ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I seminario IV

ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
SEMINARIO IV – 2.4.2008
I diritti assoluti. La proprietà.
MATERIALI
1. atti emulativi art. 833 c.c. (Cass., 11.4.2001, n. 5421)………………………………………p. 1;
2. immissioni art. 844 c.c. (Cass., 31-01-2006, n. 2166)……………..…………………………p. 5;
3. accessione invertita art. 938 c.c. (Cass., 04-03-2005, n. 4774)……..………………………p. 10.
Atti emulativi
IL CASO
Due coniugi notano che il vicino di casa ha posizionato una telecamera sul muro di confine, puntata
però verso il loro balcone interno. Ritenendo scorretto il comportamento del vicino, decidono di
agire in giudizio per tutelare le proprie ragioni.
Assunte, rispettivamente, le vesti dei coniugi e del vicino di casa, si illustrino le ragioni a favore e
contro l’accoglimento della domanda.
Cass., sez. II, 11-04-2001, n. 5421.
Per aversi atto emulativo vietato ai sensi dell’art. 833 c.c. è necessario che l’atto di esercizio del
diritto sia privo di utilità per chi lo compie e sia posto in essere al solo scopo di nuocere o di recare
molestia ad altri, sicché è riconducibile a tale categoria di atti l’azione del proprietario che installi
sul muro di recinzione del fabbricato comune un contenitore avente aspetto di telecamera nascosta
fra il fogliame degli alberi posto in direzione del balcone del vicino
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 4.3.1992 i coniugi Salvatore Quero e Grazia Patimo, premesso che erano
proprietari di un immobile sito in Giovinazzo, via Papa Giovanni XXIII n. 85/C, piano rialzato, e
che al piano superiore dello stesso fabbricato costituito da una villetta a due piani) abitavano i
coniugi Donato Panebianco e Felicia Martini, assumevano che questi ultimi qualche giorno prima
avevano posto sul muro che circondava l’edificio, nascosta tra le foglie della vegetazione, una
telecamera puntata in direzione del balcone interno dell’unità immobiliare degli istanti, violando
così il diritto di costoro alla riservatezza ed alla tranquillità; chiedevano quindi al Pretore di Bitonto
ai sensi dell’art. 1170 c.c. o comunque dell’art. 700 c.p.c. di ordinare ai coniugi Panebianco-Martini
la immediata rimozione della telecamera adottando tutti i provvedimenti necessari.
Disposta la comparizione delle parti ed in assenza del Panebianco e della Martiri, il Pretore adito,
ritenuto che il comportamento di questi ultimi costituiva una grave lesione del diritto dei ricorrenti
alla riservatezza nella esplicazione della loro vita familiare, ordinava al Panebianco ed alla Martini
ai sensi dell’art. 700 c.p.c. l’immediata rimozione della telecamera, autorizzando in difetto
l’esecuzione nei modi di legge e fissando il termine per l’inizio del giudizio di merito.
Con atto di citazione notificato il 18.4.1992 il Quero e la Patimo instauravano il giudizio di merito
convenendo in giudizio dinanzi al Tribunale di Bari e il Panebianco e la Martini, chiedendo
dichiararsi l’illegittimità del comportamento di costoro, confermarsi l’ordinanza pretorile e
condannarsi le controparti al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede; gli attori
precisavano che in sede di esecuzione del provvedimento pretorile il Panebianco aveva fatto
rilevare che la telecamera era in realtà una scatola vuota al cui interno erano stati inseriti una
lampadina ed un led rosso, fornendo cosi la prova non solo della fondatezza del ricorso a suo tempo
presentato nei confronti dei convenuti, ma altresì di aver compiuto atti di emulazione tendenti ad
arrecare molestia e pregiudizio agli esponenti.
I convenuti costituendosi in giudizio chiedevano il rigetto delle domande attrici, assumendo che il
contenitore metallico con all’interno un led ed una lampadina era stato da essi installato sul muro
della villetta al solo fine di scoraggiare eventuali ladri.
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Il Tribunale adito con sentenza del 14.2.1996 respingeva le domande attrici.
Proposta impugnazione avverso tale decisione dal Quero e dalla Patimo, la Corte di Appello di Bari
con sentenza del 3.4.1998, in riforma della pronuncia di primo grado, riconosciuto che la
collocazione del suddetto contenitore sul muro antistante il balcone degli appellanti doveva essere
configurato un atto emulativo, condannava il Panebianco e la Patimo al risarcimento dei danni da
liquidare in separata sede.
La Corte territoriale, per quanto ancora interessa in questa sede, rilevava che legittimamente nel
giudizio di merito dinanzi al Tribunale di Bari il Quero e la Patimo avevano introdotto una domanda
nuova, quale era quella basata sull’esistenza dell’atto emulativo rispetto a quella prospettata in sede
cautelare e poi ribadita dinanzi al Tribunale relativa alla dedotta violazione del diritto alla
riservatezza, atteso che con l’introduzione del giudizio di merito conseguente al provvedimento di
urgenza ottenuto, non sussisteva alcun divieto per gli attori di ampliare il "thema decidendum" e di
proporre, in aggiunta a quella formulata in sede cautelare, una ulteriore domanda, in ordine alla
quale, peraltro, nulla avevano eccepito i convenuti; nel merito riteneva fondata la domanda di
rimozione del contenitore per avere avuto la sua installazione finalità emulative sia perché tale
scatola, avente l’aspetto di una telecamera, era stata posta in direzione delle aperture della proprietà
degli attori e non verso possibili accessi per i ladri (cosicché doveva essere escluso che la sua
sistemazione fosse finalizzata a scoraggiare eventuali malintenzionati) sia perché essa era stata
collocata tra le foglie degli alberi, e perciò non era immediatamente percepibile da persone estranee;
d’altra parte la convinzione che la suddetta scatola aveva l’esclusiva funzione di recare molestia al
Quero ed alla Patimo era avvalorata dall’inspiegabile silenzio serbato dal Panebianco e dalla
Martini i quali, pur a conoscenza del ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto dalle controparti, non
avevano ritenuto né di chiarire a costoro che l’apparente telecamera era in realtà un’oggetto diverso
né di evidenziare l’asserito scopo della sua collocazione.
