Proposta di documento a tutta la rete Attac sulla guerra

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ATTAC ITALIA - www.attac.it - Sezione Documentazione
Proposta di documento a tutta la rete Attac sulla guerra
Guerra globale permanente
di ATTAC Italia
(data di pubblicazione su www.attac.it 20 settembre 2002)
11 settembre 2001: gli attentati su New York e Washington provocano migliaia di vittime –
colpendo per la prima volta in maniera diretta ed eclatante i simboli del potere economico e
militare mondiale.
7 ottobre 2001: con i primi bombardamenti aerei sull’Afghanistan prendono il via le operazioni
militari degli Usa e dei loro alleati – quelle operazioni militari più volte annunciate dal presidente
George Bush jr., chiamate “giustizia infinita” e poi “libertà duratura”, considerate la “risposta
necessaria” alla “sfida terroristica”.
Ma è davvero così? la “guerra globale permanente” che si mostra ormai nella sua forma più
evidente, è veramente una “guerra al terrorismo”? dobbiamo davvero credere che sia la “risposta”
agli attentati del 11 settembre?
La realtà è ben diversa. La guerra permanente – la “guerra civile planetaria”, come è stata
giustamente definita – comincia ben prima del 11 settembre 2001: l’abbiamo già vista all’opera
oltre 10 anni fa contro l’Iraq – prima con i “soliti” bombardamenti aerei e poi con il criminale
embargo che ha provocato oltre un milione di morti; si è poi spostata in Africa, con lo sbarco dei
marines e delle altre truppe occidentali in Somalia, ma anche nei tanti conflitti “locali” o “etnici”,
quasi sempre diretti e/o fomentati dall’esterno; non ha dimenticato di percorrere l’Europa, con gli
interventi nei Balcani – fino al bombardamento della Serbia e l’occupazione militare di fatto nei vari
stati risultato della dissoluzione della Jugoslavia; ora torna in Asia Centrale e in Medioriente - con
l'azione in Afghanistan, l'annunciato attacco all'Iraq ma anche con la quotidiana guerra contro la
popolazione palestinese), ma anche in America Latina (dove il “Plan Colombia” è il preludio a nuovi
interventi militari degli Stati Uniti) e nel resto dell’Asia (partendo dalle Filippine?).
E’ una guerra preparata con le strategie politiche e militari che dalla fine degli anni ’80 si sono
affermate in Occidente.
La nuova egemonia Usa che, riducendo le proprie forze di stanza in Europa, rilanciava la sua
“presenza avanzata”, costruendo nuove basi e rafforzando quelle strategiche – in particolare nel
Medioriente e nel Golfo Persico; una strategia che si può leggere nella Defense Planning Guidance
del 1994, dove si dice che "è di fondamentale importanza preservare la Nato quale principale
strumento della difesa e della sicurezza occidentali, così pure quale canale dell'influenza e della
partecipazione statunitensi negli affari della sicurezza europea…", e ancora "nel Medioriente e
nell'Asia sud-occidentale il nostro obiettivo generale è quello di rimanere la potenza esterna
predominante nella regione e preservare l'accesso statunitense e occidentale al petrolio della
regione…"; e ancora nel 1997 la National Security Strategy dichiarava che l'obiettivo degli Stati
Uniti era quello di promuovere "un mondo formato da società aperte e mercati aperti che
sostengano gli interessi degli Usa e siano coerenti con i valori americani", una mondo "in cui
nessuna regione sia dominata da una potenza ostile agli Stati Uniti" e che per questo "le Forze
Armate degli Usa conducono operazioni di bassa intensità al fine di far valere gli interessi nazionali.
