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CAPITOLO 31
L’integrazione europea
Obiettivi di apprendimento
Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:
• Valutare le conseguenze del Mercato Unico Europeo
• Esaminare i motivi per cui molti Paesi dell’Unione Europea
hanno deciso di formare un’unione monetaria
• Comprendere il funzionamento delle macroeconomie dei
Paesi che hanno aderito all’euro
• Analizzare il processo di transizione delle economie
dell’Europa centrale e orientale
L’economia europea del nuovo millennio appare assai diversa da quella di trent’anni fa. Alcuni di questi cambiamenti sono stati di natura politica. Altri, invece, sono stati di natura economica e, attraverso gli
strumenti concettuali dell’economia – già acquisiti in
questo libro –, è possibile svolgere alcune riflessioni
proprio su questi ultimi cambiamenti. In questo capitolo si intende analizzare quanto è finora accaduto
e quanto è possibile che accada in futuro.
Sono tre gli argomenti principali che verranno affrontati. In primo luogo, l’Atto Unico Europeo del 1986
ha previsto per i membri della Comunità Europea un
unico mercato per beni, servizi e attività finanziarie a
partire dal 31 dicembre 1992. Quali cambiamenti ha
comportato il Mercato Unico? In secondo luogo, per
undici Paesi l’Unione Monetaria Europea (UME) è iniziata nel gennaio del 1999 e a oggi (2007) sono già
tredici. Perché è nata l’Unione Monetaria e quali novità comporterà? Il terzo argomento sarà la valutazione
dei progressi delle economie europee centrali e orientali nella loro transizione da economie centralizzate
ex comuniste a economie di mercato. Molti di questi
Paesi sono entrati da pochi anni nell’Unione Europea
e altri si stanno preparando a farlo.
31.1 Il Mercato Unico
La Comunità Economica Europea (CEE) fu fondata
nel 1957 da sei Paesi. I suoi obiettivi principali ri-
guardavano la creazione di un’area di libero scambio all’interno della Comunità e la realizzazione di
ampi programmi comunitari finanziati da (piccoli)
contributi provenienti dagli Stati membri. Il programma più ampio riguardava la Politica Agricola
Comunitaria (PAC), un meccanismo di sostegno ai
prezzi dei prodotti agricoli che, in alcuni casi, ha
condotto a problemi di sovrapproduzione e alla costituzione dei Fondi Strutturali, destinati a procurare sussidi per le infrastrutture sociali, da impiegare soprattutto per le aree meno ricche della
Comunità.
Nei successivi cinquant’anni, la Comunità si è ampliata. Agli originari sei membri – Repubblica Federale
Tedesca, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo
– si sono aggiunti Danimarca, Irlanda e Regno Unito
negli anni Settanta, Spagna, Portogallo e Grecia negli anni Ottanta e Austria, Finlandia e Svezia negli
anni Novanta. La Comunità Economica Europea, divenuta con il Trattato di Maastricht “Unione Europea”
(UE), è stata protagonista nel 2004 del più grande
allargamento della sua storia, con l’ingresso di molti
Paesi dell’Europa centrale e orientale. Oggi (2007)
l’Unione Europea raccoglie 27 Paesi.
L’allargamento dell’Unione Europea a nuovi Stati
non comportò, inizialmente, alcun cambiamento nella
sua struttura fondamentale. I Paesi membri continuarono a realizzare individualmente le loro politiche nazionali. Coloro che più credevano nel progetto di un’unione allargata di Paesi europei hanno
sempre spinto per un’integrazione più stretta, auspicando l’adozione di standard industriali o di simili aliquote fiscali tra i Paesi. Tutto questo non sempre si è realizzato e principalmente per due ragioni.
Innanzitutto, risultava assai difficile superare l’individualismo di ciascuno Stato e riuscire a individuare
un unico corpo di norme che potesse essere applicato a tutti gli Stati membri. Inoltre, si poneva una
delicata questione politica: nessuno Stato era realmente disposto a rinunciare alle proprie politiche e
procedure per adottare quelle di qualcun altro.
Alla metà degli anni Ottanta ci fu un progresso
decisivo. Invece di cercare un accordo su un’unica
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548 Parte 5 • L’economia mondiale
piattaforma di norme onnicomprensive, elaborate
a Bruxelles e poi rigidamente imposte a tutti gli Stati
membri, la logica della concorrenza condusse a un
approccio differente. Gli Stati membri giunsero a
un accordo su alcuni principi generali per l’armonizzazione delle proprie politiche. Ciascun Paese
rimaneva, però, responsabile di decidere le modalità da adottare per poi realizzare le singole politiche concordate. Inoltre, ciascun Paese riconosceva
la validità delle normative adottate negli altri Stati
membri.
Un esempio può essere il seguente, che si riferisce al settore bancario. Ogni Paese ha una propria normativa che stabilisce quali siano gli enti che
possono essere registrati come banche o compagnie assicurative e quali formalità debbano essere
adempiute a tal fine. In precedenza, le differenze
nelle legislazioni nazionali erano così marcate che
una banca registrata come tale nel Regno Unito,
sotto la legge inglese, non si conformava alle condizioni imposte alle banche in Francia, Germania o
Italia. In tal modo, però, per le banche di uno Stato
era quasi impossibile riuscire a competere in altri
Paesi. I singoli mercati nazionali risultavano, pertanto, separati l’uno dall’altro. Dal momento che
l’attività bancaria presenta economie di scala, su
ciascun ridotto mercato nazionale c’erano solo poche banche che godevano di un significativo potere di mercato.
Secondo il nuovo approccio, gli Stati membri si
sono accordati su alcuni principi generali riguardanti la disciplina delle banche, per esempio, la misura minima della congruità del capitale (l’ammontare della copertura finanziaria necessaria per
garantire particolari tipi di attività rischiose), dei
controlli esterni (per verificare la correttezza dell’attività dei dirigenti) e così via. In seguito, le singole competenti autorità nazionali hanno deciso
come applicare questi criteri generali per autorizzare le banche estere a operare al proprio interno.
In tal modo, alla fine si è giunti al risultato decisivo
che una banca registrata in Germania, sotto la legge
tedesca, potesse essere autorizzata a operare in tutta
l’Unione Europea.
Questo nuovo approccio ha consentito di conseguire due vantaggi. In primo luogo, ha fornito
una modalità politicamente corretta di avviarsi verso
l’integrazione europea. I singoli Governi, infatti,
non avevano più la sensazione di cedere tutto il
controllo politico. In secondo luogo, ha stimolato
maggiormente la concorrenza. Invece di stabilire
modalità di regolamentazione uniche e valide per
tutti, i diversi Paesi adottano meccanismi differenti
per l’applicazione dei singoli principi generali, lasciando poi che sia il mercato a stabilire quali di
essi risulti il migliore.
Gli Stati che hanno adottato strutture di norme
ben formulate e flessibili hanno riscontrato che le
loro imprese sono riuscite a ritagliarsi una fetta di
mercato più ampia nel commercio dell’Unione
Europea. I Paesi, invece, con sistemi di norme meno
favorevoli (che potrebbero essere quelli che richiedono troppe formalità, ma altresì quelli che ne richiedono troppo poche: gli affari sono, infatti, nemici dell’anarchia e della mancanza di chiarezza legislativa) hanno finito per perdere quote di mercato.
In questo modo, si è instaurata una certa concorrenza anche tra le diverse forme di regolamentazione adottate.
Una volta che le trattative si sono mosse su queste nuove basi, i progressi si sono fatti vedere rapidamente. Gli Stati membri della Comunità Europea
hanno ratificato l’Atto Unico Europeo, fissando come
termine il 1992 per portare a compimento il mercato
unico europeo tramite l’armonizzazione delle normative dei mercati nazionali. Tra i suoi principali obiettivi c’erano: a) l’abolizione di tutti i controlli valutari
sui flussi di capitale; b) la rimozione di tutte le barriere non tariffarie al commercio nell’UE (in particolare, le differenze nella legislazione sui marchi di commercio, sui brevetti e sulla normativa della sicurezza,
che contribuiscono alla segmentazione dei mercati
nazionali); c) l’eliminazione di atteggiamenti protezionistici nel settore pubblico (per esempio, la difesa
pubblica) per favorire i produttori interni; d) la rimozione dei controlli doganali, a eccezione di quelli riguardanti ragioni di sicurezza e di salute pubblica; e)
la progressiva armonizzazione delle aliquote fiscali.
Un mercato unico non è diviso da normative, tasse e
pratiche informali nazionali.
Sebbene molti progressi siano stati fatti, la realizzazione di un Mercato Unico in Europa non è ancora completa, soprattutto per quanto riguarda l’armonizzazione delle aliquote fiscali o gli atteggiamenti
protezionistici verso i settori industriali nazionali.
