Cessione del marchio e invalidità contrattuali

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DIND
COMMENTO
GIUR
……
commerciale
Giurisprudenza - Marchi
Merito
Registrazione del marchio
Cessione del marchio
e invalidità contrattuali
Tribunale di Torino, Sez. I, 15 ottobre 2013 – Pres. Scotti – Rel. Vitrò - Esseci s.r.l. c. Stoner s.n.c. (già
Stoner s.s.) ed altri
I. Come il regime di trascrizione delle privative industriali è modellato sul sistema della trascrizione
immobiliare ex art 2643 c.c ., con conseguente applicabilità al primo della giurisprudenza formatasi sul
secondo nel conflitto tra due atti di cessione di marchi, anche l’accertamento e la dichiarazione dell’inesistenza, della simulazione o della nullità dei relativi atti di cessione, nonché la dichiarazione d’inefficacia degli
stessi a seguito di azione revocatoria ex art. 2901 c.c e la conseguente eventuale responsabilità per danni,
sono modellati, in assenza di deroghe specifiche, sulle regole generali disciplinate dal codice civile.
II. L’art 19, comma 2°, c.p.i., in base al quale non può ottenere una valida registrazione per marchio d’impresa
chi abbia fatto la domanda in mala fede, disciplina i limiti relativi all’acquisizione ”ab origine” di una
registrazione di marchio, mentre il diverso caso di trasferimento di diritti di marchio già in essere viene
disciplinato da altre norme, tra cui l’ art. 1478 c.c., che non pone il divieto della vendita di cosa altrui, ma ne fa
derivare determinate e specifiche obbligazioni.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Difforme
Cass.civ.sez.II, 2 Febbraio 2000 n.1131;Cass.civ.sez.II,13 Gennaio 1995 n.383
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini
Il Tribunale (omissis).
1) Con atto di citazione notificato nel dicembre 2008 la Esseci s.r.l. ha convenuto in giudizio le società Sawing
Servicos e Investimentos Lda, con sede in Madeira, e Stoner s.s. di G. C. (poi divenuta Stoner s.n.c.) e il sig. G. C.,
riferendo:
- che con scrittura privata autenticata del 15/7/2003, registrata presso l'Ufficio delle Entrate di Carpi il 13/11/2008,
Esseci ha acquistato da Sawing, al prezzo di euro 77.493,50, i seguenti marchi, relativi alla classe abbigliamento:
. marchio italiano denominativo Gems n. 616204 dell’1/4/1994, rinnovato il 24/9/2004 e registrato il 14/3/2008 con n.
1102079;
. marchio italiano figurativo Gems n. 379959 del 19/10/1979, rinnovato il 14/10/1999 e quindi registrato il 14/2/2003
con n. 883249;
. marchio italiano figurativo Gems n. 427290 del 27/9/1994 rinnovato l’1/7/1994 e registrato il 14/3/2008 al n.
1102080;
. marchio italiano figurativo G Gems n. 773008 del 23/9/1998 registrato il 22/2/1999;
. marchio comunitario figurativo G Gems n. 1434604 del 21/12/1999;
. marchio internazionale denominativo Gems n. 619038 relativo ad Austria, Bulgaria, Ungheria, Portogallo, Russia,
Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Macedonia;
. marchio internazionale figurativo Gems n. 553541, relativo a Svizzera, Germania, Francia e Benelux;
. marchio internazionale figurativo G Gems n. 709448, in relazione a Ungheria, Polonia, Romania, Ucraina,
Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Bielorussia e Moldavia;
-che tali marchi sono stati utilizzati e sono tuttora utilizzati da Esseci nella vendita di prodotti per l'abbigliamento e di
pelletteria;
-che Esseci ha inizialmente omesso di trascrivere presso il registro tenuto dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi il
proprio atto di acquisto;
-che recentemente Esseci è venuta a conoscenza del fatto che la società semplice Stoner di G. C. ha proceduto ad
effettuare una trascrizione a proprio favore e a carico di Sawing in relazione ai predetti marchi;
- che in particolare la cessione del marchio comunitario (reperibile nella banca dati dell’Uami) è avvenuta al prezzo di
euro 150;
- che, più specificatamente, i marchi in esame erano stati richiesti e registrati dalla Gems di C. G., che essi erano stati
ceduti alla Karad snc e poi alla Sawing, che C. G. era socio e amministratore di Gems e di Karad ed era il titolare
dell'impresa individuale Stoner e che le trattative tra Esseci e Sawing (società off-shore con sede in Madeira) erano
state condotte da G., il quale in questo modo dimostrava di essere il dominus dei diritti formalmente intestati a Sawing
e che in tale veste aveva firmato dei documenti preliminari alla cessione dei marchi.
A questo punto l’attrice ha affermato:
- che la seconda cessione dei marchi da Sawing a Stoner è nulla o inesistente per assenza della dualità di venditore e
acquirente (dal momento che G., sostanzialmente dominus di Esseci, ha rivenduto i marchi a società semplice di cui
egli era il titolare), e inoltre perché Sawing e Stoner hanno concluso tale contratto per il motivo illecito comune di
recuperare la titolarità dei marchi;
- che comunque detta cessione è simulata;
- che la nullità, inesistenza o simulazione della seconda cessione dei marchi rendono del tutto inefficace la trascrizione
dell'atto di acquisto a favore di Stoner;
- che comunque l’inefficacia di questa cessione può anche derivare dall'esperimento dell'azione revocatoria ex art.
2901 c.c., perché in caso di doppia vendita seguita dalla trascrizione della sola seconda vendita sussistono i
presupposti per l'esercizio dell'azione pauliana rappresentati dalla sussistenza di un diritto di credito, nascente dalla
violazione della buona fede nell'esecuzione del contratto, dal pregiudizio arrecato dall'atto di disposizione alle ragioni
del creditore e dalla dolosa preordinazione comune al venditore e al secondo acquirente.
L’attrice ha concluso chiedendo:
- l'accertamento dell'inesistenza o simulazione o nullità degli atti della seconda cessione dei marchi;
- in subordine l'inefficacia ex art. 2901 c.c. di tale cessione;
- in ogni caso l'accertamento della titolarità in capo a Esseci di ogni diritto derivante dai titoli di privativa industriale;
- in via ulteriormente subordinata l'accertamento della responsabilità solidale delle parti convenute (in particolare
dell'inadempimento contrattuale da parte di Sawing e della violazione extracontrattuale da parte degli altri due
convenuti) per il danno sofferto da Esseci in dipendenza della inopponibilità della seconda cessione dei marchi e della
conseguente indisponibilità dei relativi segni distintivi (danno consistente nel prezzo pagato per l'acquisto dei marchi,
nel valore attuale dei marchi, nella somma degli investimenti compiuti sugli stessi da parte dell'attrice, nei mancati
futuri guadagni);
- in ogni caso l'accertamento della responsabilità solidale delle parti convenute per i danni sofferti dall'attrice in
conseguenza delle spese affrontate dalla medesima per tutelare i propri interessi in relazione ai marchi.
La convenuta Stoner s.n.c., costituitasi con comparsa dell’8/6/2009, ha contestato le domande dell'attrice, affermando:
- che con atto del 12/12/2006, registrato presso l’Agenzia delle Entrate di Torino il 13/3/2007, la società Sawing ha
trasferito alla società semplice Stoner la proprietà piena ed esclusiva della registrazione comunitaria numero 1434604
per il marchio G Gem e che in data 16/4/2007 la ss Stoner ha depositato presso l’Uibm la domanda di trascrizione dei
marchi italiani sopra indicati;
- che con atto notarile del 2/10/2008 il signor G. ha ceduto tutte le quote della società semplice Stoner ai Sig.ri G. L.
C. e M. B. (con trasformazione della ss in snc in data 19/3/2010);
- che la Stoner successivamente alla cessione e trascrizione suddette ha operato commercialmente utilizzando i
marchi, ponendo in essere iniziative a tutela degli stessi attraverso diffide, nonché attività finalizzate al rinnovo delle
registrazioni;
- che la parte attrice non può vantare alcun diritto nei confronti dei marchi, posto che gli stessi risultano di proprietà
della Stoner in virtù di un atto di cessione anteriormente trascritto;
- che la domanda di dichiarazione di nullità della seconda cessione di marchi è inammissibile, essendo mutata la
compagine sociale della Stoner;
- che l'attrice non ha utilizzato né sfruttato commercialmente i marchi;
- che la cessione dei marchi da Sawing a Stoner è valida ed efficace e che non sono fondati i collegamenti fra Sawing
e G. sostenuti dall'attrice;
- che non sussiste simulazione, dal momento che la vendita in questione era voluta dalle parti;
- che non sussistono neppure i presupposti dell'azione revocatoria, mancando la consapevolezza dell'evento dannoso
da parte del terzo contraente;
- che sono inammissibili e infondate le pretese risarcitorie.
Il convenuto C. G., costituitosi con comparsa del 21/9/2009, ha anch'egli contestato le domande attore affermando:
- che è falso e non provato il presupposto dell'identificazione tra Sawing e G. e che le firme sui documenti prodotti
dall'attrice non appartengono al signor G. (che le disconosce);
- che non sussistono ipotesi di nullità della vendita effettuata da Sawing a Stoner, né di simulazione;
- che non sussistono i presupposti per l'esercizio dell'azione revocatoria, non essendo provato che Sawing abbia con
l'atto di cessione dei marchi intaccato il proprio patrimonio al punto tale da non poter risarcire l'eventuale danno
cagionato, né essendo provata la partecipatio fraudis da parte di Stoner.
La convenuta Sawing è rimasta contumace.
2) Le domande della parte attrice sono solo in parte accolte.
2.1) Innanzi tutto si osserva che la competenza della sezione specializzata in materia di impresa deriva dal fatto che
nella presente causa si controverte sulla proprietà di diritti di privativa industriale (marchi).