Queste operazioni comprendono tutti i tipi di intervento militare … inclusa l'assistenza umanitaria, il
peacekeeping, il soccorso nel caso di disastri, le zone di non-volo, il rinforzo ad alleati chiave,
attacchi limitati e interventi veri e propri"; concetti ribaditi ancora nel settembre del 2001 nella
Quadriennial Defense Review che sottolinea ancora una volta che gli Stati Uniti devono "mantenere
la loro supremazia militare in aree chiave mentre sviluppano nuove aree di vantaggio e negano
vantaggi asimmetrici agli avversari", perché "la potenza globale … ha interessi geopolitici in tutto il
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mondo" e per questo "in particolare si appoggia sulla deterrenza avanzata in tempo di pace in aree
critiche del mondo e richiede la capacità futura di presenza avanzata e basi".
Una strategia che prevede una nuova funzione della Nato che, scomparso il suo avversario storico
rappresentato dal Patto di Varsavia, assume un ruolo più “globale” rivedendo il suo “concetto
strategico” al vertice di Washington del 1999, prevedendo non solo di rendere esplicita la
possibilità di missioni "non previste dall'articolo 5" (del Trattato del Nord Atlantico), cioè non
limitate alla difesa dei confini degli stati alleati ma senza limiti geografici, giuridici e di motivazioni ma viene previsto che la risposta ad un generico attacco esterno richieda la solidarietà dei paesi
dell'Alleanza. In questo modo viene sancita, senza il voto dei Parlamenti nazionali, la scelta
autonoma della Nato per operazioni definite ad esempio “out of area”. La Nato assume sempre più
un ruolo centrale e autonomo nel mantenimento dell'ordine globale.
Anche gli eserciti nazionali occidentali subiscono le conseguenze di queste nuove strategie
trasformandosi completamente in senso professionale per meglio assolvere i loro compiti
interventisti. Del resto nel Nuovo Modello di Difesa italiano, redatto nel 1991, si scriveva
chiaramente che le forze armate dovevano passare dalla semplice “difesa della patria” alla “tutela
degli interessi nazionali ovunque essi siano minacciati”. Un concetto che vale per tutti i paesi
dell’Unione Europea: in un documento comune del 1995 si leggeva chiaramente che “la sicurezza
dell’Europa non si limita alla sicurezza in Europa, e l’Europa ha acquistato le capacità di portare il
suo contributo alla costruzione di un ordine mondiale giusto e pacifico”. Per questo a Helsinki nel
1999 e a Nizza nel 2000 è stata decisa la costituzione di una Forza Europea di Rapido Intervento e
di “mettere a disposizione fino a 5000 poliziotti per missioni internazionali per tutti i tipi di
operazioni di prevenzione dei conflitti e gestione delle crisi”. Ma chi è il nemico? Sempre nel
documento del 1995 si leggeva che “il rischio per la sicurezza proviene principalmente dalla
minaccia dei movimenti estremisti, dall’asimmetria tra Europa e nord dell’Africa in termini
economici e nella crescita della popolazione”. Così il nemico è chiaro: sono i migranti, le
popolazioni del Sud e i poveri di ogni genere.
Tutte queste strategie rappresentano nell’insieme un rilancio globale dello strumento militare, che
ha riportato la guerra al centro della politica: non tanto e non più mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali, ma strumento di dominio e controllo dell’Occidente sul resto del
mondo, della “civiltà” (capitalistica) contro la barbarie, dei privilegi dei forti contro i più deboli.
In questo modo è stata ridefinita, compiutamente e dopo la scomparsa dell’Urss, una nuova
“missione” per l’Occidente.
La prima conseguenza è stata un generale riarmo dei paesi Nato che vede nella proposta di scudo
spaziale la punta emergente di un nuovo assetto geopolitico che travolge i precedenti trattati
internazionali sul disarmo nucleare controllato e tenta di dare alla Nato una nuova forma di
onnipotenza militare.
Nella stessa direzione vanno il sabotaggio da parte degli Stati Uniti del trattato ABM che regolava
la riduzione degli armamenti Russia-America, la violazione del trattato sulla non-proliferazione dei
test atomici e tutta la nuova politica di Bush di rigetto della messa al bando sia delle armi
batteriologiche e chimiche, sia delle mine antipersona, sia delle armi all'uranio impoverito.
