verso un nuovo paradigma per le banche centrali agli inizi

ARTI GRAFICHE APOLLONIO
Università degli Studi
di Brescia
Dipartimento di
Economia Aziendale
Angelo MINAFRA
VERSO UN NUOVO PARADIGMA
PER LE BANCHE CENTRALI
AGLI INIZI DEL XXI SECOLO?
Paper numero 33
Università degli Studi di Brescia
Dipartimento di Economia Aziendale
Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia
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Luglio 2004
VERSO UN NUOVO PARADIGMA
PER LE BANCHE CENTRALI
AGLI INIZI DEL XXI SECOLO ?
di
Angelo MINAFRA
Indice
1. Introduzione ............................................................................................... 1
2. Caratteristiche della crisi in corso .............................................................. 2
3. Prime valutazioni ....................................................................................... 6
4. La saggezza “convenzionale” .................................................................... 8
5. Oltre la saggezza “convenzionale”........................................................... 11
6. Verso un nuovo paradigma ...................................................................... 12
7. Conclusioni .............................................................................................. 20
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
1. Introduzione
L’ultima crisi che ha colpito le nazioni occidentali, crisi ancora in corso
per quanto concerne l’area dell’Euro, non solo ha indotto un generalizzato
peggioramento delle condizioni degli operatori economici – dall’incremento
della disoccupazione al ridimensionamento della ricchezza finanziaria delle
famiglie al calo degli utili presenti ed attesi per molte imprese sino
all’aumento dei deficit di bilancio per i governi – ma ha rimesso in
discussione il paradigma standard delle banche centrali: la convinzione che
conseguire un ridotto livello di inflazione dei prezzi al consumo fosse
condizione sufficiente ad assicurare lo sviluppo dell’economia e una
generalizzata stabilità finanziaria.
Tale convinzione, che ha orientato le scelte delle banche centrali negli
ultimi dieci anni e ha costituito una risposta efficace in uno scenario
caratterizzato dal fallimento delle politiche keynesiane a causa
dell’esplosione simultanea di debito pubblico ed inflazione, è stata poi
smentita dalle crisi di Giappone (all’inizio degli anni ’90) e Stati Uniti (anni
2001-2002), ambedue caratterizzate dall’emergere di <bolle speculative>, il
cui successivo ridimensionamento ha provocato un duraturo rallentamento
dell’attività economica, pur in un contesto di ridotta inflazione. Anzi,
secondo alcuni commentatori proprio la contenuta inflazione ed il
conseguente minore livello dei saggi di interesse hanno privato le Banche
Centrali di una delle armi più potenti per combattere la recessione, con il
rischio di precipitare in una sorta di “trappola deflazionistica”, in cui l’attesa
di una ulteriore diminuzione dei prezzi induce i consumatori a rimandare i
propri acquisti, innescando un circolo vizioso per le economie delle imprese
e, più ampiamente, nazionali.
Da queste considerazioni è emerso in taluni il convincimento che le
banche centrali dovrebbero ampliare l’ambito del controllo sui prezzi, sino
ad includervi anche gli asset, intesi come attività sia reali sia finanziarie; in
altri che sia richiesto un atteggiamento proattivo nei confronti dell’emergere
di bolle speculative, innalzando prontamente i tassi di interesse per favorire
il loro ridimensionamento piuttosto che attendere passivamente che questo
si verifichi
Il presente paper desidera inserirsi all’interno di questo dibattito,
analizzando dapprima le caratteristiche della suddetta crisi, per procedere
poi all’identificazione di eventuali nuovi strumenti disponibili alle banche
centrali, e proporre infine alcune prime indicazioni sulle possibilità di
elaborare un nuovo paradigma.
1
Angelo Minafra
2. Caratteristiche della crisi in corso
L’analisi della crisi non può prescindere dalle caratteristiche
dell’espansione economica che l’ha preceduta, sinteticamente illustrate con
riferimento ai seguenti oggetti di indagine:
a) tassi di crescita del prodotto interno lordo;
b) andamento degli investimenti delle imprese e dei consumi delle
famiglie;
c) tasso di inflazione;
d) saggi di interesse;
e) credito concesso a imprese e famiglie;
f) performance del mercato borsistico.
I dati riportati nel seguito si riferiscono agli USA, nazione in cui i
fenomeni oggetto di indagine hanno trovato la manifestazione
maggiormente significativa, e d'altra parte attuale economia-guida del
sistema economico mondiale.
Il carattere distintivo della trascorsa espansione economica è
rappresentato dalla sua durata e intensità: circa nove anni, in cinque dei
quali la crescita del Prodotto Interno Lordo statunitense è stata superiore al
4%, che ne fanno la ripresa più sostenuta mai verificatasi, seconda solo a
quella degli anni ’20 (cfr. Grafico 1).
Grafico 1 - Andamento del PIL negli USA
5
tassi % di incremento
4
3
2
1
0
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
-1
Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale
2
2001
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
Tale crescita è stata indotta da un ciclo di investimenti da parte delle
imprese di straordinaria intensità, riconducibile ad una serie di innovazioni
nel campo dell’information technology ed all’esplosione – poi
ridimensionata – di Internet e della net economy. Anche le famiglie hanno
fatto la loro parte, con il merito supplementare di perseverare nei loro
comportamenti ottimistici anche nella successiva fase di rallentamento (cfr.
Grafico 2).
Grafico 2 - Consumi ed investimenti negli USA
Consumi delle famiglie
Investimenti privati fissi lordi
Tassi % di incremento
15
10
5
0
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
-5
-10
Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale
Grafico 3 - Inflazione e costo del denaro in USA
Prezzi al consumo
Tasso di sconto
tassi % di incremento
7
6
5
4
3
2
1
0
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale
3
2001
Angelo Minafra
La ripresa dunque, pur così robusta e prolungata, si è verificata in un
contesto di inflazione contenuta, che ha raggiunto un valore massimo del
3,4% nel 2000 (cfr. Grafico 3).
Anche il sistema bancario ha assecondato l’espansione economica,
mettendo a disposizione di imprese e famiglie a tassi di interesse contenuti
un ingente flusso di finanziamenti, evidenziato dalla crescita del rapporto tra
finanziamenti a soggetti privati e prodotto nazionale lordo (cfr. Grafico 4).
Grafico 4 - Andamento dei crediti ai soggetti privati in
USA
Crediti Privati/Prodotto Nazionale Lordo
1,4
rapporto
1,35
1,3
1,25
1,2
1,15
1,1
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
Fonte: Bank for International Settlement, Annual Reports
La sostenuta ripresa dell’economia statunitense ha peraltro indotto un
deficit delle partite correnti, che in qualunque paese diverso dagli Usa
avrebbe innescato una ingente crisi finanziaria e la conseguente svalutazione
della moneta, e che è stato invece in questo caso finanziato da copiosi flussi
di investimenti stranieri, attratti dalle performance e dalla fiducia
nell’economia statunitense (cfr. Grafico 5).
