1 Appunti sulla determinazione del valore delle azioni non quotate

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MASSIMO ROSSI
Appunti sulla determinazione del valore delle azioni non quotate in caso di recesso
SOMMARIO: 1. La valutazione delle azioni prima della riforma del 2003 e i principi ispiratori della nuova
disciplina – 2. I criteri di valutazione vigenti. – 3. Segue: sconto di minoranza.
1. All’esito della riforma delle società del 2003, l’istituto del diritto di recesso
dalla società per azioni è stato profondamente innovato sia per quel che riguarda le
fattispecie legittimanti, che risultano adesso significativamente ampliate, sia per quel
che concerne il sistema di valutazione delle azioni (non quotate) oggetto di recesso, la
cui previgente disciplina rappresentava l’ostacolo più rilevante all’esercizio di tale
diritto1: infatti, a norma del “vecchio” art. 2437, comma 1, c.c., il valore delle azioni si
sarebbe dovuto determinare in base a quello del patrimonio sociale risultante dal
bilancio dell’ultimo esercizio, impiegando un sistema che notoriamente sconta criteri di
valutazione prudenziali, tali da comprimere il valore del patrimonio rispetto a quanto
verosimilmente ritraibile sul mercato2.
La nuova disciplina3, lasciando sostanzialmente invariato il sistema di valutazione
delle azioni quotate, ha invece inciso profondamente quello delle azioni non quotate,
sganciandolo dalle risultanze del bilancio di esercizio e disponendo che il valore di
liquidazione della azioni sia determinato «tenuto conto della consistenza patrimoniale
della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato
delle azioni», e consentendo parimenti che lo statuto possa «stabilire criteri diversi di
determinazione del valore di liquidazione, indicando gli elementi dell’attivo e del
passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal
bilancio, unitamente ai criteri di rettifica, nonché altri elementi suscettibili di
valutazione patrimoniale da tenere in considerazione» (art. 2437-ter, commi 2 e 4, c.c.).
È fondata, pertanto, l’idea che, nel nuovo sistema, il valore di rimborso delle
azioni per cui è esercitato il recesso debba esprimere il loro valore effettivo 4 ,
1
Cfr. G. PRESTI, Questioni in tema di diritto di recesso nelle società di capitali, in Giur. comm., 1982, I,
p. 100 ss., spec. p. 112 ss.
2
Cfr. M. ROSSI, Il diritto di recesso dalla società per azioni prima della riforma del diritto societario
(art. 2437, c.c.), in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 549 ss.
3
Cfr. L. DELLI PRISCOLI, L’uscita volontaria del socio dalle società di capitali, Milano, 2005, e ID., Delle
modificazioni dello statuto. Diritto di recesso, in Il Codice Civile. Commentario fondato da P.
Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2013; V. DI CATALDO, Il recesso del socio di società per
azioni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P.
Abbadessa e G.B. Portale, 3, Torino, 2006, p. 219 ss.
4
Cfr. V. CALANDRA BUONAURA, Il recesso del socio di società di capitali, in Giur. comm., 2005, I, p.
1
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approssimandosi quanto più possibile al valore reale5 o di mercato6, della porzione del
patrimonio netto rappresentato dalle partecipazioni del recedente 7 ; la dottrina più
attenta, però, ha segnalato i problemi del nuovo dettato: non tanto, in vero, sul disegno
di politica del diritto sottostante, reso palese, fra l’altro, dalla legge delega 3 ottobre
2011, n. 366, che all’art. 4, comma 9, lett. d), disponeva che fossero individuati criteri
«di calcolo del valore di rimborso adeguati alla tutela del recedente, salvaguardando in
ogni caso l’integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori sociali», e dalla
Relazione ministeriale8, bensì sulla concreta applicazione del meccanismo normativo, in
considerazione dell’assoluta varietà di significati e di esiti che tale valutazione può
assumere, come dimostrano anche le diverse aggettivazioni9 del valore delle azioni che
si sono appena indicate.
Il quadro si è poi ulteriormente complicato per il richiamo che l’art. 2437-ter,
comma 2, c.c. opera ai più diffusi sistemi di valutazione delle aziende delineati dalla
letteratura aziendalistica10 – vale a dire, il metodo patrimoniale11, quello reddituale12 e,
291 ss., spec. p. 304; P. PISCITELLO, Recesso del socio, in RDS, 2008, p. 42 ss., spec. p. 46; M. MAUGERI
e H. FLEISCHER, Problemi giuridici in tema di valutazione delle azioni del socio recedente: un confronto
tra diritto tedesco e diritto italiano, in Riv. soc., 2013, p. 78 ss., spec. p. 81.
5
Cfr. P. PISCITELLO, Riflessioni sulla nuova disciplina del recesso nelle società di capitali, in Riv. soc.,
2005, p. 518 ss., spec. p. 524; V. DI CATALDO, Il recesso cit., p. 222; M. CIAN, La liquidazione della
quota del socio recedente al valore nominale (in margine ad una clausola statutaria in deroga ai criteri
legali di valutazione delle azioni), in RDS, 2010, p. 301 ss., spec. p. 303.
6
Cfr. G. MARASÀ, sub art. 2437 ss., nel Commentario romano al nuovo diritto delle società, diretto da F.
d’Alessandro, II, 2, Padova, 2010, p. 777 ss., spec. p. 796, e L. DELLI PRISCOLI, Delle modificazioni cit.,
p. 150 s. Di valore “oggettivo” della partecipazione discute C. ANGELICI, La società per azioni, I. Principi
e problemi, nel Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, continuato da P. Schlesinger,
Milano, 2012, p. 74.
7
Cfr. L. DE ANGELIS, I bilanci da redigere per la liquidazione della quota del socio recedente e per la
determinazione del soprapprezzo e del rapporto di conversione, in C. MONTAGNANI (a cura di), I bilanci
straordinari, Milano, 2013, p. 37 ss., spec. p. 45 s.
8
Pubblicata, fra l’altro, in La riforma delle società. Commentario al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, a cura
di M. Sandulli e V. Santoro, tomo II, Torino, 2003, spec. p. 872 ss.
9
Cfr. M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 87 s.
10
Cfr., fra gli aziendalisti, M. REBOA, Criteri di stima delle azioni in caso di recesso del socio: alcune
riflessioni sull’articolo 2437-ter cod. civ., in M. NOTARI (a cura di), Dialoghi tra giuristi e aziendalisti in
tema di operazioni straordinarie, Milano, 2008, p. 399 ss., spec. p. 401, e fra i giuristi, V. DI CATALDO, Il
recesso cit., p. 234; M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 89 ss.; cfr., tuttavia, M. CIAN, La
liquidazione cit., p. 303 s., secondo il quale, sebbene il riferimento «alla “consistenza patrimoniale” della
società risulta per la verità in sé anodino, giacché non scioglie in alcun modo il dubbio relativo ai criteri
di valorizzazione dei cespiti componenti detto patrimonio», il richiamo «alle “prospettive reddituali”,
come quello al “valore di mercato” eventuale dei titoli non lascia incertezze in merito alla volontà
normativa di allineamento della quota di liquidazione alla misura reale del valore della partecipazione».
11
Il metodo patrimoniale, secondo la prospettiva della dottrina aziendalistica, si caratterizzerebbe per la
considerazione del valore corrente delle attività e delle passività aziendali (dunque, rettificando le singole
componenti risultanti dal bilancio), prescindendo dalle prospettive reddituali, ma considerando tuttavia
(almeno nella sua versione “complessa”) gli intangibles asset, anche se non iscritti nei bilanci d’esercizio;
2
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infine, quello fondato sul valore di mercato delle azioni13 – che ha indotto a concentrare
l’attenzione sulle peculiarità di tali profili, perdendo talora di vista l’orizzonte
funzionale dell’istituto del recesso14, che sembra invece essenziale per la più adeguata
applicazione della disciplina novellata.
2. In ordine all’operatività di tali criteri, è opinione diffusa che la legge non
fisserebbe alcun “rapporto gerarchico”, rimettendo al soggetto preposto alla valutazione
la scelta delle modalità con le quali debbano ponderarsi tra loro i diversi metodi
richiamati, secondo una adeguata considerazione delle caratteristiche dell’impresa
coinvolta nella valutazione e, in generale, delle specificità del caso concreto15.
In effetti, in questo senso sembra indurre l’art. 2437-ter, comma 2, c.c., che
impiega un’espressione tutt’altro che perspicua per precisare i criteri che devono
guidare la determinazione del valore delle azioni, in particolare sul versante della loro
cogenza e interazione reciproca16: ne è riprova, del resto, l’estrema varietà di soluzioni
il tutto, al netto del potenziale effetto delle discipline fiscali: cfr. P.M. I OVENITTI, Il nuovo diritto di
recesso: aspetti valutativi, in Riv. soc., 2005, p. 459 ss., spec. p. 466 ss.; M. CARATOZZOLO, Criteri di
valutazione delle azioni del socio recedente nelle s.p.a. (I parte), in Società, 2005, p. 1209 ss.; M. REBOA,
Criteri cit., p. 402, M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 90.
