da: Pier Paolo Viazzo, Introduzione all’antropologia storica, Roma-Bari, Laterza, 2000 Capitolo quarto Antropologi, storici e stregoni Sotto la spinta della polemica antipagana dei primi secoli cristiani, e più tardi della teorizzazione demonologica medievale, magia e stregoneria sono venute configurandosi lungo tutta la storia occidentale come antitesi diabolica della religione. A questa condanna in termini morali si è sovrapposta, con la rivoluzione scientifica e con l’Illuminismo, una non meno pesante e forse ancor più decisiva condanna di natura intellettuale, che ha portato a vedere nella magia nulla più che un insieme di credenze empiricamente false, oscuro retaggio di un’umanità primitiva e superstiziosa. Nella sua conferenza su Anthropology and History, Evans-Pritchard non aveva potuto fare a meno di constatare che di magia e stregoneria si erano occupati ben più gli studiosi delle società primitive che non gli storici dell’Europa, ma aveva sostenuto che a suo parere non esistevano ragioni perché questi due fenomeni non potessero essere legittimo oggetto di indagine anche per gli storici della civiltà occidentale1. Keith Thomas era stato tra i primi storici a raccogliere l’invito di EvansPritchard e a mettersi al lavoro. L’antropologia, scriveva nel suo articolo del 1963 a cui più volte abbiamo fatto riferimento, non aveva scoperto leggi universali sulla magia e sulla stregoneria, ma una qualche familiarità con la letteratura antropologica avrebbe impedito agli storici di soccombere alla tentazione di vedere nelle pratiche magiche semplici sopravvivenze irrazionali da spiegare in termini volterriani come inganno clericale o come credulità popolare2. Prendendo la parola al convegno dell’associazione degli antropologi sociali britannici del 1968, lo stesso Thomas aveva tuttavia dovuto smorzare facili entusiasmi da parte degli antropologi ricordando che la stregoneria era «un argomento che la maggior parte degli storici considera periferico, per non dire bizzarro»3. Vent’anni dopo la situazione era sorprendentemente cambiata. Nel panorama storiografico internazionale, osservava Carlo Ginzburg, la stregoneria era passata «dalla periferia al centro, fino a diventare un tema non solo rispettabile ma addirittura di moda»4. Questa rapida e imprevista fortuna era in parte il sintomo di una più generale tendenza storiografica verso lo studio della storia di quei gruppi marginali – dalle donne ai contadini – che nelle cosiddette fonti ufficiali erano generalmente rappresentati in maniera inadeguata. «Ma nell’importanza assunta dalla stregoneria», rilevava ancora Ginzburg, «entra anche un elemento più specifico (anche se connesso al precedente): l’influenza crescente esercitata dall’antropologia sulla storia. Non è un caso che il classico libro sulla stregoneria tra gli Azande, pubblicato da Evans-Pritchard più di cinquant’anni fa, abbia fornito 1 a Alan Macfarlane e Keith Thomas un inquadramento teorico per i loro studi sulla stregoneria nel XVII secolo»5. 1. Lo studio antropologico della magia e della stregoneria da Frazer a Evans-Pritchard Evans-Pritchard ha sempre evitato nei suoi scritti ogni sfoggio di erudizione, e soprattutto nelle sue monografie etnografiche i riferimenti bibliografici di carattere teorico sono ridotti al minimo. A Julian Pitt-Rivers, suo allievo a Oxford nei primi anni del secondo dopoguerra, confidò un giorno che a suo parere i «paludamenti accademici» erano inutili per i lettori che ignoravano una certa teoria, e superflui per coloro che invece la conoscevano; e a questo proposito portò come esempio la sua monografia sul pensiero magico degli Azande, un libro che intendeva essere una critica della teoria della mentalità primitiva di Lévy-Bruhl, ma nel quale il nome di questo studioso veniva menzionato una volta soltanto in una nota a piè di pagina6. Frutto di una ventina di mesi di ricerca sul terreno condotti nel Sudan meridionale tra il 1927 e il 1930, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande si presenta in effetti a prima vista come un’opera puramente etnografica, che si propone di descrivere e rendere intelligibili al lettore occidentale un insieme di credenze e di comportamenti lontani dalla sua mentalità. Per assolvere questo compito, tuttavia, Evans-Pritchard non aveva potuto fare a meno di porsi una domanda di ampia portata teorica: «il pensiero degli Azande è talmente diverso dal nostro da permetterci solamente di descrivere le loro parole ed azioni, senza comprenderle, oppure è essenzialmente analogo, benché espresso in un idioma al quale non siamo abituati?»7. Erano gli stessi cruciali interrogativi che si erano posti antropologi evoluzionisti come Tylor e Frazer, e sui quali era più recentemente tornato Lévy-Bruhl. Ed è in effetti sulle tesi avanzate da questi studiosi – come testimoniano due articoli apparsi nel 1933 e nel 1934 in un oscuro bollettino dell’università del Cairo8 – che Evans-Pritchard aveva riflettuto a lungo al ritorno dal campo, quando per tre anni aveva insegnato sociologia nella capitale egiziana. Per meglio comprendere l’importanza di uno studio genuinamente etnografico ma al tempo stesso profondamente teorico come quello di Evans-Pritchard è dunque opportuno ricordare, seppur brevemente, le tesi di questi studiosi. Il primo punto da notare è che il problema dei rapporti tra magia, scienza e religione aveva dominato i primordi della riflessione antropologica. Frazer, in particolare, nelle numerose edizioni del suo famosissimo The Golden Bough aveva tentato ingegnosamente di dimostrare, attraverso sconfinate analisi comparative, che l’intera esistenza delle più primitive tra le popolazioni studiate dagli etnologi era pervasa da comportamenti e credenze 2 magiche e che tali comportamenti e credenze erano riconducibili a due principi basilari. «Se analizziamo i principî di pensiero su cui si basa la magia», aveva scritto, «troveremo probabilmente che essi si risolvono in due: primo, che il simile produce il simile, o che l’effetto rassomiglia alla causa; secondo, che le cose che siano state una volta a contatto, continuano ad agire l’una sull’altra, a distanza, dopo che il contatto fisico sia cessato»9. Era il primo principio, quello della «magia omeopatica», che conduceva il selvaggio a ritenere che lo spillone piantato in una bambola di cera equivalesse a una pugnalata nel corpo del nemico, mentre era il secondo principio, quello della «magia contagiosa», a convincerlo di poter nuocere a un nemico agendo sui suoi capelli. Frazer non si era però limitato a sostenere che la visione del mondo del primitivo era essenzialmente magica; aveva aggiunto che una tale visione del mondo, lasciando trasparire una teoria della causalità fondata sulla credenza in forze impersonali, tendeva a opporsi alla religione e ad avvicinarsi a un atteggiamento di tipo scientifico. Proprio questa somiglianza permetteva tuttavia di valutare l’abisso che separa la magia dalla scienza e, per implicazione, il livello mentale del primitivo da quello dell’uomo moderno colto. Al pari delle leggi scientifiche, i due principi magici fondamentali (che Frazer chiamava non a caso «legge di similarità» e «legge del contatto») costituiscono il punto d’arrivo di un’osservazione del mondo naturale, ma a differenza delle leggi scientifiche essi si basano su «associazioni di idee» totalmente erronee. Frazer pubblicò l’ultima edizione del suo più celebre lavoro nel 1922, dunque nello stesso anno in cui apparvero in Francia La mentalité primitive di Lévy-Bruhl e in Inghilterra gli Argonauts of the Western Pacific di Malinowski. Filosofo di formazione e di interessi, ma influenzato dalla scuola sociologica francese e come Durkheim e i suoi allievi propenso a utilizzare ampiamente materiali etnografici, Lévy-Bruhl suggeriva l’esistenza di una differenza radicale tra la mentalità del civilizzato e quella del primitivo: quest’ultima sarebbe stata infatti caratterizzata da un pensiero «prelogico» che non conosceva i principi di identità, contraddizione e causalità su cui poggiano i procedimenti logici occidentali e consentiva pertanto di accettare ciò che ai nostri occhi appare impossibile, incredibile, assurdo. Come abbiamo visto, le tesi di Lévy-Bruhl colpirono Marc Bloch, che nel completare la stesura del suo libro sui re guaritori stava tentando di spiegarsi come le popolazioni francesi e inglesi di antico regime avessero potuto «accettare come reale un’azione miracolosa, anche se smentita in modo persistente dall’esperienza»10. Molte perplessità suscitavano invece in un antropologo come Malinowski, che facendo leva sulla sua prolungata esperienza di campo denunciava la tendenza di studiosi da tavolino come Frazer o Lévy-Bruhl a concentrarsi sugli aspetti più sorprendenti o bizzarri della vita dei primitivi, ignorando la grigia normalità della maggior parte della loro esistenza e accentuando così la differenza tra civilizzati e «selvaggi». 3 Uno degli obiettivi principali della produzione scientifica e della pubblicistica di Malinowski negli anni venti fu quello di dimostrare quanto questa differenza fosse stata indebitamente esagerata. «Il professor Lévy-Bruhl», scriveva in un saggio del 1925 dedicato specificamente a magia, scienza e religione, «ci dice, in poche parole, che l’uomo primitivo … è irrimediabilmente e totalmente immerso in una struttura mentale ‘mistica’. Incapace di osservazione spassionata e coerente, privo del potere di astrarre, ostacolato da una ‘risoluta avversione al ragionamento’, egli non è in grado di ricavare alcun beneficio dall’esperienza, di costruire o di capire neanche le più elementari leggi della natura» 11. Ma davvero il selvaggio era completamente immerso in un universo «mistico», privo di conoscenze basate sull’esperienza, incapace di esercitare un qualche dominio razionale sul suo ambiente? La risposta di Malinowski, che utilizzava con grande forza persuasiva il materiale etnografico da lui raccolto nelle isole Trobriand, era che in realtà il primitivo distingue con chiarezza la sfera della magia dalla sfera delle attività empiriche, e sa benissimo che in condizioni normali il buon esito di un raccolto o di una pesca dipende unicamente dalla sua abilità e dalla sua esperienza: alla magia – non diversamente dal civilizzato, in fondo – ricorrerà soltanto per assicurare il successo di un’impresa incerta e pericolosa o per fronteggiare un evento eccezionale contro cui nulla possono le sue conoscenze tecnico-scientifiche. Quando cominciò ad occuparsi a fondo delle tesi di Lévy-Bruhl, anche