MERCOLEDÌ 22 SETTEMBRE 2004 LA REPUBBLICA 35 DIARIO DI VENTICINQUE ANNI FA NASCEVA IL FENOMENO Nel 1979 il grande successo di “Rapper’s delight” orse per capire il rap bisogna avere letto l’autobiografia di Malcolm X. Avere un’idea dei ghetti, di Harlem e del South Bronx. Provare a capire qualcosa dell’universo simbolico della gioventù nera di New York, di quell’alfabeto quotidiano siglato da esclusione e violenza, disoccupazione e povertà, da una creatività marginale e qualche volta dal riscatto commerciale. Percepire che nelle grandi aree metropolitane in cui la segregazione diventa secessione sono fuori corso i galatei della democrazia formale come i vecchi ideali della società grande e aperta. Il voto, la partecipazione, il sogno dell’emancipazione e Martin Luther King sono cianfrusaglie da zio Tom. Il lessico e la mentalità dei ghetti sono intessuti di leggende e di incubi, dal timore astratto di complotti e dalla paura concreta del poliziotto bianco, e anche dall’immaginazione creativa di chi prova a mettere tutto questo in musica, o almeno in parola (talking over, parlando sopra la musica). Secondo lo slang, rap vuol dire parlare, scandire, ritmare voce e sillabe. Sono alcuni grandi disc jockey che estraggono questo stile, questa modalità linguistica e tecnica, dalla fusione dei linguaggi del ghetto e delle comunità afroamericane. Sentori di Giamaica e di Reggae, ma anche il canto sincopato dello scat; a cui si aggiunge l’abilità giocolieristica di tipi come Kool Herc, Afrika Bambaataa, Grandmaster Flash, gente capace di trattare un disco di vinile come un giocattolo sonoro, di sospendere la musica con le dita per gridare «Join the party!», alternando alle parole lo scratch, il frenetico avanti e indietro del disco in grado di dare un brivido vitalistico all’atmosfera dei club, trasformando il flusso dei pezzi soule funkin un movement, un’insurrezione notturna e collettiva. Il rap è un’arte di comunità. A mano a mano che gli idoli dei ghetti affinavano la loro tecnica, trasmettevano l’idea che il nuovo stile poteva essere un fenomeno di massa, perché per realizzare quella musica bastava una tastiera e una batteria elettronica, per poi sfogare la propria capacità oratoria, i comizi ritmati, il giornale ironico o violento del ghetto, e offrire una voce all’aspra quotidianità della gioventù nera. Con un senso immediato, pre-politico, delle differenze (se si vuole, Esplode così la voglia di liberazione dei ghetti neri Usa F RAP lido conservatore Rudolph Giuliani ad applicare la tolleranza zero sulla devianza urbana), può venire fuori la rivolta dei Public Enemy contro il governo che ti chiama alle armi, all’insegna del codice «nessun compromesso con il potere bianco», come pure l’antisemitismo paranoide di un loro componente, soprannominato Professor Griff, non dissimile da certe posizioni del leader della “nazione dell’Islam” Louis Farrakhan. Ci può essere l’impegno per la lotta all’Aids e contro la diffusione del crack e delle droghe pesanti nei ghetti, ma anche l’invito iper-realista «Ragazzi, laggiù c’è qualcuno che vuole conoscere il sapore dell’asfalto. Volete un consiglio? Portatevi una buona pistola e dei buoni coltelli: ne vedremo delle belle», oppure il diffondersi del rap gangsta, che flirta con il mito dell’illegalità nera. Ma l’ambiguità del rap è l’ambiguità di tutte le tendenze che nascono in una minoranza e diventano un fenomeno di moda, quando i trendsetter decidono che il “continente rap”, con i suoi suoni, le sue radio, i suoi gesti, i suoi colori può diventare un’altra frontiera del glamour; e così le multinazionali discografiche possono sfruttare gli eroi dell’hip hop, e i media fabbricare idoli e ideologie, la pubblicità mimare gli stilemi del ghetto, i registi e gli impresari girare