Se la rivoluzione diventa show-business

MERCOLEDÌ 22 SETTEMBRE 2004
LA REPUBBLICA 35
DIARIO
DI
VENTICINQUE ANNI FA NASCEVA IL FENOMENO
Nel 1979
il grande
successo di
“Rapper’s
delight”
orse per capire
il rap bisogna
avere letto
l’autobiografia di
Malcolm X. Avere
un’idea dei ghetti,
di Harlem e del
South Bronx. Provare a capire qualcosa dell’universo
simbolico della gioventù nera di New
York, di quell’alfabeto quotidiano siglato da esclusione
e violenza, disoccupazione e povertà,
da una creatività
marginale e qualche volta dal riscatto commerciale.
Percepire che nelle
grandi aree metropolitane in cui la segregazione diventa
secessione sono
fuori corso i galatei
della democrazia
formale come i vecchi ideali della società grande e aperta. Il voto, la partecipazione, il sogno
dell’emancipazione e Martin Luther
King sono cianfrusaglie da zio Tom. Il
lessico e la mentalità dei ghetti sono
intessuti di leggende e di incubi, dal timore astratto di
complotti e dalla
paura concreta del
poliziotto bianco, e
anche dall’immaginazione creativa di chi prova a mettere tutto
questo in musica, o almeno in parola (talking over, parlando sopra
la musica).
Secondo lo slang, rap vuol dire
parlare, scandire, ritmare voce e
sillabe. Sono alcuni grandi disc
jockey che estraggono questo stile, questa modalità linguistica e
tecnica, dalla fusione dei linguaggi del ghetto e delle comunità
afroamericane. Sentori di Giamaica e di Reggae, ma anche il
canto sincopato dello scat; a cui si
aggiunge l’abilità giocolieristica
di tipi come Kool Herc, Afrika
Bambaataa, Grandmaster Flash,
gente capace di trattare un disco
di vinile come un giocattolo sonoro, di sospendere la musica con le
dita per gridare «Join the party!»,
alternando alle parole lo scratch, il
frenetico avanti e indietro del disco in grado di dare un brivido vitalistico all’atmosfera dei club,
trasformando il flusso dei pezzi
soule funkin un movement, un’insurrezione notturna e collettiva.
Il rap è un’arte di comunità. A
mano a mano che gli idoli dei
ghetti affinavano la loro tecnica,
trasmettevano l’idea che il nuovo
stile poteva essere un fenomeno
di massa, perché per realizzare
quella musica bastava una tastiera e una batteria elettronica, per
poi sfogare la propria capacità
oratoria, i comizi ritmati, il giornale ironico o violento del ghetto, e
offrire una voce all’aspra quotidianità della gioventù nera. Con
un senso immediato, pre-politico, delle differenze (se si vuole,
Esplode così
la voglia di
liberazione
dei ghetti
neri Usa
F
RAP
lido conservatore
Rudolph Giuliani
ad applicare la tolleranza zero sulla
devianza urbana),
può venire fuori la
rivolta dei Public
Enemy contro il governo che ti chiama
alle armi, all’insegna del codice «nessun compromesso
con il potere bianco», come pure l’antisemitismo paranoide di un loro
componente, soprannominato Professor Griff, non
dissimile da certe
posizioni del leader
della “nazione dell’Islam” Louis Farrakhan. Ci può essere l’impegno per la
lotta all’Aids e contro la diffusione del
crack e delle droghe
pesanti nei ghetti,
ma anche l’invito
iper-realista «Ragazzi, laggiù c’è
qualcuno che vuole
conoscere il sapore
dell’asfalto. Volete
un consiglio? Portatevi una buona pistola e dei buoni
coltelli: ne vedremo
delle belle», oppure
il diffondersi del rap
gangsta, che flirta
con il mito dell’illegalità nera.
Ma l’ambiguità
del rap è l’ambiguità di tutte le tendenze che nascono in una minoranza e diventano un fenomeno di
moda, quando i trendsetter decidono che il “continente rap”, con i
suoi suoni, le sue radio, i suoi gesti, i suoi colori può diventare
un’altra frontiera del glamour; e
così le multinazionali discografiche possono sfruttare gli eroi dell’hip hop, e i media fabbricare idoli e ideologie, la pubblicità mimare gli stilemi del ghetto, i registi e
gli impresari girare film e inscenare musical sulla breakdance. Sicché la prospettiva è di passare dalla furibonda simulazione della
violenza di quartiere alla prevedibilità del cattivismo industriale o
al perbenismo commerciale, mettendo a disposizione una serie di
risorse per incanalare l’aggressività dei ghetti e trasformarla in puro spettacolo.
