Lo shock o collasso cardiocircolatorio è un`insufficienza acuta ed

Chirurgia d’urgenza
U.C.S.C. VI ° Anno Medicina e Chirurgia
Shock
Lo shock o collasso cardiocircolatorio è un’insufficienza acuta ed evolutiva del circolo sanguigno
periferico. Nello shock si realizza un’inadeguata perfusione tissutale, con conseguente danno
cellulare. Si è soliti definire lo shock come la risultante di una condizione in cui si verifica una
inadeguatezza tra “contenente” (ampiezza del letto vascolare) e “contenuto” (volemia). Nella
maggior parte dei casi è proprio così; nello shock, difatti, o diminuisce la massa ematica circolante
oppure aumenta la superficie del letto vascolare.
Per chiarire la fisiopatologia dello shock bisogna ricordare che per la circolazione del sangue è
importante sia l’attività cardiaca, “centrale”, ad azione centrifuga, che l’attività, “periferica”, del
tono arteriolare, delle venule, delle miocellule pericapillari, tutti meccanismi che garantiscono il
ritorno del sangue al cuore. Assieme a questi ultimi meccanismi, sono anche importanti, per il
ritorno venoso al cuore, le contrazioni dei muscoli volontari e l’attività respiratoria.
Una insufficienza ad uno qualsiasi di questi livelli è in grado di determinare la condizione di shock;
ad esempio, lo shock può aversi per deficit “di pompa” cardiaca, o per disfunzioni vegetative che
agiscano a livello periferico. Le cause e le conseguenze dell’insufficienza di cuore sono oggi ben
note, non così invece per l’insufficienza del circolo periferico, caratterizzata da uno stato di
collasso, con ristagno di sangue nei vasi della periferia. In queste condizioni circola una minore
quantità si sangue, rispetto alla capacità del letto vascolare, ed il cuore si trova nella condizione di
“lavorare parzialmente a vuoto”, con riduzione della gittata cardiaca e conseguentemente della
pressione arteriosa. Se questo squilibrio tra attività centrifuga e centripeta non si riduce
rapidamente, si crea un circolo vizioso: infatti l’ipotensione arteriosa è causa di disturbi funzionali
dei capillari con fuoriuscita di plasma ed ulteriore diminuzione della quantità di plasma circolante
con conseguente aggravamento dello stato di shock.
Lo shock è una sindrome che può insorgere per diverse cause:
a. trauma;
b. post-operatorio;
c. ipovolemia; ad es., dopo emorragie, o ustioni, o vomito;
d. ostruzione acuta embolica o trombotica di grossi vasi arteriosi;
e. meccanismi anafilattici, per azione di sostanze vasoattive;
f. emozioni violente;
g. sostanze tossiche, specialmente tossine batteriche (shock tossico);
h. deficit cardiaco (shock cardiogeno).
A volte i diversi meccanismi sono compresenti.
La sintomatologia, sovrapponibile in forme ad etiologia talmente dissimile, fa presupporre un
meccanismo unico, che sarebbe il seguente:
a. prima fase; inondazione di catecolamine, con chiusura dello sfintere precapillare e apertura
degli shunt artero-venosi; a questo consegue ovviamente una ipossia tissutale anossica. Le
resistenze periferiche diminuiscono dal momento che il sangue, non dovendo più attraversare i
capillari, scorre più velocemente; per compenso aumenta la portata cardiaca. Questo periodo
dello shock è chiamato stato ipercinetico, anche noto come fase calda; il malato difatti ha cute
calda e pressione arteriosa a valori non bassi. Vi è però tachicardia ed inquietudine.
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b. seconda fase; a livello tissutale si accumulano metaboliti anaerobiotici (piruvato, radicali
dell’ossigeno) che causano la liberazione di sostanze vasoattive. La conseguenza è
vasocostrizione postcapillare e ipossia stagnante, con riduzione del ritorno venoso ed ulteriore
diminuzione del volume del sangue circolante e della portata cardiaca. In questa fase lo shock è
freddo. Vi è ipotermia e cianosi cutanea, calo pressorio, tachicardia, sofferenza dei parenchimi.
I vari organi si mostrano congesti, le arterie collabite.
Sintomi dello shock sono:
a. agitazione e apprensione (se lo shock è lieve), apatia (se lo shock è importante);
b. ipotensione arteriosa;
c. diminuzione della pressione differenziale (la sistolica diminuisce più della diastolica);
d. diminuzione della pressione venosa centrale per ridotto ritorno venoso;
e. tachicardia;
f. pallore, ipotermia delle estremità, sudore freddo (da aumentato tono simpatico);
g. oligo-anuria;
h. psiche alterata in senso eretistico o torpido.
La diagnosi si basa, oltre che sul reperto clinico, anche sull’ECG, sull’esame di sague e urine,
parametri coagulativi (c’è rischio di CID), emogas (pericolo di acidosi metabolica); idro-elettroliti
(importanti le alterazioni del K+ in eccesso o in difetto), funzionalità renale (spesso compromessa).
La terapia immediata mira al ripristino della massa circolante e al ripristino del flusso capillare. Per
la massa circolante si possono usare sangue, plasma, fisiologica, plasma expanders. Anche previsto
l’uso di presidi quali “pantaloni pneumatici” pressurizzati che favoriscono il ritorno venoso dagli
arti inferiori. Per il flusso capillare, invece, si possono usare idrocortisone, prednisolone, inibitori
della callicreina, vasodilalatori (es., metaprotenerolo, ad azione beta-agonista).
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Aneurisma dell’aorta addominale
L’aneurisma arterioso è definibile come qualunque cavità che sia limitata da pareti proprie, in
continuazione e comunicazione con quelle di una arteria, e i che contenga sangue circolante. Gli
aneurismi possono essere congeniti o acquisiti. Quelli congeniti sono dovuti ad anomalie della
composizione del collageno, e sono difatti spesso associati ad altre malformazioni. Quelli acquisiti
invece possono formarsi in seguito a fenomeni degenerativi o flogistici localizzati, e si possono
formare per cedimento o per erosione della parete arteriosa. Una categoria particolare di aneurismi
acquisiti sono poi quelli traumatici, che derivano nella maggior parte dei casi da microtraumi
continui o ripetuti sulla parete dell’arteria. A volte si possono osservare ematomi pulsanti che si
incistano nella parete dell’arteria, conservando una comunicazione con il lume di essa; questi
ematomi sono definiti falsi aneurismi.
Da un punto di vista morfologico, invece, gli aneurismi possono essere sacciformi o fusiformi; i
sacciformi, frequenti in sede endocranica, sono caratterizzati dalla presenza di un colletto,
abbondante in elementi muscolari ed elastici. Volume, superficie esterna e interna sono
variabilissimi.
I sintomi dati dalla presenza degli aneurismi sono quanto mai variabili; spessissimo gli aneurismi
sono asintomatici. Obiettivamente la caratteristica più particolare degli aneurismi è quella di essere
pulsanti (sincronia con il polso) ed espansivi. Si palpa spesso un fremito vibratorio sistolico, e si
può auscultare un soffio sistolico. A volte possono essere riferiti dal pazienti sintomi da
compressione.
Un aneurisma può rimanere a lungo asintomatico, e dare segno di sé con una complicanza. Le
principali complicanze degli aneurismi sono:
a. rottura;
b. fissurazione;
c. suppurazione;
d. embolia periferica;
e. ischemia acuta1.
Ci interessa vedere in questa sede la rottura dell’aneurisma dell’aorta addominale. In generale la
rottura di un aneurisma è causa di violento dolore e segni di collasso. La gravità della rottura non è
solo in relazione con il calibro del vaso interessato, ma anche con la sede: assai grave è la rottura di
un piccolo aneurisma endocranico per il danno cerebrale che ne deriva, come pure la rottura di un
piccolo aneurisma dell’arteria epatica, poiché il sangue non trova ostacoli alla sua fuoriuscita.
L’aneurisma dell’aorta addominale è il più frequente tra gli aneurismi. L’etiologia più frequente è
aterosclerotica, meno spesso infiammatoria. Fattori di rischio sono ipertensione, tabagismo, obesità;
non meravigliano le associazioni con cardiopatia ischemica o con l’insfufficienza cerebrovascolare. Di solito la sede degli aneurismi dell’aorta addominale è sottorenale, meno spesso è
iuxtarenale, ove può anche essere responsabile di uno stato ipertensivo (ipertensione nefrovascolare). La sua rottura porta velocemente allo sviluppo di uno stato di shock.
L’aneurisma viene asportato e sostituito con materiale protesico. Il tutto nel più breve tempo
possibile. La mortalità operatoria è del 50%.
