ARTI GRAFICHE APOLLONIO Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Angelo MINAFRA VERSO UN NUOVO PARADIGMA PER LE BANCHE CENTRALI AGLI INIZI DEL XXI SECOLO? Paper numero 33 Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814 e-mail: [email protected] Luglio 2004 VERSO UN NUOVO PARADIGMA PER LE BANCHE CENTRALI AGLI INIZI DEL XXI SECOLO ? di Angelo MINAFRA Indice 1. Introduzione ............................................................................................... 1 2. Caratteristiche della crisi in corso .............................................................. 2 3. Prime valutazioni ....................................................................................... 6 4. La saggezza “convenzionale” .................................................................... 8 5. Oltre la saggezza “convenzionale”........................................................... 11 6. Verso un nuovo paradigma ...................................................................... 12 7. Conclusioni .............................................................................................. 20 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? 1. Introduzione L’ultima crisi che ha colpito le nazioni occidentali, crisi ancora in corso per quanto concerne l’area dell’Euro, non solo ha indotto un generalizzato peggioramento delle condizioni degli operatori economici – dall’incremento della disoccupazione al ridimensionamento della ricchezza finanziaria delle famiglie al calo degli utili presenti ed attesi per molte imprese sino all’aumento dei deficit di bilancio per i governi – ma ha rimesso in discussione il paradigma standard delle banche centrali: la convinzione che conseguire un ridotto livello di inflazione dei prezzi al consumo fosse condizione sufficiente ad assicurare lo sviluppo dell’economia e una generalizzata stabilità finanziaria. Tale convinzione, che ha orientato le scelte delle banche centrali negli ultimi dieci anni e ha costituito una risposta efficace in uno scenario caratterizzato dal fallimento delle politiche keynesiane a causa dell’esplosione simultanea di debito pubblico ed inflazione, è stata poi smentita dalle crisi di Giappone (all’inizio degli anni ’90) e Stati Uniti (anni 2001-2002), ambedue caratterizzate dall’emergere di <bolle speculative>, il cui successivo ridimensionamento ha provocato un duraturo rallentamento dell’attività economica, pur in un contesto di ridotta inflazione. Anzi, secondo alcuni commentatori proprio la contenuta inflazione ed il conseguente minore livello dei saggi di interesse hanno privato le Banche Centrali di una delle armi più potenti per combattere la recessione, con il rischio di precipitare in una sorta di “trappola deflazionistica”, in cui l’attesa di una ulteriore diminuzione dei prezzi induce i consumatori a rimandare i propri acquisti, innescando un circolo vizioso per le economie delle imprese e, più ampiamente, nazionali. Da queste considerazioni è emerso in taluni il convincimento che le banche centrali dovrebbero ampliare l’ambito del controllo sui prezzi, sino ad includervi anche gli asset, intesi come attività sia reali sia finanziarie; in altri che sia richiesto un atteggiamento proattivo nei confronti dell’emergere di bolle speculative, innalzando prontamente i tassi di interesse per favorire il loro ridimensionamento piuttosto che attendere passivamente che questo si verifichi Il presente paper desidera inserirsi all’interno di questo dibattito, analizzando dapprima le caratteristiche della suddetta crisi, per procedere poi all’identificazione di eventuali nuovi strumenti disponibili alle banche centrali, e proporre infine alcune prime indicazioni sulle possibilità di elaborare un nuovo paradigma. 1 Angelo Minafra 2. Caratteristiche della crisi in corso L’analisi della crisi non può prescindere dalle caratteristiche dell’espansione economica che l’ha preceduta, sinteticamente illustrate con riferimento ai seguenti oggetti di indagine: a) tassi di crescita del prodotto interno lordo; b) andamento degli investimenti delle imprese e dei consumi delle famiglie; c) tasso di inflazione; d) saggi di interesse; e) credito concesso a imprese e famiglie; f) performance del mercato borsistico. I dati riportati nel seguito si riferiscono agli USA, nazione in cui i fenomeni oggetto di indagine hanno trovato la manifestazione maggiormente significativa, e d'altra parte attuale economia-guida del sistema economico mondiale. Il carattere distintivo della trascorsa espansione economica è rappresentato dalla sua durata e intensità: circa nove anni, in cinque dei quali la crescita del Prodotto Interno Lordo statunitense è stata superiore al 4%, che ne fanno la ripresa più sostenuta mai verificatasi, seconda solo a quella degli anni ’20 (cfr. Grafico 1). Grafico 1 - Andamento del PIL negli USA 5 tassi % di incremento 4 3 2 1 0 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 -1 Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale 2 2001 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? Tale crescita è stata indotta da un ciclo di investimenti da parte delle imprese di straordinaria intensità, riconducibile ad una serie di innovazioni nel campo dell’information technology ed all’esplosione – poi ridimensionata – di Internet e della net economy. Anche le famiglie hanno fatto la loro parte, con il merito supplementare di perseverare nei loro comportamenti ottimistici anche nella successiva fase di rallentamento (cfr. Grafico 2). Grafico 2 - Consumi ed investimenti negli USA Consumi delle famiglie Investimenti privati fissi lordi Tassi % di incremento 15 10 5 0 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 -5 -10 Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale Grafico 3 - Inflazione e costo del denaro in USA Prezzi al consumo Tasso di sconto tassi % di incremento 7 6 5 4 3 2 1 0 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale 3 2001 Angelo Minafra La ripresa dunque, pur così robusta e prolungata, si è verificata in un contesto di inflazione contenuta, che ha raggiunto un valore massimo del 3,4% nel 2000 (cfr. Grafico 3). Anche il sistema bancario ha assecondato l’espansione economica, mettendo a disposizione di imprese e famiglie a tassi di interesse contenuti un ingente flusso di finanziamenti, evidenziato dalla crescita del rapporto tra finanziamenti a soggetti privati e prodotto nazionale lordo (cfr. Grafico 4). Grafico 4 - Andamento dei crediti ai soggetti privati in USA Crediti Privati/Prodotto Nazionale Lordo 1,4 rapporto 1,35 1,3 1,25 1,2 1,15 1,1 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 Fonte: Bank for International Settlement, Annual Reports La sostenuta ripresa dell’economia statunitense ha peraltro indotto un deficit delle partite correnti, che in qualunque paese diverso dagli Usa avrebbe innescato una ingente crisi finanziaria e la conseguente svalutazione della moneta, e che è stato invece in questo caso finanziato da copiosi flussi di investimenti stranieri, attratti dalle performance e dalla fiducia nell’economia statunitense (cfr. Grafico 5). Il combinato effetto di alta crescita dell’economia, credito abbondante, saggi contenuti ed elevati investimenti stranieri verso l’area del dollaro ha sospinto le quotazioni del mercato borsistico, che ha raggiunto un price/earnings superiore a 40 nel marzo del 2000 per le 500 maggiori imprese di Standard & Poors (cfr. Grafico 6). 