2.1.) Venendo ad esaminare le domande avanzate dalla parte attrice, si nota che vanno ritenute infondate quelle da essa
proposte in via principale, cioè quelle tendenti a far dichiarare la nullità della cessione dei marchi da Sawing a Stoner
del 12/12/2006, o la simulazione dell’atto o la sua inefficacia a seguito di revocatoria ex art. 2901 c.c.
2.2.1) In particolare, la convenuta Stoner risulta aver trascritto (nel 2007) l’atto di acquisizione (del 2006) dei marchi
in data anteriore alla trascrizione dell’attrice - che pure aveva acquistato gli stessi marchi nel 2003 -, con conseguente
prevalere della Stoner nel contrasto tra le due trascrizioni (art. 139 CPI: “Nel conflitto tra più acquirenti dello stesso
diritto di proprietà industriale dal medesimo titolare, è preferito chi ha trascritto per primo il suo titolo di acquisto”).
Il regime di trascrizione previsto per le privative industriali è modellato sul sistema della trascrizione immobiliare ex
art. 2643 e ss. c.c. (Corte Appello Milano, 3/10/2003).
E, come per le trascrizioni immobiliari, la prescritta formalità non costituisce elemento della fattispecie acquisitiva del
diritto e non ha influenza sulla sostanza e validità dell’atto di disposizione del diritto di proprietà industriale, ma si
limita a svolgere una funzione di pubblicità dichiarativa, dirimendo i conflitti tra più pretendenti dello stesso diritto
(Corte App. Milano, 3/10/2003; Trib. Torino, 29/3/1996).
Pertanto, nonostante l’anteriorità della trascrizione, si può proporre domanda giudiziale avente ad oggetto l’accertamento della nullità del secondo atto di compravendita (si veda in tal senso l’art. 2652 n. 6 c.c., che disciplina le
modalità di trascrizione della domanda giudiziale suddetta).
Tuttavia, nel merito la domanda di accertamento della nullità della seconda cessione di marchi va respinta.
Si osserva, da un lato, che è infondata la tesi attorea circa l’assenza dell’elemento essenziale della compravendita
costituito dalla presenza di due soggetti distinti (venditore e compratore). Infatti, anche se si dovesse ritenere che il
sig. G., all’epoca della cessione, oltre ad essere il titolare delle quote della società semplice Stoner, fosse anche socio
della Sawing, tuttavia si tratterebbe sempre di due distinti soggetti giuridici (società Sawing e s.s. Stoner), cioè di due
distinti centri di imputazione di situazioni giuridiche.
Va anche escluso che sussista nullità ai sensi degli artt. 1345 e 1418, co. 2, c.c., cioè per illecito motivo comune delle
parti contraenti. In particolare, secondo la giurisprudenza, il motivo illecito che, se comune e determinante, comporta
la nullità del contratto, si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento perché contraria a norma imperativa, ai
principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero perché diretta ad eludere, mediante detta stipulazione, una
norma imperativa (v., per es.: Cass. civ., sez. I, 4/10/2010 n. 20576; Cass. civ., sez. III, 9/7/2009 n. 16130; Cass. civ.,
sez. un., 25/10/1993 n. 10603).
Nel presente caso, il motivo comune che potrebbero avere avuto Sawing e Stoner (cioè quello che a Stoner fossero
venduti marchi che non erano più di proprietà della venditrice Sawing) non corrisponde ad una finalità vietata
dall’ordinamento, dal momento che l’art. 1478, nel disciplinare la vendita di cosa altrui, non ne prescrive il divieto,
ma ne fa derivare l’obbligo del venditore di far acquisire comunque al compratore la proprietà della cosa.
Va altresì escluso che possa sussistere nullità della cessione di marchi per assenza dell’elemento del prezzo (cioè per il
fatto che dovrebbe considerarsi irrisorio il costo di cessione di €. 150, a fronte del prezzo pagato da Esseci per
l’acquisto dei marchi tre anni prima - €. 77.493,50).
Infatti, la pattuizione di un prezzo esiguo non comporta di per sé la nullità del contratto (v., in tal senso, per es., Cass.
civ., sez. II, 28/8/1993 n. 9144), laddove, come nel presente caso, sia evidente la sussistenza dell’effettiva volontà
delle parti (Sawing e Stoner) di addivenire alla cessione dei marchi (come emerge dal fatto che poi il G., titolare delle
quote della Stoner, abbia successivamente, il 2/10/2008, trasferito le stesse ai signori B. e C., cedendo in tal modo ai
medesimi la titolarità dei marchi in esame).
Infine, va anche considerata infondata la tesi dell’attrice (peraltro tardivamente esposta solo nella comparsa
conclusionale), secondo la quale dovrebbe applicarsi al presente caso, per analogia, la prescrizione di cui all’art. 19,
co. 2, CPI (“Non può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede”).
Infatti, l’art. 19 citato disciplina i limiti relativi all’acquisizione, ab origine, di una registrazione di marchio, mentre
nel presente caso è affrontato il diverso tema, contrattuale, del trasferimento di diritti di marchio già in essere, che è
disciplinato da altre norme (tra cui quella, sopra vista, dell’art. 1478 c.c., che non pone il divieto della vendita di cosa
altrui, ma ne fa derivare determinate obbligazioni).
2.2.2) Va anche respinta la domanda di accertamento della simulazione della cessione di marchi da Sawing a Stoner.
Infatti, come sopra visto, le parti volevano senz’altro concludere l’atto di cessione di marchi, dal momento che G. ha
poi provveduto (tramite la cessione delle quote della s.s. Stoner ai sig.ri B. e C.) a trasferire tali valori patrimoniali a
terzi.
Si osserva altresì, fra l’altro, che l’eccezione di simulazione anche del contratto di cessione di quote societarie
suddetto è stata tardivamente proposta dall’attrice nell’atto di citazione, per cui la stessa non viene esaminata.
2.2.3) Va altresì respinta la domanda attorea volta a far dichiarare l’inefficacia ex art. 2901 c.c. degli atti di cessione
marchi da Sawing a Stoner.
Premesso che, come sopra visto, il regime di trascrizione previsto per le privative industriali è modellato sul sistema
della trascrizione immobiliare ex art. 2643 e ss. c.c., con conseguente applicabilità al primo della giurisprudenza
formatasi sul secondo sistema, si osserva che la Suprema Corte ha ritenuto ammissibile l’azione revocatoria
relativamente ad una seconda cessione dei medesimi beni:
- “Nell'ipotesi in cui un immobile venga alienato in tempi successivi a due diversi soggetti dei quali solo il secondo
trascriva il proprio acquisto rendendolo così opponibile al primo, quest'ultimo ha diritto al risarcimento del danno e,
per conservare la garanzia relativa al proprio credito, può esercitare l'azione revocatoria della seconda alienazione;
tuttavia, poiché la seconda alienazione è anteriore al credito da tutelare (che nasce solo con la trascrizione), ai fini
dell'accoglimento della revocatoria non è sufficiente la mera consapevolezza della precedente vendita da parte del
secondo acquirente, ma è necessaria la prova della partecipazione di quest'ultimo alla dolosa preordinazione
dell'alienante, consistente nella specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito” (Cass. civ., sez. II,
02/02/2000, n. 1131);
- “Il primo acquirente, nel caso in cui il secondo acquirente sia a conoscenza della vendita anteriore non trascritta,
può proporre nei confronti di quest'ultimo azione di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e, in caso di dolosa
preordinazione con l'alienante, anche l'azione revocatoria” (Cass. civ., sez. II, 13/01/1995, n. 383).
Si nota, dunque, che a tutela del credito del primo acquirente, sorto a seguito della trascrizione della seconda cessione,
può essere richiesta la dichiarazione dell’inefficacia ex art. 2901 c.c. della seconda alienazione (per mantenere nel
patrimonio del cedente i beni alienati e poter soddisfare su di essi il credito da risarcimento danni).
Tuttavia, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, ai fini dell’accoglimento della revocatoria non è sufficiente
la mera consapevolezza della precedente vendita da parte del secondo acquirente, ma è necessaria la prova della
partecipazione di quest’ultimo alla dolosa preordinazione dell’alienante, consistente nella specifica intenzione di
pregiudicare la garanzia del futuro credito.
Infatti, da un lato si osserva che l'art. 2644, co. 1, c.c., disponendo che "gli atti soggetti a trascrizione non hanno
effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad atto trascritto od
iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi", non distingue tra terzi in buona fede o mala fede, posto
che la funzione fondamentale della trascrizione è quella di dirimere i conflitti tra persone che abbiano acquistato, con
atti distinti, dallo stesso titolare un medesimo diritto o diritti tra loro incompatibili; la trascrizione ha un'efficacia sua
propria per la quale gli atti non trascritti sono considerati ignoti ai terzi (a quei terzi acquirenti in base ad atto già
trascritto o iscritto) e quelli trascritti o iscritti si considerano conosciuti e quindi efficaci nei confronti di ogni terzo.
Ne deriva pertanto che se anche il terzo conosca che il bene o il diritto sul bene è stato già trasferito ad altri, senza che
il relativo atto sia stato ancora trascritto o iscritto, non per questo il suo acquisto, se trascritto o iscritto per primo,
diviene inefficace. La "ratio" di tale normativa va ravvisata nell'esigenza della tutela della certezza della circolazione
dei beni immobili dei mobili registrati, rispetto alla quale la pubblicità immobiliare alla conoscenza effettiva
sostituisce la scienza legale dell'esistenza dell'atto (così dalla motivazione della sentenza Cass. civ. n. 383/1995 su
citata).
Per agire, allora, in revocatoria, è necessario dimostrare non la semplice conoscenza dell’esistenza della prima
vendita, ma anche la dolosa preordinazione su descritta.
Nel presente caso non è stata dimostrata questa dolosa preordinazione da parte di Sawing e di Stoner.