31.2 I benefici del Mercato Unico
La Tabella 31.1 mostra che la realizzazione del
Mercato Unico ha portato alla creazione di un’area
economica addirittura più grande di quella degli Stati
Uniti o del Giappone. I potenziali benefici per gli
Stati membri possono essere ricondotti a tre principali categorie: una più efficiente allocazione delle ri-
Tabella 31.1 Le dimensioni del Mercato Unico, anno 2007
UE
Popolazione (in milioni)
USA
Giappone
493
302
127
PIL nominale (in miliardi di dollari) 15 849
13 244
4911
Fonte: stime del Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database,
aprile 2007.
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Capitolo 31 • L’integrazione europea 549
sorse, un maggior sfruttamento delle economie di
scala e ulteriori vantaggi derivanti dall’aumentata concorrenza.
Nel Capitolo 30 è stato spiegato come il commercio internazionale consenta a ciascun Paese di
specializzarsi maggiormente nella produzione di beni
che riesce a produrre in modo relativamente più economico. Sebbene la Comunità Europea abbia per
molti anni operato come un’area di libero scambio,
senza tariffe doganali sugli scambi tra gli Stati membri, tuttavia nel tempo continuavano a permanere
barriere non tariffarie che contribuivano a mantenere
divisi i mercati nazionali.
Le barriere non tariffarie sono differenze nelle normative o nelle pratiche interne ai singoli Paesi che
ostacolano la libera circolazione di beni, servizi e fattori produttivi tra i diversi Paesi.
La costituzione del Mercato Unico ha, quindi, cercato di portare all’abolizione delle barriere non tariffarie e di consentire ai singoli Paesi di sfruttare pienamente i propri reali vantaggi comparati.
Una seconda inefficienza, che si realizza quando
i mercati nazionali sono piccoli e divisi, è relativa
al fatto che le imprese potrebbero non essere in
grado di sfruttare pienamente le economie di scala.
Man mano che le barriere sono state abolite, le
aziende sono diventate più grandi e, in quei settori
in cui esistevano economie di scala, i costi sono diminuiti. Il commercio internazionale tra medesimi
settori produttivi è aumentato, e non solo il commercio di beni ma anche di servizi, come per esempio i servizi bancari.
In terzo luogo, il mercato unico ha determinato
una più intensa concorrenza per almeno due diverse
ragioni. Innanzitutto, la concorrenza tra le diverse forme di regolamentazione ha portato, in media, ad abbassare il livello di regolamentazione. In molti Paesi,
l’armonizzazione delle normative ha operato in direzione di una sostanziale deregolamentazione, partendo da alti livelli iniziali. Inoltre, la possibilità di
disporre di un mercato più ampio ha messo le singole imprese in condizione di sfruttare le economie
di scala anche senza dovere necessariamente ricoprire una quota di mercato così ampia come sarebbe
stato necessario in un’economia piccola e segmentata.
Quantificare i guadagni
È possibile quantificare i guadagni derivanti dall’essere Paesi membri dell’Unione Europea? La Tabella
32.2 mostra le stime del professor Alasdair Smith (della
Sussex University) e di due suoi colleghi. L’aumento
del benessere è stato misurato attraverso l’aumento
del consumo disponibile, dovuto ai miglioramenti
permanenti intervenuti dal lato dell’offerta che hanno
portato a un aumento del prodotto potenziale. In ogni
caso, è evidente che i risultati finali, per ogni Paese,
Tabella 31.2 I guadagni del Mercato Unico (consumo
aggiuntivo, come % del PIL iniziale)
2-3
Francia, Germania, Italia, Regno Unito
2-5
Danimarca
3-4
Olanda, Spagna
4-5
Belgio, Lussemburgo
4-10
Irlanda
5-16
Grecia
19-20 Portogallo
Fonte: C. Allen et al., “The Competition Effects of the Single Market in Europe”,
Economic Policy, 1998.
dipendono dalle ipotesi di partenza. Per esempio,
non è affatto chiaro se si dovesse già effettivamente
postulare il raggiungimento di un Mercato Unico al
momento in cui la ricerca è stata compiuta.
In generale, i Paesi più piccoli hanno conseguito
benefici maggiori dei Paesi più grandi, ma è indubbio che i guadagni riflettono altresì la tipologia di
beni che vengono scambiati dai diversi Paesi. I guadagni maggiori sono associati alla liberalizzazione di
attività precedentemente protette. Inoltre, è anche
aumentato il commercio estero con i Paesi extra UE.
La paura di una “fortezza Europa”, ovvero di un
gruppo di Stati chiusi verso Paesi terzi e protezionistici al loro interno, si è rivelata infondata.
Queste stime tengono conto di un solo aggiustamento al livello del prodotto potenziale, ma non di
tutti gli effetti permanenti della crescita. I modelli di
crescita endogena, discussi nel Capitolo 28, ammetterebbero anche un altro aggiustamento. Il professor
Richard Baldwin dell’Università di Ginevra ha sostenuto che un aumento del prodotto potenziale causerebbe un aumento del risparmio, dell’investimento
e anche del prodotto stesso, che potrebbe far aumentare ulteriormente le stime della Tabella 32.2.1
31.3 Dal Sistema Monetario Europeo
(SME) all’Unione Monetaria
Europea (UME)
Dal 1988 le limitazioni e i controlli sui movimenti
di capitale sono stati progressivamente aboliti, come
parte integrante del programma del Mercato Unico.
I responsabili politici si erano resi conto del rischio
che gli speculatori attaccassero i tassi di cambio
amministrati con il meccanismo del serpente monetario. Una possibile soluzione era, quindi, quella
di completare al più presto il sistema dei cambi
fissi.
1
Si veda R. Baldwin, “The Growth Effects of 1992”, Economic Policy, 1990.
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550 Parte 5 • L’economia mondiale
Un’unione monetaria è caratterizzata da tassi di cambio fissati in modo permanente all’interno dell’Unione,
da un mercato finanziario integrato e da un’unica
banca centrale che stabilisca il tasso di interesse per
l’intera Unione.
Un’unione monetaria non deve necessariamente
avere una singola valuta. Per esempio, le valute inglese e scozzese circolano una accanto all’altra. Ciò
che importa è che il tasso di cambio sia certo e che
una sola autorità (la Banca d’Inghilterra) stabilisca il
livello del tasso di interesse per entrambe.
Nel 1988, i capi di Stato europei costituirono la
Commissione Delors, con il compito di elaborare un
progetto per giungere all’Unione Monetaria Europea.
È interessante notare che alla Commissione non fu chiesta una valutazione sull’opportunità di istituire l’Unione
Monetaria. I piccoli, altamente integrati, sistemi economici europei dovevano evitare forti oscillazioni dei
tassi di cambio. Avendo eliminato i controlli sulla circolazione dei capitali, non c’era alcuna garanzia che il
serpente monetario avrebbe potuto evitare movimenti
speculativi su singole valute. A ogni modo, dato che i
Paesi membri dello SME avevano già rinunciato alla sovranità della loro politica monetaria lasciando fissare
alla Germania il tasso di interesse valido per tutti i Paesi
dello SME, una ratifica formale dell’Unione Monetaria
non sembrò un così grande passo in avanti.
Le raccomandazioni della Commissione Delors
divennero successivamente la base del Trattato di
Maastricht del 1992. Il progetto dell’Unione Monetaria
Europea doveva essere realizzato attraverso tre fasi
successive. Nella fase I, iniziata nel 1990, furono aboliti i residui controlli sui movimenti di capitale e si
cercò di spingere il Regno Unito ad aderire al meccanismo di cambio (il “serpente monetario” o ERM,
Exchange Rate Mechanism) di cui si è trattato nel
precedente capitolo. Il Regno Unito aderì nell’autunno 1990. In questa fase, i riallineamenti all’interno
dell’ERM, pur non vietati, non venivano certamente
incoraggiati. Nella fase II, avviata nel gennaio del
1994, venne creato l’Istituto Monetario Europeo con
il compito di predisporre una piattaforma di base per
l’Unione Monetaria; i riallineamenti venivano scoraggiati in maniera più incisiva e si scoraggiavano,
altresì, i deficit di bilancio, sebbene non fossero ancora proibiti.
La fase III, in cui furono fissati in modo irrevocabile i tassi di cambio e la politica monetaria unica per
tutti i Paesi dell’Unione, sarebbe dovuta iniziare nel
1997, a patto che i Paesi potenziali entranti fossero
in grado di soddisfare i cosiddetti “criteri di convergenza di Maastricht”. La fine di questa fase fu di poco
posticipata. Indipendentemente dal numero di Paesi
in grado di soddisfare i criteri di Maastricht, la partenza dell’Unione Monetaria fu comunque fissata nel
gennaio del 1999. La politica monetaria dell’Unione
Monetaria fu da allora affidata a una banca centrale
indipendente, la Banca Centrale Europea, il cui obiet-
tivo primario – come già sottolineato nel capitolo sulla
politica monetaria – è la stabilità dei prezzi.
Quali erano i criteri di convergenza di Maastricht
e che cosa si proponevano?