Per la cassazione di tale sentenza il Panebianco e la Martini hanno proposto un ricorso articolato in
due motivi illustrato successivamente da una memoria; resistono con controricorso il Quero e la
Patimo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Occorre anzitutto esaminare l’eccezione sollevata dai controricorrenti di inammissibilità del ricorso per difetto del requisito di
specialità della procura: invero la procura apposta in calce al ricorso, priva anche di data, riferendosi ad un generico "presente
giudizio", non conterrebbe elementi idonei a riferirla al giudizio di cassazione.
L’eccezione è infondata.
Infatti, pur dandosi atto della genericità delle espressioni contenute nella procura in esame (quali "deleghiamo a rappresentarci e
difenderci nel presente giudizio ed in ogni successiva fase e grado...), deve rilevarsi che il requisito di specialità della procura ai fini
dell’ammissibilità del ricorso per cassazione deve essere inteso nel duplice senso di riferimento ad uno specifico processo e ad una
determinata fase di esso, ossia al giudizio di legittimità; pertanto, allorché la procura è apposta in calce o a margine del ricorso,
venendo a costituire un "corpus" inscindibile con esso ed essendo quindi inequivocabile la volontà della parte di proporre quello
specifico mezzo di gravame la specialità è garantita indipendentemente dalle espressioni adoperate nella redazione dell’atto (Cass.
3.9.1998 n. 8739), valorizzando la posizione topografica della procura, idonea, al tempo stesso, a conferire la certezza della
provenienza dalla parte del potere di rappresentanza e a dar luogo alla presunzione di riferibilità della procura stessa al giudizio cui
l’atto accede (Cass. S.U. 10.3.1998 n. 2642; Cass. S.U. 10.3.1998 n. 2646); ciò spiega quindi come il richiamo al "presente giudizio"
è sufficiente ad attribuire alla parte ricorrente la volontà di promuovere il giudizio di legittimità.
Riguardo poi alla mancanza di data della suddetta procura ed alle possibili implicazioni che da tale lacuna potrebbero trarsi (atteso
che la necessaria specialità della procura per il ricorso per cassazione comporta che essa deve essere rilasciata dopo la pubblicazione
della sentenza impugnata ed in data anteriore o contemporanea alla sottoscrizione del ricorso), deve rilevarsi da un lato che la procura
apposta a margine o in calce al ricorso per cassazione priva di data deve presumersi in base all’"id quod plerumque accidit" rilasciata
in data posteriore alla pubblicazione della sentenza impugnata (Cass. 3.6.1996 n. 5092; Cass. 15.1.1999 n. 462), e dall’altro che
l’anteriorità del suo conferimento rispetto alla notifica del ricorso è desumibile dalla sua riproduzione nella copia notificata del
ricorso medesimo (Cass. S.U. 17.12.1998 n. 12625).
1.
Venendo quindi all’esame del ricorso, si rileva che con il primo motivo proposto il Panebianco e la Martini, deducendo
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, censurano la statuizione del giudice di appello
che, pur riconoscendo l’infondatezza della domanda delle controparti relativa alla asserita violazione del diritto alla riservatezza,
aveva invece accolto l’ulteriore domanda basata sulla configurabilità come atto emulativo del comportamento degli attuali ricorrenti;
poiché il provvedimento d’urgenza ha natura cautelare e funzione strumentale rispetto ad una futura decisione di merito, il giudizio di
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cognizione conseguente alla concessione della invocata misura cautelare potrà riguardare soltanto il definitivo accertamento in ordine
alla fondatezza del diritto fatto valere in via d’urgenza, ma non potrà avere ad oggetto ulteriori e diverse domande.
La censura è infondata.
Deve osservarsi in proposito che l’atto di citazione promosso dal Quero e dalla Patimo dinanzi al Tribunale di Bari dopo aver
ottenuto dal Pretore di Bitonto il richiesto provvedimento d’urgenza, ha dato luogo ad un giudizio di cognizione nuovo rispetto a
quello precedente di natura cautelare, nel quale accanto alla domanda riguardante la tutela del diritto alla riservatezza ben poteva
essere introdotta una diversa domanda riconducibile ad una autonoma "causa petendi", come in effetti è avvenuto.
Il giudice di appello quindi correttamente ha ritenuto che non esisteva alcuna norma processuale che precludesse al Quero ed alla
Patimo di introdurre dinanzi al Tribunale di Bari una domanda ulteriore rispetto a quella già oggetto della invocata tutela cautelare:
infatti con il menzionato atto di citazione si era dato luogo ad un ordinario procedimento civile soggetto al principio generale della
ammissibilità di una pluralità di domande anche non altrimenti connesse contro la stessa parte (art. 104 primo comma c.p.c.); la
circostanza che una delle domande proposte dal Quero e dalla Patimo fosse già stata esaminata in sede di sommaria delibazione in
via d’urgenza dinanzi al Pretore di Bitonto non costituiva alcun impedimento al riguardo, atteso che le diverse domande introdotte
con lo stesso atto di citazione conservano piena autonomia tra di loro.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti, denunciando violazione dell’art. 833 c.c., censurano il
convincimento della Corte territoriale che ha configurato nella installazione del suddetto contenitore
sul muro di recinzione della villetta a due piani in cui abitano le parti in causa gli estremi di un atto
emulativo: di quest’ultimo non ricorrerebbero nella fattispecie gli elementi costitutivi, consistenti
nel danno o nella molestia per il vicino e nell’"animus nocendi" da parte di chi pone in essere un
atto di esercizio del proprio diritto.
La censura è infondata.
E’ noto come la configurazione dell’atto emulativo sostanzialmente ha dato luogo a due diversi
inquadramenti sistematici da parte della dottrina.
Secondo un primo indirizzo l’atto emulativo costituisce applicazione del fondamentale e più
generale principio di solidarietà che regola i rapporti intersoggettivi e che finisce quindi con
l’incidere sul contenuto stesso del diritto soggettivo e della sua sfera di estensione: infatti, allorché
si è in presenza di atti contrari al principio di solidarietà, secondo tale orientamento, colui che li
compie si pone al di fuori dell’esercizio del diritto soggettivo.
Un secondo indirizzo riconduce l’atto emulativo all’abuso del diritto, consistente nell’esercizio del
diritto stesso per perseguire interessi diversi da quelli per i quali è riconosciuto e tutelato
dall’ordinamento giuridico; in tale contesto si è ritenuto che il proprietario abusi del proprio diritto
anche allorché possa ritrarre dall’atto una utilità, qualora intenda comunque realizzare finalità
estranee rispetto a quelle in funzione delle quali il diritto è riconosciuto.