Non vi è infatti prova che la parte Stoner sapesse che il patrimonio della Sawing sarebbe stato incapiente a seguito
della cessione dei marchi, né vi è prova che l’intenzione delle parti, nel procedere alla seconda cessione dei marchi,
fosse specificamente quella di depauperare il patrimonio del cedente, allo scopo di frustrare la sua successiva azione
di risarcimento danni.
L’assenza della dolosa preordinazione emerge anche dal fatto che la parte acquirente ha proceduto alla trascrizione
della seconda cessione non immediatamente, ma a distanza di alcuni mesi (nell’aprile 2007, rispetto alla vendita del
dicembre 2006).
2.3) Va, invece, accolta la domanda subordinata di Esseci di accertamento della responsabilità delle parti convenute
per il danno sofferto dall’attrice a seguito della inopponibilità al secondo acquirente della sua acquisizione dei marchi
(di cui al contratto 15/7/2003 sottoscritto dal legale rappresentante della Sawing. doc. 2 attoreo) e della conseguente
indisponibilità di tali segni da parte dell’attrice stessa.
In particolare, va ritenuta sussistente la responsabilità da parte della Sawing, per inadempimento contrattuale, per
violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, avendo la Sawing tenuto un comportamento
diretto a frustrare il precedente pattuito trasferimento dei marchi, impedendo al primo acquirente la possibilità di
continuare ad essere proprietario di tali marchi e sfruttare i medesimi (si argomenti in tal senso anche, per es., dalla
motivazione della sentenza della Cassazione n. 1131/2000 su citata).
Con tale responsabilità contrattuale concorre la responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., del secondo
acquirente, in particolare della Stoner e del sig. G., che all’epoca dei fatti possedeva le quote di tale società semplice.
Infatti, il sig. G. (come sorto dimostrato), e dunque la Stoner, erano al corrente dell’esistenza della precedente vendita
e, procedendo dunque in mala fede alla trascrizione della seconda vendita, hanno illecitamente causato al primo
acquirente la perdita della possibilità di continuare a far valere i diritti di privativa che aveva acquisito.
Per quanto riguarda, più specificamente, la consapevolezza, da parte di G. C., dell’esistenza della cessione dei marchi
da Sawing ad Esseci, nel 2003, si osserva che va ritenuto provato in causa che sia stato G. a condurre, per conto della
Sawing, le trattative inerenti a tale prima vendita dei marchi.
In particolare, ciò emerge dalle dichiarazioni testimoniali di:
- G. A., impiegato presso il Gruppo Tessile Linea Jersey (facente parte dello stesso gruppo della Esseci), che ha
riferito:
. di aver preso parte a incontri e conversazioni telefoniche tenutasi nel periodo da luglio 2002 al luglio 2003, relativi
alle trattative intercorse per la cessione dei marchi Gems, e di aver partecipato alla redazione dei contratti,
. che la trattativa per conto della Sawing era condotta esclusivamente dal signor G., il quale aveva anche dichiarato di
essere il titolare della società Sawing e di poter disporre del relativo patrimonio;
. di avere inviato al signor G. la corrispondenza di cui al documento 20 attoreo, relativa alle trattative in corso;
- M. V., impiegata amministrativa presso il Gruppo Tessile Linea Jersey S.p.A., che ha riferito:
. di aver compilato e spedito signor G. la corrispondenza di cui al documento 20 attoreo, relativa alle trattative per la
vendita dei marchi da Sawing a Esseci;
- S. F., socio della Esseci srl, che ha confermato la presenza del signor G. durante le trattative in questione.
Né l’attendibilità e corrispondenza a realtà di tali concordi e dettagliate testimonianze possono essere escluse dal fatto
che la CTU grafologica disposta in corso di causa abbia concluso ritenendo non provenienti dal G. le sottoscrizioni
apposte, per conto della Sawing, sui documenti 15 e 19 attorei (costituiti da accordi preliminari intercorsi tra le parti
prima della sottoscrizione, da parte dei legali rappresentanti delle parti, del definito atto di cessione di marchi di cui al
doc. 2 attoreo). Infatti, in primo luogo, la prova diretta costituita dalle su descritte testimonianze non appare poter
essere inficiata dall’esperimento di una prova scientifica quale è la CTU grafologica.
Dall’altro lato, si osserva che la stessa CTU dott.ssa B., ha ritenuto di non poter escludere in modo assoluto che la
firma apposta sul doc. 15 attoreo provenga dal sig. G.
E le conclusioni del CTU circa la sottoscrizione del doc. 19 da parte di G. appaiono contraddette dall’osservazione che
in tale firma risulta omessa la lettera “r” di “C.”, errore che lo stesso G. a volte appare compiere (come emerge
dall’esame del suo saggio grafico, nel quale la “r” a volte, sia pure in rari casi, tende a sparire), che non è verosimile
che un imitatore della firma di G. abbia potuto commettere un tale errore (essendo il suo intento quello di far
assomigliare al firma a quella solita di G.) e che dunque il giudizio circa la falsità della firma in questione non appare
poter essere formulato in termini assoluti.
In ogni caso, come si è sopra detto, al di là dell’avvenuta sottoscrizione o meno, da parte di G., dei documenti
preliminari suddetti, la sua presenza nel corso delle trattative per la cessione dei marchi Gems a Esseci è confermata
dalle citate dichiarazioni testimoniali, la cui attendibilità risulta dal carattere dettagliato e coerente delle stesse, senza
che, fra l’altro, l’appartenenza dei testi G. e M. a società collegata alla parte attrice costituisca prova della falsità delle
loro dichiarazioni.
Pertanto, la consapevolezza da parte di G. dell’esistenza della prima vendita comporta l’addebitabilità ad esso e alla
Stoner (che all’epoca, nella forma di società semplice, apparteneva al medesimo G.) della responsabilità ex art. 2043
c.c.
Né è ammissibile l’eccezione, sollevata dalla convenuta Stoner s.n.c., circa l’inammissibilità della domanda verso la
Stoner, appartenendo fattualmente le sue quote ad altri soggetti.
Infatti, il mutamento della ragione sociale e della proprietà delle quote di una società non comporta il venir meno delle
posizioni attive e passive facenti capo a tale società, che è centro di imputazione di situazioni giuridiche nei confronti
dei terzi, indipendentemente dal mutamento del suo assetto societario.
2.3.3) Per quanto riguarda l’individuazione dei danni subiti dalla parte attrice, va, in primo luogo, esclusa la
restituzione del prezzo pagato dalla Esseci per l’acquisto dei marchi, dal momento che l’attrice ha potuto comunque
sfruttare i marchi per anni, sin dal 2003, come la stessa afferma.
Il danno subito dall’attrice va individuato nel lucro cessante, derivante dalla mancata futura disponibilità dei marchi da
parte sua.
L’attrice ha affermato di aver sfruttato il marchio concedendolo in licenza al Gruppo Tessile Linea Jersey sin dal 2003,
come emerge dal contratto di licenza di cui al doc. 30 attoreo, dalle fatture aventi oggetto le royalties pagate da GTL
dal 2003 al 2009, per totali €. 150.000 (doc. 22 attoreo), e dalle dichiarazioni testimoniali dei testi G. e M., che hanno
confermato che Esseci aveva concesso in licenza i marchi a GTL.
Dal documento 22 predetto risulta il pagamento di royalties nella misura di circa €. 25.000 all’anno.
Pertanto, ipotizzando una possibilità di sfruttamento del marchio per almeno altri 15 anni (anche grazie agli
investimenti e alla promozione pubblicitaria effettuati da Esseci, doc. 34 attoreo), il lucro cessante può essere
individuato nella misura di €. 375.000.
Non viene presa in considerazione l’osservazione dell’attrice circa il calo di fatturato negli anni 2007-2009, trattandosi
di profilo di danno al quale l’attrice ha accennato tardivamente solo nella terza memoria ex art. 183 c.p.c.
Infine il danno subito dall’attrice va individuato altresì (come da essa richiesto) nelle spese da essa affrontate per
tutelare i propri interessi relativamente ai marchi in esame.
Tali spese risultano:
dal doc. 33 attoreo, contenente prospetto indicativo delle ore dedicate dai dipendenti di Esseci alla gestione della
presente vicenda nell’anno 2010 (esame corrispondenza, riunioni con avvocato e consulenti, ricerca documenti, ecc,.),
per totali 93 ore di tempo, con un costo totale di €. 3.028,00;
dalle dichiarazioni dei testi G. e M., che hanno confermato i dati di cui al citato doc. 33 e hanno riferito di aver
eseguito ricerche ed esami anche begli anni 2008 e 2009.
Pertanto, il costo affrontato da Esseci negli anni dal 2008 al 2010 per ricerche ed esami in relazione alla presente
vicenda può essere individuato nella misura di €. 7.000 (calcolando €. 3.000 per il 2010, anno di maggiore intensità
del lavoro effettuato dai dipendenti della Esseci, ed €. 2.000 per ciascuno degli anni anteriori).
Pertanto, il danno subito dall’attrice va individuato nella complessiva somma di €. 382.000, oltre alla rivalutazione
monetaria, ai sensi degli indici Istat, dal 2007 ad oggi e oltre agli interessi, nella misura dello 0,5%, da calcolarsi sulle
somme via via rivalutate.
3) Per quanto riguarda le spese processuali, le parti convenute vanno condannate a rimborsare alla Esseci le stesse in
virtù del principio di soccombenza. La liquidazione è fatta in dispositivo sulla base del Decreto Ministeriale n. 140 del
20/7/2012, contenente il Regolamento per la determinazione dei parametri di liquidazione.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti;
ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa o respinta;
Accerta la responsabilità delle parti convenute Sawing Servicos e Investimentos Lda, Stoner snc e G. C. per il danno
sofferto da Esseci in dipendenza della intervenuta indisponibilità dei marchi sopra indicati e individua la misura di tale
danno nella somma di €. 382.000,00, oltre alla rivalutazione monetaria, ai sensi degli indici Istat, dal 2007 ad oggi e
oltre agli interessi, nella misura dello 0,5%, da calcolarsi sulle somme via via rivalutate;
Respinge le altre domande della parte attrice;
Condanna le parti convenute Stoner snc, G. C. e Sawing Servicos e Investimentos Lda, in solido tra loro, a rimborsare
all’attrice le spese processuali, che liquida nella somma di €. 12.600, di cui €. 12.200 per compensi professionali (di
cui € 3.250 per la fase di studio, € 1.650 per la fase introduttiva,€ 3.250 per la fase istruttoria, € 4.50 per la fase
decisoria) e €. 400,00 per esposti, oltre Iva e Cpa.