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Da improvvisa e massiccia coagulazione con obliterazione completa dell’arteria
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Traumi toracici
Costituisce condizione d’emergenza l’emo-pneumotorace post-traumatico acuto. In seguito ad un
trauma si crea un versamento ematico e una raccolta aerea nel cavo pleurico; il trauma non è aperto,
cioè non comunica con l’esterno. Altra categroria importante di traumi toracici sono naturalmente i
traumi aperti, quelli cioè che comunicano con l’esterno.
Parliamo della prima evenienza. Il raccogliersi nella cavità pleurica di sangue o aria rappresenta
l’eventualità più frequente di ogni trauma toracico di una certa entità. Le cause sono riconducibili a
una rottura del parenchima polmonare, da cui esce aria e sangue.
I sintomi sono quelli generico del trauma toracico: dolore, collasso, respiro superficiale, dispnea più
o meno intensa, specie se coesistono fratture costali.
L’esame obiettivo dimostra una ipofonesi alla base dell’emitorace leso con diminuzione del respiro
in basso e timpanismo con soffio bronchiale più in alto. La radiografia del torace, che deve essere
eseguita sempre in posizione seduta, dimostrerà una ipodiafania basale (sangue raccolto) e una
raccolta aerea in alto (pneumotorace), con tipico livello idroaereo, mentre il polmone appare più o
meno collassato entro il mediastino.
La terapia consiste in una toracentesi immediata, evacuando il più possibile; si rifà la radiografia e
si valuta la nuova condizione. Se la situazione dopo breve tempo ritorna come prima, è bene porre
un drenaggio nel cavo pleurico collegato ad una valvola ad acqua (praticamente con questo
meccanismo l’aria può fuoriuscire ma non rientrare).
Passiamo ai traumi aperti. Si intendono per traumi aperti quelli dovuti a armi proprie o improprie,
da punta o da taglio o da arma da fuoco, che provocano una discontinuità dei tegumenti e
raggiungono in profondità il cavo toracico; sono le ferite penetranti. Ogni trauma aperto, ad ogni
modo, può facilmente essere trasformato in chiuso con una semplice medicazione compressiva!
La ferita penetrante del torace crea un tragitto tra l’ambiente esterno e il torace: se tale tragitto è
aperto la ferita è detta beante; quando il tragitto è aperto si crea un pneumotorace aperto: la ferita è
anche detta soffiante, con tipico rumore di gorgoglio. All’ispezione della ferita si vedono sgorgare
sangue e bolle d’aria a spruzzo intermittente; il polmone si collassa sempre più, il mediastino fluttua
con movimento pendolare, l’aria sempre più povera di ossigeno passa da un polmone all’altro
(fenomeno dell’aria pendolare) e la cianosi si fa sempre più grave: c’è pericolo di vita. Possono
coesistere emotorace, enfisema sottocutaneo, emottisi, collasso, anemia acuta.
Se il trauma ha provocato l’ampia distruzione della parete toracica si presenta il quadro della
“grossa breccia parietale”, con eviscerazione. Tale quadro gravissimo per lo shock, l’emorragia e
l’insufficienza respiratoria è quasi sempre seguito dalla morte del paziente.
La diagnosi è obiettiva e radiologica. La prognosi è riservata. La terapia immediata consiste nel
chiudere la ferita soffiante, così da trasformare il trauma in chiuso: poi si vedrà.
A volte, specie nei conflitti a fuoco, il proiettile può oltrepassare il diaframma e dar luogo a ferite
toracoaddominali. In tal caso, abbastanza frequente, ai danni polmonari e/o cardiovascolari e/o
mediastinici si associano danni ai visceri addominali. Attenzione, quindi!
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Traumi addominali
I traumi addominali possono essere chiusi, cioè non comunicanti con l’esterno, o aperti, cioè
comunicanti con l’esterno. I traumi addominali chiusi chi chiamano contusioni, e possono
riguardare la parete addominale o i visceri addominali. I traumi addominali aperti sono invece le
ferite; anche in questo caso le ferite possono riguardare solo la parete addominale oppure anche i
visceri.
Le contusioni parietali avvengono per via di fenomeni di compressione o percussione della parete
addominale. Esse non presentano particolari caratteristiche che le differenzino dalle contusioni delle
altre superfici del corpo. Occorre però tener presente che nelle contusioni parietali possono
realizzarsi delle complicanze, che sono:
a. laparocele tardivo, per una lacerazione muscolare che può riparare con una cicatrice;
b. ernia traumatica acuta, per depressione cutanea e lacerazione dello strato muscolare;
c. versamento emo-linfatico, che avviene per lo più per contusioni in sede lombare;
d. sindrome pseudo-peritoneale, che si realizza per contusioni sottoperitoneali, specie in sede
lombare, quando c’è una soffusione emorragica; si hanno dolori addominali, contrattura
muscolare, meteorismo. E’ associata spesso a frattura delle ultime vertebre toraciche o prime
lombari, e sembra dovuta ad un eccitamento delle radici o dei nervi originati dai metameri
midollari D7-L2;
e. lacerazione del muscolo retto dell’addome.
Non c’è altro da dire su questo argomento.
Le contusioni viscerali riconoscono come causa più frequente gli incidenti stradali. I visceri
addominali possono essere suddivisi in tre categorie, e cioè gli organi parenchimatosi (ad es.,
fegato), le strutture portanti (ad es., i meso e i vasi addominali), gli organi cavi (es., stomaco). La
rottura degli organi parenchimatosi e delle strutture portanti provoca in genere una sintomatologia
di tipo emorragico acuto; la rottura degli organi cavi, invece, provoca una sintomatologia di tipo
peritonitico-perforativo. In presenza di importanti lesioni viscerali, per lo più solo l’intervento
chirurgico può salvare il paziente, e la mortalità cresce rapidamente col passar del tempo.
Dopo l’interrogatorio del malato, se possibile, o di un testimone dell’incidente, si procederà ad un
attento e veloce esame obiettivo, e quindi al posizionamento dei cosiddetti “quattro tubi”: sondino
naso-gastrico, sonda nasale per ossigenoterapia, incannulamento di una vena, cateterizzazione della
vescica. Quindi si procede all’esame di un campione di sangue per i parametri consueti, dal
momento che c’è rischio di shock.
La sindrome da emorragia interna si presenta col quadro di uno shock ipovolemico; si realizza un
emoperitoneo, che si manifesta con un dolore addominale esacerbato dalla palpazione e che provoca
una modesta contrattura di difesa; nei grandi sanguinamenti vi può essere ottusità delle fosse iliache
e dolorabilità del Douglas (il “grido del Douglas” all’esplorazione rettale), per via del fatto che il
sangue si raccoglie nelle parti più declivi del cavo peritoneale. Nell’emorragia retroperitoneale può
realizzarsi il quadro della sindrome pseudoperitoneale già descritta.
La sindrome perforativa è caratterizzata da vivo dolore addominale e contrattura di difesa, che può
interessare all’inizio solo il quadrante corrispondente alla sede della lesione, ma rapidamente si
generalizza. Vi è immobilità respiratoria, ileo paralitico spesso con singhiozzo e vomito, talora
riduzione o scomparsa dell’area di ottusità epatica (all’Rx si valuta un modesto pneumoperitoneo);
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il quadro evolve in 12-24 ore in quello di una peritonite con shock settico (polso frequente,
ipotensione, febbre, disidratazione, cianosi, metorismo spiccato) in genere con esito letale.
La sindrome perforativa endoperitoneale presenta una sintomatologia molto meno intensa, se è
causata da un coleperitoneo o da un uroperitoneo o da un chiloperitoneo.
La diagnosi è facile nei casi tipici, ma talvolta i quadri sono sfumati o comunque evolutivi, per cui
si dimostrano nella loro franchezza solo tardivamente. In questi casi molti elementi diagnostici
possono emergere da alcune indagini strumentali: Rx senza contrasto (“in bianco”), urografia
endovenosa (lesioni renali), ecotomografia (quando possibile, per la rottura di organi
parenchimatosi), TAC, laparoscopia, arteriografia, scintigrafia (negli organi parenchimatosi dove
c’è lacerazione non c’è captazione). Naturalmente ad eccezione dell’Rx non in tutti i Pronto
Soccorso vi sono tutti questi presidi diagnostici, ragion per cui nei casi dubbi si può effettuare una
puntura-lavaggio del peritoneo, se vi è versamento intraperitoneale. Il suo esame consente di far
diagnosi. Nei casi in cui il dubbio permane, non rimane che una laparotomia esplorativa con
esplorazione di tutti i visceri addominali.
