Mentre gli italiani tentano di dimenticare almeno per pochi giorni le difficoltà imposte dalla crisi, due dati sembrano destinati ad alimentare nuove preoccupazioni. Il primo è costituito dalla sia pur ancora limitata ripresa dell’inflazione, inferiore nel caso italiano al 2%, ma riemersa nell’ambito di un quadro internazionale in fibrillazione. Da qualche tempo infatti i prezzi del frumento si sono rapidamente impennati, con incrementi vicini al 20% a settimana, dopo l’annuncio del governo russo di bloccare le esportazioni di grano dal 15 agosto al 31 dicembre. Più in generale, in seguito alle dichiarazioni del secondo paese esportatore al mondo di cereali, i prezzi di tutte le commodities, dal caffè, al cacao, allo zucchero, hanno conosciuto una crescita analoga trainate dall’effetto frumento. In un tale contesto è possibile che altri paesi esportatori come Argentina, Australia e Ucraina, decidano di rallentare il loro export per far salire ulteriormente i prezzi ed ottenere una remunerazione più alta dei propri raccolti. Alla luce di ciò risulta difficile pensare che gli Stati Uniti siano nelle condizioni, da soli, con un export di circa 25 milioni di tonnellate, di rassicurare i mercati in termini di approvvigionamento soprattutto se la Cina continua a comprare grano a ritmi frenetici per dotarsi di gigantesche risorse, già pari ad oltre 200 milioni di tonnellate su una produzione annua mondiale di 670 milioni di tonnellate. Dunque è probabile che la speculazione concentri la propria attenzione su frumento e commodities con il pericolo di una fiammata inflazionistica proveniente da tali ambiti, a cui potrebbe affiancarsi un forte rialzo, anch’esso di ordine speculativo, del prezzo dei carburanti ormai stabilmente sopra i 75-80 dollari al barile. Un simile processo potrebbe essere rafforzato proprio dal rischio di debolezza del dollaro dopo l’emergere sempre più chiaro della fatica con la quale l’economia USA tende ad uscire dalla crisi e dopo gli ultimi interventi decisi dalla Federal Reserve di conservare un’ampia liquidità “assistita” mediante l’acquisto di titoli di Stato a stelle e strisce e il mantenimento in portafoglio degli enormi asset immobiliari in scadenza. Il secondo dato che, pur portando con sé aspetti postivi, suscita preoccupazione è rappresentato dal forte rilancio dell’economia tedesca cresciuta tra aprile e giugno del 2,2%, il miglior risultato dalla riunificazione della Germania, destinato a determinare a fine anno una crescita del Pil del 3,5%. Si tratta di una performance impressionante dettata dal forte balzo in avanti delle esportazioni e degli investimenti indirizzati in larga prevalenza verso l’area asiatica, Cina in primis. Su impulso della Germania, tutta l’Europa tende a registrare un dato positivo dell’1% di crescita del Pil, ma ciò non dovrebbe suscitare un eccessivo ottimismo. Come accennato, infatti, il baricentro economico della Germania è sempre meno vicino al Vecchio Continente e l’effetto di trascinamento in termini di importazioni per altri paesi europei sarà limitato dalla pesante manovra di riordino dei conti pubblici, con tagli per quasi 82 miliardi di euro in quattro anni, che potrebbe contrarre i consumi interni dei tedeschi. Nel frattempo, invece la forza della Germania sta trasformando i suoi titoli di Stato in veri e propri beni rifugio, capaci di fare concorrenza a tutti gli altri debiti sovrani, costretti a pagare spread sempre più alti; nel caso italiano le notizie della decisa ripresa tedesca hanno portato i differenziali sui tassi d’interesse subito sopra i 135 punti. Il rischio di un’inflazione scatenata dalla speculazione a breve sulle commodities e la robusta crescita tedesca possono pertanto turbare le vacanze degli italiani perché metteranno in tensione la già fragile politica monetaria della Banca Centrale Europea. L’istituto di Francoforte, molto sensibile alle condotte volte all’austerità, potrebbe essere tentato di mettere mano ai tassi per la duplice paura di un brusco rialzo dei prezzi e di un surriscaldamento tedesco, magari su sollecitazione della stessa Germania, in grado di esportare anche con un euro più forte viste la sua alta produttività e la predilezione per le aree asiatiche. Un aumento, seppur lieve, dei tassi d’interesse provocherebbe un brusco rialzo del costo del credito, l’ultima cosa di cui ha davvero bisogno oggi il sistema economico italiano che cresce assai meno non solo della Germania, ma anche dell’Inghilterra e dalla Francia, come confermano i dati dell’Ocse. Se la ripresa comincia in vari paesi e si pone un argine alle politiche della liquidità facile, l’Italia, in evidente ritardo, corre seri rischi. Per le realtà più fragili e indebitate, già la paura dell’inflazione può fare danni prima ancora che l’inflazione diventi reale, quando gli indebitati avrebbero invece benefici perché pagherebbero meno il loro debito. Alessandro volpi, università di pisa