Filosofia metafisica e filosofia come scienza Alessandro De Losa Secondo Kant, nella prefazione alla seconda edizione della sua Critica della ragion pura, “alla metafisica non è ancora toccata la sorte benigna di poter intraprendere il sicuro cammino della scienza” e “non vi è […] dubbio alcuno che il suo modo di procedere abbia avuto finora i caratteri d’un brancolamento inconcludente, e per di più fra semplici concetti” 1. La metafisica a cui pensava Kant, e di cui egli aveva molto brevemente delineato una storia nella prefazione alla prima edizione della Critica, aveva i lineamenti della filosofia di Christian Wolff, che nelle sua numerose opere espose un sistema generale del sapere, informato a un metodo razionalistico. Nel pensiero di Wolff, le scienze si dividevano in empiriche e razionali; di queste ultime, alcune erano pratiche mentre altre, quelle che si diranno metafisiche, erano teoriche: entrambe queste ultime dovevano servirsi, per raggiungere le proprie acquisizioni, del principio di non contraddizione e del procedimento dell’analisi, o deduzione. Le scienze razionali teoriche erano a loro volta distinte da Wolff in una metafisica generale e in tre metafisiche speciali; mentre la metafisica generale, la Philosophia prima sive Ontologia, riguardava l’essere di tutti gli enti, le metafisiche speciali erano la Cosmologia o scienza del mondo come totalità e delle leggi che lo regolano in quanto tale, la Teologia razionale in quanto scienza di Dio indipendente dalla rivelazione, e la Psicologia razionale o scienza dell’anima in quanto sostanza. Lo studio della metafisica era condotto da Wolff secondo un proposito fondativo razionalistico: egli si proponeva una preliminare precisazione metodologica e la sicurezza del metodo che si fondava sulla certezza del punto di partenza della ricerca (il principio di non contraddizione, ritenuto indubitabile) e sulla precisione della ricerca nella sua effettività, mediante inferenze deduttive che avrebbero dovuto condurre dal generalissimo e incontrovertibile principio di non contraddizione alle verità particolari. Era ferma intenzione di Wolff elaborare prima di tutto un metodo certo per le scienze che con i soli strumenti del pensiero giungesse con sicurezza alla determinazione dell’essere degli enti in generale, e poi di Dio, della sostanza dell’anima, del Mondo nella sua totalità. L’aver scelto un punto di partenza indubitabile, e l’essersi riproposto di non giungere a conclusioni se non attraverso la rigorosa deduzione, gli sembrò adeguato al perseguimento della sua intenzione. Fu questo proposito di fondare sufficientemente la conoscenza a influenzare lo stesso Kant, nel pensiero del quale però, già nelle opere del 1 Cito la Critica della ragion pura nell’edizione italiana a cura di P. Chiodi, Torino, 1967, p. 43. 17622, l’esigenza fondativa si associa alla necessità di comprendere la possibilità della conoscenza. Il problema di fondare la conoscenza in generale, al quale Wolff aveva data una soluzione nella determinazione della possibilità puramente logica degli oggetti della ricerca metafisica, incontra in Kant il problema degli esiti concreti e dei contenuti delle scienze nella questione di determinare la possibilità della conoscenza, prima ancora di stabilire un metodo per acquisire una conoscenza. Nel 1746, ancora sotto l’influenza del wolffismo, Kant scriveva che “per un filosofo l’unico compenso ai suoi sforzi è che egli, dopo un’indagine laboriosa, possa trovarsi in possesso di una scienza effettivamente fondata”, ma se già nel 1762 la metafisica era considerata un “abisso senza fondo”, e una congerie di sogni nel 1766 (e proprio con un esplicito riferimento a Wolff, che avrebbe fabbricato l’ordine delle cose “con poco materiale empirico, ma con abbondanza di concetti surrettizi”)3, nella introduzione alla prima edizione della Critica Kant la destinava a lotte senza conclusione, almeno finché vi si utilizzassero principi “che oltrepassano ogni possibile uso d’esperienza” nonostante sembrino “così al di sopra di ogni sospetto da riscuotere il consenso anche della comune ragione umana”4. Il senso della fondazione della scienza è così passato dalla necessità di un’indagine precisa e rigorosa in osservanza del principio di non contraddizione, alla comprensione della possibilità di un progresso delle conoscenze, e più in generale del senso stesso della conoscenza razionale e dei suoi limiti. Nella Critica della ragion pura, l’esigenza fondativa di matrice razionalista si volge in polemica contro il wolffismo: Kant riserva infatti, nell’Analitica dei principi, ai giudizi analitici (non estensivi della conoscenza) il principio di non