I criteri di convergenza di Maastricht per potere aderire all’Unione Monetaria Europea richiedevano che
ciascun Paese dovesse già aver raggiunto, al suo interno, una bassa inflazione, bassi tassi di interesse e
una solida politica fiscale.
Vi erano due ordini di criteri, uno per la politica
monetaria e le variabili nominali e uno per la politica fiscale. In particolare, i criteri monetari imponevano che ciascun Paese, per aderire all’Unione
Monetaria, godesse al suo interno di:
– un basso livello di inflazione (massimo di 1,5
punti percentuali superiore alla media dei tre Paesi
più virtuosi);
– un basso tasso di interesse nominale (massimo
di 2 punti percentuali superiore alla media dei
tre Paesi più virtuosi);
– un tasso di cambio che si fosse mantenuto, nei
due anni precedenti l’ammissione, all’interno delle
normali bande di oscillazione dell’ERM, senza
avere svalutato la propria parità centrale.
Quest’ultimo requisito è stato appositamente inserito al fine di prevenire svalutazioni competitive o riallineamenti dell’ultimo minuto.
I criteri fiscali stabilivano:
– limiti all’ampiezza del deficit pubblico, che doveva essere inferiore al 3% del PIL;
– un rapporto debito/PIL che non doveva superare
il 60%.
Imporre una politica fiscale restrittiva portava
come automatica conseguenza una pressione minima sulle singole banche centrali nell’andare incontro alle esigenze di liquidità dei singoli Governi.
Molti economisti hanno rilevato come i criteri imposti dal Trattato fossero eccessivamente prudenti. Si
è detto, infatti, che una banca centrale indipendente
con uno statuto rigoroso costituisse già una condizione di per sé adeguata a garantire una bassa inflazione: sembrava dunque eccessivo vincolare entro limiti così ristretti gli spazi della politica fiscale. Dal momento che i Governi non avrebbero più potuto manovrare i tassi di interesse nazionali e i tassi di cambio per affrontare le situazioni, magari turbolente, interne, sembrava corretto lasciare loro almeno la piena
discrezionalità nell’utilizzo dello strumento fiscale.
Il Trattato di Maastricht fu il risultato di un bilanciamento di forze. A quell’epoca, la Germania era il
Paese più forte all’interno dello SME: nel tempo aveva
guadagnato la sua posizione attraverso politiche pubbliche che miravano più al controllo dell’inflazione
che non della disoccupazione. La Germania voleva
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Capitolo 31 • L’integrazione europea 551
essere ragionevolmente sicura di far parte di una
Unione Monetaria forte e stabile, dove tutti i Paesi
avrebbero avuto ugualmente a cuore lo stato delle
loro finanze e avrebbero privilegiato di meno politiche demagogiche (quali promesse di un ipotetico
controllo della disoccupazione). Si doveva, appunto,
fare in modo che l’Unione Monetaria rappresentasse,
a sua volta, una garanzia per la Germania e per i Paesi
economicamente più solidi. I criteri di Maastricht furono dunque il compromesso raggiunto per dare le
basi a una Unione Monetaria più omogenea possibile tra i diversi Paesi membri.
mia tedesca. Per realizzare questo obiettivo, in
Germania i tassi di interesse vennero aumentati fino
a un livello considerato eccessivo dai partner dello
SME. Tutto questo contribuì a innescare la crisi del
1992-1993. Il Regno Unito e l’Italia furono costretti ad
abbandonare l’ERM, deprezzando le loro valute. Altri
Paesi invece riuscirono a rimanere all’interno dell’ERM,
sebbene molti abbiano dovuto svalutare le loro monete (si veda la Tabella 31.4). La riunificazione della
Germania fu il più grande shock economico relativo
a un solo Paese nell’Europa del dopoguerra. In ogni
caso, la Banca Centrale Europea, per statuto, non può
reagire tenendo conto delle esigenze di un solo Paese, dovendo, invece, curare gli interesse dell’intera
Unione. I Paesi che erano stati costretti a uscire dal
meccanismo dei tassi di cambio avevano comunque
registrato una perdita della credibilità internazionale.
Durante gli anni 1996-1998, i Paesi dell’UE si impegnarono per portare i loro deficit di bilancio al di
sotto del limite del 3% fissato dal Trattato di Maastricht
per essere ammessi nell’Unione Monetaria. L’Europa
continentale intraprese così politiche fiscali assai restrittive. In Italia, come manovra dell’ultimo minuto,
fu istituita una tassa chiamata “tassa per l’Europa”
proprio per portare il rapporto deficit/PIL al di sotto
della soglia del 3%. Era chiaro a tutti che questo non
significava un sano bilancio pubblico quasi in pareggio, bensì una manovra straordinaria destinata solo
a quello scopo. Il Governo si impegnò allora a restituire, gradualmente, nel corso degli anni successivi,
quella tassa straordinaria. Così è avvenuto.
Con grande fatica, alla fine, l’Italia entrò a fare
parte del gruppo. Gli undici Paesi che desideravano
procedere nel programma di unificazione furono ritenuti idonei all’Unione Monetaria, per la partenza
prevista del 1999. La Grecia raggiunse gli altri Paesi
nel gennaio 2001: nel 2002 l’euro iniziò a circolare
in dodici Stati europei. La Tabella 32.3 confronta le
performance italiane, durante gli anni Novanta, con
L’ingresso della lira
L’ingresso della lira avvenne con non poche difficoltà.
In primo luogo, fin da quando furono istituiti i criteri
di convergenza, era abbastanza chiaro che uno dei
criteri non sarebbe mai stato rispettato dall’Italia e da
alcuni altri Paesi. Il rapporto debito/PIL era infatti superiore al 100% e riportarlo in pochi anni a un rapporto inferiore al 60% sarebbe stato impossibile.
In secondo luogo, gli attacchi speculativi di fine
1992 e inizio 1993 avevano messo a dura prova l’intero sistema dello SME e soprattutto la credibilità di
alcuni Paesi. La Banca d’Italia fece il possibile e perse
miliardi di lire in riserve valutarie per sostenere la lira.
Dichiarò che sarebbe riuscita a farlo senza procedere
alla svalutazione, ma alla fine dovette cedere. Questi
attacchi fecero altre vittime illustri, quali la sterlina e
il franco francese. La svalutazione italiana fu dell’ordine del 25-30%, che costituisce uno sbalzo enorme
per la nostra storia. In questo scenario, fu involontariamente corresponsabile la Germania. I grandi sussidi alla ex Germania dell’Est, da poco riunificata al
resto del Paese, avevano portato a un surriscaldamento
dell’economia tedesca. Quando il cancelliere Kohl si
rifiutò di aumentare le tasse, la Bundesbank aumentò
i tassi di interesse per cercare di raffreddare l’econo-
Tabella 31.3 La fase dell’ingresso: l’Italia e i Paesi dell’euro (%)
Area euro
Crescita reale
Gap di produzione
(rispetto al PIL potenziale)
Disoccupazione
Tassi di interesse
Inflazione
Italia
Crescita reale
Gap di produzione
(rispetto al PIL potenziale)
Disoccupazione
Tassi di interesse
Inflazione
Fonte: OCSE, Economic Outlook, giugno 2004.
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
1,4
–2,2
2,4
–1,9
2,8
–1,1
2,8
0,4
3,7
1,1
1,7
0,6
0,9
–0,5
0,5
–2,0
10,7
4,8
2,1
10,8
4,3
1,6
9,4
3,9
1,7
8,4
3
1,1
8
4,4
1,4
8,4
4,3
2,4
8,8
3
2,6
8
2,3
2
1,0
–1,5
2,0
–1,1
1,7
–0,9
1,7
–0,9
3,2
0,5
1,7
0,5
0,4
–0,8
0,4
–2
11,7
8,8
5,3
11,8
6,9
2,4
11,9
5
2,7
11,5
3
1,6
10,7
4,4
2,2
9,6
4,3
2,7
9,1
3,3
3,1
8,8
2,3
2,9
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quelle dell’insieme dei Paesi che hanno aderito al
progetto per la moneta unica.
31.4 L’economia dell’Unione
Monetaria
Nel 1999, il professor Robert Mundell ha vinto il premio Nobel per l’Economia in parte anche per il suo
innovativo studio sulle aree monetarie ottimali.
Un’area monetaria ottimale identifica un insieme di
Paesi che trae vantaggio dall’adozione di una moneta
comune, piuttosto che dal tenere separate le rispettive monete nazionali.
Mundell e gli altri economisti che, dopo di lui, si
sono occupati di questo argomento hanno identificato tre caratteristiche che consentono di individuare
quali Paesi possano costituire un’area monetaria ottimale. In primo luogo, i Paesi che commerciano
molto tra di loro potrebbero non essere in grado di
influenzare il tasso di cambio di equilibrio reale nei
confronti dei loro partner, nel lungo periodo; potrebbero, però, avere la tentazione di svalutare il cambio per cercare di ottenere vantaggi immediati. Un
tasso di cambio fisso non consente questo tipo di
comportamento e permette di ottenere ulteriori vantaggi dagli scambi commerciali.