La guerra, che ricomincia dall’Afghanistan, assume in questo modo un carattere “permanente”,
non più quindi “prosecuzione della politica con altri mezzi” ma forma stessa della politica in questa
fase del processo di globalizzazione.
I paesi che guidano questo processo usano gli attentati di New York e Washington per accelerare
quel processo politico e militare di dominio e controllo, in una fase critica per questo stesso
processo. Come scriveva Thomas Friedman nel 1999 “perchè la globalizzazione funzioni, l’America
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non deve temere di comportarsi da superpotenza qual è. La mano nascosta del mercato non può
funzionare senza il pugno nascosto - McDonald’s non può prosperare senza McDonnell Douglas, il
costruttore del F15. E il pugno nascosto che mantiene il mondo sicuro per la tecnologia della
Silicon Valley si chiama Forze Armate degli Stati Uniti”.
Stati Uniti e alleati si trovano infatti di fronte ad una triplice “sfida”.
In primo luogo il processo di globalizzazione mostra chiaramente i segni della crisi – la crisi del suo
stesso modello: recessione economica anche nei paesi forti; distruzione di intere economie
periferiche ma non secondarie, prima in Asia e poi in America Latina (fino al caso dell’Argentina);
impossibilità di mantenere le illusioni create dalla “new economy” e dalla mercificazione di ogni
forma di vita e di rapporto sociale. Il modello di “sviluppo” neoliberista non è più in grado di
funzionare. Per poter allora preservare il modello di vita e i privilegi delle classi dominanti dei paesi
del centro diventa “necessaria” la guerra all’intera umanità. In questo modo la guerra riproduce e
rende più profondi i privilegi e l’esclusione.
Questa crisi comporta anche il ri-emergere di frizioni tra i paesi economicamente forti – tutti
egualmente interessati a conquistare posizioni dominanti sui vari mercati del pianeta e quindi a
poter sfruttare liberamente le risorse del pianeta stesso. Queste frizioni si mostrano in particolare
nel rapporto di cooperazione/competizione all’interno degli organismi che gestiscono le politiche
neoliberiste - da WTO a Fondo Monetario e Banca Mondiale - e sul campo con gli accordi e gli
scontri tra paesi e multinazionali.
E’ in questo quadro che diventa centrale il controllo sulle regioni fondamentali per la produzione e
ancor più per i flussi delle risorse energetiche, ed è per questo che il “grande gioco” in Asia
Centrale entra nella sua fase più acuta, quindi con una connotazione sempre più militare.
I paesi occidentali, con gli Stati Uniti in prima fila, cercano di garantirsi il controllo di quei flussi nei
prossimi vent’anni - decisivi per la transizione ad un era “post-petrolifera” e per la gestione della
scarsità delle risorse, in competizione con la crescita di domanda di accesso a servizi energetici del
Sud del mondo. Una strategia chiaramente espressa, ad esempio, nel piano Bush-Cheney per
l’energia del giugno 2001 in cui si sollecitano in maniera pressante i “membri del WTO ad aprire
mercati alla partecipazione privata in un’intera gamma di servizi relativi all’energia,
dall’esplorazione al cliente finale [per] assicurare un accesso non discriminatorio dei fornitori
stranieri di servizi energetici” assicurando “regolamentazioni favorevoli alla concorrenza sui servizi
energetici”. Un piano che prevede il controllo della produzione e dei flussi delle risorse energetiche
soprattutto per tenere sotto pressione i paesi emergenti e i nuovi consumatori dei prossimi
vent’anni.
Lo stesso discorso vale per le altre risorse vitali, in primo luogo l’acqua, che diventano il terreno
per conflitti in prospettiva sempre più acuti.
La mappa dei conflitti, e ancor più degli interventi militari occidentali (volta per volta definiti “di
pacificazione” o “umanitari”, o ancora “contro il terrorismo”) sempre più si sovrappone alla mappa
delle risorse e ai punti di frattura all’interno di questa.
