32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 547 CAPITOLO 31 L’integrazione europea Obiettivi di apprendimento Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di: • Valutare le conseguenze del Mercato Unico Europeo • Esaminare i motivi per cui molti Paesi dell’Unione Europea hanno deciso di formare un’unione monetaria • Comprendere il funzionamento delle macroeconomie dei Paesi che hanno aderito all’euro • Analizzare il processo di transizione delle economie dell’Europa centrale e orientale L’economia europea del nuovo millennio appare assai diversa da quella di trent’anni fa. Alcuni di questi cambiamenti sono stati di natura politica. Altri, invece, sono stati di natura economica e, attraverso gli strumenti concettuali dell’economia – già acquisiti in questo libro –, è possibile svolgere alcune riflessioni proprio su questi ultimi cambiamenti. In questo capitolo si intende analizzare quanto è finora accaduto e quanto è possibile che accada in futuro. Sono tre gli argomenti principali che verranno affrontati. In primo luogo, l’Atto Unico Europeo del 1986 ha previsto per i membri della Comunità Europea un unico mercato per beni, servizi e attività finanziarie a partire dal 31 dicembre 1992. Quali cambiamenti ha comportato il Mercato Unico? In secondo luogo, per undici Paesi l’Unione Monetaria Europea (UME) è iniziata nel gennaio del 1999 e a oggi (2007) sono già tredici. Perché è nata l’Unione Monetaria e quali novità comporterà? Il terzo argomento sarà la valutazione dei progressi delle economie europee centrali e orientali nella loro transizione da economie centralizzate ex comuniste a economie di mercato. Molti di questi Paesi sono entrati da pochi anni nell’Unione Europea e altri si stanno preparando a farlo. 31.1 Il Mercato Unico La Comunità Economica Europea (CEE) fu fondata nel 1957 da sei Paesi. I suoi obiettivi principali ri- guardavano la creazione di un’area di libero scambio all’interno della Comunità e la realizzazione di ampi programmi comunitari finanziati da (piccoli) contributi provenienti dagli Stati membri. Il programma più ampio riguardava la Politica Agricola Comunitaria (PAC), un meccanismo di sostegno ai prezzi dei prodotti agricoli che, in alcuni casi, ha condotto a problemi di sovrapproduzione e alla costituzione dei Fondi Strutturali, destinati a procurare sussidi per le infrastrutture sociali, da impiegare soprattutto per le aree meno ricche della Comunità. Nei successivi cinquant’anni, la Comunità si è ampliata. Agli originari sei membri – Repubblica Federale Tedesca, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo – si sono aggiunti Danimarca, Irlanda e Regno Unito negli anni Settanta, Spagna, Portogallo e Grecia negli anni Ottanta e Austria, Finlandia e Svezia negli anni Novanta. La Comunità Economica Europea, divenuta con il Trattato di Maastricht “Unione Europea” (UE), è stata protagonista nel 2004 del più grande allargamento della sua storia, con l’ingresso di molti Paesi dell’Europa centrale e orientale. Oggi (2007) l’Unione Europea raccoglie 27 Paesi. L’allargamento dell’Unione Europea a nuovi Stati non comportò, inizialmente, alcun cambiamento nella sua struttura fondamentale. I Paesi membri continuarono a realizzare individualmente le loro politiche nazionali. Coloro che più credevano nel progetto di un’unione allargata di Paesi europei hanno sempre spinto per un’integrazione più stretta, auspicando l’adozione di standard industriali o di simili aliquote fiscali tra i Paesi. Tutto questo non sempre si è realizzato e principalmente per due ragioni. Innanzitutto, risultava assai difficile superare l’individualismo di ciascuno Stato e riuscire a individuare un unico corpo di norme che potesse essere applicato a tutti gli Stati membri. Inoltre, si poneva una delicata questione politica: nessuno Stato era realmente disposto a rinunciare alle proprie politiche e procedure per adottare quelle di qualcun altro. Alla metà degli anni Ottanta ci fu un progresso decisivo. Invece di cercare un accordo su un’unica 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 548 548 Parte 5 • L’economia mondiale piattaforma di norme onnicomprensive, elaborate a Bruxelles e poi rigidamente imposte a tutti gli Stati membri, la logica della concorrenza condusse a un approccio differente. Gli Stati membri giunsero a un accordo su alcuni principi generali per l’armonizzazione delle proprie politiche. Ciascun Paese rimaneva, però, responsabile di decidere le modalità da adottare per poi realizzare le singole politiche concordate. Inoltre, ciascun Paese riconosceva la validità delle normative adottate negli altri Stati membri. Un esempio può essere il seguente, che si riferisce al settore bancario. Ogni Paese ha una propria normativa che stabilisce quali siano gli enti che possono essere registrati come banche o compagnie assicurative e quali formalità debbano essere adempiute a tal fine. In precedenza, le differenze nelle legislazioni nazionali erano così marcate che una banca registrata come tale nel Regno Unito, sotto la legge inglese, non si conformava alle condizioni imposte alle banche in Francia, Germania o Italia. In tal modo, però, per le banche di uno Stato era quasi impossibile riuscire a competere in altri Paesi. I singoli mercati nazionali risultavano, pertanto, separati l’uno dall’altro. Dal momento che l’attività bancaria presenta economie di scala, su ciascun ridotto mercato nazionale c’erano solo poche banche che godevano di un significativo potere di mercato. Secondo il nuovo approccio, gli Stati membri si sono accordati su alcuni principi generali riguardanti la disciplina delle banche, per esempio, la misura minima della congruità del capitale (l’ammontare della copertura finanziaria necessaria per garantire particolari tipi di attività rischiose), dei controlli esterni (per verificare la correttezza dell’attività dei dirigenti) e così via. In seguito, le singole competenti autorità nazionali hanno deciso come applicare questi criteri generali per autorizzare le banche estere a operare al proprio interno. In tal modo, alla fine si è giunti al risultato decisivo che una banca registrata in Germania, sotto la legge tedesca, potesse essere autorizzata a operare in tutta l’Unione Europea. Questo nuovo approccio ha consentito di conseguire due vantaggi. In primo luogo, ha fornito una modalità politicamente corretta di avviarsi verso l’integrazione europea. I singoli Governi, infatti, non avevano più la sensazione di cedere tutto il controllo politico. In secondo luogo, ha stimolato maggiormente la concorrenza. Invece di stabilire modalità di regolamentazione uniche e valide per tutti, i diversi Paesi adottano meccanismi differenti per l’applicazione dei singoli principi generali, lasciando poi che sia il mercato a stabilire quali di essi risulti il migliore. Gli Stati che hanno adottato strutture di norme ben formulate e flessibili hanno riscontrato che le loro imprese sono riuscite a ritagliarsi una fetta di mercato più ampia nel commercio dell’Unione Europea. I Paesi, invece, con sistemi di norme meno favorevoli (che potrebbero essere quelli che richiedono troppe formalità, ma altresì quelli che ne richiedono troppo poche: gli affari sono, infatti, nemici dell’anarchia e della mancanza di chiarezza legislativa) hanno finito per perdere quote di mercato. In questo modo, si è instaurata una certa concorrenza anche tra le diverse forme di regolamentazione adottate. Una volta che le trattative si sono mosse su queste nuove basi, i progressi si sono fatti vedere rapidamente. Gli Stati membri della Comunità Europea hanno ratificato l’Atto Unico Europeo, fissando come termine il 1992 per portare a compimento il mercato unico europeo tramite l’armonizzazione delle normative dei mercati nazionali. Tra i suoi principali obiettivi c’erano: a) l’abolizione di tutti i controlli valutari sui flussi di capitale; b) la rimozione di tutte le barriere non tariffarie al commercio nell’UE (in particolare, le differenze nella legislazione sui marchi di commercio, sui brevetti e sulla normativa della sicurezza, che contribuiscono alla segmentazione dei mercati nazionali); c) l’eliminazione di atteggiamenti protezionistici nel settore pubblico (per esempio, la difesa pubblica) per favorire i produttori interni; d) la rimozione dei controlli doganali, a eccezione di quelli riguardanti ragioni di sicurezza e di salute pubblica; e) la progressiva armonizzazione delle aliquote fiscali. Un mercato unico non è diviso da normative, tasse e pratiche informali nazionali. Sebbene molti progressi siano stati fatti, la realizzazione di un Mercato Unico in Europa non è ancora completa, soprattutto per quanto riguarda l’armonizzazione delle aliquote fiscali o gli atteggiamenti protezionistici verso i settori industriali nazionali. 