Evans-Pritchard era reduce da una lunga ricerca intensiva sul terreno, e non poteva non concordare con Malinowski nell’addebitare all’inesperienza etnografica del filosofo francese una fuorviante accentuazione dei caratteri «mistici» dei comportamenti e delle credenze dei primitivi. Ma questa non è che una delle numerose critiche che Evans-Pritchard rivolge al filosofo francese nel suo saggio del 1934: quando Lévy-Bruhl ci contrappone ai primitivi, si domanda ad esempio Evans-Pritchard, chi siamo noi e chi sono i primitivi? E’ sensato attribuire una stessa mentalità al filosofo della Sorbona e al contadino bretone?12 Con tutto ciò, trent’anni più tardi Evans-Pritchard poteva affermare di essere stato «uno dei pochi antropologi, in Inghilterra o in America, ad avere parlato in favore di Lévy-Bruhl», sottolineando quelli che gli sembravano gli aspetti più originali e fecondi delle sue teorie13. Di Lévy-Bruhl aveva apprezzato un orientamento sociologico che si contrapponeva alle spiegazioni in termini di psicologia individuale fornite dagli evoluzionisti: per Tylor e Frazer l’uomo primitivo credeva nella magia in quanto, partendo dalle proprie osservazioni, ragionava in maniera scorretta, mentre per Lévy-Bruhl il suo ragionamento era determinato dalle rappresentazioni collettive della società a cui apparteneva. Il punto più importante, secondo Evans-Pritchard, era però che LévyBruhl, a dispetto di quanto il termine «prelogico» sembrava suggerire, non si era proposto – diversamente dagli evoluzionisti – di tracciare lo sviluppo della razionalità umana da forme inferiori 4 a forme superiori, ma aveva cercato di ricostruire i modi di funzionamento di una razionalità diversa dalla nostra e ad essa incommensurabile: Lévy-Bruhl non sostiene che i primitivi mancano di intelligenza, ma che le loro credenze sono incomprensibili per noi. Questo non significa che noi non possiamo seguire i loro ragionamenti. Possiamo far ciò in quanto essi ragionano in una maniera del tutto logica; tuttavia essi partono da premesse differenti – premesse che sono per noi assurde. Hanno la capacità di ragionare, ma ragionano usando categorie differenti dalle nostre. Sono logici, ma i principi della loro logica non sono i nostri, non sono cioè quelli della logica aristotelica14. Evans-Pritchard ha scritto che nel 1934 la sua difesa di Lévy-Bruhl aveva dovuto essere in buona parte esegetica, essendo sua convinzione che «uno studioso debba essere criticato per ciò che ha detto, e non per ciò che gli si attribuisce di aver detto»15. Leggendo queste righe è però difficile non sospettare che la sua interpretazione non sia stata soltanto corretta e penetrante, ma abbia arricchito e precisato le intuizioni di Lévy-Bruhl riconsiderandole alla luce di quanto era emerso dalla ricerca tra gli Azande. Fin dai primi giorni passati sul campo, scrive Evans-Pritchard nelle pagine introduttive di Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, era divenuto evidente che gran parte dell’esistenza di questa popolazione centroafricana era percorsa dal concetto di mangu, una nozione che si può rendere in inglese con witchcraft e in italiano con «stregoneria». Ogni evento funesto o spiacevole (dalla morte di un parente in seguito al crollo di un granaio fino al comportamento scontroso di una moglie) era attribuito al mangu, un termine che designava sia una sostanza materiale che secondo gli Azande si trovava nei corpi di certe persone e si trasmetteva ereditariamente, sia una supposta emanazione psichica di questa sostanza. La sostanza mangu poteva essere scoperta nei morti attraverso un’autopsia, ma più spesso veniva diagnosticata nei vivi mediante il ricorso a un oracolo (soroka) che permetteva di individuare il colpevole. Una volta individuato il colpevole, i parenti della vittima potevano affrontarlo direttamente, oppure portare l’accusa di fronte alla corte di un principe, o ancora affidarsi all’azione di una magia di vendetta. Stregoneria, oracoli e magia erano i tre lati di un triangolo dai caratteri inconfondibilmente «mistici», per usare il termine di Lévy-Bruhl. Il fitto tessuto etnografico che emerge dalle osservazioni condotte sul campo da Evans-Pritchard, e soprattutto dai testi delle molte conversazioni da lui avute nei venti mesi trascorsi sul campo, rivela però che gli Azande non percepivano gli avvenimenti in maniera radicalmente diversa da noi occidentali, come Lévy-Bruhl aveva supposto: ad esempio, i parenti della vittima vedevano benissimo che erano state le termiti a erodere il sostegno del granaio e a provocarne il crollo, e sapevano dunque perfettamente come era 5 avvenuta la disgrazia. Ma perché la disgrazia si era abbattuta proprio su quel loro parente? Era a questa seconda domanda, ben più profonda e radicale da un punto di vista esistenziale, che la credenza nella stregoneria dava risposta. Una delle ragioni che rendono la monografia del 1937 un punto di svolta nello studio antropologico della magia e della stregoneria è che essa, mettendo in luce l’esistenza presso gli Azande di due ben diverse teorie della causalità, permise di individuare una cruciale debolezza nelle precedenti discussioni della magia e determinò in ultima analisi un riorientamento della ricerca. Lo studio in termini astratti dei rapporti tra magia e scienza fu quasi del tutto abbandonato e l’attenzione degli antropologi si concentrò sul ruolo esplicativo e consolatorio che sistemi istituzionalizzati di credenze «magiche» hanno avuto e hanno tuttora in moltissime di quelle società che si è soliti definire tradizionali. L’efficacia e la stessa sopravvivenza di questi sistemi di credenze dipendono peraltro dalla loro coerenza interna e dalla capacità di difendersi dall’infiltrazione di elementi esterni che possano minarne l’autorità. Offrendo una ricca e precisa esemplificazione etnografica di quelle che in Lévy-Bruhl erano spesso rimaste brillanti intuizioni, in una serie di affascinanti capitoli Evans-Pritchard faceva comprendere al lettore che l’insieme di idee imperniate sul concetto di mangu costituiva un sistema dotato di struttura logica: azioni e deduzioni a prima vista curiose o assurde risultavano del tutto razionali se riportate ai postulati basilari che governavano l’universo conoscitivo zande. Il materiale raccolto da Evans-Pritchard mostrava inoltre come una straordinaria plasticità permettesse al sistema di reagire con successo a quelle che un occhio occidentale avrebbe giudicato contraddizioni o falsificazioni fatali. Se ad esempio un evento posteriore avesse dimostrato che l’oracolo aveva sbagliato nell’emettere un verdetto, la fede nell’oracolo non veniva meno: l’errore veniva attribuito alla violazione di un tabù o di una delle regole procedurali che dovevano essere seguite nella consultazione dell’oracolo, o si poteva addirittura ipotizzare che lo stesso oracolo fosse stato stregato e reso inefficiente. Questa rivoluzionaria analisi di un sistema di pensiero «primitivo» molto doveva allo stimolo dei lavori di un filosofo come Lévy-Bruhl, e non stupisce che abbia a sua volta influenzato numerosi filosofi, e in modo particolare alcuni dei maggiori epistemologi della seconda metà del Novecento. Il primo epistemologo a farne ampio uso fu probabilmente Michael Polanyi, che nel 1958 sostenne che la stabilità delle teorie scientifiche era dovuta a meccanismi di difesa del tutto simili a quelli messi in evidenza da Evans-Pritchard nella sua analisi del pensiero zande16. Tracciando un audace parallelo che avrebbe certo sorpreso Frazer, Polanyi suggerì che le comunità di scienziati impegnate nella difesa delle loro teorie sono per molti versi non meno impermeabili all’evidenza empirica di quanto possa esserlo una tribù africana. Erano tesi che anticipavano di qualche anno quelle avanzate da Kuhn, che nel 1962 doveva contribuire in maniera dirompente ad 6 appannare l’immagine popperiana della scienza come sistema aperto, descrivendo con grande incisività le strategie messe in atto dalle comunità scientifiche per preservare la stabilità dei «paradigmi», e soprattutto la tendenza degli scienziati ad apportare migliorie e a ricercare difetti negli esperimenti piuttosto che nella teoria17 – strategie e comportamenti che, come è stato notato, presentano «innegabili ‘arie di famiglia’ con le elaborazioni secondarie e i meccanismi difensivi descritti da Evans-Pritchard a proposito degli Azande»18. Si comprende che il libro di EvansPritchard abbia attirato l’attenzione di Paul Feyerabend, che assegnando nel suo fortunatissimo libro Against Method un posto d’onore ai lavori degli antropologi sulla stregoneria, e in particolare a quello di Evans-Pritchard, ha reso definitivamente familiari gli stregoni zande ai filosofi della scienza19. A fare di Witchcraft, Oracles and Magic un testo decisivo per lo studio antropologico della stregoneria non furono però soltanto l’individuazione da parte di Evans-Pritchard di due diverse teorie della causalità e la dimostrazione etnografica dell’esistenza di meccanismi di difesa capaci di garantire una stabilità quasi omeostatica a un sistema di pensiero. Un terzo e non meno importante contributo consiste nell’avere per la prima volta saputo porre in relazione un insieme di credenze «mistiche» con la struttura sociale soggiacente. Tra gli Azande la credenza nella stregoneria forniva una spiegazione alle sventure postulando, anziché misteriosi e spesso lontani esseri soprannaturali, soltanto il sinistro potere e la malevolenza di esseri umani ben conosciuti dalla vittima e dai suoi parenti, e trovava una drammatica espressione in accuse che non colpivano a caso ma tendevano a dirigersi verso categorie ben definite di individui. In una società rigidamente stratificata come quella zande, nessuna accusa veniva rivolta dalla gente comune a un nobile: le accuse si muovevano orizzontalmente, per così dire, e i primi nomi ad essere sottoposti al responso dell’oracolo erano generalmente quelli di vicini con i quali vi erano stati attriti, e che venivano quindi sospettati di inimicizia e ostilità. Accusati potevano essere sia uomini sia donne, ma erano gli anziani a suscitare più spesso il sospetto, mentre i bambini non venivano ritenuti capaci di stregoneria. Non limitando la sua analisi alle credenze, ma registrando accuratamente anche la direzione e la frequenza delle accuse, Evans-Pritchard disegnava una mappa delle tensioni interpersonali che percorrevano la struttura sociale di una comunità. Apriva così la via a una lunga serie di studi che si sarebbero concentrati soprattutto sulla