Trasferimento d`azienda e diritto dell`Unione

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LA SUCCESSIONE NEGLI APPALTI - CORRELAZIONE TRA L’ART. 7 DEL D.L.
23/2016 E L’ART. 29, COMMA 3 DEL D.L.276/2003 .
ASPETTI DI CONTRASTO TRA LA NORMATIVA NAZIONALE E QUELLA
COMUNITARIA.
PROSPETTIVE DI SUPERAMENTO
NORMATIVE: IL CASO NOVARTIS
PER
VIA
PATTIZIA
DELLE
NUOVE
di Nicola Caroppo
Come noto l’art. 7 del Decreto legislativo 04.03.2015 n° 23, in G.U. 07.03.2015,
denominato “Computo dell’anzianità negli appalti” ha previsto che” Ai fini del
calcolo delle indennità e dell’importo di cui all’articolo 3, comma 1, all’articolo 4, e
all’articolo 6, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze
dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo
durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata”.
L’impatto negativo della norma in commento sulla gestione dei rapporti di lavoro di
una vastissima platea di lavoratori è stato, da subito, colto dalle Organizzazioni
sindacali e, soprattutto, dalla Cgil, che ha ricordato come gli appalti pubblici
rappresentano più del 15% del Pil nazionale e al 2% sempre del Pil ammonta la
variazione dei costi per gli appalti relativi a beni e servizi, così come la loro cattiva
gestione, caratterizzata da una diffusa illegalità, che alimenta il fenomeno della
corruzione in Italia, fa diminuire gli investimenti esteri del 16% e aumentare del 20%
il costo complessivo degli appalti stessi.
A fare le spese di questa situazione sono centinaia di migliaia di lavoratori e
lavoratrici che non hanno tutele adeguate, esposti per una vita al precariato, con basse
retribuzioni e senza valorizzazione professionale.
Da qui nasce la proposta, da parte della CGIL, di una legge di iniziativa popolare,
mirata a sancire regole che consentano di garantire, nei cambi di appalto, sia la
garanzia occupazionale che il rispetto dei diritti quesiti attraverso il rafforzamento
delle clausole di salvaguardia.
E’ bene ricordare cosa succede allorquando vi è una successione di imprese
nell’appalto.
Vengono abitualmente distinte tre situazioni-tipo:
a) rinnovo del contratto d’appalto scaduto o comunque estinto;
b) cessione del contratto d’appalto;
c) trasferimento dell’azienda ad un terzo da parte dell’impresa appaltatrice.
Sull’applicazione dell’art. 2112 c.c., che disciplina il trasferimento d’azienda, alle
ipotesi b) e c) non sussistono dubbi.
Più incerta è la soluzione nel caso a), dopo che essa è stata espressamente regolata
dal terzo comma dell’art. 29, comma 3 d. lgs 276/2003, che espressamente prevede
che “ L'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di
un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o
di clausola del contratto d'appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte
d'azienda”.
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L'art. 29, comma 3, del d.l. 276/2003, quindi, esclude espressamente l'ipotesi
di trasferimento d'azienda in caso di acquisizione del personale già impiegato nel
precedente appalto da parte del nuovo appaltatore.
Conseguentemente il lavoratore non potrà rivendicare il diritto alla conservazione del
precedente trattamento economico e normativo previsto dai contratti nazionali e
aziendali vigenti alla data di trasferimento e fino alla loro scadenza.
Ciò significa che il passaggio da un’azienda all’altra può avvenire senza il
riconoscimento dell'anzianità del lavoratore, della sua retribuzione e del suo livello di
inquadramento.
Inoltre, l'appaltatore cessante e l'appaltatore subentrante non sono obbligati in solido
per i crediti che il lavoratore aveva maturato al momento del passaggio dell'appalto.
L’esclusione della generale tutela dei lavoratori trasferiti è spiegata con la necessaria
stipula di due distinti contratti e la mancanza di relazione diretta tra cedente e
cessionario, a causa dell’interposizione, nella loro successione, d’un terzo soggetto, il
committente.