contraddizione come loro principio supremo e ricondotto all’esperienza i giudizi sintetici (il loro principio è che “qualsiasi oggetto sottostà alle condizioni necessarie dell’unità sintetica del molteplice dell’intuizione in un’esperienza possibile”), ribadendo che “il chiarimento della possibilità di giudizi sintetici è qualcosa che non ha nulla a che fare con la logica generale”5. Poiché il principio di non contraddizione soprintende ai giudizi non estensivi della conoscenza, si esclude in questo modo la possibilità per una metafisica come scienza razionale pura di giungere a qualsiasi risultato, in risposta all’interrogativo circa il fallimento storico delle metafisiche fondate su principi logici certissimi. E’ infine la Dialettica trascendentale a sancire la 2 Sono del 1762: La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, L’unico argomento possibile per dimostrare l’esistenza di Dio e la Ricerca sul concetto delle grandezze negative. 3 Al 1746 risalgono i Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, la metafisica è considerata un “abisso senza fondo” ne l’unica prova possibile dell’esistenza di Dio; nel 1766 vennero pubblicati i Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica. Le frasi citate sono state tradotte da P.Chiodi. 4 Nella Critica di Chiodi, p. 63. 5 Ivi, p. 200. vanità della metafisica e a negare la possibilità di una conoscenza razionale delle tre Idee della ragione, gli oggetti delle tre metafisiche speciali di Wolff, che non sono e non intrattengono alcun rapporto con un oggetto dell’esperienza possibile, e delle quali non può dunque darsi conoscenza sintetica. Nel disegno di Kant, tuttavia, la metafisica non cessava di essere con la critica della facoltà speculativa e l’esame della possibilità della conoscenza in generale: vanificate, anzi, le pretese delle metafisiche speciali, la metafisica generale precisava il suo compito. La Critica, nelle intenzioni del suo autore, avrebbe disegnato “l’intero contorno” della scienza metafisica, “sia rispetto ai limiti che le sono propri, sia anche rispetto alla sua completa articolazione interna”, restituendo una metafisica che “potrà abbracciare pienamente l’intero campo delle conoscenze che le sono proprie, e potrà pertanto rendere compiuta la sua opera, lasciandola in uso alla posterità come un tutto non accrescibile, avendo a che fare soltanto con principi e con le delimitazioni dei loro usi”6. Proprio a proposito degli esiti della metafisica nell’opera di Kant, e della trattazione metafisica in quanto costituzione d’essere degli enti come oggetto della conoscenza, Husserl scrisse a più riprese dal primo decennio del secolo fino alla Crisi delle scienze europee. E’ in particolare alla Critica della ragion pura che egli rivolse grande attenzione, soprattutto in relazione al problema della fondazione e del metodo della ricerca filosofica. Husserl riconobbe a Kant di aver tentato di fondare una “filosofia come scienza rigorosa […] che fonda con verità assoluta tutte le prese di posizione teoretiche, e di conseguenza le sue prese di posizione assiologiche e pratiche” 7, ma ritenne che proprio in questo tentativo egli avesse fallito. Secondo Husserl, infatti “una conoscenza assoluta della coscienza pura”, precisamente il contenuto della metafisica “certa” che avrebbe costituito il raggiungimento della Critica, “che in quanto tale abbraccia tematicamente allo stesso tempo tutte le iterazioni nelle quali la coscienza, riflettendo, si eleva a coscienza di grado più elevato […], si attiva in conoscenze che sono esse stesse del tipo della coscienza di grado più elevato; e anche questo appartiene in pieno al grado della coscienza”8. Proprio per questo, secondo Husserl, la costituzione della soggettività nelle sue strutture, nei suoi concetti e principi puri, dovrebbe essere messa in questione in quanto tale da una teoria della conoscenza, e portata alla chiarificazione mediante l’esibizione di datità adeguate: “tutto ciò che viene utilizzato deve essere esibito, deve essere posto innanzi agli occhi come dato in modo assoluto”9. 6 Ivi, pp. 48-9. E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, Milano, Saggiatore, 1990; pp. 90-1. In questo volume sono stati tradotti gli scritti riguardanti Kant tra quelli contenuti nelle appendici al volume VII delle Husserliana, sulla Filosofia prima. 8 Ivi, p.91. 9 Ivi, p.92. 