Primo passo: la fede Il primo passo che indirizza il pensiero verso

Primo passo: la fede
Il primo passo che indirizza il pensiero verso Dio è l'accettazione della rivelazione mediante la fede.
Cammino che può apparire contraddittorio, poichè consiste dapprima nell'accettare senza prove
quello che si tratta precisamente di provare. In realtà esso si spiega in s. Agostino, con la costante
preoccupazione di codificare i risultati della sua esperienza personale. Per lunghi anni egli ha
cercato la verità con la ragione; all'epoca delle sue convinzioni manichee 1, ha persino creduto di
averla trovata con questo metodo, poi, dopo una dolorosa parentesi di scetticismo2, tormentato dalla
disperazione di trovare il vero, ha constatato che la fede teneva in permanenza a sua disposizione
questa stessa verità che la sua ragione non aveva potuto cogliere. Non è forse meglio credere,
dunque, per sapere piuttosto che sapere per credere? È ciò di cui lo persuade per lo meno la propria
esperienza.
Secondo passo: l'evidenza razionale
Il primo consiglio che Agostino dà a chi intende provare l'esistenza di Dio, è di credrvi; il secondo
momento della prova così intesa consiste nella dimostrazione del fatto che l'uomo non è condannato
allo scetticismo. La verità è accessibile all'uomo.
Terzo passo: l'anima e la vita
Il pensiero, mentre si libera dal dubbio con la certezza della propria esistenza, si coglie in pari
tempo come un'attività vitale di ordine superiore, poichè pensare equivale a vivere. Ora, ogni vita
ha un proprio principio, cioè un'anima; il pensiero perciò appartiene all'ordine dell'anima.
La natura dell'anima è un problema di difficile soluzione. Ciò che conta però lo sappiamo, sappiamo
che l'anima è la parte superiore dell'uomo (l'unica cosa di cui l'anima è sicura è di essere un
pensiero), così, per quanto è dato all'uomo conoscerlo, l'uomo è un'anima ragionevole che si serve
di un corpo; e l'anima "una sostanza ragionevole fatta per governare il corpo": ciò sta a significare
che l'anima gli conferisce la vita. D'altronde in che modo una sostanza intellegibile possa essere
unita ad un corpo materiale per animarlo è per s. Agostino un profondo mistero. Invano si
cercherebbe nei trattati agostiniani concernenti l'anima la soluzione di questo enigma.
Agostino non ha invece il minimo dubbio quanto alla sussistenza futura dell'anima, perchè
l'immortalità viene assicurata dalla sua stessa sostanzialità: la verità è naturalmente indistruttibile;
l'anima, che è il soggetto della verità ("l'io penso"), deve quindi essere ugualmente indistruttibile.
QUARTO GRADINO: LA CONOSCENZA SENSIBILE
Quella della sensazione è una delle teorie che permettono di meglio discernere quanto vi è di
specifico nella concezione agostiniana dell'uomo. Secondo la sua concezione dell'unione dell'anima
col corpo, il rapporto tra queste due sostanze è un rapporto da operaio ad attrezzo o da artista a
1
2
Manicheismo: dottrina del sacerdote persiano Mani vissuto nel III secolo che si proclamò come colui che doveva
portare la dottrina cristiana alla sua perfezione. Ammette due principi, uno del bene o principio della luce, l'altro del
male o principio delle tenebre. Questi princìpi sono rappresentati nell'uomo da due anime, una corporea che è quella
del male, l'altra luminosa che è quella del bene. La prevalenza dell'anima luminosa si può raggiungere con una
ascesi particolare che consiste in un triplice sigillo: astenersi dal cibo animale e da discorsi impuri; astenersi dalla
proprietà e dal lavoro; astenersi dal matrimonio e dal concubinaggio.
Con questo termine, che significa ricerca, s'intende la tesi che è impossibile decidere sulla verità o sulla falsità di
una proposizione qualsiasi. Sesto Empirico ha definito con molto rigore la natura dello scetticismo affermando che
il principio fondamentale dello scetticismo è questo: «A ogni ragione si oppone una ragione di egual valore». Tale
principio inpedisce di prendere partito per un'affermazione qualsisasi o la sua negazione (sospensione del giudizio)
e perciò consente di mantenere l'imperturbabilità (atarassia). Lo scetticismo nell'antichità fu difeso nella forma più
rigorosa dalla scuola di Pirrone, alla quale esplicitamente si riattacca Sesto Empirico, la cui opere ci sono state
conservate. Egli ha fatto valere le sue istanze scettiche sui principali temi della filosofia antica e ha riaffermato il
carattere investigativo, sospensivo e dubitativo dello scetticismo.
strumento. La sensazione deve essere dunque un caso particolare degli usi che l'anima fa del proprio
corpo.
Ogni conoscenza di una qualsivoglia realtà materiale è generata simultaneamente da noi che la
conosciamo e dalla cosa stessa che viene conosciuta.
Ecco la definizione di Agostino: chiamiamo sensazione ogni passione subíta dal corpo quando, per
virtù sua, essa non rimane ignorata dall'anima e non le sfugge. Dire che le sensazioni sono passioni
subite dal corpo significa ricordare semplicemente il fatto ben noto che non vi è sensazione senza
un'azione esercitata dal di fuori da un oggetto su un organo sensibile: la luce sull'occhio, il suono
sull'orecchio ecc. Aggiungendo che solo per virtù sua, tale passione non sfugge all'anima, si
sottolinea il carattere immediato della conoscenza sensibile. Questa clausola significa infatti che la
passione subíta dal corpo è sufficiente da se stessa a causare la conoscenza che designiamo col
termine di sensazione, senza alcuna operazione mentale richiesta.