I traumi renali si manifestano con la sindrome emorragica, tipica dei traumi degli organi
parenchimatosi, e in più c’è anche ematuria. Fanno eccezione i traumi sottocapsulari, nei quali non
sempre c’è ematuria, e lo strappamento del rene, in cui il rene perde le connessioni vascolari e
ovviamente non c’è ematuria ma anemia gravissima.
I traumi splenici sono dovuti spesso a forze applicate sulla parte bassa dell’emitorace sinistro o
sull’ipocondrio sinistro. Una splenomegalia pre-esistente (ad es., malarica o leucemica) può favorire
il danno, che spesso è associato ad una frattura costale. Le lesioni possono riguardare la regione
sottostante la capsula splenica, o solo il parenchima splenico, oppure essere capsulo-parenchimali.
La lacerazione splenica causa una sindrome emorragica; talvolta però l’emorragia si realizza in un
secondo tempo, raccogliendosi il sangue prima all’interno della capsula (se questa non è lesionata) e
poi lacerando la stessa capsula quando la raccolta diventa importante (rottura in due tempi).
Nelle rotture sottocapsulari i sintomi sono poco rilevanti: dolore irradiato alla spalla sinistra2,
anemia, leucocitosi, febbre, modica contrattura di difesa dell’ipocondrio sinistro, possibile rilievo di
tumefazione molle, elastica, dolente. Nella rottura completa i sintomi sono quelli dell’emorragia
ingravescente, come già detto.
Il provvedimento terapeutico consiste nella splenectomia, ma quando la situazione non è gravissima
si possono attuare interventi conservativi che fanno residuare un po’ di milza e quindi non
aboliscono la funzione splenica; questo è importantissimo nei bambini.
I traumi epatici avvengono di solito al lobo destro, più grande e più mobile del sinistro. Le
epatomegalie, le cirrosi e le epatiti sono fattori predisponenti. Le contusioni epatiche possono
essere, similmente a quanto avviene per la milza, parenchimali, sottocapsulari o capsuloparenchimali. Le lesioni sottocapsulari formano un ematoma sottoglissoniano alquanto esteso; le
lesioni capsulo-parenchimali danno emoperitoneo, le lesioni parenchimali risultano con una parte di
fegato che diviene necrotico-emorragico, e che successivamente può dare origine ad emobilia,
oppure circoscriversi e dare origine al cosiddetto “biloma”, da blocco del deflusso biliare.
Le lesioni epatiche sono definite:
a. benigne, se l’ematoma sottocapsulare è < 10 cm, o se la rottura capsulo-parenchimale è
profonda meno di 3 cm;
b. modeste, quando i limiti soprascritti vengono superati;
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Segno di Kehr
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c. gravi, quando si associano distruzioni di settori epatici, o ematomi massivi, o lesioni dei grossi
vasi, o rottura del peduncolo epatico.
La sintomatologia è, al solito, quella emorragica; c’è anche versamento biliare. Anche gli
emocoleperitonei modesti devono essere considerati con una certa riserva progonostica, poiché
possono infettarsi, evolvendo talora in ascessi subfrenici.
Per quanto riguarda le ferite parietali, queste possono dare problemi per errori di diagnosi, in
quanto una ferita che sembra solo attraversare i piani cutanei e sottocutanei in realtà può, in
profondità, descrivere un percorso più complesso e interessare, ad esempio, i vasi parietali o
addirittura un viscere. Per questo motivo, ma anche per evitare l’insorgenza di infezioni parietali,
tutte le ferite parietali richiedono la cura chirurgica: sutura con laparotomia.
Le ferite parietali sono spesso dovute ad arma da fuoco. Il proiettile può penetrare in addome e
fermarsi da qualche parte (in questo caso c’è solo il foro d’entrata) oppure può fuoriuscire; in
quest’ultimo caso la ferita è detta transfossa. Meno frequenti sono le lesioni da arma bianca.
Raramente le ferite non coinvolgono organi addominali (sono i cosiddetti “colpi fortunati”), quindi
non bisogna fare affidamento su questo luogo comune; peraltro anche il giudizio sull’ipotetico
tragitto del proiettile, desunto osservando il foro d’entrata e quello d’uscita, è fallace, dato che il
soggetto, quando colpito, poteva essere, ad es., girato, cioè in una posizione diversa da quella in cui
viene poi esaminato dal medico.
Le ferite penetranti possono formare brecce più o meno grandi; dalla breccia possono fuoriuscire
piccoli pezzi di epiloon, ma si può anche avere eviscerazione.
Per quanto detto, le lesioni viscerali sono pressochè la regola, e le conseguenze sono le stesse già
viste per i traumi chiusi; spesso sono associate lesioni di più organi, per cui sono compresenti i
quadri di una peritonite e di una emorragia. A volte si possono avere anche segni di coinvolgimento
toracico. Sintomi dunque saranno shock e dolore addominale. L’evoluzione è nefasta nella maggior
parte dei casi (95%). La terapia è solo operatoria e va effettuata al più presto possibile.
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Peritoniti
Le peritoniti sono le infiammazioni del peritoneo. Esse sono quasi sempre bateriche, e quindi hanno
etiologia infettiva. Altre volte possono, in un primo momento, mantenersi sterili (peritoniti
asettiche). Le peritoniti possono essere acute e croniche; sono di nostra competenza quelle acute. Le
peritoniti acute possono essere a loro volta diffuse o circoscritte; delle forme circoscritte vedremo
solo l’ascesso subfrenico.
Le peritoniti acute diffuse possono essere primitive – ma ciò è raro – oppure secondarie a
colonizzazione di germi presenti in foci infettivi posizionati a distanza. La peritonite acuta diffusa è
una malattia grave, ad alto rischio per la vita del malato. Nelle peritoniti sono importanti sia la
quantità dei batteri in causa (carica microbica) sia la loro qualità; non è difficile però repertare
infezioni peritoneali polimicrobiche. A seconda della sede di provenienza, i batteri coinvolti sono
diversi. Ad ogni modo, i batteri più frequenti nelle peritoniti acute diffuse sono E. coli, Klebsiella,
Streptococcus, Enterobacter, Bacteroides, Clostridium. I germi possono arrivare in situ per via
ematica, linfatica, dall’esterno o dai visceri addominali; è questa la via più comune seguita dai
batteri, e avviene per trauma, o per diffusione da perforazione o altri processi patologici. In tabella
uno specchietto chiarificatore della etiopatogenesi delle peritoniti acute diffuse.
ETIOPATOGENESI DELLE PERITONITI ACUTE DIFFUSE
Peritoniti primitive
Emometastatiche del giovane e dell’adulto
Infezione di un’ascite in cirrotico
Peritoniti in pazienti in dialisi peritoneale
Da perforazione spontanea del tubo gastroenterico o delle vie
urinarie o delle vie biliari o delle vie genitali femminili
Da rottura in peritoneo libero di un ascesso circoscritto
Peritoniti secondarie
Peritoniti post-traumatiche (da contusione o da ferite)
Peritoniti post-operatorie (da cedimento di una sutura o da altre
cause iatrogene)
Secondo i caratteri dell’essudato la peritonite può essere: sierosa, siero-fibrinosa, emorragica,
purulenta. All’inizio l’infiammazione è di solito sierosa, poi evolve nelle diverse direzioni a
seconda che il processo si faccia più intenso, o che arrivi a riguardare un vaso sanguigno, o si
realizzi la formazione di pus. L’essudato può essere più abbondante nel luogo di origine o dove si è
raccolto per gravità (fossa iliaca, cavo del Douglas). Se nella cavità peritoneale è presente materiale
fecale si hanno intensi processi putrefattivi, e si parla di peritonite stercoracea.
I sintomi della peritonite acuta diffusa nella fase conclamata sono quelli di uno shock tossico, e
quindi polso frequente, ipotensione, febbre, disidratazione, cianosi, meteorismo spiccato. Ma a
questo non bisogna mai arrivare, poiché il quadro clinico evolve poi in uno squilibrio metabolico e
cardio-circolatorio per lo più al di sopra delle possibilità terapeutiche.
