine per valutare il danno renale. Successivamente
al bevacizumab si è cercato di individuare altre molecole che potessero bloccare il processo di
angiogenesi, soprattutto piccole molecole anti-TK per bloccare il VEGFR2 e molte di queste
bloccano recettori di tipo 1,2 e 3 si è visto che gran parte di questi farmaci vengono utilizzati in un
tumore maligno come il tumore a cellule chiare del rene perché nei tumori renali la neoangiogenesi è
particolarmente sviluppata ed è resistente ai farmaci citotossici. Piccole molecole orali ad azione antiTK che bloccano il recettore del VEGF sulle cellule endoteliali sono varie, in uso in un cancro del
rene. Il più famoso, il primo ad entrare in commercio, è stato il sunitinib che blocca il recettore del
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VEGF ed è un farmaco di elezione per la terapia del cancro del rene metastatico. Farmaci simili come
meccanismo d'azione al sunitinib, sono il sorafenib ed il pazopanib che si usano nel tumore del
rene. Bloccare solo il recettore VEGFR2 può essere più efficace che bloccare i recettori 1,2,3 o il
recettore Kit (importante per i fibroblasti e cellule perivascolari). Quando utilizzate inibitori di più
recettori avete due problemi, perchè non sapete bene la potenza relativa all’inibizione dei vari
bersagli e poi in genere più il farmaco ha più bersagli e maggiore è l’incidenza degli effetti
collaterali. Per es. il sorafenib blocca molti recettori tra cui il recettore per il VEGF di tipo 1, 2, 3, il
PDGFR, il recettore Kit e inibisce anche l'enzima serin-treonin chinasi Raf quindi il sorafenib è attivo
su un ampio spettro di bersagli però è potenzialmente più tossico, è stato il primo farmaco attivo per
il trattamento dell’epatocarcinoma metastatico mentre inibitori più selettivi del VEGFR non sono
attivi nell’epatocarcinoma metastatico quindi quando usate farmaci a più bersagli è probabile che ci
possano essere effetti collaterali maggiori ma anche effetti terapeutici che altri farmaci più selettivi
non hanno. Purtroppo però questo lo scopriamo in maniera empirica perché tutti gli inibitori dell’
angiogenesi, dal bevacizumab a piccole molecole, non s usano in base a una selezione delle
caratteristiche (anatomiche,ecc.) del tumore cioè tutt’oggi non abbiamo marcatori che risultino fattori
predittivi o di resistenza ai farmaci antiangiogenetici di una determinata neoplasia. Non vi è nessun
fattore predittivo per l’angiogenesi che possiamo utilizzare prima di iniziare la terapia. L’angiogenesi
è un processo multifattoriale controllato dal tumore, ma che deriva da un interazione importante tra
ospite e tumore e che coinvolge diversi mediatori e numerose cellule effettrici.
DOMANDA: se c'è un gruppo di cellule tumorali abituato a condizioni di ipossia non si rischia di
selezionarle per una crescita maggiore con un antiangiogenetico?
RISPOSTA: uno dei meccanismi di progressione tumorale è l'acquisizione di un genotipo che
permette un fenotipo meno dipendente dall’apporto di ossigeno. Si è visto che la terapia
angiogenetica non causa questo tipo di effetto collaterale.
Probabilmente la resistenza al bevacizumab può essere data da meccanismi alternativi che attivano
l’angiogenesi.
Moltissimi farmaci a bersaglio molecolare sono ancora in sviluppo.
Un altro inibitore che non blocca la funzione di un recettore di membrana o di un fattore di crescita,
ma blocca direttamente una proteina di trasduzione del segnale. Molti tumori umani presentano
mutazioni di geni che codificano per proteine chiave per il meccanismo di trasduzione del segnale
(attraverso la via di AKT o Ras). Inibitori selettivi di Ras mutato non ci sono ancora, il primo gruppo
di farmaci a bersaglio molecolare studiato furono gli inibitori dell'enzima farnesil trasferasi. Perché?
Perché Ras è una proteina che viene farnesilata per essere ancorata alla membrana sulla porzione
interna, quando Ras è ancorata si può accoppiare a delle proteine adattatrici come i recettori per
fattori di crescita e può funzionare. Si pensò che se avessimo inibito l'enzima farnesil trasferasi, Ras
non arrivava in membrana, sia essa mutata sia normale, e così in tutti i tumori Ras dipendenti con Ras
mutato potevano avere un effetto anti tumorale ma la cellula tumorale è molto più intelligente e
trovava altri meccanismi per ancorare Ras in membrana per es. gli enzimi geranil trasferasi quindi
non esistono oggi inibitori diretti di Ras attivato così come non esistono inibitori diretti di p53.
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La mutazione di p53 è la più frequente, è presente nel 40,50,60% di tumori e quando è mutata in
alcune zone calde del gene la proteina non controlla più il ciclo cellulare e si ha duplicazione
cellulare. Però negli ultimi 5-6 anni siamo riusciti ad avere farmaci anti-Raf mutato (BRAF è mutato
in circa il 50-60% di pazienti affetti da melanoma metastatico, in genere in alcuni punti caldi del gene
una mutazione puntiforme cioè la sostituzione di un nucleotide che porta un codone a codificare un
altro aminoacido). BRAF mutato, a valle di Ras, diventa costitutivamente attivo; noi abbiamo
inibitori selettivi per BRAF mutato.
Un altro es. è dato da inibitori selettivi di mTOR; mTOR è una proteina a valle di AKT, importante
per segnali anti apoptotici. Si sapeva che gli inibitori selettivi di mTOR avevano anche una funzione
di immunosoppressione e un inibitore di mTOR che si chiama everolimus si usa nella terapia del
cancro del rene metastatico dopo fallimento con una terapia con farmaci antiangiogenetici ed
everolimus si può usare anche in donne con tumore alla mammella in associazione con
l’ormonoterapia dopo fallimento dell’ormonoterapia stessa.
Ci sono una serie di problemi relativi non solo ad individuare i farmaci antitumorali, qualunque sia la
categoria di appartenenza, che funzionino, in quali tumori agiscono, a quale dose funzionano e poi
quando li dovete utilizzare, per fare tutto questo si usano le conoscenze che derivano dalla
sperimentazione clinica dei farmaci oncologici.
Le fasi della sperimentazione clinica sono 4 nell'uomo e tutto quello che viene prima è
sperimentazione preclinica cioè sperimentazione in vitro, in sistemi cellulari in laboratorio, negli
animali da laboratorio (topo, ratto, cane, scimmia).
La fase I è una fase di tollerabilità generale, di farmacocinetica che viene fatta non in pazienti ma in
volontari sani mentre in oncologia, tranne in rarissimi casi, la fase 1 si fa in pazienti neoplastici
perché i farmaci neoplastici sono farmaci dotati di effetti collaterali importanti. L'unico farmaco in
cui fu fatta la fase iniziale nel volontario sano fu gefitinib quindi l'obiettivo della fase 1 in oncologia
è valutare la fattibilità della somministrazione del farmaco a una dose potenzialmente efficace e
relativamente poco tossica, in modo tale che, una volta saputi quali sono gli effetti collaterali
principali e come possono essere controllati e saputa la dose potenzialmente utile di questo farmaco,
si passa alla fase 2.
Nella fase II abbiamo acquisito più conoscenze su tollerabilità, tossicità ed effetti collaterali ed
usiamo quella dose che nella fase 1 è risultata una dose utile per andare a vedere se questo farmaco
ha un attività antitumorale. Quindi la fase 1 serve per la valutazione della tossicità, tollerabilità e
l'individuazione della dose potenzialmente attiva, la fase 2 serve per individuare l'effettiva attività
antitumorale.
Dopo la fase II, dei 100 farmaci partiti in fase I, dei 20 passati in fase II, dei 5 che hanno superato la
fase II, si valuta l'efficacia in una determinata malattia in studi di fase III che sono in genere studi di
confronto in cui noi diciamo: abbiamo evidenza dagli studi di Fase I e II che il farmaco X
probabilmente può essere un ottimo farmaco per una donna con tumore della mammella metastatico
dopo fallimento con altri farmaci tra cui abbiamo un farmaco Y che è poco attivo perché solo il 30%
delle donne hanno l'effetto terapeutico e dopo 3 mesi vanno in progressione. Come si fa a scoprire se
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il nuovo farmaco è migliore del farmaco precedente? Si fa uno studio di confronto o randomizzato di
fase III. Se il farmaco, dopo la fase III, si dimostra più efficace del farmaco precedente, le aziende
farmaceutiche avviano tutta una serie di progetti che passano attraverso le autorità regolatorie che
vigilano sulla commercializzazione dei farmaci (in Europa abbiamo l’EMA).
Dopo l'immissione in commercio si fa una valutazione post marketing di Fase IV, si vedono gli
effetti collaterali anche rari, i problemi che possono insorgere e che non si conoscevano, gli effetti
terapeutici diversi, perché quando noi tratteremo patologie frequenti invece di trattare poche decine,
centinaia, migliaia di pazienti trattiamo centinaia di migliaia, milioni di pazienti in vari mesi, per cui
anche un effetto collaterale che accade un caso su un milione noi potremmo non averlo mai visto.
Esistono centri specifici di farmacovigilanza che monitorano l'immissione in commercio e per i
farmaci oncologici sono particolarmente stringenti, perché i farmaci oncologici sono
particolarmente tossici. La fase I è la fase più complessa perché per esempio noi abbiamo una
molecola che sappiamo, da tutti gli studi preclinici, che è un ottimo inibitore dell’EGFR ed è molto
più attiva dei farmaci già in commercio (perché per esempio blocca anche recettori con una
mutazione di resistenza o perché il farmaco può essere dato a dosaggi bassissimi oppure perché
blocca l'enzima invece che in maniera reversibile in maniera irreversibile, ecc.).
La sperimentazione è molto complessa nell'uomo perché non sappiamo in quali pazienti farla e a
che dose farla quindi in fase I selezioniamo pazienti con tumori per i quali non esistono alternative
terapeutiche valide, pazienti per i quali noi speriamo di dargli un potenziale beneficio, pazienti con
una malattia avanzata (in genere metastatica), pazienti per i quali già sono state eseguite tutte le vie
di trattamento (chirurgica, chemioterapica), per cui soltanto la via sperimentale con un farmaco
nuovo può essere una speranza di vita. Tranne che se stiamo sviluppando un farmaco che agisce con
un meccanismo specifico, tipico di una patologia, in genere nei pazienti in sperimentazione di Fase
I non ho un tumore in particolare perché se sto sviluppando un nuovo farmaco citotossico lo
facciamo in pazienti con tutte le malattie. Diverso è il discorso se stiamo sviluppando un nuovo
inibitore del recettore per estrogeni: faccio lo studio di Fase I solo in pazienti con tumore della
mammella positivo per il recettore degli estrogeni. Lo sviluppo di Fase I è orientato ad una
determinata malattia se c'è un meccanismo funzionale che lo lega a una determinata malattia o ad
un determinato bersaglio molecolare, per es. se ho un farmaco anti-Ras mutato lo faccio nei pazienti
con mutazioni di Ras, oppure se il meccanismo è più esteso lo faccio in pazienti indipendentemente
dalla neoplasia. E’ difficile la scelta della dose iniziale per uno studio di Fase I, si fa in genere un
compromesso tra il dosaggio ottenibile nell'uomo, corrispondente al dosaggio che in vitro determina
negli animali in sperimentazione l'efficacia temporale, quindi se noi sappiamo che una
concentrazione di 1 µM in laboratorio funziona, noi cercheremo di fare una somministrazione nel
paziente tale per cui almeno 1 µM sia la concentrazione plasmatica ottenuta. Inizio a trattare il
paziente con una dose non a rischio ma neanche bassissima altrimenti è inutile. Più abbiamo notizie
di Farmacologia preclinica, maggiore è la possibilità di predire la dose. Poi in maniera empirica
usiamo l'incremento progressivo della dose, per es. decidiamo che il farmaco in questione lo
sperimentiamo inizialmente a 50 mg/m² endovena per 3 settimane perché è un farmaco citotossico,
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tratto un certo numero di pazienti con questa dose per un certo tempo e andiamo a registrare gli
effetti collaterali importanti, gli effetti antitumorali importanti e se dopo 3 pazienti non si ha una
tossicità importante vuol dire che probabilmente possiamo aumentare la dose. Questo viene fatto
soprattutto con i farmaci chemioterapici citotossici dove maggiore è la dose, più probabile è
l'attività; per i farmaci a bersaglio molecolare non è sempre così, quando la tossicità è inaccettabile
si fa lo stesso trattamento in altri pazienti e se si conferma, la dose immediatamente precedente è la
dose raccomandata per gli studi successivi di Fase II. Quindi, se noi abbiamo cominciato con 50
mg/m² per 3 settimane, i primi 3 pazienti sono passati a 60, poi siamo passati a 70, poi a 80, a 90
iniziamo a vedere tossicità e ci rendiamo conto che 90 non è fattibile e diciamo: 80 mg/m² in 3
settimane è la dose massima tollerata e quindi la dose raccomandata per gli studi successivi di Fase
II. Se questo farmaco è particolarmente utile e attivo, avremo in alcuni di questi pazienti anche
evidenza di attività antitumorale tipo per es. riduzione di metastasi, di dimensioni. A questo punto
supponiamo che noi abbiamo evidenza che con 80 mg/m² in tumori dell'ovaio resistenti alla
chemioterapia (5-6 tumori) abbiamo avuto risposte. Decidiamo allora di fare uno studio di Fase II
con una dose di 80 mg/m² per 3 settimane, in donne affette da cancro dell'ovaio che hanno fatto una
prima linea di trattamento con terapia standard e che hanno una forma diventata refrattaria e allora
diciamo: vogliamo vedere se in questo donne il farmaco è efficace. Per cui in Fase II rivalutiamo
meglio il numero di pazienti, la tossicità, e andiamo a misurare l'attività antitumorale quindi la
percentuale di donne che hanno una risposta per es. possiamo dire: in questa linea di terapia, dopo
fallimento della terapia con platino, soltanto il 20% di donne hanno risposto a qualsiasi farmaco
citotossico. Se tratto 50 donne e ottengo almeno il 40% di risposte, questo è un farmaco
potenzialmente interessante (cioè 20 donne devono rispondere) e se io ho una risposta in 22 donne
questo studio ha dimostrato che la percentuale è clinicamente importante e quindi questo farmaco è
potenzialmente utile, confermando la tossicità accettabile, perché non è particolarmente citotossico.
Dopo la fase I e II, abbiamo un nuovo chemioterapico potenzialmente utile nel cancro dell'ovaio.