Questa Corte ritiene che l’atto emulativo, così come disciplinato dall’art. 833 c.c., si inscrive
nell’ambito dei limiti alle facoltà di godimento da parte del proprietario e dunque al contenuto del
diritto di proprietà, sanzionando come comportamenti illeciti atti che pure astrattamente sono
configurabili conformi al diritto in quanto esplicazioni delle suddette facoltà.
Si pone quindi il problema di individuare nell’ottica legislativa la linea di discrimine che consenta
di enucleare un criterio oggettivo per valutare o meno come atti emulativi quelli commessi dal
proprietario nell’esercizio del suo diritto.
Orbene l’elemento decisivo al riguardo è costituito dalla mancanza di un apprezzabile vantaggio
dell’atto per colui che lo compie, posto che l’assenza di qualsiasi giustificazione di natura
utilitaristica dal punto di vista economico e sociale rivela la mera ed esclusiva intenzione di nuocere
o recare molestia ad altri e dunque lo scopo emulativo dell’atto stesso; a diverse conclusioni deve
invece giungersi allorché l’atto determini comunque una utilità per il suo autore, come nell’ipotesi
della proposizione di una domanda avente ad oggetto l’eliminazione di una veduta aperta dal vicino
a distanza illegale, che tende al riconoscimento della libertà del fondo ed alla rimozione di una
situazione illegale e pregiudizievole (Cass. 26.11.1997 n. 11852), o di una domanda volta ad
ottenere il rispetto delle distanze tra fondi o fabbricati vicini (Cass. 8.1.1981 n. 164): in questi casi è
prevalente sulla eventuale intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri il perseguimento di un
interesse concreto e di una utilità effettiva ricollegabili alle facoltà di godimento del diritto,
cosicché il suo esercizio è meritevole di tutela.
E’ opportuno a tal punto aggiungere che la valutazione in ordine alla utilità o meno dell’atto posto
in essere dal proprietario deve essere effettuata di volta in volta con riferimento alle singole
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fattispecie esaminate, considerato che, come si è visto, trattandosi di atti di esercizio del diritto, essi
per definizione non potrebbero configurarsi come illeciti: significativa si rivela in tal senso, ad
esempio, la distinzione cui è pervenuta, nell’ambito di una medesima fattispecie, questa stessa Corte
che, pur escludendo di poter configurare come atto emulativo da parte del proprietario l’esercizio
della facoltà di chiusura del fondo, ha fatto salva l’ipotesi che le specifiche modalità di essa (nella
specie con un muro in sostituzione della rete metallica) potessero in concreto integrare l’atto
emulativo (Cass. 18.8.1986 n. 5066).
In definitiva, quindi, si ritiene di poter aderire all’indirizzo consolidato di questa Corte secondo cui
la sussistenza di un atto emulativo presuppone il concorso di due elementi, ovvero che sia privo di
utilità per chi lo compie e che abbia il solo scopo di nuocere o di recare molestia ad altri (vedi tra le
più recenti Cass. 3.12.1997 n. 12258; Cass. 9.10.1998 n. 9998; Cass. 3.4.1999 n. 3275).
Orbene deve a tal punto rilevarsi che il giudice di appello nella fattispecie con un accertamento di
fatto sorretto da adeguata e congrua motivazione, come tale insindacabile in questa sede, ha
evidenziato che la collocazione di un contenitore avente l’aspetto di una telecamera con un led ed
una lampadina al suo interno, sia perché posto in direzione della proprietà del Quero e della Patimo
sia perché situato tra le foglie degli alberi, e quindi non immediatamente visibile da estranei, lungi
dall’avere la finalità di scoraggiare eventuali malintenzionati dall’entrare nell’appartamento di
proprietà del Panebianco e della Martini, aveva l’esclusivo scopo di recare molestia al Quero ed alla
Patimo; pertanto il giudice di appello, sulla base di tali circostanze ed in corretta applicazione
dell’orientamento giurisprudenziale sopra menzionato, ha configurato nella specie gli estremi
dell’atto emulativo.
Neppure è fondato il profilo della censura relativo alla asserita insussistenza di qualsiasi danno
riconducibile causalmente alla installazione del suddetto contenitore; la Corte territoriale, infatti, si
è limitata a ritenere l’atto emulativo come potenzialmente produttivo di danni, trattandosi di fatto
illecito, cosicché la condanna generica del Panebianco e della Martini al risarcimento dei danni
deve essere ritenuta legittima, posto che ogni questione relativa alla loro effettiva sussistenza ed
entità dovrà essere esaminata in separato giudizio.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato; i ricorrenti in applicazione del principio della soccombenza
devono essere condannati in solido al pagamento delle spese del presente giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento di L. 235.400 per spese e di
L. 2.000.000 per onorari di avvocato.
Immissioni (art. 844)
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Cass., sez. II, 31-01-2006, n. 2166.
In tema di immissioni (nella specie, rumori provocati da attività sportive praticate all’aperto), il
contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle ricreative e sportive, che ai sensi
dell’art. 844 c.c. deve essere compiuto anche tenendo conto della condizione dei luoghi, postula la
concreta valutazione di ormai diffuse abitudini di vita e comportamenti sociali, nell’ambito dei
quali lo svolgimento delle suddette attività, prevalentemente praticate all’aria, è notoriamente più
intenso durante le stagioni caratterizzate da un maggior numero di ore di luce e dal clima più
favorevole; pertanto, il limite di normale tollerabilità delle immissioni non può essere dal giudice
determinato in termini assolutamente avulsi dalla considerazione delle suesposte componenti,
trattandosi di elementi intrinsecamente connotanti la liceità delle forme di godimento della
proprietà, da valutarsi sullo sfondo del particolare contesto ambientale e sociale nel quale le
opposte esigenze assumono rilievo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I grado. Giudice di Pace:
- Con atto notificato in data 24/04/1997 la sig.ra Gazza Fernanda, proprietaria di un immobile
urbano in Portile di Modena, confinante con il cortile della locale Chiesa Parrocchiale, citò il
parroco di quest'ultima, don Giuliano Gazzetti, davanti al Giudice di Pace di Modena, lamentando
che dall'uso particolarmente intenso delle strutture, prossime alla propria abitazione, del "campogiochi" della Parrocchia, segnatamente dalle attività di calcetto e pallacanestro ivi praticate,
derivavano rumori eccedenti la normale tollerabilità; chiese, conseguentemente, farsi obbligo al
parroco di adottare idonei accorgimenti atti a contenere le emissioni rumorose e limitarsi gli orari di
esercizio delle attività sportive.