Il combinato effetto di alta crescita dell’economia, credito abbondante,
saggi contenuti ed elevati investimenti stranieri verso l’area del dollaro ha
sospinto le quotazioni del mercato borsistico, che ha raggiunto un
price/earnings superiore a 40 nel marzo del 2000 per le 500 maggiori
imprese di Standard & Poors (cfr. Grafico 6).
4
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
Grafico 5 - Bilancia dei pagamenti degli USA
Miliardi di dollari
Saldo delle Partite Correnti
600
500
400
300
200
100
0
-100
-200
-300
-400
-500
1991
1992
1993
1994
1995
1996
Saldo Finanziario
1997
1998
1999
2000
2001
Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale
Grafico 6 - Andamento della Borsa USA
Indice Dow Jones Industrial
14000
12000
10000
8000
6000
4000
2000
0
1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002
Fonte: Dow Jones
La lunga durata della crescita economica aveva addirittura indotto alcuni
economisti a decretare la morte del ciclo economico, riconducibile ai
continui incrementi di produttività indotti dalla diffusione dell’information
technology, che tuttavia non provocavano come nei periodi precedenti un
incremento dei salari e quindi dell’inflazione, grazie all’effetto calmierante
5
Angelo Minafra
della globalizzazione ed alla politica prudente di controllo dei tassi della
Federal Reserve. Ma nel corso del 2001 l’inevitabile rallentamento,
aggravato – e non indotto - da alcuni scandali finanziari (in primis Enron e
Worldcom) e dagli eventi dell’11 settembre, interrompeva anche questa sia
pur prolungata fase di espansione dell’economia.
Tale crisi si caratterizza per durata estesa e virulenza limitata.
Per quanto concerne la durata, per le nazioni dell'area dell'Euro si è
ormai entrati nel terzo anno, continuando a procrastinare l’inizio della
ripresa, oggi collocata nel corso del 2004. In compenso, l’intensità della
suddetta crisi sembra alquanto contenuta rispetto alle precedenti: il prodotto
interno lordo degli Usa è aumentato del 2,4 % nel 2002 ed il tasso di
disoccupazione è rimasto sotto il 6%, in prevalenza grazie alla tenuta dei
consumi, sostenuti da un boom del mercato immobiliare, che ha compensato
gli effetti di impoverimento del calo della Borsa, e consentito inoltre il
rifinanziamento dei mutui già erogati. Si tratta di risultati conseguiti grazie
alla fortissima riduzione del costo del denaro operata dalla FED e
all’incremento della spesa pubblica federale, il quale ha prodotto un deficit
di circa 300 miliardi di dollari nel 2002 a fronte di un avanzo di analoghe
proporzioni nel 2001.
3. Prime valutazioni
La crisi è stata dunque indotta da un eccesso di investimenti ed è
avvenuta in un contesto di scarsa inflazione dei prezzi al consumo. Ma che
dire delle modalità con cui è stata gestita ?
E’ emerso infatti un dibattito1 tra chi ha sostenuto le scelte di Greenspan
e chi le ha ritenute sostanzialmente inadeguate. I primi sottolineano la
prontezza di reazione delle scelte di politica monetaria della FED, che ha
dapprima assecondato la lunga ripresa economica tenendo sotto controllo la
dinamica dei prezzi e cercato di moderarne gli eccessi senza interventi
bruschi, che ne avrebbero inevitabilmente compromesso la durata, e poi, di
fronte all’inevitabile rallentamento, non ha esitato a ridurre i tassi in pochi
mesi al contrario di quanto ha fatto la Banca Centrale Europea. La relativa
mitezza della crisi sarebbe quindi in gran parte merito di queste scelte
oculate e tempestive.
In quanto alle condizioni di squilibrio che si andavano consolidando
(sulle quali ci si soffermerà più ampiamente nel seguito), si afferma che
l’incremento del valore di un asset non implica necessariamente la
creazione di una bolla speculativa, valutabile solo a posteriori. Eventuali
1
THE ECONOMIST, The unfinished recession. A survey of the world economy,
September 28th 2002.
6
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
manovre sui tassi di interesse per contrastare tali bolle sarebbero d’altronde
inefficaci (in caso di aumenti di modesta entità) o eccessivamente dannose
(se troppo forti), inducendo una crisi economica2. Appare quindi preferibile
rendere il meno doloroso possibile il successivo ridimensionamento degli
squilibri inevitabilmente creatisi.
I critici di Greenspan preferiscono invece soffermarsi sulla durata della
crisi, che imputano sostanzialmente alla formazione di una serie di posizioni
di squilibrio – imbalances - riguardanti gli ambiti seguenti:
•
•
•
•
•
le quotazioni del mercato borsistico;
le quotazioni del mercato immobiliare;
gli eccessivi investimenti delle imprese;
l’insostenibile propensione al consumo delle famiglie;
il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.
Si tratta di posizioni di largo squilibrio, le quali devono necessariamente
ridimensionarsi per consentire una ripresa non effimera; l’entità del
riaggiustamento richiesto induce un atteggiamento pessimista sulla durata
residua della crisi.
I prezzi delle azioni, espressi dal rapporto price/earnings, sono ancora
ritenuti elevati, collocandosi attorno a un valore pari a 20 a fronte di un
valore medio di 15 negli ultimi anni, che scende a 10 nei periodi di
recessione. La recente ripresa delle quotazioni, riscontrata dall'inizio del
2003, potrebbe non essere del tutto consolidata.
Le quotazioni sul mercato immobiliare hanno pure raggiunto valori
insostenibili e tenderanno inevitabilmente a ridimensionarsi, con un effetto
negativo sulla propensione al consumo delle famiglie, sulla rischiosità delle
banche che erogano prestiti garantiti da immobili, e specialmente sul conto
economico dei soggetti che erogano mutui ipotecari.
L’eccesso di investimenti compromette le prospettive di tutti quei
comparti dell’economia che vendono beni strumentali e servizi di
investimento, e induce le aziende a focalizzarsi sulla riduzione dei costi.