Per poter far diventare la terapia con questo farmaco la terapia standard nelle donne con cancro
dell'ovaio, dopo fallimento della terapia con platino, dobbiamo fare uno studio di confronto di fase
III o studio randomizzato e diciamo: qual è la terapia attuale standard per queste donne? Il farmaco
A che ci dà il 20% di risposte e una sopravvivenza di 1 anno, il nostro farmaco nuovo B ci dà un 40
% di risposte, allora dobbiamo fare un confronto, devo fare un'ipotesi biostatistica. In base alle
caratteristiche di B se avessi un nuovo trattamento che, invece di dare il 20% di risposte, dà il 40%
cioè il doppio e, invece di un anno medio di sopravvivenza, dà 1,5 anni cioè un incremento del
50%, allora è un trattamento molto importante. Allora faccio un calcolo statistico e dico: dando
l’ipotesi di un incremento dal 20 al 40% di risposte e da 1 anno a 1,5 anni di sopravvivenza globale,
per darmi i margini di confidenza tali per cui l’esperimento mi dia un risultato statisticamente
valido, quanti eventi devo osservare in questo studio? Per es. devo osservare 300 donne che
muoiono o di queste 400 donne che muoiono, in quante donne devo cominciare il trattamento? Per
es. 400. E quindi in quanto tempo devo seguire lo studio? In 3 anni.
Allora faccio uno studio in vivo randomizzato e 200 donne saranno trattate con il farmaco standard
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A e 200 donne con il farmaco standard B e verranno seguite nel tempo. Alla fine dello studio
quando almeno 400 di queste donne saranno morte, io avrò il potere statistico per andare a valutare
se la mia ipotesi che B andava ad incrementare del 50% la sopravvivenza rispetto ad A sia vera. Se
è vera, io potrò dire che B è il nuovo standard terapeutico nella donna con cancro dell'ovaio.
Naturalmente per fare questo devo fare uno studio di confronto randomizzato, cioè non posso fare il
trattamento standard A e il trattamento con B a caso ma si fa una randomizzazione veramente
casuale indipendentemente dal tempo o dall'osservatore e quindi esistono dei programmi matematici
al computer per il trattamento così si riduce al massimo il rischio di selezionare un gruppo di
pazienti a prognosi migliore. Quindi per lo studio randomizzato si valutano i criteri di inclusione:
tutte le donne con una data età, che hanno una malattia metastatica che si evolve, che hanno fatto
una terapia antitumorale, ecc. Fatto questo, abbiamo un gruppo abbastanza omogeneo. Alla fine
potremo dire: B è meglio di A oppure B, nonostante tutte le promesse di fase I e II, effettivamente
al confronto è uguale ad A, forse è peggio di A o è uguale ma meno tossico di A. Se è uguale ad A
con la stessa tossicità non ci interessa, se è peggio di A non ci interessa, se è uguale ad A ma meno
tossico potrebbe essere una valida alternativa terapeutica in pazienti che hanno un rischio di
tossicità. Certamente noi andiamo a trovare un farmaco migliore di A in tutti i suoi aspetti e diventa
il nuovo standard. Questo processo è estremamente lungo, costoso, complesso. Dal momento in cui
una molecola viene ipotizzata dal chimico e viene sintetizzata al momento in cui tutte le fasi
precliniche e cliniche sono andate bene possono passare 10-15-20 anni. Quindi il processo di
evoluzione terapeutica in oncologia è molto lento e spesso un processo con fasi piuttosto negative e
frustanti perché probabilmente delle 100 molecole che partono, solo 1-2 arrivano. Le cellule
tumorali si possono attivare, i tumori possono essere eterogenei, difficilmente troviamo un farmaco
che ha un effetto specifico su un bersaglio molecolare veramente importante in quel tumore e non
sempre riusciamo in fase di sperimentazione a sperimentare i farmaci nel paziente giusto. Per
esempio quando si è cominciata la sperimentazione per i farmaci a bersaglio molecolare questa
venga fatta in tutti i pazienti. Il primo caso in cui la sperimentazione fu fatta in maniera selezionata
furono le donne con cancro della mammella con tumore erbB2 positivo (cioè con amplificato). Se
trastuzumab fosse stato sviluppato già in fase I e II in tutti i tumori della mammella non
concentrandosi su donne in cui il bersaglio molecolare amplificato era estremamente importante Il
trastuzumab non sarebbe mai arrivato in commercio, perché le donne con erbB2 amplificato sono il
20-25%. Il trastuzumab funziona nel 30- 40% di queste donne.
I farmaci anti-EGFR del polmone sviluppati nella popolazione generale dava una percentuale di
risposte del 10-15% però erano pazienti per i quali non esisteva nessun trattamento e quindi anche
quel 10-15% era migliore dello 0% di risposte. Però ad esempio una mutazione molto rara che
esiste solo nel 4-5% di adenocarcinomi del polmone dove c'è un riarrangiamento genico con
traslocazione del gene ALK4 presente in alcuni linfomi (TK di membrana che quando riarrangiata,
traslocata, produce la proteina attiva che è la causa del tumore). Se non si fosse scoperto che una
delle molecole in sviluppo bloccava questo riarrangiamento, non si sarebbe mai sviluppato questo
farmaco. Si scoprì la presenza di questa mutazione, si sapeva che esisteva un farmaco che si chiama
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crizotinib che blocca anche questo recettore alterato e sin dagli studi di Fase I si ebbero risposte nel
50-60%. Poi si è scoperto che i pazienti con tumore del polmone ALK4 positivo sono pazienti con
adenocarcinoma polmonare non fumatori in cui il gene EGFR è mutato. Quindi in un paziente con
adenocarcinoma non fumatore andiamo a vedere se c’è EGFR mutato che lo troviamo nel 10-15% e
ALK4 alterato nel 4-5%. Quindi sono circa il 20%, 1 su 5, pazienti con tumore del polmone non
legato al fumo, con adenocarcinoma, che hanno una mutazione genetica che è attaccabile con un
farmaco specifico.
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Lezione del 9/04/2014
- Cancro del colon-retto –
I tumori del colon retto sono estremamente importanti dal punto di vista
sociale,perché rappresentano uno dei 4 big killers (i tumori solidi più diffusi del
mondo occidentale) : i big killers sono il t. del polmone, della prostata, della
mammella e t. del grosso intestino (come quello del colon retto).
Questo tumore è ugualmente diffuso nell’ uomo e nella donna e attualmente
rappresenta la seconda causa di morte per tumore nell’uomo(1°= t.polmone) e
tra seconda e terza(meglio terza) nella donna (1°= polmone 2°= mammella) : in
alcuni paesi la mortalità per i tumori del colon è superiore di quella per cancro
alla mammella. Attualmente la maggior parte delle neoplasie solide maligne
nell’ adulto sono localizzate nel grosso intestino,il che significa che in Italia
abbiamo 40000-45000 nuovi casi per anno. La malattia non sempre insorge o
viene diagnosticata come malattia localizzata ma in circa ¼ dei casi insorge già
come malattia metastatica,con minore possibilità di guarigione. Inoltre i tumori
del colon e i tumori del retto hanno delle presentazioni cliniche diverse e
diverso è anche il trattamento. Queste malattie, quando non ancora diffuse e
limitate a livello loco regionale danno possibilità di guarigione completa con un
trattamento di tipo chirurgico. Quando invece la malattia è metastatica, è molto
più importante la terapia sistemica, accanto ad una terapia loco regionale o
come unica terapia.
Per fortuna nel cancro metastatico del colon retto una percentuale che arriva
anche al 20-30% dei casi sviluppa metastasi solo in un organo: il fegato
(attraverso la circolazione portale queste neoplasie hanno una via privilegiata
verso il fegato). In una percentuale importante di pz. ,dunque, è possibile una
escissione delle metastasi epatiche(considerando che è possibile intervenire
anche con escissioni che lascino il solo 20-25% di fegato sano!).
Nell’ 80% dei casi,quelli del colon retto, sono tumori sporadici.
In queste forme il fattore protettivo è la dieta mediterranea,ricca in legumi
verdure, povera in carni rosse e grassi animali. Una dieta ad alto contenuto di
grassi e proteine animali è invece una dieta sfavorevole tanto che i tumori del
grosso intestino erano inizialmente più frequenti nei paesi anglosassoni. Il
cambiamento delle nostre abitudini alimentari ha oggi portato un aumento del
rischio dietetico appianando le differenze.
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Esistono poi delle lesioni preneoplastiche che si presentano come displasie e
precedono in molti casi il carcinoma. Queste lesioni spesso sono chiamate
polipi adenomatosi, formazioni peduncolate che crescono dalla mucosa verso il
lume del grosso intestino e a seconda delle caratteristiche istologiche possono
essere:
- Tubulari : sono le lesioni più differenziate
- villosi
- tubulo villosi:sono le lesioni più indifferenziate
non sempre gli adenomi diventano carcinomi, ma quasi sempre sono la
lesione preneoplastica iniziale. Esiste un differente percorso evolutivo dal
punto di vista istologico nella sequenza adenoma-carcinoma che differenzia i
tumori benigni e maligni e che in realtà è legato al numero di mutazioniu
accumulato nelle cellule. Fin quando non si raggiunge un numero elevato di
mutazioni che favorisca i geni proliferativi, non si arriva ad un cancro
avanzato.
Per quanto riguarda le forme familiari: vi sono alcune malattie genetiche che
aumentano significativamente il rischio di cancro del colon-retto. Quella che
porta cancro nel 100% degli individui affetti è la
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poliposi adenomatosa familiare: il gene APC sul cromosoma 5(braccio
lungo) è responsabile di questa condizione a trasmissione autosomica
dominante. In questi individui ,sin dalla nascita, in tutto il grosso intestino, si
sviluppano dei polipi adenomatosi che sono più di un centinaio di migliaia e
capite bene quanti di essi possano andare incontro a trasformazione
neoplastica. Unica terapia efficace (in età adolescenziale o all’ inizio dell’
età adulta) è la pancolectomia.
Vi sono invece almeno 2 sindromi di Linch che portano tumori con
caratteristiche diverse perché questi sono tumori non poliposi e hanno una
penetranza minore. Quindi circa il 50% dei pz. con gene alterato per la s. di
Linch sono quelli che svilupperanno il tumore.
Dal punto di vista istologico i tumori del colon derivano dalle ghiandole
epiteliali (sono appunto adenocarcinomi) e sono più o meno differenziati.
Diffondono sia localmente, sia attraverso la via ematica e linfatica. La prima
stazione linfatica è quella dei linfonodi locoregionali. come abbiamo detto la
prima tappa della via ematica è invece il fegato (30% dei casi). Oggi
vediamo sempre più spesso comparire metastasi cerebrali perché
chiaramente la sopravvivenza di questi pazienti è aumentata molto quindi il
tumore ha più tempo per diffondere.
SCREENING E PREVENZIONE SECONDARIA
Dal momento che i 2/3 dei pz. hanno oltre 60 anni si può ipotizzare in
intervento di prevenzione secondaria(screening) dai 50 anni in poi.
Ricerca di sangue occulto nelle feci:è la metodica più semplice ma la meno
sensibile. Una microlesione della mucosa può dare un microsanguinamento
ed essere indice della presenza di un tumore metastatico.
Pancolonscopia: l’unica metodica di screening affidabile.
- Più costosa
-richiede esperienza
-fastidiosa e con un minimo di morbilità.
-Richiede preparazione intestinale 12-16 ore prima
- richiede blanda sedazione
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Ciascuno di noi, raggiunti i 50 anni di età dovrebbe farla. Perché è così
importante? Perché consente di esplorare tutto il grosso intestino(dall’ano al
cieco) e soprattutto in caso di anomalie o lesioni,consente di fare una biopsia
diagnostica. La endoscopia inizialmente esplorativa può essere addirittura
terapeutica se, riscontrata una piccola lesione poliposa begnigna la si
asporta. Se l’endoscopia è negativa a 50 anni, le linee guida dicono di
ripeterla dopo 5-10 anni. Altre indagini sono sostanzialmente di supporto
alla colonscopia ed utili ad una successiva stadiazione.
SINTOMATOLOGIA
È molto aspecifica e molto tardiva e si confonde con molte altre patologie
del grosso intestino:
- alterazioni dell’alvo
- dolori addominali
Inoltre il pz. sottostima questi sintomi e va dal medico solo quando essi
divengono più importanti. Questa sintomatologia ,in particolare, diventa più
evidente soprattutto a destra (sigma-retto). Infatti, un tumore che protrude
nel sigma o nel retto,oltre a dare più facilmente sanguinamenti, da più
facilmente alterazioni dell’alvo con difficoltà nell’emissione delle feci, fino
al completo blocco gastrointestinale. Spesso un pz. si presenta al pronto
soccorso per occlusione o perforazione intestinale.
I tumori del retto metastatizzano più precocemente per via ematica al fegato
di quanto non facciano i tumori del colon ascendente. In conclusione, è più
probabile che la malattia al colon dx venga diagnosticata tardivamente e
quindi che sia già metastaticamente avanzata,perché si manifesta più
tardivamente (astenia cronica,lenta anemizzazione)ed è meno evidente, più
subdola. Anche per questo generalmente i tumori destri sono
prognosticamente più sfavorevoli.
Il colon destro e sinistro hanno una diversa embriogenesi
(il colon destro è l’intestino prossimale, il colon sinistro fino al retto è un
intestino distale. I 2 intestini sono separati dal c. trasverso) e quindi le
cellule, a seconda della localizzazione(dx/sn), possono accumulare diverse
mutazioni:per esempio sono più frequenti le mutazioni di Ras e B-Raf nei
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tumori destri( in particolare quelle di B-Raf sono mutazioni estremamente
sfavorevoli).Oltre a questo è probabile anche che in generale le attuali
metodiche di screening siano più idonee ad individuare più facilmente i
tumori del colon a destra che a sinistra. Sicuramente importante è ricordare
che fino a quando si interviene su una malattia in fase precoce non ancora
infiltrante la guarigione è possibile al100%.
STADIAZIONE
Una volta fatta la diagnosi istologica mediante prelievo bioptico (durante
colonscopia) è necessario procedere alla stadiazione per assodare se il
tumore è ancora in fase loco regionale, cosa che consentirebbe un intervento
curativo radicale, o se la malattia è già metastatica. Nell’ ambito della
malattia metastatica,resta poi da stabilire se sia multimetastatica (e quindi
non più trattabile dal punto di vista della guarigione) o metastatica
esclusivamente al fegato che in alcuni casi risulta trattabile soprattutto con
l’aiuto della terapia chirurgica.
Per la stadiazione ci si avvale di altre metodiche di diagnostica di immagine
che ci consentono di valutare l’entità delle lesioni:
- TC addomino-pelvica: può evidenziare eventuali ispessimenti della parete
dell’intestino che può portare ad un sospetto di neoplasia, tuttavia non è
l’indagine più accurata e non evidenzia lesioni peritoneali come la
disseminazione diffusa, definita carcinomatosi peritoneale. Il discorso è
diverso per le metastasi epatiche perché la TC è capace di individuare
lesioni anche piccole nel fegato.