12
Il metodo reddituale è quello basato sui flussi di risultato: esso, infatti, fa «discendere il valore del
capitale economico dall’analisi dei flussi di ritorno attesi – siano essi di reddito o di cassa – stabilmente
producibili in futuro dall’azienda considerata» (così M. REBOA, Criteri cit., p. 404); in altre parole, il
patrimonio aziendale è qui considerato non come «mero aggregato di elementi autonomi e isolati, bensì
come complesso economico in funzionamento (going concern entity)» (così M. MAUGERI e H.
FLEISCHER, Problemi cit., p. 90); cfr. inoltre M. CARATOZZOLO, Criteri (I parte) cit., p. 1209 ss.
13
Il metodo della valutazione dell’azienda secondo il valore di mercato delle azioni è quello che sconta
margini d’incertezza maggiori (cfr. P.M. I OVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 472 ss.) in considerazione
della diversità degli approcci suggeriti dalla letteratura aziendalistica. Esso, infatti, si fonda sia sulla
considerazione dell’andamento effettivo del mercato dei titoli della società considerata, sia sulle c.d.
“valutazioni relative”, basate cioè sull’applicazione di multipli o moltiplicatori di mercato che traducono
in valori del capitale economico le performance dell’azienda. Tale approccio stima il valore della società
«sulla base di osservazioni di mercato omogenee e confrontabili con la realtà considerata: omogeneità e
confrontabilità delle imprese campione, che, alla prova dei fatti, rappresentano sovente l’aspetto critico
per un’efficace adozione» di tale metodo: così M. REBOA, Criteri cit., p. 407 s.; sul metodo si veda,
inoltre, M. CARATOZZOLO, Criteri di valutazione delle azioni del socio recedente nelle s.p.a. (II parte), in
Società, 2005, p. 1340 ss.
14
E cfr. D. GALLETTI, sub artt. 2437 ss., in Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, II,
Padova, 2005, p. 1472 ss., spec. p. 1568, che osserva come, nel mondo dei concetti giuridici, non vi sia né
“realtà” né “effettività”, se non relativamente alla funzione attribuita dall’ordinamento a un istituto.
15
Cfr. M. REBOA, Criteri cit., p. 401; P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 476 ss.; M. CIAN, La
liquidazione cit., p. 306; M. MAUGERI, Partecipazione sociale e attività d’impresa, Milano, 2010, p. 210
s.; similmente già M. CALLEGARI, sub art. 2437-ter, in Il nuovo diritto societario, diretto da G. Cottino e
G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, t. II, Bologna, 2004, p. 1420 ss., spec. p. 1427 s., e G. MARASÀ,
sub artt. 2437 e ss. cit., p. 796.
16
Cfr. P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 466; F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina del recesso di
società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. soc., 2005, p. 487 ss., spec. p. 508; M.
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che la dottrina giuridica ha indicato, sul solco del dibattito tuttora vivace fra gli
aziendalisti17.
In vero, la relazione ministeriale sembra precisare meglio il senso della
disposizione in parola, circoscrivendo a una funzione semplicemente correttiva il
metodo reddituale18: si è talora suggerito che con esso sarebbe consentito di dare rilievo
alla componente dell’avviamento, che altrimenti normalmente non rileva fra le poste,
pur rettificate, del bilancio d’esercizio19. Tuttavia, il quadro si presenta più articolato,
giacché è diffuso il convincimento che già la valutazione patrimoniale consenta di
considerate voci solitamente escluse dal bilancio d’esercizio, come gli intangibles
asset 20 : con l’esito non soltanto di correre il rischio di duplicare e sovrapporre le
medesime determinanti del valore dell’azienda, ma anche di ridimensionare
significativamente, per differenza, «il “peso” in precedenza tradizionalmente attribuito
all’avviamento»21. D’altra parte, poi, se anche si condividesse l’interpretazione sopra
indicata dei due predetti sistemi di valutazione, resta impregiudicata la verifica della
loro interazione. Si consideri, infatti, ad esempio, che è pacifico fra gli aziendalisti che
il valore dell’avviamento possa assumere un segno negativo e, dunque, possa finire per
comprimere il valore del complesso patrimoniale, quale risulta per effetto della somma
delle sue voci, atomisticamente considerate22: ma è tutt’altro che condivisibile che, in
caso di recesso, tale compressione sia consentita, come si cercherà di dimostrare nel
prosieguo.
A cosa faccia riferimento, poi, il codice quando invita a tener conto
MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 91.
17
Cfr. M. REBOA, Criteri cit., p. 402.
18
Si legge, infatti, nel § 9 della Relazione cit. che «per l’ipotesi che nulla lo statuto preveda si è fatto
riferimento alla “consistenza patrimoniale”, volendo così indicare la non vincolatività dei dati contabili,
ed alle “prospettive reddituali” come elemento correttivo della situazione patrimoniale».
19
Cfr. A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss., in Società di capitali. Commentario a cura di G. Niccolini e A.
Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 1105 ss., spec. p. 1128 ss.; M. CARATOZZOLO, Criteri (I parte), p.
1210.
20
Cfr. M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 90.
21
Per la citazione e per le considerazioni immediatamente precedenti nel testo cfr. M. REBOA, Criteri cit.,
p. 402 s.
22
Si tratterebbe, in particolare, dei c.d. metodi misti patrimoniali-reddituali (cfr. P.M. IOVENITTI, Il nuovo
diritto cit., p. 477 s.; M. CARATOZZOLO, Criteri (I parte) cit., p. 1213 s.; M. REBOA, Criteri cit., p. 408 s.),
in forza dei quali il valore delle aziende discende dalla valutazione analitica degli elementi dell’attivo e
dalla stima autonoma dell’avviamento (positivo o negativo), destinato poi a essere, rispettivamente,
sommato o sottratto al valore corrente del patrimonio. Si tratta di un metodo che consente di esprimere
unitariamente sia la consistenza patrimoniale, sia quella reddituale della società, come rilevano da ultimo
M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 91, a nota 55. Si mostra orientato all’applicazione di tale
metodo, oltre a M. CARATTOZZOLO, loc. ult. cit., V. CALANDRA BUONAURA, Il recesso cit., p. 314.
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«dell’eventuale valore di mercato delle azioni» è un tema tanto dibattuto 23 quanto
rilevante nel processo di valutazione delle azioni: del resto, è diffuso sia l’orientamento
che segnala come proprio il rinvio alla “eventualità” della rilevabilità di tale valore
induca a ritenere che in tanto esso possa essere considerato, in quanto in effetti sia
rilevabile (in quanto, cioè, vi sia effettivamente un mercato delle partecipazioni)24; sia
l’opposta impostazione, secondo la quale se anche non si registri, in concreto, un
mercato delle azioni della società dalla quale s’intende recedere, si può fare riferimento
al valore di mercato delle partecipazioni di società consimili 25 , o, più ampiamente,
addirittura, ai caratteri del mercato delle partecipazioni societarie: inferenza dalla quale,
sul piano operativo, molti giudicano appropriata l’applicazione al valore della
partecipazione di uno sconto di minoranza.
La preferenza per una o un’altra fra le soluzioni interpretative che sono state
suggerite conduce a esiti fra loro anche molto diversi 26 , che finiscono per alterare i
rapporti fra i soci: ciò perché una valutazione più prudente o più ottimistica del
patrimonio sociale, determina l’arricchimento del socio che recede o, alternativamente,
dei soci superstiti27; il che, trattandosi di una vicenda estimativa e, dunque, di per sé
discrezionale28, è fisiologico che avvenga in un momento nel quale la valutazione non
prelude all’effettiva liquidazione del patrimonio e alla successiva ripartizione
proporzionale del ricavato, al netto dei debiti sociali, a tutti gli azionisti.
Si tratta di verificare, allora, se sussistano principi generali in grado di guidare
l’interprete.
Al riguardo, si segnala talora che la valorizzazione dell’elemento reddituale
s’impone ove si consideri che la società da cui si recede è normalmente attiva e operante
e non, invece, un patrimonio aziendale in liquidazione29.
23
Cfr. M. CALLEGARI, sub art. 2437-ter cit., p. 1424 s.; P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 472 ss.;
M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 90 s.
24
Cfr. M. CARATOZZOLO, Criteri (II parte) cit., p. 1342; F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina cit., p. 508; G.
MARASÀ, sub art. 2437 ss. cit., p. 796. Per l’idea che sia sufficiente anche un unico prezzo di vendita cfr.,
invece, M. VENTORUZZO, I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso del socio, in Riv. soc.,
2005, p. 309 ss., spec. p. 382, che ha confermato questa impostazione anche nel più recedente Recesso e
valore della partecipazione nelle società di capitali, Milano, 2012, p. 88. Per un’ampia rassegna di
possibili valori di mercato, cfr., infine P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 473 s.
25
Cfr. L. GUATRI e M. BINI, La valutazione delle aziende, Milano, 2007, p. 441; per un’impostazione
critica cfr. M. REBOA, Criteri cit., p. 405 s. e p. 407 s.
26
In questo senso cfr. P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 462 s., e V. DI CATALDO, Il recesso cit., p.
235.
27
Cfr. G. FERRI jr, Investimento e conferimento, Milano, 2001, p. 169.
28
Cfr. G. MARASÀ, sub art. 2437 ss. cit., p. 796.
29
Cfr., in tal senso, Trib. Roma, 5 marzo 2003, in Riv. dir. comm., 2013, II, p. 343 ss., con nota di A.