Anche le famiglie, che hanno sinora sostenuto la domanda complessiva
dell’economia, sono destinate ad aumentare la loro propensione al
risparmio, non potendo continuare a indebitarsi all’infinito e soprattutto
tenendo conto delle sfavorevoli dinamiche futuribili sia sul versante del
2
A. GREENSPAN in “Economic volatility”, Remarks at a symposium sponsored by the
Fed of Kansas City, Jackson Hole, 2002, sostiene che “nothing short of a sharp increase in
short-term rates that engenders a significant economic retrenchment is sufficient to check a
nascent bubble. The notion that a well-timed incremental tightening could have been
calibrated to prevent the late 1990s bubble is almost an illusion”.
7
Angelo Minafra
patrimonio (prezzi calanti di attività reali e finanziarie) sia sul versante del
reddito (andamento riflessivo del mercato del lavoro).
Infine, l’enorme deficit delle partite correnti è già in via di
ridimensionamento attraverso il deprezzamento del dollaro, che di fatto
trasla gli effetti delle proprie difficoltà nel resto del mondo.
In tale visione si è evidentemente propensi al pessimismo sulla
robustezza dell'attuale ripresa dell’economia statunitense, e ci si chiede se la
FED non avrebbe dovuto impedire l’espandersi degli squilibri appena
analizzati attraverso una manovra di politica monetaria – rialzo del costo del
denaro – che avrebbe probabilmente colpito la ripresa economica nel 2000,
accorciandone forse la durata di un anno, ma ridotto considerevolmente il
successivo rallentamento. Si è invece preferito intervenire solo per curare i
sintomi della malattia con la riduzione dei tassi e le ripetute immissioni di
liquidità ed alleviare la crisi ormai non più procrastinabile, con il duplice
effetto di rallentare lo sgonfiamento della <bolla> esistente sul mercato
borsistico e di provocare addirittura l’emergere di una nuova <bolla> sul
mercato immobiliare.
4. La saggezza “convenzionale”
Al di là di qualche polemica emersa sul presunto atteggiamento politico
delle banche centrali, alquanto restie a intervenire a priori con misure
recessive ma inevitabilmente discutibili (si pensi all’impatto di tali misure in
prossimità dello svolgimento di elezioni politiche), e più propense ad
alleviare a posteriori gli effetti delle crisi, il punto cruciale della discussione
prima analizzata riguarda l’importanza della politica monetaria di controllo
dei prezzi al consumo come strumento essenziale di regolazione
dell’economia.
Si tratta di un principio universalmente accettato, se si pensa che la
stabilità dei prezzi costituisce il principale obiettivo di tutte le banche
centrali, sia pure con intensità diverse (ad esempio, la Banca Centrale
Europea deve assicurare un tasso di inflazione inferiore al 2%3, mentre la
Banca d’Inghilterra ha fissato un target lievemente più elevato, al 2,5%).
Il principio sottostante afferma che la stabilità dei prezzi (al consumo)
promuove la stabilità dei mercati (inclusi i mercati finanziari). Si esamini
ora più approfonditamente questo assioma.
3
ISSING O., The Euro after four years: is there a risk of deflation ?, in 16th European
Finance Convention, 2 December 2002, London, ricorda che la Banca Centrale Europea
considera la stabilità dei prezzi in modo simmetrico, per cui l’obiettivo di variazione dei
prezzi al consumo è stato determinato come inferiore al 2% ma superiore all’1% per evitare
rischi di deflazione, che peraltro Issing non riscontra nella situazione attuale.
8
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
Per stabilità dei prezzi si intende un livello di inflazione contenuto,
costante nel tempo4. Ciò richiede peraltro due precisazioni: a) gli oggetti di
cui si tratta sono rappresentati da beni e servizi di consumo, con esclusione
quindi delle attività, b) la stabilità è riferita alla media e non a singoli prezzi
(in caso contrario verrebbe meno uno dei principali vantaggi di
un’economia di mercato, che proprio attraverso le variazioni di prezzo
comunica agli operatori dove riorientare la produzione e garantisce pertanto
l’efficace allocazione delle risorse).
La stabilità dei prezzi è considerata positivamente, poiché permette di
evitare i costi dell’inflazione, sia prevedibile sia non prevista.
Tra i primi si annoverano i costi correlati alla ricerca continua di
impiego redditizio delle eccedenze di cassa, alla necessità di aggiornare
frequentemente i listini, alle distorsioni indotte su consumi ed investimenti
da un sistema fiscale non indicizzato5 e da eventuali rigidità di
aggiustamento dei prezzi6.
Appare certamente maggiore l’impatto della seconda tipologia di costi.
In primo luogo diviene più difficile per gli operatori economici interpretare
le variazioni nei prezzi, dovendo distinguere tra l’incremento di prezzo
imputabile all’aumento generalizzato dell’inflazione e quello riconducibile
al diverso prezzo relativo del bene, con il rischio per un’impresa di
aumentare la produzione di un bene meno richiesto sul mercato. Ancora più
rilevante la redistribuzione del benessere tra operatori che possono
indicizzare il prezzo dei beni/servizi offerti ed operatori con retribuzioni
fisse e la conseguente distruzione dell’armonia e del consenso sociale7.
Infine, il timore dell’inflazione spinge ad evitare impegni contrattuali di
lunga durata e ad impegnare risorse forse eccessive in operazioni di
copertura.
Passando ad esaminare la seconda componente dell'assioma sopra citato,
un mercato è definito “stabile” quando si riscontrano le seguenti
condizioni8:
4
Esistono diverse possibili definizioni per la stabilità dei prezzi: ad esempio, Alan
Greenspan ne rileva la presenza quando le variazioni attese dell’indice dei prezzi non
influenzano le decisioni di famiglie ed imprese, mentre Alan Binder, che è stato vice dello
stesso Greenspan, più semplicemente la correla al fatto che la gente comune non parla e
non si preoccupa più dell’inflazione.
5
FELDSTEIN M., The costs and benefits of price stability, University of Chicago
Press, 1999.
6
ISSING O., Why stable prices and stable markets are important and how they fit
together, First Conference of the Monetary Stability Foundation, European Central Bank,
Frankfurt/Main, 2002.
7
KEYNES J.M., A tract on monetary reform, MacMillan, London, 1923.
8
ISSING O., opera citata in Nota 7.
9
Angelo Minafra
•
•
•
i fattori sono utilizzati nei modi più redditizi;
l’offerta si adegua prontamente a cambiamenti nella tecnologia
di produzione e nel comportamento della domanda;
gli incentivi per gli operatori di mercato sono distribuiti in modo
tale da promuovere gli incrementi di produttività e quindi il
progresso tecnologico.
Nella fattispecie dei mercati finanziari la stabilità si riferisce
all’efficiente allocazione dei risparmi verso le opportunità di investimento,
al soddisfacimento senza squilibri dei bisogni finanziari, infine all’offerta di
opportunità di trasferimento dei rischi anche a fronte di cambiamenti
significativi nella tecnologia e nella domanda, così incentivando
l’assunzione prudente di rischi ed offrendo sempre migliori occasioni di
impiego dei fondi.