La passione subíta dal mio corpo è quindi l'occasione della mia conoscenza; ma non basta a
cuasarla da sé sola; non è quindi una sensazione.
La sensazione si viene a trovare completamente dalla parte della conoscenza e dello spirito, mentre i
sensibili, al contrario, si trovano totalmente dalla parte del corpo. Se diciamo che il miele è dolce,
non è perchè esso senta la dolcezza, ma perchè ce la fa sentire quando lo gustiamo; i sensibili
contengono quindi in se stessi la causa della sensazione, ma non sentono essi stessi in alcun grado.
Inversamente, la sensazione apparterrà totalmente all'anima, senza che il corpo la sperimenti in
alcun modo. Infatti, per Agostino, la nozione di un'azione esercitata dal corpo sull'anima è
contraddittoria. Nell'universo gerarchizzato com'è il suo, tutti gli esseri sono necessariamente
superiori o inferiori gli uni agli altri per il solo fatto che sono diversi e, ai suoi occhi, è un principio
primo che l'inferiore non possa agire in alcun modo sul superiore. E poichè supponiamo che
l'inferiore non possa agire sul superiore, occorre concludere che la passione subíta dal corpo è
incapace di produrre una sensazione nell'anima.
Ma allora come è possibile una sensazione in genere? Posto in questi termini, il problema della
conoscenza sensibile si ricollega a quello dei rapporti tra l'anima e il corpo. L'anima è creata da Dio
con il desiderio del corpo che essa vivifica. Ora, far vivere un corpo significa conferirgli la sua unità
mantenendo l'accordo delle sue parti e difendendolo contro tutte le azioni nocive che possono
minacciarlo dall'esterno. Consideriamo il tipo di sensazione più semplice e più manifestamente
legata al corpo, il piacere e il dolore. Mentre l'anima vigila per assicurare le funzioni del corpo che
essa vivifica, tale corpo rimane continuamente sottomesso all'azione di altri corpi. Quando
l'eccitazione esterna è nociva al corpo, essa determina un disagio che rende più difficile l'esercizio
delle sue funzioni; l'anima che tende senza sosta ad assicurarle, deve dunque fare uno sforzo per
eliminare questo ostacolo, e solo a gran fatica obbliga la materia corporea che le è sottomessa a
funzionare come deve. Essa non può rimanersene nell'ignoranza della passione corporea che esige
da essa questo sforzo eccezionale, ed è proprio questo che costituisce la sensazione di dolore. Si
chiama quindi sensazione di dolore l'atto di attenzione esercitato dall'nima su una modificazione
nociva del corpo che essa vivifica. Rimane da sapere se questa definizione possa essere
generalizzata.
Supponiamo un verso qualsiasi di una canzone recitato in nostra presenza. Non è un verso che per il
suo ritmo, e il suo ritmo stesso è fatto di numeri, poichè deve la sua qualità di verso ad un rapporto
numerico tra sillabe lunghe e sillabe brevi. A quali condizioni è possibile la loro percezione nel mio
pensiero? Innanzitutto i numeri costituenti questo verso esistono secondo due modi diversi: 1) si
trovano nel moto dell'aria che prodce il suono, cioè nel rumore materiale che sentiamo, e questo
costituisce il primo genere di numeri; 2) ma si trovano anche nel senso di chi li ode, e questo
costituisce un secondo genere di numeri. Di più, questo verso non ha in sè un'esistenza assoluta: 3)
senza una voce che sia anch'essa ritmata e numerica, mai l'impressione sensibile può diventare una
musica. Non è tutto: 4) non ci limitiamo ad ascoltare il verso pronunciato, ma giudichiao
spontaneamente il modo in cui viene pronunciato. Questo quarto ed ultimo genere di numeri è
implicato nei giudizi con cui decretiamo che un verso è pronunciato troppo lentamente oppure
troppo in fretta e che la dizione del suo interprete ci piace o meno.
Ebbene: nessuna esitazione è possibile quanto al più perfetto tra tutti i generi dei numeri; è l'ultimo,
perchè implica tutti gli altri, mentre gli altri non lo implicano necessariamente. L'impressione
spontanea, e anteriore a ogni riflessione, di piacere o di disagio che proviamo nel sentir pronunciare
un verso in modo conveniente o errato, non implica solo il fatto che i numeri esistono nell'anima
che li percepisce, ma che vi sono in modo particolarmente perfetto ed eminente, poichè questi
numeri vi sono in forma tale da permetterci di giudicare gli altri.
Gli altri quattro generi sono tutti sottomessi alla giurisdizione dei primi; alcuni di essi tuttavia
presentano quel carattere eminente di essere causa degli altri due; sono i numeri proferiti dalla voce
e sono quindi questi da porre al secondo posto. Nessuno porrà in dubbio, poi, che la vibrazione
dell'aria che costituisce il suono fisico e materiale produca un effetto sulle nostre orecchie; in realtà
qui la situazione è più delicata: l'orecchio è uno degli organi di un corpo animato, il che significa
che nel momento in cui quest'organo subisce la percussione dell'aria esterna, cioè il suono, l'anima
esercitava già in esso la sua azione animatrice. Ci si chiedeva come il corpo possa agire sull'anima,
mentre in realtà accade tutt'altra cosa. È l'anima che agisce e vigila in permanenza in ciascun organo
del corpo cui è presente. Tutto avviene come se l'attenzione dell'anima al corpo si portasse sulle
modificazioni favorevoli o sfavorevoli che questi subisce, di modo che i suoi atti di attenzione alle
modificazioni eccezionali che il corpo subisce fossero le nostre stesse sensazioni. Dottrina che
soddisfa appieno le esigenze di uno spiritualismo assoluto e che non misconosce tuttavia il fatto
che la sensazione costituisce, come per essenza, uno stato passivo.
