RASSEGNA STAMPA di mercoledì 14 gennaio 2015 SOMMARIO “Alle 9.50 di questa mattina la bandiera è stata ammainata dal palazzo del Quirinale. Poco dopo, alle 10.40, ha firmato la lettera di dimissioni che poi consegnerà ai presidenti delle due Camere e al primo ministro. Nella piazza antistante c'era grande attesa per l'uscita di Giorgio Napolitano che ha segnato il suo addio al Colle dopo quasi nove anni. Il Capo dello Stato ha lasciato il palazzo, salutato dal picchetto d'onore, solo dopo che la sua lettera di dimissioni è stata consegnata ai presidenti delle Camere e al premier. "#graziePresidente": Matteo Renzi ha coniato un hashtag ad hoc su Twitter. Alle 11 il segretario generale del Quirinale è giunto a Palazzo Giustiniani per consegnare la lettera di dimissioni di Giorgio Napolitano al presidente del Senato Pietro Grasso Il presidente del Senato. "Lascio l'Aula perché il segretario generale del Quirinale mi deve dare comunicazioni", ha detto sospendendo la seduta. Grasso da questo momento riceve la supplenza della Repubblica. Alle 11,15 il Segretario Generale del Quirinale Donato Marra ha consegnato la lettera di dimissioni del Presidente Napolitano nelle mani di Laura Boldrini, Presidente della Camera. Alle 11.40 Marra si è recato a Palazzo Chigi. Alle 12 il picchetto d'onore del Quirinale ha reso omaggio a Giorgio Napolitano, eseguendo l'inno d'Italia. È poi stato ammainato il vessiilo presidenziale. Napolitano, con la moglie, Clio ha salutando i funzionari e dipendenti del Quirinale. Subito dopo Napolitano è tornato nella sua abitazione in vicolo dei Serpenti, nel rione Monti”: così Avvenire.it racconta le dimissioni del presidente Napolitano, divenute ufficiali proprio stamattina. Dai giornali di oggi raccogliamo la riflessione sul tema “Il dna della politica che l'Europa deve ritrovare” scritta da Vittorio Emanuele Parsi sul Sole 24 Ore: “«Un gigante economico, un nano politico, un verme militare»: era questo lo sprezzante giudizio sull'Unione europea che girava fino a qualche anno fa negli ambienti neoconservatori. Seppure espressa in termini meno sarcastici, quella opinione è ancora oggi condivisa da tanti critici della difficoltà europea a "esserci" sullo scenario della politica internazionale. Paradossale, se si pensa che Gran Bretagna, Francia, Germania (e più indietro nel tempo Austria, Portogallo, Spagna, Svezia, Olanda) la storia del mondo hanno contribuito a farla come poche altre nazioni al mondo, nel bene e nel male. L'insieme di questi e degli altri venti Paesi che oggi compongono l'Unione dovrebbe quindi avere nel suo Dna il gene della politica internazionale. E invece se c'è un ambito sul quale l'Europa stenta, finora, a marcare la sua presenza questo è proprio la proiezione esterna della sua esistenza. Per alcuni aspetti un simile ritardo e una simile difficoltà non devono stupire: il progetto stesso di unificazione europea è nato proprio dal collasso del continente seguito a un "surplus" di proiezione di potenza da parte dei suoi protagonisti principali, in grado di dar fuoco alle polveri di due guerre mondiali in meno di un quarto di secolo. La lunga Guerra fredda, poi, ha sterilizzato e ridotto le possibili aspirazioni a marcare in maniera autonoma il raggio d'azione di una politica estera europea. La Guerra fredda però è finita ormai da 25 anni, l'Unione stessa si è dotata di strumenti idonei a segnalare al mondo esterno il suo ritorno sulla scena mondiale, le sfide certo non mancano, eppure... Eppure l'Europa continua a vedersi a fatica, perché quello che finora le è mancato sono stati il coraggio e l'ambizione. Il coraggio di capire che in un mondo in continuo tempestoso movimento (parlare di evoluzione parrebbe eccessivo) non c'è più spazio per le strategie volte alla mera sopravvivenza. L'ambizione per ricordarsi che il mondo che verrà possiamo (e dobbiamo) concorrere a disegnarlo anche noi. Il guanto di sfida lanciato dal terrorismo islamista a tutti noi è solo l' ultimo e il più brutale che colpisce il nostro volto. Per raccoglierlo, lo abbiamo ripetuto tante volte in questi giorni, occorre la consapevolezza che solo unendo gli sforzi investigativi e di intelligence potremo venire a capo di una minaccia tanto letale al nostro stile di vita. Tutto questo però non basta. Considerato il legame oggettivo che esiste tra i terroristi nati e cresciuti in casa nostra e il centro di irradiazione delle aberranti mistificazioni in nome delle quali hanno dichiarato la loro violenta secessione dal consesso civile, occorre che l'Europa sappia trovare una politica che sia non solo comune, ma anche forte e determinata per concorrere a chiudere l'esperienza dello "Stato islamico" e sostenere la riforma e il consolidamento del sistema regionale del Levante. Si tratta di uno sforzo importante, sul quale l'Europa si gioca la sua credibilità, tanto più in un momento storico in cui la potenza leader dell'Occidente e del mondo sembra essersi smarrita. L'Unione europea potrà essere una "potenza pacifica" ma non potrà mai più illudersi di essere solo una "potenza civile" e men che meno imbelle. La spinta a una maggiore unità, a spostare più avanti possibile il processo di unificazione politica, riscoprendo l'intima essenza politica dell'Unione, viene anche dall'interno dei suoi confini. Nonostante gli indubbi maggiori progressi nel campo dell' edificazione del mercato unico e di uno spazio economico comune, la grave crisi che da anni squassa le nostre economie ha mostrato in maniera impietosa quanto siano pesanti e alla fine insopportabili i costi derivanti da un'imperfetta unificazione. Se confrontata con quelle dei principali competitors globali, l'economia europea appare in affanno, incapace di rilanciarsi non solo e non tanto per una carenza oggettiva di risorse finanziarie, ma soprattutto per l'incapacità di impiegarle utilmente. Interroghiamoci sul come mai i famosi "parametri" di Maastricht non sono mai stati allentati per ridare un po' di fiato ad economie asfittiche e in continuo peggioramento, o perché solo dopo faticosi negoziati l'Europa sia riuscita (proprio ieri) ad accennare ad un mite tentativo di superare le politiche del solo rigore finanziario, chiesto da anni da più parti. O ancora, interroghiamoci sul perché le politiche economiche nazionali abbiano talvolta finito per produrre una rincorsa al dumping fiscale che ha generato un gioco a somma zero. La risposta sarebbe sempre la stessa: deficit di unità politica. È il ritardo nel processo di unificazione che continua a far sì che ogni singola costituency politica nazionale non possa "fidarsi" delle altre, e chieda quindi pegni costosi per ogni credito concesso. Non è per nulla accidentale che all'interno della casa comune europea la divergenza in termini economico-sociali abbia preso il posto della convergenza, con un avvitamento che rafforza l'analogo, inaccettabile movimento che si produce anche nelle singole società nazionali, creando diseguaglianze di opportunità francamente inaccettabili. Il risultato di questa debolezza lo abbiamo sotto gli occhi: l'Europa, la patria della democrazia e dell'uguaglianza politica come ci piace pensarla, oggi si ritrova a temere l'esito del voto greco, ad aver paura di fronte all'esercizio del più elementare diritto democratico di una delle più piccole delle nazioni che la compongono. È tempo di cambiare tutto questo, prima che lo scorrere del tempo decreti impietosamente la fine del più straordinario esperimento politico mai tentato nella storia” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Senza equivoci di g.m.v. Pag 8 Con la riconciliazione nel cuore Papa Francesco incontra gli esponenti delle varie comunità religiose dello Sri Lanka AVVENIRE Pag 1 La fraterna diversità di Enzo Bianchi Vangelo della pace e dialogo tra le fedi Pag 15 La ferita dei preti pedofili e il discernimento che serve di Maurizio Patriciello CORRIERE DELLA SERA Pag 17 L’invito del Papa ai leader religiosi: denunciare la violenza in nome di Dio di Gian Guido Vecchi LA NUOVA Pag 8 Bergoglio e le mosse anti-Islam di Orazio La Rocca Pag 11 “Libertà e credo religioso, il problema ora esiste” di Claudio Baccarin Il dibattito nella Chiesa del Nordest 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Le nuove assunzioni in Fiat, primo test per il Jobs act di Leonardo Becchetti Come sta cambiando il mercato del lavoro in Italia LA NUOVA Pag 23 Economia, segnali di ripresa per il 2015 di Gianni Favarato I dati del report provinciale: nell’ultimo anno si è ridotto il numero delle procedure di crisi aziendale, dei lavoratori in mobilità e dei cassintegrati 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 In laguna corsa al divorzio facile, in una settimana 50 richieste di Alice D’Este L’avvocato: tribunali alleggeriti. Il sacerdote: più complicato ripensarci. Paolo e Lucia, la decisione dopo dieci anni di vita separata: “Due incontri allo sportello e 16 euro, non potevo crederci” LA NUOVA Pag 18 Venezia, omissioni e nomine tra il sacro e il profano di Franco Miracco IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVI Mira si attiva per i tre fratelli di Luisa Giantin Pag XXI Un milione di persone per il presepe di sabbia di Giuseppe Babbo Jesolo: record di presenze nelle varie edizioni con i quasi centomila visitatori di quest’anno 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se la politica arriva a scuola di Massimiliano Melilli Perché (e come) parlarne Pagg 6 – 7 I medici e i miracoli del Santo: “Non c’è prova, la scienza è altro” di Michela Nicolussi Moro e Renato Piva Silvio Garattini: “Guarigioni inspiegabili, ma sono soltanto limiti della medicina”. In fila per l’aiuto ultraterreno, il popolo che invoca e ringrazia … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La figura che non vorremmo di Michele Ainis Pag 5 Terna di nomi. E cresce l’ipotesi Veltroni di Francesco Verderami Pag 20 Houellebecq: “Lo ammetto, adesso ha paura anch’io. Devo essere irresponsabile per continuare a scrivere. L’uomo non ne può più della sua libertà” di Stefano Montefiori Pag 36 La vera radice dell’estremismo di Vittorio Messori LA REPUBBLICA Pag 1 I sogni e le fatiche di un Sisifo al Quirinale di Eugenio Scalfari Pag 19 Vivere in Europa ai tempi della paura, così il terrorismo distrugge la società di David Grossman IL SOLE 24 ORE Il dna della politica che l'Europa deve ritrovare di Vittorio Emanuele Parsi AVVENIRE Pag 3 I bambini arruolati in odio alla vita di Marina Corradi L’orrore dei fanciulli usati per uccidere IL GAZZETTINO Pag 1 Non sono Charlie ma voglio che Charlie viva di Dario Calimani Pag 1 Per re Giorgio è come il giorno della liberazione di Mario Ajello LA NUOVA Pag 1 Quell’idea di Europa e nazione di Gianfranco Pasquino Pag 1 Quanto vale la libertà d’espressione di Vincenzo Milanesi Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Senza equivoci di g.m.v. Amicizia, dialogo, solidarietà: con tre parole il Papa ha presentato la sua visita in Sri Lanka nel discorso pronunciato all’arrivo nell’isola, che ha celebrato con la tradizionale definizione di «perla dell’oceano Indiano». E da questo desiderio di incontro sono subito apparse segnate le prime ore a Colombo, dove Francesco è stato accolto con rispetto e simpatia dal presidente, eletto da qualche giorno. Di religione buddista, Maithripala Sirisena ha detto infatti che il viaggio papale è l’occasione di ricevere dall’ospite le benedizioni per l’alto incarico assunto, aggiungendo che la canonizzazione del beato Vaz è un onore per il popolo srilankese. In un Paese che per un trentennio è stato lacerato da un sanguinoso conflitto civile intrecciatosi a pretesti religiosi e all’indomani del discorso al corpo diplomatico dove è tornata la condanna dell’uso della religione falsata da ideologie di violenza, il Pontefice ha dedicato il primo giorno della visita alla necessità del dialogo. Tema centrale già sviluppato dal Papa nell’incontro con i rappresentanti degli episcopati dell’Asia durante il viaggio in Corea. Nel processo di risanamento, che deve privilegiare la verità, è fondamentale in Sri Lanka il ruolo dei «seguaci delle varie tradizioni religiose»: buddisti, induisti, musulmani, cristiani. E certo non solo cristiani, anche se i cattolici sono nel Paese un’importante minoranza, erano i moltissimi srilankesi assiepati lungo i trenta chilometri che separano l’aeroporto dalla capitale per salutare Francesco, per tutto il tempo in piedi sulla papamobile. Sulle orme di Paolo VI e Giovanni Paolo II, che negli scorsi decenni hanno visitato il Paese, il Papa ha rilanciato, in un suggestivo incontro con centinaia di esponenti religiosi, la dichiarazione del Vaticano II sulle religioni non cristiane, ripetendo che la Chiesa «nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni». Affermazione approvata dal concilio mezzo secolo fa, ma che risale a una convinzione antichissima nella tradizione cristiana: già matura in età patristica e un millennio più tardi, all’inizio dell’età moderna, base delle pionieristiche missioni gesuitiche in India, Giappone, Cina. Sviluppando il tema del dialogo, il Papa ha detto che «deve fondarsi su una presentazione piena e schietta delle nostre rispettive condizioni». In questo modo emergeranno certo le differenze, ma anche quanto le religioni hanno in comune. E, questa è la convinzione di Francesco, «nuove strade si apriranno per la mutua stima, cooperazione e anche amicizia», com’è apparso nel grande incontro di Colombo. Se questo comune «desiderio di sapienza, di verità e di santità» riveste un significato particolare in Sri Lanka, dove dopo la guerra civile sono necessari il risanamento e l’unità, le parole di Francesco assumono però un valore generale in un tempo devastato in diverse regioni del mondo dal terrorismo fondamentalista. Sì, «non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra» ripete il Papa. E bisogna essere «non equivoci» nel denunciare le violenze. Pag 8 Con la riconciliazione nel cuore Papa Francesco incontra gli esponenti delle varie comunità religiose dello Sri Lanka «Per troppi anni gli uomini e le donne di questo Paese sono stati vittime di lotta civile e di violenza. Ciò di cui ora c’è bisogno è il risanamento e l’unità». Nel pomeriggio di martedì 13 gennaio, parlando agli esponenti delle varie comunità religiose dello Sri Lanka, riuniti nella Bandaranaike Memorial International Conference Hall di Colombo, Papa Francesco ha parlato di «riconciliazione» e ha esortato tutti a vivere in armonia senza «dimenticare la propria identità, sia essa etnica o religiosa» e a non permettere l’abuso della religione per giustificare la violenza e la guerra. Cari Amici, sono grato per l’opportunità di partecipare a questo incontro, che riunisce insieme, tra gli altri, le quattro comunità religiose più grandi, parte integrante della vita dello Sri Lanka: Buddhismo, Induismo, Islam e Cristianesimo. Vi ringrazio per la vostra presenza e per il caloroso benvenuto. Ringrazio anche quanti hanno offerto preghiere e benedizioni, e in modo particolare esprimo la mia gratitudine al Vescovo Cletus Chandrasiri Perera e al Venerabile Vigithasiri Niyangoda Thero per le loro cortesi parole. Sono giunto in Sri Lanka sulle orme dei miei predecessori, i Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II, per dimostrare il grande amore e la sollecitudine della Chiesa Cattolica per lo Sri Lanka. È una grazia particolare per me visitare la comunità cattolica locale, confermarla nella fede in Cristo, pregare con essa e condividerne le gioie e le sofferenze. Ed è ugualmente una grazia l’essere con tutti voi, uomini e donne di queste grandi tradizioni religiose, che condividete con noi un desiderio di sapienza, di verità e di santità. Nel Concilio Vaticano II la Chiesa Cattolica ha dichiarato il proprio rispetto profondo e duraturo per le altre religioni. Ha dichiarato che «nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto [quei] modi di agire e di vivere, [quei] precetti e [quelle] dottrine» (Nostra aetate, 2). Da parte mia, desidero riaffermare il sincero rispetto della Chiesa per voi, le vostre tradizioni e le vostre credenze. È in questo spirito di rispetto che la Chiesa Cattolica desidera collaborare con voi e con tutte le persone di buona volontà, nel ricercare la prosperità di tutti gli srilankesi. Spero che la mia visita aiuterà ad incoraggiare ed approfondire le varie forme di collaborazione interreligiosa ed ecumenica, che sono state intraprese negli anni recenti. Queste lodevoli iniziative hanno offerto opportunità di dialogo, essenziale se vogliamo conoscerci, capirci e rispettarci l’un l’altro. Ma, come insegna l’esperienza, perché tale dialogo ed incontro sia efficace, deve fondarsi su una presentazione piena e schietta delle nostre rispettive convinzioni. Certamente tale dialogo farà risaltare quanto siano diverse le nostre credenze, tradizioni e pratiche. E tuttavia, se siamo onesti nel presentare le nostre convinzioni, saremo in grado di vedere più chiaramente quanto abbiamo in comune. Nuove strade si apriranno per la mutua stima, cooperazione e anche amicizia. Tali sviluppi positivi nelle relazioni interreligiose ed ecumeniche assumono un significato particolare ed urgente nello Sri Lanka. Per troppi anni gli uomini e le donne di questo Paese sono stati vittime di lotta civile e di violenza. Ciò di cui ora c’è bisogno è il risanamento e l’unità, non ulteriori conflitti o divisioni. Certamente la promozione del risanamento e dell’unità è un impegno nobile che incombe su tutti coloro che hanno a cuore il bene della Nazione e dell’intera famiglia umana. Spero che la collaborazione interreligiosa ed ecumenica dimostrerà che, per vivere in armonia con i loro fratelli e sorelle, gli uomini e le donne non devono dimenticare la propria identità, sia essa etnica o religiosa. Quanti modi ci sono per i seguaci delle diverse religioni per realizzare questo servizio! Quanti sono i bisogni a cui provvedere con il balsamo della solidarietà fraterna! Penso in particolare alle necessità materiali e spirituali dei poveri, degli indigenti, di quanti ansiosamente attendono una parola di consolazione e di speranza. Penso qui anche alle molte famiglie che continuano a piangere la perdita dei loro cari. Soprattutto, in questo momento della storia della vostra Nazione, quante persone di buona volontà cercano di ricostruire le fondamenta morali dell’intera società! Possa il crescente spirito di cooperazione tra i dirigenti delle diverse comunità religiose trovare espressione in un impegno a porre la riconciliazione fra tutti gli srilankesi al cuore di ogni sforzo per rinnovare la società e le sue istituzioni. Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra. Dobbiamo essere chiari e non equivoci nell’invitare le nostre comunità a vivere pienamente i precetti di pace e convivenza presenti in ciascuna religione e denunciare gli atti di violenza quando vengono commessi. Cari amici, vi ringrazio ancora per la generosa accoglienza e per la vostra attenzione. Che questo fraterno incontro confermi noi tutti negli sforzi per vivere in armonia e diffondere le benedizioni della pace. AVVENIRE Pag 1 La fraterna diversità di Enzo Bianchi Vangelo della pace e dialogo tra le fedi Era inevitabile che il viaggio e le parole di papa Francesco in Sri Lanka venissero lette anche alla luce di quanto accaduto nei giorni scorsi a Parigi: mezzi di comunicazione e opinioni pubbliche abituate a dare alle tragedie un peso specifico diverso a seconda della distanza del luogo dove accadono, faticano a cogliere la dimensione insieme locale e universale insita nel ministero del Vescovo di Roma. Quando il Papa afferma che «non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra» lo fa rivolgendosi ai rappresentanti religiosi di una nazione particolare, pensando a una specifica Chiesa locale di esigua minoranza che ha vissuto come tutti gli abitanti di quel Paese anni di sanguinosa guerra civile. Eppure il suo messaggio conserva una portata ben più ampia. La tragedia di Parigi non è dimenticata, così come non sono dimenticati gli orrori della Nigeria, ma lo sguardo, il cuore e il pensiero di questo pastore universale vanno in primo luogo alle vittime che scorge negli occhi dei suoi interlocutori nello Sri Lanka, alle migliaia di persone uccise, torturate, imprigionate in questi anni. E sono parole che vogliono essere non solo balsamo per le ferite, ma anche stimolo all’azione, appello alla dignità presente in ogni essere umano, invito alla riconciliazione, alla collaborazione, alla solidarietà. Così, riallacciandosi al documento conciliare Nostra aetate, papa Francesco ricorda che «per vivere in armonia con i loro fratelli e sorelle, gli uomini e le donne non devono dimenticare la propria identità, sia essa etnica o religiosa» perché, anche se il «dialogo farà risaltare quanto siano diverse le nostre credenze, tradizioni e pratiche», questo non farà che incrementare la consapevolezza di «quanto abbiamo in comune ». Le tradizioni religiose, pur nella loro diversità, sono sempre «desiderio e ricerca di sapienza, di verità e di santità» e per questo ci sono vie da condividere e cammini di collaborazione che devono essere aperti o confermati per il bene comune di un popolo e dell’umanità. Quello di Francesco è un appello al rispetto reciproco, così come inteso dal Concilio: non un insieme di buone maniere, non un indifferentismo etico, ma una consapevolezza che nell’altro è impressa in modo indelebile l’immagine di Dio e questo non può che aprire alla «mutua stima, alla cooperazione e anche all’amicizia ». Infatti, come ha ricordato il Papa all’arrivo all’aeroporto di Colombo, «la diversità non è una minaccia», ma occasione di dialogo autentico, di confronto nella verità per perseguire insieme una pace ritrovata. Guardare con misericordia e compassione al qui e ora, a volti e persone concrete e vicinissime, senza dimenticare l’orizzonte più vasto della convivenza globale: questa non è strategia diplomatica, non è elaborazione di un’egemonia mondiale, ma è sollecitudine del pastore che conosce le sue pecore, che sa dove vivono e di cosa si nutrono, qual è il loro “prossimo” che sono chiamate ad amare anche quando dovesse presentare un volto nemico. Ed è, al contempo, lo sguardo lungimirante di chi sa che locale e universale interagiscono profondamente, e che l’intera famiglia umana è ferita quando anche una sola persona è uccisa, così come l’umanità tutta è salvata quando una sola vita viene riscattata dalla violenza e dall’odio mortifero. Non c’è persona che non abbia una voce, e dunque tutti devono essere ascoltati, liberi di esprimere ciò che li fa soffrire nel duro mestiere del vivere, tutti devono essere pronti ad accettarsi reciprocamente, a riconoscere la dignità di ciascuno e a riconciliarsi, vincendo il male con il bene. A Colombo, come a Parigi, come in Nigeria o in Siria, ciascuno deve avere non solo il diritto ma la gioia di poter vivere, approfondire, testimoniare la propria fede religiosa, trovando e donando accoglienza, rispetto fraterno, cura e sollecitudine verso le proprie sofferenze. Questo non è oscuramento dell’annuncio cristiano ma evangelo della pace, buona novella annunciata a tutti, a cominciare dai poveri e degli afflitti. Pag 15 La ferita dei preti pedofili e il discernimento che serve di Maurizio Patriciello Credo sia giusto parlarne. A Napoli un prete cinquantenne di una diocesi calabrese è stato colto in flagrante mentre in un internet point tentava di violentare un ragazzino. Il vescovo lo ha immediatamente sospeso a divinis. Proviamo grande vergogna. All’adolescente, alla sua famiglia, alla sua città chiediamo perdono mille volte. Non abbiamo parole da dire e nulla da giustificare. Dobbiamo solo arrossire in volto e lo facciamo con angoscia. Lo facciamo noi preti insieme a questo sventurato confratello, sperando e pregando che queste cose non accadano più. È vero: nessun uomo ha la capacità di leggere nell’animo di un altro uomo. È vero: certe volte il cuore è un guazzabuglio ignoto allo stesso portatore. Però qualcosa dobbiamo avere imparato dopo tanta sofferenza. Intanto leggo che il prete in questione, dopo aver rinunciato a un incarico che il suo vescovo intendeva affidargli, era tornato in famiglia e non dava più notizie da mesi. Qualcosa di strano, dunque, si notava già, perché nessun prete può sparire all’improvviso né rimanere senza incarichi. Egli deve dar conto al suo vescovo e alla diocesi di ogni spostamento. Non siamo meteore impazzite. Siamo un presbiterio, un corpo, una famiglia. Nessuno lavora in proprio né si sceglie il posto. Cosa faceva questo confratello, originario di Agrigento e ordinato a Cosenza, a Napoli? Occorre essere più severi verso i preti che hanno difficoltà a camminare in comunione con la propria diocesi. La misericordia, da esercitare sempre e verso tutti, deve andare di pari passo con la fermezza, la prudenza, la giustizia. Bisogna riconoscere che tante fatiche pastorali di molti preti coscienziosi e trasparenti vengono neutralizzate da notizie come questa. Bisogna ammettere che, immediatamente dopo la giovanissima vittima, siamo noi sacerdoti a pagare le conseguenze di questi odiosi peccati e reati. Notizie come questa ci gettano nello sgomento e nell’imbarazzo di fronte alle comunità parrocchiali e civili. Questo non è giusto. Il dramma dei preti pedofili deve finire. La bacchetta magica non la possiede nessuno. Chi, però, sa di portare dentro problemi irrisolti deve trovare l’onestà e il coraggio di lasciarsi aiutare prima di fare guai. Qualche segnale queste persone problematiche lo danno sempre. Occorre coglierlo. È giunto il momento di discutere di queste cose tra noi, con i vescovi e i fedeli, con più coraggio e parresia e smetterla di definire 'fragilità' quelle che sono patologie da curare. Iniziamo dai seminari, da quei luoghi benedetti dove i giovani chiedono di entrare perché la loro presunta vocazione venga sottoposta a seria e reiterata verifica da parte di superiori ed esperti. Per la formazione dei futuri preti, le diocesi debbono investire il meglio delle risorse e del personale, perché si possa fare vero discernimento. Per capire se il postulante è chiamato alla castità, se intende servire Cristo nei poveri e nella Chiesa, se ha raggiunto un equilibrio psico-affettivo. Per cercare di capire se chi entra in seminario lo fa perché il fuoco divino gli divora il cuore oppure pensa - anche inconsciamente - di risolvere o camuffare problemi personali. È difficile. Perciò insegnanti, psicologi, parroci, direttori spirituali hanno bisogno di lavorare insieme, sotto la guida dello Spirito Santo e del vescovo. Valutando chi può continuare il cammino e chi no. Ai seminaristi non va nascosto che gli verrà chiesto molto e che nessuno più è disposto a perdonare certi odiosi peccati. La gente al prete consegna il cuore che va curato, custodito, amato e mai maltrattato o tradito. Meglio chiudere le parrocchie per mancanza di preti che affidare a persone problematiche, fattesi ordinare con l’inganno, parte del popolo di Dio. CORRIERE DELLA SERA Pag 17 L’invito del Papa ai leader religiosi: denunciare la violenza in nome di Dio di Gian Guido Vecchi Colombo (Sri Lanka) L’accoglienza è stupefacente, i colori, i bambini, i tamburi e le danze tradizionali, una quarantina di elefanti bardati a festa che sollevano le proboscidi al passaggio della papamobile, centinaia di migliaia persone di varie fedi lungo i trenta chilometri dall’aeroporto alla nunziatura in un paese dove i cattolici sono il 7,2 per cento e prevalgono buddisti (70 per cento della popolazione), induisti (12,6) e musulmani (9,7). Francesco torna in Asia, «culla delle religioni del mondo», nel viaggio che dopo lo Sri Lanka lo porterà nelle Filippine, e arriva subito al punto: «Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra. Dobbiamo essere chiari e non equivoci nell’invitare le nostre comunità a vivere pienamente i precetti di pace e convivenza presenti in ciascuna religione e denunciare gli atti di violenza quando vengono commessi». Il volo Az 4000 atterra alle 4,22 della notte italiana, dopo avere sorvolato tra gli altri i cieli dell’Iran (con telegramma di Bergoglio dall’aereo all’ayatollah Ali Khamenei: «Le assicuro le mie preghiere per la nazione e il suo popolo, invocando su di lei le benedizioni dell’Onnipotente di pace e prosperità»), in un paese che ha conosciuto gli «orrori» di trent’anni di guerra civile tra singalesi e tamil. Il Papa dice d’essere «convinto» che le religioni abbiamo «un ruolo essenziale» per «promuovere «riconciliazione, solidarietà e pace». Anche prima della partenza, parlando ai diplomatici, aveva contrapposto gli «orrendi massacri» del fondamentalismo che «rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico» alla «fede sincera, che apre all’altro». Ma per questo «bisogna che tutti lavorino assieme e abbiano voce», scandisce ora. Le condizioni sono la libertà religiosa e l’ascolto reciproco: «Tutti devono essere liberi di esprimere le proprie preoccupazioni, le proprie aspirazioni e paure. Ma soprattutto devono essere pronti ad accettarsi l’un l’altro, a rispettare le legittime diversità ed imparare a vivere come un’unica famiglia». Il vento dall’oceano non mitiga il caldo dell’«isola splendente»: dopo il viaggio notturno e un’ora nell’auto sotto il sole a salutare la folla, Francesco è provato e salta il pranzo con i vescovi locali per riposare un poco prima dell’incontro con i leader delle altre religioni. Il coro di benedizione dei buddisti, uno scialle giallo posato sulle spalle del Papa dal rappresentante induista, il musulmano che parla di pace. E Francesco che ricorda come nel Concilio la Chiesa abbia dichiarato che «nulla rigetta di quanto e vero e santo nelle altre religioni». L’importante è che tutti siano chiari, però. Niente equivoci: «Come insegna l’esperienza, perché tale dialogo ed incontro sia efficace, deve fondarsi su una presentazione piena e schietta delle nostre rispettive convinzioni», spiega Bergoglio. «Certamente tale dialogo farà risaltare quanto siano diverse le nostre credenze, tradizioni e pratiche. E tuttavia, se siamo onesti nel presentare le nostre convinzioni, saremo in grado di vedere piùchiaramente quanto abbiamo in comune. Nuove strade si apriranno per la mutua stima, e anche amicizia». LA NUOVA Pag 8 Bergoglio e le mosse anti-Islam di Orazio La Rocca «Anche in Asia si deve andare. Benedetto XVI non ha avuto tempo di farlo. Per questo è importante che io vada nello Sri Lanka e nelle Filippine, dove sono stato invitato». A poche ore dalla storica marcia degli oltre due milioni di francesi che, insieme a una cinquantina di capi di Stato e di governo, domenica scorsa hanno detto no al terrorismo islamico, papa Francesco questa mattina sbarca a Colombo, nello Sri Lanka, per un pellegrinaggio internazionale - il settimo del suo pontificato, il terzo in Oriente dopo Terra Santa e Corea del Sud - che lo porterà anche nelle Filippine, da dove rientrerà in Vaticano il 19 prossimo. Un viaggio denso di attese e di significato che - benché programmato da mesi - va naturalmente ad inserirsi nello spirito della manifestazione parigina in materia di condanna senza se e senza ma di ogni forma di violenza che punta a stroncare il dialogo e l’incontro tra civiltà diverse, differenti modi di pregare e di vivere la fede. Tematiche, tra i punti cardini del pontificato di papa Bergoglio, che saranno certamente al centro anche di questo settimo viaggio pontificio nei due importanti Paesi asiatici dove le comunità cristiane e cattoliche da sempre convivono, tra problemi e difficoltà, con altre realtà religiose a partire dall’islam. Fu lo stesso papa Francesco a preannunciare il suo terzo pellegrinaggio in Sri Lanka e Filippine lo scorso anno sull’aereo di ritorno dalla Giornata Mondiale della gioventù del Brasile. «Devo andare in Asia perché papa Benedetto non ha potuto farlo», specificò rispondendo ai giornalisti. «È giusto che io vada», aggiunse, come a voler dimostrare che le Chiese periferiche hanno sempre e comunque un posto privilegiato nel cuore del successore di Pietro. Specialmente in momenti come questi, con milioni di cristiani costretti a subire violenze e massacri. Ma anche di fronte a nuove vittime innocenti come i redattori della rivista satirica francese Charlie Hebdo, la comunità ebraica parigina, gli oltre 2 mila morti ammazzati dalla furia fondamentalista sedicente musulmana in Nigeria. Di fronte a tanto dolore, papa Francesco ha sempre risposto con la preghiera per le vittime e con l’invito al dialogo e all’incontro, senza pronunziare mai parole di vendetta, promuovendo sempre e ovunque la Chiesa madre dei poveri, vicina agli ultimi, con tenerezza e misericordia, senza operare distinzioni tra religioni differenti o scelte politiche di colore diverso. Scelte pastorali che all’inizio del nuovo anno hanno trovato spazio anche nella nomina di tre nuovi cardinali creati per rafforzare la presenza della Chiesa in Oriente e rispondere sul piano pastorale alle insidie del fondamentalismo. Le tre nuove porpore asiatiche fanno parte dei 20 cardinali che saranno creati nel Concistoro del 14 febbraio prossimo e che nel Collegio cardinalizio faranno incrementare il peso delle Chiese periferiche. Comunità composte anche da poche migliaia di fedeli, come Tonga, isola dell’arcipelago dell’Oceano Pacifico, dove i cattolici sono appena 14 mila, per i quali Francesco ha elevato alla dignità cardinalizia monsignor Soane Patita Paini Mafi, primo porporato di Tonga che con i suoi 53 anni sarà il più giovane membro del Collegio Cardinalizio. Tra i 15 elettori, altrettanto significative le nomine del vietnamita Pierre Nguyen, arcivescovo di Hà Noi, del birmano Charles Maung Bo, salesiano, arcivescovo di Yangon, e del tailandese Francis Xavier Krieng-sak Kovithavanij, arcivescovo di Bangkok. Monsignor Maung Bo è il primo cardinale birmano, un paese dove notoriamente i diritti umani non godono di ottima salute. Non meno importante il ruolo assegnato ai neo porporati di Nuova Zelanda, Etiopia, Uruguay, Panama, Messico, esortati da Francesco ad essere sempre più vicini alle istanze dei poveri delle loro terre. Esortazioni che non è azzardato immaginare che saranno rilanciate da papa Francesco anche nel viaggio in Sri Lanka e Filippine. Senza farsi condizionare da prudenze diplomatiche e prassi curiali. Anche questa è rivoluzione. Rivoluzione bergogliana. Pag 11 “Libertà e credo religioso, il problema ora esiste” di Claudio Baccarin Il dibattito nella Chiesa del Nordest Padova. «Per la prima volta nella storia le civiltà, le religioni e i popoli si confrontano, ma ci accorgiamo di essere ancora privi di un vocabolario relazionale. Per ascoltarsi e capirsi non basta essere insieme nello stesso luogo e nello stesso momento». Don Giovanni Brusegan, delegato vescovile per l’Ecumenismo e per la Pastorale della cultura e dell’università della Diocesi di Padova, s’interroga, dopo le stragi di Parigi, sul rapporto tra libertà di espressione (e in particolare di satira) e rispetto del credo religioso. «In realtà», sottolinea don Brusegan, «si tratta di un nervo scoperto, assai fragile, all’interno di una corretta concezione democratica. Il problema esiste se vogliamo coniugare una vita democratica con la libertà religiosa. Il bilanciamento creativo tra questi due aspetti è fondamentale; serve pertanto un’educazione responsabile. Anche la libertà può diventare una violenza e suscitare violenza se non si pone il limite del rispetto dell’altro. Il cristianesimo, che certo in passato ha fatto degli errori, si trova a confrontarsi con civiltà che hanno compiuto ben altri processi. Ogni civiltà ha il diritto di esistere, ma ora abbiamo tutti bisogno di una capacità di lettura più valorialmente fondata». Per don Brusegan un ruolo fondamentale è affidato al mondo dell’informazione: «Un tempo ognuno leggeva la sua rivista preferita. Oggi, con la massmediatizzazione dell’informazione, le notizie si approcciano a ciascuno di noi. Non è vero che le persone possono selezionare i messaggi; le notizie ci aggrediscono, il lettore-consumatore viene sedotto. C’è quindi l’esigenza di un pluralismo, ma nel rispetto dei valori plurali». Secondo don Bruno Cescon, direttore dell’ufficio Comunicazioni sociali e direttore responsabile del settimanale Il Popolo, della Diocesi di Concordia-Pordenone, «la libertà religiosa richiede sempre, come scrive Max Weber, autore molto noto fra i laici, un esercizio responsabile. La responsabilità riguarda sempre il rispetto per ciò in cui credono le persone: un confine alla libertà è dato dal valore delle persone stesse. È logico che non si possa reagire, allo scherno e alla ridicolizzazione dell’esperienza religiosa, uccidendo delle persone. Uccidere è un assurdo e una pazzia, tanto più se la violenza brutale degli uomini pretende d’invocare Dio». Per don Cescon, «è lecito invece reagire in modo democratico a qualsiasi forma di disprezzo del contenuto ideale delle persone. Purché questo contenuto non sia offensivo della dignità umana. Il credo costituisce per le persone, e questo non va sottovalutato, una ragione della propria identità. Ovviamente va ancora una volta sottolineato che la cultura non deve ammettere come possibile la sospensione della vita di altre persone. In fondo civiltà è mettere in pratica l’assioma universale “non uccidere”. Ma si eviti, talvolta, di uccidere con le parole». Sul rapporto tra libertà di satira e rispetto del credo religioso ha preso posizione, in un editoriale pubblicato domenica, anche don Sandro Vigani, direttore responsabile di Gente veneta, settimanale della Diocesi di Venezia. «Condanniamo senza “ma “ e senza “se” le terribili stragi di Parigi; condividiamo l’indignazione delle centinaia di migliaia di persone che, in tutto il mondo, hanno manifestato la propria partecipazione alla Francia per quanto è accaduto». Tuttavia, sottolinea don Vigani, «noi non siamo Charlie. Se nel giornale la satira mette alla berlina il mio Dio, quello per il quale, assieme a milioni di altri cittadini del mondo, cerco di vivere la mia vita, io soffro e con me parte della società costituita dai miei fratelli di fede. La satira, allora, rispetta la mia libertà di persona e la dignità di quella parte della società? Oppure alimenta quell’intolleranza contro la quale dice di voler combattere?». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Le nuove assunzioni in Fiat, primo test per il Jobs act di Leonardo Becchetti Come sta cambiando il mercato del lavoro in Italia Il nuovo anno è partito con una notizia importante per l’industria e il mondo del lavoro: la Fiat-Chrysler che annuncia mille nuovi posti di lavoro nello stabilimento di Melfi, per far fronte alle esigenze del mercato. Le assunzioni non beneficiano ancora delle norme (e degli incentivi) del Jobs act, ma l’aggancio dovrebbe avvenire quando il provvedimento sarà in vigore (proprio ieri il governo ha trasmesso alla Camera i due decreti attuativi, quello sul contratto a tutele crescenti e sulla riforma degli ammortizzatori sociali, ndr). Anche alla luce di questo segnale è forse il caso di porsi una domanda: quale potrà essere, concretamente, l’impatto del Jobs act sul mercato del lavoro italiano e sul nostro elevato tasso di disoccupazione? Proviamo a capirlo analizzando quattro diversi casi. Nel primo ipotizziamo che il datore di lavoro si aspetti una domanda di lavoro temporanea e le sue aspettative saranno confermate dai fatti. Nel vecchio scenario avrebbe usato una tra le varie forme contrattuali a tempo determinato mentre nel nuovo potrebbe optare per il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti reso in molti casi più vantaggioso del primo per gli sgravi fiscali all’assunzione e per la possibilità di licenziamento individuale con indennizzo contenuto (due mesi di stipendio pieno per ogni anno di lavoro). Nel secondo caso il datore di lavoro si aspetta una domanda di lavoro temporanea, ma è smentito dai fatti perché le condizioni del mercato migliori di quelle attese la trasformano in domanda permanente. Nel vecchio scenario avrebbe dovuto non rinnovare il vecchio contratto a tempo determinato trasformandolo in uno a tempo indeterminato. Nel nuovo scenario si tiene il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con qualche piccolo vantaggio in termini di costi di transazione non dovendo rinegoziare la forma contrattuale. Il terzo scenario è quello in cui l’attesa è per una domanda di lavoro permanente che si rivela tale. In questo caso il contratto sarebbe stato a tempo indeterminato (con possibilità di reintegro in caso di licenziamento) nel vecchio scenario e diventa a tempo indeterminato con tutele crescenti nel nuovo scenario (e possibilità di reintegro solo per licenziamenti discriminatori e disciplinari ove il giudice verifichi l’insussistenza della motivazione). Il quarto scenario è quello di un’aspettativa di domanda di lavoro permanente che invece si trasforma per un peggioramento inatteso della situazione di mercato in una necessità di lavoro temporanea. In questo caso nel vecchio scenario il datore di lavoro si trova bloccato dal rischio di reintegro mentre nel nuovo caso avrà la possibilità di licenziare per motivi economici pagando un indennizzo a chi era stato assunto con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Possiamo pertanto aspettarci una significativa sostituzione di contratti a tempo determinato con contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti nel primo e nel secondo scenario e una maggiore flessibilità del datore di lavoro nel prendere decisioni sulla propria manodopera (soprattutto nel secondo e nel quarto scenario in cui il quadro di mercato si rivela diverso dalle aspettative). Le quattro situazioni prospettate ci dicono anche che l’effetto sul saldo totale dell’occupazione dovrebbe essere modesto. La maggiore flessibilità di movimento del datore di lavoro in alcuni dei casi prospettati si bilancerà con un minor turnover volontario di chi ha i vecchi contratti. Chi prima aveva valutato l’opportunità di cambiare lavoro infatti ci penserà due volte, per evitare di dover perdere sicurezze e passare al nuovo contratto. Poiché una parte importante dei guadagni di produttività nel sistema avviene attraverso i trasferimenti da un posto di lavoro ad un altro si tratta di un handicap che gli estensori della legge dovrebbero provvedere a correggere in qualche modo. Ad esempio con la portabilità del contratto per i lavoratori già assunti anche se questo aumenterebbe le disparità con i nuovi. Sappiamo bene in realtà che la creazione di posti di lavoro dipende in larga parte da fattori diversi dalle caratteristiche del contratto. Francesco Daveri ha ricordato sul Corriere della Sera qualche giorno fa quello su cui battiamo da tempo, ovvero che il primo fattore che colloca il nostro paese molto indietro nella classifica di quelli in cui fare impresa è quello dei tempi della giustizia civile, quasi tripli rispetto alla media europea. È su questo tasto che il governo dovrebbe mostrare i suoi muscoli. Oltre agli aspetti di sistema paese i fattori macroeconomici hanno un peso preponderante nel determinare i saldi occupazionali come dimostra la politica americana post crisi finanziaria confrontata con quella dell’Ue. Politiche monetarie e fiscali fortemente espansive da un lato e via del 'rigore espansivo', dall’altro hanno fatto la differenza di diversi punti del tasso di disoccupazione decidendo i destini di milioni di persone dai due lati dell’oceano. Il lato sicuramente migliore del Jobs act è il passo avanti verso un sistema con un sussidio universale di disoccupazione e un reddito minimo di cittadinanza attraverso Naspi, Asdi e Disc-coll (ovvero i sussidi per chi è licenziato, il reddito per chi versa in condizioni di povertà alla scadenza del sussidio e l’introduzione di un primo parziale sussidio anche per i lavoratori precari che perdono il lavoro). La rete di protezione sarebbe potuta essere più robusta se ad essa fossero stati destinati gli 80 euro. Il Jobs act appare dunque essenzialmente come una razionalizzazione da un vecchio sistema dove gli alti costi di assunzione e licenziamento implicati dai vecchi contatti a tempo indeterminato erano aggirati dalle imprese accedendo alla giungla delle varie forme a tempo determinato (e il trattamento dopo la perdita di lavoro era fortemente discriminante tra chi aveva accesso alla cassa integrazione e chi no) verso un modello dove il contratto unico a tutele crescenti dovrebbe sostituire quelli a tempo determinato. Dal lato del lavoratore il cambiamento sul posto di lavoro è più psicologico che reale perché la precarietà del contratto a tempo indeterminato non è poi molto diversa da quella del contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti. Può certo sperare di convincere col tempo il suo datore di lavoro di 'essere la persona giusta', ma purtroppo il successo del matrimonio tra un lavoratore e l’impresa non dipende solo dalle sue doti, ma molto più dalle condizioni di mercato. Il successo dell’impegno del governo sugli altri fronti sarà decisivo per rendere più propizia possibile la nuova era che inizia col Jobs act. LA NUOVA Pag 23 Economia, segnali di ripresa per il 2015 di Gianni Favarato I dati del report provinciale: nell’ultimo anno si è ridotto il numero delle procedure di crisi aziendale, dei lavoratori in mobilità e dei cassintegrati La crisi economica continua ad imperversare, ma in provincia di Venezia va un po’ meglio o meno peggio, che dir si voglia. Gli ultimi dati dell’agenzia Veneto Lavoro – aggiornati a novembre 2014 – confermano un andamento «stabilmente negativo» del numero di procedure di crisi aziendali aperte (1.307 in tutto) e di lavoratori coinvolti (35.622) con l’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Se guardiamo, però, ai dati veneziani relativi al periodo gennaio-novembre 2014 – forniti dalla rete dei Centri per l’Impiego al Servizio delle Politiche Attive del Lavoro nei 44 comuni della Provincia di Venezia – si nota che dopo aver «toccato il fondo» della crisi cominciata nel 2008, si comincia a vedere una evidente riduzione del numero delle crisi aziendali avviate e delle ore di cassa integrazione. Una tendenza che se fosse confermata nei prossimi mesi potrebbe finalmente indicare una inversione di rotta della crisi cominciata nel 2008. Il report fornito dall’Ufficio Vertenze Collettive della Provincia di Venezia conferma, infatti, che tra gennaio e novembre del 2014, sono state concluse 263 pratiche di crisi aziendali, con una riduzione del 18% in meno rispetto al medesimo periodo del 2013 che ne aveva registrate 320. Anche il numero di lavoratori coinvolti dagli ammortizzatori sociali (5.529 in tutto) è calato – tra gennaio e novembre 2014 – del 16% . Sostanzialmente stazionario è invece il numero di iscritti alle liste di disoccupazione dei Centri per l’Impiego provinciali (26.577 tra gennaio e novembre di quest’anno a fronte dei 28.970 del 2013 e dei 25.905 del 201). Osservando le singole tipologie di ammortizzatori sociali richiesti, si nota un calo del ricorso alla cassa integrazione straordinaria (cigs e contratti di solidarietà) e delle mobilità, rispettivamente del -18% e del -14%. I settori più coinvolti per numero di pratiche concluse sono metalmeccanica (85 pratiche concluse), edilizia (27) e commercio (23). Il numero dei lavoratori coinvolti dagli ammortizzatori sociali, si concentra nei settori più colpiti, ovvero: il metalmeccanico (1.908 lavoratori), commercio (695) e edilizia (533). Va detto, in ogni caso – come puntualizzato dal servizio per le politiche attive per il lavoro della Provincia ora commissariata – il ricorso ai cosiddetti ammortizzatori misti (cigs e mobilità) è cresciuta, ma va aggiunto che solo le pratiche relative a due specifiche aziende e al 55 % di ammortizzatori misti, l’handler aeroportuale Ata Italia e la Pancas International srl. Le motivazioni che spingono le aziende a ricorrere agli ammortizzatori sono per il 40% di aziende «la crisi di mercato», per il 18%, il «fallimento» per il 17%, l’8% per cessata attività, il 7% per la chiusura di un ramo aziendale, il 6% «per necessità di ristrutturazione e riorganizzazione interna» ed il 3% per termini chiusura del lavoro in appalto. Il numero dei lavoratori sospesi dalle aziende – in conseguenza del ricorso con il ricorso alla cassa integrazione (cigs) o alla mobilità – che tra gennaio e novembre del 2013 erano stati 6.545, nello stesso periodo del 2014 si sono ridotti a 5.529. Insomma, una luce in fondo al tunnel si vede e potrebbe aprire una fase più positiva e incoraggiante grazie soprattutto alle ripresa delle produzioni per l’export (+ 17,6 %) e al turismo balneare e culturale che la stessa Confindustria veneziana ha evidenziato nel suo ultimo report. Nel solo mese di novembre hanno firmato la Did (dichiarazione di disponibilità immediata ad un lavoro) per l’inserimento nelle liste di disoccupazione dei Centri per l’Impiego (Cpi) della provincia di Venezia, 4.201 persone. In tutto, tra gennaio e novembre dell’anno scorso, le iscrizioni alle liste dei disoccupati sono state 26.577, delle quali 5.758 riguardano giovani sotto i 25 anni, ben 12.780 di uomini e donne con un’età tra i 26 e i 45 anni, mentre gli over 45 sono 8.039. Rispetto al novembre del 2013, c’è stato un aumento del +44%. «Osservando l’andamento del 2014 mese per mese e rapportandolo ai medesimi mesi dell’anno 2013 – spiegano i tecnici del Servizio Politiche Attive del Lavoro della Provincia –, si nota che non c’è un trend né di calo, né di rialzo dei disoccupati. Infatti, ci sono i mesi in cui il numero delle Did è inferiore rispetto al 2013 (gennaio, marzo, giugno, luglio, agosto, settembre) e ci sono i mesi in cui è superiore (febbraio, aprile, maggio, ottobre, novembre)». Per valutare il trend generale si deve, piuttosto, osservare l’andamento del cumulativo (gennaio-novembre) nel corso degli anni. Solo nell’anno 2013, infatti il numero delle Did rilasciate (pari a 27.120 iscritti nelle liste di disoccupazione tra gennaio e novembre) era superiore rispetto al 2014 (pari a 26.577 unità). Si tratta, dunque, di una variazione positiva con una riduzione delle persone in cerca di un lavoro pari al -2%. Confrontando, però, il numero dei disoccupati iscritti alle liste tra gennaio e novembre del 2014 e confrontandoli con quelli degli anni precedenti, si riscontra un aumento delle persone che cercano un lavoro. Nel 2014, rispetto al 2008 (quando erano 17.965 ) gli iscritti alle liste che hanno firmato il modello Did sono aumentati del +70%. Il maggior numero di disoccupati in cerca di lavoro tra gennaio e novembre 2014 (32%) si è rivolto al Cpi Venezia-Mestre, il 23% al Cpi di San Donà-Jesolo, il 14% a Portogruaro, il 12% a Mirano, l’11% al a Dolo e l’ 8% a ChioggiaCavarzere. Sos dei sindacati dei chimici di Cisl e Uil per il rischio di vedere chiudere definitivamente a Porto Marghera – dopo la sfilza di chiusure di fabbriche chimiche e siderurgiche – anche la storica azienda che produce vetri speciali, Pilkington. «Ad oggi abbiamo un’unica certezza – scrivono i sindacati in una lettera aperta inviata al prefetto, Domenico Cuttaia –, mancano pochi mesi al termine del terzo anno di contratti di solidarietà. Per il resto nulla». «Le Istituzioni locali dopo una blanda discussione – scrivono ancora i sindacati al Prefetto – non si sono più fatte sentire e il ministero dello Sviluppo che doveva riconvocare le parti ogni 6 mesi per un monitoraggio della situazione, sembra scomparso. A questo si deve aggiungere la mancanza di segnali da parte dell'azienda che confermi l'importanza e la strategicità del sito locale». Nessuna prospettiva di ritornare al lavoro è stata prospettata, infatti, presentata ai 170 dipendenti dell’azienda controllata dalla multinazionale giapponese Ngs e, inoltre, visto che l'ultima legge di Stabilità non ha rifinanziato al 70% il fondo per i contratti di solidarietà, con la prospettiva «di ulteriori difficoltà di garantire un reddito a questi lavoratori per sostenere le loro famiglie». «Per tutti questi motivi – conclude la lettera aperta dei sindacati che hanno scritto anche al ministero dello Sviluppo – confidando nella sensibilità da lei espressa e dimostrata sino ad ora dal Prefetto nelle vertenze che hanno interessato il mondo del lavoro e visto l'imminente incontro con il responsabile europeo del comparto edilizia di Nsg-Pilkington, siamo a chiederle un urgente incontro con tutte le parti interessate». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 In laguna corsa al divorzio facile, in una settimana 50 richieste di Alice D’Este L’avvocato: tribunali alleggeriti. Il sacerdote: più complicato ripensarci. Paolo e Lucia, la decisione dopo dieci anni di vita separata: “Due incontri allo sportello e 16 euro, non potevo crederci” LA NUOVA Pag 18 Venezia, omissioni e nomine tra il sacro e il profano di Franco Miracco Sì, Venezia, se intesa come sede patriarcale, non si trova nell’elenco delle prossime elevazioni al cardinalato. Non è dato sapere se accadde qualcosa nella Venezia marciana al tempo del cardinale Scola, che si congedò da patriarca secondo ispirazioni inconsuete, e se quel qualcosa sia stato poi oggetto di particolari considerazioni vaticane. Comunque, il patriarca Moraglia certamente è a conoscenza che, per esempio, all’inizio e al termine della magnifica e, per vari motivi, eroica impresa della costruzione della Salute ci furono due patriarchi - Giovanni Tiepolo e Alvise Sagredo - mai nominati cardinali. Addirittura, il Sagredo, quando il Senato della Repubblica lo nominò patriarca, non era nemmeno prete, lo divenne subito dopo e fu un buon patriarca;mentre Giovanni Tiepolo fu per davvero una “personalità esemplare della vita religiosa della Venezia seicentesca”. Dunque, l’imporporarsi da patriarca sarà pure significativo, ma il patriarca di Venezia è pur sempre il patriarca di una chiesa più che millenaria e che, più volte, con porpora o senza porpora, contribuì ad esaltare il “mito” di Venezia. Se da una parte Roma nega, almeno per il momento, dall’altra alcune menti profane non distratte hanno notato gli importanti riconoscimenti giunti da Roma a due “servitori dello Stato”che bene hanno operato a Venezia e nel Veneto, ma non solo. Caterina Bon Valsassina, a seguito della più recente riforma del ministero per i Beni e le Attività culturali, è stata posta dal ministro Franceschini al vertice della Direzione generale educazione e ricerca, che è servizio da inventare e di cui,stando al titolo, indubbiamente c’è molto bisogno, se si vuole dare vigore e senso agli studi storico-artistici e a ciò che occorre per rifondarli. Ma la Bon Valsassina - da anni risiede Venezia - è una storica dell’arte che si è formata validamente a Firenze e che nel 2009 ha diretto la Soprintendenza speciale per il polo museale veneziano(Gallerie dell’Accademia ecc.). Il suo breve impegno è però servito a dar vita al progetto di qualificazione e organizzazione di strutture e obiettivi destinati a creare le nuove, rinnovate, ripensate, anche restaurate Gallerie dell’Accademia. Forte della non facile esperienza veneziana, non a caso la Bon Valsassina viene chiamata a Milano, dove, da tempo immemore, si attende di adeguare gli standard museali della Pinacoteca di Brera a quanto ci si aspetta per uno tra i più preziosi e tormentati musei del mondo. La lunga storia professionale della nuova direttrice generale è così fitta di esperienze sul campo e di meriti scientifici che, forse,per riassumerla in un solo capitolo è sufficiente ricordare che la Bon Valsassina ha diretto per nove anni l’Istituto Centrale per il Restauro, tra i piú riconosciuti primati italiani nel settore. In quel periodo, la nostra “veneziana acquisita” seguì i cantieri per il restauro impossibile degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi e quelli della Torre di Pisa e della Fontana del Bernini a Piazza Navona. Chi, invece, è nato in Veneto e ha operato ottimamente nella nostra regione in qualità di direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto è Ugo Soragni, architetto con forti vocazioni storico-artistiche. È diventato Direttore generale dei Musei. Con Soragni si è di fronte a un dirigente ministeriale che ha attraversato nelle sue tante “missioni” l’Italia da sud a nord: dalla Puglia alle Marche, dal Friuli Venezia Giulia al Veneto, e, ogni volta, attivando progetti e procedure secondo quanto previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Tra l’altro, Soragni non ebbe vita facile durante la giunta Orsoni, riuscendo comunque a dare contributi decisivi volti a impedire il grottesco progetto della cosiddetta Torre Cardin, oppure nel riordino della devastante “politica” delle megapubblicità a Piazza San Marco e dintorni o nell’aspro confronto sul discutibilissimo passaggio in Bacino delle Navi incompatibili. Per concludere, come si vede, all’interno delle strutture pubbliche ci sono energie, saperi e competenze in grado di assicurare la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale della Nazione. Inoltre, le nostre Università riescono ancora a fornire storici dell’arte o architetti capaci di entrare con merito e passione nei ranghi della Pubblica amministrazione. Al contrario, la nuova riforma del Ministero, si pone, mediante bando internazionale, alla ricerca di figure esterne, di manager esperti in gestione museale, eccetera eccetera. Ma costoro (chissà che stipendi pensano di poter ottenere?) saranno portati, è ovvio, a imitare i modelli privati in tutto e per tutto, avendo però ricevuto dallo Stato appena gli occhi per piangere. Di qui il pericolo di pasticci mortificanti destinati a umiliare gli Uffizi, Brera, Capodimonte, nonché le Gallerie dell’Accademia. Per intenderci: i tanto auspicati manager potranno pure fare mostre sull’esempio, si fa per dire, di “Pinturicchio, Van Gogh passando per Tutankhamon” o “Da Tiziano a Paperino”, ma, se lo faranno, sarà solo sulla pelle di ciò che “metteranno in vendita” agli Uffizi o a Brera o alle Gallerie dell’Accademia. Oimè, la Venezia in cui viviamo e che non vogliamo é proprio quella del “mettersi in vendita”. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVI Mira si attiva per i tre fratelli di Luisa Giantin «Siamo al corrente della situazione». L'assessora alle Politiche sociali Francesca Spolaor conosce personalmente uno dei tre fratelli e ammette che i servizi sociali sono al corrente della situazione di Luca, Roberto e Albano Fabris, i tre fratelli di Mira che da qualche tempo vivono per strada e dormono al freddo in un garage. «Purtroppo l'alloggio per soli uomini a Mira è completo - spiega Spolaor - e tra padri separati e persone in gravi difficoltà economiche non riusciamo a far fronte alla situazione. Per i tre fratelli stiamo cercando una soluzione idonea, ma non è facile». In parrocchia a San Nicolò le condizioni in cui vivono i Fabris la conoscono bene, come hanno raccontato loro stessi ieri. «La situazione dei tre fratelli è complessa - spiega don Gino Ciccutto, parroco a S. Nicolò di Mira - Non conosco la loro storia nei dettagli perché prima abitavano a piazza Vecchia ma so che almeno due dei tre fratelli hanno lavorato per qualche tempo e poi hanno perso il lavoro non solo per problemi legati alla crisi. Al di là dell'aspetto propriamente economico - afferma il parroco di Mira Taglio - da quando hanno perso la mamma si sono sentiti smarriti, privati di quella che certamente era la loro guida e la loro sicurezza. Purtroppo però come parrocchia non possiamo fare molto. Da tempo li abbiamo inseriti all'interno di un progetto parrocchiale che prevede il sostegno a un centinaio di famiglie della zona. Ogni quindici giorni forniamo loro una borsa della spesa con generi alimentari ma purtroppo i tre fratelli non hanno neppure un posto dove poter cucinare e quindi possiamo fornire loro solo cibi secchi. Purtroppo le necessità sono tante e noi facciamo ciò che possiamo, magari facendo rete con Caritas e Comune. So ricorda don Gino - che era stato proposto loro di alloggiare almeno per qualche settimana, nel periodo più freddo, nella casa alloggio di Marghera, ma hanno rifiutato». La Caritas invece, nella Casa di San Raffaele in via Riscossa a Mira dove Luca, Albano e Roberto hanno chiesto di andare, ospita per la notte sono extracomunitari. «Purtroppo siamo strutturati così - spiega Francesco Vendramin - svolgiamo un servizio di prima accoglienza per persone straniere di sesso maschile e comunque al momento non avremmo neppure posto, anche volendo. In realtà, in accordo con il Comune, ospitiamo una volta a settimana un mirese che utilizza le nostre strutture per lavarsi e non si ferma a dormire. A Mestre c'è il dormitorio e se c'è la volontà tutto si può fare». Pag XXI Un milione di persone per il presepe di sabbia di Giuseppe Babbo Jesolo: record di presenze nelle varie edizioni con i quasi centomila visitatori di quest’anno Abbattuto il muro di un milione di presenze. È il risultato ottenuto dal presepe di sabbia di piazza Marconi che domenica scorsa ha registrato 5.283 visitatori. Quanto è bastato per superare i 90.024 visitatori di questa edizione e oltrepassare così il numero di un milione complessivo di presenze registrate in tutte le edizioni della mostra. Un grande risultato per l’iniziativa organizzata dal Comune che potrebbe, visto che alla chiusura di Sand Nativity mancano ancora più di due settimane (ultimo giorno utile per visitarla il 1. febbraio), diventare quella dei record assoluti. Tra le giornate con più visitatori va segnalata quella del 4 gennaio, quando in coda si sono messi ben 8.026 visitatori. Numeri che se da una parte confermano l’alto gradimento che continua ad ottenere questa mostra, dall’altra dimostrano anche la continua capacità attrattiva della città che anche nei mesi invernali, nonostante comunque le poche presenze negli alberghi, continua a registrare buone presente tra i turisti pendolari. Ovvero turisti che arrivano in giornata dalle province limitrofe per concedersi la classica gita al mare. Esattamente come accaduto anche nello scorso fine settimana, grazie all’evento dei «SaNtimbanchi» in piazza Drago. «È un risultato che ci aspettavamo - ha commentato il sindaco Valerio Zoggia - Un obiettivo che è stato centrato e che ora speriamo possa anche portare un buon incasso in termini di offerte per le cinque associazioni benefiche alle quali abbiamo deciso di devolvere la somma raccolta. Un grazie, per la bellissima edizione di quest’anno dedicata a San Giovanni Bosco, va rivolto a tutti gli artisti che hanno lavorato alle sculture, all’Istituto Salesiano che ci ha supportato, a chi come sempre ha assemblato il presepe e anche a tutti i collaboratori dell’Amministrazione comunale». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se la politica arriva a scuola di Massimiliano Melilli Perché (e come) parlarne Nelle scuole superiori di questo Paese, l’educazione civica (soprattutto) e la «politica» rimangono spesso un tabù. Purtroppo è lungo l’elenco di temi e fenomeni di fatto messi al bando: dal sesso alle unioni gay sino alla geopolitica, una cappa di silenzio avvolge i programmi didattici. A differenza dell’Europa dove gli argomenti in questione sono pane quotidiano per docenti e studenti, l’Italia sconta un ritardo incomprensibile. All’istituto tecnico Ceccato di Thiene, è bastato che un’insegnante di lettere assegnasse la traccia di un tema ad una classe di terza - «Gli immigrati sono una risorsa, convinci il tuo compagno leghista», per suscitare una levata di scudi. A partire, comprensibilmente, dalla Lega, che ha accusato di «fare politica» (di sinistra, naturalmente) in classe a discapito dell’istruzione e della formazione. Se da un lato la traccia è infelice nella titolazione - un’altra forma avrebbe azzerato sul nascere reazioni e polemiche - dall’altro il presupposto del compito appare quasi ovvio. Proviamo a spiegare perché. In un territorio come il Veneto, centrale rispetto al fenomeno immigrazione, la Lega, fin dalle origini, ha avuto una posizione molto critica. La storia degli stessi leader del Carroccio rimanda all’immigrazione stessa. Da Bossi a Gentilini passando per Borghezio e Maroni già ministro dell’Interno fino a Tosi, Zaia e Bitonci, da anni lo stato maggiore leghista coniuga in mille modi diversi ma quasi sempre oltranzisti e a volte «pesanti» la parola immigrazione, rappresentando comunque la sensibilità di una fetta della popolazione. Dunque interrogarsi sulla natura dei flussi, sul ruolo dei cittadini stranieri fra noi, immaginare perfino un dialogo con un compagno leghista, non pare uno scandalo. Tutti temi che peraltro hanno riflessi sulla vita quotidiana. Pertanto, parlarne (e scriverne) in una scuola superiore, dovrebbe essere «scontato» e far parte organicamente del ciclo di studi. Non guasterebbe, d’altra parte, anche la tematizzazione del rapporto fra sinistra e immigrazione, ritenuto da più parti «buonista», nell’ottica di una visione completa del fenomeno, senza alcun pregiudizio. A parte l’azzardo di qualche coraggioso e preparato docente che non scade nell’ideologismo, in Italia tutto ciò non esiste. In tale scenario s’inserisce la vicenda della circolare firmata dall’assessore all’Istruzione Elena Donazzan, con la quale auspica che le famiglie degli studenti musulmani condannino apertamente gli attentati terroristici di Parigi. Di più. La Donazzan scrive: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è vero che tutti i terroristi sono islamici». La circolare è stata inviata ai dirigenti scolastici del Veneto, chiedendo che a scuola si affronti il tema del terrorismo di matrice islamica. Per converso, giusta o sbagliata che sia la posizione della Donazzan, vanno respinte e condannate le offese e le minacce rivolte all’assessore dal sito «La Scienza del Corano», il cui ideatore, Anas Abu Jaffar, vissuto a Belluno, ha sperimentato l’alto livello di civiltà e la qualità dell’accoglienza. Tutto ciò, comunque, non può non farci riflettere sulla «radicalità» della circolare della Donazzan se messa a confronto con l’atteggiamento equilibrato della Francia davanti all’orrore delle stragi di Parigi. Il ministro all’Istruzione Najat Valland Belkacem, in un incontro con i Rettori, ha invitato tutti a non mettere sullo stesso piano l’Islam e i fratelli Kouchi, musulmani e terroristi, fedeli e assassini. Proprio in questa fase così delicata, luoghi comuni e facili equazioni, ha detto il ministro, offenderebbero la storia e il ruolo della democrazia francese, da sempre sensibile verso l’immigrazione e le religioni. Ancora. La Belkacem ha documentato il ruolo fondamentale della comunità musulmana in Francia. «Nonostante il sangue sparso dai terroristi fondamentalisti – ha detto - non possiamo cancellare di colpo anni di convivenza pacifica e dare all’islam la colpa di quanto accaduto». Pagg 6 – 7 I medici e i miracoli del Santo: “Non c’è prova, la scienza è altro” di Michela Nicolussi Moro e Renato Piva Silvio Garattini: “Guarigioni inspiegabili, ma sono soltanto limiti della medicina”. In fila per l’aiuto ultraterreno, il popolo che invoca e ringrazia Padova. E’ vero, Sant’Antonio è conosciuto come «il Taumaturgo», ovvero l’operatore di prodigi. Per il popolo è «il Santo dei miracoli». Il primo l’ha compiuto proprio su se stesso: era il santo della parola, il frate predicatore, e la sua lingua è stata ritrovata incorrotta a 32 anni dalla morte, l’8 aprile 1263, quando San Bonaventura, allora ministro generale dell’Ordine francescano, aprì la cassa contenente le spoglie di Antonio per spostarle dalla chiesetta di Santa Maria Mater Domini appunto in basilica. Ma la gente non gli vuole bene «per interesse». Il vero motivo lo sussurra un frate giovane, nel chiostro della Magnolia interno al santuario di Padova: «Antonio è amato in tutto il mondo per la sua grande capacità di stare vicino alle persone, di non farle sentire sole. Forse perché anche lui in vita ha molto sofferto». Prima la malaria, poi la malattia che l’ha portato in cielo a 36 anni lo rendono più «umano», più simpatico a chi combatte ogni giorno con un quotidiano difficile. Ecco perché gli ultimi tre miracoli, annunciati con grande cautela dal padre rettore Enzo Poiana, hanno suscitato più «l’effetto emulazione» che sorpresa. Il primo riguarda una bimba veronese, Kairyn, nata sana nonostante una diagnosi prenatale di tumore, «sparito» dall’ultima ecografia dopo la supplica della famiglia a Sant’Antonio. La piccola è stata battezzata proprio domenica in basilica. «Ringrazio Dio e Sant’Antonio per la grazia che ha ricevuto la mia bimba - scrive il papà Michele su Facebook - un anno di un periodo triste che poi si é rivelato il più bello di tutti. Averla battezzata a Padova è un’emozione grande, che solo quelli che hanno partecipato sanno spiegare. Li ringrazio di essere venuti. Vi adoro famiglia e amici, oggi è stato uno dei giorni più belli della mia vita e vedere dopo il battesimo la gente estranea avvicinarsi per vedere o toccare la mia bimba miracolata da Sant’Antonio mi ha riempito il cuore di gioia». La seconda grazia, emersa nelle stesse ore, è stata concessa ad una coppia definita sterile dai medici, per l’infertilità diagnosticata al marito. Eppure dopo aver partecipato, nel 2014, alla messa che ogni febbraio padre Poiana dedica appunto agli aspiranti genitori e aver chiesto l’aiuto di Antonio, i coniugi in questione sono diventati genitori di Giovanni. L’ultimo prodigio arriva da Springfield, dove già a settembre una delegazione dei frati del Santo aveva certificato che un bimbo muto di 8 anni dopo la supplica di amici aveva detto «mamma». La storia riguarda una signora in carrozzella per un tumore al cervello che, dopo essersi rivolta al «taumaturgo», si è alzata in piedi, ha ripreso a camminare e ha visto la sua neoplasia regredire del 70%. «Tutti questi casi saranno valutati dai medici - ha detto padre Poiana, che ha informato il delegato pontificio Giovanni Tonucci - per adesso si parla di altri miracoli di Antonio». Sui quali però gli stessi camici bianchi frenano. «Riguardo il caso della coppia infertile, se il presunto problema riguardava l’uomo bisogna ricordare che a volte tale diagnosi viene tracciata anche in presenza di un numero esiguo di spermatozoi - spiega il professor Carlo Foresta, direttore del Centro di crioconservazione dei gameti maschili dell’Azienda ospedaliera padovana -. Con l’esperienza ho invece imparato che basta un unico spermatozoo per fecondare l’ovocita. Ecco perché prima di parlare di miracolo bisognerebbe studiare bene la cartella clinica del paziente». Ma chiedere informazioni in merito non è stato possibile: la legge sulla privacy lo vieta. Nessuna prova scientifica è stata resa pubblica nemmeno dai genitori di Kairyn. «Le indagini prenatali, cioè sul feto, possono evidenziare la compatibilità di alcuni parametri anomali con determinati problemi, ma non c’è mai la certezza della diagnosi - precisa ancora il professor Foresta -. Per esempio, se come in questo caso si è formata una sacca di liquido sul viso della bambina, la vedi come una macchia nera e puoi ipotizzare il tumore, ma fino al parto non ne avrai la sicurezza. Non è la prima volta che ad un secondo esame si esclude la patologia pensata inizialmente. Bisogna sempre essere molto cauti nell’interpretare le indagini strumentali». Stessa posizione presa dal professor Renato Scienza, primario della Neurochirurgia di Padova, a proposito della «guarigione» dal tumore al cervello della donna americana. «Ci sono casi di neoplasie che regrediscono fino a scomparire del tutto per cause ignote anche agli specialisti - rivela -. Sono miracoli? Noi uomini di scienza li riteniamo eventi che sconfinano nell’incapacità della medicina di spiegare tutto. Non conosciamo l’intero sapere, meno che meno quando si tratta del cervello, ecco perché accadono alcuni fenomeni che non siamo in grado di capire. Va poi chiarito che non di rado si può sbagliare la prima diagnosi, non per imperizia ma per il limite di alcune metodiche di indagine. Magari si giudicano maligne lesioni che non lo sono. Oppure - aggiunge il neurochirurgo - ci si può imbattere in tumori con caratteristiche aggressive che si perdono col tempo. Seguo pazienti operate trent’anni fa di metastasi al cervello scatenate dal cancro alla mammella e non solo sono ancora tra noi ma conducono una vita normale. Infine ci sono tumori che, se trattati bene, spariscono del tutto». Fatto sta che, come sottolinea lo stesso Scienza, l’ospedale dove lavora ed è riferimento nazionale, è stato costruito vicino a una chiesa. «Certo, la fede e l’aspetto psicologico influiscono positivamente sulla capacità di reagire alla malattia - conviene il primario - e non sono pochi i pazienti che prima di sottoporsi al controllo sullo stato del tumore a un anno dalla comparsa mi dicono che preferiscono prima andare al Santo. Io mi guardo bene dal trattenerli, ma poi la scienza parla chiaro». Padova. E’ il volto della scienza. Fondatore, nel 1963, e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri» di Milano, è docente di Chemioterapia, fa parte del «Gruppo 2003», cioè il team di ricercatori italiani più citati nella letteratura scientifica internazionale, è il «papà» dell’European Organization for Research on Treatment of Cancer e l’autore di una lunga serie di pubblicazioni. Il professor Silvio Garattini è una garanzia in tema di ragione e medicina. Difficile parlare con lui di miracoli. «Diciamo piuttosto questo - dice subito - esistono malattie che per cause a noi ancora ignote guariscono da sole». Parliamo anche di tumori? «Sì e tale regressione è scientificamente documentata, anche se nessuno conosce il motivo del processo alla base del fenomeno». E come si possono inquadrare tali accadimenti? Settori della scienza ancora inesplorati? «E’ molto difficile dare loro un nome. Ma una certezza c’è: il termine miracolo non esiste. Nella scienza esistono solo l’errore o l’ignoranza, nel senso che non sappiamo perché certi fatti succedano. Non possiamo chiamarli miracoli, ma eventi che non riusciamo a spiegare». O che sono frutto di diagnosi sbagliate. «Eh sì. Molte diagnosi sono errate, non si tratta di eccezioni. Spesso però si correggono strada facendo, attingendo a nuove informazioni o utilizzando altre metodologie di indagine». Cosa può essere successo, per esempio, nel caso della coppia dichiarata infertile e che poi ha avuto un figlio? «Parliamo di un settore molto delicato. La capacità di concepire può variare a seconda di una serie di condizioni, fisiologiche, psicologiche e ambientali, alle quali i soggetti interessati sono esposti. Tanto è vero che esistono molte coppie per anni inutilmente alla ricerca di un figlio e poi, quando ormai non ci sperano più, finalmente esaudite». Insomma, magari l’esame accurato delle cartelle cliniche dei presunti miracolati potrebbe fornire una spiegazione razionale? «Sì, se esaminati nel dettaglio, determinati eventi possono essere razionalmente illustrati. Nella scienza non esistono i miracoli, la fortuna o la sfortuna, ma c’è la consapevolezza che le nostre conoscenze arrivano fino a un certo punto». Difficile dirlo a chi riceve la grazia. «Ma nessuno vuole impedire alle persone di avere una fede, di credere nella propria religione. Qui la discussione va affrontata su un altro piano: le nostre conoscenze sono molto imperfette. La verità è che la scienza dispone di una piccola frazione del sapere e bisogna essere così umili da riconoscerlo e da ammettere ciò che non sappiamo. Perché solo tale consapevolezza ci spinge