4 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? Grafico 5 - Bilancia dei pagamenti degli USA Miliardi di dollari Saldo delle Partite Correnti 600 500 400 300 200 100 0 -100 -200 -300 -400 -500 1991 1992 1993 1994 1995 1996 Saldo Finanziario 1997 1998 1999 2000 2001 Fonte: Banca d'Italia, Appendice alla Relazione Annuale Grafico 6 - Andamento della Borsa USA Indice Dow Jones Industrial 14000 12000 10000 8000 6000 4000 2000 0 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 Fonte: Dow Jones La lunga durata della crescita economica aveva addirittura indotto alcuni economisti a decretare la morte del ciclo economico, riconducibile ai continui incrementi di produttività indotti dalla diffusione dell’information technology, che tuttavia non provocavano come nei periodi precedenti un incremento dei salari e quindi dell’inflazione, grazie all’effetto calmierante 5 Angelo Minafra della globalizzazione ed alla politica prudente di controllo dei tassi della Federal Reserve. Ma nel corso del 2001 l’inevitabile rallentamento, aggravato – e non indotto - da alcuni scandali finanziari (in primis Enron e Worldcom) e dagli eventi dell’11 settembre, interrompeva anche questa sia pur prolungata fase di espansione dell’economia. Tale crisi si caratterizza per durata estesa e virulenza limitata. Per quanto concerne la durata, per le nazioni dell'area dell'Euro si è ormai entrati nel terzo anno, continuando a procrastinare l’inizio della ripresa, oggi collocata nel corso del 2004. In compenso, l’intensità della suddetta crisi sembra alquanto contenuta rispetto alle precedenti: il prodotto interno lordo degli Usa è aumentato del 2,4 % nel 2002 ed il tasso di disoccupazione è rimasto sotto il 6%, in prevalenza grazie alla tenuta dei consumi, sostenuti da un boom del mercato immobiliare, che ha compensato gli effetti di impoverimento del calo della Borsa, e consentito inoltre il rifinanziamento dei mutui già erogati. Si tratta di risultati conseguiti grazie alla fortissima riduzione del costo del denaro operata dalla FED e all’incremento della spesa pubblica federale, il quale ha prodotto un deficit di circa 300 miliardi di dollari nel 2002 a fronte di un avanzo di analoghe proporzioni nel 2001. 3. Prime valutazioni La crisi è stata dunque indotta da un eccesso di investimenti ed è avvenuta in un contesto di scarsa inflazione dei prezzi al consumo. Ma che dire delle modalità con cui è stata gestita ? E’ emerso infatti un dibattito1 tra chi ha sostenuto le scelte di Greenspan e chi le ha ritenute sostanzialmente inadeguate. I primi sottolineano la prontezza di reazione delle scelte di politica monetaria della FED, che ha dapprima assecondato la lunga ripresa economica tenendo sotto controllo la dinamica dei prezzi e cercato di moderarne gli eccessi senza interventi bruschi, che ne avrebbero inevitabilmente compromesso la durata, e poi, di fronte all’inevitabile rallentamento, non ha esitato a ridurre i tassi in pochi mesi al contrario di quanto ha fatto la Banca Centrale Europea. La relativa mitezza della crisi sarebbe quindi in gran parte merito di queste scelte oculate e tempestive. In quanto alle condizioni di squilibrio che si andavano consolidando (sulle quali ci si soffermerà più ampiamente nel seguito), si afferma che l’incremento del valore di un asset non implica necessariamente la creazione di una bolla speculativa, valutabile solo a posteriori. Eventuali 1 THE ECONOMIST, The unfinished recession. A survey of the world economy, September 28th 2002. 6 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? manovre sui tassi di interesse per contrastare tali bolle sarebbero d’altronde inefficaci (in caso di aumenti di modesta entità) o eccessivamente dannose (se troppo forti), inducendo una crisi economica2. Appare quindi preferibile rendere il meno doloroso possibile il successivo ridimensionamento degli squilibri inevitabilmente creatisi. I critici di Greenspan preferiscono invece soffermarsi sulla durata della crisi, che imputano sostanzialmente alla formazione di una serie di posizioni di squilibrio – imbalances - riguardanti gli ambiti seguenti: • • • • • le quotazioni del mercato borsistico; le quotazioni del mercato immobiliare; gli eccessivi investimenti delle imprese; l’insostenibile propensione al consumo delle famiglie; il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Si tratta di posizioni di largo squilibrio, le quali devono necessariamente ridimensionarsi per consentire una ripresa non effimera; l’entità del riaggiustamento richiesto induce un atteggiamento pessimista sulla durata residua della crisi. I prezzi delle azioni, espressi dal rapporto price/earnings, sono ancora ritenuti elevati, collocandosi attorno a un valore pari a 20 a fronte di un valore medio di 15 negli ultimi anni, che scende a 10 nei periodi di recessione. La recente ripresa delle quotazioni, riscontrata dall'inizio del 2003, potrebbe non essere del tutto consolidata. Le quotazioni sul mercato immobiliare hanno pure raggiunto valori insostenibili e tenderanno inevitabilmente a ridimensionarsi, con un effetto negativo sulla propensione al consumo delle famiglie, sulla rischiosità delle banche che erogano prestiti garantiti da immobili, e specialmente sul conto economico dei soggetti che erogano mutui ipotecari. L’eccesso di investimenti compromette le prospettive di tutti quei comparti dell’economia che vendono beni strumentali e servizi di investimento, e induce le aziende a focalizzarsi sulla riduzione dei costi. Anche le famiglie, che hanno sinora sostenuto la domanda complessiva dell’economia, sono destinate ad aumentare la loro propensione al risparmio, non potendo continuare a indebitarsi all’infinito e soprattutto tenendo conto delle sfavorevoli dinamiche futuribili sia sul versante del 2 A. GREENSPAN in “Economic volatility”, Remarks at a symposium sponsored by the Fed of Kansas City, Jackson Hole, 2002, sostiene che “nothing short of a sharp increase in short-term rates that engenders a significant economic retrenchment is sufficient to check a nascent bubble. The notion that a well-timed incremental tightening could have been calibrated to prevent the late 1990s bubble is almost an illusion”. 