I prezzi nei mercati finanziari correlano il futuro al presente sulla base
delle preferenze temporali dei soggetti economici, ad esempio i prezzi delle
attività costituiscono il valore atteso dei flussi di reddito previsti ed
influenzano i livelli di spesa nell’immediato; quindi l’instabilità nei mercati
finanziari non ha effetto solo sugli operatori di questo comparto, ma induce
una serie di effetti a catena su altri comparti del sistema economico
(esternalità negative).
Quali sono allora i legami – se ne esistono – tra stabilità dei prezzi al
consumo e stabilità dei mercati finanziari ?
Ritornando alle caratteristiche di un mercato stabile e ai costi
dell’inflazione, esaminati in precedenza, si ritiene che l’aumento dei prezzi
possa compromettere lo svolgimento della funzione di <efficiente
allocazione delle risorse>, rendendo per gli operatori più difficile
l’interpretazione delle variazioni dei prezzi, distogliendo i loro sforzi
dall’investire in innovazione di prodotto e/o di processo per cercare di
proteggersi dall’inflazione o di avvantaggiarsi di essa, nonché aggravando il
problema delle asimmetrie informative tra creditori e debitori.
Sarebbe in ogni caso difficile individuare un economista che ponga in
dubbio l’ipotesi secondo cui un’elevata volatilità dei prezzi danneggia la
stabilità dei mercati finanziari9.
D’altronde, tutte le crisi economiche succedutesi dal secondo
dopoguerra in poi – ma con la significativa eccezione di quest’ultima e di
quella scoppiata in Giappone all’inizio degli anni ’90 – hanno avuto il
9
Come sintetizzato efficacemente in BORDO M., DUEKEN M., WHEELOCK D.,
Aggregate price shocks and financial instability: an historical analysis, NBER Working
Paper 7652, 2000, pag.27: “a monetary regime that produces aggregate price stability will,
as a by-product, tend to promote stability of the financial system”.
10
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
medesimo svolgimento. C’è sempre una fase di ripresa che ad un certo
punto porta ad un surriscaldamento dell’economia a seguito di un eccesso di
domanda da parte di famiglie ed imprese, con aumento dei prezzi al
consumo, eccesso di investimenti, boom del credito e formazione di bolle
speculative, sino al momento in cui la Banca Centrale è costretta a
intervenire con una stretta monetaria per riportare la situazione sotto
controllo; a quel punto la brusca diminuzione dell’inflazione e il rialzo dei
tassi di interesse reali colpiscono duramente gli operatori economici che si
erano fortemente indebitati sulla base di aspettative eccessivamente
ottimistiche.
In questo tipo di crisi, sostanzialmente indotta dall'eccesso di domanda,
il controllo dei prezzi al consumo rappresentava la ricetta ideale, sia per
evitare il surriscaldamento dell’economia nel culmine della ripresa
(volatilità in rialzo) sia per alleviare l’impatto della crisi nella fase recessiva
(volatilità in ribasso), e certamente si possono annoverare diverse
applicazioni di successo per questa scelta di politica monetaria10. In
prospettiva storica si può affermare che la stabilità dei prezzi al consumo e
la propensione per bilanci pubblici sostanzialmente in pareggio nel lungo
periodo si sono imposte come le misure più efficaci per salvaguardare lo
sviluppo economico nel nuovo scenario emerso con la fine del sistema di
cambi fissi di Bretton Woods e il fallimento delle politiche keynesiane,
fenomeni diffusamente riscontratisi già nel corso degli anni ’70.
5. Oltre la saggezza “convenzionale”
La convinzione che un tasso di inflazione dei prezzi al consumo
contenuto e stabile sia condizione sufficiente per assicurare la stabilità
finanziaria è stata clamorosamente smentito dall’ultima crisi, oggetto del
presente lavoro, in cui un incremento dei prezzi contenuto (quasi sempre al
di sotto del 3% negli USA) ha potuto coesistere dapprima con l'ascesa dei
valori delle azioni accompagnato da una rapida espansione del credito (vedi
infra, paragrafo 2), poi con la crescita sostenuta del prezzo degli immobili.
Per la verità, questo fenomeno era già stato riscontrato nel corso della storia
recente, basti pensare al Giappone negli anni ’80, alla crisi degli anni ’20
10
Come ricorda con malcelato orgoglio KING M., Vice Governatore della Banca
d’Inghilterra, in “The inflation targets ten years on”, Speech to the London School of
Economics, Novembre, 2002, la scelta presa nel 1992 all’indomani dell’uscita dal Sistema
Monetario Europeo di assumere l’obiettivo di un tasso di inflazione stabile attorno al 2,5%,
peraltro pienamente raggiunto sia per quanto riguarda il livello assoluto dei prezzi che la
sua volatilità, ha coinciso con un lungo periodo di espansione economica della Gran
Bretagna (quarantuno trimestri consecutivi di crescita ed il più basso tasso di
disoccupazione tra i paesi del G7).
11
Angelo Minafra
negli USA, ed ancor prima all’Australia verso la fine del diciannovesimo
secolo.
Vi sono alcuni fattori in grado di spiegare la coesistenza tra un tasso di
inflazione dei prezzi al consumo contenuto e stabile con un boom del credito
e delle quotazioni degli asset, sia reali sia finanziari.
Il primo riguarda lo sviluppo delle capacità di offerta che si riscontra in
caso di progresso tecnologico con il conseguente aumento della produttività
e in ipotesi di riforme del mercato del lavoro che ne rendano più flessibile
l’impiego; anche il fenomeno della globalizzazione rende l’offerta più
elastica, evitando che incrementi della domanda si traducano in aumenti dei
prezzi.
Il secondo concerne paradossalmente il successo della politica di
stabilizzazione monetaria, che può ancorare le aspettative di famiglie e
imprese a tassi di inflazione molto contenuti, confidando sulla credibilità
della Banca Centrale. Ciò impedisce ai prezzi di crescere pur in presenza di
una domanda sostenuta, e in caso di generale miglioramento e stabilità delle
condizioni dell’economia può indurre negli attori economici un
atteggiamento di grande sicurezza nei confronti del futuro, rendendoli più
propensi a finanziare con prestiti l’investimento e l’acquisto di attività reali
e finanziarie.