Nella fase precoce di una peritonite il malato è colto bruscamente da un dolore acuto, continuo,
violento, per lo più localizzato nella sede da cui è partita l’infezione peritoneale, e da tale sede il
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dolore si diffonde a tutto l’addome. L’alvo si chiude alle feci e ai gas e si ha vomito riflesso. Il
polso è più frequente, spesso, ma non sempre, vi è febbre, che tende ad aumentare; a volte la febbre
compare dopo 24-48 ore. All’ispezione il malato è immobile, il respiro è costale, ogni movimento
esacerba il dolore; alla palpazione vi è contrattura di difesa, intensa (addome ligneo), con iperestesia
cutanea e sintomo di Blumberg3, cioè una accentuazione del dolore quando si solleva
repentinamente la mano che preme sull’addome. Alla percussione può rilevarsi riduzione o
scomparsa dell’area di ottusità epatica se vi è pneumoperitoneo, dovuto alla perforazione di visceri
contenenti gas. L’ascoltazione rivela silenzio addominale per ileo paralitico. All’esplorazione rettale
si provoca vivo dolore nello sfondato del Douglas, dove si raccoglie l’essudato (il “grido del
Douglas”).
Sintomo distintivo è la contrattura addominale; il laboratorio testimonia leucocitosi neutrofila, la
radiologia l’ileo paralitico e il pneumoperitoneo, Eco e TAC aiutano nella diagnosi, la paracentesi
svela l’essudato, la laparoscopia ancor meglio. A volte però la diagnosi è solo operatoria. La terapia
è ovviamente chirurgica. I visceri interessati vanno, di volta in volta e a seconda dei casi, riparati,
asportati o esteriorizzati; la terapia antibiotica va attuata per via locale e parenterale.
Le peritoniti acute circoscritte sono processi infiammatori che tendono a localizzarsi in sedi
limitate per spontanea evoluzione o perché bloccati da visceri ed organi circostanti. Ovviamente vi
sono diverse sedi a livello delle quali il processo può realizzarsi, e tra queste il diaframma. Un tipo
particolare di peritonite diaframmatica è il cosiddetto ascesso subfrenico. L’ascesso subfrenico, o
sottodiaframmatico, è un processo suppurativo localizzato tra il diaframma in alto e il mesocolon
trasverso e il colon trasverso in basso. In questo ampio spazio il fegato costituisce un sepimento che
divide gli spazi inter-epato-diaframmatici, o sottodiaframmatici propriamente detti, dagli spazi
sottoepatici. La infezione di questi ultimi non è caratteristica, mentre lo è quella sovrapeatica, per
cui come peritonite diaframmatica suppurativa (o ascesso sottodiaframmatico) viene considerata,
generalmente, solo la raccolta purulenta inter-epato-diaframmatica. L’agente etiologico più spesso
in causa è il Bacterium coli [?], meno frequentemente strepto- e stafilo- cocchi, associati spesso a
flora anaerobia. Nella gran parte dei casi la malattia è secondaria a complicanze di patologie
addominali o ad interventi chirurgici. Di solito si tratta di lesioni gastro-duodenali (ulcere,
neoplasie), appendiciti (specie retrocecali), affezioni epatobiliari di vario genere. I germi vi arrivano
per migrazione diretta, per via ematica o da propagazione linfatica, parieto-colica, retroperitoneale.
L’inizio dei sintomi è di solito preceduto da un’infezione addominale più o meno acuta, oppure è la
complicanza di un intervento chirurgico. L’intervallo tra gli eventi è di solito di qualche giorno, ma
ci sono casi in cui sono occorsi dei mesi. L’insorgenza può essere brusca, con acuta sintomatologia
generale e focale: febbre alta preceduta da brivido, dolore toracico, dispnea. A volte l’inizio è
subdolo con aggravamento progressivo con scadimento delle condizioni generali: dolore alla base
dell’emitorace e all’epigatsrio, nausea, febbre. Quando la malattia è al massimo grado, il paziente è
pallido, astenico, deperito, disidratato, con febbre e tachicardia; c’è leucocitosi neutrofila. Il dolore
è puntorio, specie se l’ascesso ha rapporto con i piani superficiali, ma può essere irradiato al collo;
c’è dispnea e eventualmente singhiozzo (coinvolgimento del nervo frenico). La base del torace è
immobile, il fegato può essere abbassato, vi può essere ottusità basale polmonare. La diagnosi può
essere coadiuvata da una Rx, Eco, TC, scintigrafia, che evidenziano una raccolta
sottodiaframmatica e tutte le sue caratteristiche. Può essere utile (o indispensabile!) una puntura
esplorativa che ha anche funzione evacuativa; è condotta nella zona di massimo dolore.
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“Sintomo”, e non “segno”, come comunemente – ed erroneamente – si dice
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Chirurgia d’urgenza
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Infarto intestinale
E’ una lesione grave, che interessa più spesso il tenue, e che evolve nella gangrena intestinale se
non regredisce prontamente.
L’infarto è dovuto all’ischemia, alla quale l’intestino è particolarmente sensibile; l’ischemia
provoca contrattura muscolare, che in verità non fa altro che peggiorare la situazione. La pronta
liberazione di sostanze vasoattive causa un edema con perdita di plasma nell’interno dell’intestino,
e attivazione della flora batterica, particolarmente quella anaerobia; si ha così una evoluzione da
shock ipovolemico a shock settico, prima ancora che i fenomeni necrotici realizzino la perforazione
in peritoneo libero.
Le cause dell’ischemia possono essere:
a. ostruzione arteriosa: embolica, trombotica, compressiva;
b. ostruzione venosa e stasi: tromboflebite, ipercoagulabilità, uso di contraccettivi;
c. insufficienza circolatoria centrale o periferica.
Si capisce come siano maggiormente a rischio i soggetti anziani cardiopatici.
Il reperto operatorio vede un segmento più o meno ampio di intestino in necrosi; tale necrosi è
macroscopicamente ben delimitata e riferita ad un segmento preciso, ma istologicamente l’area
sofferente si estende anche per un certo tragitto oltre i confini macroscopicamente visibili.
La sintomatologia passa, tipicamente nelle ostruzioni arteriose, per tre fasi diverse:
a. all’inizio, dolore improvviso a tipo colico (sono gli spasmi intestinali), con nausea, vomito,
talora diarrea ematica, stato d’ansia, tachicardia, ipotensione, scarsi o assenti del tutto segni
addominali;
b. segue un periodo di tempo (12 ore circa) di riposo, i sintomi sono spariti, e tutto sembra passato;
in realtà il processo va avanti, fino a determinare le complicanze;
c. insorge quindi una perforazione intestinale, con peritonite, stato di shock tossi-infettivo, e
conclusione in genere mortale in terza giornata dall’inizio dei sintomi.
Questo quadro morboso insorge ex novo in caso di embolia, mentre è preceduto da episodi di
angina abdominis in caso di insufficienza celiaco-mesenterica.
Nei casi di ostruzione venosa o di insufficienza circolatoria il quadro ha una presentazione più
subdola e l’esordio è molto più lento.
La diagnosi è difficile, specie se basata solo sul quadro clinico; i dati di laboratorio, genericamente
alterati, e quelli strumentali (Rx, Eco) non sono suggestivi. Solo un’ateriografia può essere utile e
diagnostica. Questo è il motivo per cui spesso si temporeggia e poi il malato muore. Potrebbe essere
utile, al minimo sospetto, effettuare un esame EcoDoppler dei vasi mesenterici. L’infarto intestinale
va considerato una vera e propria emergenza.
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Emorragie gastroenteriche massive
Le emorragie gastroenteriche possono presentarsi con ematemesi, melena, ematochezia, positività
del sangue occulto nelle feci. Come ben sappiamo, l’ematemesi è l’emissione di sangue con il
vomito, e denota frequentemente una emorragia prossimale al Treitz4; la melena è l’emissione di
sangue misto a feci, ed indica una emorragia prossimale alla valvola ileo-cecale di Bahuino; la
ematochezia è l’emissione di feci solcate di sangue, ed indica principalmente un’emorragia distale
alla valvola ileo-cecale. E’ anche possibile che un sanguinamento gastrico possa dare melena, e
questo può avvenire quando tale sanguinamento è di sì minima entità da non innescare il riflesso del
vomito. Possiamo distinguere due casi: l’emorragia dal tratto gastroenterico superiore e l’emorragia
dal tratto gastroenterico inferiore.
Il sanguinamento dal tratto gastrointestinale superiore può riconoscere diverse cause:
a. comuni; si tratta di ulcera peptica, gastrite, esofagite, lacerazione di Mallory-Weiss dovuta a
conati di vomito, rottura di varici gastroesofagee;
b. meno comuni; sangue ingerito (epistassi), neoplasia, terapia anticoagulante, gastropatia
ipertrofica di Ménétriere, aneurisma aortico, fistola aortoenterica, malformazioni arterovenose,
sindrome di Rendu-Osler-Weber, vasculiti, discrasie ematiche…
Il sanguinamento, quando di una certa entità, si manifesta sempre con una ematemesi. In tal caso il
paziente va subito soccorso.