Tale disposizione, però, è in evidente contrasto con la direttiva CEE 98/50 in materia
di trasferimento d'azienda e con l'interpretazione in materia elaborata dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo la quale l’assenza d’un rapporto
negoziale tra cedente e cessionario non esclude l’esistenza del trasferimento ai sensi
della direttiva (cfr. sentenza Temco ) e, per di più, questo può realizzarsi anche senza
la cessione della proprietà sugli elementi materiali necessari allo svolgimento
dell’attività, in quanto già posseduti dall’acquirente, come sostiene la Corte nella
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sentenza Abler; in tali casi, non si vede come possa negarsi la piena ed inderogabile
tutela ai lavoratori transitati alle dipendenze del nuovo appaltatore.
Si noti che la stessa Corte ha avuto cura di precisare che non sempre la riassunzione
di una parte essenziale del personale è criterio decisivo per identificare l’entità
economica trasferita.
I giudici europei hanno evidenziato che, se per un servizio di pulizia in cui l’attività si
fondi soprattutto sulla manodopera, il passaggio di questa può costituire un parametro
prevalente di giudizio, non altrettanto può ritenersi quando, come nel caso della
ristorazione collettiva, l’esercizio dell’attività economica richieda l’impiego di locali
ed attrezzature; è coerente esaminare, in tale ipotesi, se il nuovo appaltatore li abbia
in tutto o in parte rilevati e se abbia conservato la clientela del proprio predecessore
(cfr Corte Giust., 20 novembre 2003, Abler,).
Con la modifica apportata dal d. lgs 18/2001, anche l’art. 2112 c.c. ha fatto propria
l’elaborazione della giurisprudenza della Corte di giustizia che era stata recepita dalla
direttiva 98/50.
Secondo la Corte, infatti, l’azienda va intesa come entità economica organizzata, cioè
insieme di mezzi organizzati per svolgere un’attività produttiva, essenziale o
accessoria, che con la cessione conservi la propria identità, concetto che richiama il
testo dell’art 1, lettera b) della direttiva 2001/23/CE, che ha abrogato la direttiva
77/187, come modificata dalla direttiva 98/50, secondo la quale “ è considerato come
trasferimento d’azienda, ai sensi della presente direttiva, quello di un’entità
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economica che conserva la sua identità intesa come insieme di mezzi organizzati al
fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria.”
La scelta del termine «entità economica», e non di azienda, è densa di significato, in
quanto dimostra che il legislatore comunitario ha inteso adottare un’accezione molto
estensiva del bene trasferito, attribuendo rilievo non ai singoli elementi, materiali o
immateriali, costitutivi di un’impresa, bensì al suo valore economico, nella cui
determinazione può giocare un ruolo importante, ed a volte preponderante, il capitale
umano.
La Corte europea, in breve, ha elaborato due criteri ermeneutici: uno di natura
presuntiva, che attiene al passaggio tra due soggetti della gestione dell’impresa per lo
svolgimento della stessa attività economica; l’altro di carattere tipologico, costituito
da indici rivelatori da valutarsi complessivamente rispetto alla fattispecie concreta
(Corte Giust., 18 marzo 1986, in causa C-24/85, Spijkers, in Foro it., 1989, IV, 14, e,
successivamente, 19 maggio 1992, causa C-29/91, Redmond Stichting, in Racc., pag.
I-3189).
Rispetto all’attività svolta ed agli strumenti impiegati dall’imprenditore cedente, si
tratta di elementi che ineriscono ai beni patrimoniali (immobili o mobili, ma anche
immateriali Corte Giust., 20 novembre 2003, Abler, causa C-340/01,) oppure al solo
personale trasferito (sentenza Schmidt. Corte giust. 7 marzo 1996, n. 171, Merckx,
cause riunite C-171/94 e 172/94, Corte Giust., 13 settembre 2007, sez. IV, causa C458/05, Jouini)
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La Corte di Giustizia Europea con la famosa sentenza Temco c 51/00 ha precisato
che la “riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo
imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia
delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale
sospensione di tali attività .. (sono) aspetti parziali della valutazione complessiva cui
si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente” (Corte
Giust., 24 gennaio 2002, causa C-51/00, Temco; nello stesso senso Corte Giust., 15
dicembre 2005, cause riunite C-232/04 e C-233/04, Guney-Gòrres).