31.2 I benefici del Mercato Unico La Tabella 31.1 mostra che la realizzazione del Mercato Unico ha portato alla creazione di un’area economica addirittura più grande di quella degli Stati Uniti o del Giappone. I potenziali benefici per gli Stati membri possono essere ricondotti a tre principali categorie: una più efficiente allocazione delle ri- Tabella 31.1 Le dimensioni del Mercato Unico, anno 2007 UE Popolazione (in milioni) USA Giappone 493 302 127 PIL nominale (in miliardi di dollari) 15 849 13 244 4911 Fonte: stime del Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database, aprile 2007. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 549 Capitolo 31 • L’integrazione europea 549 sorse, un maggior sfruttamento delle economie di scala e ulteriori vantaggi derivanti dall’aumentata concorrenza. Nel Capitolo 30 è stato spiegato come il commercio internazionale consenta a ciascun Paese di specializzarsi maggiormente nella produzione di beni che riesce a produrre in modo relativamente più economico. Sebbene la Comunità Europea abbia per molti anni operato come un’area di libero scambio, senza tariffe doganali sugli scambi tra gli Stati membri, tuttavia nel tempo continuavano a permanere barriere non tariffarie che contribuivano a mantenere divisi i mercati nazionali. Le barriere non tariffarie sono differenze nelle normative o nelle pratiche interne ai singoli Paesi che ostacolano la libera circolazione di beni, servizi e fattori produttivi tra i diversi Paesi. La costituzione del Mercato Unico ha, quindi, cercato di portare all’abolizione delle barriere non tariffarie e di consentire ai singoli Paesi di sfruttare pienamente i propri reali vantaggi comparati. Una seconda inefficienza, che si realizza quando i mercati nazionali sono piccoli e divisi, è relativa al fatto che le imprese potrebbero non essere in grado di sfruttare pienamente le economie di scala. Man mano che le barriere sono state abolite, le aziende sono diventate più grandi e, in quei settori in cui esistevano economie di scala, i costi sono diminuiti. Il commercio internazionale tra medesimi settori produttivi è aumentato, e non solo il commercio di beni ma anche di servizi, come per esempio i servizi bancari. In terzo luogo, il mercato unico ha determinato una più intensa concorrenza per almeno due diverse ragioni. Innanzitutto, la concorrenza tra le diverse forme di regolamentazione ha portato, in media, ad abbassare il livello di regolamentazione. In molti Paesi, l’armonizzazione delle normative ha operato in direzione di una sostanziale deregolamentazione, partendo da alti livelli iniziali. Inoltre, la possibilità di disporre di un mercato più ampio ha messo le singole imprese in condizione di sfruttare le economie di scala anche senza dovere necessariamente ricoprire una quota di mercato così ampia come sarebbe stato necessario in un’economia piccola e segmentata. Quantificare i guadagni È possibile quantificare i guadagni derivanti dall’essere Paesi membri dell’Unione Europea? La Tabella 32.2 mostra le stime del professor Alasdair Smith (della Sussex University) e di due suoi colleghi. L’aumento del benessere è stato misurato attraverso l’aumento del consumo disponibile, dovuto ai miglioramenti permanenti intervenuti dal lato dell’offerta che hanno portato a un aumento del prodotto potenziale. In ogni caso, è evidente che i risultati finali, per ogni Paese, Tabella 31.2 I guadagni del Mercato Unico (consumo aggiuntivo, come % del PIL iniziale) 2-3 Francia, Germania, Italia, Regno Unito 2-5 Danimarca 3-4 Olanda, Spagna 4-5 Belgio, Lussemburgo 4-10 Irlanda 5-16 Grecia 19-20 Portogallo Fonte: C. Allen et al., “The Competition Effects of the Single Market in Europe”, Economic Policy, 1998. dipendono dalle ipotesi di partenza. Per esempio, non è affatto chiaro se si dovesse già effettivamente postulare il raggiungimento di un Mercato Unico al momento in cui la ricerca è stata compiuta. In generale, i Paesi più piccoli hanno conseguito benefici maggiori dei Paesi più grandi, ma è indubbio che i guadagni riflettono altresì la tipologia di beni che vengono scambiati dai diversi Paesi. I guadagni maggiori sono associati alla liberalizzazione di attività precedentemente protette. Inoltre, è anche aumentato il commercio estero con i Paesi extra UE. La paura di una “fortezza Europa”, ovvero di un gruppo di Stati chiusi verso Paesi terzi e protezionistici al loro interno, si è rivelata infondata. Queste stime tengono conto di un solo aggiustamento al livello del prodotto potenziale, ma non di tutti gli effetti permanenti della crescita. I modelli di crescita endogena, discussi nel Capitolo 28, ammetterebbero anche un altro aggiustamento. Il professor Richard Baldwin dell’Università di Ginevra ha sostenuto che un aumento del prodotto potenziale causerebbe un aumento del risparmio, dell’investimento e anche del prodotto stesso, che potrebbe far aumentare ulteriormente le stime della Tabella 32.2.1 31.3 Dal Sistema Monetario Europeo (SME) all’Unione Monetaria Europea (UME) Dal 1988 le limitazioni e i controlli sui movimenti di capitale sono stati progressivamente aboliti, come parte integrante del programma del Mercato Unico. I responsabili politici si erano resi conto del rischio che gli speculatori attaccassero i tassi di cambio amministrati con il meccanismo del serpente monetario. Una possibile soluzione era, quindi, quella di completare al più presto il sistema dei cambi fissi. 1 Si veda R. Baldwin, “The Growth Effects of 1992”, Economic Policy, 1990. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 550 550 Parte 5 • L’economia mondiale Un’unione monetaria è caratterizzata da tassi di cambio fissati in modo permanente all’interno dell’Unione, da un mercato finanziario integrato e da un’unica banca centrale che stabilisca il tasso di interesse per l’intera Unione. Un’unione monetaria non deve necessariamente avere una singola valuta. Per esempio, le valute inglese e scozzese circolano una accanto all’altra. Ciò che importa è che il tasso di cambio sia certo e che una sola autorità (la Banca d’Inghilterra) stabilisca il livello del tasso di interesse per entrambe. Nel 1988, i capi di Stato europei costituirono la Commissione Delors, con il compito di elaborare un progetto per giungere all’Unione Monetaria Europea. È interessante notare che alla Commissione non fu chiesta una valutazione sull’opportunità di istituire l’Unione Monetaria. I piccoli, altamente integrati, sistemi economici europei dovevano evitare forti oscillazioni dei tassi di cambio. Avendo eliminato i controlli sulla circolazione dei capitali, non c’era alcuna garanzia che il serpente monetario avrebbe potuto evitare movimenti speculativi su singole valute. A ogni modo, dato che i Paesi membri dello SME avevano già rinunciato alla sovranità della loro politica monetaria lasciando fissare alla Germania il tasso di interesse valido per tutti i Paesi dello SME, una ratifica formale dell’Unione Monetaria non sembrò un così grande passo in avanti. Le raccomandazioni della Commissione Delors divennero successivamente la base del Trattato di Maastricht del 1992. Il progetto dell’Unione Monetaria Europea doveva essere realizzato attraverso tre fasi successive. Nella fase I, iniziata nel 1990, furono aboliti i residui controlli sui movimenti di capitale e si cercò di spingere il Regno Unito ad aderire al meccanismo di cambio (il “serpente monetario” o ERM, Exchange Rate Mechanism) di cui si è trattato nel precedente capitolo. Il Regno Unito aderì nell’autunno 1990. In questa fase, i riallineamenti all’interno dell’ERM, pur non vietati, non venivano certamente incoraggiati. Nella fase II, avviata nel gennaio del 1994, venne creato l’Istituto Monetario Europeo con il compito di predisporre una piattaforma di base per l’Unione Monetaria; i riallineamenti venivano scoraggiati in maniera più incisiva e si scoraggiavano, altresì, i deficit di bilancio, sebbene non fossero ancora proibiti. La fase III, in cui furono fissati in modo irrevocabile i tassi di cambio e la politica monetaria unica per tutti i Paesi dell’Unione, sarebbe dovuta iniziare nel 1997, a patto che i Paesi potenziali entranti fossero in grado di soddisfare i cosiddetti “criteri di convergenza di Maastricht”. La fine di questa fase fu di poco posticipata. Indipendentemente dal numero di Paesi in grado di soddisfare i criteri di Maastricht, la partenza dell’Unione Monetaria fu comunque fissata nel gennaio del 1999. La politica monetaria