FRANCESCA DA RIMINI - RASSEGNA DELLA STAMPA D`EPOCA

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FRANCESCA DA RIMINI - RASSEGNA DELLA STAMPA D'EPOCA
I. anno 1914 (1-46)
(pp.1-108)
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anteprima 1913-14 (1-5)
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Les nouveautés musicales italiennes, «L’Italie». 28.2.1913
M. d’Annunzio, qui paraît résolu à fournir des livrets d’opéra aux
compositeurs éprouvés ou débutants, réussira-t-il à donner plus d’éclat
aux productions de la scène lyrique contemporaine? Il faut l’espérer.
Parisina de M. Mascagni est terminée; Fedra du maestro Ildebrando de
Parme sera donnée bientôt au Costanzi, et m. Riccardo Zandonai achève en
ce moment l’orchestration de Francesca da Rimini d’après la tragédie de
d’Annunzio.
D’après les dernières informations que l’on a à cet égard, les deux
premiers actes de l’opéra sont complètement achevés et le troisième est
très avancé.
L’auteur de Conchita et de Melenis se flatte d’avoir exprimé dans sa
partition toute l’ardeur passionnée et tout le drame violent de
l’épisode dantesque.
Quelques privilégiés qui ont entendu au piano des fragments de l’œuvre
assurent qu’elle est fort remarquable et qu’elle justifie les grands
espoirs que l’on a fondés sur la brillante carrière du jeune musicien.
Prochainement, M. Riccardo Zandonai se rendra à Arcachon, en compagnie
de son éditeur N. Tito Ricordi, afin de faire entendre la partition
complète au grand écrivain, et de s’entendre avec lui au sujet de
quelques modifications très légères d’auteur, à apporter au livret.
M. Sem Benelli, de qui le succès semble s’être détourné a songé à tenter
la chance dans un genre nouveau.
A l’occasion de la célébration du centenaire de Verdi à Gênes, il a
proposé au maire de cette ville de composer une sorte de Mystère dont la
musique serait écrite par M. Cilea, l’auteur de Adriana Lecouvreur.
Cette idée ayant été acceptée, M. Benelli va se mettre à l’œuvre,
aussitôt la Gorgona terminée, afin de donner une forme définitive à
l’ébauche de poème qu’il a déjà écrite.
2
[NOVITÀ ANNUNZIATE], «Rassegna contemporanea» VI/15, 10.8.1913
La «Francesca da Rimini» del Zandonai. In un salone del Palace Grand
Hôtel a Varese, alla presenza del signor Russel, direttore generale
dell’Opera di Boston, e di alcuni musicisti, il maestro Zandonai fece
sabato udire per la prima volta la sua nuova opera Francesca da Rimini,
composta sulla tragedia di Gabriele D’Annunzio. L’opera, che dovrà
essere rappresentata per la prima volta quest’inverno all’Opera di
Boston, ha ottenuto un vero successo in questa prima audizione intima.
3
[NOVITÀ ANNUNZIATE], «Rassegna contemporanea» VI/21, 10.11.1913
La prima della «Francesca da Rimini» del maestro Zandonai pare fissata
al 15 febbraio venturo all’Opera House di Boston. Interpreti principali:
Lina Cavalieri, il tenore Muratore, direttore il maestro Caplet. Subito
dopo la nuova opera andrà in iscena al Regio di Torino con la Tarquini,
direttore Panizza. Contrariamente a quanto si diceva, né Zandonai né
1
D’Annunzio assisteranno alla
saranno certamente a Torino.
prima
rappresentazione
di
Boston,
ma
4
[Giorgio Ugolini](*), Conversando con R. Zandonai. Le primizie di
“Francesca da Rimini”, «La sveglia democratica» [Pesaro], gennaio 1914
Il libretto di “Conchita” ed altri
– Ed Ella, Maestro, può continuare a difendere con fervore da innamorato
il libretto di Conchita. Io resto persuaso che difficilmente si possa
trovare libretto più inconcludente, più prosaico, più irritante; e la
maggioranza dei pubblici è con me. L’unico motivo di discolpa è il
titolo: «La donna ed il fantoccio» ma non basta a giustificare la messa
in scena di questo argomento degno di poesia e prosa: – il capriccio di
una neurastenica., la quale, offesasi con l’innamorato, si rifugia a
custodire l’amore e il pudore e a ballar nuda in cabarets osceni, vive
per sei mesi con un altro uomo innamorato, caccia via spesso e
sguaiatamente il primo, cui comunica da ultimo aver fatto ciò amando e
riserbandosi pura.
– Ma voi non considerate, mio caro, i bei quadri che mi offre il
libretto. La scena della Fabrica, il Baile, ad esempio, la scena della
Notte sivigliana.
– Ecco il torto. Voi musicisti v’astraete dalla bellezza armonica d’un
libretto diciamo così completo, e vi basta innamorarvi d’un quadro, d’un
istante, d’un elemento. Ecco il pericolo. Vi potete anche innamorare
d’un linguaggio fiorito: altro pericolo, come quello di musicare un
libretto che costituisce di per sé un’opera di bellezza. E voi musicisti
amplificate perdendo il senso della realtà melodrammatica, la quale ha
altre esigenze dell’opera letteraria, naturalmente più particolareggiata; e quasi sempre nel caso riducete la musica, per religione alla
bellezza, ad un comento.
– Ma la perfezione del testo non deve essere ostacolo alla perfezione
della musica. Se ammettessimo ciò, dovremmo tornare ai libretti
criticati e criticabili; mentre piuttosto, come ho sempre pensato, si
deve andare ai grandi, a Shakespeare, per esempio. Io non curo il
pericolo; so che dalla fusione armonica di una bella musica e di ottimo
libretto si avrebbe l’opera perfetta, anche perché la musica può
esprimere ciò che la letteratura non esprime e viceversa. Ed io
combatto; cadrò, ma con la visione di quest’opera perfetta.
– Ma vedete, Maestro, la bellezza è morgana, anche se bellezza
letteraria. Lo sanno i musicisti che vi hanno preceduto. Per attenerci
agli ultimi esempi ed al poeta incriminato citerò «La figlia di Jorio»
del Franchetti e la recente Parisina di Mascagni. La Parisina intessuta
di versi sonori e smaglianti è l’altra sera terminata alla Scala con un
successo di stima alle due e mezzo del mattino...
Di «Parisina» e D’Annunzio
– Ecco il torto di Mascagni.
– Ma come, il torto di Mascagni! Errore d’impostazione semai; perché è
notorio come Gabriele d’Annunzio, custode vigile delle sue tragedie, non
permetterebbe
mutazioni
o
tagli
sostanziali
sia
pure
per
una
rappresentazione melodrammatica.
– Pregiudizio, pregiudizio! A Mascagni non mancò l’assenso del poeta,
replicatogli persino telegraficamente pochi giorni prima della rappresentazione; mancò l’animo, sia pure innanzi ad opera di bellezza. E
questo è il danno principale di Parisina, che dà più rilievo all’altro:
la mancanza di collaborazione ideale fra poeta e musicista, fra poesia e
musica. Potete voi pensare non senza meraviglia a Pietro Mascagni, che
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ha vivamente espresso se stesso in «Cavalleria Rusticana», a braccio del
divo Gabriele, stillante ambrosia ed eleganza? Ed ecco per mancanza di
sincerità e sforzo di carattere, la musica spesso ridotta naturalmente a
comento non ad entità emotiva. L’impronta regia diffusa in qualche brano
purtroppo non basterà forse a salvare un’opera che tiene il pubblico
occupato per cinque ore d’orologio...
Eravamo giunti per vie traverse al punto desiderato. Noi eravamo presso
il maestro Zandonai solo per aver notizie della neonata, di Francesca
rivestita di musica sul testo dannunziano. E forse ciascuno di noi aveva
nell’animo la prevenzione che il mirabile testo male si prestasse per la
sua armonica ma ampia compagine al cimento pericoloso; ed ora il maestro
notoriamente chiuso ai dialoghi ed alle interviste, ci veniva incontro
nelle vie del pensiero con lo stesso apprezzamento sul pericolo.