Piuttosto che dettare un rigido schema applicativo, la Corte europea si dimostra, così
ferma garante degli spazi riservati all’interpretazione del giudice interno, il quale,
sulla base delle caratteristiche della fattispecie in esame, è chiamato a valutare quali
siano gli elementi che maggiormente identificano in concreto l’azienda; l’importanza
dei singoli criteri attinenti la sussistenza d’un trasferimento, secondo la direttiva,
varia in funzione della tipologia di attività esercitata dall’impresa o addirittura dei
metodi di produzione o di gestione.
Perciò, quando l’attività si basi essenzialmente sulla manodopera, come ad esempio
nel settore delle pulizie, il nucleo di personale transitato presso il nuovo imprenditore
che prosegua l’attività stessa può coincidere, in assenza di altri fattori produttivi, con
un’entità economica organizzata (Corte Giust., 10 dicembre 1998, cause riunite C127/96, C-229/96 e C-74/97, Hernàndez Vidal e altri)
Seguendo questo indirizzo, espresso dalla Corte nelle sentenze Temco e Adler, anche
il trasferimento del personale dall’una all’altra impresa succedutasi in un appalto può
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configurare trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.; i casi dubbi vanno quindi risolti
applicando i principi rispetto alla situazione data e compiendo una valutazione
d’insieme degli elementi a disposizione.
In particolare, con la sentenza Temco la Corte ha chiarito che l’art. 1 della direttiva
del Consiglio 14/2/77 nr. 72187/CE, concernente il mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di stabilimenti,
deve essere interpretata nel senso che quest’ultimo si applica anche in mancanza di
cessione di elementi dell’attivo, materiali o immateriali, allorquando l’imprenditore
subentrante nell’appalto riassuma il personale del precedente appaltatore, a
condizione che la riassunzione del personale riguardi una parte essenziale in termini
di numero e di competenze, dei dipendenti che l’appaltatore destinava all’esecuzione
dei lavori appaltati.
Fattore condizionante rimane, a ben vedere, unicamente la conservazione
dell’identità economica, rappresentata nella fattispecie, nella forza lavoro, nella
competenza dei lavoratori già impegnati nell’esecuzione dei lavori oggetto
dell’appalto.
Rilevante è, quindi, la competenza dei lavoratori che assurge a valore economico così
importante da rappresentare “l’identità economica” che legittima il diritto al
mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda.
E’ un indice di conservazione che legittima l’operazione ermeneutica di ricerca degli
elementi qualificativi dell’azienda e adegua la soluzione alla tipologia dell’attività di
fatto risultante nel giudizio.
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I criteri interpretativi suggeriti dalla Corte di Giustizia Europea sembrano trovare
conferma indiretta nella decisione della Corte di Cassazione sez. lav., 13 gennaio
2005, n. 493, seppure per fattispecie anteriore al d. lgs 276/2003 - inerente il caso di
successione nell’appalto dei servizi di terra nella base militare di Sigonella, con
passaggio di considerevoli beni materiali, pur se alcuni erano invece in dotazione a
U.S. Navy - secondo la quale “ la disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ. postula
soltanto che il complesso organizzato dei beni dell'impresa - nella sua identità
obiettiva - sia passato ad un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica
riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio, dovendosi così
prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l'imprenditore uscente e quello
che subentra nella gestione. Il trasferimento d'azienda è pertanto configurabile
anche in ipotesi di successione nell'appalto di un servizio, sempre che si abbia un
passaggio di beni di non trascurabile entità, ma tale da rendere possibile lo
svolgimento di una specifica impresa e - come affermato anche dalla sentenza della
Corte di Giustizia del 7 marzo 1996, C-171/94 e C-172/94 - realizzabile anche in
due fasi per effetto della intermediazione di un terzo”, principio questo ripreso dal
Tribunale di Firenze (ord. In sede di reclamo 15 ottobre 2005, in D&L Riv. crit. dir.
lav., 2006) nel caso di una successione nell’appalto per la fornitura di posate e
stoviglie destinati al servizio di ristorazione di Autogrill s.p.a..
La giurisprudenza nazionale si è, a sua volta , assestata sugli stessi principi di fondo,
superando il punto di contrasto originario, basato sulla necessità, ritenuta dalla
Cassazione, di un passaggio di beni aziendali materiali.