D’altronde, erano stati i rivoluzionari Run-Dmc a contaminare il
vecchio rock degli Aerosmith con
il rap (Walk this Way) mettendo la
nuova musica a disposizione del
pubblico bianco, e aprendo la
strada al pestifero terzetto bianco
dei Beastie Boys, che strillava consumisticamente «ragazze, due per
volta». Decine di artisti di strada
erano stati sintetizzati prima dai
graffiti di Keith Haring, poi dalle
imitazioni degli arredatori e dei
designer. Succede sempre così
quando il locale diventa globale,
quando un linguaggio speciale si
fa tanto onnivoro da omologarsi:
insomma, quando una rivoluzione diventa un genere.
Selarivoluzionediventashow-business
EDMONDO BERSELLI
dell’ingiustizia), come dimostrano le istantanee sociali di Grandmaster Flash: «Un ragazzo di strada viene arrestato. Deve andare in
galera. Uscirà fra tre anni solo per
tornare dentro. Un uomo d’affari
viene preso con 24 chili di roba.
Ma esce subito su cauzione».
Anzi, più che un’arte è una cultura. La rivista Rolling Stone etichetta il rap come «il punk della
musica nera», ma la definizione
sembra restrittiva. Il punk, con il
suo slogan «no future», rappresentava una deriva del rock interpretata da alcune avanguardie in-
solenti; mentre il rap portava con
sé il mondo dell’hip hop, una sfera culturale che ingloba la danza e
la moda, la musica, i film e i graffiti, intrattenimento, pubblicità,
leggende e cosmogonie, e insomma uno stile di vita complessivo. È
la way of life del Bronx, dei suoi locali dove si fa un acrobatico breakdancing, dove ci si veste proprio
da rapper, in una miscela di abbigliamento anticonvenzionale e
prodotto dalle multinazionali, un
eccesso kitsch che comprende catene, borchie, un casual firmato
Nike o trafugato all’Adidas.
DAVID FOSTER WALLACE
E’ FIN troppo facile per i visi pallidi attraversare in fretta il pianerottolo, passare davanti al vetro spesso della finestra che deforma le luci esterne, e non sentire
neanche una volta il rap se non come lo strano inno
marziale di una nazione resa Altra, messa ai margini
e tuttavia intrappolata al centro delle nostre stesse
città, una nazione a cui non è possibile la secessione né lecita l’assimilazione. (…)
Il rap/hip-hop è la principale linea di forza di quell’esplosione, la Voce personale e variegata di quella
nazione Altra all’interno della nostra, una forma di
espressione abbastanza spaventosa da legare insieme le folle e guidarle. I bianchi interessati al fenomeno, in certi momenti fortunati o inevitabili, possono solo restare con gli occhi sbarrati di fronte a una
finestra il cui vetro antiproiettile mostra uno spettacolo che ci rende felici dell’esistenza di quel vetro. L’inferno non ha illogicità più grandi della
paura che ci spinge a pagare per provarlo
“
“
RAP.
In quello spazio culturale non
occorre la sociologia sulle underclass per sapere che nelle comunità nere il reddito è quasi la metà
della media nazionale, che praticamente il cinquanta per cento
dei ragazzi in galera è afroamericano, che la disoccupazione imperversa, che quasi nessuno consegue una laurea, che la violenza è
un segno che si imprime inevitabilmente sui comportamenti, che
ogni giorno è costellato di stupri e
di aborti. Ed ecco allora l’ambiguità della “rivoluzione” rap: nel
1979, allorché esplode Rapper’s
Delight, il pezzo della Sugarhill
Gang, tre milioni di copie vendute, divenuto subito un classico,
dalla realtà dei ghetti viene fuori
una voglia gridata di liberazione
unita al machismo delle entità sociali subalterne: «lui non può soddisfarti con il suo piccolo verme, io
posso stenderti con il mio supersperma».