– Rallegramenti, Maestro. Se siete coerente alle idee espresse, se
avrete imposta la musica alla poesia, antesignano voi nei riguardi di
D’Annunzio, avrete fatto con fermezza e audacia il primo buon passo. Ma
dite: e come vi siete riuscito?
– Riuscito? La cosa più semplice del mondo. Accolta l’idea, Tito Ricordi
si mise all’opera con tale ardore che tre quarti di «Francesca»
risultarono condannati. E quasi non si aveva coraggio di presentare la
riduzione a Gabriele D’Annunzio. Chi sa che ira di Dio! pensavamo.
Gliela spedimmo. Gabriele D’Annunzio lesse e telegrafò: «Mi auguro
sempre al fianco un riduttore che abbia così vivo il senso scenico». E
vedrete che, per volontà del poeta, il nome del Ricordi come riduttore
apparirà sulla copertina del libretto.
– Ciò che Ella, Maestro, mi dice, mi stupisce grandemente ed interessa.
Così dunque la mirabile opera è stata ampiamente sfrondata e tagliata e
apparirà al pubblico in ben diverso formato?
– Sicuro; ecco la tragedia ed ecco il primo atto: vedete.
«Francesca da Rimini»
Innanzi a me ed entro le pagine dalla copertina giallognola era la dolce
e adultera Francesca, vivente quasi per magia di poeta nel suo vario e
ricco mondo medioevale. Ed anche sul tavolo era uno scarso manipolo di
fogli a stampa: le bozze dell’atto primo. Sfogliai brevemente cercando a
caso novità; novità non v’erano, se non l’annunciata concisione che
limita a trentacinque minuti la durata dell’atto. E il dialogo delle
donne e del giullare appare giusto preludio all’incesso di Ostasio e del
notaio «Ser Toldo». (È questa una macchietta così caratteristica che non
si poteva escluderla, notava lo Zandonai). Scompaiono le considerazioni
storiche e famigliari estranee al procedere della tragedia; e scompaiono
purtroppo per dura necessità brani di poesia meravigliosa. Come deve
aver penato la mano che segnò il rigo attraverso frasi come queste:
Oh, ch’Ella vale
un regno! Com’è bella!
Non v’è spada che sia diritta quanto
lo sguardo dei suoi occhi, s’ella guarda.
Ella mi chiese ieri· «A chi mi date
voi?» Quand’Ella cammina...
Ella mi chiese ieri:
«A chi mi date voi?»
Chi la vedrà morire?
Ed ecco una novità, o meglio un particolare degno di menzione. Bannino,
il bastardo «troppo dal padre careggiato» scompare. La fosca decisione
d’Ostasio e del notaro è seguita dall’apparizione di Francesca; ed un
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breve dialogo con Smaragdi ed il comento musicale lumeggiano la figura
soave.
Poi il sopraggiungere di Paolo è presentito e preparato dalla divina
melodia. Paolo passa per la corte interna, ed i commenti delle donne ne
annunciano la venustà al cuore «che duole e piange d’allegrezza». La
“canzonetta della bella Isotta” (O dattero fronzuto) già musicata dal
Maestro Scontrino, che il D’Annunzio deplora iettatore tremendo, passa
rinnovata nel ritmo; ma ecco spuntare da una viola pomposa –
rinnovazione musicale – sul proscenio il motivo dolce e severo che è uno
dei motivi fondamentali dell’opera. Il coro delle donne vi si fonde e
Paolo s’avanza di là dalle sbarre lentamente. Cantano le donne su la
loggia il coro che l’«a solo» della viola aveva intonato
Per la terra di maggio
l’arcadore in gualdana
va caendo vivanda...
Tela. Ed il secondo atto mostra la sala d’arme, ed il torrigiano e il
balestriere intenti ai preparativi della battaglia. Francesca appare, e
la sua curiosità è eccitata dal fuoco greco. Pagina per pagina il testo
primitivo è solcato da segni, da strisce ancora crudeli; tornano alla
mente come soffusi di lontananza e malinconia i brani vividi esclusi
dalla vita musicale. Il fuoco greco:
vola per la notte senza
stelle; nel campo cade, investe l’uomo
armato, gl’inviluppa l’armatura...
E Paolo «schiavo al remo nella galea che ha nome Disperata» giunge ad
intercedere per il suo amore appo Francesca. Frattanto la battaglia è
scoppiata; battaglia che il musicista conta rendere con maggior vigore
ed evidenza che non possa il verso. Anche resterà diminuito assai
d’importanza l’episodio della cateratta aperta con il barocco giudizio
di Dio, ma è notevole che il maestro ribelle alla tradizione non colga
l’occasione del «Padre nostro» detto da Francesca per un brano melodico.
Se l’intervistatore non erra, il «Padre nostro» questa volta avrà
l’accompagnamento solo del silenzio e della emozione lirica. Già la
battaglia s’annuncia in favore dei Malatesta, e «Lo sciancato dalla
bella mogliera» sopraggiunge con il sentore della vittoria. Anche porta
l’annuncio della podesteria di Firenze conferita al fratello Paolo. E
poi che ho ricordato alcuni noti brani tagliati, ne citerò uno che
rimane:
E te n’andrai
alla città delle gaie brigate.
Noi resteremo... Ferro
picchieremo con ferro
per ricrear l’orecchio
verga sardesca e mannaia aretina
con verrettoni a taglio tondo, sera
e mattina, mattina e sera...
Ed il clamore della battaglia è di sfondo, con l’incendio delle nemiche
case e dell’orchestra alto sulla vittoria dei Malatesti ed il crudo
coraggio di Malatestino.
La didascalia del volume «accuratamente impresso dai fratelli Treves in
Milano»,
ma
nell’esemplare
destinato
allo
Zandonai
accuratamente
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reimpresso d’orribili tratti in penna, dice: «Atto terzo; appare una
camera adorna; a destra, nell’angolo, è un letto nascosto da cortine
ricchissime; in fondo, una finestra che guarda il mare Adriatico. Presso
la finestra è un leggìo...».
Siamo dunque nella stanza di Francesca, che conversa con le sue donne e
con Smaragdi, la cui figura è nel nuovo testo resa al tutto secondaria,
ma più caratteristica e misteriosa. Giova alla azione l’abrasione [?] del
personaggio del mercatante e del dialogo che lo riguarda. Ed ecco la
canzone a ballo della rondine «nova in calen di marzo», non più intonata
dalle quattro damigelle, ma da Alda e Biancofiore a concise riprese, che
sono coronate dal coro gioioso: «Primavera!».
Il sopraggiungere di Paolo disperde la comitiva ed il coro; e Paolo è
venuto e non può rattenere l’animo ardente. La scena ed il colloquio
sono mirabili; il dialogo sulla gaia vita fiorentina è nel nuovo testo
arricchito da un ampio brano, l’unico nuovo che è di fervida ispirazione
lirica. (Il magnifico squarcio innestato sul «Perché volete voi – ch’io
rinnovi nel cuore la miseria – di mia vita?» fu scritto dal D’Annunzio
con facilità degna d’aneddoto, in pochi momenti mentre il Ricordi e lo
Zandonai, avendogliene ricordata la promessa, conversavano). Ed eccoci
di nuovo al testo ristretto ed al vetusto ed eloquente libro che omai si
chiama Galeotto:
E la reina vede il cavaliere
che non ardisce di fare di più.
Lo piglia per il mento e lungamente
lo bacia in bocca...
Il terzo atto à la durata di circa mezz’ora.
L’atto quarto, l’atto quinto sono un solo atto di quaranta minuti nella
«Francesca» musicale: come se Ricordi e Zandonai avessero preveduto un
anno prima il fato della sorella dannunziana «Parisina». Atto di
magnifica ricchezza e vario risalto, dopo la dolcezza del recente finale.