In secondo luogo, quanto più è simile la struttura industriale e produttiva dei potenziali partner,
tanto più è probabile che questi si trovino a fronteggiare shock interni simmetrici che potrebbero
quindi essere affrontati con una politica monetaria
comune.
In terzo luogo, maggiore è la mobilità del lavoro
tra i diversi mercati all’interno dell’area monetaria,
più facilmente si possono realizzare quegli aggiustamenti necessari della competitività e del tasso di
cambio reale, attraverso cambiamenti nel livello dei
prezzi dei Paesi membri.
Al contrario, invece, i Paesi avranno interesse a
mantenere una propria sovranità monetaria quando
non risultano particolarmente integrati con i potenziali partner, quando hanno strutture produttive molto
differenti (e, quindi, tendono a fronteggiare gli shock
in modo diverso) e quando non possono fare affidamento su un’elevata flessibilità dei salari e dei
prezzi, al loro interno, come soluzioni alternative alla
flessibilità del tasso di cambio.
A queste argomentazioni economiche occorre aggiungere un importante argomento di natura politica.
Le aree monetarie si creano più facilmente quando i
Paesi all’interno dell’area sono disposti a effettuare
trasferimenti fiscali a favore degli altri Paesi. In pratica, la presenza di identità culturale e politica può essere importante per il successo di un’area monetaria
almeno tanto quanto le strette condizioni di natura
economica che i Paesi entranti devono rispettare.
L’Europa è un’area monetaria ottimale?
Coloro che hanno studiato la struttura delle economie nazionali e le correlazioni tra gli shock dei
diversi Paesi hanno raggiunto le seguenti conclusioni. 2 Va in primo luogo rilevato che, sebbene
l’Europa sia un’area abbastanza integrata, non lo è,
tuttavia, ancora completamente. Esiste un nucleo centrale di Paesi europei più strettamente integrati tra
loro rispetto ad altri.
Peraltro, è abbastanza chiaro che l’istituzione
dell’Unione Monetaria ha conseguenze sul livello sostanziale di integrazione tra gli Stati membri. Una moneta comune, eliminando una fonte di segmentazione nei mercati nazionali, farà aumentare il livello
di integrazione. È altresì provato che i Paesi maggiormente aperti agli scambi commerciali presentano
una più stretta correlazione tra i loro cicli economici.
Inoltre, i Paesi che appartengono a un’area monetaria tendono storicamente a commerciare di più tra
di loro, cosa che può essere spiegata con il fatto che
i loro tassi di cambio sono fissi.3
Tutte queste considerazioni sembrano allora suggerire che un’area monetaria possa essere avviata
con successo anche prima che siano realizzate tutte
le precondizioni economiche di cui si è parlato sopra. Il fatto stesso di cominciare a lavorare in questa direzione può portare a un’accelerazione dell’intero processo.
Il Patto di Stabilità e Crescita
Il Patto di Stabilità e Crescita, ratificato nel 1997 con
il Trattato di Amsterdam, ha riconfermato i criteri di
convergenza di politica fiscale del Trattato di
Maastricht che, oltre a costituire le condizioni che i
Paesi dovevano soddisfare per accedere all’Unione
Monetaria, dovevano continuare a essere soddisfatti
anche successivamente alla nascita dell’euro. Alcuni
Paesi membri dell’Unione Monetaria hanno tuttora
rapporti debito/PIL superiori al 100%. Ridurli fino al
60% è un obiettivo che potrebbe richiedere anni. Il
vero obiettivo è stato raggiungere il tetto del 3% per
il deficit pubblico.
In linea di principio, i Paesi che eccedono tale limite devono pagare una sanzione economica, a meno
che la loro economia non si trovi in una fase di grave
recessione. Quindi, i Paesi che hanno un deficit superiore al tetto massimo del 3% del PIL devono aspettare che il loro prodotto diminuisca prima di ottenere il consenso per attuare una politica fiscale espansiva.
2
3
Si veda T. Bayoumi e B. Eichengreen, “Schocking aspects of European Monetary
Unification”, in F. Giavazzi e F.Torres (editors), Adjustment and Growth in the European
Monetary Union, Cambridge University Press, Cambridge, 1994; T. Bayoumi e B.
Eichengreen, “Operationalizing the theory of optimum currency areas”, Discussion Paper
1484, Centre for Economic Policy Research, London, 1996.
A. Rose, “One Money, One Market”, Economic Policy, 2000.
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Capitolo 31 • L’integrazione europea 553
In realtà, nel 2003 Francia e Germania hanno di
poco superato la soglia del 3% del rapporto deficit/PIL, ma (con non poche discussioni) hanno evitato la sanzione. Successivamente, anche l’Italia ha
registrato valori di deficit eccessivo. Tuttavia, nonostante gli avvertimenti e le raccomandazioni previste dal Patto di Stabilità e Crescita, nessuna sanzione è mai stata applicata ai Paesi che non hanno
rispettato taluni criteri di Maastricht. Nel marzo 2005,
su iniziativa di alcuni Governi, tra cui quello italiano, si è proceduto a una revisione del Patto di
Stabilità e Crescita nel senso di una maggiore flessibilità.
La Banca Centrale Europea
La politica monetaria per i Paesi dell’Unione è realizzata dalla Banca Centrale Europea (BCE), con sede
a Francoforte. Anche se le banche centrali nazionali
non sono state soppresse, è, comunque, il comitato
esecutivo della BCE a decidere il livello del tasso di
interesse dell’euro.
Sulla base del suo statuto, l’obiettivo primario
della BCE è la stabilità dei prezzi. Una volta garantito questo, può anche perseguire obiettivi diversi.
Durante le conferenze stampa, le autorità principali
della BCE tendono sempre a sottolineare che le decisioni sui tassi di interesse dovrebbero essere interpretate soprattutto alla luce dell’obiettivo della stabilità dei prezzi. Né i mercati finanziari né gli economisti ne sono convinti. Il comportamento della
BCE sembra riflettere anche un’attenzione particolare riguardo ai gap del prodotto oltre che dell’inflazione: in pratica, la regola di Taylor spiega molto
bene il suo comportamento.
La BCE, a differenza di altre banche centrali, ha
adottato non uno ma due obiettivi intermedi, i cosiddetti “due pilastri” della sua strategia monetaria.
Il primo pilastro è l’obiettivo monetario, ovvero il
tasso di crescita di M3, che misura la moneta nominale. Il secondo pilastro è il tasso di inflazione attesa. La BCE sostiene di tener conto di entrambi i pilastri quando prende le decisioni relative ai tassi di
interesse dell’area euro.
Nel corso del tempo, si può osservare come l’aumento e la diminuzione dell’inflazione attesa e reale
abbiano causato l’aumento e la diminuzione dei tassi
di interesse nell’area euro. In questa evidente correlazione, è difficile individuare un ruolo del tasso
di crescita della moneta nominale.
La BCE non ha mai aumentato i tassi di interesse
quando il tasso di crescita della moneta era troppo
alto, ma solo quando questo era basso, e li ha abbassati quando il tasso di crescita della moneta era
alto. La ragione è la seguente: la domanda di moneta varia continuamente, e il tasso di crescita dell’offerta di moneta che cerca di adeguarsi a quello
della domanda non è un indicatore affidabile dei
tassi futuri di inflazione.
Per esempio, dopo gli attacchi terroristici dell’11
settembre, la gente ha venduto titoli e azioni e ha
depositato il denaro posseduto nei conti correnti bancari, che fanno parte di M3. La forte crescita della
domanda di moneta è stata accompagnata da un aumento immediato, da parte della Banca Centrale, dell’offerta di moneta, per evitare un brusco aumento
dei tassi di interesse che avrebbe frenato ulteriormente il ciclo economico. Inoltre, la Banca Centrale
era certa che quell’aumento dello stock di moneta
offerta non si sarebbe tradotto in maggiore spesa,
poiché i consumatori erano già molto spaventati e
desideravano solo trattenere più moneta in forma liquida, non spenderla. Infatti, dopo l’11 settembre, si
è addirittura registrata una diminuzione della domanda aggregata per beni di consumo e le banche
centrali hanno, in tutto il mondo, diminuito i tassi di
interesse per stimolare la spesa aggregata.
Sono state proprio le oscillazioni nella domanda
di moneta a causare l’abbandono da parte di molte
banche centrali del perseguimento di un obiettivo
monetario quantitativo in favore del perseguimento
di molteplici obiettivi flessibili di inflazione o della
regola di Taylor.
Quanto è opportuno un federalismo fiscale?
Una delle ragioni della sopravvivenza dell’unione
monetaria degli Stati Uniti è la sua struttura fiscale
federale. Quando uno degli Stati dell’unione entra
in una fase di recessione, deve pagare minori tasse
sul reddito a Washington e ha automaticamente diritto a ricevere maggiori trasferimenti. Si tratta di un
classico esempio di meccanismo di stabilizzatore automatico, in grado di funzionare grazie al sistema di
aliquote fiscali e di previdenza sociale federale. All’opposto, uno Stato che si trova in una fase di espansione pagherà maggiori tasse e riceverà una quota
minore di trasferimenti.