a comprendere che per superare i limiti dobbiamo lavorare di più e un po’ meglio». Il timore di qualcuno è che la diffusione di notizie su guarigioni miracolose possa infondere false speranze nei malati o convincere i più gravi a rivolgersi a qualcosa di più «alto» della medicina. «I due concetti vanno chiariti e separati bene. Se stiamo male dobbiamo sempre rivolgerci al medico, non si discute. Prima di tutto bisogna essere responsabili. Poi però, come dicevo prima, nulla ci vieta di pregare e di credere se ci fa stare meglio. Come si dice: aiutati che il ciel ti aiuta. Se rivolgersi alla religione e ai santi può essere un supporto psicologico per il malato e aiutarlo a sopportare meglio la sofferenza, a reagire, a lottare, ben venga. Nell’affrontare la malattia, soprattutto le patologie serie, l’aspetto psicologico è fondamentale, ma non va confuso con l’approccio razionale al problema». Probabilmente il ricorso all’irrazionale diventa indispensabile nel momento in cui la medicina non riesce a fornire la soluzione sperata. «Purtroppo la medicina non raggiunge sempre i risultati sperati, ma è anche vero che i progressi ci sono continuamente. E che dagli errori si impara». Professore, lei è mai stato chiamato a dover «certificare» un miracolo? «No, non mi è mai capitato. Ma mi sono imbattuto in casi dall’esito inspiegabile per le attuali conoscenze a nostra disposizione. Come dicevo, è uno stimolo per continuare nella strada del sapere». Padova. «I miracoli? Ci credo, sì, altrimenti non verremmo qui». Occhi chiusi, fronte in alto, un palmo che accarezza per lunghi minuti la pietra nera che, da dietro, chiude la tomba di Antonio. Sara, con i suoi 34 anni e il papà, è nella basilica del Santo per ringraziare. «Nuova» veneta nata nel Beneventano, da Treviso, città in cui vive, è tornata a Padova per confermare un legame. «Non riuscivo ad avere un figlio. Sono venuta qui, ho pregato Sant’Antonio e una settimana dopo ho saputo di essere incinta...». E’ successo quattro anni fa, ieri a giudicare dal lampo negli occhi di questa giovane donna. «Mio figlio? Si chiama Antonio e sta benissimo». La ragazza quasi incrocia le dita: «Ho avuto una brutta gravidanza ma poi è andato tutto bene». E’ d’accordo sul fatto che il santo padovano abbia un legame speciale con moltissimi ma non sa dire perché: «Sono andata anche a San Giovanni Rotondo, qui è speciale ma non saprei... Perché tanti amano Antonio? E’ un fatto di cuore, forse...». Miracoli. A stare per un po’ sotto queste cupole alternate a guglie che paiono matite, ti fai l’idea che la credenza sia un fatto di carne. Perdita e ritrovamento, dolore che diventa gioia insperata, vuoti che si riempiono e futuri che si aprono dietro porte sbarrate fino a pochi istanti prima: spirito e corpo, uniti dalla pietra, dalla fede nel potere di un uomo morto il 13 giugno del 1231, nove secoli fa. «Grazie perché il 26 giugno (del 2013, ndr ) hai salvato mio figlio Matteo e mio marito Antonio, evitando il tragico epilogo... Ho sentito la tua presenza su di noi». E’ l’ex voto di Monica D., uno dei tanti che coprono i fianchi della tomba del santo. Parole scritte dopo un incidente stradale e dopo la preghiera ad Antonio, santo mediatore di grazia. Sant’Antonio si invoca per bisogno: «Fai ritornare il sorriso a questa ragazza, la salute e fai andare via il dolore», scrive Maria Pia P. nel suo voto in attesa di risposta. Marilena, milanese in trasferta a Padova con l’amica Anna Maria, «non particolarmente religiosa» eppure qui, nella casa del Santo, spiega la propria via (naturale, panteistica?) al miracolo: «Credo nella possibilità dei miracoli in quanto manifestazione di un qualcosa di soprannaturale che ci governa, nel bene e nel male». Ma perché si chiede proprio a questo santo? «Si va da sant’Antonio perché si ha questa fede, e io invidio chi ce l’ha. Sono le stesse persone che sentono con il cuore di poter guarire, lo sentono a tal punto che alla fine guariscono per davvero...». Sembra più potere dell’autosuggestione che divino intervento, ma si chiama comunque miracolo. Claudio, padovano, «età verso i sessanta, dai», è della stessa convinzione. «E’ il terreno della religione. Le persone credono fermamente, quindi può essere che quel che chiedono si avveri». E Claudio ci crede, davvero e fino in fondo? «Dipende, bisogna essere molto sensibili e profondamente religiosi. Io non lo sono». Ha sfiorato la pietra nera, è rimasto in silenzio, solo con se stesso: «La mia professione? Scriva che sono avvocato e tanto basta», si schermisce Maurizio. Elegante, alto, brizzolato, impossibile non definirlo persona distinta: «Non credo nell’eccesso di miracoli, questo si può dire». Dunque non ha invocato grazie, per sé o altri: «No, ero un po’ in tensione e cercavo quiete...». Un caso di scetticismo religioso, si potrebbe dire. Ma gli atteggiamenti, le disposizioni verso sant’Antonio e il suo potere di taumaturgo sono moltissime, infinitamente diverse l’una dall’altra. Laura, cinquant’anni, ieri pomeriggio premeva un fazzoletto blu a pois bianchi contro la pietra di Antonio. E’ rimasta a lungo, immobile, a tratti singhiozzante. «Si, ho chiesto aiuto. No, non voglio parlarne. I voti si fanno in silenzio o non servono». Saluta e se ne va, senza altre parole. La preghiera a Sant’Antonio, stampata a grandi lettere su foglio bianco cellophanato, dice quasi tutto: «Sono venuto qui a pregarti spinto dalla mia necessità e fiducia nella tua bontà... So di essere debole nella fede... Rinnovala in me». Rita e Mirko, ventenni, hanno appena lasciato la «solita» tomba. La ragazza viene da Amantea, Cosenza; il ragazzo è di Treviso. «Miracoli? Non so se crederci o meno. Direi che essendo fedele ci devo credere in qualche modo... Se ho chiesto qualcosa prima? No, ho pregato e basta». Una donna spinge una carrozzina all’interno della basilica. Sulla seduta c’è Rosa, 19 anni, gambe ferite da un incidente, più di un anno fa. E’ bella Rosa, molto. Andrete sulla tomba a pregare? «Sì, stiamo andando». Le gambe come vanno? «Meglio, ma non ancora bene». Speri nel santo? «Spero che mi aiuti. In ogni caso venire qui regala coraggio e serenità. So che camminerò presto e spero di farlo bene. E’ il secondo aspetto quello in dubbio, dicono i medici. Ma qui senti che non sei solo, ed è importante». Come e più di un miracolo, forse. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La figura che non vorremmo di Michele Ainis Ogni presidente della Repubblica scrive la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale. Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle, al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era entrato. I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal 1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel 1992 - quando giurò da capo dello Stato - promise di ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri presidenti. Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo dell’esecutivo Monti. Scalfaro nominò sei presidenti del Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del 1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una maggioranza in sostegno del governo. Potremmo continuare ancora a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di Pertini, eletto nel 1978 durante i nostri anni di piombo - per garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica opinione. Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962 esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette. Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del «piano Solo». Quale lezione possiamo allora trarre da questi remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due puntate. Primo: contano gli accidents of personality, come dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa in solitudine. E quel potere - scriveva nel 1960 il costituzionalista Carlo Esposito - non viene affidato alla Dea Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso. Secondo: contano altresì gli accidents of history, se così possiamo dire. Conta la storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A differenza di Ciampi - che visse gli anni più stabili della Seconda Repubblica - l’uno e l’altro si sono trovati a navigare il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente, Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di sistema. Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa. Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà, esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella offerta da Napolitano. In conclusione, non c’è una conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita: sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo dello Stato, non un capo degli statali. Pag 5 Terna di nomi. E cresce l’ipotesi Veltroni di Francesco Verderami Roma. Sul Quirinale è il momento di contarsi per contare. E se Renzi non mette in dubbio la parola di Berlusconi, «ha detto che voterà con noi e io gli credo», vuole capire se ha davvero fondamento l’altra garanzia fornita dal Cavaliere: «A breve incontrerò Fitto e i miei gruppi saranno uniti». La corsa per il Colle inizia ufficialmente oggi, e il premier chiede all’alleato dell’opposizione di stringere i suoi ranghi, «io deve badare a compattare i miei». Si vedrà se il leader del Pd riuscirà ad arrivare puntuale all’appuntamento, «alla quarta votazione avremo il nuovo capo dello Stato», o se la sua scommessa si rivelerà un azzardo. Molto dipenderà dal grado di tenuta del capo dei forzisti ma soprattutto dalla tattica che verrà adottata per evitare le insidie del voto segreto. Arcore è la Fortezza Bastiani di Berlusconi, che in attesa di sapere cosa disporrà Renzi sul Quirinale si sporge dai camminamenti per scorgere la sagoma di un messaggero: da quel deserto, d’altronde, non arrivano più nemici ma solo un ufficiale di collegamento. È Verdini. È lui che spiega al Cavaliere come comportarsi: «Renzi ti proporrà una serie di candidati e noi potremo scegliere». Il leader di Forza Italia inizia così a sfogliare i petali della rosa, a modo suo: «Avrò l’agibilità, non avrò l’agibilità...». È un chiodo fisso, non smette di parlarne, mentre attorno a lui i fedelissimi sbirciano sui suoi fogli i nomi dei quirinabili: Mattarella, Gentiloni, Fassino. Il Cavaliere storce il naso. In realtà, in fondo al sentiero che porta alla presidenza della Repubblica, quella terna (forse) nasconde il vero candidato. Confalonieri sostiene che «nella storia del Quirinale sono salite personalità sbiadite, però pensi di eleggere uno sbiadito e poi magari ti ritrovi un Pertini». Il Colle visto da Arcore è un santuario laico da cui Berlusconi si attende il miracolo, e la sua Fortezza Bastiani è un ottimo punto di osservazione per vedere tutti quelli che si agitano con i loro messaggi e le loro telefonate, grazie alle quali l’ex premier può dimenticare l’estrema debolezza politica del momento. Fassino - per accreditarsi gli ha fatto sapere che da Guardasigilli non ebbe mai alcun atto ostile contro di lui sulla giustizia, «e quanto a standing internazionale sono stato ministro del Commercio estero». Persino Prodi gli manda a dire. O meglio, alcuni prodiani - non si sa se autorizzati o mossi da iniziativa personale - hanno contattato rappresentanti berlusconiani del mondo dello spettacolo e dell’informazione per affidare un pensiero da consegnare al Cavaliere. Ma il Professore non ha detto a più riprese di non essere «in corsa»? Vero, ma «in corsa» lo potrebbero sospingere gli avversari di Renzi nelle prime tre votazioni, quelle in cui il premier ha dichiarato che «si voterà scheda bianca», quelle in cui il leader del Pd sarà maggiormente vulnerabile. Se il Professore iniziasse a salire nei consensi sarebbe complicato arrestarne poi la marcia. A meno da non proporre un nome che sia «all’altezza di Prodi e di Marini», come chiede Bersani a mo’ di sfida. E il capo democrat - per parare il colpo e fermare la corsa del fondatore dell’Ulivo - medita di lanciare in pista il primo segretario del Pd, quel Veltroni che - per dirla con autorevoli membri del governo - «più sta fermo più sta dentro i giochi». Se così fosse, gli oppositori interni di Renzi avrebbero difficoltà a respingere la proposta del loro segretario. Se così fosse, altro che terna: vorrebbe dire che Berlusconi qualche garanzia deve averla data sul candidato secco. Proprio Bersani ieri sentiva aria di grande intesa: «Il premier dice che per il capo dello Stato partirà dalla quarta votazione e l’opposizione non protesta?». Di più. Tra i ranghi forzisti c’è chi sottovoce si mostra disponibile a votare eventualmente Veltroni, accreditando di fatto la tesi che la debolezza politica del Cavaliere lo porterebbe ad accettare anche «un esponente del Pd» pur di stare in gioco. Ma è questo il vero gioco o la soluzione ventilata ieri da Palazzo Chigi è una mossa tattica, fatta nell’urgenza del momento, per stoppare gli oppositori del premier? E l’accordo- semmai fosse stato già chiuso con Berlusconi - comprende anche l’area dei centristi che stanno nel governo? Perché ieri Alfano ha detto no a un candidato al Colle che sia frutto «delle primarie del Pd». Tra tanti interrogativi, una cosa è certa: Renzi oltre la sesta chiama potrebbe perdere il controllo della situazione in Parlamento, perciò ha bisogno di presentarsi ai blocchi di partenza con un candidato forte. I rischi di un protrarsi della corsa sono stati analizzati a Palazzo Chigi come ad Arcore, dove a Berlusconi è stato prospettato che - in caso di stallo - potrebbe prendere corpo anche la candidatura di Grasso. Raccontano che il Cavaliere abbia avuto un sobbalzo: «Un magistrato anche al Quirinale? Ci manca questo». Fosse per lui, un nome ci sarebbe, uno che gli fa ricordare la sua gioventù politica: «Tra tutti, l’unico è D’Alema ad avere il profilo dell’uomo di Stato. E sarebbe garante degli accordi. Ma purtroppo...». Purtroppo Renzi non lo vuole. E se invece fosse Veltroni? Pag 20 Houellebecq: “Lo ammetto, adesso ha paura anch’io. Devo essere irresponsabile per continuare a scrivere. L’uomo non ne può più della sua libertà” di Stefano Montefiori Dopo l’attentato a Charlie Hebdo , il più celebre scrittore francese Michel Houellebecq ha lasciato Parigi, protetto dalla polizia. Il giorno del massacro alla redazione, il 7 gennaio, è uscito in Francia per Flammarion il suo ultimo romanzo, Sottomissione, che sarà nelle librerie italiane domani, edito da Bompiani. Houellebecq immagina una Francia del 2022 dove il presidente musulmano Ben Abbes vince le elezioni, islamizza la società e progetta di ricreare in Europa e nel Mediterraneo una sorta di impero romano, unito dall’Islam. Houellebecq aveva sospeso la promozione del suo libro, ma ha scelto di mantenere l’impegno preso con il Corriere della Sera . Michel Houellebecq, lei ha paura? «Sì, anche se è difficile rendersi conto completamente della situazione. Cabu per esempio, uno dei disegnatori uccisi, non era del tutto cosciente del rischio, c’era in lui l’anima sessantottina mescolata con una vecchia tradizione di mangiapreti, e in Francia essere un mangiapreti espone a un processo in tribunale che in genere si vince. Penso che Cabu non abbia colto che la questione è ormai di un’altra natura. Siamo abituati a un certo livello di libertà di espressione, e non ci siamo fatti una ragione del fatto che le cose sono cambiate. Anche io sono un po’ così, a livello inconscio. Ma l’idea della minaccia ti viene in mente, ogni tanto...». Come ha vissuto il 7 gennaio, che avrebbe dovuto essere la sua giornata, quella della pubblicazione del libro atteso da mesi ? «Quando ho saputo dell’attacco a Charlie Hebdo ho chiamato il mio amico Bernard (l’economista Bernard Maris, tra le vittime, ndr ), ma non pensavo che fosse coinvolto. Collaborava con loro, non immaginavo che fosse alla riunione di redazione. Ho continuato a chiamarlo, dalle 12 alle 16, non rispondeva. Poi ho saputo». Pensa che dopo gli attentati di Parigi la libertà di espressione sarà più difficile da esercitare? Nonostante l’immensa manifestazione di domenica? «Sì, certo. Niente sarà più come prima. Sicuramente è più dura, per esempio per un disegnatore che comincia adesso». Ma «Charlie Hebdo» ricomincia con un nuovo numero che ha in copertina Maometto. Forse quel che è successo potrebbe al contrario dare forza ai giovani. «Adesso non c’è problema, faranno lo stesso tutti i disegnatori di Francia anzi del mondo. Dopo non so». Lei è sulla copertina del numero uscito la mattina stessa della strage. Il nuovo «Charlie Hebdo» riparte da Maometto. Che cosa pensa di questa scelta? «Sì, è quel che bisogna fare, è la scelta giusta. Charlie Hebdo ha sotto la testata la scritta “giornale irresponsabile”. È questo il loro motto, ed è giusto che restino fedeli alla loro linea». Lei aveva paura anche mentre scriveva il suo romanzo? «No, per niente. Quando si scrive non si pensa affatto a come verranno accolte le proprie parole. Scrittura e pubblicazione sono due fasi separate. È adesso che uno capisce i rischi». Il libro non mi è sembrato islamofobo, anzi al limite islamofilo. Ma in fondo neanche quello, l’Islam viene abbracciato un po’ per opportunismo. «È così. I miei grandi riferimenti in letteratura sono Dostoevskij e Conrad. Entrambi hanno dedicato romanzi all’argomento di attualità più importante dell’epoca, ossia gli attentati anarchici e nichilisti, la rivoluzione russa che covava. Sono molto diversi nel modo di trattare il soggetto, ma questi rivoluzionari per loro si dividono in due tipi: farabutto cinico o naif assurdo, talvolta altrettanto pericoloso. Io descrivo invece, quasi unicamente, dei farabutti cinici attraversati talvolta da un pizzico di sincerità». Questa parte di sincerità, che finisce per essere sconfitta, la si vede anche nel momento chiave del romanzo, quando il protagonista François si rivolge alla Vergine nera di Rocamadour, ma desiste, non trova la fede. «Sì quella è la svolta del romanzo. È li che ho deluso i miei lettori cattolici, oltre a quelli laici. Nel progetto iniziale il protagonista si converte al cattolicesimo, ma non sono riuscito a scriverlo. L’avanzata islamica mi è parsa più credibile». La settimana scorsa era cominciata con la parola chiave «Sottomissione»; si è conclusa con titoli come «La rivolta di Parigi», «La Francia in piedi», a proposito della marcia. È sorpreso dalla reazione dei suoi concittadini? «Non credo che quella marcia pur immensa avrà enormi conseguenze.La situazione non cambierà nel profondo, torneremo con i piedi per terra». Davvero per lei è solo un episodio quindi? «Sì. Non vorrei sembrare cattivo... Ma invece un po’ sì. Quando c’è stato l’incendio della redazione, il primo attentato a Charlie Hebdo nel 2011, non pochi dei colleghi giornalisti e dei politici dissero “sì, la libertà va bene, ma bisogna essere un po’ responsabili”. Responsabili. Questa era la parola fondamentale». Anche a lei, di recente, è stato chiesto se non sente di avere una responsabilità in quanto grande scrittore. La trova appropriata questa domanda? «No, io mi sento sempre irresponsabile e lo rivendico, altrimenti non potrei continuare a scrivere. Il mio ruolo non è aiutare la coesione sociale. Non sono né strumentalizzabile, né responsabile». Qual è il problema alla base di tutto, in Francia? «È il punto di partenza del libro. Il Paese è sempre più a destra ma la rielezione di un presidente di sinistra non è totalmente impensabile. E questo è destabilizzante». Il Front National era assente dalla marcia di Parigi. «Sì, sembra che non li abbiano voluti. Se vogliamo parlare nello specifico del Front National, hanno due deputati e il 25% dei voti (alle Europee, ndr )... C’è uno scarto evidente. Il Front National ha un peso nella società che non corrisponde affatto alla sua rappresentanza parlamentare. Mi domando fino a che punto una situazione simile sia sostenibile, con questa astensione poi. C’è un sistema che dovrebbe essere democratico e che non funziona più». Hollande ha detto che leggerà il suo libro. È curioso di conoscere la sua opinione? «No, dell’opinione letteraria dei politici mi interessa poco. Se François Hollande sarà rieletto presidente nel 2017 forse molte persone emigreranno. Per ragioni fiscali ed economiche, per l’idea che è difficile fare granché in Francia, un Paese che appare bloccato. E poi potremmo vedere qualcuno alla destra del Front National che si innervosisce e passa a un’azione violenta». Nel suo romanzo la guerra civile sembra cominciare, poi per fortuna si ferma subito. Ma lei mi sta dicendo che nella realtà questa le sembra un’ipotesi possibile. «Sì, è un’ipotesi possibile. Sono allarmista, certo. Declinista no, perché ci sono cose bizzarre e positive che accadono in Francia, per esempio abbiamo una demografia molto alta, una cosa tutto sommato misteriosa». Il grande soggetto del suo libro è in generale il ritorno della religione. «Sì, è un fenomeno che i media non riescono a cogliere, pensano che la religione sia un fenomeno passato di moda. Ma prima di domenica le grandi manifestazioni di piazza sono state le manif pour tous . Fatte da cattolici molto diversi da quelli che mi ricordavo da giovane, ovvero gente complessata e all’antica oppure di sinistra insopportabilmente perbenista (ride, ndr )». Ha letto «Il Regno», il romanzo di Emanuel Carrère, e il suo testo su «Sottomissione» pubblicato dal «Corriere»? «Si. Carrère ha capito certe cose fondamentali del mio libro». Per esempio la tentazione di liberarsi della libertà? «Si. Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. È un piacere parlare di Emanuel Carrère e del suo libro che ho molto amato». Carrère spera che possa esserci una relazione feconda tra l’Islam e la libertà cara alla civiltà europea erede dei Lumi. È uno scenario possibile? «I miei valori non sono quelli dell’Illuminismo. Ora, senza andare verso un progetto di fusione grandioso alla Carrère, diciamo che Cattolicesimo e Islam hanno dimostrato di poter coabitare. L’ibridazione è possibile con qualcosa che è davvero radicato in Occidente, il Cristianesimo. Mentre con il razionalismo illuminista mi pare inverosimile». Rispetto al 2001 e alla sua celebre dichiarazione «l’Islam è la religione piu stupida del mondo», lei ha chiaramente cambiato opinione sull’Islam. Come mai? «Ho riletto con attenzione il Corano, e una lettura onesta porta a supporre un’intesa con le altre religioni monoteiste, che è gia molto. Un lettore onesto del Corano non ne conclude affatto che bisogna andare ad ammazzare i bambini ebrei. Proprio per niente». È il dibattito cruciale. I terroristi sono pazzi che stravolgono il messaggio dell’Islam, o la violenza è inerente alla natura stessa di quella religione? «No, la violenza non è connaturata all’Islam. Il problema dell’Islam è che non ha un capo come il Papa della Chiesa cattolica, che indicherebbe la retta via una volta per tutte». I suoi romanzi hanno sempre una parte di osservazione della società e un tocco profetico, a cominciare dal capitalismo applicato ai sentimenti di «Estensione del dominio della lotta»... «Sì, è stata la mia prima scoperta (ride, ndr )». ...per continuare con turismo sessuale e terrorismo di massa, clonazione, Francia trasformata in parco giochi per ricchi turisti, fino alla sottomissione all’Islam. «Comincio dall’osservazione della realtà, ma resta letteratura. So che è difficile da credere ma l’Islam, nel romanzo, all’inizio non c’era. Uno dei motivi che mi hanno fatto scrivere il libro, oltre al fatto che essere ateo mi è diventato insopportabile, è che tornando in Francia dall’Irlanda mi sono reso conto che la situazione era molto peggiore di quanto pensassi. Ho pensato che le cose potevano precipitare in modo spiacevole, e questo mi ha sorpreso». L’intervista finisce, ci salutiamo. «Spero che avremo l’occasione di rivederci in circostanze più felici», conclude lo scrittore. Pag 36 La vera radice dell’estremismo di Vittorio Messori Del rabbi Giuseppe Laras - eminente nell’ebraismo italiano non solo per cultura ma anche per sensibilità religiosa - ho sempre apprezzato la schiettezza nell’esporre le sue convinzioni. Così, nell’articolo di ieri su questo giornale, non esita a iniziare affermando che «siamo in guerra, siamo solo agli inizi eppure non vogliamo prenderne coscienza». Da realista, sarei propenso a dargli ragione: terminata, per collasso e abbandono del campo da parte del nemico, la Terza guerra mondiale (detta «fredda», ma pur sempre guerra), ecco la nuova Pearl Harbor, in un mattino di un 11 settembre a New York. Ecco, diciamolo con la chiarezza di Laras, la Quarta guerra mondiale. L’ipocrisia dell’ideologia oggi egemone, la political correctness, ha tentato e tenta esorcismi, costruendo, per tranquillizzarsi, un ideale di «islamismo moderato», da incoraggiare e accrescere ripetendo il mantra del «dialogo». Ma chi conosce davvero il Corano, chi conosce la storia e la società cui ha dato forma in un millennio e mezzo, sa che non hanno torto quei musulmani che chiamiamo «estremisti» (usando le nostre categorie occidentali) a gridare, kalashnikov alla mano, che un maomettano «moderato» è un cattivo maomettano. O, almeno, è un vile che Allah punirà. Quanti, tra coloro che si scandalizzano per questo, quanti hanno letto per intero, senza censure mentali, il Corano e magari anche le monumentali raccolte di hadith, i detti attribuiti al Profeta? Un amico francese, religioso cattolico a Gerusalemme e noto biblista, mi raccontava di recente che, nel loro convento, serviva da sempre, come factotum, un ormai anziano musulmano. Onesto, gran lavoratore, di tutta fiducia, faceva ormai parte della famiglia e tutti quei religiosi gli volevano bene, sinceramente ricambiati. Un venerdì, l’uomo tornò dalla moschea con un’aria accasciata. Il superiore della casa, insistendo, riuscì a farlo parlare. Disse: «Oggi l’imam che dirige la preghiera ci ha detto, nella predica, che nel giorno del trionfo di Allah e del suo Profeta, nel giorno che presto verrà e in cui libereremo questa Santa Città da ebrei e cristiani, tutti gli infedeli che non faranno subito professione di fede dovranno essere uccisi. Così vuole il Corano cui noi tutti dobbiamo obbedire». Una pausa, e poi: «Ma non tema, padre, sa che io vi voglio bene, so come fare, se dovrò sopprimervi troverò il modo di non farvi soffrire». L’aneddoto, purtroppo, è autentico. Come autentiche sono le domande poste, con cortesia e insieme con crudezza, da Giuseppe Laras e che possono, credo, riassumersi così: è possibile, per il mondo islamico, accettare quella tolleranza, quella distinzione tra politica e religione, quella eguaglianza tra persone di diverse fedi, quel rifiuto - senza eccezioni - della violenza, quelle realtà insomma su cui basare un mondo, se possibile meno disumano? Come si sa, nel 1948, gli allora non molti Stati islamici già indipendenti che sedevano alle neonate Nazioni Unite rifiutarono di firmare la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», affermando che non corrispondeva alla loro prospettiva di persona e di società. Una società, tra l’altro, dove la schiavitù non era ufficialmente abrogata, dove vigeva, e vige, una poligamia nella quale la donna è relegata in un ruolo di sottomissione, dove il non musulmano è cittadino inferiore, sottoposto a una pesante tassa e a una serie codificata di pubbliche umiliazioni. Sarà mai possibile giungere almeno a un modus vivendi o lo scontro dovrà continuare e magari aggravarsi, perché tanto diversi resteranno i valori fondamentali? Tutto è possibile, s’intende, a Dio, a Jahvé, ad Allah, a seconda delle fedi, ma, a viste solo umane, l’obiettivo non sembra raggiungibile. In effetti, l’Islam non solo è diviso a tal punto che sono quotidiani i massacri tra sciiti e sunniti o tra altre comunità in lotta cruenta tra loro. Ma, soprattutto, non esiste una autorità superiore, in grado di prendere decisioni vincolanti per i fedeli, come il Papa per il cattolicesimo. Anzi, non esiste nemmeno un clero né esistono gerarchie religiose all’interno delle comunità. Tutto è lasciato a uomini soli, con in mano solo un libro - immutabile - di millequattrocento anni fa. Il Califfato ottomano, abolito nel 1924 da Kemal, era una finzione a servizio del sultanato e, in ogni caso, la sua evanescente autorità non era riconosciuta al di là dei confini dell’impero turco. Ma anche se tornasse, che potrebbe fare un «Papa della Mecca» che non avrebbe la grande, liberante risorsa di quello di Roma: la risorsa, cioè, di una Scrittura approfondibile secondo i tempi e le situazioni pur senza rinnegarla, flessibile pur senza tradirla, divina ma affidata alla ragione di credenti che con essa devono affrontare i secoli? Il Cristianesimo, prima è ben più che un libro, è un incontro tra vivi, tra gli uomini e il Cristo vivo, con la ricchezza e la duttilità che nasce dalla vita. Ma così non è il Corano, anzi ne è il contrario, con il testo originale custodito in Cielo accanto ad Allah, eterno, immodificabile, dettato parola per parola a Muhammad, con le sue sentenze da osservare sempre e comunque in modo letterale, con la sua rigidità che deve sfidare ogni cultura, costi quel che costi. Possibile trarre, da qui, un «moderatismo» maomettano? Se questa è la situazione, il rabbino Laras non nasconde una preoccupazione: «C’è una tentazione che può profilarsi sia nel Cristianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e religiosa con il mondo musulmano». Per lui, questa sarebbe «una strategia fallimentare» i cui effetti disastrosi per i cristiani si sarebbero già visti. Dice, infatti: «Dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono liberati dei “loro” ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane». Su questa convinzione del rabbino dovrebbe aprirsi, però, una discussione: la persecuzione in atto dei battezzati ha cause, crediamo, più complesse dello sfogo su di essi di una religione violenta alla ricerca di vittime. Una discussione di grande importanza, e proprio per questo non affrontabile in spazi così ridotti. Per ora, basti prendere sul serio l’avvertimento di Laras: c’è una guerra e non è opportuno mascherarla dietro gentilezze occidentali verso gli antagonisti e con severi rimbrotti alle «cassandre» che si limitano a constatare una realtà drammatica. LA REPUBBLICA Pag 1 I sogni e le fatiche di un Sisifo al Quirinale di Eugenio Scalfari Oggi Giorgio Napolitano darà le dimissioni e se ne andrà dal Quirinale. Tornerà nella sua casa di via dei Serpenti e il suo ufficio sarà a Palazzo Giustiniani come spetta a tutti quelli che hanno ricoperto la carica di presidenti della Repubblica. L'aveva già fatto più d'un anno fa, alla scadenza del suo settennale mandato aveva preparato gli scatoloni con dentro le carte di pertinenza propria degli anni trascorsi, le sue private memorie e tutte le altre che non interessano gli archivi di Stato ma soltanto la persona che ha ricoperto quella che è la più alta istituzione chiamata a tutelare la Costituzione e le prerogative del Presidente coordinando la leale collaborazione tra poteri costituzionalmente distinti e talvolta anche contrapposti. Va aggiunto però che, oltre a queste essenziali funzioni, è auspicabile anche che la figura del Presidente abbia un tratto paternale verso gli italiani e che i cittadini possano avvertire questo tratto che è al tempo stesso protettivo dei loro diritti e dei loro bisogni ma anche severamente educativo verso i loro difetti pubblici. Il privato è libero, il pubblico invece esclude la corruzione, la malafede, l'evasione fiscale, l'arbitrio dei forti contro i deboli e dei ricchi contro i poveri e gli esclusi. Una volta chiesi a Giorgio - al quale mi lega una conoscenza molto antica e una profonda stima da quando quasi nove anni fa fu eletto al Quirinale qual è il suo giudizio su Papa Francesco. Mi rispose che questo Papa interpreta il suo ruolo in un modo che andrebbe imitato da tutti coloro che rappresentano e debbono tutelare i diritti ma anche i doveri di tutti e in particolare dei deboli, degli esclusi, dei poveri e delle minoranze che hanno una visione comune diversa da quella della maggioranza. Ebbene questo dovrebbe essere il ruolo anche del Capo dello Stato. E' auspicabile che lo tengano presente i parlamentari che parteciperanno al "plenum" del 29 gennaio per eleggere insieme ai rappresentanti delle Regioni il nuovo presidente della Repubblica. La vita politica di Napolitano ebbe inizio, come quella di molti giovani della sua e della mia generazione, con l'iscrizione all'università di Napoli nell'autunno del 1942. Ho letto nella sua autobiografia e lui stesso me l'ha raccontato nei nostri numerosi e amichevoli conversari, che i suoi amici erano di sentimenti antifascisti e utilizzavano cautamente le opportunità offerte dalle diverse articolazioni del Guf di Napoli, compreso il giornale "IX maggio". I Guf (Gruppi universitari fascisti) erano in molte città sedi di università, organizzazioni dove i giovani manifestavano sentimenti di "fronda" e il partito concedeva questa larvata opposizione consapevole che i giovani non accettano quasi mai passivamente le visioni politiche della precedente generazione. A me capitò a Roma qualche cosa di analogo ma a differenza di Napolitano i miei amici ed anche io eravamo fascisti o perlomeno tali ci credevamo. A me capitò però di essere espulso dal Guf nell'inverno del 1943 per un articolo scritto su "Roma Fascista": evidentemente la fronda aveva sorpassato i limiti che il partito poteva sopportare. Napolitano, dopo questo periodo di antifascismo senza partito di riferimento, si orientò verso i comunisti e si iscrisse a quel partito nel 1945, quando il Sud era già stato liberato dalle armate angloamericane e i partiti antifascisti non erano più clandestini. Va aggiunto però che il Pci aveva da tempo abbandonato il massimalismo di Bordiga e con il Congresso di Lione era stato praticamente rifondato seguendo le indicazioni politiche e culturali di Gramsci e di un gruppo dirigente i cui maggiori esponenti erano Togliatti, Longo, Terracini, Negarville, Scoccimarro, Tasca. I giovani che negli anni successivi dettero la loro adesione avevano accettato l'ideologia leninista-marxista. Ma dal Congresso di Lione in poi quell'ideologia era stata "contaminata" con una lettura gramsciana che teneva anche presente la rivoluzione liberale di Gobetti, gli scritti marxisti di Antonio Labriola e addirittura lo storicismo di Benedetto Croce. Fu quella più o meno l'epoca nella quale aderirono al Pci persone come Amendola e Ingrao e Alicata che facevano parte di questa nuova "leva" e così anche Napolitano, più giovane di loro ma con la stessa duplice cultura politica: il marxismo, la rivoluzione liberal-gobettiana e il liberalsocialismo dei fratelli Rosselli e di "Giustizia e Libertà". Questa fu anche la cosiddetta "doppiezza" di Palmiro Togliatti il quale però fu anche, in quegli anni di clandestinità, uno dei leader del Comintern l'organizzazione che rappresentava tutti i partititi comunisti, sia quelli che si erano formati nell'Europa orientale e addirittura in altri continenti come la Cina, il sudest asiatico e alcuni territori africani, sia in paesi occidentali. Ricordo queste vicende perché altrimenti non si capirebbe la storia politica di Giorgio Napolitano e di altri militanti del Pci. Non si capirebbe cosa è stato quel partito che, dopo Togliatti e Longo, fu guidato da Enrico Berlinguer. Il percorso che seguì il Pci con il nuovo segretario mise in secondo piano l'ideologia, da un certo momento in poi si staccò da ogni sudditanza nei confronti di Mosca e si identificò soprattutto con la classe operaia rappresentata da Trentin e da Lama, con i braccianti guidati da Di Vittorio e con i ceti più deboli della società italiana. La "doppiezza" di Togliatti e del gruppo dirigente del Pci, al di là dell'ideologia marxistaleninista che durò fino allo "strappo" di Berlinguer, si verificò soprattutto in un pragmatismo che Togliatti applicò con tratti molto evidenti. Anzitutto con il riconoscimento del governo Badoglio nel 1944 che durò fino alla liberazione di Roma quando fu sostituito da Bonomi. Ma soprattutto dalla decisione di sostenere la nascita dell'assemblea costituente che fece del Pci un partito italiano e costituzionale e non una semplice sezione italiana del Cominform come era per esempio il Partito comunista francese. Togliatti, quando fu oggetto di un attentato molto grave che rischiò di costargli la vita, ordinò che il partito non facesse dimostrazioni di alcuna violenza. Durante i dibattiti alla Costituente cercò accordi con la Dc tutte le volte che era possibile e votò addirittura per il riconoscimento costituzionale del trattato lateranense e del Concordato (articolo 7) che videro invece il voto contrario del Partito socialista e del Partito d'azione. Napolitano a quell'epoca era ancora un dirigente locale ed era particolarmente vicino a Giorgio Amendola che condivideva pienamente la "doppiezza" togliattiana accentuandone però il costituzionalismo. Sarebbe stato molto favorevole ad una unificazione col Partito socialista di Pietro Nenni nel periodo in cui quel partito era ancora alleato del Pci. Quando però l'alleanza si ruppe l'ipotesi di una riunificazione diventò impensabile. Nel frattempo ci fu la repressione in Ungheria del tentativo di quel paese d'uscire dalla "tutela" sovietica. Intervennero le truppe sovietiche e i loro carri armati impedirono che quel tentativo avesse successo. Il Pci non era ancora nelle condizioni di rompere i suoi legami ideologici e politici con Mosca e fu dunque solidale con la repressione, ma molti intellettuali e dirigenti, tra i quali ricordo Antonio Giolitti, uscirono dal partito. Napolitano, per quanto so, rimase profondamente turbato da quella repressione ma restò fedele alla linea di Togliatti. Un mutamento comunque avvenne perché poco tempo dopo nacque una vera