7 Angelo Minafra patrimonio (prezzi calanti di attività reali e finanziarie) sia sul versante del reddito (andamento riflessivo del mercato del lavoro). Infine, l’enorme deficit delle partite correnti è già in via di ridimensionamento attraverso il deprezzamento del dollaro, che di fatto trasla gli effetti delle proprie difficoltà nel resto del mondo. In tale visione si è evidentemente propensi al pessimismo sulla robustezza dell'attuale ripresa dell’economia statunitense, e ci si chiede se la FED non avrebbe dovuto impedire l’espandersi degli squilibri appena analizzati attraverso una manovra di politica monetaria – rialzo del costo del denaro – che avrebbe probabilmente colpito la ripresa economica nel 2000, accorciandone forse la durata di un anno, ma ridotto considerevolmente il successivo rallentamento. Si è invece preferito intervenire solo per curare i sintomi della malattia con la riduzione dei tassi e le ripetute immissioni di liquidità ed alleviare la crisi ormai non più procrastinabile, con il duplice effetto di rallentare lo sgonfiamento della <bolla> esistente sul mercato borsistico e di provocare addirittura l’emergere di una nuova <bolla> sul mercato immobiliare. 4. La saggezza “convenzionale” Al di là di qualche polemica emersa sul presunto atteggiamento politico delle banche centrali, alquanto restie a intervenire a priori con misure recessive ma inevitabilmente discutibili (si pensi all’impatto di tali misure in prossimità dello svolgimento di elezioni politiche), e più propense ad alleviare a posteriori gli effetti delle crisi, il punto cruciale della discussione prima analizzata riguarda l’importanza della politica monetaria di controllo dei prezzi al consumo come strumento essenziale di regolazione dell’economia. Si tratta di un principio universalmente accettato, se si pensa che la stabilità dei prezzi costituisce il principale obiettivo di tutte le banche centrali, sia pure con intensità diverse (ad esempio, la Banca Centrale Europea deve assicurare un tasso di inflazione inferiore al 2%3, mentre la Banca d’Inghilterra ha fissato un target lievemente più elevato, al 2,5%). Il principio sottostante afferma che la stabilità dei prezzi (al consumo) promuove la stabilità dei mercati (inclusi i mercati finanziari). Si esamini ora più approfonditamente questo assioma. 3 ISSING O., The Euro after four years: is there a risk of deflation ?, in 16th European Finance Convention, 2 December 2002, London, ricorda che la Banca Centrale Europea considera la stabilità dei prezzi in modo simmetrico, per cui l’obiettivo di variazione dei prezzi al consumo è stato determinato come inferiore al 2% ma superiore all’1% per evitare rischi di deflazione, che peraltro Issing non riscontra nella situazione attuale. 8 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? Per stabilità dei prezzi si intende un livello di inflazione contenuto, costante nel tempo4. Ciò richiede peraltro due precisazioni: a) gli oggetti di cui si tratta sono rappresentati da beni e servizi di consumo, con esclusione quindi delle attività, b) la stabilità è riferita alla media e non a singoli prezzi (in caso contrario verrebbe meno uno dei principali vantaggi di un’economia di mercato, che proprio attraverso le variazioni di prezzo comunica agli operatori dove riorientare la produzione e garantisce pertanto l’efficace allocazione delle risorse). La stabilità dei prezzi è considerata positivamente, poiché permette di evitare i costi dell’inflazione, sia prevedibile sia non prevista. Tra i primi si annoverano i costi correlati alla ricerca continua di impiego redditizio delle eccedenze di cassa, alla necessità di aggiornare frequentemente i listini, alle distorsioni indotte su consumi ed investimenti da un sistema fiscale non indicizzato5 e da eventuali rigidità di aggiustamento dei prezzi6. Appare certamente maggiore l’impatto della seconda tipologia di costi. In primo luogo diviene più difficile per gli operatori economici interpretare le variazioni nei prezzi, dovendo distinguere tra l’incremento di prezzo imputabile all’aumento generalizzato dell’inflazione e quello riconducibile al diverso prezzo relativo del bene, con il rischio per un’impresa di aumentare la produzione di un bene meno richiesto sul mercato. Ancora più rilevante la redistribuzione del benessere tra operatori che possono indicizzare il prezzo dei beni/servizi offerti ed operatori con retribuzioni fisse e la conseguente distruzione dell’armonia e del consenso sociale7. Infine, il timore dell’inflazione spinge ad evitare impegni contrattuali di lunga durata e ad impegnare risorse forse eccessive in operazioni di copertura. Passando ad esaminare la seconda componente dell'assioma sopra citato, un mercato è definito “stabile” quando si riscontrano le seguenti condizioni8: 4 Esistono diverse possibili definizioni per la stabilità dei prezzi: ad esempio, Alan Greenspan ne rileva la presenza quando le variazioni attese dell’indice dei prezzi non influenzano le decisioni di famiglie ed imprese, mentre Alan Binder, che è stato vice dello stesso Greenspan, più semplicemente la correla al fatto che la gente comune non parla e non si preoccupa più dell’inflazione. 5 FELDSTEIN M., The costs and benefits of price stability, University of Chicago Press, 1999. 6 ISSING O., Why stable prices and stable markets are important and how they fit together, First Conference of the Monetary Stability Foundation, European Central Bank, Frankfurt/Main, 2002. 7 KEYNES J.M., A tract on monetary reform, MacMillan, London, 1923. 8 ISSING O., opera citata in Nota 7. 