film e inscenare musical sulla breakdance. Sicché la prospettiva è di passare dalla furibonda simulazione della violenza di quartiere alla prevedibilità del cattivismo industriale o al perbenismo commerciale, mettendo a disposizione una serie di risorse per incanalare l’aggressività dei ghetti e trasformarla in puro spettacolo. D’altronde, erano stati i rivoluzionari Run-Dmc a contaminare il vecchio rock degli Aerosmith con il rap (Walk this Way) mettendo la nuova musica a disposizione del pubblico bianco, e aprendo la strada al pestifero terzetto bianco dei Beastie Boys, che strillava consumisticamente «ragazze, due per volta». Decine di artisti di strada erano stati sintetizzati prima dai graffiti di Keith Haring, poi dalle imitazioni degli arredatori e dei designer. Succede sempre così quando il locale diventa globale, quando un linguaggio speciale si fa tanto onnivoro da omologarsi: insomma, quando una rivoluzione diventa un genere. Selarivoluzionediventashow-business EDMONDO BERSELLI dell’ingiustizia), come dimostrano le istantanee sociali di Grandmaster Flash: «Un ragazzo di strada viene arrestato. Deve andare in galera. Uscirà fra tre anni solo per tornare dentro. Un uomo d’affari viene preso con 24 chili di roba. Ma esce subito su cauzione». Anzi, più che un’arte è una cultura. La rivista Rolling Stone etichetta il rap come «il punk della musica nera», ma la definizione sembra restrittiva. Il punk, con il suo slogan «no future», rappresentava una deriva del rock interpretata da alcune avanguardie in- solenti; mentre il rap portava con sé il mondo dell’hip hop, una sfera culturale che ingloba la danza e la moda, la musica, i film e i graffiti, intrattenimento, pubblicità, leggende e cosmogonie, e insomma uno stile di vita complessivo. È la way of life del Bronx, dei suoi locali dove si fa un acrobatico breakdancing, dove ci si veste proprio da rapper, in una miscela di abbigliamento anticonvenzionale e prodotto dalle multinazionali, un eccesso kitsch che comprende catene, borchie, un casual firmato Nike o trafugato all’Adidas. DAVID FOSTER WALLACE E’ FIN troppo facile per i visi pallidi attraversare in fretta il pianerottolo, passare davanti al vetro spesso della finestra che deforma le luci esterne, e non sentire neanche una volta il rap se non come lo strano inno marziale di una nazione resa Altra, messa ai margini e tuttavia intrappolata al centro delle nostre stesse città, una nazione a cui non è possibile la secessione né lecita l’assimilazione. (…) Il rap/hip-hop è la principale linea di forza di quell’esplosione, la Voce personale e variegata di quella nazione Altra all’interno della nostra, una forma di espressione abbastanza spaventosa da legare insieme le folle e guidarle. I bianchi interessati al fenomeno, in certi momenti fortunati o inevitabili, possono solo restare con gli occhi sbarrati di fronte a una finestra il cui vetro antiproiettile mostra uno spettacolo che ci rende felici dell’esistenza di quel vetro. L’inferno non ha illogicità più grandi della paura che ci spinge a pagare per provarlo “ “ RAP. In quello spazio culturale non occorre la sociologia sulle underclass per sapere che nelle comunità nere il reddito è quasi la metà della media nazionale, che praticamente il cinquanta per cento dei ragazzi in galera è afroamericano, che la disoccupazione imperversa, che quasi nessuno consegue una laurea, che la violenza è un segno che si imprime inevitabilmente sui comportamenti, che ogni giorno è costellato di stupri e di aborti. Ed ecco allora l’ambiguità della “rivoluzione” rap: nel 1979, allorché esplode Rapper’s Delight, il pezzo della Sugarhill Gang, tre milioni di copie vendute, divenuto subito un classico, dalla realtà dei ghetti viene fuori una voglia gridata di liberazione unita