Così deciso nella Camera di Consiglio della sezione 1° civile, specializzata in materia di impresa, del Tribunale di
Torino in data 27/9/2013.
IL COMMENTO
di Lorenzo Botti
Con la presente nota, si analizza e si evidenzia l’applicabilità della disciplina generale del nostro codice
civile in tema d’invalidità contrattuali; nonché delle responsabilità connesse, anche alla cessione dei marchi
e delle privative industriali in genere.
Il fatto processuale
Con atto di citazione notificato nel dicembre 2008, la Esseci S.r.l. conveniva in giudizio le società
Sawing Servicos e Investimentos Lda, con sede in Madeira; Stoner s.s., in seguito poi divenuta Stoner
S.n.c.; e il sig. G. C., riferendo che con scrittura privata autenticata del 15/7/2003, registrata presso l’Ufficio
delle Entrate di Carpi il 13/11/2008 Esseci aveva acquistato da Sawing diversi marchi, relativi alla classe
dei prodotti di abbigliamento. Tali marchi erano stati e venivano tuttora utilizzati da Esseci s.r.l nella vendita
di prodotti, relativi appunto all’abbigliamento e alla pelletteria; la società, però, inizialmente ometteva di
trascrivere presso il registro tenuto dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi il proprio atto di acquisto. Esseci
era, inoltre, venuta a conoscenza del fatto che la Stoner aveva proceduto ad effettuare una trascrizione a
proprio favore e a carico di Sawing in relazione ai predetti marchi. In particolare, veniva evidenziata la
cessione dell’unico marchio comunitario compreso fra quelli oggetto dell’acquisto (reperibile nella banca
dati dell’UAMI), avvenuta al prezzo di euro 150, palesemente inferiore al valore effettivo secondo quanto
ritenuto da parte attrice.
I marchi in questione erano stati richiesti e registrati dalla Gems di C. G., successivamente essi erano
stati ceduti alla Karad S.n.c. e infine alla Sawing.
C. G. era socio e amministratore sia di Gems che di Karad nonché di Stoner,ed era colui che aveva
personalmente condotto le trattative tra Esseci e Sawing (quest’ultima società off-shore con sede in
Madeira); dimostrando in questo modo di essere l’effettivo “dominus” dei diritti formalmente intestati alla
Sawing e, infine, che in tale veste aveva firmato dei documenti preliminari alla cessione dei predetti marchi.
A seguito di ciò, parte attrice chiedeva l’accertamento della inesistenza, simulazione o nullità degli atti
della seconda cessione dei marchi e in subordine l’inefficacia ex art.2901 c.c. della stessa; in ogni caso,
l’accertamento della titolarità in capo a Esseci di ogni diritto derivante dai titoli di privativa industriale; e, in
via ulteriormente subordinata, l’accertamento della responsabilità solidale delle parti convenute per il danno
sofferto dalla Esseci, consistente nel prezzo pagato per l’acquisto dei marchi, nel loro valore attuale, nonchè
nella somma degli investimenti compiuti e nei mancati futuri guadagni.
Tutto quanto sopra esposto veniva contestato dalle parti convenute tramite le relative comparse, ad
eccezione della Sawing che rimaneva contumace.
Delle domande attoree, come più analiticamente esporremo in seguito, veniva accolta unicamente la
domanda subordinata di accertamento della responsabilità delle parti convenute per il danno sofferto
dall’attrice.
La trascrizione del marchio; rapporto e analogie con la disciplina generale del codice civile
La sentenza prende in considerazione alcuni aspetti delle problematiche maggiormente dibatutte,da
dottrina e giurisprudenza, in tema di trascrizione, analizzandole all’interno di una fattispecie di diritto
industriale, sottolineando così, ancora una volta, il rapporto da “genus” a “species” che caratterizza la
trascrizione di titoli di proprietà industriale rispetto a quella generalmente regolata dal codice civile.
Esaminando le domande proposte da parte attrice, ed in particolar modo quella tendente a far dichiarare
la nullità della cessione dei marchi da Sawing a Stoner va rilevato che la convenuta risultava aver trascritto
l’atto di cessione dei marchi in data anteriore rispetto all’attrice, che pure aveva acquistato gli stessi nel
2003,con conseguente prevalenza della Stoner nel contrasto tra i due trasferimenti.
Essendo questo uno degli elementi fondamentali sui quali il Tribunale ha basato la sua decisione,
appaiono opportuni alcuni riferimenti alla disciplina della trascrizione regolamentata dal nostro codice
civile e ai suoi rapporti con quella relativa alle privative industriali di cui agli artt. 139 e ss. c.p.i.
La trascrizione è il generale regime di pubblicità e di opponibilità degli atti disciplinato dal nostro codice
civile. Essa si attua a mezzo di pubblici registri e ha principalmente ad oggetto gli atti che costituiscono,
modificano o estinguono diritti reali sui beni immobili e sui beni mobili registrati.
Quale regime di opponibilità, la trascrizione è caratterizzata dai due fondamentali principi della
“dichiaratività” (la trascrizione non ha effetto costitutivo) e della “priorità temporale” (l’atto trascritto per
primo prevale sugli atti trascritti successivamente, anche se questi siano di data anteriore).
Il principio della priorità temporale della trascrizione è espresso nel codice dalle seguenti regole:
a) gli atti soggetti a trascrizione non sono opponibili ai terzi che hanno acquistato diritti in base ad un
atto anteriormente trascritto;
b) a seguito della trascrizione, non può avere effetto contro colui che ha trascritto alcuna trascrizione o
iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l’acquisto risalga a data anteriore.
Oltre che come regime di opponibilità, la trascrizione può essere intesa come requisito di opponibilità
dell’atto; in tal senso essa è l’operazione eseguita dalle conservatorie dei registri immobiliari e mobiliari.
Il regime della trascrizione si realizza attraverso un servizio pubblico, quello delle conservatorie, che
provvedono alla trascrizione e alla pubblicità degli atti; i pubblici registri consentono infatti a chiunque di
avere conoscenza degli atti trascritti. Tale funzione è strumentale rispetto all’interesse generale della
sicurezza della circolazione dei beni, evitando all’acquirente l’insidia di precedenti atti occulti di disposizione.
La funzione di pubblicità che viene realizzata attraverso l’istituto della trascrizione è strettamente
connessa, ma distinta, rispetto alla funzione primaria dell’opponibilità dell’atto. In relazione a questa
funzione la trascrizione è onere esclusivo.Essa, infatti, non ha equipollenti nel nostro sistema giuridico, né
può essere sostituita dalla conoscenza in concreto dell’atto; l’atto non trascritto è infatti inopponibile al
terzo trascrivente anche se quest’ultimo ne abbia avuto conoscenza certa.
D’altra parte, la conoscibilità dell’atto trascritto non comporta una presunzione di conoscenza dell’atto
stesso; la buona o mala fede dell’acquirente rimane, quindi, oggetto di prova secondo le regole comuni.
Le vicende relative al marchio registrato sono sottoposte ad un regime di trascrizione per alcuni aspetti
analogo a quello espressamente disciplinato dal codice civile. In particolare, l’art. 138 c.p.i. detta una
disciplina comune per tutti i diritti di proprietà industriale che si acquistano mediante registrazione o
brevettazione, e dispone che devono essere trascritti presso l’Ufficio Italiano marchi e brevetti gli atti fra
vivi che trasferiscono in tutto o in parte i diritti sui marchi registrati; quelli che costituiscono, modificano o
trasferiscono diritti personali o reali di godimento, privilegi speciali o diritti di garanzia; nonché gli atti di
divisione, di società, di transazione, e di rinuncia relativi ai diritti prima menzionati; e anche le sentenze che
dichiarino l’esistenza di quegli atti quando essi non siano stati precedentemente trascritti.
Possono essere trascritte anche le domande giudiziali dirette ad ottenere le sentenze di cui abbiamo detto;
inoltre, devono essere trascritti i verbali di pignoramento, di aggiudicazione conseguenti a vendita forzata e
di sospensione della vendita di parte dei marchi pignorati per essere restituiti al debitore; nonché i decreti di
espropriazione per pubblica utilità, i testamenti e gli atti che provano l’avvenuta successione legittima sui
marchi e le sentenze relative; le sentenze di rivendicazione e le relative domande giudiziali ed infine le
sentenze che dispongono la conversione del marchio nullo e le relative domande.
Diverso dal concetto di forma, che è il modo di estrinsecazione della volontà interna del soggetto, è il
concetto di pubblicità della manifestazione medesima.
Con tale espressione si fa riferimento ai particolari procedimenti con i quali si vuole rendere conoscibile
ai terzi l’esistenza di alcuni fatti, di situazioni giuridicamente rilevanti, ovvero il contenuto di negozi o atti
giuridici. Come è stato osservato, in molti casi e per alcuni effetti non è sufficiente la forma, non essendo
sufficiente che la dichiarazione sia ripetibile, ma è necessario che essa sia resa pubblica con mezzi
determinati.
Nella circolazione dei beni vanno tutelati la buona fede e l’affidamento dei soggetti, i quali hanno
bisogno di alcuni criteri precisi per assicurarsi sia di acquistare il bene da chi sia titolare del diritto, sia di
salvare l’acquisto effettuato contro altre alienazioni o altri atti di disposizione che lo stesso dante causa
avesse a compiere.
La trascrizione ha come sua funzione principale la risoluzione dell’eventuale conflitto tra due aventi
diritto da un comune dante causa, mediante il sistema dell’inopponibilità degli atti non trascritti, o trascritti
posteriormente.