PACIELLO, Recesso da s.p.a., premio di maggioranza e sconto di minoranza. Nella dottrina aziendalistica,
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Sono due, a ben vedere, gli esiti di questa impostazione: il primo è che tale
orientamento appare muovere dal convincimento che la valutazione del patrimonio, o di
alcune sue componenti, possa essere operata impiegando anche soltanto uno fra i criteri
indicati nell’art. 2437-ter, comma 2, c.c., e, in particolare, quello reddituale: dunque,
che la funzione “correttiva” di quest’ultimo possa spingersi sino a disapplicare
integralmente il metodo analitico-patrimoniale; il secondo è che così s’imposta il
problema della scelta fra i diversi criteri sul rapporto fra l’interesse del socio che recede
alla massimizzazione del valore della quota di liquidazione, e quello dell’impresa alla
conservazione del valore del patrimonio, in funzione della prosecuzione dell’attività,
manifestando una preferenza per la rafforzata tutela del secondo.
Lasciando da parte il primo degli esiti indicati – che potrebbe non incontrare
soverchi ostacoli testuali – il secondo solleva numerose perplessità: esso, infatti, sembra
riproporre un’impostazione comune alla dottrina e alla giurisprudenza sviluppatesi nel
vigore del codice del ’42, che è senz’altro contraddetta dalla disciplina vigente. Si
ricorderà, infatti, che i precedenti e penalizzanti criteri di valutazione della quota di
liquidazione del recedente erano dai più spiegati sia per l’esigenza di protezione dei
creditori sociali, sia per la volontà del legislatore di non comprimere il patrimonio a
detrimento della produttività dell’azienda sociale: contrapponendosi, in tal modo,
l’interesse del socio a recedere con quello della società a proseguire l’attività30.
A parte, però, il rilievo che già in quel quadro normativo si poteva dubitare
dell’assunto31, nel nuovo sistema l’esistenza di un tale interesse sembra contraddetta da
vari indici normativi, a cominciare dalla perdurante possibilità della liquidazione
volontaria della società32.
Nella disciplina del recesso dalla s.p.a., indicativa di questa impostazione è una
norma che non sempre riceve adeguata considerazione nel quadro dei problemi sollevati
dalla valutazione delle azioni del recedente: si tratta dell’ultimo comma dell’art. 2437quater c.c., a mente del quale, se le azioni per cui è esercitato il recesso non siano state
in questo senso, cfr. fra gli altri M. CARATOZZOLO, Criteri (I parte) cit., p. 1211.
30
Cfr. V. DI CATALDO, Il recesso cit., p. 224 s., e L. DE ANGELIS, I bilanci cit., p. 44; per il dibattito
precedente alla riforma del 2003, cfr. M. ROSSI, Il diritto di recesso cit., p. 593 ss.
31
Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 154 ss.
32
Cfr. F. D’ALESSANDRO, La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata. Ovvero: esiste
ancora il diritto societario?, in Riv. soc., 2003, p. 34 ss., spec. p. 42. Per l’affermazione, invece, di tale
principio, tutelato tuttavia in forma soltanto indiretta, cfr. G. MARASÀ, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 777, il
quale tuttavia mostra di ascrivere tale interesse alla maggioranza che ha adottato la deliberazione (ivi, p.
793); nel medesimo senso già M. CIAN, La liquidazione cit., p. 305 e p. 308. Cfr. anche V. DI CATALDO,
Il recesso cit., p. 225, secondo il quale la probabilità che i valori disinvestiti siano indirizzati verso altre
iniziative imprenditoriali offre adeguata tutela all’interesse generale alla produzione.
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collocate presso gli altri soci o sul mercato e non sia stato possibile rimborsarle con utili
o riserve disponibili, né l’assemblea abbia deliberato lo scioglimento della società, la
liquidazione deve avvenire mediante deliberazione di riduzione del capitale, alla quale
trova applicazione l’art. 2445, commi 2, 3 e 4, c.c. e, dunque, l’istituto dell’opposizione
dei creditori. Ebbene, l’art. 2437, ultimo comma, c.c. dispone che, ove l’opposizione sia
accolta la società si scioglie.
Questa disposizione ha sollevato numerosi dubbi 33 , specie da parte di chi
presupponga l’esistenza di un principio generale di conservazione dell’impresa: e, in
questo senso, si è talora segnalato come sarebbe stato preferibile prevedere, nell’ipotesi
dell’accoglimento dell’opposizione dei creditori, la caducazione della deliberazione (o
del fatto34) legittimante il recesso. Di là, però, dal rilievo che tale soluzione potrebbe
non essere sempre possibile o, comunque, conveniente, la società potrebbe revocare la
decisione che ha dato luogo al recesso o decidere autonomamente lo scioglimento della
società, in entrambi i casi privando di efficacia il recesso, a norma dell’art. 2437-bis,
comma 3, c.c.
Piuttosto, ciò che vale la pena considerare è quello che la norma non consente:
cioè, che il socio che non ha contribuito alla deliberazione debba conservare
l’investimento quando la sua parziale liquidazione possa ledere la conservazione della
garanzia patrimoniale dei creditori, giacché proprio l’esito dello scioglimento della
società indica la prevalenza dell’interesse di tale azionista a disinvestire 35 rispetto a
quello degli altri soci e, più ampiamente, del sistema economico, alla conservazione
dell’impresa.
Emerge, dunque, chiaramente che l’alternativa alla liquidazione individuale della
33
Cfr. A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss., p. 1137 ss., che denuncia la contraddittorietà di questa previsione
con «uno dei punti qualificanti la legge-delega: favorire la nascita, la crescita e la competitività delle
imprese (art. 2, co. 1, lett. a, l. 3.10.2001, n. 366); similmente, cfr. V. CALANDRA BUONAURA, Il recesso
cit., p. 307 s. Si veda però C. ANGELICI, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto
commerciale, II ed., Padova, 2006, p. 90, secondo il quale il mancato acquisto delle azioni da parte dei
soci o sul mercato, insieme con il loro mancato rimborso attraverso mezzi propri della società,
segnalerebbe «un giudizio di inefficienza riguardo all’impresa societaria ed all’operazione che s’intende
compiere» che rende adeguato il rimedio dello scioglimento.
34
In dottrina, peraltro, si discute se la società, al pari di quanto previsto per la deliberazione legittimante
(art. 2437-bis, ultimo comma, c.c.) possa privare il recesso di efficacia rimuovendo il fatto che lo
legittima: in senso favorevole v. V. CALANDRA BUONAURA, Il recesso cit., p. 305, e M. BIONE,
Informazione cit., p. 213 s.; contra, D. GALLETTI, sub artt. 2437 ss. cit., p. 1555.
35
Contra A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 1138, a giudizio del quale lo scioglimento
penalizzerebbe anche il socio recedente «che vede paralizzata la propria pretesa e dovrà attendere gli esiti
della liquidazione per soddisfarsi pro quota sul residuo attivo», e anche quello che «abbia esercitato
parzialmente il recesso, perché in questa scelta è implicito l’interesse a proseguire l’iniziativa economica
comune».
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partecipazione è lo scioglimento della società, cioè il disinvestimento collettivo: una
vicenda al temine della quale ciascuno dei soci riceverà il valore proporzionale della
relativa quota, ritratto all’esito della liquidazione del patrimonio e del pagamento delle
pretese creditorie. Questo valore verosimilmente non corrisponderà né a quello
risultante dalla determinazione degli amministratori ai sensi dell’art. 2437-ter, comma
2, c.c. – giacché quest’ultimo, per un verso, non sconta le vicende successive al
momento al quale quella valutazione si riferisce, e, per altro verso, è solo teorico e non
il frutto della effettiva liquidazione del patrimonio –, né tantomeno a quello riveniente
dal bilancio di esercizio. È certo, però, che esso sarà il risultato di un’attività, promossa
dai liquidatori, funzionale alla massimizzazione del valore del patrimonio sociale, sia
che essa discenda dalla cessione unitaria dell’azienda o, anche, dei singoli rami, sia che
derivi dalla liquidazione individuale di singoli beni, o dalla combinazione di queste
modalità36.
Ciò perché, quando si tratta di definire integralmente e collettivamente il risultato
dell’investimento, i liquidatori devono operare nell’interesse di tutti i soci a ritrarre un
valore quanto più elevato possibile: il che, in principio, non è detto che derivi dall’uno o
dall’altro modo di liquidazione (a cui, in teoria, corrispondono i diversi sistemi di
valutazione delle aziende), ma da quello che in concreto consenta di ottenere sul
mercato il risultato maggiore37; è, questa, una conclusione nota al sistema: infatti, il
legislatore, nel contesto della liquidazione fallimentare, pur avendo presente che
normalmente 38 la «vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o
rapporti giuridici individuabili in blocco» consente di realizzare un plusvalore,
tradizionalmente identificato nell’avviamento – e quindi segnalando tale criterio come
da privilegiare nella realizzazione dell’attivo –, nondimeno dispone la liquidazione dei
singoli beni se ciò consenta una maggiore soddisfazione dei creditori (art. 105 l.fall.).
Ne discende che, almeno nella liquidazione – volontaria o fallimentare che sia – il
patrimonio incorporerà l’avviamento (o sarà ceduto secondo la valutazione reddituale
solo se ciò realizzi un valore maggiore o corrispondente a quello analitico36
Cfr. B. LIBONATI, Corso di diritto commerciale, Milano, 2009, p. 549.