Dal crogiuolo delle comunità
nere, dove Grandmaster Flash si
lamenta per il degrado, «pezzi di
vetro dappertutto, gente che piscia per strada, questo puzzo mi fa
stare male» (e ci penserà poi il pal-
DIARIO
36 LA REPUBBLICA
LE TAPPE
PRINCIPALI
IL FENOMENO 1979
E’ con il successo di “Rapper’s Delight”,
dell’allora sconosciuta Sugarhill Gang,
che il rap si fa conoscere in tutto il mondo.
Il brano era basato sul groove di “Good
Times” degli Chic
IL RAP POLITICO 1980
Con “The Message”, realizzato da
Grandmaster Flash & The Furious Five il
rap si fa “impegnato” e diventa lo
strumento privilegiato d’espressione di
una nuova cultura nera
MERCOLEDÌ 22 SETTEMBRE 2004
LA BREAKDANCE 1983-1984
Il Rap è ormai una moda. Si diffonde la
breakdance, una forma di ballo hip hop
che incarna un nuovo stile di danza
metropolitano, tipico della cosiddetta
cultura “underground”
IL REGISTA AMERICANO HA SPESSO USATO IL RAP COME COLONNA SONORA
SPIKE LEE: “MA NON AMO
QUELLA VIOLENZA ESIBITA”
ANTONIO MONDA
I LIBRI
ERNESTO
ASSANTE
GINO
CASTALDO
Blues, Jazz,
Rock, Pop. Il
Novecento
americano. La
guida a
musicisti,
gruppi, dischi,
generi e
tendenze,
Einaudi 2004
ALBERTO
ARBASINO
Rap!,
Feltrinelli 2001
Rap 2,
Feltrinelli 2002
NICOLÒ DE
RIENZO
Dizionario
dell’hip hop,
Baldini
Castoldi Dalai
2003
ANTHONY
BOZZA
Eminem.
“Whatever
you say I am”.
La vita e i
giorni di
Eminem,
Einaudi 2003
FRANCO
FERRAROTTI
Rock, rap e
l’immortalità
dell’anima,
Liguori 1996
PAOLO
FERRARI
Hip hop,
Giunti 1999
JONATHAN
LETHEM
La fortezza
della
solitudine,
Tropea 2004
FERNANDA
PIVANO
Album
americano,
Frassinelli
1997
OLIVIER
CACHIN
Il rap.
L’offensiva
metropolitana
, Electa
Gallimard
1996
DAVID
TOOP
Rap. Storia di
una musica
nera, Edt 1992
pike Lee ha ripetutamente
utilizzato il rap come elemento espressivo del suo
cinema più viscerale, ma lo definisce come un fenomeno musicale e sociale caratterizzato da
luci ed ombre.
«La musica contemporanea
sarebbe inconcepibile senza il rap», racconta mentre controlla lo storyboard di
un video, «e credo
che l’influenza sia riscontrabile anche in
altre forme espressive, a cominciare dal
cinema».
Gli storici della
musica datano la nascita ufficiale del rap
venticinque anni fa.
«Francamente
non ho mai collocato
l’origine del fenomeno in un momento
preciso».
Come mai?
«Perché mi sembra
qualcosa che nell’intimo è eternamente
legato alla cultura
afro-americana, che
è evoluto gradualmente, e che si è
quindi affermato agli
inizi degli anni Ottanta. I ritmi spezzati, le ripetizioni ossessive e le ricerche di
una musicalità parlata rappresentano
evidentemente qualcosa di molto più antico: la novità semmai è rappresentata
dalla rabbia, la scurrilità e la grande dose
di violenza».
Cos’è che non le
piace del rap?
«La misoginia, il disprezzo per l’educazione, l’uso volgare
delle immagini e dei
gesti, la costante
esaltazione della violenza. Troppo spesso
i rappers diventano
un modello nefasto,
in particolare per il
modo in cui descrivono le donne nei loro versi e poi le trattano in privato».
Mi sembra un giudizio decisamente
negativo.
«Ci sono anche
molte cose che mi
piacciono sinceramente: il rap e’ spesso estremamente
creativo, energetico,
vitale. In alcuni casi
riesce perfino a comunicare una gioiosa volontà di esistere
e di reagire alle offese
quotidiane. Ci sono
poi dei brani in cui i
testi sono affascinanti e lirici, e negli
esempi migliori il ritmo e’ assolutamemnte ipnotizzante».
Qual è il suo rapper preferito?
«Biggie, ovvero “The Notorious B.I.G.” Credo che nessuno
come lui abbia saputo immortalare le caratteristiche che stavo elencando».