9 Angelo Minafra • • • i fattori sono utilizzati nei modi più redditizi; l’offerta si adegua prontamente a cambiamenti nella tecnologia di produzione e nel comportamento della domanda; gli incentivi per gli operatori di mercato sono distribuiti in modo tale da promuovere gli incrementi di produttività e quindi il progresso tecnologico. Nella fattispecie dei mercati finanziari la stabilità si riferisce all’efficiente allocazione dei risparmi verso le opportunità di investimento, al soddisfacimento senza squilibri dei bisogni finanziari, infine all’offerta di opportunità di trasferimento dei rischi anche a fronte di cambiamenti significativi nella tecnologia e nella domanda, così incentivando l’assunzione prudente di rischi ed offrendo sempre migliori occasioni di impiego dei fondi. I prezzi nei mercati finanziari correlano il futuro al presente sulla base delle preferenze temporali dei soggetti economici, ad esempio i prezzi delle attività costituiscono il valore atteso dei flussi di reddito previsti ed influenzano i livelli di spesa nell’immediato; quindi l’instabilità nei mercati finanziari non ha effetto solo sugli operatori di questo comparto, ma induce una serie di effetti a catena su altri comparti del sistema economico (esternalità negative). Quali sono allora i legami – se ne esistono – tra stabilità dei prezzi al consumo e stabilità dei mercati finanziari ? Ritornando alle caratteristiche di un mercato stabile e ai costi dell’inflazione, esaminati in precedenza, si ritiene che l’aumento dei prezzi possa compromettere lo svolgimento della funzione di <efficiente allocazione delle risorse>, rendendo per gli operatori più difficile l’interpretazione delle variazioni dei prezzi, distogliendo i loro sforzi dall’investire in innovazione di prodotto e/o di processo per cercare di proteggersi dall’inflazione o di avvantaggiarsi di essa, nonché aggravando il problema delle asimmetrie informative tra creditori e debitori. Sarebbe in ogni caso difficile individuare un economista che ponga in dubbio l’ipotesi secondo cui un’elevata volatilità dei prezzi danneggia la stabilità dei mercati finanziari9. D’altronde, tutte le crisi economiche succedutesi dal secondo dopoguerra in poi – ma con la significativa eccezione di quest’ultima e di quella scoppiata in Giappone all’inizio degli anni ’90 – hanno avuto il 9 Come sintetizzato efficacemente in BORDO M., DUEKEN M., WHEELOCK D., Aggregate price shocks and financial instability: an historical analysis, NBER Working Paper 7652, 2000, pag.27: “a monetary regime that produces aggregate price stability will, as a by-product, tend to promote stability of the financial system”. 10 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? medesimo svolgimento. C’è sempre una fase di ripresa che ad un certo punto porta ad un surriscaldamento dell’economia a seguito di un eccesso di domanda da parte di famiglie ed imprese, con aumento dei prezzi al consumo, eccesso di investimenti, boom del credito e formazione di bolle speculative, sino al momento in cui la Banca Centrale è costretta a intervenire con una stretta monetaria per riportare la situazione sotto controllo; a quel punto la brusca diminuzione dell’inflazione e il rialzo dei tassi di interesse reali colpiscono duramente gli operatori economici che si erano fortemente indebitati sulla base di aspettative eccessivamente ottimistiche. In questo tipo di crisi, sostanzialmente indotta dall'eccesso di domanda, il controllo dei prezzi al consumo rappresentava la ricetta ideale, sia per evitare il surriscaldamento dell’economia nel culmine della ripresa (volatilità in rialzo) sia per alleviare l’impatto della crisi nella fase recessiva (volatilità in ribasso), e certamente si possono annoverare diverse applicazioni di successo per questa scelta di politica monetaria10. In prospettiva storica si può affermare che la stabilità dei prezzi al consumo e la propensione per bilanci pubblici sostanzialmente in pareggio nel lungo periodo si sono imposte come le misure più efficaci per salvaguardare lo sviluppo economico nel nuovo scenario emerso con la fine del sistema di cambi fissi di Bretton Woods e il fallimento delle politiche keynesiane, fenomeni diffusamente riscontratisi già nel corso degli anni ’70. 5. Oltre la saggezza “convenzionale” La convinzione che un tasso di inflazione dei prezzi al consumo contenuto e stabile sia condizione sufficiente per assicurare la stabilità finanziaria è stata clamorosamente smentito dall’ultima crisi, oggetto del presente lavoro, in cui un incremento dei prezzi contenuto (quasi sempre al di sotto del 3% negli USA) ha potuto coesistere dapprima con l'ascesa dei valori delle azioni accompagnato da una rapida espansione del credito (vedi infra, paragrafo 2), poi con la crescita sostenuta del prezzo degli immobili. Per la verità, questo fenomeno era già stato riscontrato nel corso della storia recente, basti pensare al Giappone negli anni ’80, alla crisi degli anni ’20 10 Come ricorda con malcelato orgoglio KING M., Vice Governatore della Banca d’Inghilterra, in “The inflation targets ten years on”, Speech to the London School of Economics, Novembre, 2002, la scelta presa nel 1992 all’indomani dell’uscita dal Sistema Monetario Europeo di assumere l’obiettivo di un tasso di inflazione stabile attorno al 2,5%, peraltro pienamente raggiunto sia per quanto riguarda il livello assoluto dei prezzi che la sua volatilità, ha coinciso con un lungo periodo di espansione economica della Gran Bretagna (quarantuno trimestri consecutivi di crescita ed il più basso tasso di disoccupazione tra i paesi del G7). 11 Angelo Minafra negli USA, ed ancor prima all’Australia verso la fine del diciannovesimo secolo. Vi sono alcuni fattori in grado di spiegare la coesistenza tra un tasso di inflazione dei prezzi al consumo contenuto e stabile con un boom del credito e delle quotazioni degli asset, sia reali sia finanziari. Il primo riguarda lo sviluppo delle capacità di offerta che si riscontra in caso di progresso tecnologico con il conseguente aumento della produttività e in ipotesi di riforme del mercato del lavoro che ne rendano più flessibile l’impiego; anche il fenomeno della globalizzazione rende l’offerta più elastica, evitando che incrementi della domanda si traducano in aumenti dei prezzi. Il secondo concerne paradossalmente il successo della politica di stabilizzazione monetaria, che può ancorare le aspettative di famiglie e imprese a tassi di inflazione molto contenuti, confidando sulla credibilità della Banca Centrale. Ciò impedisce ai prezzi di crescere pur in presenza di una domanda sostenuta, e in caso di generale miglioramento e stabilità delle condizioni dell’economia può indurre negli attori economici un atteggiamento di grande sicurezza nei confronti del futuro, rendendoli più propensi a finanziare con prestiti l’investimento e l’acquisto di attività reali e finanziarie. Il terzo fattore si riferisce alla possibilità che in uno scenario di ridotta inflazione e saggi nominali di interesse calanti gli investitori sovrastimino l’aumento degli utili delle aziende imputabile alla riduzione degli oneri sui finanziamenti, e le famiglie accendano nuovi mutui ipotecari, entrambi omettendo di valutare correttamente il livello dei saggi reali11. 