E, infatti, con riguardo alla determinazione, come detto solo teorica, del valore di liquidazione delle
azioni per cui è esercitato il recesso, si veda quanto rilevano M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit.,
p. 91 s., secondo i quali, giacché tale procedimento è funzionale alla «determinazione del valore “reale”
delle azioni del socio recedente – e cioè, più precisamente, del risultato dell’operazione societaria di sua
pertinenza […] – non vi è ragione di negare che gli amministratori siano abilitati ad adottare il metodo
reputato più coerente ad esprimere quel risultato, nell’esercizio della discrezionalità tecnica e in ragione
delle caratteristiche operative della società».
38
E vedi già B. LIBONATI, I bilanci straordinari, in Giur. comm., 1982, I, p. 824 ss., ora in ID., Scritti
giuridici, I, Milano, 2013, p. 1343 ss., spec. p. 1355 s.
37
8
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patrimoniale39: laddove, invece, l’avviamento assuma un segno negativo o, il che è lo
stesso, il metodo reddituale conduca a un risultato minore di quello analiticopatrimoniale, la scelta dovrà necessariamente orientarsi per la vendita dei singoli beni,
ove possibile40.
Di là dalla possibilità che i soci revochino, nei termini previsti dalla legge, la
decisione che ha legittimato al recesso, così privandolo di efficacia, l’unica alternativa
alla liquidazione della quota del recedente è il disinvestimento collettivo, volontario
(artt. 2437-bis, comma 3, e 2437-quater, comma 6, c.c.) o discendente
dall’accoglimento delle opposizioni dei creditori (art. 2437-quater, comma 7, c.c.).
Questa constatazione, imposta dal tenore legislativo, chiarisce sotto il profilo funzionale
l’istituto del recesso41: esso, infatti, sebbene sia spesso riguardato come strumentale a
consentire una negoziazione delle partecipazioni42 – in particolare là dove non vi sia un
relativo mercato – o, addirittura, una negoziazione, fra maggioranza e minoranza, sulla
gestione dell’operazione societaria 43 , ponendosi finanche a presidio contro gli abusi
della prima44, è, sopratutto, un mezzo di disinvestimento individuale.
È vero, infatti, com’è stato anche di recente osservato 45 , che le tesi appena
indicate colgono senz’altro alcuni aspetti dell’istituto e, forse, anche alcune intenzioni
39
Ma si veda, in una prospettiva contraria a ritenere che la valutazione della quota possa determinare un
valore «equivalente a quello realizzabile in caso di dismissione complessiva del patrimonio», A.
PACIELLO, sub art. 2437-ter cit., p. 1228, motivando dal «richiamo alle prospettive reddituali, e quindi a
un bilancio di funzionamento».
40
La quale, semmai, potrà scontare una valutazione prudenziale, giacché, come rileva B. LIBONATI, I
bilanci cit., p. 1355 s., il «bilancio iniziale di liquidazione è funzionale, com’è evidente, alla liquidazione
della società. I valori riportati devono corrispondere, pertanto, al valore di mercato dei beni. Tali valori, a
loro volta, dipendono da come i beni potranno essere alienati. La cessione di un’azienda, ad es., renderà
più di una vendita al dettaglio. Sembra ovvia l’applicazione, anche in questo caso, del principio della
prudenza. Illazioni circa possibili operazioni fortunate sono fuori luogo. Risultati felici della liquidazione
potranno essere congruamente esposti in sede di bilancio finale». L’analogia fra la liquidazione e il
recesso è suggerita, in vero, dallo stesso A. (ID., Il bilancio d’esercizio nelle società per azioni, ed.
provv., Milano, 1968, p. 40, seguito, sul punto, da G. FERRI jr, Investimento cit., p. 176, a nota 106), che,
già nel vigore del sistema precedente segnalava come sembrasse più logico calcolare la quota del socio
recedente «sulla base di un bilancio straordinario redatto con criteri simili al bilancio di liquidazione,
indipendentemente dal futuro dell’impresa, posto che per il socio redente l’attività di impresa cessa, come
è ovvio, al momento del recesso».
41
Cfr. C. FRIGENI, Partecipazione in società di capitali e diritto al disinvestimento, Milano, 2009, p. 105
ss.
42
Cfr. C. ANGELICI, La riforma cit., p. 87, nonché, più di recente, ID., La società per azioni cit., p. 62 s. e
p. 476.
43
Cfr. ancora C. ANGELICI, La riforma cit., p. 87 ss., e ID., La società cit., p. 477, a nota 73, nonché M.
STELLA RICHTER jr, Diritto di recesso e autonomia statutaria, in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 389 ss., spec.
p. 403; V. CALANDRA BUONAURA, Il recesso cit., p. 307; F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina cit., p. 488.
44
Cfr. D. GALLETTI, sub artt. 2437 ss. cit., p. 1483 ss.; contra A. PACIELLO, Il diritto di recesso nella
s.p.a.: primi rilievi, in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 417 ss., spec. p. 419 ss.
45
M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 84.
9
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che hanno ispirato il legislatore storico, ma resta il fatto, scolpito con chiarezza dalla
disciplina, che il recesso è funzionale a consentire ai soci di rimodulare il proprio
investimento46 dinanzi a una operazione societaria che si modifica in modo rilevante sul
piano organizzativo o economico47.
Come si osserva in dottrina48, storicamente il recesso accompagna l’affermazione
del principio maggioritario in ordine alle modificazioni statutarie e, dunque, esprime un
bilanciamento fra l’interesse della maggioranza a modificare l’originaria operazione
societaria, senza transitare per lo scioglimento della società e una nuova iniziativa
imprenditoriale, e quello della minoranza dissenziente a “tirarsene fuori”: ma sul
presupposto, per un verso, che si tratti di una vicenda integralmente interna alla
compagine sociale, e, per altro verso, che la possibilità di modificare l’investimento uno
actu non possa andare a detrimento del diritto al valore della partecipazione sociale.
Sicché non vengono in considerazione, al fondo, né l’esigenza di creare un
mercato delle partecipazioni49, né quella di tutelare i soci di minoranza dagli abusi della
maggioranza50: ché, anzi, sebbene i due aspetti occupino piani giuridicamente distinti, il
46
Cfr. M. MAUGERI, Partecipazione cit., p. 207 s. e p. 209, che rintraccia nel recesso un’espressione
potestativa, comune a una vicenda di gestione dell’altrui interesse, funzionale al «conseguimento del
risultato dell’operazione societaria». V. DI CATALDO, Il recesso cit., p. 223, pur segnalando il
«multiforme» ruolo complessivo del recesso, individua nel «disinvestimento del socio in ipotesi nelle
quali le condizioni di rischio della società vengono a modificarsi in termini significativi» la «prima
ragione d’essere delle nuove regole».
47
Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 158 s., e M. MAUGERI, Partecipazione cit., p. 190 s.
48
Cfr. G. GRIPPO, Il recesso del socio, in Tratt. soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 6*,
Torino, 1993, p. 133 ss.
49
La stessa ipotesi di recesso ad nutum, prevista nelle società non quotate costituite a tempo
indeterminato, sebbene a prima vista tragga la propria ragion d’essere dall’assenza di un mercato delle
partecipazioni di tali società e, dunque, dalla obiettiva difficoltà del socio di smobilizzare le azioni (cfr. C.
ANGELICI, La riforma cit., p. 88), risultando funzionale ad agevolare proprio il disinvestimento (e,
dunque, specularmente, la propensione all’investimento), non rintraccia in tale situazione di fatto la
propria condizione necessaria e sufficiente. È significativo notare, infatti, che tale fattispecie discende,
oltre che dalla circostanza che la società non sia quotata, da una precisa scelta dei soci di non prevedere
un termine per la società; del resto, sebbene sovente tale fattispecie di recesso venga spiegata richiamando
il principio di inammissibilità di vincoli perpetui (cfr., ex multis, ID., ibid.), l’osservazione che, quando
previsti, i termini sono normalmente molto distanti e quasi sempre superiori alle prospettive di vita degli
azionisti persone fisiche, rende quella spiegazione insoddisfacente: non è un caso, infatti, che nelle
società di persone, il recesso è esercitabile ad nutum quando la società è contratta a tempo indeterminato,
o per tutta la vita di uno dei soci (art. 2285 c.c.). Si vuol dire, in altre parole, che se il problema fosse
effettivamente quello di supplire all’assenza di un mercato delle partecipazioni, il recesso dovrebbe essere
ammesso anche quando il termine sia così lontano da essere, di fatto, indeterminato. Così, invece, non è,
sì che sembra fondata l’idea che la mancata fissazione di un termine o, all’opposto, la sua fissazione,
quale che sia, denotino l’intenzione dei soci di consentire più o meno ampiamente a ciascun azionista di
disinvestire.
50
A parte, forse, il caso contemplato nell’art. 2497-quater, comma 1, lett. b, c.c., a mente del quale il
socio a favore del quale sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, la condanna di chi esercita
l’attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c., può recedere per l’intera partecipazione:
10
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presupposto del recesso è la validità e l’efficacia della deliberazione sociale, all’esito
del legittimo dispiegarsi del potere della maggioranza 51 ; il quale, proprio perché
esercitato «in conformità della legge e dell’atto costitutivo», vincola «tutti i soci,
ancorché non intervenuti o dissenzienti» (art. 2377, comma 1, c.c.), al punto che, per
evitare quella soggezione, ma solo per i limitati casi in cui è previsto, l’unica strada è il
disinvestimento.