La crudeltà di Malatestino ecco porta alla ribalta il capo di Montagna
Parcitade «sempre bovi da macello». Gianciotto intervenuto, dopo il
breve dialogo con Francesca e con il fratello, resta con questi solo.
Alle prime spiegazioni la volontà di rivelare e non per onestà ma per
vendetta, appare manifesta. La scena è breve; osserva il maestro
trentino: –Quando Malatestino à profferto: «Vuoi tu vedere e toccare?»
che altro devesi aggiungere?–
E infatti, avvenuto in breve il falso commiato di Gianciotto, la scena
rapidamente cangia per presentarci la stanza di Francesca che è assopita
nel sonno. E quindi si desta e chiede di Smaragdi e apprende la
vicinanza di Paolo, e titubante congeda le ancelle; esse escono,
accendendo all’alto candeliere le lampadette d’argento. ;a Biancofiore
non giunge alla fiamma:
O Biancofiore, piccola tu sei...
...tu sei
la più piccola, o tenera colomba.
La dolcezza accorata che procede dalla creature dannunziane prossime al
fine s’effonde nell’addio a Biancofiore. L’evento precipita. Paolo è
nella stanza nuziale; non più chiude il libro, né dice:
non vi legger più. Altrove
scritto è il destino. Nelle stelle è scritto
che palpitano come
la tua gola e i tuoi polsi
5
e le tue tempie... Dammi
la bocca.
La voce di Gianciotto tosto tuona, mentre l‘uscio traballa per i colpi
iterati:
Apri, Francesca, pel tuo capo!
E nessun’altra parola. Paolo, fuggendo, resta impigliato nella cateratta.
Il fratello lo agguanta con furia omicida; a questo punto il telone cala
sulla scena.
Pesaro e Zandonai
E speriamo cali fra un uragano d’applausi che salutino nell’Opera
l’affermazione incontrastata e imperitura del Maestro Zandonai. La
musica ne è degna, sicura, mutevole, ardente. Questo giovane, unico fra
i coetanei, ha un definito stile proprio; e la ricchezza delle concezioni e dei motivi soverchia semai il loro sviluppo melodico.
E per Francesca da Rimini scritta e compiuta nella nostra città (che vi
è tre volte nominata) da un concittadino d’amore e d’onore, La Sveglia
Democratica, interprete del desiderio comune, ha voluto che una pagina
di più fosse inserita nel numero di primo d’anno, e che vi appaia
l’augurio più cordiale ed affettuoso(**).
Ed un secondo augurio. Noi non sappiamo se avremo la ventura di udire
nella prossima estate l’Opera, che apparirà in Febbraio al Regio di
Torino ed è già in anticipo impegnata dal Metropolitan di New York. Dice
lo Zandonai: «Io favorirei in ogni modo i Pesaresi; ma non inizierò
facilmente trattative con essi, per non espormi ad insuccessi già
ripetutamente sperimentati. Prima essi decidano e vogliano seriamente;
il lavoro mio comincia dove il loro finisce. Ma non mi presterò anche
per questa Opera a trattative che non abbiano pegno di riuscita...».
Incombe dunque ai Pesaresi il preciso dovere di intendere ad una
stagione estiva con Francesca da Rimini. Molteplici condizioni e
considerazioni fanno sì che essa possa ritenersi l’Opera più conveniente
ai Pesaresi. E cominceremo così in pari tempo ad esprimere in modo concreto il contributo di ammirazione allo Zandonai che è e deve restare
gloria nostra, e che sulla dura via dell’Arte annovererà tra i migliori
conforti la solidarietà morale e materiale dei Pesaresi a suo riguardo.
Noi non sappiamo se la volontà cittadina saprà nel modo opportuno
esplicarsi in favore di Francesca e del valoroso concittadino, ma lo
speriamo.
E noi non sappiamo se l’«opera perfetta» sognata dal giovane trentino
sarà raggiunta o almeno sfiorata; ma l’augurio si mesce col vino della
lode per la volontà e l’ardore invincibili.
O Città musicale, mentre il piccone rinnovatore abbatteva le mura
Malatestiane e Roveresche, un artefice ardente ivi presso cresceva una
compagine di suoni intorno a colei che fu la rosa infame dei Malatesti.
O vecchia città ducale, questo giovane che t’è figlio due volte perché
figlio d’elezione, dice: «Io so che questa via è pericolosa; ma ricerco
l’ottimo e combatto»; partendo così ad ogni volgere di mesi verso il
mondo e la lotta, dalla quieta piana isaurica, pare il cavaliere d’una
fede e d’una civiltà. Buono auspicio per l’Opera e per l’agognata
Gloria!
Pesaro, 30-12-913
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Al Maestro illustre, all’amico gentile che onora la nostra Sveglia con
un brano saliente della sua nuova creazione rivolgiamo le dimostrazioni
più vive della nostra affettuosa riconoscenza.
LA REDAZIONE
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L’articolo è senza firma; il nome Giorgio Ugolini è inserito a matita rossa nel reperto SZ439/1.
(**)
A pagina 4 del periodico sono riportate 15 battute autografe dal finale Atto I e sotto la forma e la data (Pesaro - decembre 1913).
A fianco. il seguente testo:
«Cari amici della Sveglia Democratica
Vi avverto che siete i primi a pubblicare un brano musicale di Francesca, e precisamente il tema della viola pomposa che inizia il
finale del 1° atto. Si tratta del brano musicale forse più suggestivo di tutto il lavoro; vi raccomando però caldamente che il cliché di
questa musica non sia ceduto ad altri giornali...
5
Saverio Procida, La nuova opera di Zandonai (Intervista con l’Autore),
«Il Giorno», 2.1.1914
Il maestro Riccardo Zandonai è trentino e, naturalmente, sta sulla
trentina. Credo segni un ugual numero di centimetri sul sistema metricodecimale. Ma la grande notorietà allunga i connotati: il filosofo
Pomponazzi toccava appena col mento la cattedra, e pure gli scolari lo
distinguevano meglio degli altri professori. Non vi stupirete quindi se,
piccino com’è, io giunsi iersera a scovare lo Zandonai nel negozio
Ricordi e – col pretesto di complimentarlo per il successo di Conchita
al San Carlo – a strappargli un’intervista intorno alla sua ultima
opera: la Francesca da Rimini.
– A quando, dunque, maestro, la prima rappresentazione?
– Presto. Il 10 febbraio al Regio di Torino.
– Chi gliela dirigerà?
– Ettore Panizza, un musicista distintissimo che ha diretto anche al
loro San Carlo.
– E gli interpreti? Ne è contento?
– Contentissimo. Francesca sarà la inarrivabile Conchita di qui: la
Tarquiny. Paolo il tenore Crimi. Gianciotto (lo sciancato) il baritono
Cigada e Malatestino il Paltrinieri.
– Ha musicato integralmente la tragedia di Gabriele D’Annunzio?
– Ho musicato la tragedia originale. Ma integralmente no. sarebbe stato
un errore imperdonabile.
– Parisina informi!
– Capirà che un poema drammatico può e deve avere un àmbito vasto,
precluso a un poema musicale cui è necessario soltanto il succo del
dramma per restringervi intorno l’azione psicologica e scenica,
sopprimendo
tutto
ciò
ch’è
ornamento,
immagine
letteraria
o
amplificazione dello stesso concetto. Così ho proceduto io con la
Francesca del D’Annunzio.
– Ha fatto Lei stesso questo lavoro di sforbiciamento e di riduzione?
– No. Il merito spetta a Tito Ricordi, che ne ha avuto il consenso e le
lodi di Gabriele D’Annunzio. Il Poeta anzi ha imposto che il nome del
chiaro riduttore figurasse sul libretto... parola impropria in questo
caso.
– Avrà ridotto anche il numero degli atti?
– Non si è ridotto: si è fuso il quarto e il quinto atto in uno,
suddividendoli in due quadri. Così che la divisione scenica del
D’Annunzio è rispettata, e io musico quattro invece di cinque atti.
