Visita domiciliare e responsabilità del medico di continuità assistenziale Era il 1978 quando, attraverso l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), si ponevano le basi che sostengono l'attuale sistema della continuità assistenziale. L'art. 48 della Legge n. 833/1978, intitolato al personale a rapporto convenzionale, demandando al meccanismo delle convenzioni triennali conformi agli accordi collettivi di categoria tracciava il principio della continuazione dell'assistenza sanitaria di base. Nel 1981 in ogni regione veniva istituito un servizio di Guardia Medica urgente notturna e festiva. Da allora, il profilo operativo, attraverso il confronto con i rappresentati di categoria e l'evoluzione del SSN, ha subito talune rimodulazioni collegate anche alla successiva attivazione sul territorio nazionale del servizio dell'Emergenza Sanitaria Territoriale. Attualmente, i compiti del medico convenzionato per la continuità assistenziale sono delineati dall'art. 67 dell'Accordo Collettivo Nazionale (ACN) per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale del 23.03.2005 integrato e modificato dall'ACN del 29.07.2009. Il medico convenzionato per la tipologia di cui discutiamo assicura le prestazioni sanitarie non differibili ai cittadini residenti nell'ambito territoriale afferente alla sede di servizio; in relazione al quadro clinico prospettato dall'utente o dalla centrale operativa, il sanitario effettua tutti gli interventi ritenuti appropriati, riconosciuti tali sulla base di apposite linee guida nazionali o regionali; ove ne ravvisi la necessità, deve direttamente allertare il servizio di urgenza ed emergenza territoriale per l'intervento del caso. In questa triplice accezione, ripresa direttamente dalle disposizioni contrattuali, affonda le radici il tema della violazione della legge penale relativamente alla fattispecie del rifiuto di atti d'ufficio di cui all'art. 328 del Codice Penale. Nel corso degli anni non è stato infrequente imbattersi in vicende giudiziarie che hanno avuto quale protagonista il medico della continuità assistenziale il quale, nell'espletamento del turno di servizio, richiesto presso il domicilio del paziente rifiutava l'intervento, adducendo a giustificazione del comportamento, in buona sostanza, l'adesione alle regole operative predisposte in sede di contrattazione collettiva idonee ad autorizzare una valutazione discrezionale in ordine alle azioni da compiere in concreto a seguito della chiamata. La norma penale stabilisce che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio il quale indebitamente rifiuti un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica, di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Ben si comprende pertanto quale valore assumano le disposizioni contrattuali al fine di stabilire quando il rifiuto possa qualificarsi indebito e rilevante per la configurazione dell'illecito penale, essendoci uno spazio di discrezionalità riservato all'operatore. L'indebito rifiuto viene a misurarsi, quindi, attraverso il ricorso a norme extrapenali inerenti ai compiti istituzionali. Nella valutazione comparativa della statuizioni contrattuali che hanno cristallizzato i compiti del medico e si sono succedute nel tempo, appare ancor meglio focalizzata la preventiva attività valutativa del professionista. Nel DPR 270/2000 si affermava che il medico è tenuto a effettuare gli interventi, domiciliari o territoriali, richiesti dall'utente o dalla centrale operativa; questa formulazione non è stata conservata del tutto nei successivi sviluppi, dove si è precisato che il sanitario effettua tutti gli interventi ritenuti appropriati, riconosciuti tali sulla base di apposite linee guida nazionali o regionali. Gli ultimi assestamenti, come è intuibile, aprono percorsi ulteriori variamente connessi anche ai temi dell'appropriatezza e delle linee guida; ma qui valga sottolineare come sia stato tenuto fermo l'obbligo contrattuale di registrazione dell'ora dell'intervento ovvero della motivazione del mancato intervento, inducendo a ritenere scontato che l'intervento a domicilio non segue automaticamente la chiamata. La giurisprudenza più recente, dovendo concludere sulla configurabilità o meno dell'indebito rifiuto di intervenire al domicilio del paziente, ragionando sulla scorta delle previsioni meno ampie della precedente definizione contrattuale [DPR n. 270/2000, N.d.R.], per essere il fatto intervenuto quando erano vigenti quelle disposizioni, ha dovuto affermare come vada riconosciuto al medico di guardia il compito di valutare la necessità della visita richiestagli, con apprezzamento tecnico della sintomatologia riferitagli. Tale valutazione deve però essere eseguita con particolare prudenza, in considerazione del fatto che il contratto prevede come condotta "normale" l'effettuazione degli interventi. Spetta al giudice sindacare, invece, se una valutazione tecnica vi sia effettivamente stata e se, quando ciò sia avvenuto, la decisione di procedere o meno alla visita ovvero all'allertamento del servizio di urgenza ed emergenza territoriale sia stata coerente con l'esito della valutazione. Potendo il giudice sindacare, sulla base degli elementi acquisiti, l'esercizio della scelta discrezionale e se essa sia fondata su valutazioni effettive o solo apparenti, allora è chiaro che i termini del problema restano aperti, come accade in tutti quei casi in cui entrano in campo opzioni che direttamente o indirettamente sono idonee a incidere su beni primari. La norma incriminatrice del rifiuto di atti d'ufficio è concepita come delitto di pericolo, nel senso di prescindere praticamente dalla causazione di un danno effettivo essendo ancorata all'astratta idoneità del rifiuto a produrre un danno o una lesione. L'urgenza dell'intervento in campo sanitario è da apprezzarsi con riferimento al pregiudizio anche potenziale e non necessariamente irreparabile che può comunque derivare dalla mancata o tardiva assistenza sollecitata e non prestata per effetto di scelte irragionevoli, con conseguente compressione o limitazione del diritto costituzionalmente presidiato. Avv. Ennio Grassini