La causa più frequente è la rottura di varici esofagee, segno di ipertensione portale. Di solito si
tratta di pazienti cirrotici. La fuoriuscita di sangue va subito tamponata utilizzando un particolare
presidio che è la sonda di Sengstaken-Blakemore, quindi si procede ad un iniziale riequilibrio
emodinamico urgente del paziente, che ovviamente rischia lo shock (se già non lo manifesta). Fatto
questo si procede alla valutazione del paziente:
a. anamnesi ed e.o.; farmaci (FANS, ASA aumentano il rischio di sanguinamento), ulcera
pregressa, diatesi emorragica, familiarità, segni di cirrosi…;
b. effettuare un’aspirazione con sondino naso-gastrico se l’origine del sanguinamento non è
stabilita con certezza dalla sola anamnesi;
c. endoscopia EGDS; permette la valutazione della sede del sanguinamento e la possibilità di un
intervento terapeutico;
d. Rx bario; non è ugualmente accurato come EGDS; se non si può usare l’endoscopia si può
invece procedere alla arteriografia selettiva della mesenterica superiore;
e. scintigrafia con emazie marcate; è utile per verificare la sede del sanguinamento.
Il sanguinamento dal tratto gastrointestinale inferiore può essere riferito a emorroidi, ragadi anali,
traumi rettali, proctiti, coliti, polipi del colon, CR del colon, angiodisplasie, diverticolosi,
invaginazioni, ulcera solitaria, malattie del connettivo, uso di farmaci anticoagulanti. I segni clinici
tipici sono la melena o l’ematochezia; sono valide le riserve alle quali abbiamo già accennato.
Valutazione del paziente:
a. anamnesi ed esame obiettivo;
b. colonscopia;
c. aspirazione nasogastrica (per sospetto sanguinamento prossimale al Treitz);
d. clisma opaco; in realtà non è di nessuna utilità nei fatti acuti;
e. arteriografia;
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Angolo duodeno-digiunale di Treitz
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f. esplorazione chirurgica; è invero proprio l’ultima risorsa.
Come si trattano questi stati emorragici? Innanzitutto si incannula una vena con un grosso ago;
questo consente di effettuare prelievi di sangue e di infondere liquidi. Vanno monitorati i parametri
vitali, la diuresi, l’ematocrito (la caduta dell’ematocrito è spesso ovviamente tardiva). La PA va
mantenuta mediante infusione di liquidi isotonici (soluzione fisiologica) a temperatura ambiente
(quelli ghiacciati potrebbero lisare i coaguli); nei cirrotici si utilizzino invece albumina e plasma
fresco congelato. Se disponibili, emazie concentrate. Nei cirrotici, anche vitamina K.
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Occlusione intestinale
L’occlusione intestinale (o ileo) è una condizione in cui si verifica l’arresto completo e duraturo del
transito del contenuto intestinale solido, liquido e gassoso; la malattia conduce a morte l’individuo
se non si risolve prontamente o se non viene risolta da un intervento operatorio.
Le cause determinanti possono essere meccaniche o funzionali (dinamiche), per cui distingueremo
un ileo meccanico e un ileo dinamico. L’ileo meccanico può essere dovuto ad ostruzione o a
strangolamento; l’ileo da ostruzione si realizza per interruzione del lume intestinale, l’ileo da
strangolamento si realizza per interruzione anche della vascolarizzazione. L’ileo dinamico è invece
quasi sempre di tipo paralitico.
Per gli amanti degli schemi, ecco qua una bella schematizzazione dei vari “ilei”.
a. Ileo meccanico
- da ostruzione
- intraluminale
- addensamento di meconio
- corpo estraneo
- calcolo biliare (ileo biliare)
- elminti
- fecaloma
- parietale
- congenita (atresia)
- infiammatoria
- tumorale
- extraparietale
- congenita (pinza aorto-mesenterica, pancreas anulare…)
- flogosi croniche retroperitoneali
- briglie aderenziali
- tumori (compr. ab extrinseco)
- da strangolamento
- ernia strozzata
- invaginazione
- volvolo
b. Ileo dinamico
- paralitico
- peritonitico
- funzionale (associato a trauma, colica epatica, renale, neuropatie, intossicazioni…)
- spastico
- intossicazioni
- lesioni nervose centrali o periferiche
- colica biliare o renale
- torsione di cisti ovarica
Nella occlusione intestinale si verificano alterazioni a livello intestinale che hanno ripercussioni
generali sull’organismo.
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A livello intestinale la situazione di occlusione dà luogo ad accumulo di gas; questi gas sono sia
quelli ingeriti dagli alimenti, sia quelli prodotti dal metabolismo alimentare, sia quelli prodotti dai
batteri; all’accumulo di gas si accompagna anche l’accumulo di liquidi, che sono le secrezioni
gastroenteriche.
Tutto ciò causa una progressiva distensione dell’intestino, che fa salire la pressione endoluminale
fino a valori anche notevoli (dai normali 2-4 cm di H2O fino a 20-30 e anche più cm di H2O).
Intervengono a questo punto dei meccanismi compensatori che però non riescono a correggere la
situazione: essi, comunque, sono l’antiperistaltismo (che causa il vomito) e la riduzione del tono
della muscolatura intestinale.
La aumentata pressione intraluminale si trasmette ovviamente a livello della parete, causando stasi
venosa, con edema e trasudazione prima interstiziale e poi endoluminale. Ne consegue un
peggioramento delle condizioni in un inesorabile circolo vizioso. L’assorbimento intestinale si
riduce e proliferano i batteri.
I prodotti tossici prodotti, metabolici e batterici, oltrepassano la barriera intestinale. In casi estremi
si arriva alla formazione di un’area gangrenosa, ma il paziente è già in stato di shock ipovolemico,
se non è già morto prima [non è una battuta; cfr. p. 1328 del “Colombo” di Chirurgia].
Una situazione particolare, con rapida acentuazione delle alterazioni locali idrodinamiche, si ha in
caso di “ansa chiusa”, nella quale si può verificare una “rottura diastasica” dell’intestino, come a
livello cecale, quando in una ostruzione a valle della valvola ileo-cecale di Bahuino, la valvola
stessa è continente.
Tutto ciò, si diceva, ha ripercussioni generali sull’organismo. Infatti il vomito, il ristagno di liquidi
e la riduzione dell’assorbimento intestinale causano perdita di acqua ed elettroliti. La perdita di
elettroliti causa modificazioni umorali variabili a seconda della sede dell’ostacolo e della carenza
relativa di ioni acidi e alcalini. In linea di massima una ostruzione alta, sopravateriana, causa una
alcalosi metabolica con ipoK+emia per perdita prevalente di Cl-, mentre una ostruzione bassa, per
perdita di ioni basici dovuta al ristagno di bile, di succo pancreatico e di succo intestinale, causa una
acidosi metabolica con iperK+emia con perdita prevalente di Na+.
Ma nella casistica clinica molti fattori possono aggravare lo squilibrio umorale e magari invertirne il
senso; ad esempio un succo gastrico iperacido può causare una perdita prevalente di Cl- anche in
occlusioni basse. Per cui è necessario conoscere non solo i vari parametri al primo esame, ma anche
valutarne l’andamento.
Oltre alla perdita di acqua ed elettroliti, altro effetto importante è la perdita di plasma, che causa
deficit proteico; a questa si associa perdita di sangue, che causa un certo grado di anemia. Si
realizza dunque ipovolemia. Altro effetto generale è dato dal riassorbimento dei prodotti tossici,
abbondante a livello peritoneale, che può dare anche peritonite.
Possiamo così capire agevolmente quali sono i sintomi dell’occlusione intestinale.
a. sintomi soggettivi
- dolore; di tipo colico nelle forme meccaniche da ostruzione, continuo e terebrante nelle
forme meccaniche da strangolamento e nelle forme dinamiche;
- vomito; è riflesso, e la sua composizione può dare indizi sulla sede dell’ostruzione;
- chiusura dell’alvo a feci e gas; a volte compare qualche tempo dopo la messa in opera
dell’ostruzione, poiché la parte a valle dell’ostruzione è funzionale e può evacuare eventuali
presenze!
b. esame obiettivo
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distensione dell’addome, con meteorismo; le occlusioni alte danno distensione evidente al
centro dell’addome, le occlusioni distali invece danno distensioni periferiche; le occlusioni
del sigma (il più delle volte da strangolamento) danno una distensione asimmetrica;
tensione della superficie addominale, senza contrattura di difesa, a meno che non ci sia
peritonite; in tal caso ci sono i segni della peritonite;
timpanismo diffuso alla percussione;
borborigmi nelle occlusioni meccaniche, “silenzio sepolcrale” in quelle dinamiche;
ampolla rettale vuota (a volte però si può palpare la causa dell’ostruzione);
condizioni generali variabilmente compromesse
Gli esami di laboratorio sono utili per capire lo stadio della malattia e eventualmente fare diagnosi
di sede (parametri idroelettrolitici); la diagnosi strumentale più utile è quella con Rx, che consente
di vedere i livelli idroaerei e se eventualmente c’è perforazione; a volte si può anche notare la causa
dell’ostruzione. E’ indicato il clisma opaco nelle ostruzioni coliche. L’ecografia è pressoché inutile,
visto il meteorismo.