- Costituitosi il parroco, contestava la fondatezza della domanda, sostenendo la tollerabilità dei
rumori, costituiti prevalentemente da voci infantili, e faceva presente di avere provveduto ad
insonorizzare i cesti della pallacanestro, della cui rumorosità si era, tra l'altro, doluta l'attrice.
- All'esito di istruttoria, orale, documentale ed ispettiva, con sentenza del 16/03/2000, l'adito
Giudice, dato atto dell'avvenuta insonorizzazione dei cesti sopra menzionati, accogliendo per il
resto e per quanto di ritenuta ragione la domanda limitava l'uso del campetto sportivo a quattro ore
giornaliere, due antimeridiane e due pomeridiane, nonchè a due ore serali, per due giorni a
settimana, oltre che per la durataci una settimana all'anno, dei tornei di calcetto, compensando
interamente le spese del giudizio.
II grado. Appello al Tribunale:
- Proposti appelli, principale dal parroco, incidentale dalla Gazza, con sentenza del 28/09/2002 del
Tribunale di Modena, in composizione monocratica, il gravame principale [= quello del parroco]
veniva respinto ed, in accoglimento, di quello incidentale [= quello della Gazza], l'uso del "campo
di basket - calcetto" veniva limitato a " due ore consecutive pomeridiane in orario non antecedente
alle ore 16", con condanna del parroco alle spese del grado.
[Motivazione] Il Giudice di secondo grado, premesso che dei tre criteri enunciati dall'art. 844 c.c.,
nel caso di speciosi rendeva applicabile solo quello della normale tollerabilità, non potendo
soccorrerei considerazione della natura ricreativa dell'attività svolta dalla parte convenuta, quello
del contemperamento tra esigenze della proprietà e produttive, mentre il criterio sussidiario e
facoltativo della priorità dell'uso neppure era stato dedotto, e considerato che agli effetti del
superamento del suddetto limite di tollerabilità non poteva utilizzarsi il criterio tecnico della
comparazione con la c.d. "rumorosità di fondo", tenuto conto della discontinuità delle emissioni in
questione, rilevava che l'eccedenza rispetto alla normale tollerabilità era risultata provata dalle
risultanze della prova testimoniale, riferenti in particolare che durante l'esercizio delle attività
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sportive nell'abitazione dell'attrice non era possibile, neppure con le finestre chiuse, l'ascolto della
televisione.
"Pur riconoscendo il rilievo sociale dell'attività sportivo - ricreativa esercitata in una parrocchia"proseguiva quel Giudice - "è argomento di buon senso che l'utilizzo del campo di calcetto - basket
per caratteristiche ontologiche dell'attività sportiva che ivi si esercita ... se esercitata nelle
immediate adiacenze di una proprietà residenziale .. e senza regolamentazione di orario, arreca
disturbo alla proprietà..".
L'accoglimento dell'appello incidentale veniva giustificato, in considerazione delle suesposte
caratteristiche dell'attività denunciata e privilegiando le esigenze abitative, sul rilievo che "la
regolamentazione del primo Giudice quanto agli orari di utilizzo del campetto non consiste in
adeguata tutela della proprietà";conseguentemente l'uso del campetto veniva ulteriormente limitato,
"anche tenendo conto degli orari a suo tempo disposti con regolamento della parrocchia", nei
termini sopra precisati.
Cassazione
Avverso tale sentenza il parroco Gazzetti ha proposto ricorso per Cassazione deducente due motivi.
Resiste la Gazza con controricorso, illustrato con successiva memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta "violazione e falsa applicazione dell'art. 844 c.c., in relazione alla L. 25
marzo 1985, n. 121, art. 2, n. 1 (art. 360 c.p.c., n. 3) con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti
decisivi della controversia prospettati dalle parti e rilevabili di ufficio (art. 360 c.p.c., n. 5).
Si lamenta che il Tribunale di Modena non abbia "tenuto conto del carattere strumentale delle strutture sportive e
ricreative parrocchiali in oggetto, del valore ed interesse sociale della forma di godimento proprietà .." in questione, che
in "considerazione dei valori costituzionali ...e riflessi della socialità, dell'educazione e della libertà religiosa..",
riconosciute dalle norme concordatarie sarebbero stati insuscettibili di "sottostare al contemperamento delle differenti e
diverse ragioni della proprietà..", anche perchè non sarebbe stata ex adverso "dedotta lesione di beni costituzionalmente
rilevanti, quali il diritto alla salute ed alla vita di relazione";ne deriverebbe la sottrazione della fattispecie alla disciplina
di cui all'art. 844 c.c., venendo in rilievo "non già le esigenze della proprietà, ma la piena libertà della Chiesa Cattolica
di svolgere "la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e santificazione ...", riconosciutale
dalla L. n. 121 del 1985 sopra citata, art. 2, n. 1.
Tanto premessola prima questione che si pone è quella di stabilirei fini dell'ammissibilità del suesposto mezzo di
impugnazione, se la tematica proposta nel suesposto motivo di ricorso, nel quale si sostiene che la controversia avrebbe
dovuto essere risolta prescindendo dalla norma civile applicata dai giudici di merito, tenendosi conto solo del dettato
concordatario e di quello costituzionale, che gli attribuirebbe preminenza sulla disciplina privatistica, non costituisca un
motivo nuovo;tanto viene, tra l'altro, eccepito nel controricorso, evidenziandosi che in entrambi i gradi di merito il
Gazzetti si difese semplicemente sostenendo la tollerabilità delle emissioni, a termini dell'art. 844 c.c., sia pure alla
stregua di valutazione comparativa degli opposti interessi, correlata alle rispettive forme di godimento della proprietà,
così comunque convenendo sull'applicabilità della norma civilistica.