Lo stato di guerra permanente rappresenta anche una risposta utile per intervenire nella crisi
finanziaria ed economica, sia perché – attraverso il concetto della “emergenza” – accentua la
precarizzazione degli ambiti di vita in tutto il pianeta, anche dal punto di vista sociale; sia perché
permette un maggior intervento dello stato a sostegno delle imprese, prima di tutto attraverso lo
sviluppo esponenziale delle spese militari e più in generale dell’estensione dei settori protetti dalla
clausola della “sicurezza nazionale”. Si tratta, in sintesi, di permettere una sovvenzione pubblica
esclusiva alle imprese militari in senso largo (una sorta di clausola “keynesiana” di guerra) e allo
stesso tempo di operare una selezione e un maggior controllo sull’attività e sulla sopravvivenza di
diversi paradisi fiscali e Stati disponibili al riciclaggio. Un liberismo finanziario adattato alle
necessità della centrale di comando
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In secondo luogo, come è stato scritto, il processo di globalizzazione provoca i terremoti da cui
originano le guerre contemporanee – “sfregando e sommuovendo le due grandi faglie tettoniche
della ‘integrazione economica’ e della ‘autodeterminazione politica’ su cui sono stati costruiti il
Novecento e la democrazia”. Da questo nascono la decina di conflitti armati “locali” o “etnici”, figli
dei processi di internazionalizzazione e privatizzazione che sconvolgono il pianeta e provocano la
crescita dei vari “signori della guerra” – non quindi “avversari del sistema” ma suoi figli legittimi: è
in quel sistema, infatti, che vogliono trovare il loro spazio, controllando territori e flussi economici
(legali e illegali, se ancora si può fare questa distinzione).
In questi conflitti il centro gioca una parte fondamentale – ora attizzando e armando i vari
contendenti, ora intervenendo militarmente per riportare “ordine” – con il fine di controllare e
stabilizzare a proprio favore le regioni interessate.
E’ in questo quadro che nascono anche le strutture come “Al Qaeda”: non una “rappresentanza
degli oppressi e degli sfruttati” (a nome dei quali impropriamente vogliono parlare), non il frutto
delle ingiustizie planetarie (dalle quali però traggono nutrimento) e nemmeno una “alternativa al
sistema”, ma il risultato dei fermenti che si agitano nelle classi dirigenti e nelle élite politicoeconomiche di paesi importanti (pensiamo in particolare all’Arabia Saudita) che vogliono poter
maggiormente controllare i flussi di ricchezza e potere nelle loro regioni per meglio partecipare al
processo di globalizzazione.
In terzo luogo, negli ultimi tre anni si è mostrata con grande evidenza la crescita della vera e unica
alternativa al sistema; l’alternativa rappresentata dai movimenti sociali e popolari. Il movimento “di
Porto Alegre”, che ha sfidato e messo in difficoltà i “giganti”, da Seattle a Genova, ma anche
(soprattutto) nelle decine di mobilitazioni locali e nella consapevolezza della possibilità di costruire
“un altro mondo diverso”.
Questo movimento rappresenta una vera e propria sfida per la globalizzazione neoliberista e per le
politiche “imperiali”, perché rappresenta una rottura con il pensiero unico e una messa in rete e in
relazione di soggetti sociali e politici che si riconoscono come simili e legati allo stesso destino e
alla stessa necessità d’alternativa.
La risposta a queste “sfide” è la guerra – la guerra civile planetaria, che si sviluppa a livello globale
e locale, con le sue armi, i suoi scudi spaziali, le sue truppe “imperiali” che si dislocano nelle varie
regioni “turbolente”; una guerra che modifica anche il terreno dell’agibilità democratica e dei diritti
in ogni contesto nazionale – prima di tutto contro donne e uomini migranti, ma anche contro i
cittadini del centro, ai quali viene prospettata un’esistenza basata sulla precarizzazione di ogni
rapporto sociale e sull’accettazione di questa precarietà, anche attraverso la repressione del
dissenso in varie forme.