7 Se il problema della conoscenza in generale si risolve nella costituzione fenomenica del mondo, sottoposto ai concetti puri dall’appercezione trascendentale nella coscienza, Husserl imposta più originariamente la stessa questione, in modo tale da richiedere che la scienza renda conto di quella che per Kant costituiva una spiegazione definitiva. Parlando di Kant, Husserl scrive che “la trascendenza della scienza della natura si risolve, nelle sue teorie, in operazioni della soggettività, che dà forma alla natura con le facoltà della sensibilità e dell’intelletto. Ma viene qui presupposta, ed in modo non neutralizzabile da nessuna successiva riduzione fenomenologica, appunto la soggettività, per la quale le facoltà psichiche, già presupposte con un determinato contenuto nel metodo trascendentale, vengono ricostruite, trasformandole in modo tale che la validità oggettiva della scienza pura […] della natura possa divenire comprensibile”10. Per Kant, di fatto, “la pura ragione speculativa ha infatti in sé questo di peculiare, di potere e dovere misurare la capacità che le è propria a seconda del vario modo con cui essa sceglie gli oggetti del proprio pensiero”; secondo lui la coscienza è in grado di padroneggiare le funzioni e le leggi che la regolano e la costituiscono: secondo quanto Husserl scriveva già nel 1908, dieci anni prima della stesura degli appunti sopra citati, invece, “ci sono dati soltanto, come elementi non problematici, i fenomeni. Le nostre funzioni che formano oggetti non sono però date. Le nostre disposizioni innate non sono in quanto tali date. La costituzione psicofisica è un’ipotesi. E soprattutto: le leggi di queste funzioni non sono fenomeni dati. Tutte queste sono trascendenze” 11. Anche in riferimento alla lettera kantiana, la determinazione dei concetti puri dell’intelletto sfugge ad ogni esperienza possibile; né i fenomeni o le connessioni che sussistono tra i fenomeni giustificano di per sé la deduzione di connessioni necessarie come già note nella loro legalità. Con ciò si viene a quella che Husserl considera un’altra presupposizione di Kant: egli avrebbe infatti dato per scontato il mondo in quanto tale, e l’esistenza di una realtà esterna che affetta la coscienza fornendo la materia del fenomeno. Questa presupposizione del mondo costituirebbe, assieme al presupposto della struttura della soggettività, il residuo inindagato della tradizione metafisica nel pensiero di Kant. La teoria kantiana giustifica l’esistenza di connessioni tra i fenomeni, di un mondo in quanto tale, rispondendo alle osservazioni di Hume, ma è incapace di mostrare la sua legittimità, nella misura in cui non è in grado di esibire dati, né di dedurre i suoi risultati da altri dati, né infine di giustificare il fatto stesso di possedere i risultati che essa vanta, negando alla conoscenza l’accesso alle funzioni della conoscenza. Il fatto di percepire un fenomeno, e di percepire una data materia in una data forma non dà luogo, infatti a dedurre i concetti puri e la loro legislazione; la deduzione metafisica procede infatti a determinare la tavola delle categorie a partire dalla forma logica dei giudizi, che 10 11 Ivi, p.50. Ivi, p.17-8. è presupposta nella sua validità assoluta rispetto a un’analisi della fenomenalità e dei giudizi d’esperienza. All’interno della questione della legittimità delle asserzioni circa la costituzioni d’essere degli enti comportata dalla determinazione delle strutture della soggettività, rientra del pari la convinzione di Kant che esista un ordine di oggetti reali che affettano la sensibilità della coscienza, convinzione che ha determinato la redazione della confutazione dell’idealismo nella seconda edizione della Critica. A prescindere dalla effettiva correttezza della confutazione dell’idealismo, è il fatto stesso della sua elaborazione a scontrarsi con l’affermazione kantiana che la scienza non possa procedere di un passo senza fondarsi sull’esperienza possibile, nella misura in cui una tale confutazione costituisce, anche solo negativamente, un’affermazione circa ciò che non è in linea di principio esperibile; e ancor di più, essa è una deduzione con argomenti logici che mirano a una determinazione della realtà, argomenti ai quali Kant negava già in linea di principio una legittimità scientifica. L’intento dichiarato da Kant di dare fondamento alla metafisica stabilendone allo stesso tempo i limiti, esclude le idee intelligibili, trascendenti rispetto a un’esperienza possibile, ma cerca di giustificare l’oggettività dei fenomeni con l’elaborazione di una “metafisica generale”, la cui elaborazione ricade inevitabilmente all’interno del cerchio della metafisica razionalista tradizionale. Se la deduzione metafisica si appoggia pesantemente alla codificazione ormai invalsa della logica formale, la confutazione dell’idealismo cerca nella necessità logica del “permanente”, il termine dal quale inferire l’esistenza necessaria di una “realtà esterna”. E’ ancora la necessità