L'obiezione, pur evidenziando un mutamento della condotta difensiva da parte convenuta, non può tuttavia comportare
l'inammissibilità del motivo d'impugnazione, non potendo ritenersi che l'invocata applicazione alla fattispecie di norme
diverse da quelle sulla cui astratta applicabilità non si erano sollevate eccezioni in sede di merito, abbia comportato
l'introduzione nel processo di vere e proprie questioni nuove, secondo la corrente accezione giurisprudenziale di
legittimità, dalla quale il collegio non ritiene di doversi discostare.
A configurare tale novità, comportante l'inammissibilità del motivo d'impugnazione, non è sufficiente il richiamo a
norme diverse da quelle dibattute nei precedenti gradi, ma occorre anche che vi sia stato un allargamento o mutamento
della materia del contendere, comportante modificazione dell'azione o delle eccezioni (in senso tecnico) già proposte,
oppure implicante, ai fini dell'invocata applicabilità della diversa disciplina giuridica, accertamenti di merito; o
valutazione di elementi di fatto nuovi e diversi, rispetto a quelli già dedotti nelle precedenti sedi (v., tra le altre, Cass.
sez. 1^ n. 5241/03, sez. 3^ n. . 5375/03, sez. lav. n. 11792/03, n. 10195/04, sez. 5^ n. 15673/04). Nel caso di specie
l'invocazione della disciplina concordataria, che nel motivo di ricorso si sostiene comportare la radicale inapplicabilità
alla fattispecie di quella dettata dall'art. 844 c.c., mentre in sede di merito la preminenza delle finalità "sociali e
pastorali"perseguite dalla Parrocchia era stata addotta solo quale elemento qualificante il particolare uso della proprietà,
ai fini della valutazione comparativa richiesta dalla norma civile, non sposta i termini essenziali della questione,
risolvendosi nella proposizione di una prospettiva giuridica diversa sotto la quale esaminare la vicenda, che comunque
sarebbe imposta dal fondamentale principio iura novit curia, comportante l'obbligo del Giudice di applicare di ufficio la
norma adeguata al caso sottopostogli, indipendentemente dalle deduzioni delle parti.
Il motivo di ricorso, pur ammissibile alla stregua delle suesposte considerazioni, è tuttavia manifestamente infondato.
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Deve, invero, rilevarsi che il richiamo alla norma concordataria, che riconosce la piena libertà ed autonomia della
Chiesa Cattolica e degli enti ecclesiastici nel perseguimento della propria "missione pastorale, educativa e caritativa", è
poco conferente nel caso di specie, nel quale la promozione di attività ricreative e sportive, essenzialmente finalizzate a
favorire l'aggregazione dei giovani presso le strutture parrocchiali, costituisce un mezzo solo indiretto per la
realizzazione delle finalità istituzionali sopraindicate, svolgendosi in concreto con modalità non dissimili da quelle
connotanti le analoghe attività di altri soggetti, pubblici e privati, operanti nel mondo dello sport e della ricreazione.
Le limitazioni, derivanti dal diritto comune, allo svolgimento di siffatte attività, non peculiari della Chiesa cattolica,
devono pertanto ritenersi intrinsecamente inidonee a dar luogo a quelle compressioni della libertà religiosa e delle
connesse alte finalità, che la norma concordataria; di cui alla L. n. 121 del 1985, art. 2, in ottemperanza al dettato
costituzionale, ha inteso garantire, pur senza comportare, come è stato condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza
penale di questa Corte (v., in particolare, sulla ricorrente questione, in parte analoga a quella oggetto della presente
controversia, dell'eccedenza nell'uso delle campane oltre i limiti della normale tollerabilità, agli effetti dell'art. 659 c.p.:
Cass. 1^ pen. n. 3261/94, n. 848/96, n. 2316/98, n. 443/01), la rinuncia da parte dello Stato italiano alla tutela di beni
giuridici primari, anche garantiti dalla Costituzione (artt. 42 e 32), quali il diritto di proprietà privata e quello alla salute
(la cui tutela anche rientra tra le esigenze perseguite dalla disciplina dettata dall'art. 844 c.c.).
Dalle suesposte considerazioni discende che anche la Chiesa cattolica e le sue istituzioni locali, quando ture privatorum
utuntur, come nel caso di specie in cui è in discussione l'uso di beni di proprietà privata, soggetti ex art. 831 c.c., in
quanto non diversamente disposto dalle leggi speciali che li riguardano (ed, in subiecta materia, nessun privilegio o
esenzione il diritto vigente prevede), sono tenuti, al pari degli altri soggetti giuridici, all'osservanza delle norme di
relazione e, dunque, alle comuni limitazioni all'esercizio del diritto di proprietà, tra le quali rientrano quelle di cui all'art.
844 c.c..
2. Con il secondo motivo viene dedotta "violazione e falsa applicazione ...dell'art. 844 c.c., con
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia...
Violazione dell'art. 2697 cod. civ. e dell'art. 116 c.p.c.", in riferimento al giudizio di intollerabilità
delle emissioni, che sarebbe stato apodittico, ancorato alle doglianze della sola Gazzetti, unica fra
tutti i confinanti, e ad apprezzamenti soggettivi espressi da testi, anzichè basarsi su accertamenti
tecnici, neppure richiesti dalla parte attrice; tale giudizio non avrebbe tenuto conto del criterio della
c.d. "rumorosità di fondo", della situazione dei luoghi e del relativo sistema di vita ed abitudini,
avrebbe omesso ogni valutazione della priorità dell'uso, alla stregua del quale era stata dedotto e
provato che il campetto era stato realizzato da oltre venti anni, in un sito utilizzato, fin dal
medioevo, dalla comunità parrocchiale.
Si lamenta, infine, l'immotivato accoglimento dell'appello incidentale, comportante, senza spiegarne
le effettive ragioni, la drastica riduzione dei tempi di utilizzo della struttura sportiva.
Delle suesposte doglianze solo l'ultima è fondata.
Il giudizio di intollerabilità delle emissioni, costituendo esercizio di attività discrezionale di merito
rimesso al prudente apprezzamento del Giudice, come costantemente affermato a questa Corte si
sottrae, ove adeguatamente motivato e rispettoso dei criteri direttivi dettati dalla norma di cui all'art.
844 c.c., ad ogni censura in sede di legittimità.