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Quindi, anche parte della giurisprudenza nazionale ritiene che il trasferimento
dell’azienda si verifica anche quando esso coinvolga elementi immateriali o un
gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro ( Cass., sez. lav.,
23 luglio 2002, n. 10761, e (per il ramo d’azienda) 10 gennaio 2004, n. 206), la cui
capacità operativa sia assicurata, ad esempio, dal fatto di essere dotati d’un
particolare know how, ( Cass., sez. lav., 10 gennaio 2008, n. 271).
A questo proposito, con la sentenza del 28.10.2008, nella causa Barbagiovanni Piseia
contro Torino F.C. s.p.a., la Corte d’appello di Torino, ad esempio, ha riconosciuto
l’applicabilità dell’art. 2112, quinto comma, c.c. al caso di cessione del cd. “titolo
sportivo” (art. 52 reg. F.I.G.C.) tra società calcistiche.
L’indagine dei giudici si è rivolta, più che ai beni giuridici ceduti - essendo pacifico
che null’altro fosse transitato tra i due soggetti - al significato di continuità che la
cessione aveva comportato: “l’assegnazione del titolo sportivo .. è soprattutto un
trasferimento del patrimonio immateriale della precedente società. E questo
patrimonio non ha solo un valore di eredità morale bensì un rilevante valore
economico costituito dalla possibilità di sfruttare economicamente la continuità (si
pensi alle sponsorizzazioni, ai diritti per le riprese televisive ecc.); non per nulla la
nuova squadra ha conservato il nome ed i colori della vecchia e, last but not least, la
tifoseria granata ha trasferito la propria passione sportiva, come è dato notorio, alla
nuova squadra, pur composta in gran parte da calciatori diversi.. Allora, pur in
assenza di trasferimento di beni materiali organizzati, si realizza il requisito della
conservazione dell’identità”.
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Sulla scorta del ragionamento che precede, si può sostenere che l’art. 29, comma 3 d.
lgs 276/2003, che espressamente prevede che “L'acquisizione del personale già
impiegato nell'appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di
legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto
d'appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda.” contrasti
con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e con la direttiva nr. 98/50
della Corte.
Orbene, l’art. 7 del Decreto legislativo 04.03.2015 n° 23 trae la propria ispirazione
proprio dall’art. 29 citato: nel caso di successione negli appalti, infatti, non essendo
ipotizzabile, secondo il legislatore nazionale, un trasferimento di azienda, i lavoratori
che passano da un’azienda a quella subentrante nell’appalto, dovendo sottoscrivere
un nuovo contrato di lavoro, saranno soggetti alla nuova normativa delle c.d. “ tutele
crescenti”, che escluderebbe l’applicabilità, in loro favore, del disposto dell’art. 18
ante riforma del job act.
In tale contesto, anche i cosiddetti lavoratori “storici”, cioè i soggetti impegnati da
anni nella stessa attività a causa del cambiamento dell’appaltatore, sarebbero costretti
a sottoscrivere un nuovo contratto di lavoro, che, automaticamente, farebbe venir
meno le tutele pregresse e comporterebbe la perdita dei diritti quesiti.
Quali sono, a questo punto gli strumenti di tutela utilizzabili in favore di questa
vastissima platea di lavoratori ?
Sulla scorta di quanto abbiamo sin qui sostenuto in merito al contrasto tra l’art. 29 del
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d.lgvo 276/20013 e le direttive europee concernenti il mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento di imprese, potremmo ipotizzare un analogo
contrasto tra le suddette direttive e l’art. 7 del D.L. 23/2016 e, quindi, si potrebbe
rivendicare giudizialmente il diritto alla conservazione del trattamento economico e
normativo già in godimento al lavoratore prima del passaggio all’impresa subentrante
invocando la violazione delle direttive CEE sui trasferimenti d'azienda e, quindi,
chiedere al Giudice del lavoro la rimessione della causa alla Corte di Giustizia
europea attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del
trattato
sul
funzionamento
dell’Unione
Europea,
per
richiedere
l’interpretazione della norma europea al fine di applicare la norma correttamente;
Ricordiamo che, nell’ambito del procedimento pregiudiziale, il ruolo della Corte è
quello di fornire un’interpretazione del diritto dell’Unione o di statuire sulla sua
validità, e non di applicare tale diritto alla situazione di fatto su cui verte il
procedimento dinanzi al giudice nazionale.