S
Ma anche i lati inquietanti, a
giudicare da come ha vissuto e
da come è morto.
«Certamente: credo che nel
rap sia quasi impossibile scindere i due elementi. Rimasi
molto turbato dall’uccisione di
Biggie, come del resto da quella
In questi ritmi ci sono
una vitalità e un’energia
incredibili. I rapper, però,
diventano modelli negativi
QUESTA MAPPA
Difficile, se non impossibile, tracciare
una mappa del rap davvero completa.
Troppe le sottocategorie, gli stili, le differenze, che spesso portano il rap ad essere diverso da quartiere a quartiere nella stessa città. E troppe le “guerre”, le
“faide” per poter dire che una “crew” è
legata per derivazione ad un altra senza
di Tupac, e da tutta la terribile
lotta intestina tra rappers della
East e della West Coast».
La combinazione di musica e
violenza rappresenta una assoluta novità.
«È una novità assoluta anche
il mondo da cui ha origine».
correre il rischio di sbagliare. Ma una griglia, in realtà, c’è e consente di vedere lo
sviluppo del rap, partendo dal 1979 arrivando ad oggi, mescolando le scuole e gli
stili, raggruppando le attitudini, gli approcci a una materia costantemente in
evoluzione, dividendo il mondo dell’hip
hop musicale tra “duri” e “pop”
E’ un universo chiuso, misterioso per chi non ne fa parte, nel
quale girano quantita’ enormi
di soldi.
«Entrambi gli elementi sono a
rischio: l’arrivo improvviso di
quantità smodate di denaro all’interno di una realtà poverissima, e che non è in
grado di relazionarsi
con l’esterno, espone i protagonisti costantemente al rischio della corruzione. E all’interno di
questo habitat miserabile, questi stessi
protagonisti cercano la propria realizzazione imponendo
il proprio modello
violento: paradossalmente il successo
rischia di peggiorare
la situazione».
C’è chi sostiene
che il primo rapper
sia stato Muhammad Ali.
«Per alcuni versi è
vero, anche se ovviamente Ali faceva del
rap inconsapevole,
che aveva le sue radici in una sua cultura
intima ed ancestrale. Ma per rimanere
in campo musicale,
si possono trovare
tracce anche nel modo di cantare di
Louis Armstrong».
Nei suoi film il rap
compare ripetutamente.
«In molti casi è la
cononna sonora del
mondo che rappresento, ma spesso ne
è anche l’espressione».
Cosa intende?
«Che è verosimile
che i personaggi di
Clockers o di Fa’ la
cosa giusta ascoltino
questo tipo di musica, ma nel caso di
quest’ultimo film ho
voluto utilizzare
esplicitamente il
brano Fight the
power. E mi sembra
evidente che si tratti
di qualcosa che va
ben oltre un accompagnamento sonoro».
Ritiene che lo stile
e le cadenze del rap
abbiano influenzato il suo modo di fare cinema?
«Certamente, anche se non so quanto
ciò sia consapevole.
Molti hanno parlato
di rap riguardo alla
sequenza della 25
Ora in cui il protagonista si esibisce in
una lunga litania in
cui manda a qual
paese tutti, compresa il Padreterno.
Non saprei rispondere con sicurezza, ma so che oggi, in una
realtà urbana americana, quel
momento di sfogo rabbioso non
potrebbe che assumere quelle
cadenze, quel ritmo e quella
violenza».