distribuzione sociologica e sulla direzione delle accuse, mostrando che i tratti morfologici di gruppi sociali diversi potevano essere correlati a una diversa distribuzione delle accuse e, secondo alcuni antropologi, anche a tipi diversi di rappresentazione collettiva delle caratteristiche di streghe e stregoni20. Nei primi due decenni del secondo dopoguerra questo filone di ricerche sulla sociologia delle accuse di stregoneria è stato uno dei più fiorenti nell’ambito dell’antropologia sociale. Queste 7 ricerche hanno confermato che le accuse tendono a coinvolgere persone che secondo le aspettative della propria società dovrebbero intrattenere rapporti amichevoli, come i vicini tra gli Azande, ma che nei fatti si trovano in disaccordo o addirittura in situazioni di aperto conflitto. In più, hanno mostrato che l’accusa di stregoneria può rappresentare un mezzo efficacissimo per troncare una relazione sociale e viene molto sovente usata per portare un conflitto alle estreme conseguenze e produrre effetti politici quali la fissione di un lignaggio o la divisione scismatica di una popolazione di villaggio21. Per l’antropologo le accuse di stregoneria erano dunque uno strumento di grande sensibilità per misurare sul terreno il livello di tensione sociale e ricercarne le cause, ma le regolarità che emergevano da una letteratura sempre più ricca sembravano offrire anche utili indicazioni comparative. Nell’introdurre il convegno dell’associazione degli antropologi sociali del 1968, Mary Douglas deplorava che, delle vie aperte dalla monografia di Evans-Pritchard, questa fosse stata di gran lunga la più battuta. Witchcraft, Oracles and Magic aveva voluto essere prima di tutto un libro di sociologia della conoscenza, e «ci si sarebbe attesi che stimolasse una serie di studi sui condizionamenti sociali della percezione. Ha invece generato studi di micropolitica»22. Il nitido quadro analitico cumulativamente costruito da questi studi, e la straordinaria qualità della descrizione e dell’analisi che caratterizza i migliori di essi, non potevano tuttavia lasciare indifferenti gli storici che verso la metà degli anni sessanta si trovavano ad affrontare, sia pure in contesti molto diversi, temi simili a quelli investigati dagli antropologi soprattutto in Africa. Ed è in effetti di questo quadro analitico che si servono ampiamente, proprio a partire dalle relazioni presentate al convegno del 1968, alcuni degli storici che hanno contribuito in maniera decisiva all’edificazione di quello che è stato definito il «nuovo paradigma» nello studio storico della stregoneria, un paradigma inequivocabilmente storico-antropologico. 2. Due paradigmi nello studio storico della stregoneria La pubblicazione del De crimine magiae di Christian Thomas, il filosofo e giurista tedesco più noto con il nome latinizzato di Thomasius, inaugurava nel 1701 un secolo di dibattito illuministico su magia, stregoneria e demonologia. La «caccia alle streghe» scatenatasi verso la fine del medioevo si era conclusa solo da pochi decenni e gli intellettuali europei si domandavano se la stregoneria dovesse considerarsi un delitto da punire o piuttosto una fantasia da compatire. Un secolo e mezzo più tardi, in un clima saldamente positivista, le credenze magiche apparivano ormai confinate al popolino o ai selvaggi – dunque oggetto di studio appropriato per la nascente antropologia – mentre 8 i processi di stregoneria venivano sempre più visti come una macchia nella storia europea di cui era tempo che iniziassero a occuparsi gli storici. Uno dei primi frutti di questa nuova stagione di ricerca fu nel 1862 La Sorcière, un libro audace in cui Jules Michelet, il grande storico della rivoluzione francese, studiava la figura della strega dall’«età leggendaria» di cui si potevano ancora trovare tracce nel folklore europeo fino alla sua età più propriamente storica, documentata dagli atti dei processi inquisitoriali23. Michelet era da più di dieci anni caduto in disgrazia a causa del suo rifiuto di prestare giuramento al nuovo governo francese dopo la fine della seconda repubblica, rifiuto che gli era costato l’allontanamento prima dall’insegnamento universitario e poi dalla direzione della sezione storica degli Archivi. La pubblicazione di questo libro che affrontava argomenti scabrosi e non rifuggiva dal linguaggio forte non contribuì certo a riguadagnargli il favore delle autorità: la prima edizione fu immediatamente mandata al macero e sostituita da un’edizione espurgata24. Era anche un’opera di difficile classificazione: un libro di storia, documentato su carte d’archivio, ma anche un libro scritto come un romanzo, con uno stile che suscitò l’entusiasmo di Victor Hugo25. Questa «duplicità feconda», ha scritto Roland Barthes, uno dei suoi maggiori estimatori moderni, poneva in luce «un taglio nuovo del reale», fondando «quella che si potrebbe chiamare un’etnologia o una mitologia storica»26. Già amata dalla scuola delle «Annales», al pari di altre opere di Michelet, come esempio avanti lettera di storia integrale e di antropologia storica27, La Sorcière è indubbiamente un libro che colpisce oggi tanto per la sua impronta «protofemminista» (è una storia della figura femminile della strega, non della stregoneria) quanto per una scrittura sorprendentemente vicina ai canoni postmodernisti. Ma nella seconda metà dell’Ottocento questa ambiguità di genere allontanò ulteriormente Michelet dalla storiografia positivista, e La Sorcière non lasciò tracce immediate. Molto più influente fu un contemporaneo di Michelet, il tedesco Wilhelm Gottlieb Soldan, un teologo liberale che nel 1843 aveva dato alle stampe la prima storia sistematica dei processi alle streghe (un lavoro di cui lo stesso Michelet si era ovviamente servito), avviando un’opera di raccolta, pubblicazione e interpretazione delle fonti processuali che doveva essere proseguita da storici come Henry Charles Lea, George Lincoln Burr, Wallace Notestein e soprattutto Joseph Hansen, che nel 1901 pubblicò una monumentale raccolta di materiali (le Quellen und Untersuchungen zur Geschichte des Hexenwahns und der Hexenverfolgung im Mittelalter) destinata a rimanere un punto di riferimento obbligato per almeno tre generazioni di studiosi28. Soldan, Lea, Burr, Notestein e Hansen sono i più noti rappresentanti di quello che nel 1972, quando già stava profilandosi un modo nuovo di avvicinarsi alla stregoneria europea, è stato definito il «paradigma soldaniano»29. Una delle caratteristiche di questo «paradigma», che ha dominato la ricerca sulla stregoneria europea per più di un secolo, è stata la dura critica alle gerarchie ecclesiastiche e civili 9 responsabili della caccia alle streghe. Di idee dichiaratamente liberali, questi studiosi si sono occupati quasi esclusivamente degli aspetti inquisitori e giuridici dei processi, denunciando la scorrettezza delle procedure seguite e condannando i modi di formulare le domande e un sistema di acquisizione delle prove che non aveva esitato a far ricorso alla tortura o ad altri mezzi di estorsione delle confessioni. Ingiustamente accusate, e processate seguendo procedure arbitrarie e ripugnanti agli occhi del giurista moderno, nei lavori degli esponenti del «paradigma soldaniano» le vittime della caccia alle streghe venivano lodevolmente, anche se tardivamente, riabilitate. La possibilità che le confessioni rese agli inquisitori potessero contenere un «nocciolo di verità», e che la stregoneria avesse dunque avuto una qualche reale consistenza, non veniva neppure presa in considerazione. Una rotta del tutto diversa seguì Margaret Murray, che nel 1921 pubblicò un volume sulla stregoneria europea dal titolo inevitabilmente destinato a suscitare controversie e dal sottotitolo significativo: The Witch-Cult in Western Europe. A Study in Anthropology. La Murray, lo si è visto30, non era propriamente un’antropologa, ma conosceva certamente bene la letteratura antropologica e in particolare gli studi comparativi di Frazer. Soprattutto possedeva una sensibilità antropologica che la spingeva a porre ai documenti quelle domande che avrebbero portato un paio di decenni più tardi Geoffrey Gorer a raccomandare i suoi libri come esempi del contributo che l’antropologia poteva offrire alla ricerca storica. Sin dalle prime pagine del suo libro la Murray prendeva nettamente le distanze da quegli scettici, antichi e moderni, che avevano negato ogni credito alle affermazioni delle donne e degli uomini che avevano confessato di essere streghe e stregoni, sostenendo che gli accusati «soffrivano di allucinazioni, di isteria o, per usare un termine moderno, di ‘autosuggestione’»31. L’incredulità degli storici moderni non poteva far dimenticare che nel periodo dei processi alle streghe lo scetticismo era venuto da personalità che la Murray non esitava a definire grigie e mediocri – nobilotti di campagna, predicatori fanatici, addirittura ubriaconi – mentre alla realtà della stregoneria avevano prestato fede «le menti più brillanti, le intelligenze più profonde, gli investigatori più grandi», primo fra tutti Jean Bodin, il filosofo politico francese che nel 1580 aveva pubblicato un trattato sulla Démonomanie des Sorciers in cui confutava vigorosamente le argomentazioni degli scettici32. Era dunque necessario che la questione venisse sottoposta a un riesame critico e libero da pregiudizi, tralasciando le opinioni dei commentatori e attenendosi unicamente ai «fatti documentati». Ma questo non era sufficiente. «E’ solo mediante un’accurata comparazione con i dati dell’antropologia», scriveva la Murray, «che i fatti si collocano al loro giusto posto e una religione organizzata si rivela ai nostri occhi»33. Inserendo in un quadro coerente gli elementi frammentari e disparati che emergevano dalle confessioni di streghe e stregoni, l’antropologia consentiva di risolvere un immenso rompicapo, 10 facendo riaffiorare – tessera dopo tessera – l’immagine dimenticata di un insieme organico di culti della fertilità animale e vegetale dalle antichissime radici preagricole, che nel tardo medioevo e nei primi secoli dell’età moderna era ancora, sotto la coltre cristiana, la religione dominante delle masse rurali europee. Le prove dell’esistenza di quella che secondo la Murray non era soltanto un’accozzaglia di superstizioni isolate ma una vera e propria religione, caratterizzata da ministri del culto, rituali, simbologie e calendari festivi comuni a tutto il territorio europeo, venivano soprattutto dalle descrizioni che gli accusati avevano fatto del sabba. I processi