Si crea in questo modo una condizione di guerra permanente in ogni paese - contro i diritti, le
relazioni sociali, la partecipazione politica: leggi di emergenza (dai processi segreti degli Stati Uniti
ai decreti “antiterrorismo” in Europa e al mandato di cattura europeo - che si somma alla
costituzione di forze di polizia europee), riforme dei servizi segreti, “aggiustamento strutturale” dei
rapporti sociali a partire dai rapporti di lavoro, senza dimenticare giovani o migranti trattati come
nuovi soggetti portatori di criminalità e insicurezza.
La guerra viene in questo modo usata per rafforzare l’autoritarismo politico e sociale. Un processo
internazionale, quindi, che non può essere letto solamente come il frutto di questo o quel governo
autoritario.
E’ soprattutto in questo contesto che parliamo del nesso tra guerra e globalizzazione: così come il
processo di globalizzazione neoliberista è precisamente il tentativo messo in campo dalle forze
capitalistiche (multinazionali, stati occidentali, organizzazioni economiche internazionali) di
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integrare completamente ogni regione del pianeta all’interno del mercato mondiale – da esse
dominato e controllato – lo strumento militare in questa fase diventa indispensabile per garantire
quel dominio e quel controllo.
Integrazione subalterna, naturalmente, e proprio per questo richiede un grado crescente di
autoritarismo e violenza, vista la crisi di consenso di una globalizzazione che moltiplica l’esclusione
e gli “esuberi sociali”.
E’ in questo stesso contesto che la Nato diventa un “braccio armato” della globalizzazione: il
diverso peso dei vari soggetti al suo interno – con la sostanziale egemonia statunitense – richiama
direttamente il diverso peso degli stessi soggetti all’interno delle organizzazioni economiche e
finanziarie internazionali (FMI, WTO e G8 in prima fila), anch’esse egemonizzate dalla politica degli
Stati Uniti d’America: in entrambi i casi si tratta di strumenti necessari a garantire l’espansione
degli interessi occidentali all’intero mercato mondiale e la riproduzione del modello di “sviluppo” a
guida statunitense.
La Nato, oggi apparentemente in secondo piano nell’intervento contro l’Afghanistan e nella
strategia Usa di guerra globale, assume in questo modo la caratteristica di “gendarme globale”,
completamente integrata alle politiche neoliberiste di accumulazione.
La guerra non è quindi una “risposta” ma si fa sistema “preventivo”, localizzandosi e costruendo le
condizioni del suo acutizzarsi in ogni area del pianeta, attraverso la presenza delle basi militari e la
costruzione degli alleati locali.
Per questo la guerra diventa “permanente” – non più limitata alla ripetizione di interventi militari
più o meno sanguinosi (e gli ultimi anni hanno mostrato quanto siano sempre più sanguinosi) – ma
guidata dalla logica della “presenza” e soprattutto del controllo e della trasformazione degli spazi
della politica. E’ la guerra che Donald Rumsfeld ha definito “segreta” e di lunga durata.
Queste caratteristiche non ne riducono il significato di vero e proprio “crimine contro l’umanità” –
che anzi ne è sempre più fondamento: perché è essenzialmente una guerra contro i civili, non
“effetti collaterali” di strategie volte a colpire le capacità militari altrui, ma vittime designate delle
finalità terroristiche della guerra stessa (così speculari a quelle di chi ha abbattuto le Twin Towers)
– una guerra “biologica”, perché vengono attaccate le popolazioni e la riproduzione delle forme di
vita; una guerra che, nella sua iper tecnologizzazione, non manca di usare vecchie e nuove
pratiche di distruzione di massa: embarghi, bombardamenti indiscriminati, cluster bombs e mine
anti-persona, bombardamenti di fabbriche chimiche e quindi catastrofi ambientali ....
Un vero e proprio “eccesso di potenza” che di fronte all’assimetricità dei conflitti non sa riproporre
altro che l’estensione e l’aumento della pre-potenza militare.