In un sistema fiscale federale vi è un’autorità centrale
che stabilisce le tasse e le regole di spesa per i suoi
Stati costituenti.
Si supponga che negli Stati Uniti, quando il reddito di uno Stato aumenta di 1 dollaro, questo pagherà 30 centesimi in più di tasse sul reddito e riceverà 10 centesimi in meno di previdenza sociale. Al
contrario, se il reddito di uno Stato diminuisce di 1
dollaro, questo pagherà 30 centesimi in meno di tasse
e otterrà 10 centesimi in più di previdenza sociale.
Originariamente, gli economisti pensavano che ciò
significasse che ciascuno Stato fosse allora assicurato
complessivamente per 40 centesimi di dollaro. Per i
Paesi dell’euro non è stato previsto alcun sistema fiscale federale simile a questo. I meno ottimisti sostengono che, di conseguenza, l’Unione Monetaria
potrebbe essere soggetta a degli shock di qualche
singolo Stato membro.
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554 Parte 5 • L’economia mondiale
La politica macroeconomica in uno Stato
membro dell’Unione Monetaria
La Figura 31.1 mostra la situazione economica di uno
Stato membro. I tassi di interesse sono stabiliti dalla
BCE a Francoforte. Dal punto di vista di un singolo
Paese, è come se la curva LM fosse orizzontale in
corrispondenza di un tasso di interesse r0. Si supponga che la posizione iniziale della curva IS determini l’equilibrio in corrispondenza del punto A. La
domanda aggregata è al livello del PIL potenziale.
A questo punto, uno shock fa contrarre la curva
IS fino a IS1. In un contesto di sovranità monetaria,
il Paese potrebbe ridurre il livello del tasso di interesse per ristabilire il reddito di piena occupazione
in corrispondenza di C. Lo stesso potrebbe ancora
accadere nell’Unione Europea se la situazione economica del Paese fosse strettamente correlata a quella
degli altri Paesi membri: in tal caso, infatti, la BCE
reagirebbe a quello che sta accadendo in tutti i Paesi,
riducendo per tutti i tassi di interesse.
Tuttavia, nel caso in cui nessun altro Paese si trovi
a fronteggiare il medesimo shock della curva IS, e il
Paese in questione sia troppo piccolo per esercitare
una qualunque influenza sull’Unione tale da portare
a una reazione della BCE, allora i tassi di interesse
rimarranno al livello r0. A questo punto, il Paese ha
due alternative. A patto di non contravvenire alle
condizioni imposte dal Patto di Stabilità, può utilizzare la politica fiscale per portare IS1 verso destra
oppure può aspettare che sia il mercato del lavoro
a farlo.
In che modo? In B, il Paese è in fase recessiva.
Questo gradualmente fa diminuire i salari e i prezzi.
Al livello del tasso di cambio nominale fissato nei
confronti dei suoi partner, questo renderà il Paese
più competitivo. Maggiori esportazioni e minori importazioni sposteranno la curva IS1 verso destra. Se
la flessibilità dei prezzi e dei salari è abbastanza elevata, potrebbe addirittura non essere necessario alcun intervento di politica fiscale. Tuttavia, poiché
molti mercati europei del lavoro sono piuttosto rigidi, è assai probabile che l’impiego di strumenti di
politica fiscale possa accelerare il processo.
Un’ultima considerazione. Se non vengono modificati l’aliquota fiscale e i livelli di spesa pubblica,
un allentamento della politica fiscale durante un periodo di recessione viene ottenuto solo con gli stabilizzatori automatici. Tuttavia, poiché questi strumenti non possono prevedere il futuro, essi sono
messi in atto solo dopo che il reddito è diminuito,
non prima. Nel 2001, l’Europa è stata colpita da due
shock della domanda: la recessione degli Stati Uniti
in seguito all’esplosione della bolla speculativa delle
IS 1
Tasso di interesse
Sebbene l’idea possa essere corretta, non lo sono
le conclusioni che se ne traggono. I calcoli degli Stati
Uniti potrebbero essere corretti, se applicati a un
mondo in cui l’andamento dei singoli redditi dei diversi Paesi fosse totalmente indipendente e non correlato. In pratica, è evidente che, al contrario, esistono correlazioni. Di conseguenza, quando uno
Stato vive un ciclo recessivo e riceve aiuti da
Washington, probabilmente anche altri Stati staranno
vivendo un momento di crisi e, quindi, riceveranno
i medesimi aiuti. Questa situazione farà aumentare
il debito pubblico del Governo degli Stati Uniti e aumenterà il prelievo fiscale richiesto a ogni Stato dall’amministrazione centrale.
Ma un singolo Stato potrebbe decidere di agire
nel proprio interesse, non già come socio di un’associazione di mutua assistenza. Potrebbe prendere
a prestito denaro in recessione per gonfiare le sue
entrate fiscali e restituirlo in periodi migliori. Tenendo
conto di ciò, i Paesi membri degli Stati Uniti sono
probabilmente coperti per 10 centesimi e non per
40 centesimi, per ogni dollaro di reddito prodotto.
Il Patto di Stabilità e Crescita potrebbe prevenire
comportamenti di questo tipo da parte di singoli
Paesi membri dell’Unione Monetaria, rendendo più
difficoltoso ricorrere ai prestiti in periodi di recessione. Oppure il Patto di Stabilità e Crescita potrebbe
essere interpretato in modo più flessibile, avendo
maggiore riguardo agli effetti dei cicli economici temporanei riducendo, temporaneamente, il prelievo fiscale nei periodi di crisi. Quando il deficit di bilancio della Germania aumentò all’inizio del 2002, portandola vicina al tetto massimo del 3%, i leader politici dell’Unione Europea si accordarono per non
ammonire ufficialmente la Germania avvertendola
soltanto che una politica fiscale restrittiva era ormai
divenuta d’obbligo.
r0
B
C
Y1
LM
A
IS
Y0
Prodotto nazionale
Figura 31.1 Un Paese membro dell’Unione Monetaria Europea.
Un piccolo Paese membro della UME fronteggia una curva LM orizzontale in
corrispondenza del tasso di interesse stabilito dalla BCE. Se la curva IS si sposta fino a IS1, il tasso di interesse sarà diminuito solo a condizione che l’intera
UME sia interessata dallo shock. Altrimenti, la recessione del singolo Stato ridurrà gradualmente i prezzi e i salari al suo interno, stimolando la competitività e spostando la curva IS1 verso destra. Una politica fiscale espansiva potrebbe velocizzare questo spostamento.
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Capitolo 31 • L’integrazione europea 555
dot.com e il crollo della fiducia degli investitori dopo
gli attentati terroristici dell’11 settembre.
Dato che l’economia reale stava attraversando un
periodo di stagnazione, occorreva del tempo affinché questi shock causassero una diminuzione del
reddito, dell’occupazione e dell’inflazione. Ma dal 12
settembre tutti sapevano che sarebbe successo.
Idealmente, si sarebbero dovute utilizzare le politiche della domanda per controbilanciare questi shock
della domanda. Se la politica fiscale resta perlopiù
confinata soltanto all’utilizzo degli stabilizzatori automatici, che tengono conto solo del passato, l’unica
via per una politica economica orientata al futuro
potrebbe essere quella che utilizza i tagli dei tassi di
interesse. Infatti, questi si sono fortemente ridotti, almeno fino a tutto il 2005.
Quindi, l’ordinamento fiscale dell’UME fa aumentare l’importanza della politica monetaria come
mezzo di reazione agli shock, soprattutto prima che
questi abbiano pienamente esercitato i loro effetti
sul prodotto e sul livello dei prezzi.
31.5 L’Europa centrale e orientale
Per 40 anni, dopo il 1945, l’Europa centrale e orientale ha vissuto sotto il rigido controllo politico ed
economico di Mosca, cioè di una potenza a economia completamente pianificata, dove le forze di mercato giocavano un ruolo realmente marginale. Le
inefficienze della pianificazione non hanno tardato
a manifestarsi: lo stock di capitale era logoro, scarsi
gli incentivi, bassa la produttività.
La Tabella 32.4 convalida due considerazioni
sull’Europa centrale e orientale alla vigilia della riforma. Essa mostra come fosse basso lo standard di
vita medio in confronto con quello della maggior
parte dei Paesi occidentali. Nel ricco Nord-Europa,
il reddito pro capite nel periodo 1988-1989 era in
media di 20 000 dollari l’anno. Dalla Tabella 32.4 è
inoltre possibile dedurre il fallimento dei tentativi
di risollevare le economie pianificate, durante gli
anni Settanta, attraverso i prestiti provenienti
dall’Ovest. Nazioni come l’Ungheria e la Polonia
sono rimaste con i loro debiti, senza averne tratto
alcun beneficio.