Il criterio dello sfoltimento mi ha permesso di sopprimere un
personaggio: Badino [Bannino], il giovane fratello d’Ostasio, col quale
quegli, al prim’atto, ha una scena violentissima non indispensabile allo
svolgimento drammatico. Fra gli episodi soppressi va notato quello, al
terz’atto, del mercatante fiorentino, con la sua vistosa offerta di
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stoffe a Francesca. capirà: precede la grande scena d’amore – la scena
capitale del lavoro – e avrebbe potuto stancarmi il pubblico.
– È intuitivo. Via, mi dica di qualche altro taglio importante, giacché
Ella non ha voluto intralciare il corso drammatico o sviarne l’interesse.
– Ecco. Ho tolto gran parte dell’atto quarto dannunziano, cioè la scena
in cui Gianciotto, dopo la delazione di Malatestino, chiama Paolo e
Francesca a rinnovare la loro fede sulle coppe. Poiché nel second’atto
c’è un episodio equivalente, l’ho soppresso qui per lasciare alla
delazione di Malatestino tutta la sua intensità tragica e non
disperderne l’effetto, in un quadro che precede immediatamente la
catastrofe. Chiudo quindi questo primo dei due quadri formanti l’
ultim’atto col concitatissimo dialogo fra Malatestino e Gianciotto:
MALESTINO [Malatestino]
Vuoi tu vedere e toccare?
GIANCIOTTO
Bisogna, se ami scampare
Dalla mia tenaglia mortale.
MALESTINO
Vuoi stanotte?
GIANCIOTTO
Voglio!
– Per giungere presto alla catastrofe, secondo Ella dice, avrà sfrondato
allora anche il quint’atto del D’Annunzio, che corrisponde al suo
secondo quadro del quart’atto.
– L’ho sfrondato (sempre rispettando la costruzione scenica) perché il
colore dei particolari suggestivi non incomba troppo sulla grande scena
passionale dei due amanti e sul rapidissimo arrivo – ridotto perfino
nell’espressione verbale – dello Sciancato. La catastrofe, così, è
fulminea. Francesca dà un grido e si offre da sola alla vendetta, ma
Gianciotto si slancia ad agguantar Paolo, il cui giubbetto, nel
tentativo di fuga, s’è impigliato nel gancio della botola.
– Fedeltà assoluta, dunque, alla tragedia.
– Una sola innovazione ho chiesto al Poeta ed Egli me l’ha consentita
cordialmente, al terz’atto, nella scena in cui Paolo narra a Francesca
del suo viaggio a Firenze e dell’incontro con Guido Cavalcanti e col
giovinetto Alighieri. Io ho desiderato che si sostituisse un volo lirico
alla scena narrativa – e il Poeta ha composto per me dei versi
meravigliosi d’ispirazione puramente immaginifica.
– Li ricorda?
– Non bene, a sbalzi, e non vorrei davvero sciuparli.
Il carattere della musica
– Mi dica ora, se non le sembra indiscreta la domanda, quale carattere
musicale ha la sua nuova opera.
– Un autore non può mai definire il carattere della propria musica
perché chi compone non ha quasi mai un sistema prestabilito.
– Mi spiego meglio allora: seguirà il tipo di musica descrittiva e, per
così dire, verista della Conchita?
– No. Recisamente no. Con la Francesca non siamo più in un campo di
complicazioni psichiche moderne, né di ambienti pittoreschi, che hanno
una tirannica influenza di colore e invadono quasi il campo con la loro
prepotenza ritmica.
– Non avevo dunque torto io, nel giudicare la sua Conchita troppo
assorbita dall’impressionismo sinfonico, a scapito del dramma diretto
degli individui.
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– Non solo non aveva torto, ma in teoria parlava d’oro. Credo quanto Lei
che la musica debba tornare al suo contenuto spirituale. L’argomento di
Conchita mi trascinò con la sua anormalità psicologica. Ma con la
Francesca da Rimini siamo in un altro ordine di sentimenti. La Francesca
è dramma essenzialmente umano, di passione intensa ma normale. Ho voluto
quindi imprimere alla musica, che dovrà comentarne il dramma, quanto più
sia possibile di semplicità e di fluidità melodica, per concentrare l’
interesse lirico sulle persone protagonista, anzi che sugli elementi
esteriori di pura decorazione.
– Ma l’ambiente nella Francesca è anche un fattore interessante della
tragedia.
– Verissimo. Ma non dimentichi che prima di tutto, come Le ho detto, ho
sfrondato molto la parte episodica. E poi quel ch’è rimasto non può
entrare che come elemento imitativo.
– Che intende per elemento imitativo?
– Questo: che in tutta la parte decorativa ho cercato di fondere in
orchestra quanto poteva darmi la fonte musicale dell’epoca – ch’è ben
poco – e non come materiale grezzo, ma come spunto a trarne un colorito
arcaico,
indeterminato,
adoperando
all’uopo
qualche
strumento
caratteristico che desse la sensazione vaga dell’antico.
– In quale atto questo elemento ambionale [sic] e pittoresco è contenuto?
– Nel primo e nel terzo. Nel primo, quando il notaio Sartoldo [Ser Toldo]
sollecita presso Ostasio, fratello do Francesca, le nozze. Mi sono
studiato d’imprimere a questa scena un suggello eminentemente italiano,
quasi di vecchia andatura, utilizzando il recitativo antico sopra un
tessuto strumentale che lo coordini al tipo generale, pur rimanendo in
se stesso caratteristico. E anche l’arrivo di Paolo tra i profumi del
giardino di Francesca, mentr’ella gli offre una rosa, m’ha ispirato
qualche pagina descrittiva fonica e vocale. Ma l’episodio forse che più
suggestivamente assorbe questo carattere arcaico è l’entrata di
Francesca, in cui ho innestato le parole di lei al coro interno delle
donne che mira appunto a dar questa sensazione di antico. Nel secondo
atto ho composto una pagina sinfonica a descrizione della battaglia, ma
qui l’arcaismo non entra per nulla. Nel terz’atto ho vivamente colorita
la scena esaltativa della primavera.
– Torniamo al discorso sul tipo musicale della Francesca.
– Le ripeto che ho voluto dare al puro dramma tutta la sua più larga
espressione, in modo che, sullo sfondo suaccennato, il contrasto e le
passioni delle anime abbiano preponderantemente il loro rilievo musicale
così nelle voci come nell’orchestra. E quindi l’elemento della chiarezza
e della semplicità costituisce l’essenza schietta del mio lavoro. In
questo senso Le dicevo che la Francesca differirà moltissimo, come tipo
musicale, dalla Conchita, come questa a sua volta differisce dal Grillo
del focolare, in cui mirai a tessere una pura commedia di carattere
ingenuo ed intimo.
– Oltre che per Torino, la Francesca è impegnata per altri teatri?
– È già presa dal teatro di Boston, dove Carlo Clausetti andrà a
metterla
in
iscena
verso
la
fine
di
febbraio,
cioè
quasi
contemporaneamente alla recita di Torino. Ne saranno interpreti Lina
Cavalieri, il tenore Muratore, celebre artista per figura e voce,
dell’Opéra di Parigi e il baritono Marcoux. Direttore sarà il maestro
Caplet.
– Di che durata è la Francesca?
– Dura su per giù quanto la nostra intervista.
Alla graziosa boutade volli contrapporne una sciocchina.
– Ma allora è brevissima.
– Se piace sì; se non piace...
9
Io non presumo di possedere il fascino di una Francesca; e a questo
punto giudicai che tre orette di chiacchiere dovevano essere eccessive
per un’intervista se bastavano allo svolgimento di un dramma musicale.
E poi era l’ora del pranzo.
Il maestro Zandonai rimaneva più che mai piccino, ma il suo collo si era
sensibilmente allungato.
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Torino 1914 (6-27)
6
La jettatura al Regio di Torino, «Orfeo» V/7, 14.2.1914
Le ultime vicende della stagione del Regio di Torino non sono troppo
liete: vicende che hanno condotto ad un ritardo nell’andata in scena
della Francesca da Rimini per un forte esaurimento nervoso sopravvenuto
alla Tarquini, che dell’opera nuovissima dello Zandonai doveva essere la
protagonista.