L'anima è una forza spirituale sempre vigile e presente; per sentire, non deve ricevere nulla dagli
organi vivificati da lei; è sufficiente che le modificazioni subíte da tali organi non le sfuggano e
penetrino nel campo della sua attenzione.
Una volta spinta l'analisi fino a questo punto, vediamo emergere una conclusione: senza pensiero
non vi è sensazione. Torniamo all'esempio della sensazione sonora. Ecco un avibrazione esterna che
percuote l'aria e il cui movimento perviene al mio orecchio; essa modifica dunque lo stato in cui si
trova uno degli organi del mio corpo e, fin qui, non constatiamo nè sensazione nè la minima traccia
di pensiero: solo la materia viene a trovarsi interessata. Ma ecco che l'anima si volge verso questa
modificazione corporea e produce in sè la sensazione sonora, il suono udito. Adesso siamo passati
dal dominio del corpo a quello del pensiero. L'ascolto di un verso implica infatti il giudizio delle
qualità del ritmo secondo cui viene recitato; ma mai il mio orecchio mi consentirà di udire un verso;
non sento neppure una parola, nè un asillaba, poichè un asillaba è un suono di una certa durata, con
un inizio, una fase media e una fine. Quel che intendo dire, allorchè affermo di udire una sillaba
lunga, è dunque che la mia memoria conserva, alla fine della sensazione, il ricordo del suo inizio,
come tutti i momenti intermedi, e li assomma. Ora la memoria è un modo ancora più manifesto del
pensiero puro che la sensazione sonora elementare prodotta dalla nostra anima, e vediamo qui
esplodere tutto ciò che l'anima introduce infatti nella conoscenza sensibile, poichè non solo la
giudica, ma la crea. Sono questi ritmi interiori che, raccogliendo in qualche modo le sensazioni
sonori elementari nel momento in cui ognuna di esse sta per cadere nel nulla, le compongono e le
uniscono; come gli occhi riuniscono, in un solo campo visivo, una molteplicità di oggetti e di punti
dispersi nello spazio, la memoria, questa "luce degli intervalli di durata", fa coesistere sotto lo
sguardo della coscienza una successione di istanti che, senza di essa, si disperderebbero.
Agostino ha sempre presente al pensiero l'immagine dell'uomo qual era egli stesso poco prima, uno
che, non potendo elevarsi al di sopra dei sensi, negava la spiritualità dell'anima per attribuire
l'esistenza solo a ciò che i sensi possono percepire. Altra è la luce che si avverte con gli occhi (la
sensazione), altra quella con la quale gli occhi stessi sono capaci di avvertire, e questa seconda luce,
che veglia al di dentro, è quella dell'anima. Così, contro ogni aspettativa, l'analisi della sensazione ci
ha appena ricondotto dal di fuori delle cose al di dentro dell'anima.
QUINTO GRADINO: LA CONOSCENZA RAZIONALE
L'analisi della conoscenza sensibile ha appena posto in evidenza l'esitenza dell'anima e del pensiero
puro; l'analisi del pensiero puro porrà in evidenza l'esistenza di Dio.
I corpi non sono causa delle sensazioni, ma è l'anima che le trae da se stessa; l'anima è parimenti
causa delle proprie idee?
A prima vista, nulla sembra indicare che le cose stiano così. Piuttosto che sorgere dal profondo del
pensiero, le idee sembrano penetrarvi dal di fuori. In primo luogo perchè le idee di un uomo non gli
sono personali, ma comuni con altri uomini; occorre dunque che tali idee si scambino, si
trasmettano e passino da uno spirito ad un altro, il che suppone la possibilità di comunicarle. Inoltre
esiste un caso tipico in cui questo trasferimento delle idee da uno spirito in un altro avviene in
qualche modo sotto i nostri occhi: è il caso dell'insegnamento. Il maestro parla e l'allievo, che sente
il suo linguaggio, acquisisce le idee del maestro tramite le parole proferite: l'anima dell'allievo non
produce allora le proprie idee, sembra dunque contentarsi di riceverle.
Prendiamo il caso in cui il maestro deve insegnare il significato di una idea. Si sa in che modo i
maestri procedono: pronunziano una frase dove l'idea in questione si trova definita, gli uditori
comprendono, donde si conclude che i maestri hanno fatto penetrare una nuova idea nel pensiero
degli uditori. Errore totale, in realtà, poichè una simile esperienza dovrebbe portarci a concludere
esattamente il contrario: se prova qualcosa, il fatto che un allievo comprende il suo insegnante,
prova che questi non gli insegna proprio niente. Perchè delle parole presentino un significato allo
spirito di coloro cui sono indirizzate, occorre necessariamente ch'essi abbiano già presente al
pensiero questo significato, ed è proprio tale significato, con cui il loro spirito riveste le parole
udite, che fa sì che le parole in questione diventino loro intellegibili. Si prenda l'esempio classico
proposto da Platone nel Menone. Socrate interroga uno schiavo ignorante su problemi di geometria,
e constata che questi è capace di scoprire da solo la verità. Poichè questo ignorante può rispondere
quando viene interrogato, ciò significa che era già capace di rispondere prima d'essere stato
interrogato. Certo accade che dopo aver negata una proprosizione come falsa, l'interrogato la
riconosca in seguito come vera; ma questo è dovuto esclusivamente alla debolezza della sua vista,
che non gli consente di vedere d'un sol colpo l'insieme della questione. Per condurlo a discernere
completamente la luce interiore che lo illumina, occorre che gli si pongano una dopo l'altra
domande parziali, fino a che scorga finalmente il tutto; ma queste interrogazioni che lo guidano non
vengono fatte per introdurre in lui verità ignorate, queste lo invitano semplicemente a rientrare in sè
per rendersi edotto di verità che vi si trovano già.