Il controllo delle popolazioni è il fine ultimo del controllo militare: la guerra agli stati viene messa
ancora in atto nei casi di “insubordinazione”, non tanto alle regole del sistema e del mercato in
quanto tali, ma alle sue dinamiche e alle sue gerarchie, ma la guerra globale permanente è diretta
essenzialmente contro le popolazioni, delle quali si vogliono prevenire e reprimere qualsiasi
possibilità di rivolta che possano mettere in discussione le regole stesse del sistema.
Per questo da una parte la guerra prende la forma della “polizia internazionale” – cioè di
operazioni di controllo, occupazione di territori e di mantenimento del “ordine”; dall’altra parte le
forme del mantenimento del “ordine” all’interno dei singoli stati assumono caratteristiche militari:
sia in senso stretto, attraverso una maggiore presenza di corpi speciali, la formazione militare delle
polizie, un equipaggiamento e comportamenti sempre più “antisommossa”, sia in senso generale:
le caratteristiche “antisommossa” e quelle di “guerra all’immigrazione clandestina” assumono i
caratteri di operazioni militari, fino a far coincidere gli stessi soggetti impiegati – come è il caso
dell’uso di esercito e marina militare nei rastrellamenti e nel pattugliamento delle coste.
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La repressione di Genova è stata in qualche modo una prova esemplare perché ha mostrato
caratteristiche molto simili (per quanto differenti sono le dimensioni della violenza) alla guerra
moderna: terroristica (colpire nel mucchio per spaventare e dissuadere), scientifica (nessun
comportamento era lasciato al caso), asimmetrica (la sproporzione tra i mezzi e la violenza delle
forze dell’“ordine” e i manifestanti disarmati era evidente), internazionale (ancora poco chiaro è il
ruolo giocato dai servizi dei paesi Nato e degli Usa.
Questo è il quadro che ci troviamo di fronte e che rappresenta un’accelerazione di processi già in
corso precedentemente, che l’attuale amministrazione Usa, guidata da Bush jr. e dagli altri “falchi”
eredi della guerra fredda, sceglie di portare alle sue estreme conseguenze – trascinando alleati
vecchi e nuovi a schierarsi dietro la sua rinnovata volontà egemonica.
Ma perchè l’Europa partecipa a questa “guerra americana”? Due sono i motivi fondamentali.
Prima di tutto perché, quando la guerra diventa “inevitabile” i paesi europei vogliono esserci: le
classi dirigenti europee, anche se in rivalità con gli Usa in molti campi, si pongono sullo stesso
terreno e hanno lo stesso obiettivo: controllare e dominare i paesi della periferia, partecipare alla
“spartizione del bottino”.
In secondo luogo l’Unione Europea, che costruisce la sua unità politica ed economica tutta
all’interno delle logiche neoliberiste – non può che riprodurre le stesse dinamiche – costruendosi
come “fortezza” ed esportando quindi una politica di dominio.
In questo senso è importante eliminare tutte le illusioni su un ruolo “autonomo” di questa Europa,
magari attraverso la crescita dell’esercito europeo: questo esercito non rappresenta, ne può
rappresentare, un’alternativa alla Nato (e agli Usa), prima di tutto perché nasce proprio all’interno
del contesto della Nato ma soprattutto perché ne mutua logiche e strutture, strategie e principi.
E’ nella logica dell’appartenenza al G8, che si è autoinvestito di una funzione di governo del
mondo, che i paesi europei vogliono partecipare alla guerra.