6. Verso un nuovo paradigma A fronte di una così evidente smentita del principio di correlazione sempre riscontrata tra stabilità monetaria e stabilità finanziaria è emersa la necessità di tenere maggiormente conto dell’andamento dei prezzi delle attività sia reali sia finanziarie, le cui variazioni cicliche (definite con espressione sintetica boom-and-bust) possono avere effetti tanto devastanti sui sistemi economici. Naturalmente, nell’ipotesi di un mercato dei capitali efficiente e privo di distorsioni derivanti dalle diverse regolamentazioni, le variazioni nei prezzi degli asset rifletterebbero esclusivamente cambiamenti nei fondamentali dell’economia, ma purtroppo nei mercati altamente imperfetti in cui si opera i fattori non-fondamentali assumono un’importanza decisiva. Si pensi agli 11 MODIGLIANI F., COHN R.A., “Inflation, rational valuation and the market”, in Financial Analyst Journal, n.35, 1979. 12 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? effetti di una regolamentazione non ottimale e soprattutto al comportamento irrazionale degli operatori economici (ad esempio, miopia, effetto gregge12,…). La volatilità dei prezzi degli asset, oltre ad essere indotta da nonfundamental factors, influenza largamente l’andamento dell’economia reale attraverso il meccanismo del financial accelerator13. Premettendo che le variazioni nei prezzi delle attività influiscono non tanto sui comportamenti di spesa delle famiglie rendendole momentaneamente più o meno ricche, ma sullo stato patrimoniale di privati e imprese (dunque sulla loro capacità di prendere a prestito fondi offrendo in garanzia i loro asset), e che il mercato del credito è caratterizzato da frizioni (per cui le banche tendono a finanziare soggetti economici che abbiano eccedenza di fondi14 richiedendo loro ridotti saggi di interesse) il financial accelerator agisce in duplice senso: a) in caso di shock positivo (ad esempio, un ciclo di innovazioni che induca larghi aumenti di produttività) l’incremento iniziale del reddito e dell’occupazione, e successivamente del valore degli asset, rafforza il bilancio di famiglie e imprese, riduce il differenziale di interesse da corrispondere alle banche rispetto ai finanziamenti da mezzi propri, e quindi attiva un ciclo di investimenti aggiuntivo che provoca l'ulteriore crescita del reddito e delle quotazioni delle attività; b) in condizioni opposte (ad esempio, il calo delle quotazioni del mercato immobiliare), il deterioramento dello stato patrimoniale di famiglie e imprese impedisce a molti di questi soggetti l’accesso al credito, e può indurre alcune banche a richiedere saggi di interesse più elevati a fronte di garanzie ridotte; ciò provoca la riduzione degli investimenti, con impatto negativo sui flussi di cassa degli operatori economici, e l'ulteriore declino dei prezzi degli asset sia per la più debole domanda dell’economia sia per la liquidazione di alcune attività 12 Un comportamento “miope” consiste ad esempio nell’ignorare la possibilità di eventi con ridotta frequenza ma ad elevato impatto, mentre “l’effetto gregge” si verifica quando un investitore fonda le sue scelte non sull’analisi delle alternative di impiego dei fondi disponibili, bensì esclusivamente sul comportamento di altri operatori, ipotizzando che questi ultimi abbiano effettuato analisi corrette. 13 BERNANKE B.S., GERTLER M., “Inside the black box: the credit channel of monetary transmission“, in Journal of Economic Perspectives, vol.9, Autunno, 1995, pagg. 27-48, e BERNANKE B.S., GERTLER M., GILCHRIST S., “The financial accelerator and the flight to quality”, in Review of Economics and Statistics, volume 78, February, 1996. 14 Per esemplificare le modalità di comportamento delle banche nei confronti dei prenditori di fondi si afferma che “le aziende di credito ti mettono a disposizione un ombrello quando c’è il sole, ma ne chiedono la restituzione non appena inizia a piovere”. 13 Angelo Minafra precedentemente date in garanzia. La rilevanza assunta dalle quotazioni degli asset ha indotto taluni15 a proporre la sostituzione degli attuali indici dei prezzi al consumo con un più ampio spettro di indicatori che includano anche i prezzi degli immobili e delle attività finanziarie, opportunamente ponderati. Si ritiene in tal modo di poter conseguire una maggiore efficacia nelle politiche macroeconomiche sulla base del presupposto che i prezzi degli asset costituiscano ottimi indicatori del futuro andamento dei prezzi al consumo16. In tale approccio sarebbe possibile ipotizzare una politica restrittiva della Banca Centrale pur in presenza di inflazione contenuta. Ad esempio, se l’indice dei prezzi al consumo mostrasse un incremento del 3% a fronte di un obiettivo della Banca Centrale di aumento dei prezzi pure del 3%, ma i prezzi degli asset crescessero di una percentuale superiore (in ipotesi, il 5%), ciò indicherebbe una dinamica futura al rialzo dei prezzi che indurrebbe la Banca Centrale ad aumentare il livello dei tassi di interesse dal livello attuale – il 4% - al 6%. La proposta di inserire i prezzi degli asset negli indici che misurano il tasso di inflazione è stata oggetto di numerose critiche. In primo luogo, vi sono evidenti difficoltà nella scelta delle singole attività da inserire nel nuovo super-indice e nel peso relativo assegnato: ad esempio, quali 15 GOODHART C., “Price stability and financial stability”, in GOODHART C., The Central Bank and the Financial System, Cambridge, MIT Press, 1995 e GOODHART C., HOFFMAN B., “Do asset prices help to predict consumer price inflation ?”, in Manchester School Journal, September, 2000. 16 Si tratta di una posizione che riprende le conclusioni di alcune ricerche pionieristiche sull’inflazione di Alchian e Klein, cfr. ALCHIAN A., KLEIN B., “On a correct measure of inflation”, in Journal of Money, Credit and Banking, February, 1973. Alchian e Klein, rilevato che gli indici dei prezzi al consumo misurano le variazioni passate dei prezzi e non quelle future, determinanti per l’efficacia delle scelte della Banca Centrale, propongono di estendere l’ambito degli indici dei prezzi al consumo sino a ricomprendere non solo i prezzi di beni e servizi già acquistati ma anche i prezzi attesi di beni e servizi che si prevede di acquistare in futuro (ad esempio, un’auto nuova tra due anni), utilizzando la nozione di lifetime cost of living. Riconoscendo il problema della mancata disponibilità di dati sui prezzi attesi, Alchian e Klein affermano che, in quanto da un lato gli individui allocano le loro disponibilità economiche tra consumi ed investimenti in asset e dall’altro il livello dei consumi nel corso della loro esistenza dipende dai consumi attuali e da quelli attesi, l’andamento del prezzo degli asset costituisce un buon indicatore dei prezzi dei consumi futuri. Successivamente Shibuya, cfr. SHIBUYA S., “Dynamic equilibrium price index: asset price and inflation”, in Bank of Japan, Monetary and Economic Studies, February, 1992, ha avanzato una versione semplificata degli indicatori proposti da Alchian e Klein, ovvero un indice dei prezzi articolato in una componente che misura le variazioni dei prezzi al consumo ed in una componente che quantifica le variazioni nei prezzi degli asset, ambedue opportunamente ponderate. 