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Filosofia in immagini
“ Ma l’immagine mira allo scopo del vero…”
Alcibiade (dal “Simposio” di Platone , 215 B)
“ L’immagine è un fatto ”
Ludwig Wittgenstein (dal “Tractatus logico–philosophicus ” 2.141)
di Aldo Meccariello
Appunti per una ricerca
Nulla è così enigmatico come il concetto di immagine. Ma è possibile
accostare termini come immagine e concetto ? Possono una serie di
immagini materializzare un’astratta pensabilità? E’ come dare visibilità,
riscontro visivo a ciò che per natura è invisibile cioè il concetto, è come
affermare che si può guardare il pensiero allo stesso modo di un quadro o di
un paesaggio.
Come un raggio luminoso, l’immagine interrompe il continuum
dell’astrazione innestando un diverso piano di significazione. L’intrecciarsi
dei rapporti tra immagini e concetti suggerisce una radicale rivisitazione
delle scritture filosofiche così come esse si sono sedimentate lungo la
tradizione occidentale. Forse è necessario indagare sulla trama di figuralità
che si è condensata sotto gli strati del pensiero astratto, forse è necessario
scrutare il thauma, origine e arché del pensiero aurorale, lo stupore che ha
generato la filosofia provocando estasi e vertigine al protofilosofo di Mileto
mentre osservava appunto gli oggetti del cielo. In realtà - come aveva già
notato Nietzsche[1] la traccia di pensiero figurale risale appunto agli antichi
filosofi presocratici ove le immagini acquistano sempre più una dimensione
autonoma e speculativa.
Il rapporto tra immagini e concetti non è così semplice come potrebbe
sembrare sulla base di uno schema dicotomico che isoli da un lato le
immagini e dall’altro i concetti, cioè da un lato il mito, dall’altro il pensiero
astratto; tale schema si è poi sedimentato nel linguaggio filosofico ove
invece attraverso uno studio attento e analitico dei testi e delle opere, il
nesso tra immagini e concetti è più scoperto ed evidente. Occorrerà perciò
andare oltre quella inerziale prevenzione secondo la quale i filosofi, esperti
nell’arte di creare i concetti, abbiano sempre polemizzato nei confronti delle
immagini. Ma già Aristotele, in un passo del De Anima (III, 7, 431 a-b)
affermava che “l’anima non pensa mai senza immagini”, nel senso che non
esiste forma di pensiero che non si rapporti all’immagine .
Se solo ripercorressimo storicamente alcune tappe del pensiero occidentale,
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allora si potrebbe partire da Platone che concepiva la filosofia ”una divina
follia”, proseguire con Plotino, Agostino, i filosofi del Rinascimento, quindi
Cusano, Bruno e poi Bacone , Vico, Leibniz, i filosofi romantici fino a
Nietzsche , Bergson e Heidegger: si tratta di una linea di pensiero figurale,
per certi aspetti, ancora tutta da tracciare e da ricostruire.
Ma cos’è un'immagine? Quale è la sua costituzione? Come interagisce il
pensiero con l’immagine? E questa con la realtà? [2]. Dell’immagine si può
parlare in tanti modi perché in essa il visibile e l’invisibile si danno
appuntamento in un gioco di rimandi reciproci; essa è una modalità
attraverso cui il mondo si mostra, si manifesta.
Un celebre passo di Heidegger nel saggio ”…poeticamente abita l’uomo” ci
aiuta forse a capire come l’immagine non sia una copia, né un’illusione: “la
parola usuale per indicare l’aspetto e l’apparenza di qualcosa è per noi
Bild, «immagine». L’essenza dell’immagine è nel «far vedere» qualcosa.
Per contro, copie e imitazioni (Abbilder, Nachbilder) sono già specie
derivate della vera e propria immagine, che come aspetto visibile (Anblick)
fa vedere l’invisibile e così lo immagina (einbildet) in qualcosa che gli
estraneo..”[3]. L’immagine si annette, per così dire, l’estraneo e lo
sconosciuto; ci mostra qualcosa che solo i poeti sanno intendere. Il dire
poetante delle immagini raccoglie heideggerianamente il familiare e
l’estraneo, l’ovvio e l’enigmatico in cui oscilla il nostro stesso essere nel
mondo, il nostro abitare il linguaggio.
Le imagines mundi ci provocano e ci espongono alle nostre origini e al
nostro destino.