celebrati tra il XV e il XVII secolo da un capo all’altro dell’Europa lasciavano infatti trasparire una straordinaria uniformità di testimonianze da parte di coloro che sostenevano di avere partecipato a questi convegni notturni. La Murray era consapevole delle obiezioni che potevano venire rivolte alla sua tesi: innanzitutto che le confessioni erano state estorte sotto tortura, e poi che queste descrizioni venivano «messe in bocca» agli accusati dagli inquisitori e dai redattori dei verbali degli interrogatori seguendo modelli diffusi in tutta Europa dalla manualistica demonologica. La Murray replicava però che «anche concedendo che queste testimonianze siano state rese sotto tortura e in risposta a domande allusive, rimane ancora una massa di particolari che non possono essere ignorati»34. I questionari di cui si servivano gli inquisitori potevano deformare e uniformare le descrizioni fornite dagli accusati nei loro tratti generali, ma non potevano dar conto di certi particolari a prima vista insignificanti e invece decisivi per segnalare la diffusione di pratiche e credenze straordinariamente simili fra di loro e decifrabili alla luce dei risultati a cui era giunta la ricerca antropologica comparativa sulle religioni primitive e sui loro riti di fertilità. Immediate reazioni negative da parte degli studiosi che aderivano al «paradigma soldaniano» naturalmente non mancarono35, ma le ardite teorie proposte da The Witch-Cult in Western Europe conobbero ugualmente un successo rapido e vasto. La migliore dimostrazione dell’autorevolezza in materia che veniva riconosciuta alla Murray già pochi anni dopo la pubblicazione del suo libro fu probabilmente l’incarico di redigere la voce «Witchcraft» per la quattordicesima edizione dell’Encyclopaedia Britannica, apparsa nel 1929. Le sue tesi erano però destinate a perdere terreno non meno rapidamente. A minarne la base fu soprattutto, a parere di Carlo Ginzburg, il fatto che la Murray, per sostenere la realtà degli eventi menzionati nella descrizione del sabba, era stata «costretta a tacerne gli elementi più imbarazzanti – il volo notturno, le trasformazioni in animali – ricorrendo a tagli che si configuravano come vere e proprie manipolazioni testuali»36. Era un peccato capitale che gli storici positivisti non potevano perdonare. Già nel 1931 il suo secondo libro sulla religione delle streghe fu un insuccesso37, e nel 1940 la voce ammirata di Gorer era ormai pressoché isolata. Non era comunque la voce di uno storico, ma di un antropologo: presentare come esempi del contributo che l’antropologia poteva offrire alla storia 11 proprio i libri di un’autrice che aveva commesso il più grave dei peccati di cui poteva macchiarsi uno storico aveva quasi il sapore della provocazione. In realtà Gorer aveva intuito quanto gli storici avrebbero iniziato a comprendere solo un quarto di secolo più tardi. Per il momento la caccia alle streghe continuò a essere considerata un capitolo secondario e doloroso della storia religiosa dell’Occidente e il suo studio continuò a occupare, in ambito storiografico, una posizione periferica e neppure troppo rispettata. Lo studio della stregoneria come insieme di credenze e pratiche rituali continuò a essere affidato a folkloristi e antropologi. L’unica eccezione di rilievo fu probabilmente rappresentata da Lucien Febvre (non a caso uno dei grandi estimatori di Michelet), che in un breve articolo del 1948 prendeva spunto dalla pubblicazione di un volume su processi di stregoneria celebrati in una zona della Franca Contea nei primi anni del Seicento per porre ai lettori delle «Annales» quello che gli sembrava un problema di primaria importanza. «Come spiegare che gli uomini più intelligenti, più colti, più integri di un’epoca» abbiano potuto tutti, senza distinzione di religione, credere nella realtà della stregoneria? Come spiegare «che un Bodin, il grande Jean Bodin, uno degli spiriti più vigorosi del suo tempo, uomo curioso che di tutto si è occupato e nel modo più felicemente personale: lingue, diritto, storia, geografia, matematica, astronomia … sia la stessa persona che nel 1580 ha pubblicato uno dei libri più rattristanti di quest’epoca, quel trattato sulla Démonomanie des Sorciers di cui non si contano più le edizioni?»38. Al di là della sua travolgente retorica, questo passo di Febvre ci permette di cogliere con nitidezza la differenza tra la sua posizione e quella della Murray. Per quest’ultima, che si proclama una «credente» nella realtà della stregoneria, il fatto che Jean Bodin e altri suoi contemporanei di grande cultura e intelletto avessero prestato fede alle confessioni di streghe e stregoni non stupisce. Per Febvre, che alla realtà della stregoneria non crede, questo fatto costituisce invece un problema che non si può risolvere semplicemente «parlando con disdegno della credulità dei nostri padri del tempo di Enrico IV e Luigi XIV e considerandoli con disgusto dei selvaggi»39. Riecheggiando alcune tesi avanzate pochi anni prima nel suo libro sull’incredulità nel XVI secolo 40, a cui non erano estranee suggestioni lévy-bruhliane, Febvre suggerisce che «nella sua struttura profonda la mentalità degli uomini più illuminati della fine del XVI secolo e dell’inizio del XVII deve aver differito, e radicalmente, dalla mentalità degli uomini più illuminati del nostro tempo. Tra noi e loro devono aver avuto luogo delle rivoluzioni; di quelle rivoluzioni dello spirito che avvengono senza rumore e che nessuno storico si cura di registrare»41. Era un programma storiografico che, direttamente ispirato da queste considerazioni di Febvre, avrebbe dato i suoi primi importanti risultati solo una ventina d’anni più tardi con la pubblicazione di Magistrats et sorciers en France au XVIIe siècle di Robert Mandrou e, al di là della Manica, del lungo e famoso saggio di Hugh Trevor-Roper sulla caccia alle streghe del XVI e 12 XVII secolo42. Se il libro di Mandrou voleva essere prima di tutto uno studio accurato della psicologia collettiva di un preciso gruppo sociale, quello dei magistrati, e dei dibattiti che avevano permesso la nascita di una nuova giurisprudenza, il saggio di Trevor-Roper si proponeva di spiegare per quali ragioni le credenze nella stregoneria si fossero trasformate, proprio negli anni che segnano l’inizio della rivoluzione scientifica, in una forza esplosiva capace di scatenare la più selvaggia e insensata persecuzione conosciuta dal mondo occidentale prima degli orrori del XX secolo. La spiegazione offerta da Trevor-Roper era in ultima analisi una variante della teoria del «capro espiatorio». Nei primi decenni dell’età moderna si sarebbe prodotta una particolare congiuntura storica che richiedeva un’assegnazione di responsabilità per le sventure e le tensioni che travagliavano l’Europa: il ciclo epidemico della peste, la ripresa delle guerre di religione, i rigorismi di Riforma e Controriforma. In una società europea dilaniata al suo interno da conflitti sociali e religiosi, la stregoneria sarebbe divenuta una sorta di nevrosi collettiva e gli uomini e soprattutto le donne accusate di stregoneria sarebbero state le vittime di questo delirio e di una credulità che in misura crescente si era impadronita degli strati più elevati e colti della popolazione europea. Al saggio di uno studioso illustre come Trevor-Roper va riconosciuto, ancor più forse che al libro di Mandrou, l’indubbio merito di avere per la prima volta conferito legittimità e addirittura prestigio alla stregoneria come tema storiografico. Questo saggio, tuttavia, oltre che discutibile in alcune delle sue tesi, appare oggi del tutto estraneo all’impostazione delle ricerche storiche sulla stregoneria condotte nei decenni seguenti: si tratta infatti, come ha osservato ancora Ginzburg, «di una presentazione di carattere generale, che cerca di tracciare le linee fondamentali della persecuzione della stregoneria, scartando sdegnosamente la possibilità di utilizzare il contributo degli antropologi»43. Lo storico inglese non ha d’altra parte mai fatto mistero, prima e dopo il 1967, della sua scarsa simpatia per l’antropologia. «Alcuni storici», scriverà nel 1973, «sono stati recentemente molto attivi nel dirci che dovremmo introdurre più antropologia nello studio della storia e che comprenderemmo meglio le attività degli uomini, ad esempio, nell’Inghilterra del Seicento, se conoscessimo qualcosa di più sul comportamento di tribù sudanesi o bantu». TrevorRoper non era d’accordo. Le lezioni che l’antropologia era in grado di offrire allo storico non potevano che essere semplici e generali, e non c’era quindi «nessun bisogno per gli storici dell’Europa di seppellirsi nei particolari delle pratiche endogamiche o esogamiche delle tribù polinesiane»44. A differenza di Margaret Murray, nelle sue ricerche sulla stregoneria non aveva effettivamente sentito alcun bisogno di prestare attenzione ai particolari di quelle che a suo parere erano soltanto credulità contadine o allucinazioni di donne isteriche45, quando non addirittura «fantasticherie di montanari» i cui cervelli non potevano funzionare bene a causa dell’aria rarefatta. Schierandosi dalla parte delle vittime della caccia alle streghe del XVI e XVII secolo, Trevor-Roper 13 era l’estremo rappresentante del paradigma storiografico positivista e liberale di cui Soldan aveva gettato le fondamenta. Rispettava le vittime della persecuzione, assai meno le loro rustiche credenze. Non si rischia di sbagliare affermando che gli storici «filoantropologici» a cui Trevor-Roper alludeva erano prima di tutto Keith Thomas e Alan Macfarlane, i quali a loro volta non avevano nascosto la propria insoddisfazione nei confronti del saggio di Trevor-Roper, di cui non apprezzavano soprattutto il fatto che si trattasse, per riprendere le parole di Ginzburg, di una «presentazione di carattere generale». Tracciando a grandi linee la storia dell’esplosione e del declino della caccia alle streghe e concentrandosi sulla ricerca delle cause di questi mutamenti, Trevor-Roper dava come scontato che sulla stregoneria europea si sapesse tutto ciò che c’era fattualmente da sapere. Proprio nel 1967 il ventiseienne Macfarlane aveva completato a Oxford, sotto la guida di Thomas, una tesi di dottorato basata su approfondite analisi degli atti processuali conservati negli archivi dell’Essex46 e aveva potuto rendersi conto che in realtà sulla stregoneria si sapeva pochissimo. Le note a piè di pagina del saggio di Trevor-Roper, constatava Macfarlane, mostravano che «la documentazione era la stessa di quella usata da