Anche nell’ambito della circolazione del marchio la trascrizione ha gli effetti tipici di questo istituto.
Quindi, l’art. 138 c.p.i. razionalizza la disciplina della trascrizione ed uniforma espressamente l’elenco dei
titoli trascrivibili. Il sistema di trascrizione previsto per le privative industriali è modellato su quello
generale dell’art. 2643 c.c., e questa analogia strutturale giustifica l’applicazione dei principi e delle regole
propri del sistema delineato dal codice civile a quello speciale di cui si tratta.
La trascrizione degli atti menzionati dall’art. 138 c.p.i. neppure costituisce un elemento della fattispecie
acquisitiva dei diritti di proprietà industriale; ha infatti funzione di pubblicità meramente dichiarativa e non
costitutiva, poiché si limita a rendere opponibile ai terzi l’atto trascritto o il fatto cui si riferisce, senza
incidere sulla validità dell’atto di cessione.
Pertanto, la trascrizione risulta essere principalmente uno strumento destinato a dirimere i conflitti fra
più acquirenti dello stesso titolo di proprietà industriale, aventi causa dal medesimo alienante: in base
all’art. 139 c.p.i. comma 2° fra di essi è infatti preferito chi ha trascritto per primo il proprio titolo di
acquisto.
Il sistema di trascrizione di cui all’art. 138 c.p.i. svolge per alcuni atti una funzione ulteriore e differente
rispetto a quella di pubblicità dichiarativa: i testamenti e gli atti che provano l’avvenuta successione
legittima e le sentenze relative sono trascritti al solo scopo di documentare la continuità dei trasferimenti; la
trascrizione delle domande giudiziali e del verbale di pignoramento, oltre ad una generica funzione di
segnalazione dell’indisponibilità del titolo, o dell’esistenza di contestazioni su di esso ha l’effetto di
sospendere l’efficacia delle ulteriori trascrizioni finché non sia stato posto rimedio allo stato d’incertezza
riguardo alla titolarità del diritto e a quello d’indisponibilità creato dal pignoramento.
Infine, dobbiamo ricordare come la trascrizione di alcune sentenze dichiarative dell’esistenza di atti o
fatti giudici non trascritti, nonché le sentenze di esecuzione in forma specifica di cui all’art. 2932 c.c.,
possano avere funzione sostitutiva di specifici atti negoziali.
La nullità e l’inesistenza nella disciplina dei contratti
Poiché, come si è visto, il regime della trascrizione previsto per le privative industriali non costituisce
elemento della fattispecie acquisitiva del diritto né ha influenza sulla sostanza e validità dell’atto di
disposizione, limitandosi a svolgere una funzione di pubblicità dichiarativa, nonostante l’anteriorità della
trascrizione si può proporre domanda giudiziale avente ad oggetto l’accertamento della nullità del secondo
atto di compravendita.
A quest’ultimo riguardo merita di essere sottolineato che, contrariamente all’opinione che individua
l’essenza della nullità del negozio nella sua anormalità, la dottrina dominante ravvisa, invece, nella
mancanza o nella anomalia di qualche elemento intrinseco, tale da non consentire la rispondenza alla figura
tipica individuata dall’ordinamento, la peculiarità fondamentale di questa fattispecie.
E’ comunque incontestato che conseguenze della nullità sono, in linea generale, la mancanza di validità e
la mancanza di effetti del contratto: conseguenze, queste, che possono essere considerate come una reazione
dell’ordinamento alla particolare situazione patologica del negozio.
Particolarmente rilevante risulta essere la distinzione tra nullità e incompiutezza del negozio.
Quest’ultima, infatti, s’identifica in un arresto del procedimento di formazione del negozio che, pertanto,
si palesa incompleto, cioè in attesa di qualche elemento essenziale, trovandosi in una situazione di
provvisorietà. Il contratto incompleto, dunque, non produce effetti, ma tale inefficacia è provvisoria, in
quanto esso potrà perfezionarsi in un momento successivo in cui avrà la sua piena efficacia.
Il contratto nullo, al contrario, si palesa all’esterno come una fattispecie completa di tutti i suoi elementi,
solo che qualcuno di tali elementi è inficiato da un vizio così grave che lo rende irrimediabilmente inidoneo
a produrre effetti.
E’ opinione concorde, comunque, che la nullità costituisca la forma più grave, nonché più diffusa,
d’invalidità. Partendo dal presupposto che l’atto negoziale tende a realizzare le esigenze dell’autonomia
privata, tutelando i contraenti, purchè non si deroghi ai principi generali di certezza giuridica, la nullità
appare lo strumento con cui la legge nega fondamento a quelle manifestazioni di volontà attraverso le quali
si realizza un contrasto tra lo schema legale e gli interessi generali dell’ordinamento.
Pertanto, la nullità costituisce un indice del giudizio di meritevolezza degli interessi programmati dalle
parti rispetto ai fini della comunità. Di conseguenza, attraverso la sanzione della nullità, l’ordinamento nega
tutela a programmazioni che non rispondono ai valori fondamentali, non riconoscendo fin dall’inizio alcun
effetto al negozio posto in essere.
Si distingue ancora tra nullità testuale e nullità virtuale. La prima è quella che viene prevista da
un’apposita norma di legge, per un apposito vizio e, in base al 3° comma dell’art. 1418 c.c., questa tipologia
costituisce la regola.
La nullità virtuale (la cui ammissibilità è discussa), non è invece prevista espressamente da alcuna norma
di legge, ma si ricava tuttavia dal sistema, in quanto consiste, comunque, nella contrarietà ad una norma
imperativa.
Ancora, la nullità può distinguersi in totale o parziale a seconda che investa il negozio nella sua totalità o
riguardi, invece, una o più disposizioni particolari, ossia una parte di esso, se non addirittura solo una
clausola come indicato nell’art. 1419 c.c.
Altra distinzione, poi, è tra nullità assoluta e relativa: la prima opera “erga omnes” e può essere fatta
valere non solo dalle parti, ma anche dal giudice d’ufficio e da qualunque terzo che abbia interesse a farla
dichiarare, mentre la seconda può essere fatta valere solo da determinati soggetti anche se, una volta
dichiarata, essa opera come la prima “erga omnes”.
Ultima distinzione che si è soliti fare in tema di nullità è quella tra nullità originaria o sopravvenuta, a
seconda che la causa di essa si trovi nell’atto fin dall’origine o dipenda da una circostanza sorta successivamente al formarsi dell’atto secondo lo schema normativo predefinito, facendogli così perdere un requisito
essenziale.
L’art. 1418, 2° comma, c.c., dispone che producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti
indicati dall’art. 1325 c.c., l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 c.c. e
la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 c.c.
Produce, dunque, la nullità del contratto, innanzitutto la mancanza di uno dei suoi requisiti essenziali:
accordo, causa, oggetto e forma, quando appunto sia prescritta a pena di nullità.
Per quanto riguarda la carenza dell’elemento causale, in particolare, vi può essere una mancanza
originaria (totale o parziale) della causa, nonché una mancanza sopravvenuta della stessa.
Il contratto, inoltre, è nullo qualora la sua causa sia illecita, ossia contraria a norme imperative, all’ordine
pubblico o al buon costume. Occorre ricordare però che emergono profili di maggiore elasticità qualora la
nullità derivi solo da contrasto con l’ordine pubblico o il buon costume: si tratta infatti di regole che
impongono sempre un’individuazione storica e spaziale dei criteri idonei a fissarne l’ambito e il significato
preciso, a differenza delle norme imperative che costituiscono un sistema rigido.
Tuttora contestata è la figura giuridica, pur ammessa dalla dottrina prevalente, del negozio inesistente. Si
tratta di un negozio che, pur esistendo in fatto, è inficiato da un vizio talmente grave e radicale rispetto a
quello generale di nullità che impedisce la stessa possibilità di identificare il contratto come tale.
E’ stato giustamente osservato che il negozio inesistente non implica alcun fenomeno d’identificazione
giuridica, a differenza della fattispecie nulla che è giuridicamente qualificata dall’art. 1418 c.c., seppur
negativamente, per le conseguenze che produce in termini di restituzione e risarcimento del danno.
Tipico esempio di negozio inesistente è, oltre al matrimonio tra persone dello stesso sesso, il testamento
orale; bisogna infine distinguere dalla figura in esame, cioè l’inesistenza giuridica, l’inesistenza materiale,
che si ha quando le parti non hanno compiuto l’attività che falsamente assumono di aver eseguito, ovvero
quando il negozio non è ancora esistente perché in via di formazione (si pensi alla proposta non ancora
seguita dall’accettazione).
Tornando al caso di specie, la domanda di accertamento della nullità della seconda cessione veniva
respinta dal Tribunale ritenendo infondata la tesi di parte attrice circa l’assenza dell’elemento essenziale
della compravendita costituito dalla presenza di due soggetti distinti.
Infatti, anche se si ritenesse che il sig. G. all’epoca della cessione, oltre ad esercitare un’influenza
pressoché dominante nella Stoner, fosse stato anche sostanzialmente “dominus” della Sawing, tuttavia si
tratterebbe sempre di due differenti soggetti ciascuno con un proprio centro d’imputazione di situazioni
giuridiche
Per molti anni, una considerevole parte della dottrina e della giurisprudenza,muovendo dal presupposto
che il legislatore del 1942 avesse inteso distinguere, sul piano della soggettività e della personalità, le
società di persone da quelle di capitali, riconoscendo solo a queste ultime la soggettività e la personalità, ha
inteso ravvisare nelle prime delle “comunioni qualificate”; a sostegno di questa tesi militavano i dati
letterali di cui agli articoli 2331 e 2498 c. c. nel testo anteriore alla riforma del 2003, nonché la formulazione del secondo comma dell’art. 19 c.p.c. In particolare, il citato art.2498, rubricato “trasformazione in
società aventi personalità giuridica”, nel disciplinare la trasformazione delle società commerciali di persone
in società di capitali, al terzo comma così disponeva: “La società acquista personalità giuridica con
l’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese e conserva i diritti e gli obblighi anteriori alla
trasformazione”.