- Scintigrafia ossea: nella maggioranza dei casi,fortunatamente, non si
evidenzia infiltrazione ossea (presente solo in casi più avanzati)
- Risonanza magnetica della pelvi: è molto importante per valutare i livelli
di infiltrazione della parete e del grasso perirettale (mesoretto) e dei
linfonodi,nonché la compressione di vasi(specie da parte delle metastasi
epatiche).
Un tipo di stadiazione molto semplice è la stadiazione di Hooks(??),
prettamente chirurgica che stabilisce 4 stadi:
A = tumore in fase iniziale. Si estende fino alla sottomucosa
B = malattia che va fino agli organi pericolici senza coinvolgere i linfonodi
C = qualsiasi tumore con coinvolgimento dei linfonodi
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D = malattia metastatica
NB: gli stadi A e B evidenziano una malattia loco regionale facilmente
asportabile.
La classificazione TNM è simile e T prevede gli stadi 1(malattia
localizzata),2,3,4(m.metastatica). Una fase fondamentale nell’ evoluzione
della malattia è l’infiltrazione dei linfonodi loco regionali perché determina
un notevole cambiamento dal punto di vista prognostico. Nella
classificazione TNM distinguiamo
N0 = non si ha coinvolgimento linfonodale
N1 = fino a 3 linfonodi coinvolti
N2 = 4 o più linfonodi sono coinvolti
N3 = tutti i linfonodi asportati sono infiltrati
È possibile fare questa stadiazione (specie per N) solo dopo intervento
chirurgico.
Sbobinata da Nello Esposito
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CANCRO DEL POLMONE
Il cancro del polmone è una patologia a prognosi particolarmente infausta., questo perché è un
tumore che non sempre risponde ai trattamenti chemioterapici , nella maggior parte quasi nessun
tumore, però voglio precisare questo quasi perché oggi ci sono dei tumori che grazie al trattamento
riescono a guarire e scomparire, primo tra questi il cancro del testicolo, oggi cancro curabile.
Tutti conoscete la correlazione con l’esposizione al fumo, che è stato riconosciuto il principale
fattore di rischio per il cancro del polmone. È la principale causa di morte per cancro nel mondo.
Tra tutti i tumori quello che porta più frequentemente a morte è il cancro del polmone; addirittura
da poco ha superato anche le malattie cardiovascolari come causa di morte nei soggetti fumatori.
È la principale causa di morte per cancro nell’uomo e nella donna. Ovviamente è cosa diversa dire
frequenza del tumore e mortalità. I tumori più frequenti sono il cancro della mammella e della
prostata, sono quei tumori che hanno un risvolto nella società più importante; oggi si fa screening
per cancro della mammella e si tenta anche a fare screening per il cancro della prostata. Sebbene
siano i più frequenti non sono talmente mortali come lo è il cancro del polmone. Da un lato c’è un
comportamento biologico della malattia che è molto meno aggressivo, dall’altro le scoperte
riguardo i nuovi approcci terapeutici , la nuova gestione dei pazienti affetti da cancro di mammella
e prostata hanno consentito un notevole miglioramento dei tempi di sopravvivenza.
Per il cancro del polmone nell’ultimo decennio stiamo assistendo a notevoli miglioramenti,
importanti scoperte, importante decifrazione del codice con cui è stata scritta la malattia, stiamo
assistendo a dei miglioramenti dei tempi di sopravvivenza , ma è ancora troppo presto per ritenerci
soddisfatti come nel caso del cancro della mammella.
La patologia è infausta, difficile da gestire perché è particolarmente aggressiva , tende ad invadere i
linfonodi loco-regionali, non sempre esplorabili, a differenza per quanto può avvenire nel colon, in
cui il pz che viene operato per cancro del colon l’asportazione dei linfonodi è ormai una regola, un
minimo di 15 linfonodi devono essere asportati, le estrazioni linfonodali sono ben definite. Per il
cancro del polmone i linfonodi sono molti di più, sono dislocati in aree anatomiche difficili da
raggiungere e non è possibile sperare in una dissezione linfonodale completa se paragonata a quella
del cancro del colon. D’altronde dal punto di vista anatomico è molto più complicato questo perché
l’arrivo del sangue ai segmenti polmonari avviene tramite una dettagliata rete arteriosa, ma il flusso
venoso è comune tra i segmenti dei lobi polmonari, quindi la cellula tumorale che parte da un
focolaio primitivo facilmente tende a diffondersi nei segmenti vicini. È una malattia , quindi, che
evolve molto più rapidamente.
Ha dal punto di vista biologico un comportamento molto più aggressivo e fino ad oggi solo su
particolari fette di pazienti sono stati individuati i geni responsabili della carcinogenesi di questa
patologia.
In generale, dal punto di vista istologico il cancro del polmone non è un’unica entità.
Nell’80% dei casi il cancro del polmone non è un cancro a piccole cellule, nel restante 20 % è a
piccole cellule. La piccola cellula è una cellula linfocitosimile, è una cellula piccola che ha un
origine neuroendocrina . Il microcitoma. ha un comportamento biologico completamente diverso,
inteso in genere come malattia sistemica fin dall’inizio: non si riesce ad identificare un primo o
secondo stadio nel microcitoma, è talmente rapido che in genere nella maggior parte dei casi la
malattia è già metastatica. Nel microcitoma fino a poco tempo fa ( dico fino a poco tempo fa perché
la visione sta un po’ cambiando ) l’intervento chirurgico non era fattibile quasi mai e si andava
direttamente con un trattamento sistemico, endovena.
Parliamo invece oggi e la prossima volta, del cancro del polmone non a piccole cellule, ovvero il
cancro del polmone che prende origine dalle cellule di rivestimento dell’epitelio bronchiale o dalle
cellule degli alveoli , che quindi non ha le caratteristiche neuroendocrine del microcitoma ed è
quello comunemente legato a fattori ambientali ( fumo, inquinamento , etc) .
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Nell’ambito del tumore del polmone non a piccole cellule si distinguono 3 sottoentità:
adenocarcioma, carcinoma squamoso, carcinoma a larghe cellule; quest’ultima entità è un entità
istologica che va scomparendo perché si è visto che dal punto di vista patogenetico e biologico
tende ad accomunarsi all’adenocarcinoma. Quindi le due principali entità sono carcinoma squamoso
e adenocarcinoma. Il carcinoma squamoso è di solito localizzato in una sede centrale, ovvero quella
a diretto contatto con i principali bronchi; è quel tumore che nasce probabilmente perché più
correlato all’esposizione al carcinogeno ambientale che viene inalato e che raggiunge per prima la
regione centrale. Per tumore periferico, adenocarcinoma, intendiamo quel tipo di tumore che
insorge in parenchima polmonare, un po’ più distante dai bronchi, che è legato al fumo però ci sono
probabilmente altri eventi che scatenano la trasformazione neoplastica.
Fattori di rischio: ci sono predisposizioni genetiche, ci sono delle sindromi per esempio la Li
Fraumeni, deficit della p53, che predispongono al rischio di tante altre neoplasie. Ad oggi i fattori di
rischio fondamentali sono : fumo di sigaretta, carcinogeni ambientali, l’ambiente lavorativo(
l’asbesto, l’amianto correlati non solo al rischio di mesotelioma, quindi cancro della pleura , ma
dello stesso cancro del polmone).
Che cosa succede durante la trasformazione neoplastica? Vi ricordo che l’epitelio che riveste i
bronchi è un epitelio epiteliale a funzione ghiandolare, in quanto secernenti muco, non a caso hanno
una struttura cilindrica e sono ciliate all’apice proprio perché hanno la funzione di produrre muco e
di spingerlo verso l’esterno. Per quanto riguarda invece i pneumociti che tappezzano gli alveoli
polmonari sono anche esse delle cellule di origine epiteliale a funzione ghiandolare, questo perché
dobbiamo distinguere l’epitelio ghiandolare da quello di rivestimento come per esempio
l’epidermide.
In oncologia medica ogni nome ha un suo significato, per cui nella maggior parte dei casi i tumori
benigni terminano con il suffisso – oma e prima l’origine cellulare da cui il tumore prende origine.
Ad esempio un tumore benigno che prende origine da un epitelio ghiandolare si chiamerà adenoma
( perché adeno significa per l'appunto ghiandola) . Il polipo che si ritrova durante una colonscopia è
una lesione benigna che prende origine da un epitelio di rivestimento di tipo ghiandolare come è per
l’appunto l’epitelio del colon, per cui si chiama adenoma.
Qualora invece non siamo di fronte ad un tumore benigno ma ad un tumore maligno non si parla più
di adenoma ma di adenocarcinoma.
Quando invece parliamo di epitelio di rivestimento, un epitelio che non produce muco ma che ha
solo funzione di proteggere, quindi l’epidermide o l’epitelio di rivestimento dell’esofago, in quel
caso nel caso di lesione benigna parliamo di epitelioma e nel caso di lesione maligna di carcinoma
squamoso.
Nel caso del cancro del polmone abbiamo detto che le cellule che rivestono l’epitelio bronchiale e
gli alveoli polmonari sono cellule di origine ghiandolare, in quel caso il tumore maligno si chiamerà
adenocarcinoma. E a quel punto come vi spiegate la presenza anche di un’entità rappresentata anche
dal carcinoma squamoso nel polmone, non essendoci un epitelio di rivestimento all’interno del
polmone? Che cosa succede nel polmone affinché vi sia un evoluzione verso un carcinoma
squamoso? Allora abbiamo detto che nel carcinoma squamoso soprattutto il fattore di rischio
principale è il fumo. Senz’altro ci sono dei carcinogeni legati al fumo di sigaretta che determinano
alterazioni della catena del DNA e un’alterazione della catena genetica, ma il fumo di per sè è un
AGENTE INFIAMMATORIO e alla fine la principale causa di trasformazione neoplastica è la
famosa FLOGOSI CRONICA. L’infiammazione cronica è un processo di danneggiamento continuo
della struttura a cui l’organo cerca di riparare proliferando, tentando di cicatrizzare e di fronte ad
una flogosi cronica la proliferazione diventa cronica. Più aumenta il tasso di proliferazione più
aumenta la probabilità che compaiano nuove mutazioni o alterazioni genetiche che comportano poi
la trasformazione neoplastica. Lo stesso concetto di quello che accade nel fegato: nel fegato
epatitico, nei soggetti affetti da HCV almeno il 5 % di questi va incontro a cancro del fegato.
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Questo perché l’epatite cronica, allo stesso modo attraverso la flogosi cronica, stimola una serie di
meccanismi di riparazione e proliferazione che portano nel corso del tempo prima alla cirrosi e poi
allo sviluppo del cancro.
La flogosi cronica indotta dal fumo, o al soggetto esposto cronicamente per ragioni lavorative
all’asbesto, all’inquinamento ambientale, ad altri carcinogeni comporta un danno continuo lungo
l’epitelio bronchiale. Man mano che continua l’esposizione cronica al fumo e quindi continua la
flogosi cronica le cellule continuano a proliferare, quasi che volessero proteggere le strutture
sottostanti dall’insulto dell’infiammazione. Se prima avevamo un solo strato successivamente
diventa pluristratificato, questo è un processo reversibile e benigno, definito iperplasia,
semplicemente aumento della proliferazione delle cellule. Col il passare degli anni la flogosi
continua, l’epitelio si deve difendere, l’iperplasia continua e subentra il fenomeno della metaplasia.
La metaplasia come definizione è data da quel processo per cui una cellula epiteliale con una data
specializzazione, in questo caso ghiandolare, cambia verso un altro tipo di specializzazione. In
questo caso l’epitelio da ghiandolare si trasforma in epitelio di rivestimento. Vedete che qui
(riferendosi alle slides) le cilia non ci sono più, le cellule non hanno più l’aspetto cilindrico, qui le
cellule si appiattiscono per proteggere gli strati sottostanti dall’agente contenuto nell’aria. Questa si
chiama metaplasia squamosa. È un processo benigno e reversibile: nel senso che se il soggetto nella
fase della metaplasia squamosa interrompe il fumo e fa un buon trattamento con antinfiammatori il
processo ritorna indietro verso l’epitelio normale ghiandolare. Che cosa succede però se non si
smette di fumare e non si riduce l’esposizione all’agente dannoso? La flogosi continua, la
proliferazione continua, nell’ambito della metaplasia squamosa lì cominciano ad esserci i primi
danni sul codice genetico e si manifestano le prime alterazioni della cellula, ovvero la displasia. La
displasia è il punto di non ritorno, nel momento in cui compare una displasia non si può più tornare
indietro, il processo può solo andare avanti. La displasia è rappresentata da un alterazione non solo
nelle sequenze delle basi azotate del DNA ma anche nell’alterazione della struttura stessa cellulare (
comincia a perdere la famosa inibizione da contatto, comincia ad avere più nucleoli, un aspetto più
addensato della cromatina…). Avremo alterazioni di tutte caratteristiche morfologiche che ci fanno
indicare un quadro di displasia che può essere lieve, moderato o grave. Quando si arriva alla
displasia grave parliamo già di cancro in situ, oramai l’evoluzione a cancro è avvenuta.
Quindi tutto è reversibile fino alla metaplasia, dalla displasia in poi non si può più tornare indietro.
In genere si dice che chi smette di fumare deve attendere 15 anni di sospensione dal fumo per
ritornare al rischio originario del non fumatore, perché dalla metaplasia per tornare indietro ci
vogliono fino a 15 anni.
Per quanto riguarda l’adenocarcinoma evolve direttamente dalla cellula epiteliale con funzione
ghiandolare, si ha un passaggio un po’ più rapido, forse anche per questo l’adenocarcinoma è un po’
più aggressivo che passa attraverso l’iperplasia adenomatosa atipica che precede l’adenocarcinoma.
Dal punto di vista clinico è importante distinguere tra adenocarcinoma e carcinoma squamoso
perché il comportamento clinico cambia: il carcinoma squamoso ha un evoluzione molto lenta, il
classico tumore del polmone nel soggetto anziano che ha fumato tutta una vita, tende a localizzarsi
a livello toracico e dare metastasi in fase molto più tardiva; mentre l’adenocarcinoma è un po’ più
aggressivo, un po’ meno legato al fumo ma può essere legato all’esposizione al fumo, ha una
localizzazione periferica , in pieno parenchima, lontano dai bronchi e tende a dare metastasi molto
più precocemente.