al machismo delle entità sociali subalterne: «lui non può soddisfarti con il suo piccolo verme, io posso stenderti con il mio supersperma». Dal crogiuolo delle comunità nere, dove Grandmaster Flash si lamenta per il degrado, «pezzi di vetro dappertutto, gente che piscia per strada, questo puzzo mi fa stare male» (e ci penserà poi il pal- DIARIO 36 LA REPUBBLICA LE TAPPE PRINCIPALI IL FENOMENO 1979 E’ con il successo di “Rapper’s Delight”, dell’allora sconosciuta Sugarhill Gang, che il rap si fa conoscere in tutto il mondo. Il brano era basato sul groove di “Good Times” degli Chic IL RAP POLITICO 1980 Con “The Message”, realizzato da Grandmaster Flash & The Furious Five il rap si fa “impegnato” e diventa lo strumento privilegiato d’espressione di una nuova cultura nera MERCOLEDÌ 22 SETTEMBRE 2004 LA BREAKDANCE 1983-1984 Il Rap è ormai una moda. Si diffonde la breakdance, una forma di ballo hip hop che incarna un nuovo stile di danza metropolitano, tipico della cosiddetta cultura “underground” IL REGISTA AMERICANO HA SPESSO USATO IL RAP COME COLONNA SONORA SPIKE LEE: “MA NON AMO QUELLA VIOLENZA ESIBITA” ANTONIO MONDA I LIBRI ERNESTO ASSANTE GINO CASTALDO Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano. La guida a musicisti, gruppi, dischi, generi e tendenze, Einaudi 2004 ALBERTO ARBASINO Rap!, Feltrinelli 2001 Rap 2, Feltrinelli 2002 NICOLÒ DE RIENZO Dizionario dell’hip hop, Baldini Castoldi Dalai 2003 ANTHONY BOZZA Eminem. “Whatever you say I am”. La vita e i giorni di Eminem, Einaudi 2003 FRANCO FERRAROTTI Rock, rap e l’immortalità dell’anima, Liguori 1996 PAOLO FERRARI Hip hop, Giunti 1999 JONATHAN LETHEM La fortezza della solitudine, Tropea 2004 FERNANDA PIVANO Album americano, Frassinelli 1997 OLIVIER CACHIN Il rap. L’offensiva metropolitana , Electa Gallimard 1996 DAVID TOOP Rap. Storia di una musica nera, Edt 1992 pike Lee ha ripetutamente utilizzato il rap come elemento espressivo del suo cinema più viscerale, ma lo definisce come un fenomeno musicale e sociale caratterizzato da luci ed ombre. «La musica contemporanea sarebbe inconcepibile senza il rap», racconta mentre controlla lo storyboard di un video, «e credo che l’influenza sia riscontrabile anche in altre forme espressive, a cominciare dal cinema». Gli storici della musica datano la nascita ufficiale del rap venticinque anni fa. «Francamente non ho mai collocato l’origine del fenomeno in un momento preciso». Come mai? «Perché mi sembra qualcosa che nell’intimo è eternamente legato alla cultura afro-americana, che è evoluto gradualmente, e che si è quindi affermato agli inizi degli anni Ottanta. I ritmi spezzati, le ripetizioni ossessive e le ricerche di una musicalità parlata rappresentano evidentemente qualcosa di molto più antico: la novità semmai è rappresentata dalla rabbia, la scurrilità e la grande dose di violenza». Cos’è che non le piace del rap? «La misoginia, il disprezzo per l’educazione, l’uso volgare delle immagini e dei gesti, la costante esaltazione della violenza. Troppo spesso i rappers diventano un modello nefasto, in particolare per il modo in cui descrivono le donne nei loro versi e poi le trattano in privato». Mi sembra un giudizio decisamente negativo. «Ci sono anche molte cose che mi piacciono sinceramente: il rap e’ spesso estremamente creativo, energetico, vitale. In alcuni casi riesce perfino a comunicare una gioiosa volontà di esistere e di reagire alle offese quotidiane. Ci sono poi dei brani in cui i testi sono affascinanti e lirici, e negli esempi migliori il ritmo e’ assolutamemnte ipnotizzante». Qual è il suo rapper preferito? «Biggie, ovvero “The Notorious B.I.G.” Credo che nessuno come lui abbia saputo immortalare le caratteristiche che stavo elencando». S Ma anche i lati inquietanti, a giudicare da come