Nel caso di specie, come rilevasi dalla narrativa, i giudici di merito hanno tenuto conto della
particolare situazione dei luoghi, caratterizzata dalla prossimità delle finestre dell'abitazione della
Gazza alla struttura sportiva; tale riscontro, costituente accertamento di fatto incensurabile,
evidenzia l'infondatezza del profilo di censura di aver attribuito rilievo alle sole doglianze
dell'attrice, unica tra tutti i vicini, tenuto conto che agli effetti dell'applicazione dell'art. 844 c.c.,
norma di relazione disciplinante, quale limitazione legale della proprietà, rapporti di vicinato, non è
richiesta (come invece, ai fini penali, di cui all'art. 659 c.p., la c.d. "diffusività" delle emissioni, vale
a dire la percepibilità delle stesse da un numero indeterminato di soggetti, essendo bensì sufficiente
l'incompatibilità con l'uso normale della proprietà da parte di che, per la vicinanza tra gli immobili,
vi si trovi particolarmente esposto.
Nè miglior sorte merita la doglianza, attinente ai mezzi di prova utilizzati, che non necessariamente
debbono essere di natura tecnica, non venendo in rilievo l'osservanza dei precisi limiti alle
emissioni acustiche prescritti dalle leggi speciali (in particolare, dalla L. n. 477 del 1995 sul ed
"inquinamento acustico"), la cui finalità è quella di garantire il rispetto di livelli minimi di
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accettabilità in funzione della tutela di interessi collettivi (v., tra le altre, Cass. 2^ n. 6223/02, n.
1151/03) e non anche di regolare rapporti di vicinato.
Nell'ambito di questi ultimi, segnatamente in particolari situazioni, come quella nella specie
descritta, attinente ad emissioni rumorose discontinue, difficilmente verificabili e riproducibili, per
la loro spontaneità, sul piano sperimentale, non appare censurabile il ricorso alla prova testimoniale,
e non anche alla consulenza tecnica (la cui adozione costituisce tipico esercizio di facoltà
discrezionale di merito), quale fonte conoscitiva dei fatti denunciati dall'attrice, oltre che alle
nozioni di comune esperienza, quale criterio integrativo ex art. 115 c.p.c., comma 2, di valutazione
dell'attendibilità del contenuto delle testimonianze; tale utilizzazione, in quanto attinente a fatti
caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti (in particolare il clamore esterno
proveniente dal campetto, riferito abitualmente superante, anche con le finestre chiuse, il volume
del televisore in funzione in casa della Gazza) non può ritenersi espressione di meri giudizi
valutativi, vietati ai testi, avendo ad oggetto circostanze di fatto, l'esposizione delle quali
necessariamente implicava quella delle sensazioni fisiche che ne avevano determinato
l'apprendimento (sull'ammissibilità di siffatte testimonianze e l'inscindibilità del relativo contenuto,
rimesso alla prudente valutazione del Giudice, v., tra le altre, Cass. sez. 2^ n. 4511/95, n. 3509/99,
sez. 3^ n. 2270/98, n. 1937/03, sez. lav. n. 5/01).
3. Le rimanenti doglianze si risolvono in palesi censure di merito: così quelle relativi alla mancata
considerazione della ed "rumorosità di fondo", parametro di corrente uso giurisprudenziale, sulla
cui mancata adozione nella particolare fattispecie il Giudice di appello ha reso adeguata
motivazione, ed al preuso, costituente, ai sensi dell'art. 844 c.c., comma 2, ultima parte, e per
costante giurisprudenza, un criterio meramente sussidiario e facoltativo (v., tra le altre, Cass. 2^ n.
161/96 e, tra le più recenti, n. 17281 del 25/08/2005) al quale nella specie i giudici di merito non
hanno ritenuto necessario far ricorso, essendo stata sufficiente la ponderata valutazione delle
opposte esigenze in conflitto, nell'ambito della quale, pur tenendosi conto delle finalità socialmente
meritevoli caratterizzanti la destinazione della struttura parrocchiale (il cui uso non è stato del tutto
inibito), si è tuttavia attribuito preminenza alle primarie ed insopprimibili esigenze di vita
quotidiana connotanti l'uso abitativo del confinante immobile, che da un indiscriminato esercizio
delle attività ricreative e sportive sarebbero state seriamente pregiudicate.
4. Fondato è, invece, l'ultimo profilo di censura, considerato che, a fronte dell'articolata ed
equilibrata regolamentazione dell'uso della struttura sportiva, che nell'ambito di una ponderata
valutazione, aveva tenuto conto, nel particolare contesto socio-ambientale, delle esigenze in
conflitto e del diverso atteggiarsi delle stesse, in relazione ai diversi periodi dell'anno ed allo
svolgimento di periodiche manifestazioni sportive di limitata durata, risulta praticamente
immotivato l'accoglimento, da parte del Giudice di secondo grado, dell'appello incidentale, che ha
portato a ridurre a due ore giornaliere detto uso.
La giustificazione al riguardo adottata dal Giudice di appello, testualmente riportata in narrativa, si
risolve in una mera e tautologica formula astrattaci; non rende adeguato conto delle ragioni
inducenti alla drastica riduzione, tali non potendo rinvenirsi nell'operato mero richiamo alla, pur
indiscutibile, preminenza delle esigenze abitative rispetto a quelle ricreative e sportive.
Nel dare un, sia pur limitato e subordinato, spazio anche a queste ultime, è mancata ogni concreta
valutazione di, ormai diffusi, abitudini di vita e comportamenti sociali, nell'ambito dei quali lo
svolgimento delle suddette attività, prevalentemente praticate all'aria aperta, è notoriamente più
intenso durante le stagioni caratterizzate da più ore di luce e da clima favorevole; e da tali esigenze
e costumi di vita, nel contesto dell'apprezzamento discrezionale di cui all'art. 844 c.c. conducente
alla determinazione del limite della tollerabilità, quest'ultimo non può essere dal Giudice di merito
individuato in termini assolutamente anelastici, del tutto avulsi dalla considerazione delle suesposte
componenti, che assumono rilievo quali elementi intrinsecamente connotanti la liceità delle forme
di godimento della proprietà, da valutarsi sullo sfondo del particolare contesto ambientale e sociale
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nel quale le opposte esigenze vengono in rilievo. La sentenza impugnata va, conclusivamente,
cassata limitatamente a tale punto, con rinvio al Tribunale di provenienza, in persona di diverso
magistrato, che deciderà al riguardo sul gravame, attenendosi ai criteri direttivi sopra indicati,
regolando all'esito anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie per quanto di ragione il secondo, cassa la
sentenza impugnata limitatamente alle censure accolte e rinvia, anche per il regolamento delle spese
del presente giudizio, al Tribunale di Modena, in persona di diverso magistrato.