Si considerino del resto i diversi atteggiamenti possibili di un uditore in presenza del maestro che
pretende di istruirlo; questi atteggiamenti non sono semplicemente passivi, ma attivi. In taluni casi
l'insegnamento del maestro fallisce completamente nel convincere l'uditore e nel generare in lui la
certezza; il discepolo crede o non crede, si forma un'opinione qualsiasi o rimane nell'indifferenza;
comunque nulla sa di sapere certo, non gli è stato quindi insegnato nulla. In altri casi invece
l'uditore constata che il maestro si sbaglia e che quanto gli è stato detto è falso: anche in questo caso
dunque non gli è stato insegnato nulla. Può infine succedere che il maestro abbia ragione e che il
discepolo lo constati; ma poichè l'uditore vede che ciò che gli viene detto è vero, ciò significa che lo
sa, e lo sa da sè, poichè nessuno può discernere la verità per lui nè al suo posto; anche in questo
caso, di conseguenza, il maestro non l'ha istruito.
In tal modo, da qualsiasi parte si affronti il problema, siamo costretti gradatamente alla seguente
conclusione, inevitabile e insieme paradossale: non si impara mai nulla. Questo non significa del
resto che l'insegnamento sia inutile, ma che i due atti dell'insegnare e dell'imparare consistono in
qualcosa di totalmente diverso da quanto si crede comunemente.
Innanzitutto, quando si tratta di spiegare il modo in cui lo spirito umano acquisisce le proprie
conoscenze, si parte dal parallelismo rigoroso tra il problema dell'acquisizione delle idee e quello
delle sensazioni. Che si tratti di conoscere uno degli oggetti dell'intelligenza oppure uno degli
oggetti dei sensi, la conoscenza intera si opera al di dentro e dal di dentro, senza che nulla venga
introdotto dall'esterno. Agostino sembra tendere a evidenziare da ogni ordine di conoscenza una
medesima legge, che potremmo definire la legge dell'interiorità del pensiero. All'esterno dell'anima
si possono e debbono avere degli informatori, dei monitori o dei segni che la invitano a rientrare in
se stessa per consultarvi la verità, ma la sua spontaneità specifica rimane inviolabile poichè, se si
impossessa di questi segni per interpretarli, è sempre dal di dentro che trae la sostanza stessa di
quanto sembra ricevere. Rimane da determinare quel che trova al di dentro di se stessa e che le
permette di trarlo da esso.
Data l'esperienza del Menone, il fatto è che un ignorante, interrogato adeguatamente, trova in sè le
verità intellegibili sulle quali viene interrogato. La verità la ragione umana la scopre in sè, purchè
indirizzi i suoi sguardi verso di essa. Ora, scoprire non è produrre, ed è per questo che Platone
adduce un fatto irrecusabile e la dottrina del Menone una verità definitiva: il modo in cui il pensiero
attinge la verità non permette di supporre che ne sia l'autore. Il pensiero che concepisce il vero trae
dunque da se stesso più di quanto contiene. Donde gli deriva questa ricchezza? La verità
permanente del platonismo è che l'uomo non fa la verità, la trova; ma c'è di più, la trova in
condizioni tali ch'essa si impone allo stesso modo e nel medesimo significato, al di là di tutte le
differenze di razza, di lingua e di temperamento, agli individui più totalmente estranei gli uni agli
altri e più completamente diversi. Come spiegare questo fatto sorprendente?
Consideriamo una qualsiasi verità sulla quale convengono dei pensieri umani: può essere quella di
una porzione numerica più semplice possibile: sette più tre uguale a dieci; può essere ancora quella
di una verità morale o filosofica, come la seguente definizione della Sapienza: una scienza il cui
possesso basterebbe per se stesso a conferire la felicità a coloro che la posseggono. Basta formulare
queste proposizioni e tutte le altre dello stesso genere, in presenza di altri uomini, perchè la loro
verità sia subito lampante a tutti gli spiriti.
Se si suppone il pensiero dell'uomo capace di creare da sé le proprie idee, tutto quest'ordine di fatti
diviene inintellegibile e la comunicazione tra gli spiriti si tramuta in un profondo mistero. Da una
parte infatti esistono tanti pensieri umani quanti sono gli uomini; dall'altra nessuno di noi può
vedere nulla nell'altrui pensiero, più di quanto gli altri nel nostro; purtuttavia questi pensieri
ermeticamente chiusi gli uni agli altri, si trovano ad avere contenuti identici. Se esistono quindi ad
esempio le leggi dei numeri, oppure una idea della Sapienza che tu possa vedere senza che io lo
sappia, o viceversa, e che siamo d'altronde incapaci di farci vedere gli uni agli altri, dato che non si
impara mai nulla dal di fuori e che nondimeno si trova ad essere identica in tutti, come supporre che
queste verità siano opera di ciascuno di noi?