ha vissuto e da come è morto. «Certamente: credo che nel rap sia quasi impossibile scindere i due elementi. Rimasi molto turbato dall’uccisione di Biggie, come del resto da quella In questi ritmi ci sono una vitalità e un’energia incredibili. I rapper, però, diventano modelli negativi QUESTA MAPPA Difficile, se non impossibile, tracciare una mappa del rap davvero completa. Troppe le sottocategorie, gli stili, le differenze, che spesso portano il rap ad essere diverso da quartiere a quartiere nella stessa città. E troppe le “guerre”, le “faide” per poter dire che una “crew” è legata per derivazione ad un altra senza di Tupac, e da tutta la terribile lotta intestina tra rappers della East e della West Coast». La combinazione di musica e violenza rappresenta una assoluta novità. «È una novità assoluta anche il mondo da cui ha origine». correre il rischio di sbagliare. Ma una griglia, in realtà, c’è e consente di vedere lo sviluppo del rap, partendo dal 1979 arrivando ad oggi, mescolando le scuole e gli stili, raggruppando le attitudini, gli approcci a una materia costantemente in evoluzione, dividendo il mondo dell’hip hop musicale tra “duri” e “pop” E’ un universo chiuso, misterioso per chi non ne fa parte, nel quale girano quantita’ enormi di soldi. «Entrambi gli elementi sono a rischio: l’arrivo improvviso di quantità smodate di denaro all’interno di una realtà poverissima, e che non è in grado di relazionarsi con l’esterno, espone i protagonisti costantemente al rischio della corruzione. E all’interno di questo habitat miserabile, questi stessi protagonisti cercano la propria realizzazione imponendo il proprio modello violento: paradossalmente il successo rischia di peggiorare la situazione». C’è chi sostiene che il primo rapper sia stato Muhammad Ali. «Per alcuni versi è vero, anche se ovviamente Ali faceva del rap inconsapevole, che aveva le sue radici in una sua cultura intima ed ancestrale. Ma per rimanere in campo musicale, si possono trovare tracce anche nel modo di cantare di Louis Armstrong». Nei suoi film il rap compare ripetutamente. «In molti casi è la cononna sonora del mondo che rappresento, ma spesso ne è anche l’espressione». Cosa intende? «Che è verosimile che i personaggi di Clockers o di Fa’ la cosa giusta ascoltino questo tipo di musica, ma nel caso di quest’ultimo film ho voluto utilizzare esplicitamente il brano Fight the power. E mi sembra evidente che si tratti di qualcosa che va ben oltre un accompagnamento sonoro». Ritiene che lo stile e le cadenze del rap abbiano influenzato il suo modo di fare cinema? «Certamente, anche se non so quanto ciò sia consapevole. Molti hanno parlato di rap riguardo alla sequenza della 25 Ora in cui il protagonista si esibisce in una lunga litania in cui manda a qual paese tutti, compresa il Padreterno. Non saprei rispondere con sicurezza, ma so che oggi, in una realtà urbana americana, quel momento di sfogo rabbioso non potrebbe che assumere quelle cadenze, quel ritmo e quella violenza». DIARIO MERCOLEDÌ 22 SETTEMBRE 2004 LA REPUBBLICA 37 EMINEM ANNI ’90 Preceduto dai Beasty Boys, il primo gruppo rap formato da bianchi, alla fine degli anni ’90 esplode il fenomeno Eminem, la cui biografia sarà oggetto anche di un libro e di un film GLI AUTORI LE IMMAGINI Edmondo Berselli è il direttore della rivista “Il Mulino”. Chuck D è il leader dei Public Enemy, uno dei gruppi storici di musica rap. Il testo del Sillabario di David Foster Wallace è tratto da Il rap spiegato ai bianchi, edito da Minimum Fax. L’ultimo film di Spike Lee è She hate me, visto alla Mostra di Venezia Il rap, e poi l’hip-hop, si sono subito affermati come un’espressione dei giovani neri dei ghetti metropolitani e ha dato luogo a una cultura di cui non fa parte solo la musica, ma anche un certo