dell’Unione Monetaria fu da allora affidata a una banca centrale indipendente, la Banca Centrale Europea, il cui obiet- tivo primario – come già sottolineato nel capitolo sulla politica monetaria – è la stabilità dei prezzi. Quali erano i criteri di convergenza di Maastricht e che cosa si proponevano? I criteri di convergenza di Maastricht per potere aderire all’Unione Monetaria Europea richiedevano che ciascun Paese dovesse già aver raggiunto, al suo interno, una bassa inflazione, bassi tassi di interesse e una solida politica fiscale. Vi erano due ordini di criteri, uno per la politica monetaria e le variabili nominali e uno per la politica fiscale. In particolare, i criteri monetari imponevano che ciascun Paese, per aderire all’Unione Monetaria, godesse al suo interno di: – un basso livello di inflazione (massimo di 1,5 punti percentuali superiore alla media dei tre Paesi più virtuosi); – un basso tasso di interesse nominale (massimo di 2 punti percentuali superiore alla media dei tre Paesi più virtuosi); – un tasso di cambio che si fosse mantenuto, nei due anni precedenti l’ammissione, all’interno delle normali bande di oscillazione dell’ERM, senza avere svalutato la propria parità centrale. Quest’ultimo requisito è stato appositamente inserito al fine di prevenire svalutazioni competitive o riallineamenti dell’ultimo minuto. I criteri fiscali stabilivano: – limiti all’ampiezza del deficit pubblico, che doveva essere inferiore al 3% del PIL; – un rapporto debito/PIL che non doveva superare il 60%. Imporre una politica fiscale restrittiva portava come automatica conseguenza una pressione minima sulle singole banche centrali nell’andare incontro alle esigenze di liquidità dei singoli Governi. Molti economisti hanno rilevato come i criteri imposti dal Trattato fossero eccessivamente prudenti. Si è detto, infatti, che una banca centrale indipendente con uno statuto rigoroso costituisse già una condizione di per sé adeguata a garantire una bassa inflazione: sembrava dunque eccessivo vincolare entro limiti così ristretti gli spazi della politica fiscale. Dal momento che i Governi non avrebbero più potuto manovrare i tassi di interesse nazionali e i tassi di cambio per affrontare le situazioni, magari turbolente, interne, sembrava corretto lasciare loro almeno la piena discrezionalità nell’utilizzo dello strumento fiscale. Il Trattato di Maastricht fu il risultato di un bilanciamento di forze. A quell’epoca, la Germania era il Paese più forte all’interno dello SME: nel tempo aveva guadagnato la sua posizione attraverso politiche pubbliche che miravano più al controllo dell’inflazione che non della disoccupazione. La Germania voleva 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 551 Capitolo 31 • L’integrazione europea 551 essere ragionevolmente sicura di far parte di una Unione Monetaria forte e stabile, dove tutti i Paesi avrebbero avuto ugualmente a cuore lo stato delle loro finanze e avrebbero privilegiato di meno politiche demagogiche (quali promesse di un ipotetico controllo della disoccupazione). Si doveva, appunto, fare in modo che l’Unione Monetaria rappresentasse, a sua volta, una garanzia per la Germania e per i Paesi economicamente più solidi. I criteri di Maastricht furono dunque il compromesso raggiunto per dare le basi a una Unione Monetaria più omogenea possibile tra i diversi Paesi membri. mia tedesca. Per realizzare questo obiettivo, in Germania i tassi di interesse vennero aumentati fino a un livello considerato eccessivo dai partner dello SME. Tutto questo contribuì a innescare la crisi del 1992-1993. Il Regno Unito e l’Italia furono costretti ad abbandonare l’ERM, deprezzando le loro valute. Altri Paesi invece riuscirono a rimanere all’interno dell’ERM, sebbene molti abbiano dovuto svalutare le loro monete (si veda la Tabella 31.4). La riunificazione della Germania fu il più grande shock economico relativo a un solo Paese nell’Europa del dopoguerra. In ogni caso, la Banca Centrale Europea, per statuto, non può reagire tenendo conto delle esigenze di un solo Paese, dovendo, invece, curare gli interesse dell’intera Unione. I Paesi che erano stati costretti a uscire dal meccanismo dei tassi di cambio avevano comunque registrato una perdita della credibilità internazionale. Durante gli anni 1996-1998, i Paesi dell’UE si impegnarono per portare i loro deficit di bilancio al di sotto del limite del 3% fissato dal Trattato di Maastricht per essere ammessi nell’Unione Monetaria. L’Europa continentale intraprese così politiche fiscali assai restrittive. In Italia, come manovra dell’ultimo minuto, fu istituita una tassa chiamata “tassa per l’Europa” proprio per portare il rapporto deficit/PIL al di sotto della soglia del 3%. Era chiaro a tutti che questo non significava un sano bilancio pubblico quasi in pareggio, bensì una manovra straordinaria destinata solo a quello scopo. Il Governo si impegnò allora a restituire, gradualmente, nel corso degli anni successivi, quella tassa straordinaria. Così è avvenuto. Con grande fatica, alla fine, l’Italia entrò a fare parte del gruppo. Gli undici Paesi che desideravano procedere nel programma di unificazione furono ritenuti idonei all’Unione Monetaria, per la partenza prevista del 1999. La Grecia raggiunse gli altri Paesi nel gennaio 2001: nel 2002 l’euro iniziò a circolare in dodici Stati europei. La Tabella 32.3 confronta le performance italiane, durante gli anni Novanta, con L’ingresso della lira L’ingresso della lira avvenne con non poche difficoltà. In primo luogo, fin da quando furono istituiti i criteri di convergenza, era abbastanza chiaro che uno dei criteri non sarebbe mai stato rispettato dall’Italia e da alcuni altri Paesi. Il rapporto debito/PIL era infatti superiore al 100% e riportarlo in pochi anni a un rapporto inferiore al 60% sarebbe stato impossibile. In secondo luogo, gli attacchi speculativi di fine 1992 e inizio 1993 avevano messo a dura prova l’intero sistema dello SME e soprattutto la credibilità di alcuni Paesi. La Banca d’Italia fece il possibile e perse miliardi di lire in riserve valutarie per sostenere la lira. Dichiarò che sarebbe riuscita a farlo senza procedere alla svalutazione, ma alla fine dovette cedere. Questi attacchi fecero altre vittime illustri, quali la sterlina e il franco francese. La svalutazione italiana fu dell’ordine del 25-30%, che costituisce uno sbalzo enorme per la nostra storia. In questo scenario, fu involontariamente corresponsabile la Germania. I grandi sussidi alla ex Germania dell’Est, da poco riunificata al resto del Paese, avevano portato a un surriscaldamento dell’economia tedesca. Quando il cancelliere Kohl si rifiutò di aumentare le tasse, la Bundesbank aumentò i tassi di interesse per cercare di raffreddare l’econo- Tabella 31.3 La fase dell’ingresso: l’Italia e i Paesi dell’euro (%) Area euro Crescita reale Gap di produzione (rispetto al PIL potenziale) Disoccupazione Tassi di interesse Inflazione Italia Crescita reale Gap di produzione (rispetto al PIL potenziale) Disoccupazione Tassi di interesse Inflazione Fonte: OCSE, Economic Outlook, giugno 2004. 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 1,4 –2,2 2,4 –1,9 2,8 –1,1 2,8 0,4 3,7 1,1 1,7 0,6 0,9 –0,5 0,5 –2,0 10,7 4,8 2,1 10,8 4,3 1,6 9,4 3,9 1,7 8,4 3 1,1 8 4,4 1,4 8,4 4,3 2,4 8,8 3 2,6 8 2,3 2 1,0 –1,5 2,0 –1,1 1,7 –0,9 1,7 –0,9 3,2 0,5 1,7 0,5 0,4 –0,8 0,4 –2 11,7 8,8 5,3 11,8 6,9 2,4 11,9 5 2,7 11,5 3 1,6 10,7 4,4 2,2 9,6 4,3 2,7 9,1 3,3 3,1 8,8 2,3 2,9 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 552 552 Parte 5 • L’economia mondiale quelle dell’insieme dei Paesi che hanno aderito al progetto per la moneta unica. 