Lea, da Soldan, da Hansen e dagli altri autori del XIX secolo che sono così costantemente citati», e le domande poste a tale documentazione non erano diverse da quelle che avevano affaticato questi studiosi ottocenteschi: la responsabilità della persecuzione ricadeva di più sui cattolici o sui protestanti? Sul clero o sulle autorità civili? E come potevano queste superstizioni sopravvivere ancora nell’età del Rinascimento?47 Presentando le loro relazioni al congresso dell’associazione degli antropologi sociali britannici del 1968, il messaggio che Thomas e Macfarlane portavano era, da una parte, che scavando negli archivi era possibile scoprire una quantità inimmaginata di materiale nuovo, e dall’altra che a questo materiale era possibile e doveroso rivolgere domande nuove facendo tesoro dell’esperienza di campo maturata soprattutto in Africa dagli antropologi. Le due relazioni di Thomas e Macfarlane erano per più versi complementari l’una all’altra. Quella di Macfarlane48 era frutto di una ricerca intensiva di tre anni condotta quasi esclusivamente su materiale d’archivio relativo alla sola contea dell’Essex. Quella di Thomas49 presentava invece alcuni risultati di indagini molto più vaste, riguardanti l’intera Inghilterra e basate in gran parte su materiale non archivistico, che poco più tardi sarebbero confluite in Religion and the Decline of Magic, un imponente volume che documentava la «rivoluzione senza rumore» che a partire dal Seicento aveva portato al declino delle credenze magiche e a quello che Weber aveva chiamato Entzauberung, il «disincanto» della società occidentale50. Insieme, esse costituiscono la prima esemplificazione di un diverso modo di studiare storicamente la stregoneria europea, la prima formulazione del nucleo del «nuovo paradigma». 14 Una prima componente fondamentale è l’applicazione della teoria antropologica al materiale storico, un’applicazione che in questi due primi lavori di Thomas e Macfarlane si traduce essenzialmente in una contestualizzazione sociale delle credenze e delle accuse di stregoneria e nella ricerca delle loro funzioni. Con evidente soddisfazione i due storici comunicano ai colleghi antropologi che la documentazione da loro analizzata mostra che anche nei villaggi inglesi dell’età elisabettiana la credenza nella stregoneria serviva a spiegare le disgrazie che avevano colpito i loro abitanti, che le accuse venivano metodicamente usate per risolvere un conflitto, e che i sospetti e le accuse si dirigevano prevalentemente verso una particolare categoria: donne anziane, spesso vedove e in ogni caso povere, che vivevano nello stesso vicinato dei loro accusatori e che negli atti processuali venivano descritte dai testimoni come persone di cattivo carattere e di aspetto minaccioso, sempre pronte a lanciare maledizioni contro chi non prestava loro l’aiuto richiesto. La concentrazione delle accuse su questa particolare categoria sociale viene spiegata da Thomas e Macfarlane collegandola a una trasformazione strutturale ricca di implicazioni profonde per la società inglese della seconda metà del Cinquecento: la graduale sostituzione di un sistema nazionale di assistenza al precedente sistema che affidava poveri e bisognosi alla carità della comunità locale e del vicinato. Questa trasformazione avrebbe generato una tensione fra il tradizionale sentimento di carità cristiana su cui ancora insisteva il clero locale e il risentimento verso quei poveri che continuavano a ricorrere all’aiuto dei vicini benché le autorità civili scoraggiassero ormai questa forma di assistenza. I capifamiglia tendevano a scacciare con modi bruschi le anziane mendicanti che si presentavano alla porta di casa, ma la loro coscienza era tormentata. Sarebbe stato questo diffuso senso di colpa, secondo i due storici inglesi, a fornire terreno fertile per accuse di stregoneria che attribuivano alle donne anziane e alle loro maledizioni la responsabilità delle disgrazie che si erano abbattute sulla casa, dalla malattia di un familiare alla morte di un animale. La validità esplicativa del modello della «carità rifiutata» proposto da Thomas e Macfarlane è stata in questi trent’anni messa più volte in discussione dagli studiosi di storia inglese dell’età moderna51, e l’applicazione degli schemi interpretativi funzionalisti mutuati dall’antropologia sociale degli anni sessanta può apparire oggi meccanica e quasi didascalica. Anche da queste brevi annotazioni si comprende tuttavia la novità di studi che mostravano come la stregoneria di età elisabettiana non potesse più essere vista come un delirio misteriosamente propagatosi in tutta Europa, bensì come una credenza dotata di una sua razionalità, condivisa e manipolata da uomini e donne che vivevano gli uni accanto alle altre. Non meno significativi erano gli aspetti più strettamente metodologici. Soprattutto il lavoro di Macfarlane offriva una dimostrazione dei ricchi dividendi che potevano derivare da una ricerca storica che, seguendo l’esempio degli antropologi, 15 abbandonasse il livello «anatomico» o «macroscopico» di lavori come quello di Trevor-Roper per scendere al livello «istologico» o «microscopico» della contea o, ancor meglio, del villaggio. Si tratta di un punto di notevole importanza, sul quale conviene soffermarsi dal momento che questa scelta metodologica costituisce un tratto distintivo non solo del nuovo paradigma di ricerche sulla stregoneria europea, ma più in generale di gran parte dell’antropologia storica. Il primo passo dell’indagine di Macfarlane era consistito nell’identificare gli oltre 1200 processi di stregoneria celebrati nell’Essex tra il 1560 e il 1680, i cui atti erano conservati nell’archivio storico centrale della contea e in altri archivi52. Era un corpus documentario che poteva essere esaminato superficialmente e rapidamente, come altri avevano già fatto in precedenza, o nel quale si poteva invece entrare in profondità. Il bivio metodologico era in qualche maniera simile a quello che conduce da una parte alla ricerca sul terreno di carattere estensivo, il survey work di Haddon e Rivers, e dall’altro alla ricerca intensiva di stile malinowskiano. La consultazione di qualche documento isolato, o anche la redazione di un regesto, ossia di un repertorio cronologico dei processi contenente alcune informazioni essenziali sugli atti, possono essere completate in tempi relativamente brevi; un’indagine intensiva può richiedere molti mesi o anni. Come ha scritto Ginzburg ricordando le prime fasi della sua prima importante ricerca, condotta quasi contemporaneamente a quella di Macfarlane, «l’idea di soffermarsi sulle lunghe e (così almeno sembrava) ripetitive confessioni degli uomini e delle donne accusate di stregoneria era poco attraente per studiosi ai cui occhi l’unico problema storico accettabile era costituito dalla persecuzione della stregoneria, e non dal suo oggetto»53. L’idea di leggere con attenzione e studiare fin nei minimi particolari questi atti è invece ben più attraente per lo storico che, come EvansPritchard tra gli Azande, voglia cercare di capire che cosa rappresentasse la stregoneria per «nativi» lontani nel tempo, uomini e donne che a differenza dell’antropologo non può osservare e interrogare direttamente, ma le cui voci gli giungono comunque attraverso il documento. Le confessioni sono indubbiamente ripetitive, anche nel senso che generalmente le risposte degli imputati riecheggiano le domande degli inquisitori. Leggendo le carte processuali accade però che di colpo «ci troviamo di fronte a un vero e proprio dialogo: percepiamo voci distinte, diverse, addirittura contrastanti»; e non solo parole, «ma gesti, silenzi, reazioni quasi impercettibili come un improvviso rossore … registrati dai notai del Sant’Uffizio con puntigliosa minuzia»54. La scelta metodologica di Macfarlane, di Ginzburg e di altri storici che hanno cercato di dare alle proprie ricerche un taglio antropologico è stata naturalmente quella di immergersi in profondità in una documentazione che a precedenti generazioni di studiosi era parsa così poco promettente. Tale scelta ha avuto per questi pionieri dell’antropologia storica, e ha per chiunque decida di compierla, l’effetto quasi magico di trasformare la documentazione, rendendola in un 16 certo senso nuova e più estesa. «Quando entrai per la prima volta nella grande stanza circondata da armadi in cui erano conservati, in ordine perfetto, quasi 2000 processi inquisitoriali», ha ricordato ancora Ginzburg, «provai l’emozione di un cercatore d’oro che s’imbatte in un filone inesplorato»55. Fondi archivistici giudicati di poco interesse dagli studiosi della caccia alle streghe, e del tutto insignificanti dagli storici politici, si nobilitavano e rivelavano una ricchezza di informazioni che addirittura poneva gli storici in una posizione di vantaggio nei confronti degli antropologi. Nel presentare le fonti e i metodi su cui si basavano i due volumi da lui dedicati a Vidas mágicas e Inquisición, un altro lavoro storico-antropologico su magia e stregoneria apparso nel 1967, Julio Caro Baroja non esitava a riconoscere che lo studio monografico di Evans-Pritchard sugli Azande aveva offerto a storici e antropologi il modello da seguire, ma aggiungeva che, per arricchire la teoria antropologica, «in Europa abbiamo il vantaggio di poter lavorare su un materiale storico che è molto più abbondante di quello sui popoli primitivi»56. Un ovvio vantaggio della documentazione storica, come notava con un pizzico di invidia lo stesso Evans-Pritchard nella prefazione al volume che Macfarlane aveva tratto dalla sua tesi, era quello di registrare variazioni nel tempo57. La letteratura antropologica suggeriva che in certe società le accuse di stregoneria erano più frequenti che in altre, ma non era in grado di dirci se in queste società le accuse fossero state più o meno frequenti nel passato. Un esame dei 1200 processi celebrati nell’Essex tra il 1560 e il 1680 mostrava invece, ad esempio, che le accuse di stregoneria erano state molto più frequenti tra il 1570 e il 1595 che non nei primi decenni del Seicento, e che avevano comunque conosciuto forti fluttuazioni. Per un’antropologia sociale in crisi anche a causa di un apparato teorico che sottolineava eccessivamente gli aspetti statici della struttura sociale, le prospettive dinamiche offerte dal materiale storico erano evidentemente preziose. La forza dell’antropologia consisteva però nella sua capacità di studiare la stregoneria, così come molti altri fenomeni, all’interno di un ricco contesto etnografico