Una partecipazione alla quale aderiscono in ordine sparso, ognuno per i propri interessi e con le
proprie motivazioni: Blair perché vuole confermare il suo ruolo di capofila di un’Europa
interventista e perché, attraverso la legittimazione internazionale il prestigio acquisito, vuole
portare la Gran Bretagna nell’Euro al più presto; la Germania di Schroeder e Fischer, che
finalmente riacquista un peso internazionale inviando, per la prima volta in senso compiuto, le
proprie truppe fuori dai confini; la Francia di Chirac e Jospen, “costretta” a tenere il passo della
nuova gerarchia piramidale nella UE, che vede appunto l’asse Francia-Germania-Gran Bretagna ai
vertici; e si spiega anche l’adesione entusiastica del governo Berlusconi, interessato a conquistare
nuovi spazi di manovra tra Usa ed Europa e a mantenere il ruolo (già affermato dal governo
D’Alema in Kosovo e oltre) di partecipazione agli interventi e alle “missioni di pace”.
Nessuna illusione è quindi possibile su un ruolo “autonomo” dell’UE in questa fase: in questa
“guerra civile planetaria”, che è la guerra che i potenti hanno dichiarato all’intera umanità, i potenti
dell’Europa sanno bene da che parte schierarsi.
Il movimento è allora “costituzionalmente”e senza equivoci contro la guerra, perché consapevole di
quanto questa sia strumento delle politiche neoliberiste contro le quali si è mobilitato in questi
anni.
Un movimento che si colloca decisamente contro le politiche di guerra (la militarizzazione, il
rilancio della produzione e del commercio di armamenti – che, tra l’altro, rappresenta una
distruzione di risorse altrimenti impiegabili, l’interventismo degli eserciti, gli embarghi…) e contro
le politiche che vogliono la guerra: la mercificazione e la privatizzazione delle stesse basi materiali
della sopravvivenza di uomini e donne, l’espropriazione degli spazi di partecipazione diretta e delle
stesse forme della democrazia delegata, la precarizzazione dell’esistenza…
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Un altro mondo è possibile se sarà un mondo “senza armi”: per questo il movimento deve saper
porre con radicalità e fermezza il tema del disarmo, di un freno alla militarizzazione e la
costruzione di rapporti solidali dal basso tra i popoli di tutto il mondo, le vere vittime della “guerra
globale”.
Perché Attac deve a sua volta comprendere fino in fondo la necessità di un’iniziativa contro la
guerra permanente e contro i suoi strumenti concreti – Nato, eserciti nazionali e/o continentali, ma
anche il rilancio della produzione e del commercio di armamenti?
Il primo motivo è evidente per il ragionamento fin qui svolto: se la guerra è la forma della politica
in questa fase del processo di globalizzazione – un’associazione che si batte contro questa
globalizzazione neoliberista (contro l’espropriazione e le ineguaglianze che crea) non può che
battersi in prima fila contro la guerra e i suoi strumenti.
Ancor più – ed è il secondo motivo – un’associazione di “cittadinanza” deve essere consapevole
che la guerra, uno stato di guerra permanente, (qualcosa cioè che va al di là dei singoli interventi
militari) divide in due la popolazione del pianeta, rendendo impossibile quella “cittadinanza
planetaria” a cui tendiamo.
Quale cittadinanza, quale condivisione è possibile tra popoli che stanno da due parti opposte dello
schieramento – chi fa la guerra e chi la subisce?
In questo senso un ruolo fondamentale è affidato alle reti internazionali, come quella di Attac –
che rappresentano la possibilità concreta di relazioni orizzontali fuori e contro lo stato e il pensiero
della guerra, fuori e contro gli strumenti del dominio e del controllo capitalistico (siano essi le
organizzazioni economiche e finanziarie internazionali o le alleanze militari).
Proprio contro la guerra – che rischia di creare divisioni in quel movimento planetario che ha
saputo porre le basi di un’alternativa non-violenta e non di dominio – le reti internazionali devono
rafforzare i loro legami, per rifiutare la logica dello “scontro di civiltà” e la falsa alternativa
“guerra/terrorismo” – ristabilendo invece il proprio impegno per affermare l’alternativa tra
“globalizzazione neoliberiste e guerra” da un lato e globalizzazione dei diritti, rapporti equi,
orizzontali, non-violenti, basati sul riconoscimento delle differenze e sulla solidarietà, dall’altro.
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