Proprio l’alternativa, impostata dalla legge, fra disinvestimento individuale e
collettivo induce a non enfatizzare quella, pure emergente dalla disciplina, fra
liquidazione della quota a spese della società, con contestuale riduzione del capitale
sociale se necessario, e alienazione delle azioni per cui è esercitato il recesso agli altri
soci o sul mercato; si tratta, infatti, di vicende solo apparentemente contigue.
In vero, la circostanza che la liquidazione della quota assuma, peraltro in via
privilegiata secondo la scansione procedimentale dell’art. 2437-quater c.c., le forme del
pagamento del prezzo per l’acquisto delle azioni del recedente, induce talora a ritenere
che tale vicenda incida anche sulla determinazione del valore di liquidazione: che tale
valore, cioè, debba coincidere con quel prezzo o, meglio, con i criteri della sua
formazione52. Ciò, però, è vero solo per le azioni quotate nei mercati regolamentati –
ancorché si tratti comunque, anche in quel caso, di un prezzo imposto e calmierato53 – e,
solo in parte, forse, per società con titoli diffusi fra il pubblico (alle quali,
verosimilmente, fa riferimento l’art. 2437-ter c.c. con il rinvio all’eventuale prezzo di
mercato) 54, non anche per le società chiuse, ove le azioni rilevano piuttosto, almeno in
questa fase, come strumenti d’investimento 55 . E, in questo senso, non sembra
secondario segnalare che, anche sul piano terminologico, il legislatore, nell’art. 2437-
e cfr., sul punto, M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 85.
51
Cfr. C. ANGELICI, La società cit., p. 74 s.
52
Cfr. C. ANGELICI, La società cit., p. 476, a nota 72, rileva che «per il ruolo del diritto di recesso al fine
di provocare una negoziazione endosocietaria, si spiega l’esigenza di criteri di determinazione del valore
delle azioni del recedente che il più possibile simulino gli esiti cui si perverrebbe in una libera
contrattazione» (enfasi aggiunta). Nel medesimo senso G. MARASÀ, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 796.
53
Di prezzo “amministrato” dalla legge tratta P. SPADA, C’era una volta la società …, in Riv. not., 2003,
p. 1 ss., spec. p. 11.
54
E cfr. A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 1126, a nota 4, ove si rileva che, con tutta probabilità, il
«sintagma “nonché dell’eventuale valore di mercato” vuol tener conto delle società c.d. “chiuse”, dove
non sempre è possibile individuare il valore di mercato», e a conferma l’A. confronta la previsione
dell’art. 2473, comma 3, c.c., dettato in tema di valutazione della quota del socio recedente di s.r.l., ove il
rinvio alla considerazione in ogni caso del valore di mercato (non della quota, ovviamente, ma) del
patrimonio tout court. Nel medesimo senso v. G. MARASÀ, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 796.
55
Per la distinzione fra azioni come strumento d’investimento e come bene di scambio cfr. G. FERRI jr,
Investimento cit., p. 183 ss.
11
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ter, comma 3, c.c. impiega il termine di valore di liquidazione56 e non, invece, quello di
prezzo57.
Vale la pena di osservare, infatti, che se sul piano economico anche la cessione
delle azioni realizza un disinvestimento (come, specularmente, l’acquisto realizza un
investimento), sul piano giuridico le vicende sono distinte: nello scambio, infatti, la
partecipazione sociale e, paradigmaticamente, le azioni, rilevano come oggetti, al pari di
qualsiasi altro bene, e la modalità di investimento è, in definitiva, realizzata solo in
fatto, in considerazione della necessaria duplicità degli scambi e dell’eventuale
differenza fra i prezzi di acquisto e di vendita58, presentandosi solo in via eventuale; al
contrario, là dove si riguardi la partecipazione sociale come strumento di investimento,
vale a dire come forma giuridica assunta dalla destinazione di ricchezza all’operazione
societaria, la funzione di investimento è realizzata immediatamente dalla titolarità della
partecipazione stessa, che consente di prendere parte alle ripartizioni periodiche degli
utili e all’eventuale valore finale di liquidazione, del tutto indipendentemente dalla
circostanza che essa sia coinvolta in vicende di scambio59.
In vero, l’ordinamento mostra di prestare attenzione alla partecipazione sociale sia
come strumento d’investimento, sia come oggetto di scambio: la stessa disciplina del
recesso segnala questa duplicità di piani nella parte in cui dispone che la valutazione
delle azioni quotate avvenga attingendo alla media dei prezzi di chiusura dei sei mesi
che precedono la pubblicazione ovvero la ricezione dell’avviso di convocazione
dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso (art. 2437, comma 3, c.c.);
tuttavia, proprio il confronto con quest’ultima previsione 60 , insieme con le
considerazioni che precedono, convincono che nel caso di titoli non quotati il recesso
esprima una vicenda tutta interna alla società e, dunque, alla partecipazione sociale nella
sua dimensione di strumenti di investimento61.
La preferenza per la cessione dei titoli, allora, sembra funzionale a consentire
esclusivamente di non smobilizzare la ricchezza investita; ma il rilievo che, in ultima
istanza, la strada è quella della liquidazione della società, segnala che tale interesse alla
prosecuzione dell’attività – comune ai soli soci superstiti – è in definitiva subordinato a
quello, proprio di chi recede, di interrompere o limitare il proprio investimento e,
56
In questo senso, la Relazione ministeriale cit., nel § 9, chiarisce che la vicenda, dalla parte del
recedente, deve essere considerata come «un atto, ed un intento, liquidatorio».
57
Lo segnala P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 464.
58
Cfr. G. FERRI jr, Investimento cit., p. 54 ss.
59
Ancora G. FERRI jr, Investimento cit., p. 183 ss.
60
E cfr., infatti, M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 94 ss.
61
M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 96.
12
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soprattutto, di ottenerne il valore finale.
Se è vero, infatti, che, sul piano operativo, c’è senz’altro più vicinanza, quanto ai
valori, fra il prezzo eventuale delle azioni e il valore unitario effettivo delle stesse
(ottenuto vuoi mediante la rettifica dei valori del patrimonio sociale, vuoi,
alternativamente, attraverso la sua valutazione secondo il metodo reddituale), rispetto a
quanta ve ne sia fra quest’ultimo e quello discendente dal bilancio d’esercizio,
nondimeno il valore di liquidazione, ancorché solo teoricamente determinato, tenderà
verosimilmente a distinguersi dal prezzo delle azioni: il primo, infatti, non reca alcun
riferimento al complesso dei poteri organizzativi normalmente associati alla
partecipazione sociale, giacché la liquidazione implica per definizione la “dissoluzione”
dell’organizzazione62, mentre il secondo si determina, fra l’altro, sul presupposto della
continuazione dell’impresa e, dunque, incorpora i valori positivo o, rispettivamente,
negativo dell’avviamento; aspetto, quest’ultimo, che, come si è chiarito, sembra dover
valere per la liquidazione solo in presenza di un valore positivo.
Sembrano condivisibili, allora, quelle impostazioni secondo le quali, in caso di
recesso, la liquidazione delle azioni dovrebbe assegnare al socio un valore almeno pari a
quello che gli spetterebbe per l’ipotesi di liquidazione della società63: il che vale, a ben
vedere, anche per l’ipotesi in cui i soci, a norma dell’art. 2437-ter, comma 4, c.c.,
abbiano stabilito criteri diversi di determinazione del valore di liquidazione 64 ; il
62
E non vale rilevare, in contrario, che i soci, a maggioranza, possono comunque revocare lo stato di
liquidazione, giacché si verserebbe, in tale ipotesi, in una fattispecie inderogabile di recesso dalla s.p.a.
(art. 2437, comma 1, lett. d, c.c.).
63
Contra M. CARATOZZOLO, Criteri (I parte) cit., p. 1211, e D. GALLETTI, sub artt. 2437 ss. cit., p. 1570
ss.
64
Sul significato e sui contenuti dell’apertura all’autonomia statutaria, in punto di criteri di
determinazione del valore delle azioni, cfr. in senso critico M. REBOA, Criteri cit., p. 409, secondo il
quale, in definitiva, di là dalla possibilità di estendere questa previsione anche alla valutazione delle
azioni quotate (contra, sul punto, S. CARMIGNANI, sub art. 2437-ter, in La riforma delle società, a cura di
M. Sandulli e V. Santoro, 2/II, Torino, 2003, p. 889 ss., spec. p. 892; A. PACIELLO, sub artt. 2437 ss. cit.,
p. 1132, secondo il quale il criterio legale sarebbe inderogabile «e pertanto è inammissibile una qualsiasi
modifica, sia che risulti più vantaggiosa, sia che vada nell’opposta direzione», nonché M. STELLA
RICHTER jr, Diritto cit., p. 399, G. MARASÀ, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 797, e M. MAUGERI e H.