ricostruito grazie a studi intensivi condotti all’interno di piccole comunità. Per lo storico desideroso di emulare l’antropologo il problema era, per usare ancora l’esempio di Macfarlane, quello di inserire le accuse di stregoneria documentate negli archivi dell’Essex in un analogo contesto etnografico. Impresa non facile, dal momento che anche limitando l’indagine a questa sola contea egli aveva a che fare con una popolazione di circa 100.000 persone per un periodo di oltre un secolo. Una possibile strategia era quella di far emergere la dimensione microscopica del villaggio dalle informazioni contenute negli stessi atti processuali, che riguardavano tuttavia una molteplicità di comunità locali. Alternativamente, si poteva selezionare un piccolo campione di villaggi e applicare ad essi procedimenti di ricerca analoghi a quelli adottati dagli antropologi sul terreno, non lavorando quindi sui processi come se si trattasse di 17 un insieme «chiuso» di informazioni, ma legando queste informazioni ad una varietà di altri dati d’archivio. Optando per questa seconda strategia, Macfarlane ha scelto tre villaggi vicini fra loro, situati in una fascia centrale della contea in cui le accuse di stregoneria erano state particolarmente numerose, e li ha seguiti intensivamente lungo un periodo di quarant’anni (1560-1599). Come ogni antropologo appena giunto sul campo, Macfarlane ha collegato le informazioni contenute nelle carte processuali a quelle fornite da atti notarili, libri parrocchiali e registri catastali, ed è riuscito in tal modo a ricostruire intere genealogie, a stabilire la topografia dei villaggi, a determinare rapporti di parentela, affinità e vicinato, il censo di molti abitanti, la loro religione – in una parola, a restituirci in non piccola parte la struttura sociale di tre piccole comunità inglesi della fine del Cinquecento. Era un procedimento che preludeva a quello di «ricostituzione totale» di cui Macfarlane sarà uno degli ideatori e di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo. Era anche una ricostruzione del contesto etnografico palesemente guidata dalle preoccupazioni teoriche dell’antropologia sociale. A separare la ricerca di Macfarlane da quella quasi contemporanea di Carlo Ginzburg sui «benandanti» del Friuli non vi è soltanto la scelta di quest’ultimo di puntare il suo microscopio essenzialmente sugli atti processuali senza tentare collegamenti sistematici con altri tipi di fonte, ma anche – come le brevi citazioni riportate poco sopra hanno lasciato intravedere – l’interesse prevalente di Ginzburg per le confessioni di stregoneria piuttosto che per le accuse, per le credenze in sé piuttosto che per le loro funzioni sociali. Ginzburg aveva iniziato a studiare i processi alle streghe molto precocemente, come dimostra un saggio pubblicato, a poco più di vent’anni, nel 196158. Questo interesse era in parte stimolato da letture antropologiche. Non si trattava però delle monografie di Evans-Pritchard e degli antropologi sociali britannici, allora quasi del tutto sconosciute in Italia, ma piuttosto dei libri di Ernesto De Martino, e in particolare del Mondo magico59, che avevano diretto la sua attenzione verso le origini popolari delle credenze nella stregoneria e lo avevano portato a formulare l’ipotesi che i processi avessero rappresentato uno scontro tra culture profondamente diverse60. Questa ipotesi gli parve confermata pochi anni più tardi, quando nell’Archivio Arcivescovile di Udine si imbatté in una serie di processi di stregoneria che rivelavano l’esistenza, nelle campagne friulane del XVI e XVII secolo, di una sorta di associazione o confraternita rurale a cui appartenevano, per destino, uomini e donne che erano nati «con la camisciola», ossia avvolti dalla membrana amniotica, e che si autodefinivano «benandanti». Il termine non era sconosciuto. Nei lavori degli studiosi delle tradizioni popolari friulane, «benandante» era registrato come sinonimo di «stregone». Gli interrogatori analizzati da Ginzburg indicavano tuttavia che nei processi più antichi i benandanti avevano dichiarato con forza di non essere streghe e stregoni, ma di essere anzi i loro 18 nemici più fieri. Quattro volte all’anno, nelle notti delle «quattro tempora» (i giorni, all’inizio di ogni stagione, in cui la Chiesa prescriveva il digiuno), essi abbandonavano il proprio corpo, che giaceva per alcune ore come morto. Chiamati da un messaggio divino o da un angelo si recavano in spirito – «lassando il corpo a casa» – in un prato in cui si trovavano «li strigoni del diavolo» con i quali ingaggiavano una battaglia, «noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo». I benandanti combattevano non solo «in favor di Christo», ma anche «per amor delle biave», in difesa dei raccolti minacciati dai sortilegi degli stregoni: «una volta combattiamo il formento con tutti li grassami, un’altra volta li minuti, alle volte li vini: et così in quattro volte si combatte tutti li frutti della terra, et quello che vien vento [vinto] da benandanti quell’anno è abondanza»61. Queste non erano confessioni di stregoneria, ma fermi dinieghi che ponevano gli sconcertati inquisitori di fronte a elementi inattesi e del tutto estranei agli stereotipi demonologici. Ci sarebbe voluto mezzo secolo perché i benandanti, premuti dagli inquisitori, modificassero le loro dichiarazioni e si confessassero finalmente stregoni. Incompatibile con lo schema del sabba diabolico, il quadro di credenze e pratiche rituali che affiorava dai primi processi denunciava in compenso inconfondibili similarità con culti agrari ampiamente documentati nella letteratura etnologica e folklorica. I benandanti, il volume in cui Ginzburg presentava i risultati delle sue ricerche, apparve nel 1966, pochi anni dopo che il più importante dei due libri della Murray sulla stregoneria, The Witch-Cult of Western Europe, era stato ripubblicato e nuovamente sommerso da un’ondata di critiche. Ginzburg prendeva accuratamente le distanze dalle più arrischiate e fantasiose delle tesi formulate dall’egittologa inglese, ma osservava anche che mancava un’altra interpretazione complessiva della stregoneria popolare e che la teoria della Murray sembrava comunque racchiudere «un nocciolo di verità»62. A sconcertare Ginzburg era soprattutto il fatto che le battaglie notturne descritte dai benandanti trovavano un isolato ma sorprendente parallelo nella confessione resa nel 1692 ai giudici di Jürgensburg, nella regione baltica della Livonia, da un uomo di ottant’anni, un certo Thiess. Considerato dai compaesani un idolatra, il vecchio Thiess aveva invece sostenuto di essere un lupo mannaro e aveva raccontato che tre volte l’anno, nelle notti di santa Lucia, di Pentecoste e di san Giovanni, si recava in un luogo solitario e insieme ad altri lupi mannari combatteva con fruste di ferro il diavolo e gli stregoni, che armati di manici di scopa cercavano di rubare i germogli e distruggere i raccolti63. Il rinvenimento di credenze così simili in regioni così lontane tra loro indicava un’area di diffusione molto vasta e suggeriva anzi «l’esistenza di una connessione, non analogica ma reale, tra benandanti e sciamani», essendo molte le caratteristiche di queste battaglie notturne che sembravano comporsi in un quadro coerente che richiamava da vicino quello delle credenze e delle pratiche sciamaniche64. 19 Nei Benandanti Ginzburg non si era spinto oltre sulla strada della comparazione. Memore della lezione di Marc Bloch, gli era sembrato che esorbitasse dai compiti dello storico tentare una comparazione tipologica tra fenomeni che apparivano storicamente indipendenti65. Riteneva tuttavia che folkloristi e storici delle religioni avrebbero potuto trarre dal materiale documentario presentato nel suo volume «illazioni ben più vaste» attraverso «un uso più largo del metodo comparativo»66. Rintracciare i fili che legavano le credenze friulane a quelle di aree lontanissime nello spazio ha però rappresentato una sfida che ha continuato ad «alimentare sotterraneamente»67 gran parte del lavoro di Ginzburg per vent’anni e che lo ha indotto a fare un uso sempre più largo del metodo comparativo. Ne è testimonianza Storia notturna, apparso nel 1989, dove i casi dei benandanti e del vecchio Thiess vengono ripresi come punti di partenza di un vertiginoso viaggio comparativo che porta a identificare le radici dei culti agrari e dei rituali estatici delle campagne friulane del Cinquecento nello sciamanesimo delle steppe siberiane. Questo comparativismo a vasto raggio non ha certo incoraggiato i critici di Ginzburg a cancellare il suo nome dalla lista dei «Murrayists», alla quale era stato iscritto quasi d’ufficio all’indomani della pubblicazione dei Benandanti68. Ma Ginzburg può dirsi seguace della Murray in un senso più importante. Il «nocciolo di verità» contenuto nella teoria della Murray consisteva innanzitutto «nella decisione di prendere sul serio, contro ogni riduzione razionalistica, le confessioni delle streghe»69. Lo studio di Ginzburg ha dimostrato per la prima volta in maniera convincente che le voci degli imputati e le loro credenze potevano passare attraverso il filtro inquisitorio e giungere fino a noi – nel caso friulano, voci verbalizzate in un italiano cinquecentesco che, insinuandosi nel latino in cui sono prevalentemente redatti gli atti processuali, è sintomo e simbolo della coesistenza e dello scontro di due culture. La pubblicazione dei Benandanti ha avverato la profezia di Gorer, il quale, un quarto di secolo prima, aveva suggerito agli storici americani che seguendo l’esempio della Murray, e prestando fede alle confessioni degli imputati di stregoneria, sarebbe stato possibile riportare alla luce «le credenze, le pratiche e l’ethos di importanti gruppi delle popolazioni subalterne»70. 