Nell'ordine del sensibile risulta con evidenza che se i colori, i suoni, i contatti sono identici in
individui diversi, è perchè esistono sensibili indipendenti dalle sensibilità percipienti; c'è un sole ed
una luce comune a tutti gli sguardi, e se due viste possono vedere la stessa cosa, è perchè tale cosa
ne è distinta: avviene quindi lo stesso nell'ordine della conoscenza intellegibile: le verità percepite
contemporaneamente da spiriti diversi sono necessariamente distinte da ognuno di essi.
Diamo a certi uomini l'appellattivo di maestri perchè parlano e perchè tra il momento in cui parlano
e quello in cui li comprendiamo scorre in genere un tempo impercettibile, se non addirittura nullo.
Da ciò traiamo la conclusione che questi uomini ci hanno appena istruiti. Eppure non sono i loro
pensieri che scopriamo e non sono neppure essi che cercavamo di scoprire; - chi dunque può essere
così insensato da mandare il proprio figlio a scuola per imaparare ciò che il maestro pensa? In realtà
i maestri altro non fanno che esporre con l'aiuto di parole le discipline che fanno professione
d'insegnare; in seguito, quelli che vengono definiti allievi esaminano in se stessi se quello che i
professori dicono loro sia vero. Compiono questo esame con gli sguardi fissi, secondo la capcità
delle proprie forze, sulla verità interiore, ed è così che si istruiscono costatando da se stessi che
quanto vien loro detto è vero. Chi è quindi il vero maestro? Forse il professore? Ma il professore,
rispetto alla verità, si trova nella medesima situazione del discepolo. Il vero maestro è la Verità che
non è nè quella del professore nè quella del discepolo, ma comune ad ambedue, presente nell'uno e
nell'altro, e che istruendoli allo stesso modo, li conduce necessariamente a trovarsi d'accordo.
In ogni conoscenza vera, si incontra un elemento che non è nè nelle cose, nè in noi stessi, ma in una
sorgente a noi più interiore del nostro proprio interiore. La verità non ha origine dal di dentro di
noi, anche se è lì che la troviamo e necessariamente per di lì passa; essa viene da Dio.
Dio è il maestro interiore. Per far capire il suo pensiero su questo punto, Agostino usa quasi sempre
un'altra metafora, quella dell'illuminazione. Qual è il significato di questa metafora? Essa suppone,
dapprima, che l'atto con cui il pensiero conosce la verità sia paragonabile a quello con cui l'occhio
vede i corpi; suppone inoltre che, come gli oggetti debbono essere resi visibili dalla luce onde
essere percepiti dalla vista, le verità debbono essere rese intellegibili da una sorta di luce per essere
colte dal pensiero. Suppone infine che, come il sole è la sorgente della luce corporea che rende
visibili le cose, Dio sia la sorgente della luce spirituale che rende le scienze intellegibili al pensiero.
Dio è perciò per il nostro pensiero ciò che il sole è per la nostra vista; come il sole è sorgente della
luce, Dio è sorgente della verità.
Ciò che il nostro intelletto vede nella luce dell'illuminazione e non con la propria, è la verità dei
suoi giudizi, e non il contenuto delle proprie idee.
Attivo il pensiero agostianiano lo è dapprima nei confronti del corpo che anima e dietro i
suggerimenti del quale produce le sensazioni; lo è poi rispetto alle immagini particolari così
generate, che associa, dissocia, raffronta e nelle quali legge l'intellegibile; ma presto compare nel
pensiero qualcosa di cui non possono rendere ragione nè gli oggetti da esso pensati, nè lo stesso
pensiero che li pensa, vale a dire il giudizio vero, con il carattere di necessità che esso implica. La
verità del giudizio, questo è l'elemento che, non potendo produrre, il pensiero deve ricevere.
Per comprendere esattamente il pensiero di Agostino, occorre quindi fermare l'attenzione su questo
elemento formale di necessità implicato in ogni verità, poichè a quanto sembra, è questo l'esatto
punto di applcazione della illuminazione divina. Sento un uomo che mi parla e mi espone le proprie
idee; mi dice che comprende questo e quello, che vuole tale o tal'altra cosa; lo capisco, formo di
conseguenza dei concetti e persino gli credo, ma non so se ciò sia vero, poichè non ho alcun mezzo
per verificare quanto mi dice: l'illuminazione divina non svolge alcun ruolo in questo genere di
conoscenza in cui non appare la verità. Ma ecco che il mio interlocutore si mette a parlare del
pensiero umano in generale; immediatamente il mio punto di vista cambia. So che quello che dice è
vero e lo approvo; oppure so che è falso e lo confuto. È prorpio qui che interviene l'illuminazione
divina, perchè qui si tratta di verità. Non dobbiamo più credere semplicemnte al fatto che tale uomo
pensa a questo in particolare, ma sapere ciò che deve pensare l'uomo in generale. Donde ci viene
dunque la certezza di quello che il pensiero umano deve essere? Non deriva dall'esperienza, poichè
non abbiamo visto con i nostri occhi un certo numero di pensieri per formarci l'idea di ciò che deve
essere il pensiero e, inoltre, l'esperienza interna o esterna può certo spiegare la formazione dell'idea,
ma in nessun caso può rendere ragione della sua necessità.
Facciamo un altro esempio: mi ricordo delle mura di Cartagine che ho visto, immagino quelle di
Alessandria, che non ho mai visto; per far questo è sufficiente il mio pensiero, senza l'ausilio
dell'illuminazione divina; penso però che i ricordi che mi rappresentano in tal modo Cartagine sono
superiori alle immagini che mi rappresentano Alessandria: questo giudizio di verità, fondato su
regole incorruttibili e inviolabili, viene da una zona che sta più in alto del mio pensiero; insieme alla
verità necessaria del giudizio è dovuta intervenire l'illuminazione divina.