La terapia medica tende al ripristino delle condizioni generali del paziente, mentre la terapia
chirurgica è demolitiva. Va attuata al più presto possibile.
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Sindrome dell’addome acuto
[Siccome abbiamo già parlato di shock e peritonite, è inutile riparlarne qui]
E’ caratterizzata da intenso dolore addominale e da segni oggettivi che inducono a prospettare
lesioni viscerali minacciose per la vita. Spesso si associano sintomi mediati dal sistema nervoso
neurovegetativo quali nausea, vomito, tachicardia, sudorazione, pallore, e così via.
La maggioranza delle lesioni che provocano queste condizioni sono di competenza chirurgica. Tra
queste, ad es., l’appendicite acuta, l’ulcera peptica perforata, la pancreatite acuta. Si tratta di
condizioni che danno luogo a stati di shock e/o peritonite. In queste condizioni solo un intervento
chirurgico può salvare la vita al paziente.
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Emobilia
E’ una sindrome caratterizzata dalla mescolanza del sangue con la bile. Essa è più frequente di
quanto si creda, poiché la sua manifestazione più frequente (ematemesi o melena) orienta verso
malattie gastrodueodenali o coliche, e non si pensa al fegato e alle vie biliari come causa
dell’emorragia. L’etiologia dell’emobilia può essere di natura:
a. traumatica, di tipo contusivo; è la causa più frequente;
b. infiammatoria, spesso conseguente a colecistite emorragica;
c. vascolare, nel caso di aneurisma dell’arteria epatica o di suoi rami;
d. neoplastica, da tumori sanguinanti nelle vie biliari;
e. iatrogena, per fistole emo-biliari durante vari interventi sul fegato o sulle vie biliari.
I sintomi sono collegati all’entità dell’emobilia. Vi sono forme lievi, che decorrono asintomatiche,
forme di media entità, dove il sanguinamento può formare coaguli e creare ittero o subittero,
ostruendo le vie biliari, e forme gravi, in cui c’è anemia acuta. In queste ultime due forme c’è
dolore in sede ipocondriaca destra, e talora tumefazione in tale sede, ematemesi o melena. La
diagnosi definitiva è effettuata con l’angiografia dell’arteria epatica, ma i vari accorgimenti
diagnostici per le vie biliari possono essere anch’essi utili.
La terapia è orientata a seconda dell’etiologia e della gravità (rimozione della causa, interventi
demolitivi o conservativi).
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Colangiti
Le colangiti, o angiocoliti, sono le infiammazioni delle vie biliari. Sono di pertinenza chirurgica di
forma ostruttiva. I fattori di stasi biliare sono i più vari: calcoli, tumori, stenosi benigne iatrogena,
odditi, pancreatiti, parassitosi…; i germi causali, aerobi e/o anaerobi, sono quelli presenti nelle vie
digestive, e possono giungere:
a. per via ascendente transpapillare;
b. attraverso fistole bilio-digestive;
c. per via portale;
d. per via arteriosa;
e. per via linfatica;
f. dall’esterno (fistole, drenaggi, ferite, manovre accidentali…).
Si descrivono tre quadri acuti:
a. colangite acuta non suppurativa; oltre ai segni aspecifici, che compaiono in tutte le forme di
colangite (deperimento, astenia, inappetenza, nausea), ci sono tre segni evocatori (cosiddetta
triade di Charchot), e che sono: febbre, ittero, dolore in sede epatica;
b. colangite acuta suppurativa; si presenta con una amplificazione della situazione descritta, con
in più un quadro settico, a bile purulenta;
c. colangite acuta suppurativa ostruttiva; si associa a disordini psichici (triade di Charhot +
disordini psichici = Sindrome di Reynolds e Bargan).
I comuni esami di laboratorio documentano lo stato infettivo e la cattiva funzionalità epatica, e
spesso una sofferenza renale. Spesso l’emocoltura è positiva. Dirimenti nella diagnosi sono
l’ecografia (vie biliari dilatate) ma soprattutto la colangiografia, specie percutanea, che peraltro
consente il drenaggio.
La terapia è antibiotica, riequilibrante e deve provvedere alla decompressione delle vie biliari.
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Pancreatite acuta
La pancreatite acuta è una malattia infiammatoria acuta del pancreas esocrino, dovuta ad un
processo di autodigestione del parenchima pancreatico innescato dalla prematura attivazione degli
enzimi prodotti dalle cellule acinose di questo organo, i quali fisiologicamente vengono attivati
soltanto a livello del tenue per opera delle enterochinasi, a contatto con i costituenti fondamentali
della dieta (protidi, lipidi, glucidi).
Clinicamente si manifesta con sintomi locali (soprattutto ai quadranti addominali superiori), con
frequenti ripercussioni su altri organi ed apparati (soprattutto gastroenterico, vie biliari, apparato
respiratorio, cuore e reni) e con alterazioni sistemiche (shock, gravi squilibri metabolici ed
emocoagulativi).
Gli eventi che possono provocare la pancreatite acuta sono veramente numerosi; si riconoscono con
maggiore frequenza i seguenti.
1. Affezioni delle vie biliari. Rappresentano il fattore eziologico più frequente nei paesi
mediterranei, in particolar modo per quanto riguarda la litiasi biliare. A questo proposito si
prospettano due possibili meccanismi d’azione: o il calcolo ostruisce il dotto di Wirsung (che
sbocca in ampolla comunemente al coledoco nel 70% dei soggetti), provocando un ostacolo al
flusso del secreto pancreatico, oppure può accadere che la bile, normalmente a pressione più
alta, refluisca nel Wirsung qualora un calcolo ostruisca lo sfintere di Oddi. È importante
ricordare, poi, che anche una eventuale colecistite può indurre di per sé uno spasmo dello
sfintere con meccanismo riflesso, provocando anche in questo modo un ostacolo al passaggio
della secrezione pancreatica.
2. Abuso di alcool. L’abuso di alcool è molto frequente nell’anamnesi di questi pazienti. L’azione
lesiva di questa sostanza sul pancreas sembra realizzarsi attraverso diverse modalità non ancora
completamente chiarite; in particolari osservazioni sperimentali e cliniche sono state
documentate modificazioni quantitative e qualitative del secreto pancreatico indotte dalla
somministrazione di etanolo, riferibili a meccanismi neurovegetativi (stimolazione vagale) ed
ormonali (aumentata liberazione di gastrina, maggiore sensibilità dei recettori pancreatici alla
secretina ed alla colecistochinina-pancreozimina). Tali effetti prodotti dall’alcool si traducono in
due conseguenze di particolare rilevanza:
- Induzione di maggiore acidità a livello del duodeno e conseguente aumentata
stimolazione alla liberazione di secretina e di colecistochinina-pancreozimina con
produzione di notevoli quantità di secreto pancreatico ricco di bicarbonati ed enzimi.
- Ostacolo al deflusso del secreto pancreatico (e biliare) in seguito a spasmo dello sfintere
di Oddi.
3. Attualmente, rilevante significato patogenetico viene attribuito all’aumentata concentrazione nel
secreto pan-creatico di proteine, conseguente ai processi sopra ricordati, per cui queste sostanze
precipiterebbero all’interno dei dotti con formazione di aggregati (“plugs”) responsabili della
ostruzione delle vie escretrici, dove si dispongono costituendo come dei piccoli “calcoli”. La
deposizione di calcio nella matrice proteica dei plugs può nel tempo condurre alla formazione
delle caratteristiche calcificazioni della pancreatite cronica calcifica (si veda in seguito), la quale
è molto spesso correlata all’etilismo cronico.
4. Per quanto detto sopra, si può affermare che un’abbondante ingestione di alcool è in grado di
provocare un ristagno acuto del secreto pancreatico nei dotti, che possono venire distesi fino alla
rottura permettendo, quindi, la diffusione nel parenchima di sostanze enzimatiche, le quali
attivandosi darebbero origine al processo di autodigestione di questo organo.