3. Stregoneria, inquisizione e etnografia Nei trent’anni che ci separano dal convegno dell’associazione degli antropologi sociali del 1968 e dalla pubblicazione dei lavori di Thomas e Macfarlane, gli studi storici sulla stregoneria hanno conosciuto una straordinaria crescita, con un tasso addirittura accelerato nell’ultimo decennio 71, e hanno fornito l’esempio più convincente dell’utilità di coniugare storia e antropologia. Una delle 20 ragioni principali di questo successo è indubbiamente stata la dimostrazione, così brillantemente offerta dalle analisi di pionieri come Macfarlane o Ginzburg, delle potenzialità dei fondi archivistici prodotti dall’attività inquisitoriale in Europa e nel Nuovo Mondo durante i secoli della caccia alle streghe. Uno degli aspetti del lavoro di Macfarlane che suscitarono più scalpore fu l’uso di tecniche di analisi quantitativa allora familiari agli storici economici ma assai meno ai loro colleghi che si interessavano di stregoneria, quasi tutti specialisti di storia ecclesiastica o di storia delle idee, oppure studiosi di tradizioni popolari. Sulla sua scia si è sviluppato un robusto filone di ricerca, che facendo uso di strumenti statistici sempre più sofisticati ha legato le sue sorti alle fortune della storia quantitativa, dominatrice degli anni settanta e ottanta ma oggi in fase di ripiego72. Nello studio della stregoneria sono state però maggiormente battute le vie di una ricerca prevalentemente qualitativa, che ha utilizzato l’archivio come terreno per indagini di carattere etnografico e le domande dell’inquisitore come succedaneo, sia pure imperfetto, delle domande che l’antropologo rivolge ai suoi informatori sul campo. A segnare il trionfo di questo stile di ricerca fu, nel 1975, la pubblicazione di Montaillou, village occitan di Emmanuel Le Roy Ladurie, un libro che ebbe un successo di vendite così straordinario da diventare un caso di cui si occuparono ripetutamente i giornali di tutto il mondo 73. In Montaillou non si parlava, a dire il vero, di stregoneria, ma piuttosto di eresia. La base documentaria su cui il libro si fonda sono gli atti di un’inchiesta che l’inquisitore Jacques Fournier, destinato a diventare papa con il nome di Benedetto XII, aprì nel 1320 per appurare se questo piccolo villaggio pirenaico di contadini e pastori fosse stato ricettacolo dell’eresia catara. La fonte archivistica aveva tuttavia molto in comune con i processi di stregoneria studiati da Ginzburg o da Macfarlane. Anzi, il fatto che il poderoso manoscritto latino che registrava gli interrogatori riguardasse una sola comunità, e che le testimonianze rese agli inquisitori contenessero una grande quantità di informazioni sulla vita materiale e spirituale dei suoi 250 abitanti, incoraggiava ancora di più lo storico a emulare l’antropologo. In un’introduzione significativamente intitolata Dall’Inquisizione all’etnografia, Le Roy Ladurie dichiarava esplicitamente di avere preso come modelli gli studi antropologici di comunità «contadine», a partire da quelli classici di Robert Redfield, e il suo libro era in effetti organizzato secondo i canoni della letteratura etnografica: iniziava con capitoli dedicati all’ambiente naturale e alla vita economica, per passare poi a un’etnografia del matrimonio e delle reti di parentela, dei gesti e dei rituali, delle pratiche religiose, delle credenze. Era ovviamente anche un libro profondamente intriso delle problematiche tipiche della scuola delle «Annales», di cui Le Roy Ladurie era uno dei più autorevoli esponenti: la prima parte del libro delineava gli elementi di «lunga durata», la seconda indagava la «mentalità» di questi montanari medievali costretti dall’incalzare delle domande degli inquisitori a svelare anche gli 21 angoli più reconditi della loro vita privata. Punto di convergenza della tradizione storiografica di Bloch e Febvre e di quella etnografica di Redfield, Montaillou era il risultato del più esplicito esperimento di «antropologia storica» fino ad allora tentato (e, a giudicare dal suo successo commerciale, anche il più riuscito). Neppure uno storico poliedrico come Le Roy Ladurie poteva avere un controllo perfetto della letteratura antropologica. Leggendo Montaillou, gli antropologi avevano perciò aggrottato le ciglia di fronte a qualche citazione fuori luogo o a qualche applicazione superficiale delle loro teorie, ma nel complesso erano rimasti non meno affascinati di centinaia di migliaia di altri lettori, e gratificati nel vedere i loro metodi impiegati nello studio di una comunità lontana più di sei secoli. Dieci anni più tardi le prime ventate postmoderniste avrebbero però reso l’atteggiamento di alcuni antropologi decisamente più critico. Le Roy Ladurie aveva fatto notare che non mancavano certo studi storici di villaggi medievali, ma che solo eccezionalmente – grazie a fonti come il registro inquisitoriale di Jacques Fournier – era possibile imbattersi in «testimonianze dirette» degli abitanti di questi villaggi. Uno dei principali obiettivi di Montaillou era stato quello di far emergere da tali testimonianze le attività, le aspirazioni e le emozioni di umili e dimenticati montanari dei Pirenei e di dimostrare che la loro cultura non aveva minore dignità di quella degli strati sociali più ricchi e potenti di cui gli storici si erano sempre occupati. In un saggio contenuto in Writing Culture, il testo che rappresenta la carta di fondazione dell’antropologia postmodernista, Renato Rosaldo ha sostenuto che Le Roy Ladurie, valendosi dell’«autorità disciplinare» dell’etnografia, ha proposto ai suoi lettori queste «testimonianze dirette» come resoconti non problematici e oggettivamente validi, benché fossero state estorte dagli inquisitori come confessioni. Lo storico francese aveva inoltre dato per scontato che le voci deformate comunque restituiteci dagli atti processuali, pur provenendo da una cultura lontanissima nel tempo, fossero immediatamente comprensibili allo storico e al lettore odierno. «Il tropo dello storico che fa udire in diretta ai lettori di oggi le voci dei contadini medievali», scriveva con durezza Rosaldo, «suscita più scetticismo che apprezzamento tra gli etnografi, abituati a riflettere sulla difficoltà di tradurre le culture»74. Questi rilievi sono probabilmente troppo severi. In un saggio che sembra essere almeno in parte una risposta alle critiche e allo scetticismo di Rosaldo, e non a caso intitolato L’inquisitore come antropologo, Ginzburg non ha avuto difficoltà a riconoscere che documenti come i processi ai benandanti friulani o il registro di Fournier non sono neutrali e che le situazioni di pesante controllo inquisitoriale da cui sono emersi fanno sì che l’informazione che ci forniscono sia tutt’altro che «obiettiva». Determinare le condizioni in cui un documento è stato prodotto costituisce tuttavia da oltre un secolo il primo e fondamentale precetto metodologico dello storico. Per quanto le fonti inquisitoriali possano essere più insidiose di altre, non è impossibile decifrarle una volta che si 22 impari «a cogliere dietro la superficie liscia del testo un sottile gioco di minacce e di paure, di assalti e di ritirate»75. E’ dunque lecito, si è domandato Ginzburg, spingersi oltre «fino a sostenere, come hanno fatto recentemente, in maniera più o meno esplicita, alcuni storici e antropologi (oltre a vari filosofi e critici letterari) che un testo è in grado di documentare soltanto se stesso, ossia il codice in base a cui è costituito?»76. In questa e in altre occasioni Ginzburg ha dichiarato la propria avversione a trattare la fonte storica esclusivamente in quanto fonte di se stessa (vale a dire del modo in cui è stata costruita) e non anche di ciò di cui la fonte racconta, sostenendo con buone ragioni che quando si parla di «filtri e intermediari deformanti» non bisogna esagerare e che «il fatto che una fonte non sia ‘oggettiva’ … non significa che sia inutilizzabile»77. Ridimensionato il problema della «validità» delle testimonianze conservate nelle fonti inquisitoriali (e a fortiori in altre fonti prodotte in situazioni meno violentemente squilibrate), rimane però l’altro problema sollevato da Rosaldo, quello della «traduzione di culture», della comprensibilità di voci che ci vengono da lontano nel tempo o nello spazio. Questo problema aveva rappresentato, come si è visto, il centro delle riflessioni di EvansPritchard nel suo libro sulle credenze magiche degli Azande, e ancor prima di Lévy-Bruhl e di Bloch nel suo studio sui re guaritori. All’antropologo esso si pone quasi quotidianamente, sul terreno o nel momento di scrivere il suo resoconto etnografico, ma con particolare acutezza riguardo a quelle che Lévy-Bruhl aveva chiamato credenze «mistiche», e non è un caso che verso la metà degli anni settanta le nozioni di magia e stregoneria siano state oggetto di un importante dibattito tra Keith Thomas e l’antropologa Hildred Geertz che prefigura alcuni dei più accesi dibattiti attuali. Pur riconoscendo che Thomas aveva dato prova in Religion and the Decline of Magic di una sconfinata erudizione unita a una non comune finezza di annotazione, la Geertz riteneva che lo storico inglese avesse commesso un fatale errore epistemologico usando «religione», «magia» e «stregoneria» come termini analitici che rimandavano a fenomeni considerati essenzialmente simili nelle più diverse culture, o comunque sufficientemente simili da giustificare l’applicazione all’Inghilterra del XVI e XVII secolo di schemi interpretativi mutuati dalla letteratura antropologica. Questo era, a parere della Geertz, un uso del tutto scorretto del lavoro di EvansPritchard: i termini inglesi witchcraft e magic erano stati adottati da quest’ultimo «in mancanza di traduzioni migliori per quelle che egli dimostra essere idee intraducibili; è il carattere sistematico del pensiero zande che lo rende intraducibile, ed è questo aspetto della presentazione di EvansPritchard che Thomas ignora»78. Suggerendo che le pratiche e le credenze «magiche» degli Azande e delle popolazioni inglesi dell’età elisabettiana sono comprensibili solo «nel quadro di una visione storicamente particolare della natura della realtà, un’immagine culturalmente unica del modo in cui l’universo 23 funziona»79, l’antropologa americana forzava lievemente le posizioni di Evans-Pricthard verso quelle che un paio d’anni prima il marito – Clifford Geertz – aveva difeso nei saggi riuniti in The Interpretation of Cultures. Ma solo lievemente, e non illegittimamente: la cosiddetta «antropologia semantica», una delle correnti antropologiche più vivaci dei primi anni settanta, e con più di un punto in comune con l’antropologia interpretativa geertziana, aveva la propria roccaforte proprio a Oxford tra gli allievi di Evans-Pritchard80. Non è purtroppo possibile esaminare più da vicino i molti importanti problemi affrontati con perspicacia da Hildred Geertz nella sua discussione del libro di Thomas, né considerare le valide argomentazioni portate da quest’ultimo a difesa del suo lavoro. Non si può tuttavia fare a meno di notare come Thomas, che solo una dozzina di anni prima aveva sostenuto che la storia doveva farsi antropologia, apparisse ora preoccupato dalle tendenze relativistiche della nuova antropologia che si stava profilando all’orizzonte. Non negava che l’antropologo avesse il diritto e forse il dovere di sospettare di ogni terminologia inadatta alla comparazione interculturale. Era tuttavia portato a concludere che «la prospettiva più ampia dell’antropologo odierno … distingue inevitabilmente i suoi metodi da quelli dello storico»81. Sembrava il presagio di un nuovo distacco tra antropologia e storia, di una rapida dissoluzione di quell’antropologia storica che era appena venuta formandosi. Contro le aspettative di Thomas, l’antropologia geertziana ha invece goduto, in quest’ultimo quarto di secolo, di una straordinaria popolarità tra gli storici e rappresenta oggi un punto d’incontro quasi ovvio tra le due discipline. Ma non l’unico, come si vedrà nel prossimo capitolo, e certo non uno dei meno discussi. Note 1 Evans-Pritchard, Anthropology and History cit., p. 59. Thomas, History and Anthropology cit., p. 8. 