Le inefficienze della pianificazione hanno spesso
lasciato incompleti interi progetti di investimento, con
conseguente spreco di risorse. Alcuni Stati creditori
occidentali hanno parzialmente cancellato i debiti di
alcuni Paesi orientali. A Londra è stata creata la Banca
Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS)
per finanziare investimenti di Paesi occidentali nelle
economie riformiste dei Paesi ex comunisti.
La riforma dell’offerta
Le economie in transizione sono quelle che stanno
passando da una pianificazione centralizzata a un’economia di mercato.
Tabella 31.4 La Comunità Europea negli anni 1988-1989
Dollari pro capite di...
PIL
Debito estero
Germania orientale
9300
1300
Cecoslovacchia
7600
400
Ungheria
6500
1900
Bulgaria
5600
1000
Polonia
5600
1100
Romania
4100
0
Fonti:American Express, Amex Bank Review, novembre 1989; HM Treasury, Economic
Progress Report, 1990.
In passato, le decisioni sulla produzione, sugli investimenti e sull’occupazione venivano perlopiù assunte dai burocrati. Una maggiore attività portava
con sé maggior prestigio, anche se le risorse utilizzate erano maggiori del reddito che con esse veniva
prodotto. Attuare una riforma dell’offerta significava
in primo luogo lasciare al meccanismo dei prezzi il
compito di allocare le risorse nel sistema. Questo ha
comportato diverse conseguenze.
Innanzitutto, i prezzi dovevano riflettere la reale
scarsità delle risorse. In un regime centralizzato, i
prezzi venivano mantenuti a un livello artificialmente
basso. In tal modo, il tasso di inflazione risultava, a
sua volta, piuttosto basso, ma i dati dai quali veniva
derivato non potevano considerarsi realmente attendibili. A quei prezzi, da un lato i consumatori non
riuscivano a trovare sul mercato molte categorie di
beni, dall’altro, alle aziende risultavano introvabili
alcune tipologie di fattori produttivi. La situazione
era, pertanto, caratterizzata da un cronico eccesso di
domanda.
Liberalizzare i prezzi significava inevitabilmente
lasciare che essi fossero liberi di aumentare. Nel gennaio del 1990, primo mese della riforma polacca,
venne registrata un’inflazione del 70%, per un tasso
annuale di quasi il 1000%. Ma questo fu un fenomeno eccezionale. Anzi, fu proprio grazie al meccanismo di mercato che aveva portato con sé l’aumento dei prezzi che i produttori si resero conto che
era arrivato il momento di aumentare la produzione.
In ogni caso, il successo di un’economia non può
dipendere esclusivamente dalla liberalizzazione dei
prezzi di mercato. Occorre che vi sia anche una risposta efficace anche dal lato dell’offerta. Con ogni
probabilità i burocrati, che sino a quel momento avevano gestito le imprese statali, non erano le persone
più indicate per raccogliere la nuova sfida del mercato e per cominciare a gestire imprese private. Molte imprese furono privatizzate. Lo scopo della privatizzazione non era tanto quello di aumentare le entrate del Governo – tenendo anche conto del fatto che
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556 Parte 5 • L’economia mondiale
i consumatori non avevano una grande disponibilità
economica – quanto quello di indurre i dirigenti delle
nuove imprese a ragionare in una logica di profitto.
Furono sperimentate diverse strategie di privatizzazione. L’Ungheria cercò acquirenti esteri disposti a
contribuire con denaro contante e competenza manageriale. La Repubblica Ceca diede ai suoi cittadini
dei voucher che offrivano loro il diritto di acquistare
azioni nelle aziende che venivano privatizzate. La verità era che, nonostante l’apparenza di una rapida privatizzazione in atto, molte di queste vennero acquistate da banche di proprietà dello Stato. In Russia, alla
privatizzazione si accompagnarono forti sospetti circa
il coinvolgimento del crimine organizzato.
I Paesi dell’Europa orientale sono dotati di una
forza lavoro preparata. Oltre all’accesso ai mercati,
ciò di cui maggiormente hanno bisogno sono investimenti in capitale fisico e capacità manageriali
per gestire aziende sempre più orientate al mercato. Anche in questo caso, l’Occidente può rendersi utile e, in talune circostanze, lo ha già fatto
con successo. Per esempio, gli investimenti delle
aziende del settore automobilistico per la costruzione di fabbriche nei Paesi dell’Europa orientale
sono stati massicci. Sotto il controllo di Volkswagen,
Skoda ha decisamente migliorato la qualità della
propria produzione.
Le condizioni macroeconomiche del successo
Commercio e investimenti esteri
Le economie dell’Europa orientale avrebbero chiaramente avuto bisogno di mercati di sbocco per i
propri prodotti, nell’ipotesi in cui la produzione fosse
cresciuta rapidamente. Di sicuro, la pressione della
concorrenza estera era uno stimolo potente per un
rapido miglioramento della produttività, anche se ciò
poteva comportare fenomeni di disoccupazione nel
breve periodo, mentre venivano realizzati i necessari adeguamenti, in parte inevitabilmente dolorosi.
Il mercato naturale per i prodotti delle economie
orientali era ovviamente rappresentato dai Paesi
dell’Unione Monetaria. Molti Paesi dell’Europa orientale hanno firmato gli Accordi Europei per divenire
membri dell’Unione Europea. Si trattava di accordi
che consentivano rapide manovre per liberalizzare
gli scambi commerciali di molti beni, anche se perlopiù non riguardavano le categorie di beni più importanti. In questo modo, si cercava di evitare che
le industrie occidentali in declino potessero subire
la concorrenza delle importazioni di prodotti a basso
costo dai Paesi dell’Europa centrale e orientale. In
particolare, erano escluse le industrie dell’acciaio,
l’industria tessile e il settore agricolo, che meglio si
sarebbero prestati a fornire i prodotti all’Occidente.
La politica dell’Unione è stata probabilmente
troppo protezionistica a questo riguardo. Consentire
le importazioni dai Paesi dell’Europa orientale genera, in realtà, tre grandi vantaggi per la stessa Unione.
Innanzitutto, i consumatori dei vecchi Stati membri
dell’Unione Europea non possono che trarre benefici dalla possibilità di acquistare prodotti a basso costo. Inoltre, la conseguente crescita economica dei
Paesi dell’Europa orientale porterebbe a un ulteriore
mercato di sbocco proprio per le esportazioni dei
produttori. Bisogna anche ricordare che un insuccesso economico nei Paesi dell’Europa orientale potrebbe condurre a massicce migrazioni verso i Paesi
occidentali, o addirittura a minacce di natura politica e militare. Di conseguenza, accordi di libero commercio rappresentano il più opportuno e concreto
investimento che l’Unione possa effettuare per il successo dell’Europa orientale.
Le economie in transizione necessitano di riforme
dal lato dell’offerta per far aumentare il prodotto potenziale, ma anche del supporto di un’adeguata politica macroeconomica. Occorrono prudenti politiche fiscali e monetarie per tenere sotto controllo l’inflazione. Infatti, nella fase iniziale di un periodo di
transizione, l’inflazione è alta per due ragioni. In
primo luogo, dato che i prezzi vengono liberalizzati,
essi aumentano fino a raggiungere il loro livello di
equilibrio.
In secondo luogo, poiché i Governi hanno bisogno di risorse da investire per portare a compimento
il processo di transizione, ma hanno un basso prodotto potenziale e dunque una bassa base imponibile colpita dalla tassazione, essi sono propensi a
gonfiare, con l’inflazione, le entrate reali. Altrimenti,
dovrebbero rinunciare agli investimenti oppure imporre tasse così alte che gli effetti distorsivi sarebbero troppo forti.
Man mano che la transizione procede con successo, il prodotto potenziale e il reddito aumentano
e, così, anche a parità di aliquota fiscale, aumentano
le entrate fiscali complessive. Gli investimenti cominciano ad avere rendimenti decrescenti. Per entrambe le ragioni, il tasso di inflazione deve diminuire. Tuttavia, i politici subiscono ancora molte pressioni che li inducono ad aumentare la spesa pubblica e non la tassazione. Delle buone e solide istituzioni possono aiutare i Governi a prendere le decisioni più sagge.
Quindi, l’indipendenza della banca centrale è importante nelle economie in transizione tanto quanto nelle economie avanzate, poiché contribuisce ad
assicurare l’attuazione di una responsabile politica
monetaria. All’inizio del capitolo si è osservato come l’indipendenza della BCE non fu sufficiente a
convincere subito la Germania ad abbandonare l’ERM
per l’Unione Monetaria. Ma i criteri di convergenza
di Maastricht e il Patto di Stabilità e Crescita inducono i Governi a ridurre i deficit fiscali, e quindi la
banca centrale, anche nel caso in cui sia indipendente, non subisce pressioni che la indurrebbero a
stampare moneta.