Il terzo fattore si riferisce alla possibilità che in uno scenario di ridotta
inflazione e saggi nominali di interesse calanti gli investitori sovrastimino
l’aumento degli utili delle aziende imputabile alla riduzione degli oneri sui
finanziamenti, e le famiglie accendano nuovi mutui ipotecari, entrambi
omettendo di valutare correttamente il livello dei saggi reali11.
6. Verso un nuovo paradigma
A fronte di una così evidente smentita del principio di correlazione
sempre riscontrata tra stabilità monetaria e stabilità finanziaria è emersa la
necessità di tenere maggiormente conto dell’andamento dei prezzi delle
attività sia reali sia finanziarie, le cui variazioni cicliche (definite con
espressione sintetica boom-and-bust) possono avere effetti tanto devastanti
sui sistemi economici.
Naturalmente, nell’ipotesi di un mercato dei capitali efficiente e privo di
distorsioni derivanti dalle diverse regolamentazioni, le variazioni nei prezzi
degli asset rifletterebbero esclusivamente cambiamenti nei fondamentali
dell’economia, ma purtroppo nei mercati altamente imperfetti in cui si opera
i fattori non-fondamentali assumono un’importanza decisiva. Si pensi agli
11
MODIGLIANI F., COHN R.A., “Inflation, rational valuation and the market”, in
Financial Analyst Journal, n.35, 1979.
12
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
effetti di una regolamentazione non ottimale e soprattutto al comportamento
irrazionale degli operatori economici (ad esempio, miopia, effetto
gregge12,…).
La volatilità dei prezzi degli asset, oltre ad essere indotta da nonfundamental factors, influenza largamente l’andamento dell’economia reale
attraverso il meccanismo del financial accelerator13.
Premettendo che le variazioni nei prezzi delle attività influiscono non
tanto sui comportamenti di spesa delle famiglie rendendole
momentaneamente più o meno ricche, ma sullo stato patrimoniale di privati
e imprese (dunque sulla loro capacità di prendere a prestito fondi offrendo
in garanzia i loro asset), e che il mercato del credito è caratterizzato da
frizioni (per cui le banche tendono a finanziare soggetti economici che
abbiano eccedenza di fondi14 richiedendo loro ridotti saggi di interesse) il
financial accelerator agisce in duplice senso:
a) in caso di shock positivo (ad esempio, un ciclo di innovazioni che
induca larghi aumenti di produttività) l’incremento iniziale del reddito e
dell’occupazione, e successivamente del valore degli asset, rafforza il
bilancio di famiglie e imprese, riduce il differenziale di interesse da
corrispondere alle banche rispetto ai finanziamenti da mezzi propri, e
quindi attiva un ciclo di investimenti aggiuntivo che provoca l'ulteriore
crescita del reddito e delle quotazioni delle attività;
b) in condizioni opposte (ad esempio, il calo delle quotazioni del
mercato immobiliare), il deterioramento dello stato patrimoniale di
famiglie e imprese impedisce a molti di questi soggetti l’accesso al
credito, e può indurre alcune banche a richiedere saggi di interesse più
elevati a fronte di garanzie ridotte; ciò provoca la riduzione degli
investimenti, con impatto negativo sui flussi di cassa degli operatori
economici, e l'ulteriore declino dei prezzi degli asset sia per la più
debole domanda dell’economia sia per la liquidazione di alcune attività
12
Un comportamento “miope” consiste ad esempio nell’ignorare la possibilità di eventi
con ridotta frequenza ma ad elevato impatto, mentre “l’effetto gregge” si verifica quando
un investitore fonda le sue scelte non sull’analisi delle alternative di impiego dei fondi
disponibili, bensì esclusivamente sul comportamento di altri operatori, ipotizzando che
questi ultimi abbiano effettuato analisi corrette.
13
BERNANKE B.S., GERTLER M., “Inside the black box: the credit channel of
monetary transmission“, in Journal of Economic Perspectives, vol.9, Autunno, 1995, pagg.
27-48, e BERNANKE B.S., GERTLER M., GILCHRIST S., “The financial accelerator
and the flight to quality”, in Review of Economics and Statistics, volume 78, February,
1996.
14
Per esemplificare le modalità di comportamento delle banche nei confronti dei
prenditori di fondi si afferma che “le aziende di credito ti mettono a disposizione un
ombrello quando c’è il sole, ma ne chiedono la restituzione non appena inizia a piovere”.
13
Angelo Minafra
precedentemente date in garanzia.
La rilevanza assunta dalle quotazioni degli asset ha indotto taluni15 a
proporre la sostituzione degli attuali indici dei prezzi al consumo con un più
ampio spettro di indicatori che includano anche i prezzi degli immobili e
delle attività finanziarie, opportunamente ponderati. Si ritiene in tal modo di
poter conseguire una maggiore efficacia nelle politiche macroeconomiche
sulla base del presupposto che i prezzi degli asset costituiscano ottimi
indicatori del futuro andamento dei prezzi al consumo16.
In tale approccio sarebbe possibile ipotizzare una politica restrittiva
della Banca Centrale pur in presenza di inflazione contenuta. Ad esempio,
se l’indice dei prezzi al consumo mostrasse un incremento del 3% a fronte
di un obiettivo della Banca Centrale di aumento dei prezzi pure del 3%, ma i
prezzi degli asset crescessero di una percentuale superiore (in ipotesi, il
5%), ciò indicherebbe una dinamica futura al rialzo dei prezzi che
indurrebbe la Banca Centrale ad aumentare il livello dei tassi di interesse dal
livello attuale – il 4% - al 6%.
La proposta di inserire i prezzi degli asset negli indici che misurano il
tasso di inflazione è stata oggetto di numerose critiche. In primo luogo, vi
sono evidenti difficoltà nella scelta delle singole attività da inserire nel
nuovo super-indice e nel peso relativo assegnato: ad esempio, quali
15
GOODHART C., “Price stability and financial stability”, in GOODHART C., The
Central Bank and the Financial System, Cambridge, MIT Press, 1995 e GOODHART C.,
HOFFMAN B., “Do asset prices help to predict consumer price inflation ?”, in
Manchester School Journal, September, 2000.