3 K. Thomas, The Relevance of Social Anthropology to the Historical Study of English Witchcraft, in Witchcraft Confessions and Accusations, a c. di M. Douglas, cit., p. 47 [trad. it. cit., p. 83]. 4 C. Ginzburg, L’inquisitore come antropologo, in Studi in onore di Armando Saitta, a c. di R. Pozzi e A. Prosperi, Giardini, Pisa 1989, pp. 24-5. 5 Ivi, p. 25. 6 Questo episodio è narrato da Pitt-Rivers nella prefazione alla seconda edizione del suo classico volume The People of the Sierra, The University of Chicago Press, Chicago-London 19712, pp. xixii. 7 Witchcraft, Oracles and Magic cit., p. 4 [trad. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Franco Angeli, Milano 1976, p. 35]. 8 E. E. Evans-Pritchard, The Intellectualist (English) Interpretation of Magic, in «Bulletin of the Faculty of Arts, University of Egypt», 1 (1933), pp. 282-311, e Lévy-Bruhl’s Theory of Primitive Mentality, in «Bulletin of the Faculty of Arts, University of Egypt», 2 (1934), pp. 1-36. Questi due saggi costituiscono ora, con alcune modifiche, rispettivamente il secondo e il quarto capitolo di E. E. Evans-Pritchard, Theories of Primitive Religion, Oxford University Press, Oxford 1965. 9 Frazer, The Golden Bough cit., p. 13 [trad. it. cit., p. 23]. 2 24 10 Bloch, Les Rois thaumaturges cit., p. 421; vedi sopra p. 00. Il saggio Magic, Science and Religion apparve originariamente nel 1925 nel volume collettivo Science, Religion and Reality, a c. di J. A. Needham; fu ripubblicato nel 1948 in una raccolta di saggi scelti di Malinowski curata da R. Redfield: Magic, Science and Religion and Other Essays, The Free Press, Glencoe (Ill.) 1948. La citazione è tratta dall’edizione italiana, Magia, scienza e religione, Newton Compton, Roma 1976, p. 37. 12 Cfr. Evans-Pritchard, Theories of Primitive Religion cit., p. 87 [trad. it. Teorie sulla religione primitiva, Sansoni, Firenze 1971, p. 155]. 13 Ivi, p. 81 [trad. it. p. 147]. 14 Ivi, pp. 81-2 [trad. it. p. 148]. 15 Ivi, p. 81 [trad. it. p. 147]. 16 M. Polanyi, Personal Knowledge, The University of Chicago Press, Chicago 1958, pp. 286-94. 17 Il riferimento è ovviamente a Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions cit. 18 C. Pignato, Arie di famiglia, analogie, modelli: prospettive teoriche e strategie cognitive nella scienza e nell’antropologia, Circolo Semiologico Triestino, Trieste 1996, p. 25. 19 Si vedano P. Feyerabend, Against Method, New Left Books, London-New York 1975, p. 298 e passim, e da ultimo G. Lolli, Beffe, scienziati e stregoni. La scienza oltre realismo e relativismo, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 153-9, che giudica peraltro pericolosa e non del tutto legittima l’analogia. 20 Si veda in particolare M. Hunter Wilson, Witch-Beliefs and Social Structure, in «American Journal of Sociology», LVI (1951), pp. 307-13. 21 Uno studio esemplare rimane quello di V. W. Turner, Schism and Continuity in an African Society, Manchester University Press, Manchester 1957. 22 M. Douglas, Introduction: Thirty Years after «Witchcraft. Oracles and Magic», in Witchcraft Confessions and Accusations, a c. di M. Douglas, cit., p. xiv [trad. it. cit., p. 4 (lievemente modificata)]. 23 J. Michelet, La Sorcière, Dentu, Paris 1862. 24 Su queste vicissitudini informa il catalogo Michelet. Sa vie, son oeuvre (1798-1874), Archives de France, Hotel de Rohan 1961, p. 143. Una versione integrale apparve nel 1863 a Bruxelles presso l’editore Lacroix, ed è su questa seconda edizione che è stata condotta la traduzione italiana dell’opera di Michelet (La strega, Einaudi, Torino 1971). 25 In una lettera del 2 dicembre 1862 Hugo esprimeva a Michelet la propria ammirazione per La Sorcière scrivendo: «Ce que j’en aime c’est tout, c’est le style vivant qui souffre avec le martyr; c’est cette pensée qui est comme une dilatation de l’âme dans l’infini». Questo passo è riportato in Michelet. Sa vie, son oeuvre cit., p. 143. 26 R. Barthes, La Sorcière, saggio introduttivo a Michelet, La strega cit., p. ix. 27 Cfr. Burguière, L’anthropologie historique cit., pp. 140-1. 28 Sulle origini e sugli sviluppi della ricerca storica sulla stregoneria, soprattutto in ambito tedesco, informano concisamente W. Monter, The Historiography of European Witchcraft: Progress and Prospects, in «Journal of Interdisciplinary History», II (1972), p. 435-51, e più recentemente W. Behringer, Witchcraft Studies in Austria, Germany and Switzerland, in Witchcraft in Early Modern Europe, a c. di J. Barry, M. Hester e G. Roberts, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 64-73. 29 Monter, The Historiography of European Witchcraft cit., p. 436. 30 Vedi sopra pp. 00-0. 31 Murray, The Witch-Cult cit., p. 9. 32 Ivi, pp. 10-11. 33 Ivi, pp. 9-10. 34 Ivi, p. 16. 35 Si veda in particolare la recensione di G. L. Burr in «American Historical Review», XXVII (1922), pp. 780-3. 11 25 36 C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 1989, p. xxii. Murray, The God of the Witches cit. Sull’insuccesso di questo libro si veda Murray, My First Hundred Years cit., pp. 104-5. 38 L. Febvre, Sorcellerie, sottise ou révolution mentale?, in «Annales E. S. C.», III (1948), p. 12. 39 Ivi, p. 14. 40 Febvre, Le problème de l’incroyance cit. 41 Febvre, Sorcellerie cit., p. 14. 42 R. Mandrou, Magistrats et sorciers en France au XVIe siècle. Une analyse de psychologie historique, Plon, Paris 1968; H. R. Trevor-Roper, The European Witch-Craze of the Sixteenth and Seventeenth Centuries, in Trevor-Roper, Religion, Reformation and Social Change, Macmillan, London 1967, pp. 90-192. 43 Ginzburg, Storia notturna cit., p. xv. 44 H. Trevor-Roper, What is Historical Knowledge for Us Today?, in The Historian between the Ethnologist and the Futurologist, a c. di J. Dumoulin e D. Moisi, Mouton, Paris-The Hague 1973, p. 184. Che lo storico non debba cedere a improduttive curiosità su «tribù barbare in pittoreschi ma irrilevanti angoli del globo» era già stato sostenuto da Trevor-Roper alcuni anni prima nel suo The Rise of Christian Europe, Harcourt, Brace and World, New York 1965, p. 9. 45 Trevor-Roper, The European Witch-Craze cit., p. 177. 46 A. D. J. Macfarlane, Witchcraft Prosecutions in Essex, 1560-1680: A Sociological Analysis, D. Phil. thesis, University of Oxford 1967. Preceduta da una prefazione di Evans-Pritchard, questa tesi fu pubblicata tre anni più tardi con il titolo Witchcraft in Tudor and Stuart England. A Regional and Comparative Study, Routledge and Kegan Paul, London 1970. 47 Macfarlane, Witchcraft in Tudor and Stuart England cit., p. 9. 48 Witchcraft in Tudor and Stuart Essex, in Witchcraft Confessions and Accusations, a c. di M. Douglas, cit. 49 The Relevance of Social Anthropology cit. 50 K. Thomas, Religion and the Decline of Magic. Studies in Popular Beliefs in Sixteenth and Seventeenth-Century England, Weindenfeld and Nicolson, London 1971. E’ interessante notare che questo libro si sarebbe inizialmente dovuto intitolare Primitive Beliefs in Pre-Industrial England. 51 Cfr. J. Barry, Introduction: Keith Thomas and the Problem of Witchcraft, in Witchcraft in Early Modern Europe, a c. di J. Barry, M. Hester e G. Roberts, cit., pp. 8-9. 52 Cfr. Macfarlane, Witchcraft in Tudor and Stuart England cit., pp. 254-309. 53 Ginzburg, L’inquisitore come antropologo cit., p. 28. 54 Ivi, pp. 28-9. 55 Ivi, p. 24. 56 J. Caro Baroja, Vidas mágicas e Inquisición, vol. I, Taurus, Madrid 1967, p. 39. 57 E. E. Evans-Pritchard, Preface, in Macfarlane, Witchcraft in Tudor and Stuart England cit., p. xv. 58 C. Ginzburg, Stregoneria e pietà popolare. Note a proposito di un processo modenese del 1519, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Lettere, storia e filosofia, serie II, XXX (1961), pp. 269-87, ora in Ginzburg, Miti, emblemi, spie, Einaudi, Torino 1986. 59 E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948. 60 Cfr. C. Ginzburg, Prefazione a Miti, emblemi, spie cit., p. x. 61 Ginzburg, I benandanti cit., pp. 8-9. 62 Ivi, p. xiii. 63 Ivi, pp. 37-40.. 64 Ivi, p. 40. 65 Cfr. Ginzburg, Prefazione cit., p. xi. 66 Ginzburg, I benandanti cit., p. xv. 67 Cfr. Ginzburg, Prefazione cit., p. xi. 68 Cfr. Ginzburg, Storia notturna cit., pp. xxi-xxiv. 69 Ivi, p. xxii. 37 26 70 71 Gorer, Society as Viewed by the Anthropologist cit., p. 28. Cfr. H. Hodgkin, Historians and Witches, in «History Workshop Journal», XLV (1998), pp. 271- 2. Sull’uso di tecniche statistico-quantitative nello studio storico della stregoneria informa G. F. Jensen, Time and Social History. Prblems of Atemporality in Historical Analyses with Illustrations from Research on Early Modern Witch Hunts, in «Historical Methods», XXX (1997), pp. 46-57. 73 E. Le Roy Ladurie, Montaillou, village occitan de 1294 à 1324, Gallimard, Paris 1975. Il libro fu prontamente tradotto in italiano con il titolo Storia di un paese: Montaillou, Rizzoli, Milano 1977. 74 R. Rosaldo, From the Door of His Tent: The Fieldworker and the Inquisitor, in Writing Culture, a c. di J. Clifford e G. E. Marcus, cit., p. 79 [trad. it. cit., p. 113]. 75 Ginzburg, L’inquisitore come antropologo cit., p. 29. 76 Ibid. 77 Questa posizione è sostenuta con fermezza nella prefazione a Il formaggio e i vermi cit., pp. xvxvi, da cui è tratta quest’ultima citazione. Si veda anche C. Ginzburg, Il giudice e lo storico, Einaudi, Torino 1991, pp. 13-14. 78 H. Geertz, An Anthropology of Religion and Magic, I, in «Journal of Interdisciplinary History», VI (1975), p. 84. 79 Ivi, p. 83. 80 Cfr. E. Ardener, The New Anthropology and Its Critics, in «Man» (n. s.), VI (1971), pp. 449-67. 81 K. Thomas, An Anthropology of Religion and Magic, II, in «Journal of Interdisciplinary History», VI (1975), p. 94. 72 27