La prossima volta vedremo anche come l’adenocarcinoma è un’entità presente pure nei soggetti non
fumatori e si è visto in che questi soggetti la principale causa è rappresentata da mutazioni
genetiche, le quali però possono essere colpite con specifici farmaci e che migliorano notevolmente
la sopravvivenza, cosa che non avviene per esempio nel pz fumatore con carcinoma squamoso in
cui è più difficile individuare una singola mutazione, è difficile tra le diverse mutazioni individuare
quella più importante. In alcuni sottogruppi di soggetti non fumatori sono state individuate singole
mutazioni capace da sole di guidare la crescita dell’intero tumore.
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Oggi considerate che la sopravvivenza di un soggetto a cui viene diagnosticato il cancro del
polmone in fase 4, quindi metastatico, dalla diagnosi arriva a stento ad un anno.
I soggetti non fumatori che presentano quel particolare aspetto biologico , quelle specifiche
mutazioni che vengono trattati con quei determinati farmaci raggiungono una sopravvivenza che
arriva anche a 3 anni. La sopravvivenza , quindi, viene completamente triplicata.
Dal punto di vista clinico, purtroppo non vi sono sintomi specifici , ovviamente i sintomi più
frequenti sono : dispnea, tosse ed espottarazione, emottisi e l’emoftoe, cianosi.
Sono sintomi totalmente aspecifici. La cronicizzazione di questi sintomi, la persistenza di questi
sintomi nonostante i comuni trattamenti antinfiammatori devono porre l’attenzione verso un
approfondimento diagnostico.
- La Dispnea può essere legata non solo ad un problema polmonare, ma anche ad un problema
cardiologico, ad uno stato anemico importante…..
- Tosse .Il cancro del polmone può presentare sia una tosse stizzosa, irritativa, dovuta ad uno
stimolo bronchiale, sia una tossa produttiva, caratterizzata da espettorato muco-purulento, magari
perché la massa ostruisce il deflusso dei muchi, favorendo la sovrainfezione batterica, quindi si
sovrappongono bronchiti classiche che sottendono un tumore di base.
- L’emottisi e l’emoftoe forse sono i principali segni di allarme, cioè l’emissione di sangue con
l’espettorato prevalentemente rappresentato da sangue, questo è quello che spaventa per lo più il
paziente. Queste sono evenienze che possono essere anche in concomitanza di vari quadri di
atelettasia, tbc, embolie polmonari, bronchiectasie , etc. Nel caso di cancro la perdita di sangue
nell’espettorato è causato dall’erosione della parete bronchiale, il cancro sta iniziando ad erodere il
bronco.
- Dolore toracico. Sapete tutti che la pleura viscerale e il polmone non sono forniti di innervazioni
nervose, quando c’è dolore c’è l’interessamento della pleura parietale, quando il dolore è molto più
importante vi è l’interessamento anche della parete toracica ( parliamo di muscoli, nervi intercostali,
coste) o addirittura interessamento dei plessi brachiali come nel tumore dell’apice polmonare,come
nel caso del tumore del Pancoast.
-Cute e mucose. In genere il soggetto è pallido ( per un alterato scambio,un’alterata ossigenazione),
magari cianotico ( per un inadeguato scambio di ossigeno sia a livello centrale che a livello
periferico); mani: dita a bacchetta di tamburo e a vetrino di orologio, segni patognomonici di una
sofferenza polmonare e spesso il soggetto anziano, fumatore da tempo presenta questo quadro.
A seconda di dove insorga il tumore possiamo aspettarci una diversa sintomatologia.
-Per tumori a sede centrale, quindi a diretto contatto con i bronchi, potremmo avere tosse, stizzosa
nelle iniziali fasi quando il tumore irrita il bronco, poi produttiva, muco-purulenta quando il tumore
blocca il flusso delle normali secrezioni mucose, quindi si avrà una sovrainfezione batterica con
l’insorgenza della vera e propria polmonite e bronchite lobare; tale quadro potrà sovrapporsi a
quello di un ascesso polmonare qualora la sovrainfezione tenda ad essere circoscritta. Inoltre
potremmo avere l’emottisi per erosione della parete bronchiale e dispnea.
-Per tumori a localizzazione più periferica la sintomatologia insorgerà un po’ più tardi perché non
essendoci bronchi non avremo segni iniziali di interessamento, il tumore dovrà raggiungere
dimensioni tali da dar fastidio magari alla pleura parietale e quindi evocare dolore, stimolare anche
essa la tosse quando darà poi localizzazioni più vicine ai bronchi, provocare allo stesso modo
dispnea o la formazione di ascessi polmonari.
-E poi invece abbiamo delle localizzazioni particolari quando la malattia neoplastica si va a
caratterizzare in determinate regioni: tumore di Pancoast ( interessa sia il plesso brachiale sia il
simpatico cervicale) , la sindrome di Claude Bernard- Horner , o magari un tumore in sede paramediastinica che va ad infiltrare la vena cava superiore. In una sindrome del genere la vena cava
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superiore non riesce a scaricare il sangue refluo per cui si avrà un quadro di vera e propria
emergenza , con il famoso edema a mantellina, turgore delle giugulari, etc etc.
Altro caso è rappresentato dall’infiltrazione da parte del tumore di strutture nervose importanti
come il nervo frenico, in questo caso avremo 2 fasi: una prima fase irritativa, caratterizzata dal
cosiddetto singhiozzo patologico, incoercibile, resistente ai vari farmaci contro il singhiozzo e una
seconda fase, terminale in cui si avrà la paralisi diaframmatica.
Altro caso è l’interessamento del nervo laringeo con il famoso abbassamento della voce per poi
averne la scomparsa per interessamento della motilità di entrambe le corde vocali.
Accanto ai sintomi sopraccitati, possiamo avere le famose sindromi paraneoplastiche, cioè la
comparsa di corredi sintomatologici e sindromici che compaiono in organi a distanza rispetto a
quello in cui insorge il tumore e che sono più frequentemente associate al cancro del polmone.
Possiamo avere sindromi dermatologiche come l’ Acanthosis nigricans, la CID, quadri di
eritrocitosi o addirittura di anemia, piastrinosi o piastrinopenia, sindrome da secrezione
inappropriata di ADH o di ACTH,etc . Sono quadri molto variabili, talvolta inspiegabili.
Poi vi sono le indagini da fare di fronte ad un pz che presenza questi sintomi, questi segni che non
scompaiono con i normali farmaci antinfiammatori o che sono sorti all’improvviso in una
condizione di relativo benessere. Prima di tutto si parte da esami di primo livello, meno aggressivi,
come per esempio l’analisi dell’espettorato ( nella maggior parte dei tumori squamosi, ovvero
centrali, quando vi è tosse ed espettorato parte delle cellule neoplastiche vengono sfaldate e quindi è
possibile andarle a ricercare al microscopio) e una radiografia del torace, anche se poco sensibile se
ben fatta e ben interpretata riesce ad individuare lesioni al di sopra di determinate definizioni.
Quando il sospetto è confermato da una radiografia o la radiografia fatta non è sufficiente per
escludere un’ipotesi di cancro, si procede poi con la TAC. La TAC è molto più sensibile, consente
di visionare bene sia le strutture del mediastino, sia le strutture del parenchima polmonare, sia
trachea e bronchi. Qualora noi dovessimo avere la conferma di una massa si procederà poi con una
TAC total body perché poi dobbiamo capire questo tumore in che stadio è , quindi una TAC
stadiativa proprio per la ricerca di eventuali ricerche metastiatiche ; inoltre dobbiamo procedere con
una scintigrafia ossea per la ricerca di metastasi ossee.
Il cancro del polmone presenta come principali sedi metastatiche: l’encefalo, il fegato, il surrene e
l’osso.
In oncologia medica però la diagnosi non è radiologica , la diagnosi in oncologia medica è sempre
cito-istologica. Per effettuare l’esame cito-istologico è necessario prendere un po’ di materiale per
analizzarlo e per analizzarlo ci aiuta molto la broncoscopia che è l’esame di elezione per i tumori
centrali a contatto con i bronchi o anche la biopsia percutanea eventualmente TAC guidata per
quei tipi di tumori più periferici che non si possono raggiungere tramite l’approccio broncoscopico.
Talvolta quando il pz è anziano e non riesce a fare la broncoscopia né tanto meno la fnab si
preferisce pungere l’eventuale sede metastatica – quella più semplice è quella epatica che tramite
una semplice ecografia va ad essere punta- e quindi si preleva del tessuto della metastasi che se
abbastanza differenziato ci consente di fare diagnosi definitiva.
Allora qui vi sono degli esempi di radiografia del torace ( riferendosi alle slides) vedete il lobo
superiore di sinistra presenta una radio-opacità, qui abbiamo un versamento a destra, qui abbiamo
un’opacità al lobo medio del polmone di destra… Nella TAC vedete questa è una “finestra per
parenchima “ riesce quindi a farci studiare bene il parenchima polmonare, i vasi sanguigni, gli osti
bronchiali etc; mentre invece questa, sempre alla TAC, è una “ finestra mediastinica” che ci rende
nero il parenchima polmonare ma ci consente di analizzare linfonodi, vasi , bronchi, etc. Questa è
la massa polmonare, notate vi sono aree più nere, queste sono aree di necrosi colliquativa ; in queste
aree più centrali è difficile che arrivi sufficiente ossigeno, per cui le stesse cellule tumorali vanno in
ipossia e muoiono .
Quindi attraverso l’analisi isto-citopatologica dobbiamo sapere se è un cancro prima di tutto, perché
vi possono essere anche delle regioni radio-opache che non rappresentano lesioni tumorali come ad
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esempio aree di atelettasia ; poi dobbiamo scoprire se è un tumore benigno o maligno ( non è raro
un condroma all’interno del parenchima polmonare ) ; se di origine polmonare o espressione
metastatica di un tumore con un’altra sede ; poi se di origine polmonare se è un tumore a piccole
cellule; qualora non fosse di piccole cellule dobbiamo sapere se è un tumore a cellule squamose o
un adenocarcinoma. Quindi la diagnosi di certezza è l’analisi anatomo-patologica. L’esame
istologico ci deve dare l’istotipo ( adenocarcinoma o carcinoma a cellule squamose) e il grading (
grado di differenziazione) . Durante la trasformazione neoplastica dalla cellula normale a quella
cancerosa vi è una sorta di “ sdifferenziazione” , vale a dire la cellula perde le caratteristiche
classiche che aveva in origine.
Ogni cellula ha lo stesso corredo genetico nel nostro organismo, ciò che le differenzia è
l’attivazione o lo spegnimento di geni che determinano la specializzazione funzionale. Durante la
trasformazione neoplastica si ha un evoluzione all’indietro : la cellula oramai differenziata va
incontro a “ retro-differenziazione”, perde le caratteristiche della cellula da cui ha preso origine e da
monopotente comincia ad acquisire le caratteristiche della cellula multipotente. Il Grading ci dice a
che livello la cellula è arrivata in questa fase di “sdifferenziazione”. Possiamo avere tumori che
sono ben differenziati ( tumori quindi meno aggressivi) e tumori scarsamente differenziati ,
maggiormente aggressivi e invasivi. Quindi i tumori di origine epiteliale devono essere
differenziati in tumori ben differenziati, mediamente differenziati e scarsamente differenziati (
rispettivamente G1, G2 e G3 ). L’anatomo patologo quindi dovrà darci informazioni sulla presenza
o meno di cancro, sulla benignità o malignità, sull’istotipo, microcitoma o non microcitoma ( se
siamo nel non microcitoma ci dovrà dire se è squamoso o è adenocarcinoma e anche quanto è
differenziato), il grading.
Il gradind e l’istotipo sono fattori diagnostici , indicatori dell’aggressività della malattia.
Le strutture ghiandolari generalmente presentano al loro interno anche dei vacuoli di muco, questa è
una struttura ben differenziata in cui si vedono ancora gli acini mucosi , la produzione di muco, etc ,
quindi ha un organizzazione simile all’organo da cui ha preso origine ; nello scarsamente
differenziato la capacità di produrre muco è persa, quindi la malattia è estremamente aggressiva
perché poco differenziata.
Per ottenere una diagnosi di certezza, quindi, gli approcci possono essere rappresentati dalla
broncoscopia, dalla biopsia percutanea TAC guidata, dall’esame dell’espettorato oppure ,nel caso
in cui ci troviamo di fronte ad un versamento pleurico neoplastico, dalla toracentesi ( raccoglimento
di liquido nel cavo pleurico nel quale vengono cercate cellule neoplastiche).
La broncoscopia ci permette sia di ispezionare, sia di prelevare tramite biopsia con pinza, mediante
spazzolamento o mediante lavaggio bronchiale; inoltre in caso in cui il tumore sia adiacente al
bronco e non sia nel lume l’agobiopsia trans-bronchiale ci permette di prelevare tessuto patologico
dalla sede vicina.
La stadiazione
La stadiazione è importante perché consente di rispondere alle sole due domande che interessano
veramente al paziente: la prognosi e la terapia. La prognosi sarà diversa per un pz al primo stadio,
rispetto ad uno al quarto stadio così come sarà diversa la terapia: nel primo stadio sarà chirurgica
all’ultimo sarà ablativa, cioè una terapia per cui non possiamo garantire la guarigione,
prevalentemente un trattamento sistemico per via endovenosa, che mira a palliare i sintomi,
tentando di prolungare la sopravvivenza ma il tentativo principale è garantire la qualità di vita del
pz.
TNM . T definisce la massa principale, le dimensioni, il contatto con le strutture adiacenti ; N ci da
informazioni sull’aspetto linfonodale : n1 = linfonodi peribronchiali ovvero più vicini alla
neoplasia, n2= sottocarenali, centrali, n3 = linfonodi controlaterali, criterio di inoperabilità , nel
momento in cui il tumore ha superato la linea mediana siamo nell’ambito della palliazione .
Ovviamente ogni stadio è correlato ad una prognosi diversa: nel primo stadio A abbiamo una
sopravvivenza a 5 anni del 50 %, nel quarto stadio del 2 %. Anche quando la malattia viene
diagnosticata in fase estremamente iniziale comunque il 50% dei pz muore a 5 anni.
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Questo significa che la malattia è di per sé aggressiva , molto pericolosa con alto tasso di recidiva
anche dopo intervento chirurgico potenzialmente guaritivo. Questo giustifica l’utilizzo anche nei
primi stadi del cosiddetto trattamento adiuvante, il trattamento chemioterapico che adiuva la
chirurgia, che si fa dopo una chirurgia effettuata con intento radicale per ridurre il rischio di
recidiva di malattia.
La stadiazione nel polmone si fa con la TAC total body, scintigrafia ossea e risonanza magnetica.