Una parziale apertura all’affermazione della soggettività alle società di persone si è avuta anche per
merito di un’autorevole dottrina la quale, nel compiere un’analisi dei soggetti collettivi sprovvisti di
personalità giuridica, ha osservato che l’ordinamento, anche a prescindere dal riconoscimento, attribuisce
un autonomo rilievo all’operato dei consociati. Essi, infatti, ponendo in essere un’organizzazione dotata dei
caratteri dell’unità e dell’autonomia, realizzano l’effetto di immettere nella realtà giuridica un nuovo
soggetto.
La nascita di questi enti, sebbene privi dell’autonomia patrimoniale perfetta, assicurata solo dal
riconoscimento, non è ignorata dall’ordinamento giuridico che, anzi, indirettamente li legittima attraverso
forme di tutela sia nei rapporti interni, sia nei rapporti esterni verso i terzi creditori, con l’evidente
conseguenza, in tale ultimo caso, di un aggravio di responsabilità patrimoniale per i loro componenti; per
designare l’accennato fenomeno è stata utilizzata la locuzione “personalità giuridica attenuata”. A questa
teoria si è obiettato che il legislatore non compie una graduazione nell’ambito della soggettività fra gli enti
che abbiano ottenuto il riconoscimento e quelli che non lo abbiano ottenuto; pertanto questi ultimi non
possiedono una soggettività di grado inferiore rispetto a quella degli enti dotati di personalità
giuridica,come invece la sopraccennata teoria nella sostanza afferma.
Altri autorie un’ampia corrente giurisprudenziale, pur ammettendo che l’intenzione del legislatore del
1942 fosse quella di limitare il riconoscimento della personalità alle società di capitali, hanno escluso che
quella intenzione si sia tradotta in norma giuridica. Si è affermato,infatti, che l’ordinamento, qualificando
normativamente una situazione di fatto come persona in senso giuridico, compie un “riconoscimento” (inte-
so in senso formale). Tale riconoscimento può essere esplicito o implicito in quanto desumibile indirettamente dal modo in cui l’ordinamento medesimo considera una data fattispecie nel sistema dei fenomeni
giuridici; questo implicito riconoscimento normativo è riscontrabile in alcuni articoli del codice civile:
2266, 2295 n. 4, 2292, 2314, 2286, 3°comma, i quali considerano le società in discorso come autonomi
centri d’imputazione d’interessi.
La teoria in parola è stata ulteriormente sviluppata, distinguendosi tra soggettività giuridica e personalità
giuridica; la prima indica in definitiva, la capacità giuridica, vale a dire l’attitudine alla titolarità di poteri e
doveri giuridici; la seconda equivale invece all’autonomia patrimoniale perfetta. In altri termini, le società
di capitali sono soggetti di diritto con personalità giuridica perché la responsabilità riguarda solo il
patrimonio dell’ente; le società di persone, invece, sono soggetti di diritto senza personalità giuridica,
perché esiste la responsabilità illimitata dei soci.
Tale distinzione ha avuto anche il supporto della giurisprudenza della Cassazione,la quale ha affermato
che le società di persone, e in particolare quelle in nome collettivo, pur non avendo personalità giuridica ma
soltanto un’autonomia patrimoniale, sia pure imperfetta, costituiscono pur sempre un centro d’imputazione
di situazioni soggettive in funzione del quale è possibile l’instaurazione di rapporti giuridici distinti tra
società e terzi e persino tra società e soci.
Ulteriore supporto alle affermazioni della dottrina e della giurisprudenza è giunto dalla legge 27 febbraio
1985, n. 52, la quale, modificando il testo dell’art 2659 c.c., ha tra l’altro stabilito che la trascrizione di un
atto tra vivi debba essere fatta a favore non dei singoli soci, bensì delle società di persone, che perciò sono
soggetti di diritto, con l’unica peculiarità per le società semplici dell’indicazione “anche delle generalità
delle persone che le rappresentano secondo l’atto costitutivo”. Nello stesso senso può essere letto l’art. 2839
c.c., che sotto la rubrica ”Formalità per l’iscrizione dell’ipoteca”, al 2° comma n. 1, stabilisce: “La nota
deve indicare … la denominazione o la ragione sociale, la sede e il numero di codice fiscale delle persone
giuridiche, delle società previste dai capi II, III, e IV del titolo V del libro V e delle associazioni non
riconosciute, con l’indicazione, per quest’ultime e per le società semplici, anche delle generalità delle
persone che le rappresentano secondo l’atto costitutivo”.
Va inoltre escluso che sussista nullità, ai sensi degli artt. 1345 e 1418 comma 2° c.c., cioè per illecito
motivo comune delle parti contraenti.
In particolare, secondo la giurisprudenza, il motivo illecito che, se comune e determinante, comporta la
nullità del contratto, si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento perché contraria a norme
imperative, ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero perché diretta ad eludere, mediante
la stipulazione, una norma imperativa.
Nel presente caso, il motivo comune che potrebbero avere avuto sia la Sawing che la Stoner, cioè quello
di attuare la cessione alla Stoner di marchi che non erano di proprietà della Sawing, non corrisponde ad una
finalità vietata dall’ordinamento, come sottolineato dal Tribunale di Torino, il quale, attraverso un’interpretazione analogica dell’art 1478 c.c., ha qualificato tale operazione come vendita di cosa altrui.
L’attuale legislazione ammette espressamente la vendita di cosa altrui, in tale modo eliminando il
contrasto tra il codice del 1865, che ne stabiliva la nullità, e quello di commercio del1882 che invece la
considerava valida. Stabilisce, infatti, l’art 1478 c.c. che: “se al momento del contratto la cosa venduta non
era di proprietà del venditore, questi è obbligato a procurarne l’acquisto al compratore, quest’ultimo ne
diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa”.
In questa ipotesi, il compratore non potrà evidentemente lamentarsi per il fatto che la cosa non era, al
momento del contratto, di proprietà del venditore. Solo qualora quest’ultimo non adempia all’obbligo di
fargliela acquistare nei termini stabiliti, potrà, secondo i principi generali di cui all’art 1453 c.c., agire per la
risoluzione del contratto e il risarcimento dei danni.
Anche la successiva domanda dell’attore, secondo il quale si sarebbe dovuto applicare al presente caso,
per analogia, la disposizione di cui all’art 19 c.p.i., comma 2° (in base alla quale non può ottenere una
valida registrazione per marchio d’impresa “chi abbia fatto la domanda in mala fede” - determinante
anch’essa una nullità, ai sensi dell’art 25 c.p.i - e che in relazione all’argomento dei soggetti che possono
ottenere la registrazione subordina la validità della registrazione stessa ad una condizione specifica che li
concerne) è stata respinta dal Tribunale.
Il fatto che le ipotesi più tipiche nelle quali la malafede può sussistere, e precisamente le ipotesi di
marchio notoriamente conosciuto di cui all’art.6-bis della Convenzione d’Unione cui si riferisce esplicita-
mente l’art.12 comma 1° a) c.p.i., e l’ipotesi dei segni notori di cui all’art. 8 comma 3° c.p.i., siano state
prospettate dal legislatore come autonome cause di nullità del marchio, fa si che per questa causa ulteriore,
vale a dire per la registrazione in malafede, non rimanga molto spazio. E’ difficile, infatti, immaginare per la
malafede ipotesi diverse da quella della conoscenza di legittime aspettative altrui sul marchio di cui si
chiede la registrazione, o più in generale della dipendenza del valore che il marchio presenti dal merito di
altri. Ed in questa prospettiva, quando si sia stabilito che è invalida la registrazione di un marchio quando
sia noto nel nostro Paese pur non essendovi stato usato a seguito dell’uso intenso di cui sia stato oggetto
all’estero (art 12 comma 1°c.p.i.), e che del pari invalida è la registrazione di un segno notorio da parte di
chi non abbia il merito della notorietà di esso (art 8 comma 3° c.p.i.), per l’appunto non si vede quali altri
casi di malafede possano ipotizzarsi. Si può pensare probabilmente all’eventualità prevista dall’art 6-septies
della Convenzione d’Unione, che concerne la registrazione del marchio da parte dell’agente o del
rappresentante del titolare di esso, ed in cui la malafede pare rappresentata dall’assenza di cause di
giustificazione di questo comportamento; ed ancora si può pensare a situazioni in qualche modo omogenee
a quelle di cui abbiamo parlato, come ad esempio l’ipotesi di una notorietà (estera o nazionale) non ancora
pienamente conseguita ma “in itinere”.
La malafede nella registrazione del marchio, quale autonoma causa di nullità, rileva quando la registrazione intervenga precedendo nel tempo chi sta già ponendo in essere un’attività preparatoria alla
registrazione dello stesso marchio non ancora sfociata nella costituzione di un diritto sul segno, e si
manifesta ad esempio quando il depositante sia a conoscenza dell’attività del terzo, oppure abbia abusato di
rapporti di collaborazione o di fiducia, ovvero abbia registrato un marchio la cui notorietà era in via di
formazione
Pertanto, l’art 19 c.p.i. citato va interpretato come un limite relativo ad un’acquisizione “ab origine” di
una registrazione di marchio, mentre nel presente caso viene affrontato il diverso tema del trasferimento
contrattuale di un marchio già in essere, fattispecie disciplinata da altre norme, tra cui appunto quella sopra
vista dell’art 1478 c.c., che non pone il divieto della vendita di cosa altrui, ma ne fa derivare determinate e
specifiche obbligazioni.
La simulazione
Analogamente a quanto ritenuto in merito alla domanda di accertamento della nullità della seconda
cessione delle privative industriali, anche la domanda di accertamento della simulazione, relativa al
medesimo atto, è stata respinta.