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5. Squilibri metabolici. Non raramente si rileva in questi soggetti una condizione di dislipidemia di
I e soprattutto di IV tipo. La ipotesi più suggestiva per spiegare questa associazione è quella
della possibilità da parte della lipasi di ottenere a partire dai trigliceridi, presenti in quantità
superiori alla norma, una maggiore produzione di acidi grassi, responsabili di un’azione tossica
diretta sul parenchima. Fattori favorenti di questa patologia risultano comunque essere anche
altre malattie metaboliche, quali il diabete (coma diabetico iperosmolare), la gravidanza,
l’emocromatosi, la porfiria acuta, l’uremia.
6. Alterazioni endocrine. Sicuramente documentata è l’associazione della pancreatite acuta con
l’iperparatiroidismo e con l’ipercalcemia anche di altra natura, probabilmente dovuta alla
capacità dei calcio-ioni di attivare la tripsina.
7. Cause iatrogene. Casi di pancreatite acuta sono stati descritti in corso di trattamento con
corticosteroidi ad alte dosi, forse a causa di una maggiore viscosità del secreto o di una
maggiore carica enzimatica endocellulare indotte dal farmaco; altri farmaci, però, vengono
chiamati in causa: tiazidi, fenformina, contraccettivi, paracetamolo, azatioprina, sulfasalazina.
Interventi chirurgici sullo stomaco, duodeno e vie biliari (specialmente se interessanti la papilla
di Vater) possono favorire l’insorgenza della pancreatite acuta tramite una lesione traumatica
diretta sulla ghiandola, in particolare sul sistema vascolare e sul sistema escretore. Da ultimo,
ricordiamo che la pancreatite acuta può essere favorita da una metodica diagnostica quale la
pancreatografia endoscopica retrograda, quando il mezzo di contrasto venga iniettato nel
Wirsung sotto controllo endoscopico a pressione troppo elevata, con possibilità di rottura dei
dotti e diffusione nel parenchima.
8. Forme infettive. Per lo più risultano essere complicanze di altre affezioni pancreatiche; tuttavia,
anche se raramente, possono rappresentare un evento primitivo, in particolar modo in corso di
parotite, epatite acuta, mononucleosi, scarlattina, tifo, infezioni da Coxsackie, da stafilococchi e
streptococchi.
9. Forme associate ad altre patologie. Esistono numerose altre affezioni che si associano alla
pancreatite acuta, con il ruolo di condizioni predisponenti o come fattori scatenanti: traumi
addominali, affezioni cardio-circolatorie (scompenso cardiaco congestizio, infarto del
miocardio, insufficienza vascolare celiaco-mesenterica, aortite e aneurisma dell’aorta
addominale), intossicazioni (saturnismo), malattie gastroenteriche (ulcera gastrica e duodenale,
gastroresezione, colite ulcerosa), affezioni renali (glomerulonefrite acuta e cronica).
10. Pancreatite idiopatica. La sua eziologia è del tutto sconosciuta. Rappresenta circa il 40% dei casi
e si presenta praticamente sempre in forma clinicamente molto grave.
La pancreatite acuta è fondamentalmente un fenomeno di autodigestione di questo organo,
determinato dall’attivazione intrapancreatica degli enzimi prodotti dalle cellule acinose, enzimi che
fisiologicamente vengono attivati soltanto a livello duodenale per opera delle enterochinasi.
Intervengono in questo evento meccanismi diversi e non ancora completamente chiariti.
Abbiamo già visto come sia importante il ristagno del secreto pancreatico a cui può conseguire la
rottura dei canalicoli e quindi l’invasione dell’interstizio da parte delle sostanze enzimatiche. Un
altro elemento che gioca sicuramente un ruolo fondamentale è il deficit del sistema fisiologico degli
inibitori triptici, deficit che si può realizzare o per una carenza da iperconsumo, come reazione ad
una massiccia attivazione enzimatica, o per un loro insufficiente apporto come conseguenza di
alterata sintesi o anche di turbe vascolari distrettuali.
L’associazione con patologie delle vie biliari viene spiegata anche dall’effetto detergente che la bile
e gli acidi biliari refluiti nei dotti pancreatici possono esercitare sulle cellule acinose, provocandone
una necrosi coagulativa, e dall’attivazione contemporanea della fosfolipasi A e formazione di
lisolecitina a partire dalla lecitina, con le conseguenze che vedremo in seguito.
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L’evento primitivo è nella maggior parte dei casi dovuto all’attivazione del tripsinogeno a tripsina,
la quale, tuttavia, ha nel processo di autodigestione che si svolge nel pancreas un ruolo solo in parte
diretto, svolgendo la sua azione proteolitica non tanto sulle proteine delle strutture pancreatiche,
quanto piuttosto su tutti gli altri proenzimi che, attivandosi in questo modo, diverrebbero i veri
responsabili delle alterazioni organiche sia locali che sistemiche. Infatti vere e proprie “colate”
possono riversarsi nella cavità peritoneale, con coinvolgimento di parecchi organi; e ancora, ingenti
quantità di sostanze attive possono riversarsi nel sangue, coinvolgendo quindi tutto l’organismo con
gravi conseguenze di carattere generale.
Le fosfolipasi, per esempio, agiscono inducendo la formazione di lisofosfolipidi (lisolecitina,
lisocefalina) che, venendo incorporate nelle strutture membranose, delle cellule ne provocano la
morte. All’azione dell’elastasi vengono attribuite in gran parte le alterazioni della parete vascolare
responsabili parzialmente degli eventi emorragici che spesso si verificano nel pancreas colpito da
questa malattia. La lipasi, la cui penetrazione nelle cellule adipose del tessuto intra e peripancreatico
è favorita dall’azione detergente dei sali biliari eventualmente refluiti nel pancreas per via duttale,
provoca una steatonecrosi, di solito particolarmente rilevante nei soggetti obesi.
Da tutti questi fenomeni consegue l’aspetto quanto mai variegato del pancreas la cui struttura
anatomica è alterata più o meno diffusamente da zone di necrosi cellulare, di steatonecrosi, di
colliquazione con formazione di pseudocisti, di edema, di emorragia, di suppurazione secondaria,
variamente presenti.
L’azione della tripsina può inoltre innescare altri importanti eventi legati all’attivazione di due
sistemi “a catena”: prima di tutto il sistema dei peptidi vasoattivi, quali bradichinina, callicreina,
callidina, che inducono vasodilatazione e aumento della permeabilità vasale con conseguente
ipovolemia; in secondo luogo si possono verificare notevoli alterazioni dell’equilibrio nel-l’ambito
del sistema emocoagulativo, sia in senso fibrinolitico, sia in senso procoagulante (per attivazione
della protrombina), potendosi instaurare, in questo modo, anche un quadro di coagulopatia
intravascolare disseminata (DIC), con possibilità di gravi emorragie.
Per tutti questi motivi si realizza frequentemente uno stato di shock e a questo proposito importante
sembrerebbe anche la liberazione da parte del pancreas di un fattore detto Myocardial Depressant
Factor (MDF), dotato di azione inotropa negativa sul miocardio; tale fattore verrebbe liberato in
circolo non soltanto in corso di pancreatite acuta, ma anche in seguito ad altri eventi capaci di
indurre una ipossia e acidosi tissutale del pancreas, come si verifica d’altra parte in condizioni di
shock anche di altra natura.
Si verificano quindi numerosi fenomeni strettamente concatenati tra di loro, che rendono la
pancreatite acuta un evento caratterizzato da un decorso veramente imprevedibile, capace di
precipitare da un momento all’altro.
Il quadro anatomopatologico è caratterizzato da variabile associazione di edema, emorragie
intraparenchimali e necrosi. Nella pancreatite acuta edematosa, la ghiandola appare aumentata di
volume, con diffusa congestione capillare ed imbibizione sierosa nell’interstizio. Con il progredire
dei processi di autodigestione, si manifestano nell’ambito del parenchima fenomeni necrotici di
variabile entità cui si associano spesso manifestazioni emorragiche. La presenza di importanti
fenomeni necrotici ed emorragici determina un notevole sovvertimento delle caratteristiche
morfologiche e strutturali di questo organo, in cui la normale architettura lobulare diviene non più
riconoscibile.
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Nella sua manifestazione più caratteristica, la pancreatite acuta colpisce di preferenza soggetti
attorno ai 50 anni, buoni mangiatori e buoni bevitori. La sintomatologia si manifesta in modo
improvviso, insorgendo dopo 12-24 h da un pasto copioso, ricco di grassi e di bevande alcoliche.