Lo scopo di questo breve saggio non è tanto quello di provare a classificare
immagini e/o metafore nei testi filosofici[4], quanto di individuare alcune
figure topiche in opere del pensiero occidentale a guisa di un glossario, al
fine di evidenziare come il potere noetico dell’immagine abbia lievitato la
teoresi e generato i concetti con esiti evidenti di trasgressione rispetto ai
modelli di scrittura del pensiero astratto, sfatando un pregiudizio della
modernità, secondo cui il pensiero o è logica o non è pensiero. Occorre
piuttosto indagare come invece l’immagine intervenga nella costruzione
della conoscenza, svolgendo una funzione nient’affatto periferica rispetto
alla sensazione e all’intelletto. L’ipotesi di un pensiero che si guarda, che si
sviluppa in forma di immagini che a loro volta producono concetti è ben
lontana dalla facile e fuorviante dicotomia che mostri da un lato un pensiero
per immagini, visivo e mitizzante e dall’altro un pensiero razionale,
scientista e formale. In fondo la medesima contrapposizione tra logos e
mythos generativa della nascita della filosofia affligge tuttora molta
manualistica della storia della filosofia quando invece è una pura
invenzione storiografica. Semmai le immagini mitopoietiche dell’inizio
erano tutt’altro che ornamentali o decorative bensì esprimevano una forte
creatività speculativa.
J.J.Wunenburger, autore di un prezioso lavoro sulla filosofia delle
immagini, analizzando come sia possibile il potere noetico dell’immagine
propone, “malgrado l’assurdità delle dicotomie e l’ inattendibilità di ogni
linea divisoria, di distinguere due tipi di categorie: le immagini
immediatamente portatrici di sapere, quelle che lasciano che
l’informazione incontri senza ostacoli la superficie delle figure (forme
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spaziali e immagini verbali); e le immagini mediatamente ricche di
pensiero, quelle che necessitano di uno svolgimento interpretativo per
esprimere tutta la loro profondità poetica”[5].
Nella forma di alcuni appunti di lettura, vorrei riferirmi alle immagini del
secondo tipo attraverso un percorso che sarà volutamente parziale. Infatti
discuterò di alcune immagini-visioni che fanno da luogo di origine della
teoria e del pensiero.
Alcuni percorsi
Isole ed oceani
“Ogni attraccare e ogni salpare di nave è/- me lo sento dentro come il mio
sangue-/incosciamente simbolico, terribilmente/ minaccioso di significati
metafisici”. Così scrive un fine poeta come Fernando Pessoa[6] che assume
il mare come la più scabrosa immagine poetica perché simboleggia
l’incertezza e la inquietudine del vivere. Non è qui la sede per indagare
come le immagini marine abbiano nutrito tanta letteratura e filosofia negli
ultimi due o tre secoli, ma certamente l’affascinante immagine del mare
come l’hegeliana distesa “assolutamente morbida dacché non resiste ad
alcuna pressione, neppure ad un soffio” suggerisce percorsi possibili di
natura teoretica che vede la ragione specchiarsi ora nella sua superficie ora
nella sua profondità.
Prendiamo due immagini marine, una di Bacone, l’altra di Kant, ma
avremmo potuto sceglierne anche una di Hegel o di Nietzsche.
Francesco Bacone
Chi si avventura in mare aperto sa che può attenderlo un naufragio. Isole e
oceani, da sempre figurazioni simboliche di salvezza e pericolo, sono i
luoghi fondativi della nostra civiltà, gli erasmiani luoghi della Follia, le
“Isole Fortunate ove tutte le cose crescono senza semina né aratura, ove
non v’è fatica, né vecchiaia […]” [7]. Il ricco mare Mediterraneo è sempre
stato attraversato da viaggi, fughe, avventure che lo hanno trasformato in
una corrente impetuosa che precipita verso i non-Luoghi d’Eropa [8].
Il frontespizio della Grande Instaurazione
(1620) è di per sé emblematico: vi è
rappresentata la navicella dell’ingegno umano
nell’atto di oltrepassare le colonne d’Ercole. Il
viaggio oceanico è una lunga, rischiosa
avventura mai intrapresa prima.
L’immagine baconiana è epica ed utopica
insieme, aurorale e prometeica. Il moderno si
apre con la rottura dei limiti con cui il Soggetto,
auto-ponendosi, produce nuova esperienza e
nuova razionalità.