Una qualsisasi conoscenza suppone l'intervento dell'illuminazione divina non appena riveste un
carattere necessario, perchè nessun numero di osservazioni, per quanto grande sia, ci porta a
dedurre, da ciò che gli uomini sono, ciò che un solo uomo deve essere, per soddisfare alla sua
definizione. Parimenti ancora, contare empiricamente, delle unità sensibili è una cosa, concepire col
pensiero l'unità intellegibile è un'altra, e irriducibile alla prima, poichè ogni corpo sensibile è
dvisibile, quindi in una realtà molteplice, mentre l'unità intellegibile ci insegna quello che la vera
unità deve essere: l'assenza totale di ogni molteplicità.
Agostino esclude dalla illuminazione divina tutto ciò che può avere un'origine empirica in un
concetto. Quando riferisce casi di nozioni dipendenti dalla illuminazione divina, i primi che gli
vengono in mente sono: la giustizia, la castità, la fede, la verità, la carità, la bontà ed altri dello
stesso genere, che vertono su puri intellegibili. Là dove l'intelletto applica l'illuminazione divina a
concetti sensibili, come quello di arco o di uomo, non è per formarne la nozione, ma per formularne
la legge, o per definirne il tipo necessario, che nessuna esperienza sensibile ci può rivelare.
L'esperienza, non l'illuminazione ci insegna che cos'è un arco, un uomo; l'illuminazione, non
l'esperienza ci insegna quel che un arco perfetto o un uomo perfetto debbono essere.
Quel che è certo è che nessuna delle nozioni che dobbiamo all'illuminazione contiene, in quanto è
dovuta all'illuminazione, un solo elemento empirico. Quel che è ugualmente certo, è che tutte queste
nozioni non hanno altro contenuto che il giudizio con cui vengono esplicitate: la giusitizia è rendere
a ciascuno quel che gli è dovuto; la sapienza è preferire l'eterno al temporaneo; la carità amare Dio
sopra ogni altra cosa e così via. S. Agostino qualifica queste nozioni come "regole" secondo le quali
noi giudichiamo. L'idea divina non è una conoscenza che passa bell'e fatta da Dio nello spirito
umano: è una legge che lo lega e che stringendolo sotto la propria necessità, gliela conferisce.
Quando Agostino parla di conoscenza con le ragioni eterne o nelle ragioni eterne, si tratta, in
definitiva, di conoscenza naturale. Ma provare che S. Agostino ci accorda un intelletto e una
conoscenza naturale non prova affatto che consideri come propria all'uomo la luce con cui
l'intelletto conosce il vero. Solo Dio è questa luce, mentre il nostro intelletto non è che il ricevente
della verità.
La luce intellegibile con la quale percepiamo la verità non appartiene per natura al nostro intelletto;
essa tocca la nostra anima, ma resta privilegio di Dio, perchè è Dio. Dio, luce intelelgibile, ci fa
conoscere il vero creando in noi una luce creata, la stessa del nostro intelletto, ma questa luce
intellegibile creata, non essendo di per sè nè immutabile nè necessaria, non può in alcun caso essere
considerata come avente in sè sia pur la ragione prossima dell'immutabilità o della necessità dei
giudizi veri. La verità anche quando è creata nell'uomo, non è mai conosciuta nell'uomo, ma in Dio.
La vita dell'anima
L'anima cerca se stessa. Chi parte alla ricerca d'un oggetto sconosciuto, è quasi sempre mosso da
quanto ha inteso dire di quell'oggetto. Ma nel caso dell'anima c'è qualcosa di più. In questo caso
particolare e veramente unico, si stenta a concepire che l'anima ignori se stessa, poichè per cercarsi,
occorre ch'essa pensi e poichè non può cercarsi senza sapere che si cerca, non può cercarsi senza
conoscersi. Il problema dunque non è tanto sapere qui donde l'anima possegga questa prima
conoscenza di sè che la stimola a cercarsi, quanto sapere come può ignorarsi e doversi cercare.
Una cosa è ignorare una conoscenza, altra cosa possedere tale conoscenza e averla
temporaneamente dimenticata. Potrebbe quindi darsi che l'origine del movimento che porta l'anima
a cercare se stessa sia la presenza latente del proprio ricordo, cui non presta attenzione, ma che si
ripropone ad essa e cerca di farsi ritrovare. Come si sarebbe dimenticata? Il fatto è che l'anima non
può ignorarsi fin tanto che vive secondo la propria natura e che custodisce il posto che le compete,
al di sotto di Dio e al di sopra dei corpi. Se quindi l'anima non cerca il bello e il bene, se non in Dio,
contentandosi di essere bella e buona per somiglianza alle idee divine che la dominano, essa si
mantiene nel suo posto e non rischia di dimenticarsi. Non appena invece pretende di essere
autosufficiente e avere da sè quella perfezione che non può ricevere se non da Dio, essa si distoglie
da lui, si rivolge verso i corpi e diminuisce di perfezione nella misura in cui pretende di crescere,
poichè una volta allontanatasi da Colui che è il solo autosufficiente, essa non può essere sufficiente
a se stessa, nè alcun'altra cosa può contentarla. A partire da questo momento, infatti, privata
dell'unico bene che potrebbe soddisfarla, vive in uno stato di perpetuo bisogno e di costante povertà.