14 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? immobili inserire e quali attività finanziarie ? tutti gli immobili o solo i residenziali ? azioni e/o obbligazioni? Il secondo problema, forse ancor più serio, deriva dall’estrema volatilità dei prezzi di questi beni. Nessuno conosce il prezzo di equilibrio degli asset, le cui quotazioni dipendono dalle aspettative di quanto saranno disposti a pagare in futuro per quegli asset altri operatori di mercato. Come fissare quindi un livello target per questi prezzi ? Qui si scatenano anche obiezioni di carattere ideologico da parte di chi sostiene che gli operatori di mercato siano nella posizione migliore – persino rispetto alle Banche Centrali – per valutare la congruità del prezzo di un asset. Il pericolo riguarda la possibilità che, a seguito di variazioni nei prezzi delle attività che non abbiano impatto sui prezzi al consumo, si scateni un eccesso di reazioni da parte della Banca Centrale che intendesse stabilizzare la situazione, con una serie di danni collaterali sull’economia reale. Così, un ampio incremento delle quotazioni di Borsa - riconducibile in misura prevalente al miglioramento nella redditività delle società quotate potrebbe, se non correttamente interpretato, indurre l'aumento del tasso di sconto da parte della Banca Centrale con effetti trascurabili sull’inflazione futura, ma purtroppo incisivi per l’andamento della produzione (aumento della variabilità dell’output)17. Il cuore del problema risiede allora nella difficoltà di comprendere quanta parte della variazione dei prezzi di un asset sia imputabile a fattori fondamentali (ad esempio, migliori prospettive di redditività per un’impresa quotata in Borsa o rivalutazione turistica di una località in cui sia ubicato un immobile residenziale) e quanta parte sia riconducibile ai non fondamentali (del tipo, deprezzamento delle quotazioni riconducibile a comportamenti imitativi): solo questi ultimi hanno impatto inflazionistico (o deflazionistico) e dovrebbero, come tali, provocare l’intervento delle Banche Centrali. Naturalmente, è pur vero che condizioni di incertezza caratterizzano ormai inevitabilmente lo scenario di riferimento in cui agiscono tutti gli operatori economici, per cui le Banche Centrali non possono pretendere di ignorare il problema delle bolle speculative e non assumere decisioni solo perché non sono note tutte le conseguenze di esse. In ogni caso, a fronte di variazioni rilevanti nei prezzi degli asset le Autorità Monetarie sono sempre sottoposte a due tipologie di errori, peraltro riconducibili ai seguenti casi: 17 FILARDO A.J., “Monetary policy and asset prices”, in Economic Review, Federal Reserve of Kansas City, Third Quarter, 2000, dimostra che adottando l’indice dei prezzi proposto da Shibuya (si veda la nota precedente) una Banca Centrale che reagisse a variazioni nei prezzi degli asset con una manovra sui tassi di interesse otterrebbe una performance peggiore in termini di variabilità dell’output rispetto ad una Banca Centrale che ignorasse tali segnali. 15 Angelo Minafra a) le variazioni nei prezzi degli asset non hanno impatto inflazionistico ma vengono valutate come se questo impatto ci fosse, attivando l'aumento dei saggi di interesse; b) le variazioni nei prezzi degli asset hanno impatto inflazionistico ma vengono valutate come se questo impatto non ci fosse, non attivando misura alcuna a fronte di crisi effettiva. Se è certamente vero che la prevalenza del tradizionale obiettivo di stabilità dei prezzi nel breve periodo rende le banche centrali più sensibili ad errori del tipo a) – eccesso di reazione, che detto per inciso colpisce interessi molto ben consolidati – rispetto ad errori del tipo b), riconoscibili con certezza solo a posteriori, pure non va dimenticato che il primo tipo di errore rallenta una ripresa in corso, mentre il secondo ha conseguenze ben peggiori, compromettendo la stabilità finanziaria del sistema e rendendo molto più lunga la successiva fase recessiva del ciclo, come si è visto nel caso del Giappone. D’altro canto è stato efficacemente rilevato come il vero problema non risieda di per sè nelle variazioni di prezzo di un asset, ma nella presenza di squilibri – imbalances - nel sistema economico, il successivo e inevitabile ridimensionamento delle quali può provocare ricadute molto pesanti sull’economia reale. Risultano a questo proposito di estremo interesse le argomentazioni contenute in un recente saggio di Borio e Lowe18. Attraverso l’analisi delle serie storiche di 34 nazioni (tra cui tutte quelle del G10) dal 1960 al 1999, serie relative a prodotto nazionale lordo, valori di Borsa e immobiliari, investimenti e crediti concessi, Borio e Lowe identificano una serie di indicatori predittivi delle crisi finanziarie, quali credit gap (variazione del rapporto crediti/prodotto interno lordo di un certo importo rispetto al trend storico), asset price gap (variazione del ratio tra prezzo degli asset e crescita del PIL), investment gap (variazione del rapporto tra spese per investimenti e PIL). L’analisi statistica dimostra che il miglior indicatore individualmente considerato è costituito dal credit gap, e che l’utilizzo congiunto di credit gap e asset price gap consente di ottenere i risultati migliori in quanto a previsione della crisi19. 18 BORIO C., LOWE P., “Asset prices, financial and monetary stability: exploring the nexus”, in Working Papers n.114, Bank of International Settlements, July, 2002. 19 BORIO e LOWE, opera citata, pag. 15, dimostrano che la più efficace combinazione predittiva è rappresentata da un credit gap superiore al 4% e da un asset gap superiore al 40%, mentre l’aggiunta dell’investment gap non apporta miglioramenti significativi. L’andamento delle serie storiche indica inoltre che i cicli dei prezzi delle attività tendono ad estendere la loro durata e ad ampliare le loro oscillazioni, e che il ciclo dei prezzi delle azioni precede quello immobiliare, che a sua volta anticipa l’emergere di recessioni. 