31.4 L’economia dell’Unione Monetaria Nel 1999, il professor Robert Mundell ha vinto il premio Nobel per l’Economia in parte anche per il suo innovativo studio sulle aree monetarie ottimali. Un’area monetaria ottimale identifica un insieme di Paesi che trae vantaggio dall’adozione di una moneta comune, piuttosto che dal tenere separate le rispettive monete nazionali. Mundell e gli altri economisti che, dopo di lui, si sono occupati di questo argomento hanno identificato tre caratteristiche che consentono di individuare quali Paesi possano costituire un’area monetaria ottimale. In primo luogo, i Paesi che commerciano molto tra di loro potrebbero non essere in grado di influenzare il tasso di cambio di equilibrio reale nei confronti dei loro partner, nel lungo periodo; potrebbero, però, avere la tentazione di svalutare il cambio per cercare di ottenere vantaggi immediati. Un tasso di cambio fisso non consente questo tipo di comportamento e permette di ottenere ulteriori vantaggi dagli scambi commerciali. In secondo luogo, quanto più è simile la struttura industriale e produttiva dei potenziali partner, tanto più è probabile che questi si trovino a fronteggiare shock interni simmetrici che potrebbero quindi essere affrontati con una politica monetaria comune. In terzo luogo, maggiore è la mobilità del lavoro tra i diversi mercati all’interno dell’area monetaria, più facilmente si possono realizzare quegli aggiustamenti necessari della competitività e del tasso di cambio reale, attraverso cambiamenti nel livello dei prezzi dei Paesi membri. Al contrario, invece, i Paesi avranno interesse a mantenere una propria sovranità monetaria quando non risultano particolarmente integrati con i potenziali partner, quando hanno strutture produttive molto differenti (e, quindi, tendono a fronteggiare gli shock in modo diverso) e quando non possono fare affidamento su un’elevata flessibilità dei salari e dei prezzi, al loro interno, come soluzioni alternative alla flessibilità del tasso di cambio. A queste argomentazioni economiche occorre aggiungere un importante argomento di natura politica. Le aree monetarie si creano più facilmente quando i Paesi all’interno dell’area sono disposti a effettuare trasferimenti fiscali a favore degli altri Paesi. In pratica, la presenza di identità culturale e politica può essere importante per il successo di un’area monetaria almeno tanto quanto le strette condizioni di natura economica che i Paesi entranti devono rispettare. L’Europa è un’area monetaria ottimale? Coloro che hanno studiato la struttura delle economie nazionali e le correlazioni tra gli shock dei diversi Paesi hanno raggiunto le seguenti conclusioni. 2 Va in primo luogo rilevato che, sebbene l’Europa sia un’area abbastanza integrata, non lo è, tuttavia, ancora completamente. Esiste un nucleo centrale di Paesi europei più strettamente integrati tra loro rispetto ad altri. Peraltro, è abbastanza chiaro che l’istituzione dell’Unione Monetaria ha conseguenze sul livello sostanziale di integrazione tra gli Stati membri. Una moneta comune, eliminando una fonte di segmentazione nei mercati nazionali, farà aumentare il livello di integrazione. È altresì provato che i Paesi maggiormente aperti agli scambi commerciali presentano una più stretta correlazione tra i loro cicli economici. Inoltre, i Paesi che appartengono a un’area monetaria tendono storicamente a commerciare di più tra di loro, cosa che può essere spiegata con il fatto che i loro tassi di cambio sono fissi.3 Tutte queste considerazioni sembrano allora suggerire che un’area monetaria possa essere avviata con successo anche prima che siano realizzate tutte le precondizioni economiche di cui si è parlato sopra. Il fatto stesso di cominciare a lavorare in questa direzione può portare a un’accelerazione dell’intero processo. Il Patto di Stabilità e Crescita Il Patto di Stabilità e Crescita, ratificato nel 1997 con il Trattato di Amsterdam, ha riconfermato i criteri di convergenza di politica fiscale del Trattato di Maastricht che, oltre a costituire le condizioni che i Paesi dovevano soddisfare per accedere all’Unione Monetaria, dovevano continuare a essere soddisfatti anche successivamente alla nascita dell’euro. Alcuni Paesi membri dell’Unione Monetaria hanno tuttora rapporti debito/PIL superiori al 100%. Ridurli fino al 60% è un obiettivo che potrebbe richiedere anni. Il vero obiettivo è stato raggiungere il tetto del 3% per il deficit pubblico. In linea di principio, i Paesi che eccedono tale limite devono pagare una sanzione economica, a meno che la loro economia non si trovi in una fase di grave recessione. Quindi, i Paesi che hanno un deficit superiore al tetto massimo del 3% del PIL devono aspettare che il loro prodotto diminuisca prima di ottenere il consenso per attuare una politica fiscale espansiva. 2 3 Si veda T. Bayoumi e B. Eichengreen, “Schocking aspects of European Monetary Unification”, in F. Giavazzi e F.Torres (editors), Adjustment and Growth in the European Monetary Union, Cambridge University Press, Cambridge, 1994; T. Bayoumi e B. Eichengreen, “Operationalizing the theory of optimum currency areas”, Discussion Paper 1484, Centre for Economic Policy Research, London, 1996. A. Rose, “One Money, One Market”, Economic Policy, 2000. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 553 Capitolo 31 • L’integrazione europea 553 In realtà, nel 2003 Francia e Germania hanno di poco superato la soglia del 3% del rapporto deficit/PIL, ma (con non poche discussioni) hanno evitato la sanzione. Successivamente, anche l’Italia ha registrato valori di deficit eccessivo. Tuttavia, nonostante gli avvertimenti e le raccomandazioni previste dal Patto di Stabilità e Crescita, nessuna sanzione è mai stata applicata ai Paesi che non hanno rispettato taluni criteri di Maastricht. Nel marzo 2005, su iniziativa di alcuni Governi, tra cui quello italiano, si è proceduto a una revisione del Patto di Stabilità e Crescita nel senso di una maggiore flessibilità. La Banca Centrale Europea La politica monetaria per i Paesi dell’Unione è realizzata dalla Banca Centrale Europea (BCE), con sede a Francoforte. Anche se le banche centrali nazionali non sono state soppresse, è, comunque, il comitato esecutivo della BCE a decidere il livello del tasso di interesse dell’euro. Sulla base del suo statuto, l’obiettivo primario della BCE è la stabilità dei prezzi. Una volta garantito questo, può anche perseguire obiettivi diversi. Durante le conferenze stampa, le autorità principali della BCE tendono sempre a sottolineare che le decisioni sui tassi di interesse dovrebbero essere interpretate soprattutto alla luce dell’obiettivo della stabilità dei prezzi. Né i mercati finanziari né gli economisti ne sono convinti. Il comportamento della BCE sembra riflettere anche un’attenzione particolare riguardo ai gap del prodotto oltre che dell’inflazione: in pratica, la regola di Taylor spiega molto bene il suo comportamento. La BCE, a differenza di altre banche centrali, ha adottato non uno ma due obiettivi intermedi, i cosiddetti “due pilastri” della sua strategia monetaria. Il primo pilastro è l’obiettivo monetario, ovvero il tasso di crescita di M3, che misura la moneta nominale. Il secondo pilastro è il tasso di inflazione attesa. La BCE sostiene di tener conto di entrambi i pilastri quando prende le decisioni relative ai tassi di interesse dell’area euro. Nel corso del tempo, si può osservare come l’aumento e la diminuzione dell’inflazione attesa e reale abbiano causato l’aumento e la diminuzione dei tassi di interesse nell’area euro. In questa evidente correlazione, è difficile individuare un ruolo del tasso di crescita della moneta nominale. La BCE non ha mai aumentato i tassi di interesse quando il tasso di crescita della moneta era troppo alto, ma solo quando questo era basso, e li ha abbassati quando il tasso di crescita della moneta era alto. La ragione è la seguente: la domanda di moneta varia continuamente, e il tasso di crescita dell’offerta di moneta che cerca di adeguarsi a quello della domanda non è un indicatore affidabile dei tassi futuri di inflazione. Per esempio, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, la gente ha venduto titoli e azioni e ha depositato il denaro posseduto nei conti correnti bancari, che fanno parte di M3. La forte crescita della domanda di moneta è stata accompagnata da un aumento immediato, da parte della Banca Centrale, dell’offerta di moneta, per evitare un brusco aumento dei tassi di interesse che avrebbe frenato ulteriormente il ciclo economico. Inoltre, la Banca Centrale era certa che quell’aumento dello stock di moneta offerta non si sarebbe tradotto in maggiore spesa, poiché i consumatori erano già molto spaventati e desideravano solo trattenere più moneta in forma liquida, non spenderla. Infatti, dopo l’11 settembre, si è addirittura registrata una diminuzione della domanda aggregata per beni di consumo e le banche centrali hanno, in tutto il mondo, diminuito i tassi di interesse per stimolare la spesa aggregata. Sono state proprio le oscillazioni nella domanda di moneta a causare l’abbandono da parte di molte banche centrali del perseguimento di un obiettivo monetario quantitativo in favore del perseguimento di molteplici obiettivi flessibili di inflazione o della regola di Taylor. Quanto è opportuno un federalismo fiscale? Una delle ragioni della sopravvivenza dell’unione monetaria degli Stati Uniti è la sua struttura fiscale federale. Quando uno degli Stati dell’unione entra in una fase di recessione, deve pagare minori tasse sul reddito a Washington e ha automaticamente diritto a ricevere maggiori trasferimenti. Si tratta di un classico esempio di meccanismo di stabilizzatore automatico, in grado di funzionare grazie al sistema di aliquote fiscali e di previdenza sociale federale. All’opposto, uno Stato che si trova in una fase di espansione pagherà maggiori tasse e riceverà una quota minore di trasferimenti. In un sistema fiscale federale vi è un’autorità centrale che stabilisce le tasse e le regole di spesa per i suoi Stati costituenti. Si supponga che negli Stati Uniti, quando il reddito di uno Stato aumenta di 1 dollaro, questo pagherà 30 centesimi in più di tasse sul reddito e riceverà 10 centesimi in meno di previdenza sociale. Al contrario, se il reddito di uno Stato diminuisce di 1 dollaro, questo pagherà 30 centesimi in meno di tasse e otterrà 10 centesimi in più di previdenza sociale. Originariamente, gli economisti pensavano che ciò significasse che ciascuno Stato fosse allora assicurato complessivamente per 40 centesimi di dollaro. Per i Paesi dell’euro non è stato previsto alcun sistema fiscale federale simile a questo. I meno ottimisti sostengono che, di conseguenza, l’Unione Monetaria potrebbe essere soggetta a degli shock di qualche singolo Stato membro. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 554 554 Parte 5 • L’economia mondiale La politica macroeconomica in uno Stato membro dell’Unione Monetaria La Figura 31.1 mostra la situazione economica di uno Stato membro. I tassi di interesse sono stabiliti dalla BCE a Francoforte. Dal punto di vista di un singolo Paese, è come se la curva LM fosse orizzontale in corrispondenza di un tasso di interesse r0. Si supponga che la posizione iniziale della curva IS determini l’equilibrio in corrispondenza del punto A. La domanda aggregata è al livello del PIL potenziale. A questo punto, uno shock fa contrarre la curva IS fino a IS1. In un contesto di sovranità monetaria, il Paese potrebbe ridurre il livello del tasso di interesse per ristabilire il reddito di piena occupazione in corrispondenza di C. Lo stesso potrebbe ancora accadere nell’Unione Europea se la situazione economica del Paese fosse strettamente correlata a quella degli altri Paesi membri: in tal caso, infatti, la BCE reagirebbe a quello che sta accadendo in tutti i Paesi, riducendo per tutti i tassi di interesse. Tuttavia, nel caso in cui nessun altro Paese si trovi a fronteggiare il medesimo shock della curva IS, e il Paese in questione sia troppo piccolo per esercitare una qualunque influenza sull’Unione tale da portare a una reazione della BCE, allora i tassi di interesse rimarranno al livello r0. A questo punto, il Paese ha due alternative. A patto di non contravvenire alle condizioni imposte dal Patto di Stabilità, può utilizzare la politica fiscale per portare IS1 verso destra oppure può aspettare che sia il mercato del lavoro a farlo. In che modo? In B, il Paese è in fase recessiva. Questo gradualmente fa diminuire i salari e i prezzi. Al livello del tasso di cambio nominale fissato nei confronti dei suoi partner, questo renderà il Paese più competitivo. Maggiori esportazioni e minori importazioni sposteranno la curva IS1 verso destra. Se la flessibilità dei prezzi e dei salari è abbastanza elevata, potrebbe addirittura non essere necessario alcun intervento di politica fiscale. Tuttavia, poiché molti mercati europei del lavoro sono piuttosto rigidi, è assai probabile che l’impiego di strumenti di politica fiscale possa accelerare il processo. Un’ultima considerazione. Se non vengono modificati l’aliquota fiscale e i livelli di spesa pubblica, un allentamento della politica fiscale durante un periodo di recessione viene ottenuto solo con gli stabilizzatori automatici. Tuttavia, poiché questi strumenti non possono prevedere il futuro, essi sono messi in atto solo dopo che il reddito è diminuito, non prima. Nel 2001, l’Europa è stata colpita da due shock della domanda: la recessione degli Stati Uniti in seguito all’esplosione della bolla speculativa delle IS 1 Tasso di interesse Sebbene l’idea possa essere corretta, non lo sono le conclusioni che se ne traggono. I calcoli degli Stati Uniti potrebbero essere corretti, se applicati a un mondo in cui l’andamento dei singoli redditi dei diversi Paesi fosse totalmente indipendente e non correlato. In pratica, è evidente che, al contrario, esistono correlazioni. Di conseguenza, quando uno Stato vive un ciclo recessivo e riceve aiuti da Washington, probabilmente anche altri Stati staranno vivendo un momento di crisi e, quindi, riceveranno i medesimi aiuti. Questa situazione farà aumentare il debito pubblico del Governo degli Stati Uniti e aumenterà il prelievo fiscale richiesto a ogni Stato dall’amministrazione centrale. Ma un singolo Stato potrebbe decidere di agire nel proprio interesse, non già come socio di un’associazione di mutua assistenza. Potrebbe prendere a prestito denaro in recessione per gonfiare le sue entrate fiscali e restituirlo in periodi migliori. Tenendo conto di ciò, i Paesi membri degli Stati Uniti sono probabilmente coperti per 10 centesimi e non per 40 centesimi, per ogni dollaro di reddito prodotto. Il Patto di Stabilità e Crescita potrebbe prevenire comportamenti di questo tipo da parte di singoli Paesi membri dell’Unione Monetaria, rendendo più difficoltoso ricorrere ai prestiti in periodi di recessione. Oppure il Patto di Stabilità e Crescita potrebbe essere interpretato in modo più flessibile, avendo maggiore riguardo agli effetti dei cicli economici temporanei riducendo, temporaneamente, il prelievo fiscale nei periodi di crisi. Quando il deficit di bilancio della Germania aumentò all’inizio del 2002, portandola vicina al tetto massimo del 3%, i leader politici dell’Unione Europea si accordarono per non ammonire ufficialmente la Germania avvertendola soltanto che una politica fiscale restrittiva era ormai divenuta d’obbligo. r0 B C Y1 LM A IS Y0 Prodotto nazionale Figura 31.1 Un Paese membro dell’Unione Monetaria Europea. Un piccolo Paese membro della UME fronteggia una curva LM orizzontale in corrispondenza del tasso di interesse stabilito dalla BCE. Se la curva IS si sposta fino a IS1, il tasso di interesse sarà diminuito solo a condizione che l’intera UME sia interessata dallo shock. Altrimenti, la recessione del singolo Stato ridurrà gradualmente i prezzi e i salari al suo interno, stimolando la competitività e spostando la curva IS1 verso destra. Una politica fiscale espansiva potrebbe velocizzare questo spostamento. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 555 Capitolo 31 • L’integrazione europea 555 dot.com e il crollo della fiducia degli investitori dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre. Dato che l’economia reale stava attraversando un periodo di stagnazione, occorreva del tempo affinché questi shock causassero una diminuzione del reddito, dell’occupazione e dell’inflazione. Ma dal 12 settembre tutti sapevano che sarebbe successo. Idealmente, si sarebbero dovute utilizzare le politiche della domanda per controbilanciare questi shock della domanda. Se la politica fiscale resta perlopiù confinata soltanto all’utilizzo degli stabilizzatori automatici, che tengono conto solo del passato, l’unica via per una politica economica orientata al futuro potrebbe essere quella che utilizza i tagli dei tassi di interesse. Infatti, questi si sono fortemente ridotti, almeno fino a tutto il 2005. Quindi, l’ordinamento fiscale dell’UME fa aumentare l’importanza della politica monetaria come mezzo di reazione agli shock, soprattutto prima che questi abbiano pienamente esercitato i loro effetti sul prodotto e sul livello dei prezzi. 