Avvertendo che conoscenze sensibili non le sono sufficienti, se ne preoccupa, s'inquieta dei piaceri
stessi che ne trae, ne cerca altri che non l'appagano di più, ma la lasciano più affamata ancora e si
logora da sè di questa rincorsa vertiginosa di beni che eccitano il desiderio, invece di calmarlo. A
forza di produrre sensazioni, confonde se stessa con quello che può sentirsi. Costretta a trarre dalla
propria sostanza un contenuto delle immagini materiali che essa produce. L'anima finisce per
ritenenrsi per quello senza cui non è più capace di pensarsi.
Tuttavia, dicendo che l'anima è stimolata a cercarsi con il ricordo latente della propria natura
spirituale, noi supponiamo che un ricordo dimenticato possa ancora sussistere e persino agire. È
quindi il problema della memoria che si solleva. Può accadere che invece di cercare con l'aiuto
della memoria un oggetto smarrito, lo cerchiamo all'interno della nostra stessa memoria. È quanto
avviene allorché ci si sforza di rintracciare un ricordo. Quale sia tale ricordo, lo si ignora, proprio
perchè lo si cerca; è quindi dimenticato; e nondimeno ogni volta che un ricordo diverso si presenta
la pensiero, esso lo scarta, fino a quando si presenta il ricordo vero a cui finalmente dice: eccolo.
Ma per dirlo, occorre che il pensiero lo riconosca, e perchè lo riconosca occorre che se ne ricordi.
Lo sforzo dell'nima alla ricerca di se stessa non sarebbe per caso un fatto dello stesso genere? Sì, e
qualcosa di più. L'anima cerca di riconoscere la propria natura al di là dello strato di sensazioni con
cui è coperta. Essa ignora dunque qual è la sua vera natura poichè la cerca; ma sa almeno che
sarebbe bene e desiderabile conoscerla, poichè si sforza di scoprirla. Dove lo ha appreso? Da chi sa
che sarebbe bello conoscersi? Occorre certamente che in fondo alla sua memoria sia celata questa
certezza, che, a meno di conoscersi, non raggiungerà mai un certo fine che deve essere raggiunto,
quale la pace, la perfetta sicurazza di sè, in breve la beatitudine. L'anima non è soltanto chiamata
dalla sua presenza latente, ma da un ideale nascosto di pace e di felicità perfette.
Ogni uomo vuole la felicità e non c'è nessuno che non la voglia; ciascuno sa che si tratta di una cosa
eccellente in sé: occorre dunque che tutti ne abbiano una certa conoscenza e sappiano almeno
confusamente cosa sia. In realtà, per poco che si rifletta sul significato di questa nozione, si scopre
che essa è inseparabile da un'altra, la nozione di verità. Nulla infatti gli uomini preferiscono alla
conoscenza del vero, a tal punto che l'idea di una beatitudine perfetta, dove fossimo nel contempo
felici e nell'errore, è per noi una contraddizione in termini.
Appare ugualmente chiaro, d'altra parte, che se la beatitudine implica la verità, ogni verità non è
sufficiente a generare la beatitudine. Numerose sono le conoscenze vere, ma nessuna è sufficiente a
soddisfarci. Da qui quella inquietudine che muove l'anima a passare senza sosta da oggetto a
oggetto, come se la piena soddisfazione, che una conoscenza non le ha offerto, possa esserle data da
un'altra, mentre in realtà, per quanto duri questa ricerca, supponendo anche che ci conduca da
verità a verità, non vi è pace per il pensiero e quindi nemmeno beatitudine. Questa inquietudine, che
turba e muove senza sosta l'anima umana, non avrebbe fine finché non venisse raggiuta una certa
verità, che dispensasse da ogni ricerca ulteriore, perchè dispenserebbe da ogni altra verità. Allora
solamente la pace seguirebbe all'inquietudine, e il riposo al movimento.
Quello che la nostra anima persegue realmente quando cerca di conoscersi, è una verità che non
sarebbe desiderata e cercata se non per sè, una verità-fine, rispetto alla quale ogni altra verità,
persino la verità dell'anima, sarebbe solo un mezzo. Come è possibile questa presenza? È quanto
solo il ricorso alla nozione di memoria consente di spiegare.
Se ci atteniamo al significato usuale del termine, la memoria designa unicamente l'attitudine a
conservare i ricordi del passato e a riprodurli quando ne abbiamo bisogno. Anche la semplice
memoria sensibile ha soprattutto questo di notevole: avere presenti e a costante disposizione del
pensiero conoscenze che il pensiero possiede senza averne coscienza. Essa appare ancora più
sorprendente se passiamo dall'ordine sensibile a quello intellegibile. Siamo sorpresi di trovare tanti
ricordi conservati in noi, come se gli oggetti stessi fossero incorporeamente trasferiti nel nostro
pensiero; per lo meno sappiamo da dove queste conoscenze ci sono arrivate, poichè abbiamo
percepito questi oggetti con i sensi. Ma quando cerco e trovo nel mio pensiero conoscenze
puramente astratte, quali l'idea di essenza o di causa, per dove vi sono entrate? Attraverso nessuno
dei miei sensi, evidentemente; e pur vi sono. Per far posto alle conoscenze di questo genere siamo
dunque costretti a estendere il concetto di memoria a tutto ciò che il pensiero apprende dal Maestro
interiore, vede nella luce di Dio, oppure può scoprire con un'apprensione immediata di se stesso.