La novità del moderno inverte e rovescia i
malinconici e patetici luoghi del passato (selve e
labirinti)[9] e conduce all’esperienza aperta, alla
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traversata epico-avventurosa del Soggetto, novello demiurgo, ordinatore e
modellatore della natura. La filosofia di Sir Francis Bacon nasce appunto
qui, nella tensione allegorica di quest’immagine.
Immanuel Kant
Al filosofo di Königsberg spetta un posto di rilievo per aver offerto solide
basi speculative alla questione dell’uso dell’immagine in filosofia.
Nella Critica della Ragion Pura (1787) vi è un’immagine che ritorna
costantemente : “(…) Noi abbiamo fin qui percorso il territorio
dell’intelletto puro […] ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso
assegnato con cura a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola
chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità
(nome allettatore) circondata da un vasto oceano tempestoso, impero
proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse, ghiacci, prossimi a liquefarsi,
danno ad ogni istante l’illusione di nuove terre”[10] .
Il paesaggio è nordico. Nebbie, ghiacciai, f navyde terre circondate da
oceani. Il filosofo è il guardiano di questi confini tra la terra e il mare, una
specie “di agrimensore del noto”, mentre l’ignoto appartiene all’oceano
misterioso che nessuna caravella potrà mai attraversare[11].
Bacone e Kant: il crocevia della filosofia moderna si snoda dalla
costituzione della scienza come modello di manipolazione della natura allo
sguardo del Soggetto che ordina la realtà fenomenica.
A livello puramente teorico, in una comparazione tra l’immagine baconiana
dell’oceano e quella kantiana, sembrano riprodursi movimenti e slittamenti
semantici la cui densità connotativa e denotativa sembra assai più eloquente
delle pure rappresentazioni concettuali. Dall’isola al mare: il potere
costruttivo e non integratore delle immagini sovrasta i concetti del pensiero
astratto.
L’immagine del mare in Bacone e in Kant è superficie ma anche profondità
che nasconde l’abisso il luogo inaccessibile per la ragione. Il filosofo che si
mette per mare sa di rischiare di perdersi perché non sente più la terra sotto i
piedi ma allo stesso tempo avverte che il suo pensiero perde il senso della
gravità, proiettato a scandagliare im-possibili orizzonti.
Raggi e Sfere
Giambattista Vico
Il frontespizio della Scienza Nuova seconda è
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Il frontespizio della Scienza Nuova seconda è
un’intensa costruzione figurale. Riassunto
folgorante dell’opera, ma anche dell’idea che il
moderno è una combinazione di modelli , di
mondi e di linguaggi.
“La donna con le tempie alate che sovrasta il
globo mondano, o sia al mondo della natura è la
metafisica, ché tanto suona il suo nome. Il
triangolo luminoso con ivi dentro un occhio
veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua
provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in
atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle
cose naturali […]”[12] La potenza dell’immagine
è un raggio luminoso che, sprigionatosi dalla luce
accecante della provvidenza che ha la forma di
una sfera, colpisce il petto di una strana figura coi
piedi sopra un globo che rappresenta la metafisica che a sua volta riflette il
raggio, duplicandolo, sul filosofo, il quale, con la barba bianca, sotto questa
luce, può intendere la realtà degli uomini, conferendole senso e nessi di
significati.
Il mondo degli uomini è rappresentato da pochi simboli: il fascio (gli Stati
monarchici), la spada (l’aristocrazia guerriera), il mercantile (l’aristocrazia
mercantile), la bilancia (le Repubbliche popolari), e il caduceo (le
monarchie moderne). La posizione del globo sta ad indicare che la
metafisica è scienza univoca e unilaterale che assume Dio come
fondamento del solo ordine naturale. Accanto ad essa si affiancano le
scienze storiche, la vita delle nazioni e delle genti.
La dipintura allegorica mostra come la ragione e l’autorità, la verità e la
certezza siano una sola cosa. La filosofia è comprensione della storia e Vico
non certo per voglia polemica riduce i domini della metafisica, dando
dignità agli oggetti della Scienza nuova: la Storia.
La dipintura vichiana si lascia afferrare e avvolgere dalla luce, icona
possente della scienza e della metafisica moderna. La luce, elemento solare
e divino, rivela le forme e i colori del mondo, mostra le cose che lo sguardo
del filosofo scruta in una nuova dimensione. Dunque lo sguardo è visione
congiunta alla luce. I raggi vichiani rinviano alla luce degli astri che si
riflettono nella prosa galileiana del Sidereus Nuncius dove l’uomo per
mezzo del cannocchiale si fa spettatore del mondo e nel silenzio osserva la
bellezza dell’Universo.