Nella TAC PET abbiamo quindi la combinazione dell’indagine morfologica e di quella funzionale
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Tumore del colon-retto: Terapia
14/04/14
Ogni qual volta che noi abbiamo un sospetto clinico di tumore del colon o del retto l’esame
diagnostico fondamentale da fare è una colonscopia con esecuzione di biopsie mirate che ci
permetterà di capire se si tratta di un carcinoma e quanto questo abbia infiltrato la parete, ma non ci
darà nessuna indicazione sui linfonodi o sulla presenza di eventuali metastasi. Per cui eseguito il
prelievo bioptico bisogna sempre fare una TAC addomino pelvica con contrasto endovena (nella
pratica clinica si fa anche una TAC del torace anche se per fortuna lesioni a livello toracico sono
rare in questo tipo di tumore). Raramente è possibile vedere alla TAC linfonodi, in genere la loro
presenza alla TAC si ha quando i linfonodi sono già abbastanza ingrossati e quindi la malattia è già
un po’ più avanzata. Difficile da vedere alla TAC la presenza di micro metastasi a livello
addominale. In seguito a questi esami sarà possibile effettuare una prima stadiazione clinico
strumentale che in base alle caratteristiche ci permette di capire se la malattia è potenzialmente
resecabile a livello loco regionale o se ci sono già metastasi a distanza. Quando ci sono metastasi a
distanza quasi sempre l’interessamento linfonodale verrà scoperto se e quando faremo l’intervento
chirurgico.
Prima di un eventuale intervento chirurgico ci troviamo di fronte a tre scenari possibili:
 Una malattia che è apparentemente localizzata all’intestino con assenza di segni e sintomi
clinici e strumentali
 Una malattia in cui oltre un tumore primitivo localizzato all’intestino ci sono metastasi
multiple
 Una malattia in cui oltre un tumore primitivo localizzato all’intestino abbiamo
esclusivamente metastasi epatiche
Capite bene che da un punto di vista prognostico il primo caso è quello in cui probabilmente è
possibile porsi come obiettivo la guarigione, il secondo caso l’obiettivo è quello di cercare di
prolungare la vita del paziente e il terzo caso,solo per una certa quantità di pazienti, possiamo
sperare nella guarigione.
Tumore del colon localizzato:
Mettiamo caso che abbiamo una malattia localizzata dal cieco fino alla giunzione retto-sigmoidea.
L’ intervento essenziale è un intervento chirurgico che consiste nell’asportazione di circa metà
colon (emicolectomia) che sarà destra o sinistra a seconda del tratto interessato dalla neoplasia in
blocco con tutti i vasi e i linfonodi perivascolari presenti. Un tempo questo intervento veniva
eseguito in laparotomia, oggi nella maggior parte dei casi vengono eseguiti in laparoscopia con
ottimo recupero funzionale e una breve ospedalizzazione. Quasi sempre il chirurgo può optare per
una ricanalizzazione facendo un’anastomosi termino terminale tra il tratto a monte e a valle del
pezzo asportato. In alcuni casi il chirurgo può fare una colostomia di scarico temporaneo e poi mesi
dopo ricostituisce la pervietà del transito intestinale. A questo punto dopo l’emicolectomia
avremmo l’esame istologico definitivo che ci permetterà di conoscere meglio le caratteristiche
anatomo-patologiche, i gradi di differenziazione ma soprattutto ci permetterà di valutare eventuali
infiltrazioni metastatiche dei linfonodi loco regionali. Nel corso di una emilcolectomia vengono
asportati da 20 a più di 30 linfonodi di cui ne devo essere analizzati almeno 12 ed è molto
importante per un’eventuale terapia precauzionale da effettuare o meno, poiché se vi è la presenza
di 1 o più linfonodi metastatici è indicata una terapia adiuvante post chirurgica.
Tutti i pazienti che hanno almeno un linfonodo metastatico devono fare una terapia chemioterapica
adiuvante post chirurgica di durata fissa di almeno 6 mesi, con due farmaci. Uno è uno dei derivati
del platino ed è l’ Oxaliplatino e l’altro è il farmaco cardine delle fluoropirimidine ed è il
5Fluorouracile e la terapia viene chiamata FOLFOX. È una terapia endovena effettuata ogni 2
settimane per 6 mesi per una durata di 12 cicli. Questa terapia riduce del 20-25% il rischio di
recidiva e di morte del paziente. Oppure un’altra terapia alternativa è costituita dal 5fluorouracile
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con l’Irinotecan e la terapia viene chiamata FOLFIRI. In alcuni casi l’Oxaliplatino viene combinato
con il precursore del 5fluorouracile che è la Capecitabina e in questo caso la terapia verrà chiamata
XENOX: l’Oxaliplatino viene somministrato ogni 3 settimane in infusione breve e la Capecitabina
viene somministrate per os. 2 settimane si e una no per circa 6 mesi.
La scelta tra FOLFOX e XENOX è basata fondamentalmente su una serie di considerazioni cliniche
e non sulla loro efficacia in quanto sono equamente efficaci nel ridurre questa malattia.
Ovviamente può succedere che durante l’intervento chirurgico il chirurgo scopra delle lesioni
metastatiche che non erano visibili prima che possono essere tanto asportabili quanto no.
Se il chirurgo asporta e quindi vengono analizzati un numero di linfonodi minore di 8, questo può
essere ritenuto un campionamento insufficiente e quindi anche in questo caso viene fatta una terapia
adiuvante.
Tumore del retto:
Nel tumore del retto invece l’approccio terapeutico iniziale è diverso. Innanzitutto la chirurgia è
diversa: nella maggior parte dei casi l’intervento viene eseguito per via laparoscopica ma poichè il
retto è extraperitoneale ed è circondato da un tessuto fibroadiposo circondato da una fascia (la
fascia mesorettale), l’intervento chirurgico di asportazione completa del tumore localizzato del retto
deve essere un intervento di asportazione in blocco del tratto di retto interessato insieme con il
mesoretto e la fascia integra, quindi si chiama escissione mesorettale totale o completa e nella
maggior parte dei casi, grazie alle tecniche chirurgiche moderne e alle cucitrici meccaniche è
possibile preservare la continuità funzionale dell’organo facendo un’anastomosi termino-terminale
fra il tratto a monte e il tratto a valle della lesione.
Importante è l’asportazione del mesoretto perché contiene la zona dove più facilmente c’è la
diffusione della malattia per continuità, con infiltrazione dei linfonodi.
Diciamo che più è prossimo alla linea anale più difficile è fare l’anastomosi termino-terminale con
conservazione della funzionalità, per cui tumori del terzo inferiore del retto possono richiedere più
volte una colostomia esterna.
Quando vi è un tumore T3 o T4, o tumori che alla TAC pelvica o meglio alla RMN hanno un
sospetto d’infiltrazione dei linfonodi o coinvolgimento della fascia mesorettale, non sono più
trattabili inizialmente solo con l’intervento ma bisogna affiancare una terapia neoadiuvante
preoperatoria con radioterapia. Questa radioterapia può essere effettuata in due modi:
 una usata spesso nei paesi scandinavi, ed è una radioterapia ad alte dosi per 5 giorni
consecutivi che permette di arrivare più rapidamente all’intervento chirurgico;
 un’altra usata in Italia e negli USA ed è una radioterapia effettuata per 5 giorni a settimana
per 4-5 settimane prima dell’intervento.
Se fatte bene entrambe riducono il rischio di una recidiva loco regionale.
Che si fa dopo l’intervento chirurgico se è stato preceduto da una terapia adiuvante?
Se il paziente aveva linfonodi metastatici si fa una chemioterapia adiuvante con la stessa modalità
della terapia adiuvante che si fa nel tumore del colon. In alcuni casi questa chemioterapia adiuvante
si fa in combinazione con somministrazione di dosi medio basse di 5fluorouracile o di Capecitabina
per 6 mesi.
Tumore colon/retto multi metastatico:
Il caso peggiore è quando abbiamo già la presenza di metastasi multiple. In questo caso non c’è una
grossa differenza tra i tumori del colon e i tumori del retto.
La terapia della malattia metastatica si basa fondamentalmente su alcuni farmaci cardine che sono:
 5fluorouracile o capecitabina + oxaliplatino (FOLFOX)
 5fluorouracile + irinotecan (FOLFIRI)
La durata del trattamento non sarà fissa ma dipenderà dal nostro obiettivo per il paziente.
Ogni due mesi con una TAC total body si valuterà il grado della malattia, e fin quando la malattia è
sotto controllo si continua con la terapia, sempre che il paziente la tolleri da un punto di vista
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tossicologico. Circa il 40-50% dei pazienti ha una buona risposta di riduzione delle masse
neoplastiche. Però quello che è cambiato negli ultimi 10 anni è stata l’integrazione alla terapia con
farmaci citotossici con farmaci a bersaglio molecolare: questi farmaci bloccano i recettori del
fattore di crescita epidermico quindi un farmaco anticorpo monoclonale antiEGFR (Cetuximab e
Panitumumab) entrambi si usano in combinazione con la chemioterapia. Si somministrano
endovena, ogni settimana il cetuximab e ogni 2 il panitumumab.
Tutti i paziente con un tumore metastatico del colon retto traggono beneficio dalle combinazioni di
queste terapie? No. Infatti prima di iniziare questa terapia dobbiamo valutare alcuni fattori che ci
dicono se il paziente ha una patologia potenzialmente responsiva e quindi sensibile a questi farmaci
o meno, andiamo quindi a cercare se esiste un fattore di resistenza a questi farmaci. Si è scoperto
che mutazioni dei geni che codificano per la proteina RAS rendono il tumore resistente ai farmaci
antiEGFR. Si vanno a misurare in questo tumore i geni KRAS in quanto sono le mutazioni più
frequenti (in circa il 40% dei tumori del colon/retto si ha una mutazione attivante KRAS). La
mutazione di tale gene non solo è predittiva di non risposta al trattamento con farmaci antiEGFR ma
ha anche un valore prognostico individuando una popolazione a prognosi sfavorevole. Se RAS è
mutato, o usiamo la chemio da sola o più frequentemente associamo un altro farmaco a bersaglio
molecolare che agisce con modalità completamente diversa; questo farmaco è il Bavacizumab che è
un anticorpo antiVEGF che potenzia l’azione e l’efficacia del FOLFIRI o del FOLFOX. È
importante anche in questo caso fare il trattamento il più a lungo possibile.
Quindi nel caso in cui abbiamo un paziente multi metastatico e nel caso in cui l’intervento
chirurgico sul tumore primitivo non sia indispensabile si fa una terapia sistemica che poi è uguale a
quella che si fa se la malattia diventa metastatica successivamente.
Circa il 5% dei tumori del colon retto presenta mutazioni del gene BRAF (presente nel 50% dei
melanomi).
Purtroppo i farmaci antiBRAF non funzionano nei tumori del colon/retto, lo stesso vale per i
farmaci antiEGFR e antiVEGF. Per questo i pazienti con malattia BRAF mutata metastatica sono
pazienti con una prognosi molto infausta (12 mesi o poco più di vita).
Allora un’altra domanda che ci dobbiamo porre è che prima o poi la prima linea di terapia con
FOLFIRI o FOLFOX non funziona più e questo succede in tutti i tumori metastatici perché a un
certo punto le cellule diventano resistenti a questi farmaci. In genere si è visto che se un paziente ha
fatto FOLFIRI nella prima linea di terapia si fa come seconda linea di terapia FOLFOX e viceversa.
Ovviamente la seconda linea di terapia dura di meno perché il paziente ha già subito una tossicità
importante. Per quanto riguarda i farmaci biologici se non li abbiamo fatti in prima linea
aggiungiamo il Bevacizumab o il suo analogo attualmente entrato in commercio che è l’Aflibercept
che viene usato in associazione a FOLFIRI in seguito al fallimento della prima linea di terapia. Si è
visto che in un paziente con mutazione RAS se nella prima linea hanno risposto bene al
Bevacizumab possiamo mantenerlo anche nella seconda linea cambiando il chemioterapico.
Dopo il fallimento di una seconda linea di terapia nel tumore del colon/retto per molti anni si è fatta
una terapia sperimentale. Da poco tempo, circa 1 anno, è entrato nella pratica clinica corrente un
altro farmaco che è una piccola molecola che blocca vari recettori tirosin-chinasi e una serin tirosinchinasi che si chiama Regorafenib che blocca anche RAF e può essere usato come terza linea di
trattamento. In rari casi dopo il fallimento della seconda linea di terapia si può ripetere la terapia
della prima linea come terza linea di trattamento (se questa era stata sospesa per tossicità).
Tumore localizzato con metastasi esclusivamente epatiche:
Pazienti con tumore localizzato al retto e metastasi epatiche fino a 10-15 anni fa venivano trattati
esattamente come pazienti multi metastatici. Al giorno d’oggi i chirurghi epato-biliari hanno
affinato le loro tecniche chirurgiche permettendo una esportazione radicale delle metastasi epatiche
(elevata percentuale di guarigione).
Se si tratta di una singola metastasi epatica il chirurgo nella stessa seduta operatoria farà entrambi
gli interventi (al fegato e a livello del tumore primitivo).
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Se invece si tratta di più metastasi epatiche il chirurgo non può intervenire per cui il paziente verrà
trattato come un paziente multi metastatico perché si è visto che per avere chance di guarigione da
malattia metastatica al fegato l’intervento deve essere radicale ma deve lasciare almeno il 20-25%
di fegato sano.
Vi può essere un terzo caso in cui il paziente presenti più lesioni metastatiche non asportabili subito.
In questo caso viene fatto un trattamento sistemico con farmaci citotossici per 2-4 mesi, perché il
nostro obiettivo è rendere più piccola la malattia per asportarli.
(Quasi tutti gli interventi al fegato si eseguono in laparotomia).
Dopo l’intervento radicale si continua per altri 2-4 mesi la terapia che è stata fatta prima
dell’intervento.
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ONCOLOGIA 16/04/14
CANCRO DELLA MAMMELLA
Il tumore della mammella è socialmente molto rilevante, perché è il tumore più frequente nella
donna adulta dei paesi occidentali con un’incidenza di circa 1 donna su 10, superato di recente
solo dal tumore al polmone a causa della sempre più frequente abitudine al fumo. Negli ultimi
anni si è assistito ad una riduzione graduale della mortalità da cancro della mammella grazie al
miglioramento sia della diagnosi, in fase sempre più precoce, sia dei vari approcci terapeutici
(secondo alcuni ha giocato un ruolo molto importante anche la prevenzione secondaria con
mammografia bilaterale), con una percentuale di sopravvivenza del 70%. Ovviamente con una
diagnosi molto precoce si avranno maggiori possibilità di guarigione.
La ghiandola mammaria è un organo bilaterale tipico dei mammiferi che si sviluppa soprattutto
durante il periodo dell’allattamento. Il fisiologico sviluppo, la differenziazione funzionale e la
maturazione di questa ghiandola sono sotto uno stretto controllo ormonale, che sia coinvolge
numerosi ormoni a produzione sistemica in organi specifici, sia numerose proteine e fattori di
crescita prodotti localmente.