31.5 L’Europa centrale e orientale Per 40 anni, dopo il 1945, l’Europa centrale e orientale ha vissuto sotto il rigido controllo politico ed economico di Mosca, cioè di una potenza a economia completamente pianificata, dove le forze di mercato giocavano un ruolo realmente marginale. Le inefficienze della pianificazione non hanno tardato a manifestarsi: lo stock di capitale era logoro, scarsi gli incentivi, bassa la produttività. La Tabella 32.4 convalida due considerazioni sull’Europa centrale e orientale alla vigilia della riforma. Essa mostra come fosse basso lo standard di vita medio in confronto con quello della maggior parte dei Paesi occidentali. Nel ricco Nord-Europa, il reddito pro capite nel periodo 1988-1989 era in media di 20 000 dollari l’anno. Dalla Tabella 32.4 è inoltre possibile dedurre il fallimento dei tentativi di risollevare le economie pianificate, durante gli anni Settanta, attraverso i prestiti provenienti dall’Ovest. Nazioni come l’Ungheria e la Polonia sono rimaste con i loro debiti, senza averne tratto alcun beneficio. Le inefficienze della pianificazione hanno spesso lasciato incompleti interi progetti di investimento, con conseguente spreco di risorse. Alcuni Stati creditori occidentali hanno parzialmente cancellato i debiti di alcuni Paesi orientali. A Londra è stata creata la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) per finanziare investimenti di Paesi occidentali nelle economie riformiste dei Paesi ex comunisti. La riforma dell’offerta Le economie in transizione sono quelle che stanno passando da una pianificazione centralizzata a un’economia di mercato. Tabella 31.4 La Comunità Europea negli anni 1988-1989 Dollari pro capite di... PIL Debito estero Germania orientale 9300 1300 Cecoslovacchia 7600 400 Ungheria 6500 1900 Bulgaria 5600 1000 Polonia 5600 1100 Romania 4100 0 Fonti:American Express, Amex Bank Review, novembre 1989; HM Treasury, Economic Progress Report, 1990. In passato, le decisioni sulla produzione, sugli investimenti e sull’occupazione venivano perlopiù assunte dai burocrati. Una maggiore attività portava con sé maggior prestigio, anche se le risorse utilizzate erano maggiori del reddito che con esse veniva prodotto. Attuare una riforma dell’offerta significava in primo luogo lasciare al meccanismo dei prezzi il compito di allocare le risorse nel sistema. Questo ha comportato diverse conseguenze. Innanzitutto, i prezzi dovevano riflettere la reale scarsità delle risorse. In un regime centralizzato, i prezzi venivano mantenuti a un livello artificialmente basso. In tal modo, il tasso di inflazione risultava, a sua volta, piuttosto basso, ma i dati dai quali veniva derivato non potevano considerarsi realmente attendibili. A quei prezzi, da un lato i consumatori non riuscivano a trovare sul mercato molte categorie di beni, dall’altro, alle aziende risultavano introvabili alcune tipologie di fattori produttivi. La situazione era, pertanto, caratterizzata da un cronico eccesso di domanda. Liberalizzare i prezzi significava inevitabilmente lasciare che essi fossero liberi di aumentare. Nel gennaio del 1990, primo mese della riforma polacca, venne registrata un’inflazione del 70%, per un tasso annuale di quasi il 1000%. Ma questo fu un fenomeno eccezionale. Anzi, fu proprio grazie al meccanismo di mercato che aveva portato con sé l’aumento dei prezzi che i produttori si resero conto che era arrivato il momento di aumentare la produzione. In ogni caso, il successo di un’economia non può dipendere esclusivamente dalla liberalizzazione dei prezzi di mercato. Occorre che vi sia anche una risposta efficace anche dal lato dell’offerta. Con ogni probabilità i burocrati, che sino a quel momento avevano gestito le imprese statali, non erano le persone più indicate per raccogliere la nuova sfida del mercato e per cominciare a gestire imprese private. Molte imprese furono privatizzate. Lo scopo della privatizzazione non era tanto quello di aumentare le entrate del Governo – tenendo anche conto del fatto che 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 556 556 Parte 5 • L’economia mondiale i consumatori non avevano una grande disponibilità economica – quanto quello di indurre i dirigenti delle nuove imprese a ragionare in una logica di profitto. Furono sperimentate diverse strategie di privatizzazione. L’Ungheria cercò acquirenti esteri disposti a contribuire con denaro contante e competenza manageriale. La Repubblica Ceca diede ai suoi cittadini dei voucher che offrivano loro il diritto di acquistare azioni nelle aziende che venivano privatizzate. La verità era che, nonostante l’apparenza di una rapida privatizzazione in atto, molte di queste vennero acquistate da banche di proprietà dello Stato. In Russia, alla privatizzazione si accompagnarono forti sospetti circa il coinvolgimento del crimine organizzato. I Paesi dell’Europa orientale sono dotati di una forza lavoro preparata. Oltre all’accesso ai mercati, ciò di cui maggiormente hanno bisogno sono investimenti in capitale fisico e capacità manageriali per gestire aziende sempre più orientate al mercato. Anche in questo caso, l’Occidente può rendersi utile e, in talune circostanze, lo ha già fatto con successo. Per esempio, gli investimenti delle aziende del settore automobilistico per la costruzione di fabbriche nei Paesi dell’Europa orientale sono stati massicci. Sotto il controllo di Volkswagen, Skoda ha decisamente migliorato la qualità della propria produzione. Le condizioni macroeconomiche del successo Commercio e investimenti esteri Le economie dell’Europa orientale avrebbero chiaramente avuto bisogno di mercati di sbocco per i propri prodotti, nell’ipotesi in cui la produzione fosse cresciuta rapidamente. Di sicuro, la pressione della concorrenza estera era uno stimolo potente per un rapido miglioramento della produttività, anche se ciò poteva comportare fenomeni di disoccupazione nel breve periodo, mentre venivano realizzati i necessari adeguamenti, in parte inevitabilmente dolorosi. Il mercato naturale per i prodotti delle economie orientali era ovviamente rappresentato dai Paesi dell’Unione Monetaria. Molti Paesi dell’Europa orientale hanno firmato gli Accordi Europei per divenire membri dell’Unione Europea. Si trattava di accordi che consentivano rapide manovre per liberalizzare gli scambi commerciali di molti beni, anche se perlopiù non riguardavano le categorie di beni più importanti. In questo modo, si cercava di evitare che le industrie occidentali in declino potessero subire la concorrenza delle importazioni di prodotti a basso costo dai Paesi dell’Europa centrale e orientale. In particolare, erano escluse le industrie dell’acciaio, l’industria tessile e il settore agricolo, che meglio si sarebbero prestati a fornire i prodotti all’Occidente. La politica dell’Unione è stata probabilmente troppo protezionistica a questo riguardo. Consentire le importazioni dai Paesi dell’Europa orientale genera, in realtà, tre grandi vantaggi per la stessa Unione. Innanzitutto, i consumatori dei vecchi Stati membri dell’Unione Europea non possono che trarre benefici dalla possibilità di acquistare prodotti a basso costo. Inoltre, la conseguente crescita economica dei Paesi dell’Europa orientale porterebbe a un ulteriore mercato di sbocco proprio per le esportazioni dei produttori. Bisogna anche ricordare che un insuccesso economico nei Paesi dell’Europa orientale potrebbe condurre a massicce migrazioni verso i Paesi occidentali, o addirittura a minacce di natura politica e militare. Di conseguenza, accordi di libero commercio rappresentano il più opportuno e concreto investimento che l’Unione possa effettuare per il successo dell’Europa orientale. Le economie in transizione necessitano di riforme dal lato dell’offerta per far aumentare il prodotto potenziale, ma anche del supporto di un’adeguata politica macroeconomica. Occorrono prudenti politiche fiscali e monetarie per tenere sotto controllo l’inflazione. Infatti, nella fase iniziale di un periodo di transizione, l’inflazione è alta per due ragioni. In primo luogo, dato che i prezzi vengono liberalizzati, essi aumentano fino a raggiungere il loro livello di equilibrio. In secondo luogo, poiché i Governi hanno bisogno di risorse da investire per portare a compimento il processo di transizione, ma hanno un basso prodotto potenziale e dunque una bassa base imponibile colpita dalla tassazione, essi sono propensi a gonfiare, con l’inflazione, le entrate reali. Altrimenti, dovrebbero rinunciare agli investimenti oppure imporre tasse così alte che gli effetti distorsivi sarebbero troppo forti. Man mano che la transizione procede con successo, il prodotto potenziale e il reddito aumentano e, così, anche a parità di aliquota fiscale, aumentano le entrate fiscali complessive. Gli investimenti cominciano ad avere rendimenti decrescenti. Per entrambe le ragioni, il tasso di inflazione deve diminuire. Tuttavia, i politici subiscono ancora molte pressioni che li inducono ad aumentare la spesa pubblica e non la tassazione. Delle buone e solide istituzioni possono aiutare i Governi a prendere le decisioni più sagge. Quindi, l’indipendenza della banca centrale è importante nelle economie in transizione tanto quanto nelle economie avanzate, poiché contribuisce ad assicurare l’attuazione di una responsabile politica monetaria. All’inizio del capitolo si è osservato come l’indipendenza della BCE non fu sufficiente a convincere subito la Germania ad abbandonare l’ERM per l’Unione Monetaria. Ma i criteri di convergenza di Maastricht e il Patto di Stabilità e Crescita inducono i Governi a ridurre i deficit fiscali, e quindi la banca centrale, anche nel caso in cui sia indipendente, non subisce pressioni che la indurrebbero a stampare moneta. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 557 Capitolo 31 • L’integrazione europea 557 Se ciò è stato vero per la matura Europa occidentale, è ancora più probabile che lo sia anche per i Paesi in transizione dell’Europa centrale e orientale. Una responsabile politica monetaria deve essere incoraggiata dalla pressione a evitare ampi deficit fiscali. All’inizio, questa pressione fu esercitata dal Fondo Monetario Internazionale. Infatti, se un Paese vuole ottenere un prestito dall’FMI, deve accettare e mettere in atto il perseguimento di obiettivi riguardanti il deficit fiscale. Se la pianificazione centralizzata era così inefficiente, perché le cose sono peggiorate con il passaggio al libero mercato? Il Box 31.1 mostra che le economie nelle quali si sono attuate profonde riforme hanno avuto diminuzioni di almeno il 25% del PIL nel periodo 1990-1992, prima della ripresa nel 1993 o 1994. Come si può spiegare il peggioramento della situazione economica dopo l’abbandono di sistemi di pianificazione completamente centralizzati? È necessario, in primo luogo, osservare che le statistiche potrebbero non essere attendibili. Prima che i prezzi fossero liberalizzati, come veniva misurato il PIL reale? Se i prezzi non riflettevano la scarsità, perché valutare il valore del PIL sulla base di prezzi così poco significativi? Una possibile soluzione a questo problema è quella di utilizzare i prezzi mondiali: si misurano le quantità e poi si adottano i prezzi espressi in dollari o marchi tedeschi. Gli economisti che hanno impiegato questo sistema hanno riscontrato che alcune industrie producevano con un valore aggiunto negativo: usavano un ammontare di fattori produttivi maggiore del valore dell’output che riuscivano a produrre. Se dunque il dato di partenza non è corretto, non avrebbe senso confrontarlo con un dato di arrivo basato su una misura completamente diversa. Correttamente misurato, il prodotto probabilmente diminuì allora meno di quanto non apparisse a prima vista. In secondo luogo, come accennato, era necessario un periodo di restrizioni macroeconomiche per fermare l’aumento dei prezzi, per evitare che questo trascinasse aspettative di inflazione permanente. Per esempio, dopo la liberalizzazione dei prezzi, nel gennaio del 1991 in Cecoslovacchia i prezzi aumentarono del 25%. Ma già nel mese di luglio di quello stesso anno l’inflazione era scesa a zero. In terzo luogo, quando la ex Unione Sovietica cadde nella sua profonda crisi economica, la maggior parte dei Paesi dell’Europa orientale perse il principale mercato per le esportazioni. Cercare di manovrare le esportazioni verso Occidente era co- BOX 31.1 Il processo di transizione verso l’Unione Europea La tabella sottostante mostra il livello di inflazione e la crescita del reddito reale nei primi dieci anni del processo di transizione. Dopo un periodo di forte crisi iniziale, molti Paesi sembrano lanciati verso la crescita, anche se la Romania, la Bulgaria e l’Albania hanno conosciuto brusche frenate. Inflazione annua Variazione del reddito reale annua (%) 19911993 19941996 19971998 19992003 19911993 19941997 19982003 Europa centrale Repubblica Ceca Ungheria Polonia Slovacchia Slovenia 29 27 47 27 121 10 23 27 10 12 9 16 14 7 8 4 8 4 6 8,5 –4,1 –5,3 –3,4 –8,1 –3,0 3,0 2,8 7,8 8,0 4,3 3,0 3,0 3,8 3,9 3,7 Europa sud-orientale Albania Bulgaria Croazia Macedonia Romania 115 160 777 760 240 15 120 11 22 50 27 294 5 2 107 5 7 4 4 20 –14,4 –6,8 –13,4 –8,0 –4,0 7,7 –3,5 6,4 2,2 2,2 5,3 4,7 5,0 2,5 –4,5 Baltico Estonia Lettonia Lituania 334 420 561 32 23 32 10 6 7 3,8 2,5 1 –12,0 –15,0 –14,5 4,5 2,9 1,5 5,0 6,2 7,3 Fonte: BERS, Transition Report. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 558 558 Parte 5 • L’economia mondiale munque un obiettivo di non rapida attuazione. Anche nell’Europa occidentale, la Finlandia visse una profonda recessione quando i mercati della Russia subirono il collasso. In quarto luogo, bisogna comprendere il peculiare ruolo svolto dalle banche. La liberalizzazione dei prezzi non introduce un’economia di mercato senza inasprire i vincoli di spesa di tutti i soggetti economici, incluse le imprese. In Occidente, quando un’impresa non è più in grado di funzionare, chiude o fallisce e le risorse vengono riallocate in usi più profittevoli. Nell’Europa orientale, le banche erano state passive nella loro attività di credito, concedendo credito alle aziende di proprietà dello Stato per consentire loro di fare fronte agli obiettivi di prodotto e di investimento stabiliti dai pianificatori. Quando i prezzi furono liberalizzati, molte aziende statali registrarono perdite (come era prevedibile). Ma nessuno le chiuse! Anzi, le banche di Stato concessero loro nuovi prestiti per fronteggiare i debiti già contratti e le perdite finanziarie che si stavano ancora verificando. Talvolta, una grande azienda di proprietà dello Stato era anche l’unica a fornire lavoro in una vasta area urbana e allora si diceva che essa era “troppo grande per fallire”. Le banche si comportavano in questo modo, in parte perché erano anche loro di proprietà dello Stato e ancora avvertivano una responsabilità per l’occupazione del Paese e, in parte, perché a loro volta i crediti – risultanti dai prestiti che avevano concesso a queste aziende – erano ormai irrecuperabili. Attirare l’attenzione sui debiti delle aziende pubbliche avrebbe portato alla ribalta anche la reale estensione dei problemi delle stesse banche. I Governi, saggiamente, cominciarono a cercare di ridurre i debiti inesigibili delle banche e poi avviarono un processo di privatizzazione delle stesse banche. A quel punto, erano le banche che dovevano provocare i fallimenti delle imprese meno efficienti (che in Occidente sono provocati dai creditori). Solo in quel modo i prezzi potevano diventare lo strumento per allocare le risorse in maniera più efficiente. Invece, le vecchie imprese inefficienti continuarono a svolgere la loro attività, mentre le nuove imprese trovavano difficile accedere ai prestiti. Infine, si verificò il fallimento del controllo societario. Anche in Occidente non è sempre facile procurare incentivi efficaci per i manager (si veda il Capitolo 6). Nelle economie in transizione, il problema fu particolarmente acuto. Dal canto suo, lo Stato cercava di prendere le distanze dalle vecchie modalità di gestione centralizzata lasciando libere di agire le aziende che un tempo gli erano appartenute. Chiaramente però, finché le imprese pubbliche non furono privatizzate, e quindi controllate dagli azionisti, ci fu un periodo di vuoto di controllo in cui i dirigenti delle aziende poterono gestirle come meglio credevano. Potevano semplicemente rendersi la vita facile (per esempio, conce- dere ingiustificati aumenti salariali a tutti coloro che avanzavano pretese) o fare invece addirittura di peggio. In molti Paesi si assistette a fenomeni di “privatizzazioni spontanee”. In Occidente, si sarebbe parlato di furti veri e propri. L’esperienza delle economie in transizione conferma che l’adozione di un sistema di mercato, benché necessaria, non è di per sé sufficiente a garantire standard di vita elevati. I sistemi di mercato ben funzionanti, come gli iceberg, poggiano su basi solide, invisibili, ma molto profonde. Essi si caratterizzano per la presenza di contratti che vengono applicati in maniera rigorosa e le cui controversie sono regolate nei tribunali, conferendo così un clima generale di sicurezza e di fiducia. Esistono normative destinate a controllare il potere del mercato, applicate da pubblici ufficiali non corrotti. Il sistema fiscale è organizzato ed efficiente e l’evasione fiscale da parte dei cittadini è contenuta entro limiti tollerabili. Operano reti sofisticate di assistenza e previdenza sociale progettate per le classi meno abbienti di cittadini. La lista potrebbe continuare, ma già questi pochi esempi mostrano che un sistema di mercato ben funzionante richiede la presenza di costose e complesse infrastrutture e del tempo necessario affinché si consolidino fiducia e reputazione. Ciò ha due implicazioni. In primo luogo, la transizione richiederà tempo per compiersi, soprattutto laddove il tessuto sociale è meno compatto. In secondo luogo, la creazione di sistemi di mercato non può prescindere da costosi investimenti per la realizzazione di infrastrutture essenziali. Nonostante ciò, il Box 32.1 mostra che molte economie, specie quelle dell’Europa centrale più vicine ai mercati dell’UE, stanno adesso crescendo in maniera costante. Esistono le basi perché queste economie, nei prossimi