16
Si tratta di una posizione che riprende le conclusioni di alcune ricerche pionieristiche
sull’inflazione di Alchian e Klein, cfr. ALCHIAN A., KLEIN B., “On a correct measure of
inflation”, in Journal of Money, Credit and Banking, February, 1973. Alchian e Klein,
rilevato che gli indici dei prezzi al consumo misurano le variazioni passate dei prezzi e non
quelle future, determinanti per l’efficacia delle scelte della Banca Centrale, propongono di
estendere l’ambito degli indici dei prezzi al consumo sino a ricomprendere non solo i prezzi
di beni e servizi già acquistati ma anche i prezzi attesi di beni e servizi che si prevede di
acquistare in futuro (ad esempio, un’auto nuova tra due anni), utilizzando la nozione di
lifetime cost of living. Riconoscendo il problema della mancata disponibilità di dati sui
prezzi attesi, Alchian e Klein affermano che, in quanto da un lato gli individui allocano le
loro disponibilità economiche tra consumi ed investimenti in asset e dall’altro il livello dei
consumi nel corso della loro esistenza dipende dai consumi attuali e da quelli attesi,
l’andamento del prezzo degli asset costituisce un buon indicatore dei prezzi dei consumi
futuri. Successivamente Shibuya, cfr. SHIBUYA S., “Dynamic equilibrium price index:
asset price and inflation”, in Bank of Japan, Monetary and Economic Studies, February,
1992, ha avanzato una versione semplificata degli indicatori proposti da Alchian e Klein,
ovvero un indice dei prezzi articolato in una componente che misura le variazioni dei prezzi
al consumo ed in una componente che quantifica le variazioni nei prezzi degli asset,
ambedue opportunamente ponderate.
14
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
immobili inserire e quali attività finanziarie ? tutti gli immobili o solo i
residenziali ? azioni e/o obbligazioni?
Il secondo problema, forse ancor più serio, deriva dall’estrema volatilità
dei prezzi di questi beni. Nessuno conosce il prezzo di equilibrio degli asset,
le cui quotazioni dipendono dalle aspettative di quanto saranno disposti a
pagare in futuro per quegli asset altri operatori di mercato. Come fissare
quindi un livello target per questi prezzi ? Qui si scatenano anche obiezioni
di carattere ideologico da parte di chi sostiene che gli operatori di mercato
siano nella posizione migliore – persino rispetto alle Banche Centrali – per
valutare la congruità del prezzo di un asset.
Il pericolo riguarda la possibilità che, a seguito di variazioni nei prezzi
delle attività che non abbiano impatto sui prezzi al consumo, si scateni un
eccesso di reazioni da parte della Banca Centrale che intendesse stabilizzare
la situazione, con una serie di danni collaterali sull’economia reale. Così,
un ampio incremento delle quotazioni di Borsa - riconducibile in misura
prevalente al miglioramento nella redditività delle società quotate potrebbe, se non correttamente interpretato, indurre l'aumento del tasso di
sconto da parte della Banca Centrale con effetti trascurabili sull’inflazione
futura, ma purtroppo incisivi per l’andamento della produzione (aumento
della variabilità dell’output)17.
Il cuore del problema risiede allora nella difficoltà di comprendere
quanta parte della variazione dei prezzi di un asset sia imputabile a fattori
fondamentali (ad esempio, migliori prospettive di redditività per un’impresa
quotata in Borsa o rivalutazione turistica di una località in cui sia ubicato un
immobile residenziale) e quanta parte sia riconducibile ai non fondamentali
(del tipo, deprezzamento delle quotazioni riconducibile a comportamenti
imitativi): solo questi ultimi hanno impatto inflazionistico (o
deflazionistico) e dovrebbero, come tali, provocare l’intervento delle
Banche Centrali.
Naturalmente, è pur vero che condizioni di incertezza caratterizzano
ormai inevitabilmente lo scenario di riferimento in cui agiscono tutti gli
operatori economici, per cui le Banche Centrali non possono pretendere di
ignorare il problema delle bolle speculative e non assumere decisioni solo
perché non sono note tutte le conseguenze di esse. In ogni caso, a fronte di
variazioni rilevanti nei prezzi degli asset le Autorità Monetarie sono sempre
sottoposte a due tipologie di errori, peraltro riconducibili ai seguenti casi:
17
FILARDO A.J., “Monetary policy and asset prices”, in Economic Review, Federal
Reserve of Kansas City, Third Quarter, 2000, dimostra che adottando l’indice dei prezzi
proposto da Shibuya (si veda la nota precedente) una Banca Centrale che reagisse a
variazioni nei prezzi degli asset con una manovra sui tassi di interesse otterrebbe una
performance peggiore in termini di variabilità dell’output rispetto ad una Banca Centrale
che ignorasse tali segnali.
15
Angelo Minafra
a) le variazioni nei prezzi degli asset non hanno impatto inflazionistico
ma vengono valutate come se questo impatto ci fosse, attivando
l'aumento dei saggi di interesse;
b) le variazioni nei prezzi degli asset hanno impatto inflazionistico ma
vengono valutate come se questo impatto non ci fosse, non attivando
misura alcuna a fronte di crisi effettiva.
Se è certamente vero che la prevalenza del tradizionale obiettivo di
stabilità dei prezzi nel breve periodo rende le banche centrali più sensibili ad
errori del tipo a) – eccesso di reazione, che detto per inciso colpisce interessi
molto ben consolidati – rispetto ad errori del tipo b), riconoscibili con
certezza solo a posteriori, pure non va dimenticato che il primo tipo di
errore rallenta una ripresa in corso, mentre il secondo ha conseguenze ben
peggiori, compromettendo la stabilità finanziaria del sistema e rendendo
molto più lunga la successiva fase recessiva del ciclo, come si è visto nel
caso del Giappone.
D’altro canto è stato efficacemente rilevato come il vero problema non
risieda di per sè nelle variazioni di prezzo di un asset, ma nella presenza di
squilibri – imbalances - nel sistema economico, il successivo e inevitabile
ridimensionamento delle quali può provocare ricadute molto pesanti
sull’economia reale. Risultano a questo proposito di estremo interesse le
argomentazioni contenute in un recente saggio di Borio e Lowe18.
Attraverso l’analisi delle serie storiche di 34 nazioni (tra cui tutte quelle del
G10) dal 1960 al 1999, serie relative a prodotto nazionale lordo, valori di
Borsa e immobiliari, investimenti e crediti concessi, Borio e Lowe
identificano una serie di indicatori predittivi delle crisi finanziarie, quali
credit gap (variazione del rapporto crediti/prodotto interno lordo di un certo
importo rispetto al trend storico), asset price gap (variazione del ratio tra
prezzo degli asset e crescita del PIL), investment gap (variazione del
rapporto tra spese per investimenti e PIL). L’analisi statistica dimostra che il
miglior indicatore individualmente considerato è costituito dal credit gap, e
che l’utilizzo congiunto di credit gap e asset price gap consente di ottenere i
risultati migliori in quanto a previsione della crisi19.
18
BORIO C., LOWE P., “Asset prices, financial and monetary stability: exploring the
nexus”, in Working Papers n.114, Bank of International Settlements, July, 2002.