Alla nascita la ghiandola mammaria ha una fase di quiescenza che perdura fino alla pubertà, punto
in cui inizia una fase di sviluppo, basata fondamentalmente sulla presenza di estrogeni (che
stimolano la proliferazione) e progesterone (che ha un ruolo nella differenziazione). La ghiandola si
trova in uno stato silente finché la donna non giunge alla prima gravidanza. Durante questo
periodo una serie di altri ormoni, tra cui la prolattina e fattori di crescita che agiscono a livello
locale, fanno sì che la ghiandola possa proliferare e differenziare in maniera funzionale per
produrre latte durante la seguente fase di allattamento. Dopo l’allattamento si ha una funzionale
regressione della ghiandola che torna nel suo stato di quiescenza fino ad un’eventuale seconda
gravidanza.
Tutto questo ciclo, regolato in maniera molto stretta, consta di una serie di fasi, alcune delle quali
maggiormente a rischio per lo sviluppo di una eventuale displasia fino alla crescita abnorme, fasi in
cui c’è uno stimolo di tipo prevalentemente estrogenico, e una serie di fasi in cui lo stimolo
diventa protettivo con ormoni quali il progesterone o la prolattina.
Infatti l’esposizione cronica ad ormoni estrogeni è un fattore di rischio molto importante per lo
sviluppo del cancro della mammella, che infatti è più frequente nelle donne che non hanno avuto
figli, con menarca precoce e una menopausa tardiva, situazioni in cui aumenta l’esposizione
fisiologica agli estrogeni e soprattutto si riduce l’effetto protettivo della lattazione.
Circa il 90% dei tumori alla mammella sono di tipo sporadico, non associato a trasmissione
ereditaria. Vi sono però alcune sindromi, su base genetica ereditaria, in cui si ha una forte
predisposizione all’insorgenza di cancro alla mammella, responsabili soprattutto dell’insorgenza
del tumore in età giovane; la più frequente mutazione genetica associata a questo cancro è quella
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del gene brca1, con un aumento del rischio di sviluppare cancro alla mammella fino all’80%.
Questo gene è associato anche allo sviluppo di cancro all’ovaio. Anche il gene brca2 può essere
mutato e provocare cancro alla mammella. È doveroso dunque, una volta diagnosticato cancro alla
mammella associato alla mutazione del gene brca1, effettuare uno studio su tutte le donne della
stessa famiglia per ricercare la presenza della stessa mutazione. Utile, in questi casi, diventa
effettuare una procedura di screening molto precoce e frequente in donne che hanno mutazioni di
questo tipo. Un’altra sindrome molto rara associata all’aumento dell’incidenza di cancro alla
mammella è la sindrome di Li-Fraumeni, associata alla mutazione del gene p53.
Vi sono vari tipi istologici caratteristici del tumore della mammella, il più frequente dei quali è
senza dubbio l’adenocarcinoma: sono principalmente adenocarcinomi duttali (70%), con una
minoranza di adenocarcinomi lobulari. Tra questi due tipi di carcinomi non vi sono grosse
differenze dal punto di vista prognostico e terapeutico, si differenziano soprattutto per quanto
riguarda l’anatomia patologica e l’aggressività biologica.
Questi carcinomi, come tutti i tumori di origine epiteliale, si distinguono in due tipi:


Carcinomi in situ: le cellule completamente maligne non hanno attraversato la membrana
basale, senza infiltrazione loco-regionale e potenzialmente non hanno dato lesioni a
distanza
Carcinomi infiltranti: le cellule hanno attraversato la membrana basale, potenzialmente
hanno già dato metastasi a distanza
Nella stragrande maggioranza dei casi si riesce a fare diagnosi clinica di carcinoma della mammella
quando questo è un adenocarcinoma infiltrante (duttale o lobulare).
Presentazione clinica
Frequentemente il cancro della mammella viene sospettato prima dalla donna e poi diagnosticato
dal medico, come la presenza di un nodulo nel parenchima della ghiandola. Rari sono i casi in cui è
asintomatico e solo lo screening mammografico dà diagnosi della presenza di cancro al seno.
La donna avverte la presenza di una massa in maniera quasi sempre casuale; nella maggioranza dei
casi, a meno che la donna non abbia un seno molto piccolo, la massa ha un diametro di almeno
1cm, al di sotto di questo volume raramente si riesce ad individuare clinicamente un nodulo
(questo è uno dei motivi per cui ha perso ogni ruolo la visita senologica esclusivamente clinica e
l’autopalpazione mensile consigliata alle donne). Infatti l’unica efficace modalità di prevenzione
secondaria è l’esecuzione di una mammografia bilaterale a partire dai 50 anni di età, ripetendola
una volta ogni due anni almeno fino a 70 anni, perché in questo periodo c’è l’incidenza massima di
cancro alla mammella.
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



Anamnesi: deve essere effettuata adeguatamente, chiedendo quando la donna ha notato
per la prima volta il nodulo, se il nodulo ha avuto una comparsa recente e si è ingrandito
velocemente, valutare se abbia già effettuato asportazioni precedenti di altri noduli.
Esame Obiettivo: in genere si effettua in due posizioni: eretta, di fronte al medico, o
sdraiata.
Ispezione: raramente si osserva un’alterazione evidente; infatti, oltre alla fisiologica
asimmetria delle mammelle, solo tumori di grado avanzato provocano evidenti
manifestazioni (una ghiandola molto più grande dell’altra, erosioni cutanee, tumefazioni
sospette, sanguinamento, fuoriuscita di liquilo siero-ematico alla spremitura dei capezzoli);
quando vi è infiltrazione del derma fino alla cute si ha l’aspetto tipico di cute a buccia
d’arancia, oppure si può osservare una recente retrazione del capezzolo quando viene
infiltrata l’areola. Bisogna differenziare queste alterazioni associate alla presenza di
carcinoma della mammella da quelle che si associano ad infiammazioni locali quali una
mastite. Bisogna osservare accuratamente anche la regione ascellare e il collo, per valutare
la presenza di eventuali ingrossamenti nelle stazioni linfonodali di queste regioni.
Palpazione (bimanuale con le mani a piatto): bisogna valutare grandezza e consistenza
(dura, elastica, soffice, se aderisce ai piani sovrastanti e sottostanti) del nodulo in esame, i
margini (ben definiti o sfumati e di tipo infiltrativo), l’eventuale presenza di altri noduli;
non è raro infatti incontrare casi di donne con cancro multifocale o addirittura bilaterale.
La palpazione viene effettuata su tutti i quadranti. Caratteristiche di un nodulo maligno
sono quelle tipiche di una massa a crescita infiltrante, più o meno duro, in genere non
dolente e a margini sfumati che infiltrando le regioni adiacenti, lo fanno aderire alle fasce
muscolari o ai piani superficiali. Opposte sono le caratteristiche del nodulo benigno, infatti
può sembrare una lesione a margini lisci, con una superficie ben delimitata, non aderisce ai
piani sottostanti, infatti si muove più liberamente, può essere dolente in quanto può non
essere solido, ma presentarsi in forma cistica, si manifestano in età più giovane (30-35
anni), con una crescita molto lenta; questi noduli possono essere di due tipi: tumori benigni
che non sono assolutamente precursori di cancro alla mammella (fibroadenoma
mammario) in genere singolo e monolaterale, oppure cisti dal contenuto liquido o
semisolido, nell’ambito di una patologia cronica benigna definita mastopatia fibrocistica,
caratterizzata dalla presenza in entrambe le ghiandole mammarie di cisti dal contenuto
solido, liquido o misto, che insorge soprattutto in età giovanile, che però possono evolvere
nel tempo in quanto non permette di identificare un eventuale nodulo maligno. Con la
palpazione vanno esplorate anche le stazioni linfonodali che sono sedi più frequenti di
metastatizzazione del cancro della mammella; alcune di queste non sono esplorabili, come
i linfonodi della catena mammaria interna, le stazioni di gran lunga più importanti sono
quelle della regione ascellare: esistono tre livelli di stazioni linfonodali ascellari costituiti da
circa 30-35 linfonodi di piccole dimensioni che hanno una spiccata reattività a infezioni o a
patologie infiammatorie croniche. Queste raramente sono palpabili in fase precoce di
tumore alla mammella, infatti la presenza di linfonodi di dimensioni aumentate e di
consistenza dura omolateralmente al nodulo è un fattore prognostico negativo con
diffusione metastatica del tumore primitivo, soprattutto se questi sono confluenti e adesi
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alla cute. Altre stazioni linfonodali minori, che si manifestano nelle fasi ancora più avanzate
della malattia, sono quelle sovraclaveare e laterocervicale omolaterali.
Il tumore della mammella metastatizza più frequentemente per via ematica al polmone, al fegato
e all’osso, gravi segni che si associano ad una malattia in fase molto avanzata.
Diagnostica per immagini
Molto importante in quanto si accompagna all’analisi clinica per avere diagnosi di certezza.


Ecografia mammaria bilaterale: esame ecografico specifico della mammella, permette di
identificare il nodulo ed eventuali lesioni non evidenti all’esame obiettivo. Dà informazioni
sulla morfologia del nodulo, se è di tipo solido, di tipo cistico, a contenuto liquido, si
possono osservare bene i margini (nodulo capsulato, margini lisci, infiltrativi ecc.); è molto
importante anche quando accompagna l’esecuzione di una biopsia.
Mammografia bilaterale: esame radiologico specifico; in caso di tumore maligno mette in
evidenza la presenza di un nodulo radiopaco a margini sfumati e infiltrativi, con la presenza
spesso di micro calcificazioni; si rende molto utile per evidenziare la presenza di lesioni
anche molto piccole; durante gli esami di screening con la mammografia è possibile
eseguire una biopsia mirata in lesioni anche molto piccole
Questi esami sono molto importanti in quanto vanno a confermare la diagnosi clinica e sono utili
per effettuare prelievi bioptici.
Biopsia
Questo esame è fondamentale per studiare istologicamente le lesioni riscontrate già durante
ecografia e mammografia. Molto spesso viene eseguita con l’ausilio di guida radiologica
(mammografia) o ecografica.


Biopsia incisionale: tecnica che viene utilizzata nella maggior parte dei casi; con una siringa
di diametro più o meno piccolo si estrae un cilindro di tessuto per l’esame istologico.
Biopsia escissionale: viene preferita quando il nodulo sia molto probabilmente benigno o
molto piccolo, oppure quando si ritiene necessario avere l’intero nodulo per un esame
istologico di maggiore certezza; con un piccolo intervento chirurgico si asporta interamente
il nodulo sospetto
Istologicamente il nodulo può essere formato da tessuto sano, può avere cellule displastiche
tipiche di un tumore benigno, o può essere un carcinoma. In quest’ultimo caso, mediante
differenziazione istologica si può valutare se è un adenocarcinoma duttale (nella maggior parte dei
casi) o lobulare. A questo punto si ha diagnosi di certezza.
Dal punto di vista prognostico e terapeutico bisogna valutare ulteriormente una serie di fattori
necessari per il raggiungimento di una terapia adeguata.
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Bisogna dunque valutare il grado di aggressività locale, se il tumore è più o meno differenziato,
mediante una classificazione che va da g1 (molto differenziato) a g3 (meno differenziato). In linee
generali, minore è la differenziazione e maggiore è l’aggressività del tumore.
In seconda analisi bisogna valutare l’eventuale infiltrazione di sedi adiacenti, come piccoli vasi,
infiltrazione perineurale.
La valutazione della frazione di crescita delle cellule è un altro fattore prognostico fondamentale
per valutare l’aggressività del tumore: questa metodica studia la quantità di cellule che sono in
fase di proliferazione al momento del prelievo istologico valutando la presenza di una specifica
proteina detta ki67. Ovviamente quanto più è alta la frazione di crescita (espressa in %) tanto più è
alta l’aggressività delle cellule tumorali.
Essenziale nel processo prognostico e soprattutto terapeutico è la ricerca di alcune proteine
chiave: importanti sono, nel nucleo, i recettori per estrogeni e progesterone (la presenza del
recettore del progesterone è un indice funzionale di attivazione del recettore degli estrogeni
perché la sintesi della proteina del recettore del progesterone è indotta dal recettore degli
estrogeni attivato). La presenza di almeno il 10% di cellule il cui nucleo è colorato per la presenza
di questi due recettori indica una potenziale ormono-dipendenza e ormono-sensibilità del tumore
stesso. Ovviamente tumori ormono-sensibili sono prognosticamente vantaggiosi in quanto
possono essere manipolati dalla concentrazione di estrogeni e progesterone, con una risposta
terapeuticamente efficace all’ormone attivo.. Viceversa, l’assenza di questi recettori controindica
l’uso dell’ormonoterapia. Circa ¼ di donne ha un tumore in cui è amplificato il gene erB2 che si
traduce in una iperespressione della proteina di membrana codificata da questo gene; questo
consente di effettuare terapie mirate per tumori in cui il gene erB2 sia amplificato. Vi è una classe
di tumori maligni della mammella detti triple negative, i quali non non sono sensibili agli estrogeni
e al progesterone, né presentano una iperespressione di erB2:questi sono i tumori
prognosticamente più sfavorevoli e aggressivi da un punto di vista biologico, per i quali, come
arma terapeutica, abbiamo solo farmaci citotossici (sono tipici delle donne più giovani).
Circa 2/3 di tumori della mammella sono ormono-sensibili, in cui il gene erB2 non è amplificano e
non vi sono iperespressioni della proteina di memebrana: questi sono i tumori a prognosi migliore,
in quando presentano cellule abbastanza differenziate e con una frazione di crescita molto bassa.
Una minima percentuale di tumori maligni sono caratterizzati da una certa sensibilità per
estrogeni e progesterone associata all’iperespressione di erB2: sono molto importanti da
conoscere in quanto, per una serie di modificazioni biochimiche, l’antiestrogeno tamoxifen in
questi tumori funziona poco. Questi tumori hanno una prognosi abbastanza infausta.
Ricapitolando quindi possiamo dire che vi sono:




15% tumori erB2 negativi e ormono-indipendenti (prognosi più sfavorevole)
15% tumori erB2 positivi e ormono-indipendenti
15% tumori erB2 positivi e ormono-sensibili
50% tumori erB2 negativi e ormono-sensibili (prognosi più favorevole)
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Ovviamente la scelta terapeutica più adeguata dipenderà principalmente dalle evidenze
istologiche.