[...]
7
e.a.b., La
20.2.1914(*)
«Francesca
da
Rimini»
al
Regio,
«Gazzetta
del
popolo»,
Nella vecchia e generosa città che qualche settimana addietro celebrava
– commemorandola degnamente – la memoria luminosa di un poeta trentino,
Giovanni Prati, con fervidi ma un poco malinconici riti di epicedio,
ieri sera si è compiuta la cerimonia battesimale dell’opera d’arte in un
altro trentino, Riccardo Zandonai, che dalla ribalta del Regio chiedeva
al pubblico torinese il primo giudizio, la consacrazione della sua
nuovissima opera «Francesca da Rimini». E il risultato è stato favorevolissimo.
La musica
Il maestro Riccardo Zandonai segue, come è noto, la più moderna fra
tutte le scuole musicali. Certamente il suo credo artistico non è molto
dissimile da quello di Claudio Debussy e dei debussisti. Quindi una
tendenza speciale a generare e produrre piuttosto che sensazioni
auditive, delle sensazioni visive. Ma mentre il caposcuola si contenta
spesso di un accordo o di poche modulazioni che debbono fare da sfondo,
quasi da atmosfera all’idea principale, lo Zandonai moltiplica ed accumula, con arte – bisogna dirlo – squisita, questi elementi decorativi. E
bisogna anche aggiungere che egli sa farlo con un gusto aristocraticissimo, combinando piccoli disegni ed effetti istrumentali a getto
continuo, con quella ricchezza di tavolozza che gli consentono la sua
fantasia di colorista nato e la sua meravigliosa conoscenza dell’
orchestra, dell’effetto e del valore dei singoli istrumenti e degli
inesauribili partiti che se ne possono trarre combinandoli, impastandoli,
fondendoli con grande abilità. Ed a prima vista si potrebbe pensare che
tutta questa ricchezza e questo scintillio formale, più sinfonista che
operistico, siano destinati a mascherare l’assenza o la scarsità di
quelle grandi idee madri che dovrebbero costituire la spina dorsale
dell’opera.
A conti fatti si rimane abbarbagliati; si ammira anche ed assai, ma
l’ammirazione è più cerebrale che non cordiale (cioè fatta di cuore).
Senza dubbio si ammira, ma si ripensa e fors’anco si rimpiange
quell’ampio respiro melodico che per tanto tempo fu il sogno e la
delizia dei pubblici del nostro teatro d’opera. Si avverte pure – e non
è possibile non avvertirlo – un onesto e lodevole desiderio, un’
10
intenzione molto chiara, di italianizzare i procedimenti adottati nella
costruzione della musica; ma in fondo al cuore rimane sempre come una
sete, un desiderio di melodie più larghe, più profonde e più sviluppate.
A nessuno può sfuggire la nobiltà di quest’arte speciale, ma alla
nobiltà si vedrebbe volentieri accoppiato l’impeto, il calore di una
ispirazione spontanea e più travolgente. Si rimane un poco freddi,
insomma, senza esaltazioni, come avviene quando si contempla un gioiello
sfaccettato, cesellato sapientemente da un orafo perfetto.
E ci si domanda: –Perché
Forse perché il maestro abbia penuria di idee vaste?
No: non per questo. Poiché infatti, oltre all’ultima parte del primo
atto, viene tutto il terzo atto. Chi ha scritto questo terzo atto è non
solo un musicista sapiente, ma è pure un uomo che sente e che sa
esprimere i palpiti, gli ardori di una passione umana e profonda. C’è in
quest’atto quel largo respiro che noi cercammo invano in altre pagine
dello spartito. Il nostro libretto, annotato durante le prove,
azzurreggia frequentemente di segni ammirativi, di note che esprimono e
ricordano, fissandole, vivaci sensazioni provate. La ballata del «Marzo
che è giunto» è deliziosa, come tutto il quartettino delle donne; come
l’interludietto che precede la scena fra Paolo e Francesca, che a poco a
poco si illumina, si riscalda, seguendo linee ampie e suggestive, nelle
quali si snoda e si allarga una melodia, una serie di melodie che
scaturiscono dal cuore e dalla vera ed eterna passione umana, fatta per
conquidere, per esaltare l’uditore. Non molte volte l’amore fu cantato
così largamente, così suggestivamente come in questa scena del «Libro
galeotto». E le voci di Francesca e di Paolo, quando tacciono perché su
entrambe è il suggello di un bacio, trovano nell’orchestra un comento
che riassume, ridice, pèrora, completa meravigliosamente, levandosi
nelle altissime regioni del sentimento.
E questa virtù di alata poesia non è in un solo momento od in un
episodio dell’atto, ma in tutto l’atto che – sfrondato forse di qualche
lieve prolissità – si potrebbe classificare fra le più indovinate cose
che l’arte possa produrre.
Questa è musica, vera, grande musica, che vi costringe a battere le mani,
mosse da un impeto misterioso ed incontenibile che ci sale su dal cuore
palpitante. Tutto l’atto è chiuso in linee di suprema armonia ed è
improntato a quell’unità di cui solamente un getto ben riuscito può
segnare un’opera d’arte.
Di quest’atto, che per noi è la parte migliore dell’opera, abbiamo
voluto parlare più particolarmente e più diffusamente, perché dopo
averlo ascoltato e goduto ci si riaffacciò timida la domanda: –Perché
non scrive sempre così chi ha voluto e saputo offrirci questo documento
di passione e di umanità?
Per rispondere bisognerebbe penetrare la coscienza e la volontà
dell’autore, il quale, senza dubbio, fa quel che fa, e come lo fa,
perché questo modo risponde ad un suo ideale, ad un suo concetto d’arte.
Di fronte ad una convinzione si potrà rimpiangere, ma non senza molto
rispetto.
Il successo
Del resto, quanto alla cronaca della serata, essa è assai lieta.
Alle 20,30 precise, ad un cenno della bacchetta del maestro Panizza,
incomincia la musica. Il teatro è bello, ma non si affollerà che più
tardi, come sempre accade. Il massimo raccoglimento regna nella mezza
luce della sala.
Ed il velario si apre sul bellissimo scenario dell’atto primo. Notiamo
fin d’ora che tutte le scene sono, come questa del primo atto,
bellissime.
11
L’atto incomincia con l’episodio delle donne e del Giullare, cui segue
il dialogo fra Ostasio e Ser Toldo. Il pubblico ascolta attentamente, ma
senza commozione. Un movimento d’anime comincia a pena col coro delle
donne, e sale e si accentua nella scena fra Samaritana e Francesca.
«Anima cara, piccola colomba» detto dalla Canetti con grande semplicità
segna il successo schietto di tutte le pagine seguenti, che si fa sempre
più vivo per la grande signorilità e delicatezza della musica. E quando
Paolo e Francesca si sono visti e guardati, senza parlare, come presi
entrambi da un fascino magnetico, ed il coro delle donne canta un suo
ispiratissimo canto, l’uditorio, a velario chiuso, prorompe nei primi
applausi. Le chiamate sono cinque, belle, unanimi, convinte. E prima si
presentano i soli artisti, poi quattro volte l’autore, e finalmente
anche il maestro Panizza.
Nei corridoi i giudizi del pubblico sono assai favorevoli, specie per la
seconda parte dell’atto. Anche la prima raccoglie lodi, ma queste
riguardano più il virtuoso dell’armonia e dell’istrumentale che non il
compositore ispirato e capace di alti voli.
L’atto è durato 35 minuti.
Più modesto è il successo dell’atto secondo.
Il fragor della battaglia, per quanto si sforzi a trovare violenze di
sonorità, non può accostarsi troppo a quella che noi immaginiamo debba
essere la realtà. L’episodio lirico dell’incontro di Paolo e Francesca
sulla torre lascia un poco freddi perché sulla ricchezza dello sfondo
orchestrale l’autore non trova il modo di incidere frasi ben definite e
commoventi.