La luce è la manifestazione visibile dell’invisibile , e dona senso al mondo
delle cose e degli uomini; la luce è il tramite tra la sfera celeste e quella
sublunare, la luce accompagna ogni teofania. Chiave di volta delle
concezioni che vedono come realtà cosmica essenziale la luce è la
contrapposizione del mondo delle tenebre a quello luminoso. Nel canto
XXVIII del Paradiso, Dante vede "un punto quindi che irraggiava lume
acuto / sì che il viso che egli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume".
Intorno a questo punto che irradia luce così potente che l’occhio si abbaglia
e deve chiudersi a causa della intensità, intorno a questo punto che non ha
dimensioni, si avviluppa un alone che è un cerchio di fuoco che gira con
velocità immensa e poi successivamente si presentano i diversi cerchi
angelici che in qualche modo sono - se si vuole - sempre più materiali tanto
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che aumenta la loro grandezza e diminuisce la loro velocità e luminosità.
Così nell’immagine vichiana la luce sembra richiamare infinite suggestioni,
molteplici istanze filosofiche neoplatoniche e cabalistiche, naturalistiche e
scientifiche.
Spade e moltitudini
Thomas Hobbes
Quando nell’epoca moderna, nella durezza dei conflitti, la politica diventa
intricato congegno, lo Stato si trasforma in un terrificante mostro Leviatano
che esercita “imperio sopra li uomini” .
Il frontespizio dell’opera (Leviatano 1651) mostra il corpo del Leviatano
formato da una moltitudine ammutolita, mentre
superbo e possente brandisce da un lato la spada
e dall’altro lo scettro.
“Fatto ciò, la moltitudine così unita in una
persona viene chiamata uno STATO, in latino
civitas. Questa è la generazione di quel grande
Leviatano, o piuttosto… di quel dio mortale, al
quale noi dobbiamo, sotto, il Dio immortale la
nostra pace e la nostra difesa”. [13] Il passo batte
con insistenza sul tema della moltitudine, negata e svuotata di volontà:
l’incorporazione della moltitudine che forma il petto del mostro è di per
séun’unione ibrida, senza legame e/o rapporto alcuno con il Leviatano.
L’immagine hobbesiana dell’uomo artificiale di proporzioni ciclopiche
rispetto all’uomo naturale davvero suggerisce per la nostra indagine la
legittimazione di un pensiero figurativo, ermeneuticamente fecondo.
L’essenza del “politico moderno” come ordine e conflitto si raccoglie, si
esprime figurativamente in una formidabile immagine apolide
moltitudo/solitudo, unità senza relazione, legame senza cum[14],
raffigurazione dello Stato-grande macchina.
La funzione dell’immagine hobbesiana svolge la precisa modalità di
costruire una teoria politica che è basata sul criterio della scienza. Le
condizioni di pensabilità della natura nel secolo della rivoluzione scientifica
sono le medesime per pensare quel corpo artificiale che è lo Stato.
Case sul Vesuvio
Friedrich Nietzsche
Non c’è dubbio che la scrittura nietzschiana sia
una scrittura tutta innervata d’immagini.
L’eclissi della filosofia è in lui tutt’uno con il
rifiuto della funzione tradizionale della scrittura
intesa come una forma di automatismo
concettuale. L’immagine filosofica in Nietzsche
si moltiplica in un gioco dionisiaco di potenti narrazioni e di dense
allegorie, il cui significato resta sempre da cercare, dentro, dietro, o altrove.
La verità del mondo è una falsa rappresentazione che gli effetti illusori della
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scrittura hanno contribuito enormemente a legittimare. “Per immensi
periodi di tempo, l’intelletto non ha prodotto nient’altro che errori”[15]. E’
il punto alto della critica nicciana alla filosofia e alle sue storie.
Il vero filosofo deve invece vivere pericolosamente, scagliarsi contro le
terribili illusioni degli uomini esperti nella conoscenza.
C’è un’immagine che si può prelevare dall’inesauribile laboratorio della
scrittura nicciana ed è davvero incandescente: “Credete a me!- il segreto
per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande e il più grande
godimento, si chiama : vivere pericolosamente (gefahrlich leben)! Costruite
le vostre case sul Vesuvio […]. Finalmente la conoscenza stenderà la mano
verso ciò che le spetta- vorrà signoreggiare e possedere, e voi con essa!.”