Una volta avuta una diagnosi certa (paziente con nodulo unico di cancro alla mammella) si procede
alla stadiazione. Gli esami di stadiazione minimi sono: radiografia del torace (con proiezioni PA e
LL), un’ecografia addominale (per l’eventuale presenza di metastasi epatobiliari) e una scintigrafia
ossea (per valutare la presenza di metastasi ossee). Se questi esami di stadiazione minimi sono
negativi, non si procede con ulteriori esami, almeno in una paziente con un nodulo mammario
unico; se invece vi sono lesioni sospette allora bisogna approfondire con ulteriori esami diagnostici
specifici (HRTC, TC con mdc, RMN, molto raramente una PET TC, in casi selezionati bisogna
effettuare una biopsia della lesione).
Domanda: se una donna con un nodulo non diagnosticato ha una gravidanza, il nodulo come
reagisce?
La gravidanza può permettere la scoperta di un cancro o addirittura accelerarne la crescita,
soprattutto se il tumore è ormono-dipendente, in quanto aumentano i livelli di ormoni in circolo. Il
problema maggiore si riscontra soprattutto nella scelta terapeutica, perché la donna non può fare
terapie che possano interferire con la crescita del feto: se la scoperta del cancro avviene al
termine della gravidanza si può anticipare un po’ il parto e dopo eseguire una terapia mirata.
Raramente la malattia può, in gravidanza, esplodere sistemicamente e la donna può trovarsi
repentinamente con metastasi diffuse. Per fortuna però è un fenomeno raro, in quanto le donne
gravide sono spesso giovani, non a rischio di insorgenza di cancro al seno.
La scelta terapeutica più indicata dipende principalmente dal tipo istologico e dalla presenza di
infiltrazioni a breve e lunga distanza.
Storicamente la terapia più utilizzata, che si riteneva necessaria, era l’asportazione chirurgica.
Successivamente si è scoperto che molte donne, soprattutto quelle in cui vi era stata infiltrazione
metastatica di linfonodi ascellari, avevano un’altissima possibilità di ripresa della malattia,
soprattutto di morire di malattia metastatica. Molto più indicato infatti è il trattamento sistemico,
in modo da poter attaccare anche eventuali micrometastasi a distanza.
Domanda: è più probabile avere una localizzazione bilaterale del tumore o che l’altra mammella
sia interessata da infiltrazione metastatica?
Una metastatizzazione dell’altra ghiandola mammaria è possibile, più spesso quando si ha una
localizzazione bilaterale si tratta di due tumori diversi, perché essendo la ghiandola mammaria un
organo bilaterale ed essendo la cancerogenesi a cui è sottoposta la stessa, se una donna ha una
predisposizione a sviluppare il cancro, sia su base familiare o perché è esposta a sostanze
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cancerogene, probabilisticamente può avvenire lo sviluppo del tumore in più punti della ghiandola
o in entrambe. Questo è il motivo per cui una donna che ha avuto un cancro alla mammella, ha
fatto terapia ed è guarita, ha una probabilità di sviluppare nuovamente cancro alla mammella
maggiore rispetto ad una donna che non lo ha mai avuto.
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TERAPIA DEL CANCRO DELLA MAMMELLA
Per il trattamento del cancro della mammella dobbiamo innanzitutto
conoscere : la presentazione clinica (quadro loco regionale, sistemica o
metastatico e intermedio) e caratteristiche biologiche del tumore gia al
momento della diagnosi. Distinguiamo:
 Tumori luminali A, sono i più differenziati, bassa frazione di
proliferazione (ki-67 basso), esprimono recettori per estrogeni e
progesterone ad alto livello, ErbB2 normoespresso, sono i tumori
più vicini alla ghiandola mammaria normale e più ormonodipendenti e ormono-sensibili, l’ormonoterapia gioca un ruolo
chiave
 Tumori luminali B, esprimono recettori per estrogeni e
progesterone, ki-67 elevato, possono essere sia ErbB2 negativi sia
ErbB2 positivi ed elevati, la terapia ormonale ha un ruolo
importante, ma non basta
 Tumori ErbB2 dipendenti, i recettori per gli estrogeni e progesteroni
sono bassi (tumore ormono-indipendente e ErbB2-dipendente,
terapia anti ErbB2 indispensabile, ormonoterapia inutile)
 Tumori basal-like o triplamente negativi, prognosticamente
sfavorevoli, ad alta aggressività biologica, in cui né il sistema
recettoriale per gli estrogeni e progesterone è attivo, ne il sistema
ErbB2 è attivato dall’amplificazione dell’espressione, sono i tumori
meno responsivi al trattamento non rispondendo all’ormonoterapia
e alla terapia anti- ErbB2
Presentazione clinica più frequente:
Nodulo mammario singolo in una delle due ghiandola mammaria,
esame obiettivo negativo (assenza di linfonodi palpabili nella cavita
ascellare o laterocervicale, assenza di apparenti metastasi a distanza
negli organi chiave) tuttavia la chirurgia anche estesa all’intero
emitorace colpito, con rimozione del nodulo non è scevra da
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manifestazioni metastiche a distanza( il tumore della mammella a
differenza degli altri tumori,può presentare una latenza biologica di
manifestazione metastatica anche di dieci anni).
Si era visto negli anni che circa il 70% delle donne che avevano uno
o più linfonodi ascellari metastatici all’intervento chirurgico di
asportazione, se non avessero fatto terapia post chirurgica sistemica
avrebbero sviluppato una metastasi a distanza e che il numero di
linfonodi coinvolti naturalmente è proporzionale al rischio di ripresa
di malattia. Già negli anni ’70, si iniziò ad ipotizzare, dunque, che
nelle donne che risultavano positive alle metastasi ai linfonodi
ascellari fosse indispensabile una terapia post-chirurgica sistemica
adiuvante (all’epoca si chiamava prevenzione terziaria). Per
moltissimi anni invece le donne i cui linfonodi ascellari risultavano
Liberi da metastasi venivano considerate a prognosi migliore, per le
quali probabilmente non si considerava necessario una terapia postchirurgica adiuvante, perche il rischio di ripresa di metastasi era
molto basso. In realtà considerano le casistiche in maniera più
estesa si vide che il 30 % delle donne con tumore primitivo
asportato, asportazione di linfonodi ascellari e assenza di metastasi
in questi ultimi , si aveva ripresa di malattia metastatica entro dieci
anni dall’intervento chirurgico. Per cui nella pratica clinica corrente
si può prendere in considerazione una terapia post-chirurgica
sistemica. Si valutano però anche altre caratteristiche biologiche del
tumore: la presenza o l’assenza di recettori ormonali, l’espressione
e l’amplificazione di ErbB2
Qual è la terapia di un TUMORE PRIMITIVO DELLA MAMMELLA
APPARENTEMENTE LOCOREGIONALE alla ghiandola mammaria?
Anche qui c’è stata un’evoluzione enorme negli ultimi 50 anni. In
passato si adottava una chirurgia estremamente demolitiva, la
mastectomia radicale allargata( allargata perché si asportava tutta
la ghiandola mammaria compresa la cute sovrastante, il capezzolo,il
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muscolo piccolo e grande pettorale, e tutti i linfonodi del cavo
ascellare), ma oggi è in disuso essendo una terapia estremamente
mutilante e aggressiva provocando danni funzionali importanti
(distruggendo il deflusso venoso e linfatico dell’arto superiore
interessato andando incontro a linfedemi) oltre che psicologici. Dal
punto di vista oncologico quest’intervento non aveva possibilità di
guarigione, in quanto la partita si giocava sulla presenza o meno, a
livello di guarigione, di micro metastasi a distanza. Con il tempo si è
passati ad interventi chirurgici meno aggressivi, mutilanti e radicali:
si è passati così dalla mastectomia radicale allargata risparmiando il
piccolo pettorale o il grande pettorale o entrambi, fino alla
mastectomia radicale semplice con asportazione della cute
sovrastante e quando è possibile si accompagna ad una chirurgia
plastica ricostruttiva nello stesso tempo chirurgico o in un secondo
intervento.
La mastectomia viene effettuata sul quadrante mammario in cui è
localizzata la neoplasia, asportando la zona di ghiandola mammaria
che contiene neoplasia compresa la cute sovrastante e anche il
capezzolo se è interessato: QUADRANTECTOMIA.
Con la mastectomia radicale allargata asportavamo anche il
pacchetto linfonodale, ora se effettuiamo una quadrantectomia
interna non vi è la possibilità di asportare i linfonodi ascellari
omolaterali. Anche per questi ultimi viene utilizzata una tecnica
chirurgica mini-invasiva : si asporta chirurgicamente un linfonodo
campione detto “sentinella”, questo perché quando asportiamo
tutto il pacchetto linfonodale ascellare, questo consente di avere
un’ informazione prognostica ma non è un risultato terapeutico, ci
dice se dobbiamo fare una terapia adiuvante o meno e ci dice
quanto aggressiva debba essere. Con la chirurgia mini-invasiva
conservativa invece durante la quandrantectomia, il chirurgo inietta
un colorante vitale nel quadrante dove vi è il nodulo maligno
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,questo penetra nella massa tumorale, viene assorbito e defluisce
lungo i vasi linfatici che vanno verso l’ascella, il chirurgo vedrà
colorato il linfonodo, quest ultimo sarà asportato e analizzato
istologicamente, se è libero da infiltrazione metastatica è molto
improbabile che i linfonodi a valle siano infiltrati, perché i vasi
linfatici raggiungono prima questo linfonodo e poi gli altri a valle,
quindi in questo caso avremmo risparmiato a questa donna una
linfoadenectomia ascellare inutile.
Se il linfonodo sentinella è positivo, anche quelli a valle saranno
interessati e si procederà, dunque, con una linfoadenectomia
radicale. In realtà la ghiandola mammaria è sede potenziale di
cancerogenesi e come è insorto un tumore in quadrante può
insorge nere anche in un altro, anche se non sono visibili ,
potrebbero essere presenti dei micro focolai metastatici non
evidenti alla mammografia e ecografia, per evitare il rischio di
recidiva si fa eseguire la radioterapia sulla ghiandola mammaria
residua per avere a un effetto antitumorale sul resto della ghiandola
mammaria (può essere eseguita anche durante l’intervento
chirurgico, intraoperatoria quindi , a singola seduta).
Quand è che non si può eseguire questa chirurgia conservativa?
 Quando il nodulo è molto grande, è tecnicamente impossibile
fare una quadrantectomia radicale della ghiandola mammaria,
quindi faremo o una mastectomia o, più frequentemente, una
terapia sistemica neoadiuvante pre-operatoria (con farmaci
,per renderlo potenzialmente operabile, riducendolo di
dimensioni)
 Tumore multicentrico, in questo caso faremo una mastectomia
radicale semplice
 Problema funzionale: donna con mammelle troppo piccole,
non è possibile eseguire una quadrantectomia , si esegue una
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mastectomia radicale semplice con ricostruzione della
ghiandola mammaria con protesi definitiva.
Quindi ogni qual volta che il tumore è potenzialmente asportabile, il
primo intervento è quello chirurgico, quando questo non è possibile
si utilizza una terapia sistemica con farmaci chemioterapici
citotossici.
Esempio: donna con piccolo nodulo ( <1cm ), grading istologico basso G1
o G2, recettori per gli estrogeni e progesteroni espressi ad alti livelli, ki-67
basso, erbB2 negativo, questo è un tumore luminale A , T1 piccolo <1 cm,
N zero e M zero, linfonodi ascellari negativi. Questa donna farà la
radioterapia post chirurgica sui quadranti residui e non parte nessuna
terapia neoadiuvante, perché queste donne hanno dei tumori con delle
caratteristiche biologiche e anatomopatologiche con comportamento di
reversibilità e più favorevoli, con rischio di recidiva a distanza < 10% .
Probabilmente, questo è l’unico gruppo di donne a cui non facciamo
terapia neoadiuvante.
Tutta via se le stesse caratteristiche sopracitate si presenteranno in una
donna di età avanzata, la terapia neoadiuvante sistemica va fatta,
essendo ormono-sensibile e ormono-dipendente il tumore, offriremo una
ormonoterapia adiuvante
Esempio :donna con recettori ormonali positivi(parliamo sempre di una
donna con N zero e M zero , perché se una donna presenta linfonodi
ascellari positivi faremo sempre una terapia neoadiuvante)
, indice di proliferazione elevato, linfonodi ascellari negativi, assenza di
erbb2 a queste donne faremo sicuramente una terapia adiuvante e
valutare se la ormonoterapia adiuvante da sola è sufficiente o bisogna
aggiungere anche una chemioterapia adiuvante con farmaci citotossici, se
sono donne giovani è più probabile che noi faremo una doppia terapia
adiuvante. Nel fare la doppia terapia adiuvante, si fa prima il blocco di
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chemioterapia con farmaci citotossici adiuvante e poi il blocco
dell’ormonoterapia, non si eseguono insieme. A maggior ragione se
questo è un tumore luminale B ed esprime anche Erb-B2 amplificato,
questo è un tumore aggressivo, qui probabilmente l’ormonoterapia
funzionerà anche di meno, quindi a questa donna faremo :chemioterapia
,ormonoterapia e una terapia anti Erb-b2
Esempio : donna con tumore con recettori degli estrogeni e progesterone
negativi, ErbB2 positivo, a questa donna non facciamo l’ormonoterapia
ma chemioterapia e terapia anti erbb2.
Infine c’è il gruppo prognosticamente sfavorevole 15- 18% dei casi il cui
tumore è triplo negativo, a queste donne non potremmo fare né
l’ormonoterapia, né la terapia anti erbb2 ma solo chemioterapia.
La chemioterapia dura dai 4 ai 6 mesi, quella ormonale 5 anni e che la
terapia anti ErbB2 in genere si comincia alla fine della chemioterapia e
dura 1 anno.
Terapia:
ORMONOTERAPIA si fa in base allo stato menopausale della donna.
Nella donna in post menopausa, l’ormonoterapia di prima scelta è con un
inibitori reversibili dell’aromatasi (letrozolo, anastrozolo e exemestane
sono farmaci che vengono assorbiti a livello gastroenterico e
somministrati come compresse una volta al giorno per 5 anni) , che
annullano i livelli endogeni di estrogeni prodotti in menopausa dal
surrene e dal tessuto adiposo, si può usare anche il tamoxifene,
antagonista recettoriale degli estrogeni, per os una volta al gg per 5 anni.
C’è chi preferisce fare una terapia con switch : i primi due anni in terapia
con tamoxifene e gli altri tre con inibitori dell’aromatasi.
Nella donna in età fertile, pre-menopausa, il tamoxifene (per 5 anni) è
l’antiestrogeno usato e non si usano gli inibitori dell’aromatasi, nel caso
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in cui si vuole avere un blocco estrogenico completo si usa da 2 a 5 anni, a
seconda dell’età, l’analogo dell’ LHRH per via intramuscolare
CHEMIOTERAPIA
La chemioterapia consiste nell’impiego di farmaci, che, attraverso il
circolo sanguigno, possono raggiungere le cellule tumorali in ogni parte
dell’organismo. I farmaci utilizzati appartengono ad alcune categorie:
alchilanti (ciclofosfamide) , i derivati del fluoro (5-fluorouracile),
antracicline (doxorubicina, daunorubicina) , taxani (docetaxel, paclitaxel) .