FLEISCHER, Problemi cit., p. 96 s.), «le specificazioni indicate al 4° comma potrebbero essere interpretate
come più stringenti “guidelines” da seguire nel processo valutativo per circoscrivere la discrezionalità
della stima e garantire che il procedimento disciplinato dalla norma valorizzi adeguatamente e in via
autonoma, in forza di una norma statutaria, determinati elementi del patrimonio tangibile e intangibile
[…] adottando, in questa prospettiva, criteri noti in partenza», in un orizzonte di accresciuta «tutela dei
soci che desiderano esercitare il diritto di recesso»; in termini non dissimili cfr. M. CIAN, La liquidazione
cit., p. 306. In una prospettiva diversa, cfr. A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 1129, coerentemente
con la sua impostazione volta a dimostrare che i criteri legali non consentano di liquidare il valore
effettivo della quota, «potendo al più ridurne lo scarto»; egli, infatti, mostra di interpretare la norma sui
criteri legali, alla luce della possibilità di derogarvi per via statutaria: «il rapporto tra regola dispositiva e
autonomia negoziale lascia presumere che i valori risultanti dall’applicazione del criterio legale non siano
13
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contrario, infatti, violerebbe non soltanto – come comunemente si osserva65 – l’ultimo
comma dell’art. 2437 c.c., a mente del quale «è nullo ogni patto volto a escludere o
rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso» nei casi in cui esso è fissato
imperativamente dal codice, ma, più profondamente, un principio tipologico, in forza
del quale i soci non possono essere privati del valore della loro quota66; da cui origina,
peraltro, il dubbio che le norme concernenti la determinazione del valore della quota di
liquidazione non possano derogare in pejus 67 al criterio di legge neppure nei casi di
idonei a determinare il valore effettivo, e che invece esso possa essere determinato con l’adozione di
criteri alternativi o, comunque, diversi […] Altrimenti non avrebbe alcun senso la facoltà di stabilire
criteri diversi»; in una prospettiva simile V. DI CATALDO, Il recesso cit., p. 236 s., secondo il quale i
criteri statutari varrebbero proprio «a consentire una migliore acquisizione del valore reale» delle azioni.
Cfr., infine, P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 474 s., secondo cui la portata della norma in esame è
stata «probabilmente sopravalutata dai primi commentatori, nel senso che le sono stati attribuiti spazi
normativi in eccesso rispetto a quanto più realisticamente si possa considerare».
65
E cfr., ex multis, M. STELLA RICHTER jr, Diritto cit., p. 400; P. PISCITELLO, Riflessioni cit., p. 525; V.
CALANDRA BUONAURA, Il recesso cit., p. 314; M. CIAN, La liquidazione cit., p. 305.
66
Il che, d’altra parte, a protezione dei soci non recedenti, potrebbe essere declinato nel senso che il
valore di liquidazione non potrà in ogni caso superare quello di mercato del patrimonio sociale: in una
prospettiva consimile cfr. A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 1126, il quale, trattando del valore
derivante dall’applicazione di eventuali criteri statutari, conclude che esso «mai potrà portare a liquidare
un corrispettivo superiore a “quel valore di mercato”, che assume logicamente il significato di limite
invalicabile, e conferma il divieto di restituire al socio più di quanto ha investito e realizzato per effetto
dell’attività comune e di corrispondergli un valore superiore al valore “reale”, rapportato al valore di
mercato delle “entità che compongono il patrimonio sociale”». Il tema dei rapporti fra soci recedenti e
superstiti affiora anche nell’indagine di M. CIAN, La liquidazione cit., p. 308, che in effetti, discorrendo
della legittimità di criteri statutari di liquidazione delle azioni potenzialmente penalizzanti per coloro che
recedono, segnala come da tale vicenda possa discendere «un arricchimento (indiretto) a beneficio di
quanti acquisiscano tale partecipazione o dei soci superstiti (a seconda delle modalità con cui avviene
l’uscita del recedente […]) di apparente difficile giustificazione»: problema che, tuttavia, l’A. mostra di
superare riguardando la vicenda sul piano dei rapporti fra socio recedente e società; infatti, in tal modo «il
“costo” così introdotto viene a rappresentare un minor aggravio per la seconda, sotto il profilo finanziario,
che può più facilmente ricondursi a quel (variabile, almeno in parte) schema di bilanciamento degli
interessi del singolo e, rispettivamente, dell’impresa, sul filo del quale si muove tutto l’istituto del
recesso». Si tratta, però, come si è cercato di esprimere nel testo, di una prospettiva che non sembra
condivisibile.
Sulla necessità di riconoscere al recedente il valore reale delle azioni – ferma la discrezionalità tecnica
della sua determinazione, e ferma la posizione dell’A. in ordine alla legittimità di premi e sconti – cfr. V.
DI CATALDO, Il recesso cit., p. 237 s., che osserva come «lo spostamento di ricchezza (in un senso o
nell’altro) non avrebbe alcuna “causa”»; sul tema si veda anche P. PISCITELLO, Riflessioni cit., p. 525.
67
Per la conclusione secondo la quale i criteri statutari debbono individuare gli elementi dell’attivo
«suscettibili di una diversa, e più elevata, valutazione» cfr. A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 1126;
l’A., tuttavia, sembra riferirsi ai soli casi inderogabili di recesso, giacché più avanti ammette la possibilità
che nello statuto, nelle ipotesi diverse, possano essere introdotte «previsioni pattizie volte a comprimere il
valore di liquidazione». Suggeriscono di distinguere fra cause inderogabili e derogabili o di natura
pattizia, anche P. PISCITELLO, Recesso cit., p. 47; M. CIAN, La liquidazione cit., p. 307 s., e M. MAUGERI e
H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 83 ss., nonché p. 104, gli ultimi Aa. in particolare aprendo alla possibilità
di convenzioni che comprimano il valore della partecipazione, imponendo al socio recedente un “prezzo”
per l’accresciuta mobilità dell’investimento e, se del caso, che prevedano “sconti” di minoranza o “premi”
di maggioranza: col limite, però, in vero coerente a quanto si rileva nel testo, «della “ragionevolezza” del
14
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recesso derogabili o di natura statutaria.
3. Lo stesso ordine di considerazioni, d’altra parte, consente di sciogliere un
secondo nodo problematico della valutazione delle azioni in caso di recesso,
concernente la possibilità di gravare la quota di liquidazione di uno “sconto di
minoranza”, in considerazione del rilievo che la relativa partecipazione non consenta di
esercitare alcun significativo potere di controllo sulla gestione, né di smobilizzare
l’investimento in tempi accettabili o a condizioni convenienti68.
La legittimità dell’applicazione di tale criterio è suggerita soprattutto dalla
letteratura aziendalistica 69 , che ne rintraccia un indice normativo nel criterio di
liquidazione concernente «l’eventuale valore di mercato delle azioni»: esso, infatti,
farebbe riferimento non soltanto alla circostanza che vi sia effettivamente un mercato di
tali azioni e, dunque, un prezzo di mercato di cui “tenere conto”, ma anche, ben più
ampiamente, al dovere di applicare alla valutazione i criteri di fissazione di tale
ipotetico prezzo, se del caso considerando i «“dati di mercato” relativi a transazioni
aventi ad oggetto pacchetti azionari di minoranza di società non quotate con un assetto
dell’azionariato analogo» a quello della società de qua70.
Si nota, infatti, che “premi” e “sconti” contribuirebbero a trasformare uno
standard di valore, segnatamente quello concernente il valore economico generale della
criterio valutativo prescelto, cioè della sua coerenza con il significato tecnico del recesso quale strumento
di imputazione definitiva all’azionista uscente di una grandezza monetaria comunque dipendente dal
risultato dell’operazione societaria». Contra, V. DI CATALDO, Il recesso cit., p. 233 e p. 236 s.
68
Entrambi i profili che giustificherebbero l’applicazione di uno sconto di minoranza sono ben noti alla
letteratura aziendalistica, la quale infatti distingue fra lo sconto di minoranza “in senso stretto”,
riconducibile al «nullo o risibile valore attribuibile ai diritti amministrativi o partecipativi dei titoli in
oggetto perché ininfluenti ai fini delle maggioranze assembleari», e lo sconto “per mancanza di liquidità”,
connesso «alla difficile negoziabilità dei titoli di minoranza che concorre ad aumentare il profilo di
rischio dello specifico investimento»: così M. REBOA, Criteri cit., p. 413. Per ulteriori ipotesi di sconto,
cfr. l’ampia rassegna in M. CARATOZZOLO, Criteri (II parte) cit., p. 1344.
69
Ma fra costoro si vedano, in posizione contraria, M. CARATOZZOLO, Criteri (II parte) cit., p. 1344,
secondo il quale, fra l’altro, l’art. 2437-ter c.c. si riferirebbe «inequivocabilmente al valore unitario delle
azioni, non al valore di pacchetti azionari di maggioranza o di minoranza»; così anche P.M. IOVENITTI, Il
nuovo diritto cit., p. 478. In giurisprudenza, in senso favorevole all’applicazione dello “sconto di
minoranza”, cfr. Trib. Roma, 5 marzo 2003, cit.
70
Va osservato, peraltro, che talora la dottrina aziendalistica non prevede l’applicazione di un fattore di
sconto, in particolare là dove il valore economico generale dell’impresa sia determinato secondo metodi
di natura reddituale, nella loro configurazione classica, che impiegano la valutazione dei flussi di risultato
in prospettiva “as is”, cioè sulla base di piani che non prevedono discontinuità rispetto alla situazione
data: alla luce di queste premesse, infatti, si osserva che tale valore è quello ritraibile da parte di chi non
può o non è interessato a incidere sulla gestione dell’impresa e la destinazione delle risorse e, dunque,
sconta già la considerazione della posizione di minoranza del recedente. Cfr. L. GUATRI e M. BINI, La
valutazione cit., p. 500 ss., seguiti da M. REBOA, Criteri cit., p. 405 s. e p. 413 s.