16 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? L’attenzione crescente rivolta alle variazioni di prezzo delle attività e all’emersione di bolle speculative - un tempo avversata dalle banche centrali - ha recentemente fatto breccia anche tra le autorità monetarie20. Pur escludendo interventi ad hoc rivolti a ridimensionare incrementi nelle quotazioni delle attività, si è contemplata la necessità di estendere l’orizzonte temporale della politica monetaria dal breve al medio periodo, accettando in tale più ampia prospettiva la possibilità di deviazioni dall’obiettivo dell'immediata stabilità monetaria qualora ciò risulti necessario per garantire il raggiungimento del medesimo obiettivo nel medio periodo21. Così, a fronte di incrementi anche anomali nelle quotazioni delle attività, non riconducibili a fattori fondamentali e forieri di pericolosi squilibri, la banca centrale, pur in presenza di un tasso di inflazione coerente con l’inflazione-obiettivo di lungo periodo, sceglierebbe di innalzare i saggi di interesse per colpire la bolla speculativa e rimuovere le condizioni di squilibrio. Ciò comporterebbe presumibilmente nell’immediato un abbassamento del tasso di inflazione al di sotto del target di medio periodo, risultato accettabile, in quanto eviterebbe il futuro ampliamento e poi brusco ridimensionamento della bolla, con ampio impatto sull’economia reale22 e quindi duratura diminuzione dell’inflazione rispetto al livello obiettivo nel medio periodo. Naturalmente, la politica monetaria non è l’unico strumento a disposizione per governare l’andamento delle quotazioni degli asset, nel senso di impedire che variazioni troppo brusche di tali quotazioni compromettano la stabilità finanziaria del sistema economico. Anzi, secondo una visione classica, la politica monetaria dovrebbe assicurare la stabilità dei prezzi, mentre la politica prudenziale garantirebbe la stabilità finanziaria. 20 Si veda ISSING O., opera citata in Nota 7 e KING M., opera citata. Si tratta di una modalità di comportamento che corrisponde al concetto di flexible inflation targeting, teorizzato da BERNANKE B., GERTLER M., in “Monetary policy and asset price volatility”, Economic Review, Federal Riserve of Kansas City, Fourth Quarter, 1999; un regime di flexible inflation targeting è caratterizzato da tre condizioni: a)la politica monetaria assume l’obiettivo di un determinato tasso di inflazione nel medio periodo, per cui l’incremento dei prezzi non dovrà essere né superiore (pericolo inflazionistico), né inferiore (pericolo di deflazione), b)è possibile accettare una certa flessibilità nel raggiungimento degli obiettivi nel breve periodo, quali il tasso di inflazione e l’output gap, se ciò risulta strumentale al conseguimento del primo obiettivo, c)le scelte della Banca Centrale sono trasparenti per la comunità finanziaria ed in un certo senso prevedibili, il che rende probabile l’ammorbidimento di comportamenti eccessivamente speculativi sui mercati degli asset, che sarebbero puniti da una successiva manovra sui tassi. 22 Si rammenta il meccanismo del financial accelerator, citato all’inizio del paragrafo. 21 17 Angelo Minafra E’ certamente vero che una corretta politica di vigilanza nei confronti degli operatori contribuisce a preservare la stabilità finanziaria, ma l’obiettivo della stabilità parrebbe tanto difficile da perseguire da richiedere l’utilizzo congiunto delle due leve, i cui effetti sono spesso inestricabilmente connessi con esiti scarsamente prevedibili. Così, l’introduzione della regolamentazione sulla dotazione patrimoniale delle banche (Accordo di Basilea, 1988) in base al livello di rischio – tipica misura volta a preservare la stabilità finanziaria – potrebbe manifestare effetti pro-ciclici, ad esempio richiedendo alle aziende di credito di aumentare i mezzi propri nella fase recessiva, in cui il capitale scarseggia, o viceversa di ridurre l’esposizione creditizia amplificando l’effetto recessivo sui prenditori. In ogni caso, oltre alle misure prudenziali la cui importanza non deve essere sottovalutata – si pensi all’importanza delle regole di governance e della trasparenza, quale dal <secondo pilastro> di Basilea 223 – ambito di intervento molto promettente per combattere l’instabilità finanziaria indotta da turbolenze nei mercati degli asset è rappresentato dalle politiche microeconomiche24. Tra le possibili misure disponibili in questo ambito si ricordano le seguenti: a) accantonamenti dinamici; b) contabilità secondo il metodo del fair value; c) aumento del rapporto tra impieghi e garanzie collaterali. Gli <accantonamenti dinamici> sono in grado di controbilanciare gli effetti pro-ciclici della regolamentazione nei confronti del rischio, sovente aggravati dalle politiche creditizie delle banche, più inclini a concedere prestiti nelle fasi espansive del ciclo. Sostanzialmente si tratta di aumentare la quota degli accantonamenti nei periodi di buona congiuntura e di diminuirli nelle fasi recessive. Nonostante tale misura paia operante con successo in Spagna25, nessun altro paese ha al momento introdotto gli <accantonamenti dinamici> a causa dello scetticismo delle autorità fiscali imputabile alla difficoltà di controllare l’effettivo ricorso a tali accantonamenti da parte delle banche, che verrebbero così a disporre di un formidabile strumento di tax planning. La seconda misura riguarda l’utilizzo del fair value accounting, 23 BANK OF INTERNATIONAL SETTLEMENTS, The New Basel Capital Accord: an explanatory note, January, 2001, in www.bis.org. 24 G10, CONTACT GROUP ON ASSET PRICES, “Turbulence in asset markets: the role of micro-policies”, Bank of International Settlements, September, 2002. 25 FERNANDEZ de LIS S., MARTINEZ PAGES J., SAURINA J., “Credit growth, problem loans and credit risk provisioning in Spain”, Bank of Spain, 2000. 