DIARIO
MERCOLEDÌ 22 SETTEMBRE 2004
LA REPUBBLICA 37
EMINEM ANNI ’90
Preceduto dai Beasty Boys, il primo
gruppo rap formato da bianchi, alla fine
degli anni ’90 esplode il fenomeno
Eminem, la cui biografia sarà oggetto
anche di un libro e di un film
GLI AUTORI
LE IMMAGINI
Edmondo Berselli è il
direttore della rivista “Il
Mulino”. Chuck D è il
leader dei Public
Enemy, uno dei gruppi
storici di musica rap. Il
testo del Sillabario di
David Foster Wallace è
tratto da Il rap spiegato
ai bianchi, edito da Minimum Fax. L’ultimo
film di Spike Lee è She
hate me, visto alla Mostra di Venezia
Il rap, e poi l’hip-hop, si
sono subito affermati
come un’espressione
dei giovani neri dei
ghetti metropolitani e
ha dato luogo a una cultura di cui non fa parte
solo la musica, ma anche un certo linguaggio
violento, la danza nelle
strade, le pitture murali,
un preciso modo di vestire
INTERVISTA A CHUCK D, LEADER DEL GRUPPO “PUBLIC ENEMY”
C
“QUESTA MUSICA
È L’INTERNET DEI NERI”
huck D è una delle personalità più importanti del mondo del rap, della cultura hip
hop afroamericana. Con i suoi Public Enemy ha realizzato dischi
che hanno segnato profondamente lo sviluppo della black music negli anni Novanta e hanno
avuto una grande influenza sulla
cultura degli afroamericani. CarlERNESTO ASSANTE
ton Douglas Ridenhour, questo il
suo vero nome, è nato 44 anni fa a
giovanili. Sono passati venticinRoosevelt, Long Island, ed ha inique anni dal primo disco, trenta
ziato la sua avventura nel mondo
dalla nascita dell’hip hop come
del rap quando con alcuni comsottocultura della cultura afroapagni di scuola iniziò a proporre
mericana, certamente un ragazversi e rime sul ritmo della musizino che all’epoca dell’uscita di
ca. L’esordio discografico dei PuRapper’s delight nel 1979 aveva
blic Enemy è del 1987 e fino ai priuna decina di anni, oggi è certami anni Novanta la band ha domimente un signore in cerca di una
nato la scena del rap. Oggi Chuck
D è un apprezzato columnist, tiene letture
nelle università e nei
convegni. Per lui il
rap è ancora uno
strumento importante di comunicazione.
Crede ancora, come disse molti anni
fa, che “il rap è la
Cnn dei ghetti”?
«No, penso sia
molto cambiato. Per
molti versi è rimasto
un mezzo di comunicazione essenziale
per la comunità dei
neri, ma è difficile
ancora vederlo in
questo modo, oggi
come oggi. Oggi descriverei il rap come
«una voce o un’espressione della cultura mondiale»,
qualcosa di molto si- Sopra, a destra Chuck D, leader dei Public Enemy, uno dei gruppi “storici” del rap
mile a Internet, uno
strumento che consente alla genNICK HORNBY
te di parlare in giro per il mondo,
in barba a tutte le censure».
Com’è cambiato il rap?
«Rap e hip hop hanno due definizioni differenti. La musica rap è
rap sulla musica. La musica c’era
già. C’era il soul, c’era il
rhythm’n’blues, c’era il rock’n’roll, che era rhythm’n’blues, devi
conoscere la storia della musica
prima di sapere cos’è il rap. Ci sono, poi, tre diversi modi di usare la
voce, c’è il parlato, c’è il cantato e
c’è il rap, che è qualcosa che è a
metà tra il parlato e il cantato. E
per questo è impossibile dire che
Rock, Pop, Jazz & altro
il rap prima o poi svanirà, perché
2001
è come dire prima o poi svanirà la
canzone. E’ un modo di usare la
voce sulla musica. L’hip hop, inJEAN BAUDRILLARD
vece, è più complesso, perché è
una sottocultura, che può esprimersi attraverso l’abbigliamento, i libri, il cinema, e ovviamente
nel modo in cui si mettono insieme la musica e le parole. L’hiop
hop è una forma di creatività che
si è diffusa nella comunità afroamericana, è il termine che ha definito la creatività afroamericana
negli ultimi 25 anni. L’hip hop potrebbe svanire, potrebbe essere
sostituito da un’altra sottocultura. Ma il rap no, il rap resterà, e
cambierà. E’ già cambiato. E’ cresciuto, è diventato adulto. Penso
L’America
sia giunto il momento che l’hip
1986
hop ridefinisca i suoi stereotipi
Parliamo a una generazione
che può essere mandata in
guerra ma che nel paese
non conta nulla
Eminem, ... le strambe
incursioni che l’hip-hop
sta facendo nelle altre
culture: niente di tutto ciò
avrebbe potuto essere
scritto se non al volgere
del millennio
Il guerriero cinese
s’immobilizza al culmine
dell’azione in un gesto
eroico, mentre il rapper
s’immobilizza nella fase
calante del movimento in
un gesto derisorio
casa per se, sua moglie e i suoi due
figli. Prima era facile per chi volesse avere un’idea di cosa stava
girando nella cultura giovanile
guardare al mondo dell’hip hop.