Il fenomeno della simulazione si configura quando le parti, d’accordo tra loro, dichiarano di porre in
essere un negozio, ma in realtà non vogliono che se ne producano gli effetti.
La simulazione può essere assoluta, se le parti fingono di stipulare un negozio ma in realtà non ne
vogliono nessuno (si fa l’esempio di colui che, per sfuggire al pignoramento di un suo bene da parte di un
creditore, vende il bene ad un amico solo fittiziamente); ovvero relativa, quando le parti fingono di porre in
essere un negozio ma ne vogliono uno diverso (come nel caso in cui un genitore, per agevolare uno soltanto
dei suoi figli, al fine di evitargli un’eventuale azione di riduzione da parte degli altri finge di vendergli un
appartamento, mentre invece glielo dona).
La dottrina italiana si è largamente occupata dell’istituto della simulazione, ma non si può dire che essa
abbia trovato, almeno sul piano dogmatico, un indirizzo concorde e, infatti, anche la sua natura giuridica è
tuttora al centro di vivi contrasti.
Il fenomeno simulatorio comprende elementi necessari per ogni tipo di simulazione (come la pluralità di
soggetti e l’accordo simulatorio) ed elementi non necessari, ma rilevanti solo ai fini della prova (come la
controdichiarazione e la “causa simulandi”). I soggetti della simulazione devono essere almeno due: i
contraenti se si tratta di contratto; il dichiarante e chi deve ricevere la dichiarazione, se si tratta di negozi
giuridici unilaterali recettizi. La simulazione non è configurabile per i negozi unilaterali non recettizi. Nella
c.d. interposizione fittizia di persona, poi, oltre ai veri contraenti è necessaria la partecipazione all’accordo
simulatorio di un terzo soggetto: la c.d. persona interposta.
Ai soggetti della simulazione si contrappone la figura del terzo, il quale resta estraneo al negozio
simulato in quanto non concorre alla sua formazione, anche se è tutelato in vario modo dall’ordinamento.
La dottrina definisce l’accordo simulatorio come la convenzione nella quale le parti del procedimento
simulatorio manifestano la loro specifica volontà di dar vita alla simulazione. Essa, perciò, deve cronologi-
camente preesistere o quanto meno coesistere con il contratto. Elemento costitutivo dell’accordo è l’intesa
di tutte le parti del negozio nel dichiarare un assetto dei propri interessi che non corrisponde a quello
realmente voluto; tale intesa, infatti, vale a distinguere il fenomeno simulatorio dall’errore ostativo, che
configura un’ipotesi di divergenza involontaria tra il voluto e il dichiarato e che, in presenza di determinati
requisiti, può condurre all’annullamento del negozio; essa vale, inoltre, a distinguere il fenomeno
simulatorio anche e soprattutto dalla riserva mentale, che si ha quando tale divergenza, pur essendo
volontaria, resta confinata nella sfera psicologica interna di un solo dei contraenti, non manifestandosi
anche all’altro e non producendo, pertanto, alcuna conseguenza negativa per il negozio, che resta valido ed
efficace tra le parti e nei confronti dei terzi.
Si discute se l’accordo simulatorio consista in una semplice dichiarazione di scienza ovvero abbia natura
negoziale. Sembra preferibile la seconda opinione, sostenuta soprattutto in dottrina. Più precisamente, si
tratta di un contratto, dal momento che, per la sua esistenza, si richiede l’intesa di tutte le parti del negozio
simulato. Inoltre, l’ accordo produce effetti giuridici che consistono, appunto, nel negare completamente il
contratto simulato in caso di simulazione assoluta, ovvero nel determinare il diverso contenuto realmente
voluto nell’ipotesi di simulazione relativa.
La relazione tra l’accordo simulatorio e la materia su cui esso incide (vale a dire il contratto soltanto
simulato ovvero quest’ultimo e quello dissimulato) è una relazione di autonomia. L’accordo, cioè, è esterno
ai contratti che intercorrono fra le parti, ma toglie loro quel significato che, senza la simulazione, essi
avrebbero. Infatti, una volta svelato l’accordo simulatorio, l’elemento discrepante, se trattasi di simulazione
assoluta, viene eliminato (per esempio, il falso corrispettivo; se trattasi di simulazione relativa). Invece, esso
viene sostituito in conformità dell’accordo (causa dissimulata o soggetto dissimulato che subentrano alla
causa affermata o alle persone interposte). Ciò avviene mediante un procedimento d’interpretazione
correttiva cui è sottoposta la dichiarazione; quest’ultima, infatti, va interpretata alla luce e in base all’intesa
simulatoria, quasi come se fosse resa con un linguaggio convenzionale, il cui significato nascosto viene,
poi, reso palese da un’apposita convenzione interpretativa.
In altri termini il contratto simulato è quello stesso contratto che si avrebbe senza simulazione, ma
dall’esterno l’interpretazione imposta dall’accordo simulatorio o gli toglie ogni valore o gli dà un valore
completamente diverso. Ad esempio se io dono un bene a Tizio, simulando una vendita, quest’ultima viene
dall’accordo simulatorio interpretata nel suo reale significato, vale a dire di donazione.
La controdichiarazione indica l’atto con cui i soggetti del negozio rendono palese l’esistenza della
simulazione. La controdichiarazione, pur riproducendo il contenuto dell’accordo simulatorio, non coincide
con esso, tanto è vero che può essere redatta in epoca successiva.
La sua funzione è essenzialmente probatoria e può acquistare natura di confessione (art. 2730 c.c.), che
fa prova contro chi la rilascia, anche se successiva alla stipula del contratto. Anche se non necessaria, la
controdichiarazione viene spesso redatta per provare la simulazione di contratti conclusi per iscritto perché,
secondo una pacifica interpretazione giurisprudenziale, l’accordo simulatorio viene considerato come un
patto aggiunto o contrario al contenuto del documento e, quindi, compreso nel divieto di prova testimoniale
sancito dall’art. 2722 c.c..
La cosiddetta “causa simulandi” è la ragione che induce le parti a simulare, vale a dire a far apparire un
negozio che non esiste o a travestire un negozio sotto forma diversa. Essa può essere la più varia perché,
attraverso il fenomeno simulatorio, le parti possono eludere un’aspettativa di mero fatto, o giuridica, un
vero e proprio diritto di altri soggetti o, infine, un divieto oggettivo della legge, ovvero possono stabilire la
premessa per la creazione di un’aspettativa o di un diritto di terzi.
La “causa simulandi”, perciò, rappresenta soltanto un motivo e, come tale, non costituisce un elemento
necessario del processo simulatorio e del negozio che ne scaturisce; di conseguenza, il suo accertamento è
irrilevante al fine di dichiarare simulato il negozio giuridico.
Esposti gli elementi e le caratteristiche fondamentali del fenomeno simulatorio, possiamo notare come
non emerga in alcun modo, nella condotta tenuta dalle parti, un intento che palesi una volontà tendente a
concludere in realtà un contratto diverso o ad attribuire delle caratteristiche differenti a quello posto in
essere. Quindi, chiara e indiscutibile risulta essere l’intenzione delle stesse di concludere l’atto di cessione
effettivamente stipulato. Tutto ciò risulta ulteriormente avvalorato dal fatto che si è provveduto, in un
secondo momento, tramite la cessione delle quote della Stoner, a trasferire il marchio a terzi.
Da non dimenticare poi che nessuna controdichiarazione, elemento fondamentale per poter configurare
la fattispecie simulatoria, risultava emergere dal comportamento tenuto dai soggetti interessati nella
questione.
L’azione revocatoria ex art. 2901 c.c.
Concentriamo ora la nostra attenzione sul punto senza dubbio più rilevante dell’intera vicenda, vale a
dire la richiesta di far dichiarare l’inefficacia ex art. 2901 c.c degli atti di cessione dei marchi dalla Sawing
lda alla Stoner s.n.c., relativamente alla quale il Tribunale torinese, ancora una volta, decideva in maniera
negativa
L’esercizio dell’azione revocatoria, regolata dall’art. 2901 c.c., consente al creditore, anche se il credito è
soggetto a condizione o a termine, di domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di
disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, purchè ricorrano le
condizioni previste dall’articolo stesso.
La dottrina è solita distinguere i presupporti soggettivi dell’azione da quelli oggettivi.
Fra i primi vanno annoverati, senza dubbio, l’esistenza del credito; un atto di disposizione del
patrimonio, compiuto da meno di cinque anni; il pregiudizio patrimoniale derivante dall’atto posto in
essere; e il nesso di causalità tra l’atto dispositivo e il pregiudizio.
Prendiamoli in esame singolarmente. L’art. 2901 c.c. condiziona l’esercizio dell’azione revocatoria
ordinaria alla sussistenza in capo all’attore di un credito, che quindi costituisce il primo requisito oggettivo
necessario per poter procedere giudizialmente. Non è necessario che il credito sia liquido, ossia determinato
nel suo preciso ammontare, né tanto meno che sia certo ed esigibile, dal momento che è possibile agire in
revocatoria anche per la tutela di un credito soggetto a condizione o a termine.
Il secondo dei presupposti che occorre prendere in considerazione è l’atto di disposizione, individuato
nel negozio con cui il debitore reca pregiudizio alle ragioni del creditore. Si tratta di atti negoziali in forza
dei quali il debitore modifica la sua situazione patrimoniale, trasferendo ad altri un diritto che gli appartiene,
ovvero assumendo un’obbligazione nuova verso terzi, o costituendo sui suoi beni diritti a favore di altre
persone.
Il concetto di disposizione, dunque, deve essere inteso in senso lato, alla stregua di un atto in grado di
influire profondamente e negativamente sul patrimonio del debitore, diminuendo l’attivo od aumentando il
passivo. Si deve trattare di un atto “inter vivos”, essendo esclusi gli atti “mortis causa”, per i quali i creditori
trovano la propria tutela nella facoltà di chiedere la separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede, di
cui agli artt. 512 ss. c.c. L’atto deve essere valido, dovendosi altrimenti procedere con l’azione di nullità, ed
avere carattere dispositivo e negoziale. Non deve essere un atto dovuto: infatti, non rientra tra gli atti
revocabili l’adempimento di un debito scaduto.