linguaggio violento, la danza nelle strade, le pitture murali, un preciso modo di vestire INTERVISTA A CHUCK D, LEADER DEL GRUPPO “PUBLIC ENEMY” C “QUESTA MUSICA È L’INTERNET DEI NERI” huck D è una delle personalità più importanti del mondo del rap, della cultura hip hop afroamericana. Con i suoi Public Enemy ha realizzato dischi che hanno segnato profondamente lo sviluppo della black music negli anni Novanta e hanno avuto una grande influenza sulla cultura degli afroamericani. CarlERNESTO ASSANTE ton Douglas Ridenhour, questo il suo vero nome, è nato 44 anni fa a giovanili. Sono passati venticinRoosevelt, Long Island, ed ha inique anni dal primo disco, trenta ziato la sua avventura nel mondo dalla nascita dell’hip hop come del rap quando con alcuni comsottocultura della cultura afroapagni di scuola iniziò a proporre mericana, certamente un ragazversi e rime sul ritmo della musizino che all’epoca dell’uscita di ca. L’esordio discografico dei PuRapper’s delight nel 1979 aveva blic Enemy è del 1987 e fino ai priuna decina di anni, oggi è certami anni Novanta la band ha domimente un signore in cerca di una nato la scena del rap. Oggi Chuck D è un apprezzato columnist, tiene letture nelle università e nei convegni. Per lui il rap è ancora uno strumento importante di comunicazione. Crede ancora, come disse molti anni fa, che “il rap è la Cnn dei ghetti”? «No, penso sia molto cambiato. Per molti versi è rimasto un mezzo di comunicazione essenziale per la comunità dei neri, ma è difficile ancora vederlo in questo modo, oggi come oggi. Oggi descriverei il rap come «una voce o un’espressione della cultura mondiale», qualcosa di molto si- Sopra, a destra Chuck D, leader dei Public Enemy, uno dei gruppi “storici” del rap mile a Internet, uno strumento che consente alla genNICK HORNBY te di parlare in giro per il mondo, in barba a tutte le censure». Com’è cambiato il rap? «Rap e hip hop hanno due definizioni differenti. La musica rap è rap sulla musica. La musica c’era già. C’era il soul, c’era il rhythm’n’blues, c’era il rock’n’roll, che era rhythm’n’blues, devi conoscere la storia della musica prima di sapere cos’è il rap. Ci sono, poi, tre diversi modi di usare la voce, c’è il parlato, c’è il cantato e c’è il rap, che è qualcosa che è a metà tra il parlato e il cantato. E per questo è impossibile dire che Rock, Pop, Jazz & altro il rap prima o poi svanirà, perché 2001 è come dire prima o poi svanirà la canzone. E’ un modo di usare la voce sulla musica. L’hip hop, inJEAN BAUDRILLARD vece, è più complesso, perché è una sottocultura, che può esprimersi attraverso l’abbigliamento, i libri, il cinema, e ovviamente nel modo in cui si mettono insieme la musica e le parole. L’hiop hop è una forma di creatività che si è diffusa nella comunità afroamericana, è il termine che ha definito la creatività afroamericana negli ultimi 25 anni. L’hip hop potrebbe svanire, potrebbe essere sostituito da un’altra sottocultura. Ma il rap no, il rap resterà, e cambierà. E’ già cambiato. E’ cresciuto, è diventato adulto. Penso L’America sia giunto il momento che l’hip 1986 hop ridefinisca i suoi stereotipi Parliamo a una generazione che può essere mandata in guerra ma che nel paese non conta nulla Eminem, ... le strambe incursioni che l’hip-hop sta facendo nelle altre culture: niente di tutto ciò avrebbe potuto essere scritto se non al volgere del millennio Il guerriero cinese s’immobilizza al culmine dell’azione in un gesto eroico, mentre il rapper s’immobilizza nella fase calante del movimento in un gesto derisorio casa per se, sua moglie e i suoi due figli. Prima era facile per chi volesse avere un’idea di cosa stava girando nella cultura giovanile guardare al mondo dell’hip hop. Oggi la realtà del rap è molto più complessa, più adulta». In