Pertanto il carattere di passato cessa di essere costitutivo del ricordo e poichè l'anima si ricorda di
tutto ciò che è presente senza che ne abbia coscienza, si può dire che esiste una memoria del
presente, persino molto più vasta di quanto sia la memoria del passato. Tutto quello che sappiamo
senza pensarci rientra in questo campo, di modo che qui più che mai l'anima appare come incapace
di sondare la propria profondità.
Dilatata in tal modo dal passato al presente, e dal ricordo delle cose a quello delle idee, quindi a
quello di se stessa, la memoria è in grado di dilatarsi ancora al punto di contenenre Dio?in un primo
senso, che non costituisce difficoltà, si può rispondere affermativamente. A partire dal momento in
cui un uomo conosce l'esistenza di Dio, sia con la fede che gliela insegna, sia con la ragione che
gliela dimostra, questa conoscenza si trova nella sua memoria come tutte quelle dello stesso genere,
ed egli se ne ricorda. Il problema è molto più difficile invece se si tratta di comprendere nella
memoria Dio stesso, e non più semplicemente il ricordo della nostra idea di Dio. Da una parte
infatti Dio non può essere nella nostra meoria delle cose corporee, poichè non è un corpo; nè nella
nostra memoria di noi stessi, poichè non è il nostro spirito, ma il Signore dello Spirito. Se Dio è
veramente presente all'anima come il Maestro che la istruisce e la luce che la illumina, persino
quando l'anima non presta attenzione al suo insegnamento né volge gli occhi alla sua luce, non
siamo forse in presenza, una volta di più, di uno di quei ricordi del presente, di cui abbiamo appena
parlato?
Per superare quest'ultimo passo, Agostino si trova portato ad estendere la memoria al di là dei limiti
stessi della psicologia, fino al metafisico. Se consideriamo l'anima come una specie di ricettacolo in
cui Dio sarebbe contenuto con molte altre presenze latenti, va da sé che Dio non potrebbe trovarvisi
racchiuso; Dio non è nel nostro pensiero come una cosa iglobata, e nemmeno come un ricordo
profondo che il pensiero talora smarrisce e talora ritrova; in una parola, non in noi, ma solo in Dio
troviamo Dio. Eppure, in un altro senso, poiché non lo troviamo in lui se non alla condizione di
passare attraverso ciò che vi è in noi di più profondo, occorre ammettere quasi una specie di sfondo
metafisico dell'anima, e quasi un luogo ancora più segreto di altri, che sarebbe in qualche modo
l'abitacolo stesso di Dio. Prendere coscienza della presenza trascendente di Dio nell'anima che
istruisce e illumina, presenza permanente, anche se sperimentata troppo raramente dall'uomo, è
proprio quello che s. Agostino chiama ricordarsi di Dio.
Ricordarsi di Dio non significa dunque coglierlo come un'immagine passata, ma prestare attenzione
alla sua presenza perpetua. La memoria di Dio nell'anima non è dunque che un caso particolare
dell'onnipresenza di Dio nelle cose; ma è una caso particolare al punto di essere unico, poichè è il
solo in cui la creatura prende intima coscienza di questa presenza divina. Dio è con tutte le cose;
l'uomo solo, se vuole, può essere con Dio, poiché questa presenza universale di Dio nelle creature la
sperimenta e la conosce solo l'uomo.
Così e soltanto così, la teoria agostiniana della conoscenza e la prova dell'esistenza di Dio che essa
regge trovano il loro autentico significato. Vedervi un concatenamento di concetti astratti
artificiosamente associati in vista di rendere evidente l'esisitenza di Dio, significa interpretare male;
proprio al contrario, il punto di vista di s. Agostino suppone che tale concatenamento di concetti e il
movimento stesso del pensiero che li lega, non possono essere resi intellegibili se non dalla
presenza di Dio che muove il pensiero verso sè. È Dio che l'anima cerca senza saperlo quando cerca
se stessa e, al di là di se stessa, la verità beatificante che ogni uomo desidera, è verso di lui che
tende al di là degli estremi confini della sua memoria ed è lui che si sforza di cogliere nella sua
sussistente verità; ma essa non tende verso di lui se non perché egli è con essa e la vivifica dal di
dentro come l'anima stessa anima il corpo ch'essa anima. Principio beatificante dell'anima, che è a
sua volta il principio della vita, quindi Dio è la vita della nostra vita: vita vitae meae; interiore alla
nostra anima, la quale è ciò che vi è in noi di più interiore e superiore alla verità, che è quanto di più
alto vi sia nel nostro pensiero, Dio è al di là di quello che abbiamo più profondo e superiore e quello
che abbiamo di più alto. Dio è quindi, in una parola, la luce del nostro cuore, il pane nutriente della
nostra anima, la virtù fecondante del nostro spirito e il seno del nostro pensiero: più che provarlo si
tratta per noi di trovarlo.
Questa è anche la cima da cui ridiscendono, come per due pendii uguali, la metafisica e la morale di
s. Agostino. L'uomo soffre di un'insufficienza radicale, in quanto creatura tratta dal nulla. Non
essendo autosufficiente nell'ordine dell'essere, non lo può essere nè nell'ordine della conoscenza nè
in quello dell'azione; ma questa stessa carenza di cui soffre, lo orienta verso Colui che solo può
colmarla. Da qui l'inquietudine profonda che travaglia senza tregua l'uomo, ma che lo salva, in
quanto, fatta per Dio, essa non gli pèermette di trovare la pace e il riposo se non in Dio solo. Ecco al
verità basilare, frutto della sua dolorosa esperienza, che Agostino si sforza di mettere in evidenza in
tutti i campi della vita interiore.