La loro somministrazione avviene attraverso cicli di trattamento a
cadenza variabile (settimanale o trisettimanale )
La loro somministrazione (tipicamente per via endovenosa ) avviene
attraverso cicli di trattamento a cadenza variabile (settimanale,
trisettimanale)
Il trastuzumab, è un anticorpo monoclonale umanizzato utilizzato per
combattere il carcinoma mammario avanzato, recidivante o diffuso ad
altri organi (carcinoma mammario secondario).
Il target molecolare del farmaco è l'antigene nonché recettore HER2/neu,
che legandosi specificamente al fattore di crescita umano
dell’epidermide, determina la crescita tumorale. Il farmaco impedisce
questo legame bloccando il recettore, che in molti casi di tumore
mammario risulta sovra-espresso.[1] Questo impedisce alle proteine
HER2 difettose di provocare una divisione cellulare incontrollata, e quindi
al cancro di crescere
Effetti collaterali : alopecia (evento reversibile ) ,nausea, vomito, infezioni
batteriche opportunistiche , neutropenia , stanchezza, dolori ossei,
articolari o crampi muscolari , alterazioni della funzionalità cardiaca (le
antracicline sono farmaci cardiotossici), alterazioni del ciclo mestruale con
possibile menopausa precoce.
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TRATTAMENTO METASTATICO
Sede di metastasi: cute ,linfonodi ,ossa, fegato, polmone, sistema
nervoso centrale
La sede di ripresa di malattia è quella che può influenzare maggiormente
la prognosi. In passato si definivano tumori metastatici a prognosi
migliore quelli che davano metastasi ai tessuti molli : cute ,linfonodi o
ossa, da malattia a prognosi peggiore con metastasi viscerali: fegato,
polmone o sistema nervoso centrale .
Uno dei tumori mammari che può dare maggiormente metastasi al SNC è
il tumore erbB2 amplificato, probabilmente perché è un tumore
aggressivo biologicamente ed è possibile che si abbiano localizzazioni
all’encefalo ma anche perché il trastuzumab, anticorpo monoclonale ,è
una grossa immunoglobulina e non attraversa la barriera
ematoencefalica, e quindi non arrivano concentrazioni di farmaco tali da
bloccare la crescita delle metastasi al cervello, a meno che la barriera
ematoencefalica non sia distrutta o danneggiata.
Il trattamento della malattia metastatica si basa sulla conoscenza:
sede della metastasi , malattia ancora erbb2 positiva o no, efficacia della
terapia adiuvante precedente o meno , recettori per gli estrogeni positivi
o meno.
Può avere un ruolo nella malattia sistemica metastatica, la chirurgia
palliativa o la radioterapia, soprattutto nelle lesioni ossee lunghe dove c’è
rischio di frattura avrà un effetto antalgico e di bloccare il
rimaneggiamento e la distruzione ossea.
I bifosfonati, vengono usati per distruggere a livello della metastasi osseo
il microambiente che favorisce il rimaneggiamento osseo, e quindi
favoriscono la ricalcificazione.
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Denosumab, anticorpo monoclonale agisce complessando il RANKL o
(RANK Ligand), proteina che agisce come segnale primario nella
promozione della rimozione ossea legandosi al recettore RANK.
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Oncologia 28/04/2014 Prof.ssa Erika Martinelli
Oggi vi parlerò dei tumori dell'ovaio e dei tumori del testicolo.
Le neoplasie dell'ovaio sono per incidenza le seconde della sfera ginecologica e ad alta mortalità
perché spesso vengono scoperte quando la neoplasia è in fase avanzata. Hanno massima incidenza
nella fascia 50-60 anni. Vi è una multifattorialità per quanto riguarda l'eziologia del tumore
dell'ovaio:
1-siccome la maggioranza delle neoplasie si forma a partire dall'epitelio di rivestimento potete
capire come le ovulazioni frequenti possono essere una causa scatenante portando a traumi ripetuti
che col tempo possono dare origine ad una neoplasia, una donna che non sta ovulando perché ad
esempio in gravidanza o in allattamento è in una fase di “protezione” mentre le donne che non
hanno figli sono più a rischio. Di conseguenza la nulliparità è un fattore rischio ,così come un
menarca precoce ed una menopausa tardiva
2- Ci sono poi fattori esterni come i farmaci,donne che non riesco ad avere una gravidanza fanno
delle cure ormonali con farmaci che stimolano l'ovulazione e questo rappresenta un fattore di
rischio,al contrario l'uso di anticoncezionali estroprogestrinici costituisce un fattore protettivo
3-Fattori genetici:la maggioranza dei cancri è sporadica,ci sono però dei fattori genetici che
possono portare ad aumento di incidenza di questa patologia in alcuni nuclei familiari. Le principali
patologie a basa genetica sono:
Breast-ovarian cancer syndrome dovuta a mutazione di brca1 e brca2 con predisposizione
raddoppiata ad un cancro ovarico o ad un cancro della mammella
Sidrome di Lynch dove per mutazione di geni predisposti al riparo del dna “mismatch repair genes”
si ha una maggiore predisposizione a tumori del colon,della mammella e dell'ovaio
Dal punto di vista istologico si riconoscono tumori dell'epitelio,delle cellule germinali e dello
stroma. Gli epiteliali rappresentano il 75 per cento di tutte le neoplasie che si differenziano a loro
volta in
Sierosi:più frequenti e spesso bilaterali
Mucinosi: producono mucina
endometriali e a cellule chiare: queste due forme sono a prognosi più sfavorevole,tendono ad
essere monolaterali e non sono sensibili al platino
I tumori a cellule germinali che possono originale sia dall'ovaio che da tessuti embrionali
extragonadici. Questi tumori producono marcatori specifici che sono l'alfafetoproteina e la betahcg.
Queste neoplasie hanno incidenza maggiore nell'infanzia (5% delle neoplasie ovariche).Si dividono
in:
-disgerminoma
-carcinoma embrionale
-coriocarcinoma
-teratoma
I tumori dello stroma sono rappresentati dai fibromi,sarcomi,linfomi
L'elevata mortalità di queste neoplasie è dovuto al fatto che la clinica si manifesta quando la
neoplasia è in uno stadio avanzato e per questo viene definito killer silenzioso. Per capire la
sintomatologia bisogna capire come diffonde la neoplasia: si può avere diffusione intraperitoneale
infatti per caduta le cellule possono interessare il peritoneo,l'omento e la superficie peritoneale del
diaframma,per via linfatica vengono coinvolte anche diverse stazioni linfonodali come gli
intraortici,i periaortici gli iliaci e poi abbiamo la più rara diffusione ematica e tramite questa via
vengono coinvolti soprattutto il fegato,il polmone e l'apparato scheletrico. Si possono avere sintomi
aspecifi riferiti all'addome come dolore,meteorismo,stipsi oppure aspecifici generali come anoressia
e calo ponderale. Si può avere sanguinamento vaginale in caso di importante interessamento pelvico
con invasione della vagina.
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Per quanto riguarda la diagnosi se si è magri con palpazione bimanuale si può rilevare una massa
palpabile e nel caso di malattia avanzata ascite. L'esame strumentale più semplice è l'eco pelvica
transvaginale con valutazione color-doppler della vascolarizzazione. Per quanto riguarda gli esami
di laboratorio abbiamo il ca125 sia per diagnosi che per follow up,il CEA che è tipico della variante
mucinosa ed è simile ai tumori del colon
La diagnosi di certezza si fa con laparoscopia esplorativa con asportazione della massa ed è
diagnostica e stadiativa poiché il chirurgo vede se ci sono linfonodi interessati ed eventulmente
gettoni peritoneali che se presenti vengono bioptizzati. Se i gettoni non sono presenti fa comunque
biopsie random. Si fa inoltre un lavaggio peritoneale.
La classificazione segue sia la TNM che la classificazione ? utilizzata dai ginecologi ed in tutti gli
stadi c'è sempre la valutazione delle cellule neoplastiche nel lavaggio peritoneale .Nello stadio 1A
1B 1C c'è interessamento del solo ovaio e nel 1a ed 1b la capsula è integra. Nello stadio 1c c'è
rottura della capsula
nello stadio 2 vi è interessamento della pelvi e nello stadio iniziale può occludere la tuba mentre nel
2b e 2c anche altre strutture
nel terzo stadio vi è coinvolgimento linfonodale
Anche nel tumore dell'ovaio vi sono i fattori prognostici
-Stadio Nei primi stadi vi è sopravvivenza al 90%
-istologia ad esempio gli endometriali e quelli a cellule chiare sono sensibili in maniera ridotta ai
chemioterapici,
-l'età
-grading istologico,
-malattia residua post-chirurgica si può avere infatti residuo microscopico con lavaggio positivo,
residuo macroscopico minore o superiore a 2cm se non si può asportare tutto (ovviamente a
prognosi peggiore). L'intervento prevede sempre annessiectomia bilaterale, (colpo di tosse non si
sente)e appendicectomia. L'annessiectomia va valutata in donne giovani che vogliono avere figli.
La stadiazione cambia l'atteggiamento oncologico:
1a e 1b si può fare solo intervento e non fare terapia adiuvante
nell' 1c o nel 2a dopo l'intervento da 3 ai 6 mesi di carboplatino o cisplatino e taxolo
nel 2b e 2c spesso il chirurgo non leva tutto con successiva chemioterapia e reintervento.
Negli stadi più avanzati solo terapia di salvataggio con 6 cicli di cisplatino o carboplatino e taxolo o
doxorubicina.
Se recidiva si utilizzano altri chemioterapici: se recidiva dopo sei mesi vengono definiti platino
sensibili e in questi si può riutilizzare cis/carboplatino in associazione ad altri farmaci come la
gemcitabina e la menorebina(?) . Se recidivano prima vengo definiti platino resistenti e non si
possono utilizzare derivati del platino e si utilizzano altri farmaci come taxani gemcitabina
menorebina ed il topotecano (N.B. Lo xaliplatino non si usa nel tumore dell'ovaio).
Non esistono programmi di screening per questa neoplasia nella popolazione generale se non eco
transvaginale e ca125 una volta l'anno (quest'ultimo può essere elevato anche in casso di
endometriosi e cisti ovariche).Fondamentale screening in pazienti con sindromi genetiche
Per quanto riguarda la neoplasia del testicolo è la più comune tra i 20 e i 35 anni e nel 90 95% dei
casi porta a guarigione con incidenza di 3 su 100000 abitanti. I fattori di rischio sono diversi:
familiarità (rischio aumentato di 6 volte per familiare di primo grado affetto),il criptorchidisimo
(aumento del rischio din 20-40 volte), klinefelter, traumi al testicolo, parotite epidemica, atrofia
testicolare
Il 95 % sono germinali mentre il 5% non germinali .I germinali si dividono istologicamente in
seminoma e non seminoma. Nell'ambito del seminoma vi è il seminoma tipico, lo spermacitico
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che produce betahch e l'anaplastico che è più aggressivo
Tra i non seminomi vi è il carcinoma embrionale che èil più frequente,il tumore del sacco vitellino
dell'infanzia che produce alfa feto ed il corioncarcinomona molto raro e molto aggressivo che
produce betahcg ed infine il teratoma.
Il 5 % sono neoplasie non germinali che possono originare dalle cellule di Lyedig, di sertoli e le
forme stromali come sarcomi e linfomi testicolari.
La sintomatologia è aspecifica,la tumefazione scrotale è il segno più importante e se coinvolge i
linfonofi retroperitoneale vi può essere dolore addominale sordo, se coinvogle i polmoni vi può
essere dolore toracico e tosse.
Per la diagnosi il primo step è l'ecografia con visualizzazione di massa che non si transillumina e
analisi dei marcatori,in particolare alfafeto per i tumori del sacco, betahcg per i germinali non
seminomatosi e LDH sia per i seminomatosi che non seminomatosi. Per la diagnosi non si fa MAI
agoaspirato per possibile disseminazione della malattia.
I marker sono sia diagnostici che terapeutici per il follow up del paziente. Soprattutto è importante
notare in quanto tempo si dimezzano dopo l' intervento per scongiurare la presenza di un residuo di
malattia.
L'intervento è l'orchifunicolectomia con approccio attraverso canale inguinale e non scrotale per
evitare diffusione,si fa anche la linfadenectomia in particolare per i germinali non seminomatosi.
Per stadiare è fondamentale la rx torace, l'eco addomino-pelvica e soprattutto tac per visualizzare
linfonodi locoregionali e metastasi a distanza. Ultimamente si utilizza anche la pet che può dare
informazioni importanti sui linfonodi.
Se interessa solo testicolo stadio 1 se linfoadenopatia non supera 2 cm stadio 2a ,2b se
linfadenopatia tra 2 e 5cm ,2c se superiore a 5cm,nello stadio terzo e quarto abbiamo malattia
polmonare. La prognosi è molto buona.
Nel caso di seminoma in stadio 1 si opera e si possono avere tre opzioni: vigile attesa(viene seguito
con tac e marcatori),radioterapia profilattica sui linfonodi lombo-aortici,due cicli di chemioterapia a
base di cisplatino
nel caso di stadio 2 con metastasi inferiori ai 5 ai linfonodi si fa la radio,se maggiori di 5 chemio
con 3-4 cicli a base di peb (combinazione di cisplatino etoposide bleomicina) seguita da
radioterapia
La bleomicina ha come reazione avversa la fibrosi polmonare e si fa fare spirometria pretrattamento
e dopo due cicli.
Nello stadio 3-4 si fa polichemioterapia sempre con peb
Nei non seminomi non c'è radiosensibilità si fa orchifunicolectomia con eventuale rimozione dei
linfonodi retroperitoneali (può comportare dei rischi),se non si fa la rimozione dei linfonodi si
osserva il paziente con controlli periodici (wait and watch) mentre se il paziente è in alto rischio si
fa la chemioterapia.
Nello stadio 2c chemioterapia e linfoadenectomia.
Negli stadi 3 e 4 i pazienti sono divisi in base alla prognosi data dai valori dei markers e dalla
malattia linfonodale ed extragonadica: se a buona prognosi 3 cicli di chemio se a cattiva prognosi 4
cicli. Si possono avere a questo punto 3 situazioni
-Scomparsa dopo chemio delle lesioni e si segue malattia con tc
-se c'è residuo nel teratoma follow up e ripartire con la chemio se la malattia si ripresenta,nel
carcinoma embrionale invece essendo chemiosensibile si fa la chemioterapia
-se non c'è risposta si usano farmaci di seconda scelta alla terapia peb
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