Tale ruolo spetta a quest’ultimo e, di conseguenza, la Corte non è competente né a
pronunciarsi su questioni di fatto sollevate nell’ambito del procedimento principale,
né a risolvere eventuali divergenze di opinione in merito all’interpretazione o
all’applicazione delle norme di diritto nazionale.
Quando si pronuncia sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, la
Corte cerca, peraltro, di dare una risposta utile per la definizione della controversia
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principale, ma spetta al giudice del rinvio trarne le conseguenze concrete,
disapplicando eventualmente la norma nazionale di cui trattasi.
Il deposito di una domanda di pronuncia pregiudiziale comporta, tuttavia, la
sospensione del procedimento nazionale fino alla pronuncia della Corte.
E’ intuibile, quindi, che la strada da percorrere in questa direzione è tortuosa, in
primo luogo perché occorre trovare un Giudice disponibile a sollevare la questione
pregiudiziale dinanzi la Corte di Giustizia Europea e, comunque, perché gli effetti di
tale operazione non sarebbero conseguibili nel breve periodo.
In alternativa, si può sempre percorrere la strada della negoziazione in sede sindacale,
al fine di promuovere la stipulazione di un accordo che superi le disposizioni di legge
lesive dei diritti acquisiti dei lavoratori.
In tale ottica va rimarcato che l’accordo unitario firmato il 20 marzo con la
Novartis va nella giusta direzione, perché contrasta l’applicazione del Jobs Act
nei casi di cessione dei contratti di lavoro.
Infatti, in favore di quei sette lavoratori che sono passati da alcune società del gruppo
Novartis a Novartis Farma SPA, è stata riconosciuta l’anzianità di servizio ai fini
contrattuali e legislativi e garantita la non applicazione del decreto legislativo sui
contratti a tutele crescenti .
Sul piano politico, l’accordo Novartis costituisce indubbiamente un precedente
di rilievo, non fosse altro per il fatto che le parti firmatarie, al di là dello strumento
giuridico utilizzato (la cessione del contratto), hanno espressamente manifestato la
«propria scelta di non applicare comunque (nei confronti dei 7 lavoratori) le
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disposizioni del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 relative al regime giuridico
applicabile in caso di recesso datoriale dal rapporto di lavoro» (così al punto 2
delll’intesa).
Alcuni primi osservatori, invero, hanno sostenuto che l’accordo Novartis sia destinato
a rimanere un caso isolato, non fosse altro che per l’impossibilità per i privati di
applicare una normativa, quella dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, oramai
abrogata
Eppure, a ben vedere, come sostiene Tiraboschi, la tecnica adottata dal Legislatore
del Jobs Act non è stata affatto quella della abrogazione, quanto del progressivo
superamento dell’articolo 18 per il tramite della stipulazione di nuovi contratti
soggetti a un diverso regime di tutela contro i licenziamento illegittimi così come ora
disciplinato dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
L’articolo 18, in altri termini, è una disposizione ancora oggi pienamente vigente per
quanto destinata a trovare applicazione, in linea di principio, per i soli rapporti di
lavoro stipulati prima del 7 marzo ferme restando le condizioni soggettive ed
oggettive per la sua reale operatività.
È sulla base di questa considerazione giuridica che deve essere affrontato il
nodo politico e sindacale sollevato dall’accordo Novartis relativamente alla
scelta di non applicare le nuove disposizioni in materia di licenziamento
illegittimo contenute nel decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
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Varie possono essere, in effetti, le soluzioni tecniche a disposizione delle parti
contrattuali (così come per l’autonomia collettiva) per conseguire l’obiettivo di non
applicare, in tutto o in parte, il nuovo regime sanzionatorio.
Accanto alla cessione del contratto di lavoro si potranno così di volta in volta
ipotizzare clausole di stabilità e di durata minima garantita del contratto o anche
clausole volte a riconoscere al lavoratore neo-assunto una anzianità convenzionale di
servizio (cfr. M. Tiraboschi, Formulario dei rapporti di lavoro, cit., pp. 792-800).