Sintomo fondamentale è il dolore, sempre importante, violento, descritto dal paziente come atroce,
trafittivo, resistente ai comuni antinfiammatori e analgesici. Raggiunge l’acme in pochi minuti, a
volte in ore, resta poi grave e costante, diminuendo gradualmente nel corso dei giorni o delle
settimane seguenti, comunque mai prima di 48 h dal suo esordio. Si può accentuare col movimento
e con la respirazione, trovando soltanto un po’ di sollievo dalla posizione seduta a busto piegato in
avanti. Esordisce in epigastrio con una distribuzione “a sbarra”, portandosi verso l’ipocondrio di
destra, più raramente verso l’ipocondrio di sinistra; l’irradiazione più frequente è posteriore a livello
della regione dorso-lombare. Spesso è presente vomito importante che, a differenza di quello di
origine gastrica, non apporta sollievo, neppure momentaneo, al dolore e anzi talvolta lo aggrava.
Nel corso dei primi giorni si sviluppa febbre attorno ai 38-39 °C. Il paziente si presenta con aspetto
sofferente, può osservarsi ittero, presente nel 30% dei casi, che può essere dovuto a litiasi biliare
oppure a compressione del coledoco per edema della testa del pancreas o per la presenza di
pseudocisti. La pressione arteriosa tende a diminuire, fino a verificarsi un vero e proprio stato di
shock, con i caratteristici segni: polso piccolo e frequente, talora aritmico, marcata ipotensione, cute
fredda, oliguria, segni di ipossia cerebrale. Nonostante la gravità della sintomatologia dolorosa,
all’esame dell’addome solo nel 30% dei pazienti si presenta reazione di difesa e la contrattura
muscolare tipica di altre condizioni di addome acuto. È presente frequentemente meteorismo, in
particolar modo in epigastrio e agli ipocondri; pressoché costante è il verificarsi di ileo paralitico.
Dopo 1-2 giorni possono comparire delle leggere ecchimosi ai fianchi (segno di Grey-Turner) o in
zona periombelicale (segno di Cullen), segni tipici anche se non costanti. Talora è presente ascite,
più frequentemente un versamento pleurico basilare sinistro o tromboflebiti agli arti inferiori.
L’evoluzione della pancreatite acuta è estremamente variabile, dipendendo da diversi fattori:
dall’entità del quadro clinico, dall’elemento eziologico, dalla insorgenza di complicanze. Infatti
abbiamo già visto come estremamente probabile possa essere la evenienza di uno stato di shock; a
questo si aggiunge la possibilità che si inneschi una coagulopatia intravascolare disseminata, con il
grave rischio di fenomeni emorragici o anche di fenomeni trombotici a livello dei vari organi,
specialmente a carico del rene e del sistema nervoso centrale. Complicanza temibile è poi la
insufficienza respiratoria acuta, dovuta ad una alterazione diretta del surfattante da parte delle
fosfolipasi pancreatiche presenti nel sangue ed a invasione degli alveoli da parte di liquidi, proteine
plasmatiche, sotto l’influenza di peptidi vasoattivi capaci di alterare la permeabilità vascolare. Si
verifica così la formazione di “pseudomembrane ialine”, formate da proteine plasmatiche e
frammenti di materiale tensioattivo, ricalcando la condizione che si verifica nella malattia delle
membrane ialine del neonato; si parla in questo caso di sindrome da distress respiratorio acuto
(ARDS).
Allorché il quadro clinico si manifesta in modo caratteristico, la diagnosi non presenta in genere
grosse difficoltà. Esistono comunque numerosi casi in cui la sintomatologia, i dati anamnestici e la
obiettività possono orientare verso una diagnosi di “addome acuto” di altra origine.
I dati di laboratorio di maggiore importanza diagnostica sono indicati di seguito.
- Amilasemia: è il test diagnostico di maggiore rilevanza, in particolar modo quando si hanno
valori molto elevati; l’amilasemia solitamente raggiunge il picco massimo entro 24 h e ritorna
normale entro 3-4 giorni (valore normale con metodo uromogenico: 70-300 UI/l).
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Amilasuria: la valutazione dell’enzima sulle urine raccolte almeno in 2 ore, meglio nell’arco
delle 24 ore, spesso risulta elevata anche se l’amilasemia è normale (valore normale con metodo
uromogenico:< 2000 UI/l).
Elevati risultano anche i valori degli enzimi endocellulari, transaminasi e latticodeidrogenasi,
tanto più quanto più estesa è la necrosi cellulare. Aumenta anche la concentrazione della lipasi e
solitamente questo valore resta alterato più a lungo rispetto a quello dell’amilasemia. Qualora
sia presente colestasi, si osserverà anche elevazione di bilirubina, glutamil-transpeptidasi e
fosfatasi alcalina.
Pressoché costanti sono la leucocitosi neutrofila e l’elevazione della velocità di sedimentazione
e della PCR.
Si può avere iperglicemia e ipertrigliceridemia: se il siero è lattescente, la amilasemia può
essere falsamente ridotta a valori normali per effetto di un inibitore specifico.
La calcemia, inizialmente elevata, può abbassarsi in 36-48 h poiché il calcio interstiziale forma
dei sali con gli acidi grassi liberati nel tessuto pancreatico e peripancreatico.
Il riscontro associato di iperamilasemia, iperglicemia e ipocalcemia è fortemente suggestivo per una
pancreatite acuta.
Ricordiamo inoltre le modificazioni dell’ematocrito, che può aumentare in caso di fenomeni
essudativi in peritoneo, per un fenomeno di emoconcentrazione, ma che più comunemente subisce
una diminuzione: una riduzione maggiore del 10% nei primi 2 giorni o una diminuzione continua
suggerisce la presenza di una importante componente emorragica. Importante è poi il controllo dei
valori della potassiemia, che tendono ad aumentare in relazione alla necrosi cellulare, a meno che
non prevalga una deplezione dovuta all’importante vomito frequentemente presente.
Alterati possono risultare i parametri della funzionalità renale, come conseguenza dello stato di
shock.
Per quanto riguarda le indagini strumentali, prima di tutto deve essere eseguita una radiografia a
vuoto dell’addome sia in clino che in ortostatismo, evitando in fase acuta l’uso di mezzi baritati,
anche a causa della presenza di ileo paralitico; talvolta si possono vedere delle calcificazioni in
corrispondenza dell’area pancreatica, segno però di una pregressa infiammazione; oppure è
possibile evidenziare calcoli radiopachi o l’aspetto ambrato di un ascesso. Può essere presente un
ileo paralitico localizzato nel quadrante superiore di sinistra o in quello centrale dell’addome (segno
dell’“ansa sentinella”); ma soprattutto la radiografia dell’addome in bianco è importante per
escludere altre cause di addome acuto (perforazione di un viscere, occlusione intestinale acuta,
ecc.). Anche la tomografia assiale computerizzata e l’ecografia possono essere utili dal punto di
vista diagnostico evidenziando l’aumento delle dimensioni del pancreas e la disomogeneità della
sua struttura, in rapporto allo stato di edema e alla presenza di manifestazioni necrotiche ed
emorragiche che caratterizzano questo organo in presenza di pancreatite acuta.
Altre indagini strumentali per lo studio del pancreas possono essere eseguite soltanto quando sia
stata superata la fase acuta della malattia. Qualora la diagnosi non sia certa e sia presente un quadro
di addome acuto, è comunque giustificato ricorrere alla laparotomia esplorativa.
La prognosi delle forme emorragiche è molto grave, specialmente per quelle postoperatorie; la
mortalità può superare il 50% dei casi. Nelle forme lievemente edematose la mortalità è nettamente
inferiore, meno del 10%, tenendo presente che in questo caso esiste la possibilità di forme che
rimangono non diagnosticate per la loro scarsa rilevanza clinica.
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La diagnosi ed il trattamento sono comunque sempre di estrema urgenza, soprattutto nelle forme
clinicamente evidenti, in relazione al carattere di gravità e di estrema imprevedibilità delle
complicanze, come già ricordato. La pancreatite acuta può risolversi come episodio unico e isolato;
se alla base della patologia vi è la litiasi biliare, è possibile un’evoluzione verso forme ricorrenti,
qualora non venga eliminata la causa; se l’agente responsabile è l’alcool, frequentemente si andrà
incontro ad una forma cronica.
Al trattamento medico, sempre necessario e che deve essere guidato da un monitoraggio completo e
continuo delle condizioni generali del paziente, talvolta può associarsi la necessità di un trattamento
di tipo chirurgico.
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Bibliografia
1. Colombo, Trattato di Chirurgia, (p) 1999;
2. Appunti vari5
3. Rugarli, Medicina Interna Sistematica6, (p) 2000
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6
Solo per le emorragie gastroenteriche massive
Solo per la pancreatite acuta
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