19
BORIO e LOWE, opera citata, pag. 15, dimostrano che la più efficace combinazione
predittiva è rappresentata da un credit gap superiore al 4% e da un asset gap superiore al
40%, mentre l’aggiunta dell’investment gap non apporta miglioramenti significativi.
L’andamento delle serie storiche indica inoltre che i cicli dei prezzi delle attività tendono ad
estendere la loro durata e ad ampliare le loro oscillazioni, e che il ciclo dei prezzi delle
azioni precede quello immobiliare, che a sua volta anticipa l’emergere di recessioni.
16
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
L’attenzione crescente rivolta alle variazioni di prezzo delle attività e
all’emersione di bolle speculative - un tempo avversata dalle banche centrali
- ha recentemente fatto breccia anche tra le autorità monetarie20. Pur
escludendo interventi ad hoc rivolti a ridimensionare incrementi nelle
quotazioni delle attività, si è contemplata la necessità di estendere
l’orizzonte temporale della politica monetaria dal breve al medio periodo,
accettando in tale più ampia prospettiva la possibilità di deviazioni
dall’obiettivo dell'immediata stabilità monetaria qualora ciò risulti
necessario per garantire il raggiungimento del medesimo obiettivo nel
medio periodo21.
Così, a fronte di incrementi anche anomali nelle quotazioni delle attività,
non riconducibili a fattori fondamentali e forieri di pericolosi squilibri, la
banca centrale, pur in presenza di un tasso di inflazione coerente con
l’inflazione-obiettivo di lungo periodo, sceglierebbe di innalzare i saggi di
interesse per colpire la bolla speculativa e rimuovere le condizioni di
squilibrio. Ciò comporterebbe presumibilmente nell’immediato un
abbassamento del tasso di inflazione al di sotto del target di medio periodo,
risultato accettabile, in quanto eviterebbe il futuro ampliamento e poi brusco
ridimensionamento della bolla, con ampio impatto sull’economia reale22 e
quindi duratura diminuzione dell’inflazione rispetto al livello obiettivo nel
medio periodo.
Naturalmente, la politica monetaria non è l’unico strumento a
disposizione per governare l’andamento delle quotazioni degli asset, nel
senso di impedire che variazioni troppo brusche di tali quotazioni
compromettano la stabilità finanziaria del sistema economico. Anzi,
secondo una visione classica, la politica monetaria dovrebbe assicurare la
stabilità dei prezzi, mentre la politica prudenziale garantirebbe la stabilità
finanziaria.
20
Si veda ISSING O., opera citata in Nota 7 e KING M., opera citata.
Si tratta di una modalità di comportamento che corrisponde al concetto di flexible
inflation targeting, teorizzato da BERNANKE B., GERTLER M., in “Monetary policy and
asset price volatility”, Economic Review, Federal Riserve of Kansas City, Fourth Quarter,
1999; un regime di flexible inflation targeting è caratterizzato da tre condizioni: a)la
politica monetaria assume l’obiettivo di un determinato tasso di inflazione nel medio
periodo, per cui l’incremento dei prezzi non dovrà essere né superiore (pericolo
inflazionistico), né inferiore (pericolo di deflazione), b)è possibile accettare una certa
flessibilità nel raggiungimento degli obiettivi nel breve periodo, quali il tasso di inflazione e
l’output gap, se ciò risulta strumentale al conseguimento del primo obiettivo, c)le scelte
della Banca Centrale sono trasparenti per la comunità finanziaria ed in un certo senso
prevedibili, il che rende probabile l’ammorbidimento di comportamenti eccessivamente
speculativi sui mercati degli asset, che sarebbero puniti da una successiva manovra sui
tassi.
22
Si rammenta il meccanismo del financial accelerator, citato all’inizio del paragrafo.
21
17
Angelo Minafra
E’ certamente vero che una corretta politica di vigilanza nei confronti
degli operatori contribuisce a preservare la stabilità finanziaria, ma
l’obiettivo della stabilità parrebbe tanto difficile da perseguire da richiedere
l’utilizzo congiunto delle due leve, i cui effetti sono spesso inestricabilmente
connessi con esiti scarsamente prevedibili. Così, l’introduzione della
regolamentazione sulla dotazione patrimoniale delle banche (Accordo di
Basilea, 1988) in base al livello di rischio – tipica misura volta a preservare
la stabilità finanziaria – potrebbe manifestare effetti pro-ciclici, ad esempio
richiedendo alle aziende di credito di aumentare i mezzi propri nella fase
recessiva, in cui il capitale scarseggia, o viceversa di ridurre l’esposizione
creditizia amplificando l’effetto recessivo sui prenditori.
In ogni caso, oltre alle misure prudenziali la cui importanza non deve
essere sottovalutata – si pensi all’importanza delle regole di governance e
della trasparenza, quale dal <secondo pilastro> di Basilea 223 – ambito di
intervento molto promettente per combattere l’instabilità finanziaria indotta
da turbolenze nei mercati degli asset è rappresentato dalle politiche microeconomiche24.
Tra le possibili misure disponibili in questo ambito si ricordano le
seguenti:
a) accantonamenti dinamici;
b) contabilità secondo il metodo del fair value;
c) aumento del rapporto tra impieghi e garanzie collaterali.
Gli <accantonamenti dinamici> sono in grado di controbilanciare gli
effetti pro-ciclici della regolamentazione nei confronti del rischio, sovente
aggravati dalle politiche creditizie delle banche, più inclini a concedere
prestiti nelle fasi espansive del ciclo. Sostanzialmente si tratta di aumentare
la quota degli accantonamenti nei periodi di buona congiuntura e di
diminuirli nelle fasi recessive. Nonostante tale misura paia operante con
successo in Spagna25, nessun altro paese ha al momento introdotto gli
<accantonamenti dinamici> a causa dello scetticismo delle autorità fiscali
imputabile alla difficoltà di controllare l’effettivo ricorso a tali
accantonamenti da parte delle banche, che verrebbero così a disporre di un
formidabile strumento di tax planning.
La seconda misura riguarda l’utilizzo del fair value accounting,
23
BANK OF INTERNATIONAL SETTLEMENTS, The New Basel Capital Accord: an
explanatory note, January, 2001, in www.bis.org.
24
G10, CONTACT GROUP ON ASSET PRICES, “Turbulence in asset markets: the
role of micro-policies”, Bank of International Settlements, September, 2002.
25
FERNANDEZ de LIS S., MARTINEZ PAGES J., SAURINA J., “Credit growth,
problem loans and credit risk provisioning in Spain”, Bank of Spain, 2000.