18 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? attraverso l’accettazione dei principi contabili internazionali (International Accounting Standards)26 per la redazione dei bilanci consolidati delle società comunitarie quotate su mercati regolamentati a partire dal 2005. Non potendosi esaurire in poche righe una tematica così complessa, qui si ricorda solo che tra le principali motivazioni per il legislatore europeo a introdurre tali principi vi è la necessità da un lato di far emergere effettivamente impegni e rischi assunti dalle banche, come opzioni e garanzie, dall’altro di tener conto delle perdite sopportate a seguito di cambiamenti nei saggi di mercato. La contabilità secondo il fair value richiede infatti la registrazione nello stato patrimoniale e nel conto economico di qualunque variazione nei tassi che implichi una variazione del valore attuale netto di attività e passività. Per la verità occorre ricordare che gli IAS limitano l’adozione del fair value al portafoglio titoli e alle attività disponibili per la vendita, con esclusione quindi del banking book (depositi e prestiti). Anche per questa misura le difficoltà di introduzione non mancano, si pensi ai problemi correlati alla maggiore variabilità dei risultati economici della banca derivanti dall’adozione del fair value a seguito del mismatching delle scadenze dell’attivo e del passivo (tipicamente una banca retail raccoglie a breve per impiegare a più lunga scadenza) 27. L’ultima misura citata riguarda la gestione del ratio tra prestito e garanzia collaterale (cosiddetto loan to value ratio), che deve sempre tener conto dell’estrema volatilità dell’andamento delle quotazioni immobiliari e favorire in generale l'innalzamento di questo rapporto28. 26 L’Unione Europea ha emesso un apposito regolamento, cfr. Regolamento CE n. 1606/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002 relativo all’applicazione dei principi contabili internazionali, in “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee”, 11 settembre, 2002, in cui si stabilisce l’adozione obbligatoria dei principi contabili internazionali nella redazione dei conti consolidati per le aziende quotate a partire dal 2005. E’ anche prevista la facoltà per gli Stati Membri di anticipare tale termine, nonché di estenderne l’applicazione ai conti annuali delle società quotate ed a soggetti diversi, ritenuti di particolare rilevanza quali banche e compagnie di assicurazione, per i conti annuali e/o consolidati. 27 E’ quanto riscontrato in Danimarca, in cui si adotta un sistema contabile simile al fair value. Per un’analisi approfondita si veda BERNARD V.L., MERTON R.C., PALEPU K.G., “Mark-to-market accounting for banks and thrifts: lessons from the Danish experience”, in Journal of Accounting Research, n.33, 1995, pagg. 1-32. 28 Si tratta di una misura adottata con successo dalle autorità di Hong Kong, sia pure attraverso una forma di moral suasion, come indicato in YUE E., “The Hong Kong experience”, in “Marrying the micro and macro prudential dimensions of financial stability”, BIS Papers, n.1. 19 Angelo Minafra 7. Conclusioni L’insorgere di squilibri finanziari in uno scenario di contenuta inflazione si è rivelato evento possibile, che potrebbe ripetersi in futuro a meno di non assumere provvedimenti adeguati. L’elevato impatto di tali squilibri finanziari sull’economia reale attraverso l’amplificazione della durata e dell’intensità del ciclo non può essere sottovalutata: essa richiede l’intervento delle Banche Centrali e delle autorità di governo attraverso l’utilizzazione di una serie di strumenti, dalle manovre sui saggi di interesse alle scelte di politica prudenziale, sino ad interventi a carattere microeconomico non solo per alleviare gli effetti delle crisi, ma soprattutto per attivare opera di prevenzione. In ogni caso, la maggiore rilevanza assunta dagli asset sia reali che finanziari, impone l'approfondimento dei legami che intercorrono tra queste variabili e l’andamento dell’economia; ciò implica da un lato uno sforzo considerevole nella rilevazione di dati, sovente non disponibili – si pensi al settore immobiliare, in cui ci si affida prevalentemente ad operatori privati, le cui modalità di raccolta dei dati non possono tener conto della peculiarità di <bene di pubblico interesse> di queste informazioni – dall’altro l’esigenza di disporre di un maggior numero di ricerche empiriche sulle condizioni che aumentano le probabilità dell’insorgere di crisi finanziarie. Inoltre, se è certamente vero che il ciclo economico ha assunto andamenti più moderati dalla fine della seconda guerra mondiale, ed in particolare nell’ultimo decennio considerato come il più stabile di tutti, pure non si deve tralasciare il fatto che ciò è avvenuto anche grazie ad una serie di fortunate coincidenze, tra cui la diversa fase del ciclo in cui si trovavano agli inizi degli anni ’90 Stati Uniti da un lato (in recessione), Germania (in piena espansione grazie alla riunificazione) e Giappone (ancora in ripresa) dall’altro. Oggi la situazione appare perfettamente rovesciata, con l'Europa contemporaneamente in stasi congiunturale e gli USA che ne sono usciti grazie soprattutto alle spese militari. Inoltre, la minore dispersione dei tassi di sviluppo delle principali economie del mondo e la più elevata correlazione tra i mercati borsistici inducono a ritenere che la volatilità sia destinata ad accrescersi nei prossimi anni, anche come effetto della maggiore globalizzazione29, che aumenta il grado di interdipendenza tra i 29 Il commercio mondiale rappresenta il 25% del Prodotto Lordo Mondiale, raddoppiando la sua incidenza rispetto agli anni ’70. Anche intuitivamente, si comprende come ciò abbia indotto un incremento delle interdipendenze: ad esempio, la diminuzione degli investimenti in IT delle imprese americane ha un immediato effetto recessivo sulle economie dei paesi del sud-est asiatico, esportatori di semiconduttori e di personal 20 Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del XXI secolo? sistemi economici. In tale quadro diviene dunque ancora più critico il controllo dell’andamento degli asset per la più efficace gestione degli squilibri finanziari. computers, e questo a sua volta provoca in tali paesi il successivo rallentamento delle importazioni di altri beni dagli USA. 21 22 DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE PAPERS PUBBLICATI∗: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. Arnaldo CANZIANI, La ricerca nelle scienze sociali: note metodologiche e premetodologiche, novembre 1998. Daniela M. SALVIONI, Controllo di gestione e comunicazione nell’azienda pubblica, aprile 1999. Arnaldo CANZIANI, Giovanni Demaria nei ricordi di un allievo, luglio 1999. Rino FERRATA, Tecnologia e mercato: i criteri di scelta dei metodi di valutazione, luglio 1999. Giuseppe BERTOLI, Salvatore VICARI, L'impresa diversificata come organizzazione che apprende, dicembre 1999. Virna FREDDI, Attività economica e impresa nella concezione economicista, febbraio 2000. 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Arnaldo CANZIANI, La natura economica dell’impresa, giugno 2004. 24 ARTI GRAFICHE APOLLONIO Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Angelo MINAFRA VERSO UN NUOVO PARADIGMA PER LE BANCHE CENTRALI AGLI INIZI DEL XXI SECOLO? Paper numero 33 Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814 e-mail: [email protected] Luglio 2004