e propria corrente guidata da lui e da Macaluso, che fu chiamata "mi- gliorista" o "riformista" e che si schierò pubblicamente contro Mosca quando ci fu una seconda repressione a Praga contro il socialismo di Dubcek. Napolitano in quegli anni era deputato e al tempo stesso dirigente nazionale del partito; sempre più lontano dall'ideologia comunista, la corrente da lui guidata puntava verso una nuova alleanza con la socialdemocrazia europea. In questo senso accolse positivamente la segreteria di Berlinguer, della quale tuttavia fu anche critico perché, distaccatosi da Mosca, restò tuttavia comunista mentre Napolitano sempre più puntava verso un accordo con l'Internazionale socialista europea. Ma parliamo ora del Presidente della Repubblica che proprio oggi lascerà il suo secondo mandato. E' il solo caso d'un incarico al Quirinale della stessa persona che aveva dato le dimissioni alla scadenza del suo settennato. La Costituzione non dice nulla a questo proposito il che significa che esso è possibile come sono altrettanto possibili le dimissioni anticipate. Del resto il Presidente, accettando il secondo mandato, aveva già preannunciato che non l'avrebbe certo compiuto. Era stato pregato di accettarlo da tutte le forze politiche, con la sola eccezione per altro scontata di Grillo e del suo Movimento. Altre soluzioni non c'erano dopo il voto negativo contro Prodi avvenuto per il voto contrario di 101 franchi tiratori del Pd. Spiegarne il motivo è semplice: alcune riforme assai urgenti non erano state ancora votate a cominciare da quella sul lavoro, dalla riforma costituzionale del Senato e dalla legge elettorale. Il governo Renzi e l'interesse generale del paese avevano bisogno che quel percorso procedesse, mentre l'impossibilità di trovare un successore al Quirinale avrebbe inevitabilmente obbligato a nuove elezioni. La fine della legislatura avrebbe dovuto utilizzare la legge esistente per volontà della Corte costituzionale dopo l'annullamento del "Porcellum", con un sistema proporzionale che avrebbe quasi certamente creato due diverse maggioranze tra la Camera e il Senato e quindi una totale ingovernabilità. Questa è stata la ragione del secondo incarico a Napolitano che già si era dimesso. "Non supererò comunque la scadenza dei miei novant'anni " aveva preannunciato. Poi la fatica d'un incarico pieno di impegni nazionali e internazionali ha accentuato il peso che gravava sulle sue spalle e questo lo ha indotto a far coincidere le sue dimissioni con la fine della presidenza semestrale europea gestita dal primo luglio scorso da Matteo Renzi. Appunto oggi il presidente si dimetterà con una lettera ai presidenti del Senato e della Camera, il primo dei quali eserciterà la supplenza al Quirinale fino al momento in cui il successore sarà stato eletto. Si apre dunque da oggi una fase della massima importanza e delicatezza per le istituzioni e per il paese. Bisogna dire che le prerogative del Capo dello Stato in Italia sono notevolmente diverse da quelle degli altri paesi europei. Nella loro quasi totalità in quei paesi il Capo dello Stato non ha alcun potere effettivo; si limita a firmare le leggi votate dal Parlamento e proposte dal premier. Fa eccezione la Francia dove c'è un semipresidenzialismo con un governo nominato dal presidente e un'assemblea parlamentare che ha limitate capacità di controllo sulla pubblica amministrazione e sulla legislazione. In Italia quelle prerogative sono numerose e fanno del nostro Presidente il garante della Costituzione e della leale collaborazione tra le istituzioni e i poteri che ciascuna di esse rappresenta. Tocca a lui di promulgare le leggi e se non le ritiene conformi a rinviarle alle Camere per una loro seconda deliberazione; nomina il presidente del Consiglio e i ministri da lui proposti; scioglie le Camere anticipatamente se per una qualunque ragione la loro funzionalità fosse bloccata; nomina una parte dei componenti della Corte costituzionale; presiede il Consiglio superiore della magistratura, cioè l'organo di controllo del potere giudiziario; è il titolare esclusivo del diritto di grazia; nomina i senatori a vita entro il limite complessivo di cinque ai quali si aggiungono i capi dello Stato che abbiano terminato quella loro funzione. Aggiungiamo anche che è irresponsabile giudiziariamente fin quando ricoprirà il suo mandato, salvo reati penali colti in flagranza. Naturalmente queste prerogative sono molto elastiche. L'elastico può essere allentato o teso evitando però la sua rottura. Durante il periodo della partitocrazia, che durò per tutta la cosiddetta prima Repubblica guidata dalla Dc e dai suoi alleati, le prerogative del Capo dello Stato furono di fatto confiscate dai partiti di maggioranza. L'opposizione comunista accettò quella confisca: erano i tempi della guerra fredda, il mondo intero era diviso in due, il deterrente della bomba atomica di fatto produceva una stabilità internazionale e nelle varie nazioni aderenti all'uno o all'altro schieramento, un immobilismo politico da tutti accettato. Quella stagione cessò con la caduta del muro di Berlino e soprattutto con la riunificazione delle due Germanie. Da allora le prerogative del Capo dello Stato italiano hanno recuperato il peso che dovevano avere e tutti i partiti, nessuno escluso, hanno recuperato la possibilità di costruire una maggioranza di governo o di esercitare un ruolo d'opposizione che prepari una prossima alternanza sempre nel quadro tracciato dalla Costituzione esistente. In che modo Napolitano ha gestito, in questo quadro, i poteri che la Costituzione gli ha conferito? E fino a che punto ha teso l'elastico? Il nostro è un paese politicamente fragile e la fragilità è pressoché inevitabile perché ha come riscontro la fragilità politica dell'Europa. E' un tema che emerge soprattutto in tempi di crisi, quando tutti siamo chiamati a sopportare sacrifici e a veder frustrate le speranze del futuro. Ma non dipende solo da questo. Napolitano ha studiato a fondo la nostra vita pubblica e non soltanto sui libri: l'ha vissuto come dirigente di partito prima e come presidente della Repubblica poi; quello è un osservatorio che spazia sull'intera classe dirigente, non soltanto politica ma economica, professionale, militare, sui docenti, sui tecnici, sugli scienziati, sui giovani che cercano il futuro, sui vecchi che hanno un'esperienza da mettere in comune. Ebbene, per qualche ragione motivata dalla storia del nostro paese, noi non abbiamo un "establishment". Abbiamo individui spesso intelligenti, ancor più spesso furbi e amanti del far da sé, ma se per establishment si intende una classe dirigente che anteponga realmente gli interessi collettivi ai propri e della propria più ristretta cerchia, allora l'establishment in Italia non c'è e non c'è mai stato. Napolitano nei quasi nove anni di Quirinale ha fatto il possibile e addirittura l'impossibile per compiere e far compiere qualche passo avanti in quella direzione. Ha trovato persone che erano pronte a mettersi insieme a lui e da lui guidate in questa difficilissima strada. E questo è avvenuto ma non è stato sufficiente. Sisifo sollevava i massi e li faceva avanzare verso la vetta della montagna, ma è un personaggio mitologico e quindi divino. Non c'è nessuno che abbia quei poteri. Lo si vorrebbe e infatti la nostra immaginazione ne ha creato il mito proprio perché nella realtà non può esistere. Questa è la tristezza che Napolitano ha sentito emergere dentro di sé, o almeno così io credo per quanto possa aver capito dei suoi pensieri e della sua diagnosi della realtà. In altri paesi le classi dirigenti, portatrici di una solida visione del bene comune, ci sono e la loro esistenza distingue quei paesi dagli altri. Forse ci sarebbe se l'Europa diventasse un continente federato e non confederato, come ancora è. Napolitano questo lo sa, infatti non ha cessato di ricordare ripetutamente agli italiani ed anche agli europei che il nostro obiettivo è di avanzare sulla strada dell'unità politica dell'Europa. Lui la pensa come Altiero Spinelli e il suo manifesto di Ventotene, la pensa coma la volevano De Gasperi, Adenauer e quegli statisti che prevedevano fin da allora l'evoluzione della società moderna e l'avvento di una società globale dove gli Stati hanno dimensioni continentali per poter confrontare e risolvere tutte le contraddizioni, le diseguaglianze, la povertà, i mutamenti del clima, le ondate migratorie, i conflitti locali. Ho chiesto a Napolitano molte volte nelle nostre conversazioni qual era il suo sogno europeo e lui mi ha sempre risposto auspicando che l'Europa diventi veramente uno Stato con ampi poteri sovrani. Ma ci vorranno anni per realizzare questo obiettivo. Ho chiesto anche se ci sono personalità di peso internazionale che cerchino di far avanzare l'Europa su questo percorso e lui mi ha risposto che certamente ci sono queste personalità anche da noi e naturalmente anche in Europa ma non hanno ancora avviato il percorso verso un vero Stato europeo. Forse l'insorgere di un terrorismo come quello che ha insanguinato in questi giorni Parigi e che minaccia di trasformarsi in una vera e propria guerra, ha l'aspetto positivo di stimolare la nascita degli Stati Uniti d'Europa. Sisifo è un mito, ma noi dobbiamo sperare e operare affinché diventi una realtà. Pag 19 Vivere in Europa ai tempi della paura, così il terrorismo distrugge la società di David Grossman Testo non disponibile IL SOLE 24 ORE Il dna della politica che l'Europa deve ritrovare di Vittorio Emanuele Parsi «Un gigante economico, un nano politico, un verme militare»: era questo lo sprezzante giudizio sull'Unione europea che girava fino a qualche anno fa negli ambienti neoconservatori. Seppure espressa in termini meno sarcastici, quella opinione è ancora oggi condivisa da tanti critici della difficoltà europea a "esserci" sullo scenario della politica internazionale. Paradossale, se si pensa che Gran Bretagna, Francia, Germania (e più indietro nel tempo Austria, Portogallo, Spagna, Svezia, Olanda) la storia del mondo hanno contribuito a farla come poche altre nazioni al mondo, nel bene e nel male. L'insieme di questi e degli altri venti Paesi che oggi compongono l'Unione dovrebbe quindi avere nel suo Dna il gene della politica internazionale. E invece se c'è un ambito sul quale l'Europa stenta, finora, a marcare la sua presenza questo è proprio la proiezione esterna della sua esistenza. Per alcuni aspetti un simile ritardo e una simile difficoltà non devono stupire: il progetto stesso di unificazione europea è nato proprio dal collasso del continente seguito a un "surplus" di proiezione di potenza da parte dei suoi protagonisti principali, in grado di dar fuoco alle polveri di due guerre mondiali in meno di un quarto di secolo. La lunga Guerra fredda, poi, ha sterilizzato e ridotto le possibili aspirazioni a marcare in maniera autonoma il raggio d'azione di una politica estera europea. La Guerra fredda però è finita ormai da 25 anni, l'Unione stessa si è dotata di strumenti idonei a segnalare al mondo esterno il suo ritorno sulla scena mondiale, le sfide certo non mancano, eppure... Eppure l'Europa continua a vedersi a fatica, perché quello che finora le è mancato sono stati il coraggio e l'ambizione. Il coraggio di capire che in un mondo in continuo tempestoso movimento (parlare di evoluzione parrebbe eccessivo) non c'è più spazio per le strategie volte alla mera sopravvivenza. L'ambizione per ricordarsi che il mondo che verrà possiamo (e dobbiamo) concorrere a disegnarlo anche noi. Il guanto di sfida lanciato dal terrorismo islamista a tutti noi è solo l' ultimo e il più brutale che colpisce il nostro volto. Per raccoglierlo, lo abbiamo ripetuto tante volte in questi giorni, occorre la consapevolezza che solo unendo gli sforzi investigativi e di intelligence potremo venire a capo di una minaccia tanto letale al nostro stile di vita. Tutto questo però non basta. Considerato il legame oggettivo che esiste tra i terroristi nati e cresciuti in casa nostra e il centro di irradiazione delle aberranti mistificazioni in nome delle quali hanno dichiarato la loro violenta secessione dal consesso civile, occorre che l'Europa sappia trovare una politica che sia non solo comune, ma anche forte e determinata per concorrere a chiudere l'esperienza dello "Stato islamico" e sostenere la riforma e il consolidamento del sistema regionale del Levante. Si tratta di uno sforzo importante, sul quale l'Europa si gioca la sua credibilità, tanto più in un momento storico in cui la potenza leader dell'Occidente e del mondo sembra essersi smarrita. L'Unione europea potrà essere una "potenza pacifica" ma non potrà mai più illudersi di essere solo una "potenza civile" e men che meno imbelle. La spinta a una maggiore unità, a spostare più avanti possibile il processo di unificazione politica, riscoprendo l'intima essenza politica dell'Unione, viene anche dall'interno dei suoi confini. Nonostante gli indubbi maggiori progressi nel campo dell' edificazione del mercato unico e di uno spazio economico comune, la grave crisi che da anni squassa le nostre economie ha mostrato in maniera impietosa quanto siano pesanti e alla fine insopportabili i costi derivanti da un'imperfetta unificazione. Se confrontata con quelle dei principali competitors globali, l'economia europea appare in affanno, incapace di rilanciarsi non solo e non tanto per una carenza oggettiva di risorse finanziarie, ma soprattutto per l'incapacità di impiegarle utilmente. Interroghiamoci sul come mai i famosi "parametri" di Maastricht non sono mai stati allentati per ridare un po' di fiato ad economie asfittiche e in continuo peggioramento, o perché solo dopo faticosi negoziati l'Europa sia riuscita (proprio ieri) ad accennare ad un mite tentativo di superare le politiche del solo rigore finanziario, chiesto da anni da più parti. O ancora, interroghiamoci sul perché le politiche economiche nazionali abbiano talvolta finito per produrre una rincorsa al dumping fiscale che ha generato un gioco a somma zero. La risposta sarebbe sempre la stessa: deficit di unità politica. È il ritardo nel processo di unificazione che continua a far sì che ogni singola costituency politica nazionale non possa "fidarsi" delle altre, e chieda quindi pegni costosi per ogni credito concesso. Non è per nulla accidentale che all'interno della casa comune europea la divergenza in termini economico-sociali abbia preso il posto della convergenza, con un avvitamento che rafforza l'analogo, inaccettabile movimento che si produce anche nelle singole società nazionali, creando diseguaglianze di opportunità francamente inaccettabili. Il risultato di questa debolezza lo abbiamo sotto gli occhi: l'Europa, la patria della democrazia e dell'uguaglianza politica come ci piace pensarla, oggi si ritrova a temere l'esito del voto greco, ad aver paura di fronte all'esercizio del più elementare diritto democratico di una delle più piccole delle nazioni che la compongono. È tempo di cambiare tutto questo, prima che lo scorrere del tempo decreti impietosamente la fine del più straordinario esperimento politico mai tentato nella storia. AVVENIRE Pag 3 I bambini arruolati in odio alla vita di Marina Corradi L’orrore dei fanciulli usati per uccidere Il bambino ha lineamenti asiatici e capelli lunghi e neri. In mano tiene una calibro 9, ma dimostra dieci anni, e chi lo guarda in un primo istante pensa che quella sia un’arma giocattolo: un bambino che gioca alla guerra, con una pistola che sembra vera. Ma poi il ragazzino punta l’arma e spara, e uccide due prigionieri in ginocchio. Il video spedito dal Califfato al mondo da al-Hayat Media, braccio mediatico dell’Is, finisce con il bambino che promette che crescerà, e ucciderà ancora. Allora anche le bambine kamikaze che Boko Haram in Nigeria ha usato in questi giorni per fare stragi nelle piazze e nei mercati, non sembrano più episodi isolati, ma anelli di una catena in un disegno di orrore. Perché c’è qualcosa di peggio che massacrare uomini inermi, e questo qualcosa prende forma se a dare la morte sono dei bambini. Bambine usate come serbatoi di esplosivo, con chissà quali parole strappate alle famiglie e poi convinte o minacciate e costrette e spinte al patibolo loro, e altrui. Bambini arruolati in un macabro inganno, nell’età in cui alla guerra si gioca; e, magari, dapprima inorgogliti e fieri di essere presi sul serio dai grandi, dai soldati veri – ignorando il buio di disperazione in cui vengono attratti e sospinti. Bambini utilizzati in fondo come cose, come carne docile, che ubbidisce e esegue e non sa, in quale laccio è stata presa. Se la strategia del jihad, declinata secondo le diverse latitudini ma in un’unica oscura nota, è di sconvolgere, sgomentare l’Occidente, ribaltandone la stessa visione del mondo, allora le bambine nigeriane, il ragazzino del video di al-Hayat sono i simboli di questa perversione: in cui non basta dare la morte, ma occorre che la diano i bambini, a testimoniarci che nulla davvero di intoccabile resta, in comune, fra i terroristi e noi. Certo, non è la prima volta che i ragazzini vengono arruolati e combattono, è successo nei secoli passati così come nelle ultime ore del nazismo, è stato fenomeno di massa nella guerra civile ugandese come in altre guerre africane e tribali; ma ciò che è nuovo oggi è l’uso propagandistico, da parte del terrorismo islamico, dei bambini, quasi in un vanto, quasi fosse un primato di onore l’arruolare anche loro, quelli che non capiscono e non sanno, e farne portatori di morte. Quasi che l’obiettivo di questa crociata di innocenti fosse, più che la lotta contro il nemico, la negazione stessa dell’uomo. Un annichilimento di cui poi restano, come è accaduto nella guerra civile ugandese, le facce di quelli che furono costretti a sparare e a uccidere; e negli occhi di quegli ex bambini il lascito appunto di un annientamento, di una tenebra che sarà poi terribilmente difficile dissipare. Il passo in più, la soglia traversata da questa nuova guerra del terzo millennio è, oltre all’arruolamento dei fanciulli, il vantarsene, il farne oggetto di propaganda. Come a rivendicare un primato di disumanità; mentre, nella macchina inarrestabile e convulsa che è il web, ci saranno magari coetanei del bambino giustiziere dell’Is che vedranno quella esecuzione, quella promessa di crescere e uccidere, e forse desidereranno di fare altrettanto. La strategia del marketing adattata all’annientamento dell’uomo. Perché che questo nemico voglia in verità, e oltre alle sue affermazioni, solo il nulla e la morte, è il sospetto che è ragionevole coltivare, guardando alle stragi di innocenti, ai massacri di cristiani che compie con spaventevole efficienza in quelle parti del mondo, in cui può allargarsi e dominare indisturbato. E se di questo occorresse ancora una prova, guardate quelle bambine portate al massacro come agnelli, quel ragazzino del video, fiero di essere già 