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società, in un altro, ossia il “prezzo fattibile”, che, a differenza del primo, tenga conto
delle caratteristiche dell’investimento azionario e, in particolare, della percentuale del
capitale rappresentato dalle azioni trasferite 71 . E, in questo senso, tale modalità
contribuirebbe sia ad avvicinare la valutazione delle azioni non quotate a quella dei
titoli negoziati su mercati regolamentati, che già sconterebbe «il discount di
minoranza»72, sia a contemperare le esigenze di tutela del socio che intende liquidare la
partecipazione con quelle di «salvaguardia del patrimonio sociale e di tutela dei
creditori sociali»73.
Si tratta, però, di un ordine argomentativo non convincente sotto numerosi profili,
a cominciare dal parallelo con il prezzo dei titoli quotati, le cui dinamiche, anche in
considerazione alla disciplina delle offerte pubbliche di acquisto, meriterebbero un
approfondimento maggiore, potendosi quantomeno dubitare che tale valore di per sé
“sconti” il discount di minoranza74; e, d’altra parte, se anche il prezzo di borsa dovesse
ritenersi “scontato”, non è forse secondario osservare che si tratterebbe pur sempre di un
valore applicabile a qualsiasi azionista, a prescindere dal rilievo percentuale della
relativa partecipazione, il che allora sconsiglia di praticare una diversa valutazione in
ragione dei caratteri di quest’ultima.
In secondo luogo, per le ragioni già viste, non è convincente spiegare il valore
“scontato” offerto al socio con l’esigenza di tutelare i creditori sociali e, più in generale,
il patrimonio sociale75. Quanto ai creditori sociali, infatti, non si capisce la ragione di
ulteriori forme di tutela rispetto a quelle già previste dal legislatore e significativamente
collocate nell’unico momento in cui un potenziale pregiudizio possa emergere. Del
resto, ai soci recedenti è dovuta la quota di pertinenza del patrimonio netto della società,
cioè di quella porzione dell’attivo che superi il valore complessivo dei debiti; tale
valore, peraltro, secondo il disegno procedimentale impresso dall’art. 2437-quater c.c.,
come già si è detto, è ricavato dalla vendita agli altri soci o sul mercato delle azioni e,
dunque, senza alcuna diminuzione patrimoniale della società. In secondo luogo,
quand’anche non si riuscisse a collocare così le azioni, la società dovrebbe rimborsare i
soci attingendo a porzioni del proprio patrimonio netto di per sé già disponibili da parte
di questi ultimi (perché a essi, in definitiva, destinate: ossia, utili e riserve disponibili),
71
V. M. REBOA, Criteri cit., p. 413.
Cfr. M. REBOA, Criteri cit., p. 413 ss.
73
Ancora M. REBOA, Criteri cit., p. 415.
74
Cfr. M. CARATOZZOLO, Criteri (II parte) cit., p. 1344, e P.M. IOVENITTI, Il nuovo diritto cit., p. 479.
75
Così, invece, M. REBOA, Criteri cit., p. 415.
72
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senza che emerga alcun specifico conflitto di interesse con i creditori76. Un problema, in
effetti, potrebbe porsi soltanto per l’ipotesi in cui, al fine di rimborsare il valore delle
azioni, debba procedersi alla riduzione del capitale sociale: infatti, i creditori – che di
per sé sarebbero comunque tutelati quanto alla capienza del patrimonio sociale per far
fronte al passivo – potrebbero subire un pregiudizio per effetto della crisi della garanzia
patrimoniale dell’impresa, indotta dalla riduzione dei mezzi destinati all’esercizio
dell’impresa sociale; proprio il rilievo, però, che il legislatore, in questo caso, e in esso
soltanto, abbia previsto l’istituto dell’opposizione dei creditori, induce a ritenere che
tale forma di tutela sia più che adeguata a presidiare gli interessi di costoro.
Ancor meno avvertita, se possibile, è un’ipotetica esigenza di salvaguardia del
patrimonio sociale 77 che, esclusa la rilevanza di interessi dei creditori al riguardo,
andrebbe più precisamente a tutelare quelli dei soci superstiti, se non addirittura ad
“arricchirli” a spese del socio che recede; in vero, se anche si volesse far emerge, con
tale espressione, un interesse dell’impresa “in quanto tale” a proseguire l’attività – di là
dalle ambiguità discendenti da tale ipostatizzazione – si tratterebbe, ancora una volta,
del travisamento della disciplina legale, poiché proprio la circostanza che l’art. 2437quater, ultimo comma, c.c. indichi lo scioglimento della società come approdo imposto
per l’ipotesi dell’accoglimento dell’opposizione dei creditori, dimostra che, a fronte di
un investimento che si modifica significativamente (o che non prevede originariamente
un termine) l’interesse del socio a disinvestire prevale su quello della maggioranza a
proseguirlo senza transitare per il medio della liquidazione. E, anzi, un’interpretazione
siffatta, che si traduca nella compressione del valore del rimborso dovuto al socio
recedente, rendendo più gravoso l’esercizio del recesso, potrebbe senz’altro essere
denunciata ai sensi dell’art. 2437, comma 6, c.c.
In termini ancora più generali, infine, la previsione di “premi” e “sconti” riflette la
premessa, qui non condivisa, che il recesso sia funzionalmente succedaneo
all’alienazione delle partecipazioni, della quale dovrebbe pertanto ripetere gli elementi
76
E proprio questo consente di respingere l’idea che lo sconto, agevolando l’acquisto delle azioni da parte
di soci e terzi, allontanerebbe l’ipotesi dell’acquisto dei titoli da parte della società o, addirittura, del loro
annullamento mediante riduzione del capitale sociale, a potenziale detrimento dei creditori sociali: si
veda, invece, per quest’ordine di idee, ancorché con riferimento alla previsione di premi di maggioranza,
A. DACCÒ, Il recesso nelle s.p.a., in Le nuove s.p.a. a cura di O. Cagnasso e L. Panzani, Bologna, 2010, p.
1447; contra, condivisibilmente, M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 106, a nota 114.
77
È certo, tuttavia, che a impostare i termini del problema fra tutela dell’interesse del socio recedente e
tutela del patrimonio della società, è la legge delega n. 366/2001, che all’art. 4, comma 9 lett. d), invitava
a individuare criteri di calcolo del valore di rimborso adeguati alla tutela del recedente, salvaguardando
però «l’integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori»: cfr. A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit.,
p. 1126.
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essenziali, in particolare riguardo alla formazione del prezzo.
Non stupisce, pertanto, che a differenza dagli aziendalisti la scienza giuridica sia
assai meno propensa a riconoscere la legittimità di “sconti” o “premi” in caso di
recesso78; v’è, infatti, un orientamento prevalente che, muovendo proprio dal significato
di liquidazione individuale finale, ancorché non necessariamente integrale, della
partecipazione, suggerisce di applicare anche sotto questo profilo i criteri di
determinazione del valore di liquidazione propri della fase di scioglimento della società.
Come già si segnalava in tema di determinazione del valore della quota, infatti, dal
punto di vista del recedente non emergono più i profili concernenti la gestione
dell’investimento, ma esclusivamente la sua definizione.
Del resto, anche a tacere del fatto che, più esattamente, l’art. 2437-ter c.c. rinvia
all’“eventuale” valore di mercato, sul presupposto che questo, allora, concretamente non
vi sia – mentre la contraria tesi prima riferita finisce per individuarlo sempre, in
contraddizione col tenore letterale della norma – l’impostazione prevalente nella
dottrina giuridica sembra trovare conferma anche numerosi indici normativi che
inducono a ritenere che il valore di liquidazione delle azioni cui fa riferimento l’art.
2437-ter, comma 2, c.c., altro non sia che l’espressione frazionaria 79 , e dunque
necessariamente unitaria, del valore complessivo del patrimonio sociale, a cominciare
dal ripetuto richiamo testuale alle “azioni” (art. 2437-ter c.c.) – talora declinate, in
termini addirittura più significativi per quanto si viene dicendo, al singolare (art. 2437,
comma 1, lett. f, c.c.) – e non invece alla “partecipazione sociale”, intesa nelle società
azionarie quale quota del capitale sociale riferibile a ciascun socio e determinata dalla
somma delle azioni possedute (cfr., ad es., gli artt. 120 e ss. Tuf); parimenti indicative,
poi, sono sia la possibilità che il recesso interessi una parte soltanto delle azioni
78
Cfr. A. DACCÒ, Il recesso cit., p. 1443, M. VENTORUZZO, Recesso cit., p. 114 ss. e M. MAUGERI e H.
FLEISCHER, Problemi cit., 98 ss. Contra V. CALANDRA BUONAURA, Il recesso cit., p. 315; V. DI
CATALDO, Il recesso cit., p. 235, nonché, per la s.r.l., P. REVIGLIONO, Il recesso nella società a
responsabilità limitata, Milano, 2008, p. 378 ss.
79
E, in questo senso, in vero, induce anche la previsione, dettata in tema di recesso dalla s.r.l., dell’art.