Ulteriore presupposto dell’azione revocatoria è la sussistenza di un pregiudizio per il creditore, ossia di
una lesione della garanzia patrimoniale, che trova la propria causa nell’atto dispositivo posto in essere dal
debitore: il c.d.”eventus damni”. In altri termini, l’atto di disposizione che realizza il debitore deve
provocare l’incapienza del patrimonio dello stesso in misura sufficiente ad assicurare il soddisfacimento
delle ragioni creditorie.
La dottrina e la giurisprudenza ritengono che il pregiudizio che legittima il ricorso all’azione revocatoria
possa essere anche potenziale: quindi si può trattare di una lesione della garanzia patrimoniale non solo
attuale, ma anche futura ed eventuale.
La revocatoria è, invece, possibile avverso una “datio in solutum”, se viene data in pagamento una cosa
di valore superiore all’oggetto dal debito, con pregiudizio per i creditori; avverso la novazione, se viene
assunta una obbligazione più onerosa di quella novata. Tutto ciò a condizione che il pregiudizio subito dal
creditore sia riconducibile all’atto di disposizione patrimoniale. Occorre, in altri termini, che “atto” e
“lesione della garanzia patrimoniale” siano collegati.
La Corte di Cassazione ha precisato che la revocatoria ordinaria è esperibile non soltanto quando il
pregiudizio sia diretta conseguenza di un singolo atto dispositivo, ma anche in presenza di una pluralità di
atti che, nel loro complesso, abbiano realizzato la lesione patrimoniale.
I presupposti soggettivi dell’azione revocatoria si differenziano in ragione della gratuità ovvero
dell’onerosità dell’atto di disposizione. Qualora si tratti di atti a titolo gratuito, il profilo psicologico del
terzo non rileva, nel senso che unico requisito perché il creditore possa agire in revocatoria è la consapevolezza del debitore, ossia la conoscenza, da parte dello stesso, del pregiudizio che l’atto compiuto arreca
alle ragioni del creditore, definito come “consilium fraudis”.
In altri termini, se l’atto è a titolo gratuito è sufficiente che la consapevolezza del pregiudizio esista nel
solo debitore, perché la legge, tra il terzo acquirente che cerca di realizzare un vantaggio ed il creditore che
vuole evitare un danno, non può che favorire quest’ultimo.
Se, invece, l’atto è a titolo oneroso, poiché tanto il creditore che il terzo acquirente cercano di evitare un
danno, occorre, se l’atto è successivo al sorgere del credito, oltre alla consapevolezza da parte del debitore
del pregiudizio che l’atto reca alle ragioni del creditore, che la stessa sussista anche in capo al soggetto
terzo.
Non occorre, invece, in entrambi i casi, la specifica intenzione di nuocere ai creditori; basta solo che si
abbia la consapevolezza che, a seguito dell’atto dispositivo, il patrimonio del debitore diviene incapiente, o
tale da rendere più difficile ed incerta l’esecuzione. Viceversa, se l’atto di disposizione è antecedente al
sorgere del credito, occorre oltre alla c.d. “scientia damni” da parte del debitore e dal terzo, anche la
“partecipatio fraudis” di quest’ultimo, in quanto parte dell’atto revocando. Vanno considerati, ad esempio, i
suoi rapporti personali o di affari con il debitore alienante, o il fatto che il debitore disponga del suo
patrimonio mediante vendita contestuale di una pluralità di beni, ovvero il basso prezzo dell’ alienazione.
Occorre, dunque, che l’atto sia dolosamente preordinato dal debitore al fine di pregiudicare il soddisfacimento della ragione creditoria, e contestualmente che il terzo si sia reso partecipe della dolosa preordinazione. In altre parole, il debitore deve avere già previsto il sorgere del credito nel momento in cui pone in
essere l’atto dispositivo e deve essere stato mosso dalla coscienza e volontà di produrre una diminuzione del
proprio patrimonio idonea a consentirgli di sottrarsi all’adempimento dei propri obblighi futuri. A tale
intento deve aver partecipato scientemente anche la controparte negoziale.
L’onere di provare la sussistenza di tali condizioni grava sul creditore che agisce in giudizio. Una volta
accertata la sussistenza dei presupposti dell’azione revocatoria, il creditore ottiene l’emissione di una
sentenza che determina l’inefficacia dell’atto dispositivo nei suoi confronti, consentendogli di promuovere
contro i terzi acquirenti le azioni esecutive o conservative sui beni che hanno formato oggetto dell’atto
impugnato, come se il bene non fosse mai uscito dalla sfera patrimoniale dello stesso debitore.
L’azione revocatoria non ha però effetto restitutorio: il bene non ritorna cioè nel patrimonio del debitore,
ma rimane nel patrimonio del terzo che ha acquistato da chi l’ha alienato consapevole di arrecare
pregiudizio ai creditori.
Premesso che, come in precedenza ampiamente esposto, il regime di trascrizione previsto per le
privative industriali è modellato sul sistema della trascrizione immobiliare ex art. 2643 e ss. c.c., con
conseguente applicabilità al primo della giurisprudenza formatasi sul secondo sistema, si osserva che la
Suprema corte ha ritenuto ammissibile l’azione revocatoria relativamente ad una seconda cessione dei
medesimi beni.
Tramite l’analisi della giurisprudenza ormai consolidata sull’argomento si nota dunque che, a tutela del
credito del primo acquirente, sorto a seguito della trascrizione di una seconda cessione, può essere richiesta
la dichiarazione dell’inefficacia ex art. 2901 c.c., per mantenere nel patrimonio del cedente i beni alienati e
poter soddisfare su di essi il credito da risarcimento danni.
Tuttavia, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, ai fini dell’accoglimento della revocatoria
non è sufficiente la mera consapevolezza della precedente vendita da parte del secondo acquirente, ma è
necessaria la prova della dolosa preordinazione dell’alienante, consistente nella specifica intenzione di
pregiudicare la garanzia del futuro credito.
L’art. 2644, comma 1°, c.c., dispone che: “gli atti soggetti a trascrizione non hanno effetto riguardo ai
terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto od iscritto
anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi”, senza distinguere, pertanto, tra terzi in buona fede o
mala fede.
La funzione fondamentale della trascrizione è, quindi, quella di dirimere i conflitti tra soggetti che
abbiano acquistato, con atti distinti, dallo stesso titolare un medesimo diritto o diritti tra loro incompatibili.
La trascrizione ha dunque un’efficacia sua propria, in forza della quale gli atti non trascritti sono considerati
ignoti ai terzi e quelli trascritti o iscritti si considerano conosciuti e quindi efficaci nei confronti di chiunque.
Ne deriva, pertanto, che anche se il terzo è a conoscenza del fatto che il bene o il diritto è stato già trasferito
ad altri, senza che il relativo atto sia stato ancora trascritto o iscritto, non per questo il suo acquisto, se
trascritto o iscritto per primo, diviene inefficace.
Per agire, allora, in revocatoria, risulta necessario dimostrare un ulteriore elemento, la dolosa preordinazione, non essendo sufficiente la semplice conoscenza della prima vendita.
Niente di tutto ciò è accaduto relativamente alla condotta tenuta da parte di Sawing Ida e di Stoner s.n.c.
Non è infatti stata fornita prova alcuna che la Stoner fosse stata a conoscenza del fatto che il patrimonio
della Sawing sarebbe divenuto incapiente a seguito della cessione dei marchi, nè vi è prova che la loro
intenzione, nel procedere alla seconda cessione dei marchi, fosse quella di depauperare il patrimonio del
cedente, allo scopo di indebolire o rendere del tutto vana una successiva azione di risarcimento dei danni. E’
stata invece ritenuta sussistente la responsabilità della Sawing per violazione del principio di buona fede
nell’esecuzione del contratto, avendo quest’ultima tenuto un comportamento diretto a frustrare il precedente
pattuito trasferimento dei marchi, impedendo al primo acquirente di continuare ad esserne proprietario, con
conseguente relativo sfruttamento dei medesimi.
L’analisi del comportamento tenuto dalla Sawing ha poi determinato l’applicabilità, anche nel campo del
diritto industriale, di uno dei principi fondamentali relativi alla rilevanza della volontà delle parti nel
contratto, ossia la tutela dell’affidamento, con cui si cerca di proteggere, in una fattispecie negoziale,
l’ignoranza incolpevole dei controinteressati in buona fede che siano stati diligenti nell’informarsi
relativamente alla situazione in atto (non venendo ad essere ovviamente tutelata la supina ignoranza, né
tantomeno la colpevole inerzia o la cieca fiducia).
Il tribunale, infine, ha anche riconosciuto esistente un concorso di responsabilità extracontrattuale ex art.
2043 c.c., in capo al secondo acquirente Stoner s.n.c. Infatti, il sig. G. che, all’epoca dei fatti, esercitava
un’influenza pressoché assoluta sulla società, e dunque di riflesso la Stoner s.n.c., erano al corrente
dell’esistenza della precedente vendita. Procedendo dunque in mala fede alla trascrizione della seconda
vendita, hanno illecitamente causato al primo acquirente la perdita della possibilità di continuare a far valere
i diritti di privativa che aveva acquisito. L’imputabilità al doppio alienante del generico dovere del
”neminem laedere”, elemento caratteristico e fondamentale della responsabilità da fatto illecito, è
ulteriormente avvalorata dalla consapevolezza, più volte dimostrata da parte del G., dell’esistenza della
cessione dei marchi da Sawing ad Esseci, per avere lo stesso condotto le trattative inerenti alla prima
vendita con la nascita di un conseguente obbligo a suo carico dall’astenersi da ogni successiva operazione
relativa al trasferimento di diritti sul medesimo bene già alienato.
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