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Se ciò è stato vero per la matura Europa occidentale, è ancora più probabile che lo sia anche per
i Paesi in transizione dell’Europa centrale e orientale. Una responsabile politica monetaria deve essere incoraggiata dalla pressione a evitare ampi deficit fiscali. All’inizio, questa pressione fu esercitata
dal Fondo Monetario Internazionale. Infatti, se un
Paese vuole ottenere un prestito dall’FMI, deve accettare e mettere in atto il perseguimento di obiettivi riguardanti il deficit fiscale.
Se la pianificazione centralizzata era così
inefficiente, perché le cose sono peggiorate
con il passaggio al libero mercato?
Il Box 31.1 mostra che le economie nelle quali si
sono attuate profonde riforme hanno avuto diminuzioni di almeno il 25% del PIL nel periodo 1990-1992,
prima della ripresa nel 1993 o 1994. Come si può
spiegare il peggioramento della situazione economica dopo l’abbandono di sistemi di pianificazione
completamente centralizzati?
È necessario, in primo luogo, osservare che le
statistiche potrebbero non essere attendibili. Prima
che i prezzi fossero liberalizzati, come veniva misurato il PIL reale? Se i prezzi non riflettevano la scarsità, perché valutare il valore del PIL sulla base di
prezzi così poco significativi? Una possibile soluzione
a questo problema è quella di utilizzare i prezzi mondiali: si misurano le quantità e poi si adottano i prezzi
espressi in dollari o marchi tedeschi. Gli economisti
che hanno impiegato questo sistema hanno riscontrato che alcune industrie producevano con un valore aggiunto negativo: usavano un ammontare di
fattori produttivi maggiore del valore dell’output che
riuscivano a produrre. Se dunque il dato di partenza
non è corretto, non avrebbe senso confrontarlo con
un dato di arrivo basato su una misura completamente diversa. Correttamente misurato, il prodotto
probabilmente diminuì allora meno di quanto non
apparisse a prima vista.
In secondo luogo, come accennato, era necessario un periodo di restrizioni macroeconomiche per
fermare l’aumento dei prezzi, per evitare che questo trascinasse aspettative di inflazione permanente.
Per esempio, dopo la liberalizzazione dei prezzi, nel
gennaio del 1991 in Cecoslovacchia i prezzi aumentarono del 25%. Ma già nel mese di luglio di
quello stesso anno l’inflazione era scesa a zero.
In terzo luogo, quando la ex Unione Sovietica
cadde nella sua profonda crisi economica, la maggior parte dei Paesi dell’Europa orientale perse il
principale mercato per le esportazioni. Cercare di
manovrare le esportazioni verso Occidente era co-
BOX 31.1 Il processo di transizione verso l’Unione Europea
La tabella sottostante mostra il livello di inflazione e la crescita del
reddito reale nei primi dieci anni del processo di transizione. Dopo
un periodo di forte crisi iniziale, molti Paesi sembrano lanciati verso
la crescita, anche se la Romania, la Bulgaria e l’Albania hanno conosciuto brusche frenate.
Inflazione annua
Variazione del reddito
reale annua (%)
19911993
19941996
19971998
19992003
19911993
19941997
19982003
Europa
centrale
Repubblica Ceca
Ungheria
Polonia
Slovacchia
Slovenia
29
27
47
27
121
10
23
27
10
12
9
16
14
7
8
4
8
4
6
8,5
–4,1
–5,3
–3,4
–8,1
–3,0
3,0
2,8
7,8
8,0
4,3
3,0
3,0
3,8
3,9
3,7
Europa
sud-orientale
Albania
Bulgaria
Croazia
Macedonia
Romania
115
160
777
760
240
15
120
11
22
50
27
294
5
2
107
5
7
4
4
20
–14,4
–6,8
–13,4
–8,0
–4,0
7,7
–3,5
6,4
2,2
2,2
5,3
4,7
5,0
2,5
–4,5
Baltico
Estonia
Lettonia
Lituania
334
420
561
32
23
32
10
6
7
3,8
2,5
1
–12,0
–15,0
–14,5
4,5
2,9
1,5
5,0
6,2
7,3
Fonte: BERS, Transition Report.
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558 Parte 5 • L’economia mondiale
munque un obiettivo di non rapida attuazione. Anche
nell’Europa occidentale, la Finlandia visse una profonda recessione quando i mercati della Russia subirono il collasso.
In quarto luogo, bisogna comprendere il peculiare ruolo svolto dalle banche. La liberalizzazione
dei prezzi non introduce un’economia di mercato
senza inasprire i vincoli di spesa di tutti i soggetti
economici, incluse le imprese. In Occidente, quando
un’impresa non è più in grado di funzionare, chiude
o fallisce e le risorse vengono riallocate in usi più
profittevoli. Nell’Europa orientale, le banche erano
state passive nella loro attività di credito, concedendo
credito alle aziende di proprietà dello Stato per consentire loro di fare fronte agli obiettivi di prodotto e
di investimento stabiliti dai pianificatori.
Quando i prezzi furono liberalizzati, molte aziende
statali registrarono perdite (come era prevedibile).
Ma nessuno le chiuse! Anzi, le banche di Stato concessero loro nuovi prestiti per fronteggiare i debiti
già contratti e le perdite finanziarie che si stavano
ancora verificando. Talvolta, una grande azienda di
proprietà dello Stato era anche l’unica a fornire lavoro in una vasta area urbana e allora si diceva che
essa era “troppo grande per fallire”. Le banche si
comportavano in questo modo, in parte perché erano
anche loro di proprietà dello Stato e ancora avvertivano una responsabilità per l’occupazione del Paese
e, in parte, perché a loro volta i crediti – risultanti
dai prestiti che avevano concesso a queste aziende
– erano ormai irrecuperabili. Attirare l’attenzione sui
debiti delle aziende pubbliche avrebbe portato alla
ribalta anche la reale estensione dei problemi delle
stesse banche.
I Governi, saggiamente, cominciarono a cercare
di ridurre i debiti inesigibili delle banche e poi avviarono un processo di privatizzazione delle stesse
banche. A quel punto, erano le banche che dovevano provocare i fallimenti delle imprese meno efficienti (che in Occidente sono provocati dai creditori). Solo in quel modo i prezzi potevano diventare
lo strumento per allocare le risorse in maniera più
efficiente. Invece, le vecchie imprese inefficienti continuarono a svolgere la loro attività, mentre le nuove
imprese trovavano difficile accedere ai prestiti.
Infine, si verificò il fallimento del controllo societario. Anche in Occidente non è sempre facile
procurare incentivi efficaci per i manager (si veda
il Capitolo 6). Nelle economie in transizione, il problema fu particolarmente acuto. Dal canto suo, lo
Stato cercava di prendere le distanze dalle vecchie
modalità di gestione centralizzata lasciando libere
di agire le aziende che un tempo gli erano appartenute. Chiaramente però, finché le imprese pubbliche non furono privatizzate, e quindi controllate
dagli azionisti, ci fu un periodo di vuoto di controllo in cui i dirigenti delle aziende poterono gestirle come meglio credevano. Potevano semplicemente rendersi la vita facile (per esempio, conce-
dere ingiustificati aumenti salariali a tutti coloro che
avanzavano pretese) o fare invece addirittura di
peggio. In molti Paesi si assistette a fenomeni di
“privatizzazioni spontanee”. In Occidente, si sarebbe parlato di furti veri e propri.
L’esperienza delle economie in transizione conferma che l’adozione di un sistema di mercato, benché necessaria, non è di per sé sufficiente a garantire standard di vita elevati. I sistemi di mercato ben
funzionanti, come gli iceberg, poggiano su basi solide, invisibili, ma molto profonde. Essi si caratterizzano per la presenza di contratti che vengono applicati in maniera rigorosa e le cui controversie sono
regolate nei tribunali, conferendo così un clima generale di sicurezza e di fiducia. Esistono normative
destinate a controllare il potere del mercato, applicate da pubblici ufficiali non corrotti. Il sistema fiscale è organizzato ed efficiente e l’evasione fiscale
da parte dei cittadini è contenuta entro limiti tollerabili. Operano reti sofisticate di assistenza e previdenza sociale progettate per le classi meno abbienti
di cittadini.
La lista potrebbe continuare, ma già questi pochi
esempi mostrano che un sistema di mercato ben funzionante richiede la presenza di costose e complesse
infrastrutture e del tempo necessario affinché si consolidino fiducia e reputazione. Ciò ha due implicazioni. In primo luogo, la transizione richiederà tempo per compiersi, soprattutto laddove il tessuto sociale è meno compatto. In secondo luogo, la creazione di sistemi di mercato non può prescindere da
costosi investimenti per la realizzazione di infrastrutture essenziali.
Nonostante ciò, il Box 32.1 mostra che molte economie, specie quelle dell’Europa centrale più vicine
ai mercati dell’UE, stanno adesso crescendo in maniera costante. Esistono le basi perché queste economie, nei prossimi decenni, crescano più rapidamente dell’Europa occidentale.