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Accessione invertita art. 938 c.c.
Cass., sez. II, 04-03-2005, n. 4774.
In tema di accessione invertita, la buona fede richiesta dall’art. 938 c.c., che consiste nel
ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere
alcuna usurpazione, deve sussistere fino al completamento della costruzione, non operando la
norma citata alcuna distinzione fra l’inizio e il termine delle opere; inoltre, la buona fede non può
essere presunta, ma deve essere dimostrata - al pari dei requisiti oggettivi della complessa
fattispecie - dallo stesso costruttore, che, in deroga al principio generale dell’accessione
(superficies solo cedit), voglia conseguire il trasferimento della proprietà, essendo al riguardo
irrilevante la mancata opposizione entro tre mesi da parte del confinante (nella specie, è stata
esclusa la buona fede dei ricorrenti, che nell’occupare la porzione del terreno confinante, avevano
costruito nonostante che il confine tra i fondi, essendo delimitato da una scarpata, fosse facilmente
riscontrabile).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 9 giugno 1989 Milva Lupinelli conveniva in giudizio dinanzi al tribunale
di Perugia la società semplice "Azienda Agraria Binaglia di Marcello Binaglia & C." ss., in persona
del legale rappresentante, nonchè i soci Marcello e Gino Binaglia in proprio, e premesso:
che questi avevano costruito un fabbricato, che si incuneava nella proprietà di lei, che è confinante;
che con tale costruzione perciò essi, oltre ad avere occupato parte del suo fondo, recavano molestia,
per avere eliminato la relativa colonna d'aria, e determinavano lo stillicidio sul medesimo;
tutto ciò premesso, l'attrice chiedeva quindi che i convenuti venissero condannati in solido ad
arretrare detta costruzione alla distanza regolamentare prevista in m. 5, e al risarcimento del danno
scaturito da tale violazione, con vittoria di spese e compensi.
La società Azienda Agricola Binaglia & C. e i soci Binaglia si costituivano con comparsa di
risposta, contestando l'assunto "ex adverso" dedotto. In particolare in via pregiudiziale eccepivano
la carenza di legittimazione passiva di Marcello e Gino Binaglia, atteso che il terreno e il fabbricato
costruitovi sono di esclusiva proprietà della società, la quale, ancorchè avente la natura di società
semplice, tuttavia ha una sua autonomia di carattere economico e gestiona-le, cioè una sua
soggettività, distinta dai soci. Chiedevano quindi che il giudice dichiarasse la mancanza di
legittimazione passiva dei due soggetti.
Nel merito, eccepivano di avere operato in buona fede, e quindi proponevano domanda
riconvenzionale, con la quale chiedevano l'attribuzione della proprietà della porzione di suolo
occupata e del fabbricato, per accessione invertita, previo pagamento della relativa indennità.
Nel corso del processo veniva disposta consulenza tecnica di ufficio.
Indi, con sentenza non definitiva, il tribunale rigettava la domanda dell'attrice; attribuiva la
proprietà della porzione di suolo occupata ai convenuti, e rimetteva le parti dinanzi a sè per la
prosecuzione della causa, al fine di stabilire la misura dell'indennità da corrispondere all'attrice.
Il giudice osservava che in realtà i convenuti avevano agito in buona fede, posto che avevano
occupato solamente mq. 1,80 di suolo di questa, quindi una superficie molto modesta; tra i due
fondi infatti si trova una scarpata; il confine ha un andamento fortemente irregolare, ed inoltre
Lupinelli aveva omesso un'immediata contestazione in proposito. Pertanto il principio
dell'accessione invertita ben poteva trovare applicazione nella fattispecie.
Avverso tale provvedimento Lupinelli interponeva appello principale, dinanzi alla competente corte
di Perugia, lamentando il mancato accoglimento della domanda. I convenuti a loro volta
proponevano appello incidentale, con cui si dolevano che il tribunale non avesse dichiarato la
mancanza di legittimazione passiva da parte dei due soci.
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Con sentenza dell'I febbraio 2001 la corte perlina, in riforma di quella impugnata, in via
pregiudiziale ha rigettato l'appello incidentale, osservando che, trattandosi di società semplice, i soci
sono responsabili in solido con la società stessa dei rapporti che fanno capo ad essa, tranne che non
risulti diversamente dall'atto costitutivo, e ciò non sia stato portato a conoscenza dei terzi. In
accoglimento dell'appello principale ha condannato i convenuti in solido alla demolizione dello
spigolo nord-ovest dell'edificio di loro proprietà, fino a ricondurlo sul confine comune, così come
individuato dal CTU, osservando che la buona fede doveva essere provata dai medesimi, e che i
presupposti per presumerla non vi erano nel caso in esame. Inoltre la corte ha posto le spese del
doppio grado a carico degli appellati soccombenti.
Avverso tale sentenza la società "Azienda Agraria Binaglia di Marcello Binaglia & C." e il socio
Marcello Binaglia hanno proposto ricorso per Cassazione, sulla base di tre motivi.
Lupinelli resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.
Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 cod.proc.civ., nonchè omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art. 360, nn. 3 e 5 dello stesso codice, in quanto la corte di
appello non ha considerato che la sentenza di primo grado già era passata in giudicato nei e fronti della società, posto che l'atto di
appello stato notificato all'Azienda Binaglia, bensì solamente ai due Binaglia, e per di più in proprio, e non invece quali soci di essa,
nonostante che essi avessero sempre dedotto la loro carenza di legittimazione passiva. Inoltre l'impugnazione era stata notificata fuori
termine, giacchè la notifica della sentenza era stata effettuata il giorno 15 maggio 1997, mentre quella dell'appello era stata eseguita il
16 giugno dello stesso anno. Sebbene la relativa doglianza fosse stata prospettata con l'appello incidentale, la corte di appello non l'ha
delibata.
Questo motivo è infondato.
Infatti dall'esame dell'atto di appello risulta che esso veniva notificato alla società stessa, oltre che ai due soci. Pertanto nessun
giudicato poteva essersi formato nei confronti dell'Azienda Binaglia. Si tratta perciò di un rigetto implicito dell'eccezione proposta da
parte della corte territoriale.