La preghiera di Francesca passa quasi inavvertita. Né miglior fortuna ha
la presentazione di Gianciotto, che invece di risultare una figura da
altorilievo in bronzo quale dovrebbe essere, rimane alquanto piatta.
Qualche accento più efficace è nell’episodio di Malatestino ferito. Ma
in complesso l’atto soddisfa poco. E le chiamate – non fervide – sono
tre. Il maestro Zandonai si presenta due volte. L’impressione è che
quest’atto, per la stessa esuberanza di azione scenica, mal consenta
alla musica di commentarlo efficacemente. È un atto in soprapiù.
Assai più liete volgono le sorti per il terzo atto. Ciò che già ne
dicemmo ci dispensa dal seguirne lo svolgimento con qualche minuzia di
analisi. Esso appare a tutti come opera d’arte di primo ordine, pervaso
com’è da una passionalità profonda che si esprime con semplicità e
lucidità eccezionali.
La ballata di marzo, detta squisitamente, suscita i primi applausi a
scena aperta. Altri applausi strappa il tenore Crimi quando nel duetto
con Francesca dice con grande espressione di passione le frasi «Nemica
ebbi la luce» e seguenti. E così, in mezzo ad una vera commozione ed
emozione dell’uditorio, l’atto finisce con sei memorabili scrosci di
applausi. Prima compaiono la Canetti e il Crimi; poi, con loro, le
Donne; poi Zandonai, poi il maestro Panizza, infine lo Zandonai da solo,
acclamatissimo. Così volle esprimere la sua soddisfazione l’uditorio che
in quest’atto respirò la passione, palpitò nella commozione.
Anche nel quarto atto è una bella vena di commozione, o almeno di
emozione. Si profila la figura di Gianciotto, e prende corpo e rilievo.
Il
duetto
fra
Gianciotto
e
Malatestino,
violento,
irruente,
brutale ....... suscita fremiti e s’impone con la sua ..... ..... le
chiamate al Cigada ed al Paltrinieri ...... belle e sono tre, alla fine
della pr....
La stessa concisione e la stessa violenza drammatica è nella seconda
parte – al ........fe della tragedia – salutata, con ...............
l’opera, da cinque o sei magnifiche ............. agli artisti, allo
Zandonai, al maestro Panizza, a tutti insomma.
12
Un ottimo successo, adunque, e, ancor più, un successo serio, del quale
ci congratuliamo sinceramente con Riccardo Zandonai, che con questa sua
fatica d’arte prende il suo posto fra i nostri compositori, dando
affidamento di poter librarsi a voli maggiori.
L’esecuzione
Ma dobbiamo pure rallegrarci con altri. Dapprima con la signora Canetti,
che in pochi giorni è riuscita ad impadronirsi di una parte
difficilissima come quella di Francesca, facendola sua e vocalmente e
scenicamente, in modo da cantarla ed agirla – come ieri sera – con una
grande sicurezza. Poi col tenore Crimi, che ieri parve un altro da
quello della «Gioconda» al quale non potemmo tributar molta lode. Tanto
più dolce c i riesce oggi il dover riconoscere in lui un artista che e
con la splendida voce e col modo di rendere il personaggio, contribuì
molto al successo dell’opera, meritando i vivi applausi che raccolse in
gran numero.
Ed anche col Paltrinieri ci rallegriamo, per il notevole passo ch’egli
seppe fare in arte: uscendo dalla cerchia delle macchiette in cui era
maestro, assurse alla responsabilità di un personaggio importante come
Malatestino e seppe dimostrarsi validissimo ad affrontarle e sopportarle.
E il Cigada non fu un Gianciotto stupendo? E le donne di Francesca?
Ottime tutte, hanno il diritto di essere ricordate una ad una, con un
appello nominale... d’onore: Avezza, Polazzi, Marek, Vaccari, Besanzoni.
Né si possono dimenticare la Merly, che diede tanta malinconia scorata a
Samaritana; né il Pellegrini, né l’Orlandi, né il Nessi ed il Malatesta
che con Gianciotto e Paolo e Malatestino non è neanche parente, malgrado
l’omonimia.
Un capitoletto scriveremmo – se ce lo consentisse l’ora tardissima –
sull’esecuzione magnifica e sull’interpretazione profonda che il maestro
Panizza ottenne dalla sua orchestra. Ma il tempo è breve, e a pena ci
basta a ricordare con una parola le masse corali, attentissime, ed
accennare alla grande signorilità della messa in scena in tutti i suoi
particolari.
L’uditorio, abbiamo detto, era numeroso ed elegante. La principessa
Laetitia era nel suo palchetto. L’arte musicale, la critica e la stampa
di fuori erano largamente e degnamente rappresentate.
Si notavano infatti, in teatro, i maestri Giordano, Alfano, Baroni e
Mingardi; l’editore Riccardo Sonzogno; il maestro Seppilli, e fra i
giornalisti e scrittori d’arte il marchese Gino Monaldi, Nicola d’Atri;
il dott. Clerici, Adami, Cesari, Rattini, Gustavo Macchi, Ottolini, ecc.
Francesca da Rimini avrà domani sera la sua seconda rappresentazione.
---------(*)
Una lacerazione nel lato destro del ritaglio compromette la lettura integrale del testo: qui si è cercato di completarlo a
senso con le lettere in colore rosso.
8
Giambattista Cagno, «Francesca da Rimini» di Zandonai, D’Annunzio e
Ricordi - La “première” di stasera al Regio, «Gazzetta del popolo»,
19.2.1914(*)
Ricordi... sicuro: bisogna aggiungere agli altri due nomi anche quello
del comm. Tito Ricordi, non solo perché di questa Francesca egli fece e
pubblicò di questi giorni un ’edizione bella e nitidissima; o perché
tutta la messa in scena fu da lui studiata, curata, animata, con
quell’amore e quella meticolosità intelligente che si dànno alle nostre
creature, ma anche perché veramente il Ricordi, autorizzato dal Poeta,
ebbe una gran parte nella riduzione del testo dannunziano per la musica
dello Zandonai. Il suo lavoro è stato non di creazione –
com’egli
13
stesso ha fatto sapere in un’intervista – ma semplicemente di
sfrondatura e di taglio. Molti versi furono sacrificati, a malincuore,
ma sacrificati: e fu soppresso qualche personaggio secondario... Ma noi
pensiamo che così, rinunciando alla magnifica e preziosa esuberanza
verbale dannunziana, che mal si confà con le forme stringate e concise
del dramma lirico, si siano potuti evitare gli inconvenienti deleteri
dell’eccessiva lunghezza (e Parisina informi), rendendo così un
segnalato servizio al musicista ed all’opera ed anche al poeta. Tanto
più che io massimo, quasi religioso rispetto, presiedette a questo
lavorio di riduzione, eseguito con tanta perspicacia che a pena qua e là
si avverte l’opera del taglio e della sfrondatura. Del resto il Ricordi
si guardò bene dallo scrivere anche un solo verso. A colmar qualche
vuoto, a riannodare i capi dei brani tagliati, coordinandoli, pensò
D’Annunzio stesso. E ne è uscito fuori un testo che si arrende assai
bene, con molta pieghevolezza, alle esigenze ed alle forme liricomusicali. Per questo è giusto che il nome di Ricordi vada unito a quelli
di Riccardo Zandonai e di D’Annunzio.
L’abitudine della sala buia, che oramai è prevalsa in teatro, e che
impedisce quasi allo spettatore di seguire la musica sul testo, rende
necessario e giustifica, per chi voglia agevolare all’auditorio la piena
comprensione di un’opera musicale, l’offrire un sunto dell’azione
musicata.