Nulla esclude tuttavia, proprio perché la previsione non è stata abrogata, il rinvio
delle parti (individuali e collettive) all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori anche
per i contratti stipulati dopo il 7 marzo, da intendersi quale condizione di miglior
favore per il lavoratore, e talvolta persino nell’interesse del datore di lavoro, sempre
ammessa dall’ordinamento, che consente alla autonomia privata di realizzare interessi
meritevoli di tutela nei limiti posti dalla legge (art. 1322, Codice Civile).
Si è sostenuto che, in questi casi, «non si tratterebbe di rendere applicabile
l’articolo 18 della legge n. 300/1970 – perché l’autonomia negoziale privata non
ha il potere di rendere applicabile una norma di legge inapplicabile – ma
semplicemente di prevedere pattiziamente una tutela ricalcata in parte o in tutto su
quella dell’articolo 18» (così A. Tursi,Jobs Act: l’altra faccia delle “tutele
crescenti”, in Ipsoa Quotidiano del 21 marzo 2015).
Vero è tuttavia che, per i nuovi assunti a far data dal 7 marzo 2015, l’articolo 18 non
è disposizione inapplicabile, posto che non si tratta di previsione abrogata, ma, anzi,
a più riprese richiamata dallo stesso decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
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Semplicemente, per i nuovi assunti, è previsto un diverso regime di tutela contro i
licenziamenti ingiustificati, complessivamente meno garantista, né più né meno di
quanto avveniva già in passato per alcuni gruppi di lavoratori come per esempio i
dirigenti che, come noto, non rientravano nel campo di applicazione dell’articolo 18.
Dirimente, in proposito, è la lettura di Corte di Cassazione, sezione lavoro, del 26
maggio 2000, n. 6901 che, con riferimento alla figura del dirigente ha già
ampiamente chiarito che «in via di principio non può negarsi che la tutela reale, quale
prevista dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 possa essere
pattiziamente estesa al di fuori dei limiti legali soggettivi e oggettivi». Ciò
ovviamente «solo a condizione che una tale estensione risulti chiaramente dalla
disciplina individuale o collettiva del rapporto dedotto in giudizio, la cui
interpretazione non può che appartenere al giudice di merito».
Una conferma, insomma, della possibilità anche oggi di tenere in vita l’articolo 18
per il tramite della autonomia negoziale privata, non solo a livello individuale, ma
anche collettivo (in questo senso vedi anche Corte di Cassazione, sentenze n.
3116/1988, n. 298/1990, n. 2413/1990) come del resto subito precisato da alcuni tra i
più autorevoli promotori del Jobs Act (Taddei: articolo 18 ancora applicabile dalle
imprese, in La Repubblica del 12 marzo 2015).
Resta il fatto che l’applicazione per via contrattuale (individuale o collettiva)
dell’articolo 18 ai nuovi assunti non è affatto vietata e, come bene ha rilevato un
autorevole giuslavorista come Raffaele De Luca Tamajo, «il giudice lo
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riconoscerebbe come trattamento di miglior favore per il lavoratore» (E Novartis
offre l’articolo 18 come benefit, in La Repubblica del 27 marzo 2015).
E’ evidente che per raggiungere i risultati che ci proponiamo di perseguire occorre lo
sforzo comune di tutti, giuslavoristi, avvocati e magistrati, sindacalisti e lavoratori
che, nel rispetto dei rispettivi ruoli e prerogative, si prendano carico di valutare
adeguatamente il valore intrinseco del capitale umano - termine con cui si intende
l'insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni acquisite durante la vita da un
individuo e finalizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o
collettivi - nonché il suo valore economico, in quanto le esternalità positive prodotte
dal capitale umano influenzano una serie di aspetti della vita sociale, che creano dei
rendimenti positivi.
Il capitale umano, infatti, secondo alcuni studi, è in grado di ridurre gli incentivi a
delinquere, innalzando il rendimento delle attività legali.
Non a caso nelle sentenze della Corte di Giustizia Europea che ho citato si parla
espressamente di capitale umano.
Occorre, in breve, ricordare e non trascurare che l’economia e la stabilità trovano il
loro fondamento nel lavoro e che tutelare i diritti dei lavoratori significa garantire e
garantirsi prospettive di miglioramento; al contrario, comprimere i diritti
fondamentali dei lavoratori si traduce in un’operazione miope e controproducente,
con le evidenti ricadute negative per l’economia e per la vita delle persone.
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