L’allargamento dell’Unione Europea
Molte economie dell’Europa centrale e orientale desiderano entrare a far parte dell’Unione Europea per
avere pieno accesso a un mercato di vastissime dimensioni. Questo a sua volta agisce da magnete per
la realizzazione di investimenti interni, nel tentativo
di trarre vantaggio dalla presenza di bassi salari al
loro interno e di sicuri mercati di sbocco all’esterno.
L’Unione Europea, che si è recentemente allargata a
27 Paesi, si è impegnata ad accettare nei prossimi
anni altre economie europee in transizione.
Disponendo di un forte potere contrattuale, sarà
l’Unione Europea a definire i tempi in cui si realizzerà l’allargamento. Inizialmente, i nuovi ammessi
diverranno membri del Mercato Unico. Le tariffe e
le barriere non tariffarie saranno abolite.
Quindi, a giudizio dell’Unione, i Paesi ammessi
all’ingresso saranno “pronti” quando potranno con
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Capitolo 31 • L’integrazione europea 559
piena sicurezza essere ammessi nel Mercato Unico.
Ciò significa, principalmente, che l’Unione riporrà la
sua fiducia nelle autorità di regolamentazione dei
Paesi ammessi, giudicherà che questi siano in grado
di affrontare la competizione del Mercato Unico e
valuterà che abbiano raggiunto una ragionevole stabilità macroeconomica.
Con l’entrata nell’Unione Europea, i Paesi ammessi dovranno aderire all’ERM2, un sistema monetario con parità fisse ma occasionalmente modificabili, tra ognuno dei Paesi ammessi e l’euro. Ci saranno, come di consueto in questo tipo di sistemi,
delle parità centrali e delle bande di oscillazione. I
Paesi ammessi resteranno nell’ERM2 finché non saranno in grado di rispettare i criteri di convergenza
di Maastricht. Dopo di che, sarà concesso loro di
adottare l’euro.
Quindi, diversi Paesi potranno far parte dell’UE
in diverse date, ed è possibile che restino nell’ERM2
per periodi di tempo diversi finché non saranno
pronti a far parte dell’area euro. I criteri di Maastricht
richiedono che venga raggiunto un basso tasso di
inflazione, che i deficit fiscali non siano eccessivi e
che non si verifichino delle svalutazioni nei due anni
precedenti all’adozione dell’euro. Perciò, 2 anni è il
periodo minimo di permanenza nell’ERM2.
L’allargamento dell’area euro
avrà effetti positivi?
La maggior parte delle economie in transizione europee ha un obiettivo principale: la piena appartenenza all’Unione Europea e l’adozione dell’euro. Una
volta che il processo di transizione abbia permesso
loro di essere ammesse come possibili membri
dell’Unione Europea, non sarebbe meglio che fosse
loro concesso di adottare subito l’euro, potendo così
evitare periodi di incertezza e possibili attacchi speculativi durante il periodo di adesione all’ERM2?
Molti economisti ritengono che sarebbe economicamente più opportuno seguire una politica che
permettesse loro, dopo l’ammissione all’Unione, di
adottare subito l’euro. Tuttavia, l’Unione Europea ha
esplicitamente eliminato questa possibilità per due
ragioni.
In primo luogo, l’Unione Europea ha sempre adottato il principio che tutti i Paesi devono seguire le
stesse regole. Ciò limita le richieste per ottenere un
trattamento speciale. Dato che i membri dell’Unione
Monetaria hanno dovuto aderire all’ERM e rispettare
i criteri di convergenza di Maastricht, l’Unione vuole
che tutti i nuovi membri facciano lo stesso. Altrimenti,
violerebbe il principio che tutti i membri debbano
seguire le stesse regole.
In secondo luogo, anche se un singolo Paese ammesso all’ingresso è piccolo relativamente all’intera
Unione, ammettere un gruppo, per esempio di 10
Paesi, significherebbe estendere in modo significativo il territorio dell’eurozona. Se questi Paesi non
fossero in grado di soddisfare pienamente i criteri di
convergenza di Maastricht relativi al mantenimento
di una bassa inflazione e di una disciplina fiscale,
potrebbero distruggere la politica economica dei
membri dell’eurozona.
Per esempio, se la BCE prestasse attenzione solo
all’inflazione media all’interno dell’eurozona, tollerare un’alta inflazione in molti Paesi porterebbe
all’aumento dell’inflazione media e spingerebbe la
politica monetaria ad aumentare i tassi di interesse.
L’Europa occidentale sarebbe colpita da un periodo
di recessione, mentre la BCE sarebbe impegnata a
combattere l’inflazione nei Paesi dell’Europa orientale. L’Europa occidentale preferisce mantenere
fuori dall’euro i Paesi ammessi all’ingresso
nell’Unione Europea finché non rispettino pienamente i tassi di inflazione e la disciplina fiscale dei
Paesi membri.
BOX 31.2 L’ingresso nell’Unione Europea: oneri e onori
“Per più di dieci anni le imprese dell’Europa occidentale hanno sfruttato la vicinanza geografica dei Paesi candidati all’Unione europea
andando ad impiantare stabilimenti produttivi in questi Paesi, caratterizzati da un vantaggioso saggio salariale. L’allargamento porterà ai paesi ammessi alcuni benefici, ma anche qualche onere.”
(The Economist, 30 aprile 2004)
tutto la filiera automobilistica, con marchi come Fiat, Peugeot o
Volkswagen, a essere stata attratta dai bassi saggi salariali di Polonia,
Romania e Slovenia, pari al 10-15% della media europea. Molte imprese hanno riconosciuto l’alto livello di formazione e professionalizzazione del personale di quei Paesi: modelli altamente tecnologici,
di produttori quali Audi, provengono oggi dall’Europa dell’Est.
Il giorno successivo alla pubblicazione dell’articolo di The Economist
sopra riportato, dieci Paesi – la maggior parte dei quali proveniente
dall’Europa centrale e orientale – sono entrati a far parte dell’Unione
Europea. I nuovi Paesi membri hanno beneficiato di circa 110 milioni
di dollari di investimenti diretti esteri (IDE) dal 1989. Ciò ha riguardato soprattutto la realizzazione di stabilimenti di assemblaggio per
beni che sarebbero poi stati venduti nella vecchia Europa. È soprat-
Tuttavia, per poter entrare nell’Unione Europea, i nuovi Stati membri hanno dovuto progressivamente adeguare il proprio ordinamento
interno a una legislazione europea comune (il cosiddetto acquis comunitario), adeguamento che si rivela sempre particolarmente articolato e oneroso, soprattutto in materia di sicurezza, salute, orario di lavoro: tutte misure che determineranno un deciso aumento
del costo del lavoro.
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560 Parte 5 • L’economia mondiale
Domande di ripasso
1 “I lavoratori hanno potere nel mercato del lavoro solo
quando le aziende per cui lavorano hanno potere nel mercato dei beni. In un mercato di concorrenza perfetta, qualunque tentativo di aumentare i salari semplicemente condurrebbe l’azienda fuori dal mercato.” Si tratta di un’affermazione corretta? Se nel 1992 aumentò la competizione
nel mercato dei beni, quale fu l’effetto sul mercato del lavoro nell’Unione Europea?
2 Citate tre Paesi dell’Unione Europea che secondo voi presentano un vantaggio relativo di mercato rispetto a beni
la cui produzione è ad alta intensità di lavoro. Citate tre
Paesi che invece non presentano questo vantaggio.
3 Due Paesi appartengono a un’unione monetaria e il tasso
di interesse sui depositi bancari è lo stesso in entrambi i
Paesi. Tuttavia, uno dei due Governi ha contratto un alto
debito e deve aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica. Nei due Paesi i titoli di Stato offriranno lo stesso
tasso di interesse? Ci saranno forti flussi di capitale tra i
due Paesi? Si tratta di un’unione monetaria? Se no, perché?
4 Il Patto di Stabilità e Crescita obbliga i Paesi membri
dell’Unione Monetaria Europea a mantenere bassi deficit
di bilancio. Qual è la motivazione di questa scelta? Perché
tale politica si rende necessaria, se la BCE è indipendente
e ha espresso esplicitamente il suo impegno a mantenere
bassa l’inflazione?
5 “Una transizione da un’economia pianificata a un’economia di libero mercato è solo un grosso progetto di investimento con alti costi iniziali e ampi benefici successivi. Le
economie in transizione dovrebbero finanziare l’intero costo della transizione attraverso i prestiti internazionali, e
pagare il conseguente tasso di interesse solo dopo essere
diventate ricche.” Se fosse possibile, le economie in transizione desidererebbero farlo? Perché i creditori potrebbero
non essere disposti a prestare così tanto denaro?
6 Errori comuni – Perché le seguenti affermazioni sono
errate? (a ) L’Unione Europea è sempre stata un’area di libero scambio e ha sempre avuto un mercato unico. (b ) La
Banca Centrale Europea deve garantire la stabilità dei prezzi,
ma sottostare a un controllo politico democratico.