'grande'. È la sovversione delle radici della umana convivenza, il non fermarsi davanti alla faccia di un bambino e anzi servirsi proprio della sua debolezza, per farne un mezzo di morte. Negando, oltre alla sua fanciullezza, proprio ciò che è, nella natura degli uomini, un bambino: cucciolo da proteggere, e figlio che continua la nostra storia. Ma forse il senso profondo dell’annientare i bambini è proprio questo: una radicale avversione alla vita che continua, un odio profondo a quella che verrà. IL GAZZETTINO Pag 1 Non sono Charlie ma voglio che Charlie viva di Dario Calimani Quali sono i limiti della satira? Ho il diritto di uccidere chi offende il mio Dio? È un Dio quello che dopo aver creato l’uomo chiede a un altro uomo di ucciderlo? O quello che chiede di sfregiare una ragazzina che vuole studiare? Io penso di no, ma mi rendo conto che non tutti la pensiamo allo stesso modo. Spesso ‘Charlie Hebdo’ ha fatto satira antisemita, e per questo il giornale mi può stare poco simpatico; magari ha anche confuso e prodotto confusione fra ebrei e Israeliani, e non ha fatto certo divulgazione culturale obiettiva; forse non lo comprerò, ma non per questo ho mai desiderato distruggerne i giornalisti: me lo ha impedito la mia cultura, non solo la legge del mio paese. Allora, mi chiedo – e non avrei osato chiedermelo ieri – da dove viene la cultura che manda un uomo a uccidere per difendere la sua idea di Dio? Quel che è certo è che esiste una fetta di società e di cultura che fa un uso spregiudicato della religione. Lo fanno i coloni in Israele, per giustificare l'appropriazione indebita di brandelli di terra, ma lo fanno soprattutto, terroristicamente, alcuni settori dell’Islam, appoggiati e ‘compresi’ da più ampi settori dell’Islam ai quali piace riconoscere in Israele la colpa di ogni male e l’obiettivo da annientare. Se poi si colpisce soltanto un povero ebreo che vive magari in Svezia, poco male. Il petardo fa rumore comunque. Il terrorismo è la prassi di una minoranza? Non ne siamo certi, e ciò a cui stiamo assistendo dovrebbe dirci quanto si stia diffondendo l’idea di un Islam espansionista, che vuole imporre i suoi modelli ideologici senza condividere nulla dei modelli civili dei paesi presso i quali cerca ospitalità o rifugio. Gli islamici moderati sono sicuramente una grandissima maggioranza, ma i terroristi e i loro sostenitori non sono più un numero esiguo, e non sono più così lontani, e non siamo sicuri che siano del tutto soli. Se non ci fanno effetto le teste decapitate dalle bestie dell’ISIS, nella lontana Siria o i duemila massacrati di Boko Haram nella lontanissima Nigeria, devono egoisticamente preoccuparci la ventina di morti nel centro dell’Europa. Se a farci comprendere il rischio che corre l’Europa sono stati gli avvenimenti di Parigi, diciamo allora, con infinitissimo imbarazzo, che era ora che accadesse. È come se l’Europa lo avesse atteso con trepidazione. Alla Francia, in questo momento, va naturalmente tutta la solidarietà del mondo civile, ma la Francia si sveglia oggi di fronte alla ferita che le viene inferta al cuore. Non si è accorta prima degli attentati alle scuole ebraiche e alle sinagoghe, si è dimenticata del giovane Ilan Halimi torturato e massacrato nelle banlieue, ha sorvolato sulle migliaia di ebrei che stanno cercando rifugio in Israele. Recupereremo speranza votando Marine Le Pen? Tutti oggi si vantano di affermare “Je suis Charlie”. Bene, IO NON SONO CHARLIE, perché Charlie può non essermi piaciuto in tempi passati, e tuttavia Charlie aveva il diritto di continuare a vivere anche se non era proprio me stesso. Ma io non sono neppure l’Islam, perché certo Islam può non piacermi e quell’altro Islam, quello dal volto gradevole, non l'ho mai sentito vicino agli ideali del rispetto altrui, specie quando non si trattava di rivendicare i propri diritti, ma quelli dell’altro. Credo che, rinunciando alla vuota retorica che è di moda, il motto da adottare sia “Io non sono Charlie, ma Charlie ha, ciò malgrado, il diritto di vivere”. Il rispetto, poi, ciascuno di noi se lo deve anche guadagnare. Io sono per la convivenza civile e per il rispetto reciproco. E sono a favore dei rapporti civili con chi sa distinguere il diverso da sé e rispettarlo in quanto diverso. In un rapporto di perfetta reciprocità. È troppo facile amare il prossimo, quando lo senti uguale a te. Il problema è sopportare chi non ti piace, senza per questo meditare di sopprimerlo. Del resto, se così non fosse, non saremmo brutalmente umani. Pag 1 Per re Giorgio è come il giorno della liberazione di Mario Ajello È come se fosse, per lui, il giorno della liberazione. Sennò, a proposito della mattinata di oggi, in cui Giorgio Napolitano lascerà il palazzo del Quirinale dopo quasi nove anni, egli non avrebbe utilizzato l'espressione «prigione». Ma rivolgendosi a una piccola studentessa, sulla piazza del Colle, durante la festa della polizia, una metafora così ci può stare. La bimba gli chiede se è felice di fare rientro nella sua abitazione privata, che poi è a due passi dalla sede presidenziale, e Napolitano le risponde con un umanissimo sorriso da nonno: «Certo che sono contento di tornare a casa. Qui si sta bene, è tutto molto bello, ma insomma si sta un po' chiusi, un po' come in prigione. E si esce poco». All'idea di uscire di più, Napolitano si sta così piacevolmente abituando che sembra già aver cambiato passo e ritmo nella camminata. Appare più leggero nei suoi movimenti. Il format del pensionato non gli si addice - anzi sarà presentissimo nella politica attiva già per le votazioni del successore: lui è un grande elettore, al contrario di Renzi e di Berlusconi che saranno pure i king maker ma non stanno in Parlamento - ma «farò tante passeggiate» è il messaggio che in queste ore si sente di esprimere. E capiterà magari di incontrarlo, come accadeva un tempo, prima che fosse eletto sul Colle, mentre si aggira lungo i Fori Imperiali ammirando la grande bellezza. Adesso, nelle ultime ore di questi nove anni, qualche telefonata agli amici della giovinezza. Come Raffaele ”Duddù” La Capria, per ricordare insieme a lui l'ultima volta - il 15 novembre scorso a casa del regista che faceva il compleanno - che entrambi hanno visto il comune sodale dei tempi del liceo, Francesco Rosi, amatissimo e appena scomparso. Ieri, dopo il saluto ai corazzieri, quello ai dipendenti della Presidenza della Repubblica. Una piccola folla. Nessun brindisi. Nel Salone delle Feste. Napolitano si commuove verso la fine del suo discorso. Che non ha nulla di retorico. «Sono contento di questi nove anni». E aggiunge: «Vorrei che il Quirinale restasse un punto di eccellenza della Pubblica Amministrazione». Lo ascoltano, con una punta di orgoglio. Napolitano, salutandoli, vuole farli sentire una squadra che non scioglie le righe. Ora parla così, con tono nient'affatto crepuscolare, con nessuna posa da sovrano che abdica, con l'aderenza alla realtà che è stato un suo segno distintivo insieme al fastidio vibrante nei confronti dei predicatori di sfiducia e di chi alimenta «un clima sociale troppo impregnato di negatività»: «Il mio augurio al Paese è che sia unito e sereno. Anche perché viviamo in un mondo molto difficile. Abbiamo visto nei giorni scorsi che cosa è accaduto in un Paese vicino e amico come la Francia». E ancora: «Siamo molto incoraggiati dalla straordinaria manifestazione di Parigi. Però, insomma, sempre stando attenti a stare in guardia senza fare allarmismo». Ecco, Napolitano resta Napolitano fino alla fine. Ma è come se un surplus di calore - di misurato calore, naturalmente - lo stia attraversando in questo passaggio esistenziale. Verrebbe quasi, ma solo quasi e sapendo di esagerare, da chiamarlo Giorgio il Caldo: e sarebbe un nuovo soprannome tardivo ma affettuoso da aggiungere a quello che gli affibbiarono ai tempi in cui era ragazzo nella sua Napoli. Lo chiamavano Giorgio 'o sicco (il magro) per distinguerlo dal suo maestro politico Amendola, denominato Giorgio 'o chiatto (in quanto assai più robusto del suo allievo). Vecchie storie, che però ritornano perché ogni nuovo passaggio di vita - come questo che sta compiendo Napolitano contiene anche un ripensamento dei capitoli precedenti, anche o soprattutto i più lontani. Qui e ora ci sono gli scatoloni con i libri già traslocati dall'appartamento del Colle a quello privato. E anche i recipienti con altri volumi e altre carte sono arrivati da tempo nello studio da presidente emerito che Napolitano ha a disposizione a Palazzo Giustiniani (così come ce l'ha Carlo Azeglio Ciampi). E così il politico «totus politicus» che entrò nove anni fa in queste stanze, dopo aver ricoperto incarichi istituzionali ai massimi livelli come il ministro dell'Interno e il presidente della Camera, adesso ne esce come un uomo di Stato che è riuscito a sintonizzarsi con gli umori profondi del Paese e con uno soprattutto: il desiderio dell'Italia, quella migliore, di non essere eccitata. Del resto regalandogli il suo libro "Kaputt", nella Napoli sconvolta e distrutta appena uscita dalla seconda guerra, Curzio Malaparte scrisse questa dedica: «A Giorgio Napolitano, che non perde la calma neppure nell'apocalisse». Non un luogo freddo, ecco, ma una zona di aria ben temperata non solo dal punto di vista politico ma anche da quello espressivo e del linguaggio: il Quirinale nell'epoca di Giorgio - e guai a chiamarlo Re Giorgio o peggio Cool George - questo è stato. E comunque ieri notte è stata l'ultima notte che Napolitano ha trascorso qui dentro, nel suo appartamento al secondo piano - ma guardandolo da fuori è il primo piano - nel palazzo che fu dei papi. Adesso da chi verrà occupato il suo spazio? Uno degli ultimi libri ad essere stato portato via di qui s'intitola «Le istituzioni della democrazia». Opera di Giuliano Amato a cui ha collaborato - in veste di introduttore di uno dei capitoli, insieme a Giulio Napolitano, figlio di Giorgio - Sabino Cassese. Due personalità che, non sotto forma di carta, potrebbero succedere a Napolitano ma non è questo il tema adesso. È quello del distacco dal potere. E oggi, nel caso di Napolitano, avverrà al suono dell'Inno di Mameli nel cortile. Senza troppe fanfare. Senza tocchi personali o note di colore, come accadde per esempio con Francesco Cossiga il quale, lasciando anticipatamente il Colle, volle che fosse suonato per lui l'inno della Sardegna. Si chiude il sipario. Oggi si smonta il palcoscenico. E non c'è nulla di più teatrale dell'assenza di teatralità. LA NUOVA Pag 1 Quell’idea di Europa e nazione di Gianfranco Pasquino Il Presidente che se ne va ha fatto tutto il possibile per “tenere insieme” un sistema politico che stava disgregandosi. Ha fatto moltissimo, secondo alcuni anche troppo. Probabilmente se ne va con un po’ di amarezza e di preoccupazione, consapevole che il sistema non è ancora messo in sicurezza e che proprio la scelta del suo successore potrebbe produrre forti tensioni. Due stelle polari hanno guidato l’azione di Napolitano per quasi nove lunghissimi anni: un’idea di nazione, una visione dell’Europa. Come quasi nessun altro prima di lui, il presidente Napolitano ha inteso rappresentare “l’unità nazionale” come il suo fondamentale compito a norma di Costituzione. L’ha fatto spingendo i partiti politici e i loro dirigenti a trovare accordi e a prendere decisioni condivise. Le “larghe intese” sono state una delle modalità di rappresentare l’unità nazionale e di procedere a riforme, socio-economiche e istituzionali, tuttora, però, incompiute. L’ha fatto opponendosi a scioglimenti anticipati del Parlamento, richiesti da una classe politica composta da ignavi e da presuntuosi, che avrebbero logorato le istituzioni e gli stessi cittadini elettori senza risolvere nessun problema. L’ha fatto nominando tre capi del governo e sostenendoli fin dove poteva con il suo prestigio, le sue indicazioni, i suoi consigli, preziosissimi perché derivanti da cinquant’anni di onorata esperienza politico-parlamentare. L’ha fatto, infine, "predicando" i valori della libertà, della partecipazione, dell’appartenenza a una stessa comunità, del senso civico, dell’impegno politico. Sono valori tanto più credibili poiché da lui non soltanto annunciati, ma coerentemente praticati. Quella visione d’Europa, di un continente che si unifica politicamente anche perché condivide una storia, tragica, ma superata, che è fondato su valori occidentali diventati universali, che si oppone alla violenza e al fondamentalismo di tutti i tipi, ha fatto la sua (ri)comparsa nella grande marcia di Parigi. Il Presidente Napolitano, sulla scia del grande combattente federalista Altiero Spinelli, l’aveva fatta sua, interpretata e manifestata da almeno quarant’anni. L’ha ripetutamente richiamata nell’assoluta consapevolezza che unicamente in Europa, grazie all’Unione Europea, agendo credibilmente e responsabilmente, l’Italia e gli italiani (ri)troveranno la strada della crescita, non soltanto economica, ma politica e culturale. I capi di governo e di Stato europei e molte università in Italia e nel continente hanno dato ampio riconoscimento all’europeismo di Napolitano che, purtroppo, continua a non essere pienamente, in maniera convinta e operosa, tradotto in comportamenti proprio in Italia. Chiarissimo, ampio e positivo il lascito di Napolitano potrà durare esclusivamente se chi gli succederà, uomo o donna, avrà, se non le sue stesse, probabilmente inimitabili, qualità, almeno la volontà e le capacità per svolgere i difficilissimi compiti che l’Italia ha di fronte. Napolitano è stato molto più di un arbitro, ancorché severo, e di un garante autorevole. Ha voluto e saputo essere il garante dei cittadini, non dei dirigenti di partito, il garante del buon funzionamento delle istituzioni, non dei detentori delle cariche. Il Presidente Napolitano è anche stato, nei limiti della Costituzione ma, talvolta, anche proiettandosi per necessità oltre, senza mai violarla, un protagonista. Questo suo innegabile protagonismo ha anche significato l’ineludibile presa d’atto che la Costituzione, da lui celebrata nel 2008 come una splendida sessantenne con poche rughe, è esigente con tutti, dai cittadini al Presidente della Repubblica, ai quali impone doveri democratici. Indiscrezioni suggeriscono che Napolitano, tornato, in veste diversa, Senatore a vita, si appresta a votare il suo successore. Auguriamo a lui e a noi tutti che il successore sia più che degno, quindi non una persona di basso profilo e di limitata autonomia politica, altrimenti turbolentissimi saranno i tempi della Repubblica. Pag 1 Quanto vale la libertà d’espressione di Vincenzo Milanesi Oggi è in edicola il nuovo numero di Charlie Hebdo, come promesso, il primo dopo la strage. Eppure, la questione rimane aperta. Ed è destinata a rimanere tale, probabilmente. Perché la domanda non ha una risposta immediata, e condivisa: pubblicare o no la vignette satiriche su Maometto? Sappiamo che per i musulmani la pubblicazione di quelle vignette - disegnate per far ridere o, meglio, sorridere di credenze religiose altrui da coloro che quelle credenze ritengono frutto di credulità e causa di comportamenti socialmente negativi - è considerata una derisione della fede, ritenuta dal credente portatrice dell’unica verità. Sono una bestemmia, un’offesa non solo ad Allah e al Profeta, ma anche a tutti i credenti nell’Islam. Ecco allora ben definita la questione. Da una parte, c’è il valore della libertà di stampa, che è sinonimo di libertà di pensiero che attraverso la stampa si esprime. Quel valore è venuto facendosi, nella storia della civiltà europea almeno da cinque secoli, un principio di civiltà giuridica ritenuto irrinunciabile. Per ragioni che non è neanche il caso qui di ricordare. Senza di esso non sarebbe possibile nemmeno la democrazia, poiché l’esercizio della libertà del pensiero di tutti i cittadini e la sua pubblica espressione sono la premessa di una forma di governo democratica dello Stato. Ma, almeno in apparenza, c’è un altro valore morale in gioco, un principio etico di cui non può essere, in sé, sottovalutata l’importanza. Ed è quello del rispetto della sensibilità religiosa di chi pratica una fede ritenendola fonte di salvezza, sulla base di un annuncio che viene direttamente dalla divinità. Ma c’è davvero qui l’esistenza di un conflitto di valori? Che è cosa che spesso accade nella vita morale, che anzi può essere definita, per l’uomo che non rinuncia a ragionare, come il terreno su cui si confrontano valori contrapposti ogni volta che si compiono scelte di comportamento non “in automatico”, quando cioè le situazioni richiedono una riflessione su come agire. C’è però, nel caso in questione, una sorta di asimmetria tra i valori ritenuti in gioco, riflettendo sulla quale può forse essere abbozzata un’analisi in grado di aiutarci a decidere come comportarci. Il principio della libertà di espressione, anche quando ciò che viene espresso può apparire offensivo di una sensibilità altrui, tutela un diritto che è un bene per tutti. E fonda una società di eguali. Forse, più che un valore in sé, potrebbe essere definito come un principio che rende possibile a tutti, indistintamente, esprimere i propri valori, in una società pluralista, quella in cui esiste un “politeismo dei valori” esprimibili da ciascuno nelle forme che meglio crede. Anche deridendo la divinità altrui, se lo ritiene opportuno. Pronto però ad accettare che altri deridano quella in cui egli crede con altre vignette, che possono essere altrettanto dissacranti, se ne sono capaci. Perché tutti crediamo in qualche “divinità”, in qualche valore che riteniamo “sacro”. Anche l’ateo più convinto di essere “senza dei”. Il musulmano che non accetta il principio della libertà di espressione pretende invece che sia rispettato il suo dio, ma senza reciprocità. E per ottenere questo rispetto è addirittura pronto, come nel caso dei fondamentalisti fanatici in azione nel nostro tempo, a uccidere. Il principio del rispetto della sensibilità religiosa non può più allora essere invocato dal musulmano. Appunto perché diventa pretesa che tutti, nella società politeista, rispettino il suo dio, senza che, reciprocamente, egli sia disponibile a rispettare la divinità altrui. Non solo quella dei cristiani o degli ebrei, ma anche quella costituita, per dir così, dalla libertà di pensiero, principio fondante di una società “laica”, in cui ha diritto di cittadinanza il politeismo degli dei e dei valori. Che in una società non confessionale, che proprio per questo si dice “laica”, è un valore sacro esattamente come la sua propria divinità per il credente. Il valore che il musulmano fondamentalista in questo caso difende è, insomma, un valore solo per lui. Quello della libertà di espressione è un valore per tutti. Ecco perché sarebbe una tragedia, per la civiltà non solo dell’Occidente, ma dell’umanità intera, l’autocensura dei giornali per quelle vignette. Torna al sommario