2473, comma 3, c.c., in virtù della quale “i soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il
rimborso della propria partecipazione in proporzione al patrimonio sociale”: cfr. A. PACIELLO, sub artt.
2437 e ss. cit., p. 1126, a nota 4; P. PISCITELLO, Recesso ed esclusione nella s.r.l., in Il nuovo diritto
societario. Liber amicorum cit., 3, p. 717 ss., spec. p. 730 s. Non manca tuttavia chi, sulla scorta di
quanto previsto nella medesima norma, ai sensi della quale tale valutazione è operata tenendo conto del
«suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso», ritiene che si debba anche per il caso
della s.r.l. considerare il valore della partecipazione e non del patrimonio sociale: per una sintesi della
posizioni cfr., oltre a P. REVIGLIONO, Il recesso cit., p. 366 ss., G.B. PORTALE e A. DACCÒ, Criteri e
modalità «penalizzanti» per il recesso del socio di minoranza nella società a responsabilità limitata, in
RDS, 2009, p. 22 ss., spec. p. 26: gli ultimi Aa., peraltro, proprio alla luce della previsione richiamata,
escludono nella s.r.l. la legittimità di primi di maggioranza e di sconti di minoranza (ivi, p. 28).
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possedute (e, dunque, non la partecipazione in sé), sia la circostanza che per le azioni
quotate il legislatore rinvia a un indice che per definizione ne esprime il valore unitario,
vale a dire (la media semestrale del) prezzo di borsa 80; milita, infine, a favore della
prospettiva segnalata, il rilievo, per taluni decisivo, secondo il quale gli amministratori
debbono indicare almeno quindici giorni prima dello svolgimento dell’assemblea il
valore al quale le azioni saranno, se del caso, liquidate81: in un momento, in cui, cioè,
non sarebbe dato conoscere se chi scelga di esercitare tale potere detenga una quota di
maggioranza o meno.
La ratio di quest’ultima previsione riposerebbe, in particolare, nell’intento non
tanto (o, quantomeno, non solo) di preservare il valore di liquidazione dagli esiti che la
pubblicità della deliberazione può generare sul valore della società82, bensì di consentire
ai soci di valutare consapevolmente il proprio contegno assembleare, conoscendo
anticipatamente quale valore sia possibile ritrarre in caso di recesso83; interesse, a ben
vedere, comune tanto a chi intenda eventualmente recedere, quanto a chi, volendo
approvare la deliberazione, voglia conoscerne i potenziali costi che la società potrebbe
dover sopportare per effetto dell’esercizio del recesso da parte di taluni fra gli
azionisti84.
Proprio quest’ultima osservazione sconsiglia di ritenere che gli amministratori
possano comunque assolvere il predetto dovere individuando il valore unitario delle
azioni e, poi, rettificarlo in diminuzione e in aumento, di modo da comprendere gli
eventuali sconti e premi 85 : anche in questo caso, infatti, il recedente sarebbe nella
condizione di non conoscere il valore delle proprie partecipazioni ai fini del recesso,
poiché l’applicazione dello sconto o il pagamento del premio non dipende soltanto dalla
posizione del cedente, ma anche da quella che, per effetto dell’acquisto, assume il
cessionario; tale vicenda circolatoria, cioè, nonostante abbia normalmente origine da
80
Indici normativi coerenti, del resto, con i criteri direttivi della riforma delle società per azioni che si
voleva ispirata al principio della “centralità dell’azione” (art. 4, comma 1, legge delega n. 366/2001).
81
Cfr. M. VENTORUZZO, Recesso cit., p. 119.
82
Sull’opportunità di tenere conto della situazione precedente alla deliberazione per evitare gli effetti
dell’annuncio dell’operazione sul valore delle partecipazioni sociali cfr. M. MAUGERI e H. FLEISCHER,
Problemi cit., p. 86; contra L. DELLI PRISCOLI, Delle modificazioni cit., p. 154 s.
83
Cfr. M. BIONE, Informazione cit., p. 210; L. DELLI PRISCOLI, Delle modificazioni cit., p. 151; M.
MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 109, tanto che l’eventuale inerzia degli amministratori
comporterebbe un vizio del procedimento assembleare e renderebbe impugnabile la deliberazione (nel
medesimo senso già M. CALLEGARI, sub art. 2437-ter cit., p. 1427, e F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina
cit., p. 509).
84
Cfr., per la sottolineatura del duplice interesse sotteso alla previsione, A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss.
cit., p. 1125.
85
Così, invece, M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 99, nel testo e a nota 90, pur nel contesto
di un discorso volto a negare la legittimità di sconti e premi.
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una posizione di minoranza, potrebbe consolidare situazioni di controllo, o comunque
modificare l’equilibrio interno alla compagine sociale, a seconda in particolare di chi, a
norma dell’art. 2437-quater c.c., divenga acquirente della partecipazione, ovvero per
effetto della ripartizione proporzionale del capitale, all’esito dell’annullamento delle
partecipazioni del recedente86.
Il che dimostra che la scelta fra tali diversi valori, pur preventivamente dichiarati
dagli amministratori, risulterebbe condizionata da numerose variabili e, in definitiva,
dall’esito del procedimento di rimborso87, lasciando l’azionista recedente sino alla fine
nell’incertezza degli effetti economici della propria scelta che, però, ed è questo il
punto, non è revocabile una volta che sia giunta a conoscenza della società 88 o,
comunque, all’esito della cessione delle partecipazioni89.
Ancora una volta, tuttavia, e in termini decisivi, a scoraggiare l’interpretazione
volta a riconoscere “sconti” o “premi” è il rilievo che il legislatore mostra di considerare
come realmente alternativi il rimborso delle azioni secondo il valore determinato dagli
amministratori e quello eventualmente riveniente dalla liquidazione della società; e ciò,
non soltanto per l’ipotesi in cui la società, al fine di privare di efficacia il recesso decida
lo scioglimento, ma anche nei casi in cui, non essendo più percorribile questa strada,
decida o, addirittura, si veda costretta alla liquidazione, per effetto della mancata
vendita sul mercato delle azioni del recedente.
A ben vedere, infatti, l’eventualità che nei casi da ultimo indicati una parte delle
azioni del recedente possa essere stata medio tempore ceduta a soci o terzi – peraltro a
un prezzo imposto – induce a dubitare della legittimità e, prima ancora, della coerenza
logica di un sistema normativo che non solo tolleri, ma addirittura delinei una vicenda
in cui, a fronte del recesso, un socio possa ottenere per una parte delle proprie azioni un
prezzo gravato da “sconto” (o comprendente un “premio”) e, per altra parte, la quota
86
Cfr. però M. MAUGERI e H. FLEISCHER, Problemi cit., p. 106, a nota 114, secondo i quali sconti o premi
sono dovuti soltanto nell’ipotesi in cui le azioni siano acquistate da soci o terzi, mai nel caso in cui siano
acquistate dalla società o oggetto di annullamento per riduzione del capitale sociale.
87
E si consideri, d’altra parte, che si pone anche un problema di come operare il rimborso in caso di
recessi plurimi, rispetto ai quali, si tratta di chiarire se e in che limiti trovi applicazione un principio di
parità di trattamento fra i diversi azionisti recedenti: cfr., sul problema, con soluzioni distinte, A.
PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 1136, e P. PISCITELLO, Recesso cit., p. 47 s.
88
Cfr. in tal senso G. MARASÀ, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 794, ove ultt. indd. bibll.
89
Cfr. Massima n. 51 del 19 novembre 2004 della Commissione Società istituita dal Consiglio notarile di
Milano (in www.consiglionotarilemilano.it). Contra A. PACIELLO, sub artt. 2437 e ss. cit., p. 1120 s., ad
avviso del quale il socio può revocare la dichiarazione di recesso sino a quando non si realizzi il
trasferimento delle relative azioni. Altra questione, ancorché collegata, è quella volta a verificare in quale
momento il recesso produce i suoi effetti, in particolare sotto il profilo dell’esercizio dei poteri
concernenti la partecipazione sociale: e si veda, per una sintesi delle impostazioni, V. DI CATALDO, Il
recesso cit., p. 252 ss.
20
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proporzionale del valore del patrimonio sociale ritratto dal mercato; e questo anche a
voler prescindere dall’evidente possibilità che una tale interpretazione delle norme di
fatto legittimi comportamenti abusivi della maggioranza che, dopo aver acquistato dal
socio le azioni a un valore scontato, possa in seguito liquidare la società e ritrarre un
valore ben più significativo.
In vero, l’unica differenza fra la stima del patrimonio operata ex ante e il suo
valore quale risulti all’esito della sua effettiva liquidazione che l’ordinamento può
tollerare, perché in definitiva inevitabile, è quella discendente dal fatto che la prima, se
anche non dovesse scontare l’applicazione di un principio di prudenza, resta pur sempre
il risultato di un’operazione di apprezzamento solo teorica, peraltro operata in un
momento anche significativamente precedente 90 a quello nel quale si realizzino le
operazioni necessarie alla liquidazione della società.
90
Nel silenzio della disciplina, la dottrina dibatte sulla data di riferimento della valutazione, che a norma
dell’art. 2437-ter, comma 5, c.c. i soci hanno diritto di conoscere «nei quindici giorni precedente alla data
fissata per l’assemblea»: sul tema cfr., fra gli altri, F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina cit., p. 509, e V. DI
CATALDO, Il recesso cit., p. 239 s.
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