logica dell’unità della coscienza a giustificare, nella deduzione trascendentale, l’istituzione di un principio analitico che soprintenda alla sintesi. Sono dunque molti i luoghi della Critica nei quali si riscontra l’intento kantiano di elaborare un ordine dell’essere in generale, e della costituzione d’essere della coscienza e dell’oggettività più in particolare, ciò che alla luce degli sviluppi della filosofia inglese del XVIII° secolo, che tanto influenzò Kant, significa la stessa cosa: la deduzione metafisica, laddove si deducono i concetti puri dell’intelletto (“che tutto sacrificano a un furore simmetrico” secondo una citazione di Borges); l’asserzione di un principio analitico che sovrintenda alle molteplici sintesi del molteplice, nella deduzione trascendentale, quindi la confutazione dell’idealismo, petizione di principio circa la necessità dell’esistenza di una “realtà esterna”; e per finire l’ammissione della possibilità di una nozione delle idee della ragione sotto il riguardo pratico, quandanche se ne fosse esclusa la possibilità sotto il riguardo teorico, tale da rivelarsi comunque come la possibilità di una nozione, o perlomeno giustificazione di una credenza. Nell’elaborazione propriamente metafisica di Kant, fa spicco l’assenza del dato dell’esperienza possibile al quale lo stesso Kant fa riferimento a proposito della fondatezza della conoscenza: non si dà e non si possono dare esperienze e percezioni in senso lato della soggettività, del principio di unità della soggettività, della realtà esterna in quanto tale, di una nozione, per quanto puramente “pratica”, e meramente formale, di Dio, della sostanza dell’anima, del cosmo nella sua interezza. Quello che invece si mostra nell’esposizione kantiana, è la deduzione dell’essere delle cose, deduzione pura in base a istanze della ragione che Kant percepisce in qualche modo come necessarie: necessario è secondo Kant che la coscienza non sia la serie di rappresentazioni che essa riceve, ma che il principio della sintesi sia analitico, affinché sia preservata un’unità della coscienza; necessario è per Kant che si dia un “permanente” nel mutamento che si dà in quanto tale; necessario sarebbe che dalle categorie proceda la “forma logica dei giudizi”, di modo che questa possa servire da ratio cognoscendi di quelli; necessario è infine all’esistenza di un piano intelligibile della moralità, che esista Dio, che l’anima sia immortale, che si dia la libertà nell’ordine intelligibile della realtà. Gli argomenti logici dai quali Kant discende le acquisizioni della sua metafisica generale, e in certo modo le acquisizioni metafisiche speciali della ragion pratica, fanno leva su elementi della realtà e ordini di cose che Kant percepisce come necessari, senza che sia data la loro necessità, senza cioè che possa essere ritenuta assiomatica la loro espressione, o ancora senza che sia esibita come tale questa necessità. Questo perché una certa costruzione della realtà è presupposta alla deduzione metafisica nella sua argomentazione, quanto alle altre trattazioni che abbiamo definito come metafisiche; e ciò voleva forse dire lo stesso Husserl asserendo che la costituzione psico-fisica è un’ipotesi. L’asserzione ontologica della costituzione della coscienza e dell’oggettività, è premessa alla trattazione come ciò che la consente, e non intende ricevere trattazione anch’essa. In Kant la tensione metafisica vince la cautela scientifica nella confutazione dell’idealismo, laddove dalla legittimità di quello che egli designa come idealismo problematico, si passa immediatamente all’asserzione dell’esistenza di una realtà esterna, così come nel pensiero dello stesso Cartesio l’elaborazione preliminare del cogito vedeva il suo esito nell’intervento di Dio. In Kant la trattazione metafisica si identifica con la forma dell’asserzione preliminare, sia pure nella percezione come necessario di un preciso ordine di cose, dell’esistenza di una realtà. La trattazione che segue a questa asserzione non conduce allora a un risultato puro, rigoroso e scientifico, ma cerca di elaborare argomenti che confermino questa asserzione preliminare. Il senso di giustificazione che assume la trattazione metafisica nei riguardi della convinzione ontologica, non meno che psicologica, teologica o cosmologica, la connota in senso lato come una teodicea, una dottrina della giustificazione dell’essere, nella forma in cui esso è stato elaborato, o anche solo percepito. Questa teodicea è un procedimento di giustificazione che cerca di ovviare alla carenza del dato scientificamente osservato, che trasforma una credenza non ragionevolmente giustificata in un’acquisizione della ragione.