che modo l’hip hop deve ridefinire se stesso? DON DE LILLO Il rap da marciapiede… Ascoltò con solenne gratitudine. Era un clamore così forte da costituire una forza vitale, da trasportare il ragazzo oltre la sua ansia livida Underworld 1997 ROBERT HUGHES Si è perso per strada il fatto ovvio che rap e hip-hop non sono gli agenti di un’apocalisse desiderata e temuta, ma una moda come un’altra La cultura del piagnisteo 1993 I FILM «Credo che il rap abbia bisogno di uscire dagli stereotipi che oggi lo limitano molto. Per ridefinire il suo campo d’azione l’hip hop dovrà puntare al coinvolgimento di voci, movimenti, persone più adulte e mature. Noi stessi, che non siamo più giovani, dobbiamo usare la cultura hip hop come terreno di confronto e di connessione con i più giovani, proprio per spingere le nuove generazioni a comprendere che la gioventù è preziosa e dura molto di meno dell’età adulta. I gruppi di nicchia che parlano soltanto ai propri simili sono sempre limitati, non evolvono. Per questo la cultura a bisogno di essere aperta e priva di stereotipi, capace di parlare a persone di tutte le età e di ogni sesso, di individuare i bisogni più immediati della gente e più precisamente riconnettere le generazioni e chiudere i gap». Lei e i Public Enemy avete sempre avuto un forte impegno politico. Recentemente lei ha parlato alla Hip Hop Political Convention. Pensa che ci sia ancora spazio per un rap politicizzato? «Alla Hip Hop National Convention ha visto riuniti gruppi, attivisti, donne, uomini, giovani che chiedevano quello che era giusto per la gente e non per l’agenda della “corporate elite” che si approfittano senza scrupoli delle masse. La Hip hop Political Convention a Newark, lo scorso giugno, ha visto delegati in rappresentanza di oltre trentamila elettori del mondo dell’hip hop, e ha realizzato una agenda in cinque punti su educazione, crimine, economia, salute e diritti umani. La hip hop generation è fatta di ragazzi che a diciotto anni possono essere mandati in guerra a combattere, ma che nel loro paese non hanno ancora lo spazio per contare». La musica nera, oggi, non brilla particolarmente per impegno... «Io penso seriamente che il novanta per cento degli artisti della “amerikkan black music” si siano allontanati dalla realtà dei bisogni della gente. Di certo lo hanno fatto i discografici. Le facce nere che comandano i settori delle case discografiche che si occupano di black music, hanno non sanno più cosa inventare, cosa dire di sensato. E’ inconcepibile che questi signori siano davvero in grado di essere in sintonia con le menti di quelli che hanno 25 anni o meno, e non con i loro desideri. Non hanno idea o interesse in quello che gli insegnanti o i genitori affrontano tutti i giorni, pensano solo ad analizzare montagne di dati per il solo proposito di vendere qualcosa ai giovani». NEW JACK CITY Ascesa e caduta di un boss nero del crack, Snipes, messo sotto da due poliziotti super cool, il rapper Ice-T e il bianco, ex tossico Nelson Di Mario Van Peebles 1991 CLOCKERS Inizia come un documentario sulla vita di strada a Brooklyn e poi si trasforma in un pamphlet sulla cultura nera: con la discussione su chi sia il rapper più “duro” Di Spike Lee 1995 BOY’Z ’N THE HOOD La vita, la musica, la violenza di tre giovani neri in un quartiereghetto di Los Angeles Di John Singleton 1991 8 MILE In un camper al di qua dell’8 mile, la linea di frontiera tra centro e periferia, vive Rabbit, amico dei negri e con una madre alcolista. Di giorno lavora in fabbrica e di notte sfida i “fratelli neri” nelle gare di rap Di Curtis Hanson 2002 KRUSH GROOVE Storia di disagio metropolitano nella quale una banda di ragazzi si aggira per le strade di New York, usando, male, il proprio talento di rapper Di Michael Schultz 1985