Oggi la realtà del rap è molto più
complessa, più adulta».
In che modo l’hip hop deve ridefinire se stesso?
DON DE LILLO
Il rap da marciapiede…
Ascoltò con solenne
gratitudine. Era un
clamore così forte da
costituire una forza vitale,
da trasportare il ragazzo
oltre la sua ansia livida
Underworld
1997
ROBERT HUGHES
Si è perso per strada
il fatto ovvio che rap
e hip-hop non sono
gli agenti di un’apocalisse
desiderata e temuta,
ma una moda
come un’altra
La cultura del piagnisteo
1993
I FILM
«Credo che il rap abbia bisogno
di uscire dagli stereotipi che oggi
lo limitano molto. Per ridefinire il
suo campo d’azione l’hip hop dovrà puntare al coinvolgimento di
voci, movimenti, persone più
adulte e mature. Noi stessi, che
non siamo più giovani, dobbiamo
usare la cultura hip hop come terreno di confronto e di connessione con i più giovani, proprio per
spingere le nuove generazioni a
comprendere che la gioventù è
preziosa e dura molto di meno
dell’età adulta. I gruppi di nicchia
che parlano soltanto ai propri simili sono sempre limitati, non
evolvono. Per questo la cultura a
bisogno di essere aperta e priva di
stereotipi, capace di parlare a
persone di tutte le età e di ogni
sesso, di individuare
i bisogni più immediati della gente e
più precisamente riconnettere le generazioni e chiudere i
gap».
Lei e i Public
Enemy avete sempre avuto un forte
impegno politico.
Recentemente lei
ha parlato alla Hip
Hop Political Convention. Pensa che
ci sia ancora spazio
per un rap politicizzato?
«Alla Hip Hop National Convention
ha visto riuniti gruppi, attivisti, donne,
uomini, giovani che
chiedevano quello
che era giusto per la
gente e non per l’agenda della “corporate elite” che si approfittano senza scrupoli delle
masse. La Hip hop Political Convention a Newark, lo scorso giugno, ha visto delegati in rappresentanza di oltre trentamila elettori del mondo dell’hip hop, e ha
realizzato una agenda in cinque
punti su educazione, crimine,
economia, salute e diritti umani.
La hip hop generation è fatta di ragazzi che a diciotto anni possono
essere mandati in guerra a combattere, ma che nel loro paese
non hanno ancora lo spazio per
contare».
La musica nera, oggi, non brilla particolarmente per impegno...
«Io penso seriamente che il novanta per cento degli artisti della
“amerikkan black music” si siano
allontanati dalla realtà dei bisogni della gente. Di certo lo hanno
fatto i discografici. Le facce nere
che comandano i settori delle case discografiche che si occupano
di black music, hanno non sanno
più cosa inventare, cosa dire di
sensato. E’ inconcepibile che
questi signori siano davvero in
grado di essere in sintonia con le
menti di quelli che hanno 25 anni
o meno, e non con i loro desideri.
Non hanno idea o interesse in
quello che gli insegnanti o i genitori affrontano tutti i giorni, pensano solo ad analizzare montagne di dati per il solo proposito di
vendere qualcosa ai giovani».
NEW JACK
CITY
Ascesa e
caduta di un
boss nero del
crack, Snipes,
messo sotto da
due poliziotti
super cool, il
rapper Ice-T e il
bianco, ex
tossico Nelson
Di Mario Van
Peebles
1991
CLOCKERS
Inizia come un
documentario
sulla vita di
strada a
Brooklyn e poi
si trasforma in
un pamphlet
sulla cultura
nera: con la
discussione su
chi sia il rapper
più “duro”
Di Spike Lee
1995
BOY’Z ’N
THE HOOD
La vita, la
musica, la
violenza di tre
giovani neri in
un quartiereghetto di Los
Angeles
Di John
Singleton
1991
8 MILE
In un camper al
di qua dell’8
mile, la linea di
frontiera tra
centro e
periferia, vive
Rabbit, amico
dei negri e con
una madre
alcolista. Di
giorno lavora in
fabbrica e di
notte sfida i
“fratelli neri”
nelle gare di rap
Di Curtis
Hanson
2002
KRUSH
GROOVE
Storia di
disagio
metropolitano
nella quale una
banda di
ragazzi si
aggira per le
strade di New
York, usando,
male, il proprio
talento di
rapper
Di Michael
Schultz
1985