Veramente questa tragedia dannunziana e per la sua rappresentazione
teatrale, e per la sua lettura in volume, ed anche per la notorietà
della sua favola (diciamo così) che fa parte di quel patrimonio di
coltura
comune
che
molti
possiedono,
non
richiederebbe
più
la
preparazione di un cenno riassuntivo. Ma è sempre bene, per l’
intelligenza del pubblico che non vive di solo teatro, rinfrescare la
memoria. Questo noi faremo brevemente, sommariamente, riassumendo il
libretto, o, più precisamente, la sequenza e l’ordine delle situazioni
che ne costituiscono la sostanza. Lo diciamo subito: saremo insolitamente brevi e sintetici. Una trama di fatti: un sommario di situazioni.
Niente altro.
Atto primo
A Ravenna – nella casa dei Polentani. Personaggi: Francesca, sua sorella
Samaritana ed Ostasio, suo fratello. Poi le donne di Francesca:
Biancofiore, Garsenda, Altichiara, Donella e Smaragdi la schiava. Una
corte, contigua ad un giardino, con una loggia alla quale si accede per
una scala.
Fra le donne di Francesca è giunto un Giullare, che, richiesto dalle
donne di cantare una storia, si appresta a dire di Tristano ed Isotta,
quando è interrotto da Ostasio... Apprendiamo che Francesca è promessa
sposa a Giovanni, o Gianciotto Malatesta, lo sciancato, che manda a
sposarla per procura suo fratello Paolo, detto Il Bello.
Piace ad Ostasio affrettare queste nozze, e poiché Paolo Malatesta è
giunto ed attende, gli muove incontro con Ser Toldo, che è come un
consigliere e confidente.
Anche il Giullare è partito. Rimangono sole le donne che cantano dalle
stanze, d’onde escono Francesca e la sorella Samaritana. Nel loro
dialogo non è gioia. Trema Francesca nel dover andare sposa ad un uomo
che non conosce. E Samaritana si duole per il prossimo distacco da sua
sorella.
Ma le donne, dalla loggia, guardando verso il giardino, annunziano
l’avvicinarsi di Paolo. E si rallegrano con Francesca la sposa.
Pallida, agitata, Francesca prega, supplica ch’egli non venga, ma a pena
lo vede da vicino è conquisa dalla bellezza di Paolo... E rimangono a
14
guardarsi come estatici... Francesca offre una rosa vermiglia a Paolo. È
la rivelazione improvvisa dell’amore.
Atto secondo
A Rimini. Sull’alto della torre della casa dei Malatesta. In pieno
fervore d’una battaglia. Tumulto d’armi e di soldati: bagliori di fuochi
accesi a preparare nelle caldaie il micidiale fuoco greco che il mangano
lancerà per la distruzione del nemico.
In questo trambusto è salita anche Francesca, che s’incontra con Paolo,
vigilante alle difese, lanciando dardi con l’arco, dal folto della
mischia. Francesca vorrebbe essergli vicino nel pericolo grave, ma ne è
impedita. Cominciano a cadere i soldati morti. Francesca prega per Paolo,
per il suo amore. E Paolo è salvo malgrado che sfidi temerariamente il
pericolo per punirsi del suo malvagio amore.
Anche Gianciotto sale alla torre. Stupisce di vedervi Francesca. Accetta
il vino che costei gli offre in una coppa che poi si appresserà alle
labbra riarse di Paolo.
Ecco una sciagura Malatestino, il minore fratello di Gianciotto e di
Paolo, è portato sulla torre, ferito, quasi esanime. Nel soccorrerlo,
Francesca scopre che egli ha un occhio crepato, ma non è morto. Infatti
il giovinetto può riaversi quasi subito e riprendere la battaglia che
ricomincia più terribile che mai.
Atto terzo
La camera di Francesca. La sposa di Gianciotto legge in un gran libro
sopportato da un alto leggìo... Legge di Galeotto... E le sue donne
ridono della storia... E per distrarla fanno venire i musici e cantano
un dolce e lieto calendimarzo e danzano invocando la primavera... Poi se
ne vanno così come comanda Francesca, che ha sentito l’avvicinarsi di
Paolo. E come questi è giunto, introdotto dalla schiava Smaragdi, dopo
lunga assenza vissuta a Firenze, fin dal primo salutarsi rinasce fra i
due amanti, tuttora mondi, l’antico amore, che prorompe e diventa
passione adultera ed incestuosa, quando essi leggono insieme il libro...
galeotto, fatto immortale dalle terzine dantesche, che tutti sanno a
memoria.
Atto quarto
È diviso in due quadri.
Primo quadro. Una sala. Francesca è seduta nel vano di un finestrone.
Malatestino dall’Occhio è in piedi, davanti a lei. Ed ella ne ha
ribrezzo, e respinge i suoi desiderî, le sue proposte. Accoglie invece
onestamente il marito Gianciotto ed anche si rallegra quando apprende
che costui deve, in qualità di podestà, recarsi a Pesaro e lasciarla
sola... E se ne va un poco racconsolata.
Ma il bieco Malatestino, che poco prima era uscito ebbro d’ira e di
strage, per uccidere un prigioniero custodito nella torre, ritorna
subitamente recando in un sacco la testa recisa del prigioniero, per
farne omaggio a Gianciotto. Al quale egli rivela la sua vergogna e
l’amore infame di Paolo e Francesca... E si offre di fargli sorprendere
gli amanti, la notte che seguirà...
È nel secondo quadro, nella stanza di Francesca, che Gianciotto sorprenderà gli amanti avvinti in un tenero amplesso..-.
Gli urti poderosi dei suoi omeri saldi contro la porta chiusa mettono in
sospetto e in terrore Francesca ed il suo Paolo. Ma c’è modo di salvarsi
ancora. Paolo s’inabisserà dentro una botola, prima che la porta ceda.
Ma la porta ha ceduto proprio in quell’attimo. Ancora la testa di Paolo
emerge dell’impiantito, perché le sue vesti si sono impigliate in un
ferro... Gianciotto gli è sopra: lo afferra per i capelli... Paolo si
15
appresta a difendersi con un pugnale. Ma lo stocco di Gianciotto ha
colpito in pieno cuore Francesca, che s’abbandona nelle braccia di Paolo.
Anche contro di lui si volge lo stocco di Gianciotto. Trafitti entrambi
mortalmente i due amanti, senza un gemito, si confondono in un amplesso,
e senza sciogliersi piombano sul pavimento, morti, mentre lo Sciancato
si curva in silenzio e spezza lo stocco sanguinoso.
Su questa trama, contenuta in giuste linee ed in opportuno taglio di
scene, corrono i quattro atti della tragedia musicata da Riccardo
Zandonai, che si rappresenteranno per la prima volta questa sera al
Regio.
---------(*)
Un riquadro al centro della pagina è stato ritagliato senza apparente perdita di testo se non forse della firma
dell’articolista.
9
Giambattista Cagno, Dalla «Francesca» di Silvio Pellico alla «Francesca»
del Regio, «Gazzetta del popolo», 19.2.1914.
Eccoci dinanzi ad uno degli argomenti su cui più si cimentarono e
travagliarono i cultori tutti delle arti belle, nazionali e stranieri.
Non c’è infatti esplicazione qualsiasi dell’arte – lettera, scultura,
pittura, musica – che non conti e vanti molti lavori, non sovente purtroppo capolavori, i quali furono ispirati dalla possente passione di
Francesca e Paolo, che entrambi li «condusse ad una morte».
Un po’ di storia
Restringendoci ora alla musica, su libretto di Felice Romani – tratto
nel 1823 dalla «Francesca» del Pellico – qua e là ritoccato, fiorirono
addirittura parecchi melodrammi, cioè del Carlini (Napoli, 1825), dello
Strepponi (Vicenza, 1825), del Mercadante (?, 1828, e Madrid, 1829),
dello Staffa (Napoli, 1830), del Fournier-Gorre (Livorno, 1832), del
Tamburini (Rimini, 1835), del Borgatta (Genova, 1837), del Cannetti
(Vicenza, 1843), del Sassaroli (Catania, 1846). Libretto e musica
scrisse Massimiliano Quilici (Lucca, 1825).