18
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
attraverso l’accettazione dei principi contabili internazionali (International
Accounting Standards)26 per la redazione dei bilanci consolidati delle
società comunitarie quotate su mercati regolamentati a partire dal 2005. Non
potendosi esaurire in poche righe una tematica così complessa, qui si ricorda
solo che tra le principali motivazioni per il legislatore europeo a introdurre
tali principi vi è la necessità da un lato di far emergere effettivamente
impegni e rischi assunti dalle banche, come opzioni e garanzie, dall’altro di
tener conto delle perdite sopportate a seguito di cambiamenti nei saggi di
mercato.
La contabilità secondo il fair value richiede infatti la registrazione nello
stato patrimoniale e nel conto economico di qualunque variazione nei tassi
che implichi una variazione del valore attuale netto di attività e passività.
Per la verità occorre ricordare che gli IAS limitano l’adozione del fair value
al portafoglio titoli e alle attività disponibili per la vendita, con esclusione
quindi del banking book (depositi e prestiti). Anche per questa misura le
difficoltà di introduzione non mancano, si pensi ai problemi correlati alla
maggiore variabilità dei risultati economici della banca derivanti
dall’adozione del fair value a seguito del mismatching delle scadenze
dell’attivo e del passivo (tipicamente una banca retail raccoglie a breve per
impiegare a più lunga scadenza) 27.
L’ultima misura citata riguarda la gestione del ratio tra prestito e
garanzia collaterale (cosiddetto loan to value ratio), che deve sempre tener
conto dell’estrema volatilità dell’andamento delle quotazioni immobiliari e
favorire in generale l'innalzamento di questo rapporto28.
26
L’Unione Europea ha emesso un apposito regolamento, cfr. Regolamento CE n.
1606/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002 relativo
all’applicazione dei principi contabili internazionali, in “Gazzetta ufficiale delle Comunità
europee”, 11 settembre, 2002, in cui si stabilisce l’adozione obbligatoria dei principi
contabili internazionali nella redazione dei conti consolidati per le aziende quotate a partire
dal 2005. E’ anche prevista la facoltà per gli Stati Membri di anticipare tale termine, nonché
di estenderne l’applicazione ai conti annuali delle società quotate ed a soggetti diversi,
ritenuti di particolare rilevanza quali banche e compagnie di assicurazione, per i conti
annuali e/o consolidati.
27
E’ quanto riscontrato in Danimarca, in cui si adotta un sistema contabile simile al fair
value. Per un’analisi approfondita si veda BERNARD V.L., MERTON R.C., PALEPU
K.G., “Mark-to-market accounting for banks and thrifts: lessons from the Danish
experience”, in Journal of Accounting Research, n.33, 1995, pagg. 1-32.
28
Si tratta di una misura adottata con successo dalle autorità di Hong Kong, sia pure
attraverso una forma di moral suasion, come indicato in YUE E., “The Hong Kong
experience”, in “Marrying the micro and macro prudential dimensions of financial
stability”, BIS Papers, n.1.
19
Angelo Minafra
7. Conclusioni
L’insorgere di squilibri finanziari in uno scenario di contenuta inflazione
si è rivelato evento possibile, che potrebbe ripetersi in futuro a meno di non
assumere provvedimenti adeguati.
L’elevato impatto di tali squilibri finanziari sull’economia reale
attraverso l’amplificazione della durata e dell’intensità del ciclo non può
essere sottovalutata: essa richiede l’intervento delle Banche Centrali e delle
autorità di governo attraverso l’utilizzazione di una serie di strumenti, dalle
manovre sui saggi di interesse alle scelte di politica prudenziale, sino ad
interventi a carattere microeconomico non solo per alleviare gli effetti delle
crisi, ma soprattutto per attivare opera di prevenzione.
In ogni caso, la maggiore rilevanza assunta dagli asset sia reali che
finanziari, impone l'approfondimento dei legami che intercorrono tra queste
variabili e l’andamento dell’economia; ciò implica da un lato uno sforzo
considerevole nella rilevazione di dati, sovente non disponibili – si pensi al
settore immobiliare, in cui ci si affida prevalentemente ad operatori privati,
le cui modalità di raccolta dei dati non possono tener conto della peculiarità
di <bene di pubblico interesse> di queste informazioni – dall’altro
l’esigenza di disporre di un maggior numero di ricerche empiriche sulle
condizioni che aumentano le probabilità dell’insorgere di crisi finanziarie.
Inoltre, se è certamente vero che il ciclo economico ha assunto
andamenti più moderati dalla fine della seconda guerra mondiale, ed in
particolare nell’ultimo decennio considerato come il più stabile di tutti, pure
non si deve tralasciare il fatto che ciò è avvenuto anche grazie ad una serie
di fortunate coincidenze, tra cui la diversa fase del ciclo in cui si trovavano
agli inizi degli anni ’90 Stati Uniti da un lato (in recessione), Germania (in
piena espansione grazie alla riunificazione) e Giappone (ancora in ripresa)
dall’altro.
Oggi la situazione appare perfettamente rovesciata, con l'Europa
contemporaneamente in stasi congiunturale e gli USA che ne sono usciti
grazie soprattutto alle spese militari. Inoltre, la minore dispersione dei tassi
di sviluppo delle principali economie del mondo e la più elevata
correlazione tra i mercati borsistici inducono a ritenere che la volatilità sia
destinata ad accrescersi nei prossimi anni, anche come effetto della
maggiore globalizzazione29, che aumenta il grado di interdipendenza tra i
29
Il commercio mondiale rappresenta il 25% del Prodotto Lordo Mondiale,
raddoppiando la sua incidenza rispetto agli anni ’70. Anche intuitivamente, si comprende
come ciò abbia indotto un incremento delle interdipendenze: ad esempio, la diminuzione
degli investimenti in IT delle imprese americane ha un immediato effetto recessivo sulle
economie dei paesi del sud-est asiatico, esportatori di semiconduttori e di personal
20
Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo?
sistemi economici. In tale quadro diviene dunque ancora più critico il
controllo dell’andamento degli asset per la più efficace gestione degli
squilibri finanziari.
computers, e questo a sua volta provoca in tali paesi il successivo rallentamento delle
importazioni di altri beni dagli USA.
21
22
DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE
PAPERS PUBBLICATI∗:
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2.
3.
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6.
7.
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ARTI GRAFICHE APOLLONIO
Università degli Studi
di Brescia
Dipartimento di
Economia Aziendale
Angelo MINAFRA
VERSO UN NUOVO PARADIGMA
PER LE BANCHE CENTRALI
AGLI INIZI DEL XXI SECOLO?
Paper numero 33
Università degli Studi di Brescia
Dipartimento di Economia Aziendale
Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia
tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814
e-mail: [email protected]
Luglio 2004