Per quanto poi attiene alla posizione di Marcello Binaglia e dell'altro socio, la corte di appello ha messo esattamente in evidenza che
nella società semplice i soci che amministrano la società stessa sono solidalmente responsabili con essa ai sensi dell'art. 2267 cc.
Inoltre parimenti rispondono delle obbligazioni della stessa anche gli altri soci, tra che non vi sia patto contrario. Nel caso in esame e
avevano provveduto a depositare il contratto costitutivo della società. Pertanto deve presumersi che a ciascuno dei soci spetti
l'amministrazione, come pure la rappresentanza in giudizio, a mente dell'art. 2266 cc, con la conseguente responsabilità di ciascuno
per le obbligazioni sociali.
Su tale punto perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato, oltre che giuridicamente corretto.
Quanto alla dedotta mancanza di tempestività dell'appello, la doglianza benchè non fosse stata proposta dinanzi al giudice del
riesame, è ammissibile, perchè la relativa questione può essere sollevata in ogni stato e grado del giudizio.
Essa, però, è priva di
pregio, questa Corte rileva che la sentenza di primo grado era stata pubblicata il giorno 19 novembre 1996, ma non era stata
notificata. Quindi essa era impugnabile nel termine lungo di un anno. Poichè l'appello era stato notificato il 16 giugno 1997,
l'impugnazione deve essere ritenuta tempestiva.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2251 e segg. cc, e contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., giacchè la corte distrettuale non ha
considerato che Marcello e Gino Binaglia non erano stati evocati in giudizio nella qualità di soci, bensì in proprio, e quindi non
potevano rispondere delle eventuali obbligazioni della società, questa, ancorchè sfornita di personalità giuridica, tuttavia ha pur
sempre una soggettività autonoma, per la quale i rapporti che fanno capo ad essa non possono estendersi ai soci. Inoltre la sentenza
impugnata già era passata in giudicato nei confronti dell'Azienda Binaglia, e quindi le obbligazioni facenti carico su di essa non
possono coevamente gravare sui soci, altrimenti si creerebbe una situazione di conflittualità tra il soggetto autonomo e i soci
medesimi.
Questa censura rimane assorbita da quanto enunciato con riferimento al motivo più sopra esaminato.
3. Col terzo motivo i ricorrenti denunziano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729
cod.civ., oltre che omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, relativamente all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., dal momento che la corte di appello
non ha considerato che i ricorrenti avevano agito in buona fede, atteso che tra i due fondi delle parti
non vi è alcun confine naturale o apposto dall'uomo, ma si trova una scarpata; inoltre questo è
irregolare; lo sconfinamento era stato molto modesto; la costruzione era stata realizzata per una
superficie inferiore a quella di cui alla concessione edilizia, che era per mq. 1000, mentre il
fabbricato ne ha una ridotta per mq. 873; esso anzicchè avere un orientamento ovest-est, ha quello
nord-sud; nessuna contestazione era stata mai mossa dalla resistente. Quindi l'uomo medio non
poteva che essere in buona fede, atteso che lo stesso CTU aveva accertato il modestissimo
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sconfinamento solo dopo avere fatto uso di sofisticatissime strumentazioni, e avere sfruttato
conoscenze tecniche, che ovviamente non appartengono al bagaglio culturale dell'"uomo medio".
Anche tale doglianza è priva di pregio.
Infatti la corte di appello ha osservato esattamente che in tema di accessione invertita non può
trovare ingresso la prova per presunzione. D'altra parte nel caso in specie, a parte la modesta entità
della superficie occupata, come evidenziato anche dal CTU il confine ricade sulla scarpata che
divide i due fondi, sicchè esso era facilmente riscontrabile.
Inoltre la buona fede non può presumersi, ma va provata dal costruttore che la invochi. Questo
principio è perfettamente in linea con il costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte,
secondo cui "la buona fede rilevante ai fini dell'accessione invertita ex art. 938 cod. civ. consiste nel
ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna
usurpazione. Il predetto stato soggettivo deve sussistere fino al completamento della costruzione
non operando l'art. 938 nel richiedere tale requisito, alcuna distinzione tra l'inizio ed il termine della
costruzione. Inoltre la buona fede del costruttore non può essere presunta, ma deve essere
dimostrata, al pari dei requisiti oggettivi della complessa fattispecie, dallo stesso costruttore che
voglia conseguire, contro il principio generale dell'accessione ("superficies solo cedit") il
trasferimento della proprietà del suolo occupato con la costruzione" (V. SENT. 03058 DEL
30/03/1999; CONF 9410784 489240 CONF 9709786 508648; SEZ. 2^ SENT. 02589 DEL
25/03/1997).
La corte di appello inoltre ha messo in evidenza esattamente che la mancata opposizione della
vicina interessata alla non occupazione non poteva dispiegare alcun rilievo, atteso che per la buona
fede richiesta ai fini della accessione invertita occorre avere riguardo al comportamento dell'agente
e non alla mancata tempestiva opposizione della parte danneggiata.
In proposito questa Corte ha statuito che "nella fattispecie costitutiva dell'accessione invertita
prevista dall'art. 938 cod. civ. sono distinti i requisiti della buona fede del soggetto che, sconfinando
dal proprio terreno, costruisce su una porzione del fondo attiguo, e quello della mancata
opposizione entro tre mesi del confinante. Quindi la mancata opposizione di quest'ultimo non vale a
dimostrare lo stato soggettivo di buona fede (ragionevole convincimento di avere diritto sulla
porzione occupata e quindi di non commettere usurpazione) del soggetto che ha eseguito la
costruzione, stato soggettivo che richiede una positiva dimostrazione da parte dell'interessato (Cfr.
SENT. 10784 DEL 15/12/1994; CONF 9109373 473740; VEDI 9311836 484545; VEDI 8709619
456650).
Su questi punti perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato, oltre che
giuridicamente e logicamente corretto.
Nè in sede di legittimità le parti possono proporre una differente valutazione del quadro probatorio
acquisito dal giudice di merito, mediante la proposizione di un vaglio alternativo di esso.
Ne deriva che il ricorso va rigettato, con le conseguenti statuizioni di legge relativamente alle spese
del giudizio, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna i ricorrenti in solido al rimborso delle spese in favore della
controricorrente, e che liquida in complessivi euro cento/00 per esborsi, ed euro duemila/00 per
onorari, oltre agli accessori di legge.
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