decenni, crescano più rapidamente dell’Europa occidentale. L’allargamento dell’Unione Europea Molte economie dell’Europa centrale e orientale desiderano entrare a far parte dell’Unione Europea per avere pieno accesso a un mercato di vastissime dimensioni. Questo a sua volta agisce da magnete per la realizzazione di investimenti interni, nel tentativo di trarre vantaggio dalla presenza di bassi salari al loro interno e di sicuri mercati di sbocco all’esterno. L’Unione Europea, che si è recentemente allargata a 27 Paesi, si è impegnata ad accettare nei prossimi anni altre economie europee in transizione. Disponendo di un forte potere contrattuale, sarà l’Unione Europea a definire i tempi in cui si realizzerà l’allargamento. Inizialmente, i nuovi ammessi diverranno membri del Mercato Unico. Le tariffe e le barriere non tariffarie saranno abolite. Quindi, a giudizio dell’Unione, i Paesi ammessi all’ingresso saranno “pronti” quando potranno con 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 559 Capitolo 31 • L’integrazione europea 559 piena sicurezza essere ammessi nel Mercato Unico. Ciò significa, principalmente, che l’Unione riporrà la sua fiducia nelle autorità di regolamentazione dei Paesi ammessi, giudicherà che questi siano in grado di affrontare la competizione del Mercato Unico e valuterà che abbiano raggiunto una ragionevole stabilità macroeconomica. Con l’entrata nell’Unione Europea, i Paesi ammessi dovranno aderire all’ERM2, un sistema monetario con parità fisse ma occasionalmente modificabili, tra ognuno dei Paesi ammessi e l’euro. Ci saranno, come di consueto in questo tipo di sistemi, delle parità centrali e delle bande di oscillazione. I Paesi ammessi resteranno nell’ERM2 finché non saranno in grado di rispettare i criteri di convergenza di Maastricht. Dopo di che, sarà concesso loro di adottare l’euro. Quindi, diversi Paesi potranno far parte dell’UE in diverse date, ed è possibile che restino nell’ERM2 per periodi di tempo diversi finché non saranno pronti a far parte dell’area euro. I criteri di Maastricht richiedono che venga raggiunto un basso tasso di inflazione, che i deficit fiscali non siano eccessivi e che non si verifichino delle svalutazioni nei due anni precedenti all’adozione dell’euro. Perciò, 2 anni è il periodo minimo di permanenza nell’ERM2. L’allargamento dell’area euro avrà effetti positivi? La maggior parte delle economie in transizione europee ha un obiettivo principale: la piena appartenenza all’Unione Europea e l’adozione dell’euro. Una volta che il processo di transizione abbia permesso loro di essere ammesse come possibili membri dell’Unione Europea, non sarebbe meglio che fosse loro concesso di adottare subito l’euro, potendo così evitare periodi di incertezza e possibili attacchi speculativi durante il periodo di adesione all’ERM2? Molti economisti ritengono che sarebbe economicamente più opportuno seguire una politica che permettesse loro, dopo l’ammissione all’Unione, di adottare subito l’euro. Tuttavia, l’Unione Europea ha esplicitamente eliminato questa possibilità per due ragioni. In primo luogo, l’Unione Europea ha sempre adottato il principio che tutti i Paesi devono seguire le stesse regole. Ciò limita le richieste per ottenere un trattamento speciale. Dato che i membri dell’Unione Monetaria hanno dovuto aderire all’ERM e rispettare i criteri di convergenza di Maastricht, l’Unione vuole che tutti i nuovi membri facciano lo stesso. Altrimenti, violerebbe il principio che tutti i membri debbano seguire le stesse regole. In secondo luogo, anche se un singolo Paese ammesso all’ingresso è piccolo relativamente all’intera Unione, ammettere un gruppo, per esempio di 10 Paesi, significherebbe estendere in modo significativo il territorio dell’eurozona. Se questi Paesi non fossero in grado di soddisfare pienamente i criteri di convergenza di Maastricht relativi al mantenimento di una bassa inflazione e di una disciplina fiscale, potrebbero distruggere la politica economica dei membri dell’eurozona. Per esempio, se la BCE prestasse attenzione solo all’inflazione media all’interno dell’eurozona, tollerare un’alta inflazione in molti Paesi porterebbe all’aumento dell’inflazione media e spingerebbe la politica monetaria ad aumentare i tassi di interesse. L’Europa occidentale sarebbe colpita da un periodo di recessione, mentre la BCE sarebbe impegnata a combattere l’inflazione nei Paesi dell’Europa orientale. L’Europa occidentale preferisce mantenere fuori dall’euro i Paesi ammessi all’ingresso nell’Unione Europea finché non rispettino pienamente i tassi di inflazione e la disciplina fiscale dei Paesi membri. BOX 31.2 L’ingresso nell’Unione Europea: oneri e onori “Per più di dieci anni le imprese dell’Europa occidentale hanno sfruttato la vicinanza geografica dei Paesi candidati all’Unione europea andando ad impiantare stabilimenti produttivi in questi Paesi, caratterizzati da un vantaggioso saggio salariale. L’allargamento porterà ai paesi ammessi alcuni benefici, ma anche qualche onere.” (The Economist, 30 aprile 2004) tutto la filiera automobilistica, con marchi come Fiat, Peugeot o Volkswagen, a essere stata attratta dai bassi saggi salariali di Polonia, Romania e Slovenia, pari al 10-15% della media europea. Molte imprese hanno riconosciuto l’alto livello di formazione e professionalizzazione del personale di quei Paesi: modelli altamente tecnologici, di produttori quali Audi, provengono oggi dall’Europa dell’Est. Il giorno successivo alla pubblicazione dell’articolo di The Economist sopra riportato, dieci Paesi – la maggior parte dei quali proveniente dall’Europa centrale e orientale – sono entrati a far parte dell’Unione Europea. I nuovi Paesi membri hanno beneficiato di circa 110 milioni di dollari di investimenti diretti esteri (IDE) dal 1989. Ciò ha riguardato soprattutto la realizzazione di stabilimenti di assemblaggio per beni che sarebbero poi stati venduti nella vecchia Europa. È soprat- Tuttavia, per poter entrare nell’Unione Europea, i nuovi Stati membri hanno dovuto progressivamente adeguare il proprio ordinamento interno a una legislazione europea comune (il cosiddetto acquis comunitario), adeguamento che si rivela sempre particolarmente articolato e oneroso, soprattutto in materia di sicurezza, salute, orario di lavoro: tutte misure che determineranno un deciso aumento del costo del lavoro. 32 Begg (547-560) 20-12-2007 15:45 Pagina 560 560 Parte 5 • L’economia mondiale Domande di ripasso 1 “I lavoratori hanno potere nel mercato del lavoro solo quando le aziende per cui lavorano hanno potere nel mercato dei beni. In un mercato di concorrenza perfetta, qualunque tentativo di aumentare i salari semplicemente condurrebbe l’azienda fuori dal mercato.” Si tratta di un’affermazione corretta? Se nel 1992 aumentò la competizione nel mercato dei beni, quale fu l’effetto sul mercato del lavoro nell’Unione Europea? 2 Citate tre Paesi dell’Unione Europea che secondo voi presentano un vantaggio relativo di mercato rispetto a beni la cui produzione è ad alta intensità di lavoro. Citate tre Paesi che invece non presentano questo vantaggio. 3 Due Paesi appartengono a un’unione monetaria e il tasso di interesse sui depositi bancari è lo stesso in entrambi i Paesi. Tuttavia, uno dei due Governi ha contratto un alto debito e deve aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica. Nei due Paesi i titoli di Stato offriranno lo stesso tasso di interesse? Ci saranno forti flussi di capitale tra i due Paesi? Si tratta di un’unione monetaria? Se no, perché? 4 Il Patto di Stabilità e Crescita obbliga i Paesi membri dell’Unione Monetaria Europea a mantenere bassi deficit di bilancio. Qual è la motivazione di questa scelta? Perché tale politica si rende necessaria, se la BCE è indipendente e ha espresso esplicitamente il suo impegno a mantenere bassa l’inflazione? 5 “Una transizione da un’economia pianificata a un’economia di libero mercato è solo un grosso progetto di investimento con alti costi iniziali e ampi benefici successivi. Le economie in transizione dovrebbero finanziare l’intero costo della transizione attraverso i prestiti internazionali, e pagare il conseguente tasso di interesse solo dopo essere diventate ricche.” Se fosse possibile, le economie in transizione desidererebbero farlo? Perché i creditori potrebbero non essere disposti a prestare così tanto denaro? 6 Errori comuni – Perché le seguenti affermazioni sono errate? (a ) L’Unione Europea è sempre stata un’area di libero scambio e ha sempre avuto un mercato unico. (b ) La Banca Centrale Europea deve garantire la stabilità dei prezzi, ma sottostare a un controllo politico democratico.