[16]
L’inattuale esortazione nicciana agli uomini della conoscenza è davvero
stupefacente: la utopiana città del sapere deve essere costruita sulla terra
vulcanica continuamente esposta a terremoti e a rivoluzioni continue, terra
che non è fondamento, ma abisso. Nietzsche non sa che farsene del Kant
agrimensore della solida isola “terra della verità”.
Il Vesuvio, il leopardiano “sterminator Vesevo” è immagine della potenza e
potenza dell’immagine: di distruzione e cancellazione del fondamento, del
roccioso Io Penso kantianamente esaltato. Restano i movimenti sismici e gli
strati di sabbia e di lava vulcanica.
Del paesaggio vulcanico parla anche Walter Benjamin in straordinari passi
che ricapitolano la vicenda del moderno come paesaggio di rovine:
“nell’ordinamento sociale Parigi è il corrispettivo di ciò che è il Vesuvio
nell’ordinamento geografico. Un massiccio minaccioso, pericoloso, un
focolaio di rivoluzione sempre attivo. Ma come le pendici del Vesuvio,
grazie alle stratificazioni di lava che lo ricoprono, si trasformarono in
frutteti paradisiaci, così sulla lava delle rivoluzioni fioriscono come in
nessun altro luogo, l’arte, la vita mondana , e la moda”[17] .
Al di là di un ovvio accostamento tra l’immagine nietzschiana e quella
benjaminiana, che si dispongono in un comune registro tra il geografico e
l’archeologico, è sorprendente notare come il Vesuvio simboleggi la
catastrofe della modernità. L’immagine archeologica del Vesuvio è
l’immagine-rovina in cui si specchiano le leopardiane ”magnifiche sorti e
progressive” del genere umano. Il filosofo- archeologo guarda ai ruderi del
moderno per ricostruire la sua origine e la sua genesi[18].
Angeli nella Tempesta
Walter Benjamin
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus
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“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus
Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di
allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo.
Ha gli occhi spalancati e la bocca aperta che ha
il viso rivolto al passato. […] Ma una tempesta
spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue
ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel
futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo
delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che
chiamiamo il progresso, è questa tempesta”[19] .
L’immagine dell’Angelo attraversa l’intero
pensiero benjaminiano che è intriso di potenza messianica. Come è noto, il
tema dell’Angelo nella tempesta è la IX Tesi di filosofia della storia (1940)
: l’Angelo guarda al passato che appare come una immane catastrofe
rovesciatasi ai suoi piedi. Tuttavia una tempesta lo spinge verso il futuro,
pur continuando egli a volgersi verso il passato. Lo sguardo dell’Angelo si
posa pensoso sul ”minuto e fragile corpo dell’uomo” che torna dal fronte
del primo conflitto mondiale. Immagine folgorante e premonitrice della
violenza distruttiva del ‘900. Le guerre di massa hanno mutato
completamente il paesaggio degli uomini, ad eccezione delle nuvole da cui
l’Angelo muove i suoi pensieri.
Fra passato e futuro vi è rottura. Luogo di questa frattura è il tempo-ora che
spazzando via ogni modello di progresso storico lineare, rivela una nuova
storia capace di sprigionarsi dal passato. L’idea stessa di felicità non è
rinviata al remoto fine della storia ma è il possibile non compiuto della
situazione in cui viviamo “[…] tutta tinta del tempo, a cui ci ha assegnato,
una volta per tutte, il corso della nostra vita”. La storia è una prova di
possibili che gli uomini devono cogliere nella irriducibilità misteriosa di
ogni attimo[20].
Conclusioni provvisorie
Considero esercizi di letture le note che ho sviluppato intorno alle
immagini proposte. Per un lavoro che in larga parte è ancora da fare. La
filosofia non è più solo il luogo cristallino dei concetti ma un corpo di
immagini che transitano e si trasformano tra le pieghe del testo. Una ricerca
sulle immagini filosofiche non potrà pertanto risultare esaustiva perché
investe i contenuti medesimi del pensiero. E se davvero la filosofia potesse
davvero dipingere il mondo con le immagini ?
”Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è
invecchiato e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto
riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”
[21]. Capire che la realtà è invecchiata significa metterla ad una distanza che
consente di ri-conoscerla: la filosofia può dipingere il mondo col suo grigio
solo sul grigio. E se al chiaroscuro della celebre immagine hegeliana si
affiancassero altri colori , altre tonalità cromatiche, altre immagini ? Quelle
proposte sono immagini-visioni che dilagano e invadono la sfera del
dicibile e del rappresentabile: se proviamo a collezionarle in una unica
sequenza: - isole ed oceani, raggi e sfere, spade e moltitudini, case sul
Vesuvio, angeli nella tempesta-impegnano la teoria ad una nuova vita.
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[1] Friedrich Nietzsche, I filosofi preplatonici, a cura di Piero Di Giovanni, Bari,
Laterza, 1994, pp.5-7.
[2] Vincenzo Vitiello, Vico e la Topologia, Napoli, Cronopio, 2000, pp.43-47 : «La
distinzione tra immagine e realtà sembra netta e facile a cogliersi: ogni cosa è reale “in
sé”, “immagine”per altro”.[…]La condizione, dunque, per cui qualcosa può essere
immagine, è d’essere “con” altro, epperò “per ” altro. Di “per sé” nessuna cosa è
immagine. Presa isolatamente una cosa non può essere immagine. Ma può essere
realtà ?».
[3] Martin Heidegger, “...poeticamente abita l’uomo”, in Saggi e discorsi (1954),
tr.it., ediz.it. a cura di G.Vattimo, Milano, Mursia, 1976, p.135.
[4] Si rinvia al capitolo 4 del volume elettronico di Frédéric Cossutta, La funzione
delle metafore nei testi filosofici, dal sito www.ilgiardinodeipensieri.com . L’Autore
analizza lo statuto teoretico della metafora, all’opera nei testi filosofici. Egli non si
limita a classificare le forme del ricorso alla metafora, ma cerca di comprendere le
regole che la governano e la sua precisa funzione all’interno del testo.
[5] Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini, tr. it. di S. Arecco, Torino,
Einaudi, 1999, p.272.
[6] F.Pessoa, Poesie di Alvaro de Campos, Adelphi, Milano 1993, p.67.
[7] Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Milano, Mursia, 1966, p.35.
[8] Si veda il volume di Massimo Cacciari, L’Arcipelago, Milano, Adelphi, 1997.
Per l’Autore, l’immagine più appropriata per designare l’identità filosofica dell
‘Europa è l’Arcipelago le cui isole custodiscono e testimoniano la storia-destino del
vecchio Continente.
[9] Francesco Bacone, La grande instaurazione, Prefazione, in Scritti filosofici, a cura
di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975 pp.526-7.
[10] Immanuel Kant, La Critica della Ragion Pura, a cura di Vittorio Mathieu, Bari,
Laterza, 1977 , p.243.
[11] Remo Bodei, Scomposizioni , Torino, Einaudi, 1987, pp. 61-68. Rinvio a queste
pagine di straordinaria intensità che assumono l’immagine nautica kantiana come
luogo di passaggio al pensiero romantico.
[12] G.B.Vico, La Scienza Nuova, Idea dell’opera, in Opere, a cura di A. Battistini,
Milano, Mondadori, 1990.
[13] Tommaso Hobbes, Leviatano, a cura di G. Micheli, Firenze, La Nuova Italia,
1976, pp.167-168.
[14] Si veda il saggio di Roberto Esposito, Communitas, Torino, Einaudi, 1998. L’
Autore tende ad assumere il paradigma dell’immunizzazione come nucleo costitutivo
dell’antropologia politica hobbesiana. Il significato originario di comunità cum munus
si rovescia nell’autonomizzazione del munus e nella soppressione del cum.
[15] Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza e Idilli di Messina, Milano, Adelphi, 1992,
afor. 110 , p.150.
[16] Ivi, afor.283, pp.203-204.
[17] Walter Benjamin, Opere complete IX. « I passages » di Parigi a cura di R.
Tiedemann, ed.it. a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi 2000, p.88.
[18] Su questo tema , si veda l’intrigante saggio di Luisa Bonesio, La terra invisibile,
Milano, Marcos y Marcos 1993.
[19] Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e Frammenti, Torino, Einaudi, 1976,
pp.76-77.
[20] Per una lettura sorprendente ed originale dell’idea messianica di W.Benjamin in
connessione con l’idea di S. Paolo nelle Lettere si veda il volume di Giorgio
Agamben, Il tempo che resta, Torino, Bollati Boringhieri 2000.
[21] G.W. F.Hegel- Lineamenti di una filosofia del diritto- Bari, Editori Laterza 1974,
p.20.
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