Una «Francesca» fu rappresentata a Vienna nel 1828, opera del piemontese
Pietro Mercandetti sunnominato Generali, su libretto di Paolo Pola – il
poeta di «Donna Caritea», che, musicata dal Mercadante, è famosa pel suo
coro: «Chi per la patria muor, vissuto è assai», intonato dai martiri di
Cosenza tosto appresa la sentenza capitale.
Nessuna
tuttavia
di
queste
opere
ha
resistito
all’oblio
dei
contemporanei; e lo stesso avvenne alle altre del Bassi-Manna (Cremona,
1832), del Maglioni (Genova, 1840), del Devasini sulla tragedia del
Pellico (Milano, 1841), del Brancaccio (?, 1844), del Pappalardo (Napoli,
1844), del Petillo (?, 1869), del Maccarini (Bologna, 1870), del
Marcarini, su libretto di Matteo Benvenuti (Milano, 1871), del Franchini
(Lisbona, 1837), del Nordal (Linz, 1840), del Boullard (Parigi, 1866),
del Moscuzza (Malta, 1877), ecc., quantunque sia stata applaudita quella
del Goetz, parole e note (Mannheim, 1877). Grandi meriti avrebbe invece,
secondo i competenti, l’opera del Morlacchi, che alcuni anzi giungono a
proclamare il suo capolavoro, sebbene sia rimasta incompiuta.
Come vedesi, l’elenco è già copioso, e non è puranco finito.
Numerose composizioni sul tema, oltre i melodrammi, si possono
annoverare: fra le quali rammenterò a titolo d’onore i poemi sinfonici
del Bazzini (che fu eseguito qui per la prima volta ai rimpianti
concerti popolari diretti dal Pedrotti) e del Tchaïkowsky (pure qui
gustato ai celebri concerti promossi dalla Società omonima sotto la
direzione di Hans Richter), e non dimenticherò come curiosità una
16
parodia tragicomica del Mastriani ed un ballo del Gioia, ideato per la
rinomata ballerina e mima Francesca Pezzoli.
Non tutti però i melodrammi scritti ebbero avversa sorte, ché taluni, e
dei più recenti, incontrarono giustamente il favore della critica e del
pubblico e vivono tuttora pregiati, se non sulle scene, nel ricordo di
chi si occupa con intelletto d’amore dell’arte di Euterpe. Vogliamo
alludere all’opera del Cagnoni su libretto del Ghislanzoni (Torino,
1878), a quella del Thomas su libretto di Barbier e Carré (Parigi, 1882)
e a quella del su libretto del Colautti «Paolo e Francesca» (Bologna,
1907), e a quella del Leoni su libretto proprio ricavato dalla
traduzione francese dello Schwob del dramma inglese di Marion Crawford
(Parigi, 1913, ultimi giorni). La «Francesca da Rimini» del godiaschese
(Voghera) Antonio Cagnoni fu scritta appositamente per il Regio, dove fu
appunto rappresentata per la prima volta la sera del 19 febbraio 1878
dall’egregia impresa Depanis, ottenendo accoglienza molto lusinghiera
dalla critica e dal pubblico, come si rileva dai giornali cittadini.
Fortuna ancora, quantunque minore, essa ebbe in Milano nel 1879, che si
rinnovò a Roma nel 1902, quando il tema era tornato diremo d’attualità
per le discussioni suscitatevi dalla tragedia del D’Annunzio.
Buon successo, ma memo segnalato e duraturo, ebbero pure le opere del
Thomas e del Mancinelli e del Leoni, non riprodotte mai sui teatri
torinesi, come l’antifonia ed i tre intermezzi dello Scontrino, eseguiti
il 1901 al Costanzi di Roma durante la prima rappresentazione della
«Francesca» dannunziana.
E veniamo così all’opera attuale, che tanta viva aspettazione e legittima speranza ha destato, e per l’importanza del noto argomento e per le
passioni dell’amore e della gelosia e dell’onore che si scatenano, e per
l’esito dei precedenti lavori, e per la fama del valoroso autore.
Il maestro trentino
Riccardo Zandonai, trentino – nella sua virilità di corpo e di mente e
di operosità geniale – è nome già caro ai torinesi, ed in genere al
pubblico italiano, per opere meritatamente applaudite ed apprezzate,
cioè «Il grillo del focolare» e «Conchita», un gioiello di musica
squisitamente colorita e luminosa, entrambe riprodotte sopra i nostri
teatri, e «Melenis», qui non ancora eseguita.
Allievo studioso e distinto, nel Conservatorio di Pesaro, del Mascagni,
molto e bene approfittò dell’insegnamento dell’illustre maestro, delle
cui eminenti doti egli ritrasse, pur imprimendo alle sue creazioni una
spiccata personalità, frutto di naturale ingegno affinato e temprato da
coscienziosa preparazione. Il che dà ragione di riprometterci da lui un’
opera degna del nome suo e della musica italiana, per quanto forse sia
lecito temere che, essendo già stato ampiamente trattato il tema
prescelto, le reminiscenze nel suo lavoro al pari che i confronti nel
giudizio altrui possano eventualmente influire, almeno qua e là,
sull’originalità della composizione come sull’obbiettività dell’esame.
Quanto alla musica, memore del giusto monito di Apelle, non mi attento a
parlarne, lasciandone la sentenza ai critici ed al pubblico, il critico
dei critici, il pubblico d’Italia, ove – come osservò Mazzini – la
musica ha patria e la natura è un concento e l’armonia s’insinua
nell’anima con la prima canzone che le madri cantano alla culla dei
figli. Solo annunzierò che i pochi iniziati che poterono udirla ne
dicono molto bene e che piacque davvero alle prove, alle quali attese
personalmente l’autore.
Concludo
quindi
senz’altro
fervidamente
augurandone
il
trionfo
all’autore, al librettista-editore, alla patria nostra, all’arte soavemente sublime dei suoni e dei canti.
17
10
Giuseppe Fanciulli, «Francesca da Rimini» . Tragedia di G. D’Annunzio Musica di R. Zandonai, «Il nuovo Giornale», 21.2.1914
TORINO, 20 febbraio.
In breve volgere di anni Francesca è tornata a rivivere più volte la sua
tragedia d’amore sulle scene del teatro lirico.
La sanguinosa pagina di cronaca malatestiana fu rievocata un sette anni
fa da Arturo Colautti in un solo atto serrato e rapido, per Luigi
Mancinelli; proprio in questi giorni, a Parigi, si sono riprese le
rappresentazioni di una Francesca del Maestro Leoni; e stasera il
foltissimo pubblico del teatro Regio ha accolto con ansiosa attenzione,
con commozione ininterrotta, la Francesca di Gabriele d’Annunzio, che
tornava, dopo anni di silenzio, con la veste musicale per lei foggiata
da Riccardo Zandonai, uno dei più giovani come dei più animosi maestri
nostri. La persistenza nei secoli di questa figura tragica, che ebbe da
Dante la prima vita estetica, è davvero meravigliosa. Le sue forze
essenziali emanano tuttora un ben possente fascino, se un poeta d’oggi e
un musicista ancor più lontano dal tempo che generò quella creatura –
perché il musicista si esprime oggi con mezzi allora sconosciuti – hanno
potuto trovarsi d’accordo nella fervida ammirazione e nel desiderio di
intessere nuovamente intorno a quelle forse essenziali la forma viva,
capace di essere amata e pianta dalle moltitudini nuove.
Come è noto, l’accordo fra d’Annunzio e lo Zandonai fu all’inizio
puramente ideale; pensò a tradurlo in fatto Tito Ricordi, e non come
editore solamente, ma sopra tutto come riduttore della tragedia
dannunziana. Il compito di Tito Ricordi fu veramente terribile;
sfrondare i rami di pianta così preziosa, ridurre una tragedia ampia,
ricca di sviluppi aneddotici e ornamentali nei limiti di un comune
libretto era tutt’altro che facile, ed è anche naturale che a lavoro
compiuto non sieno mancate le critiche per il coraggioso potatore.
È certo che per un lettore – se fosse possibile trovarlo – il quale
ignorasse completamente la preesistenza estetica di Francesca, questo
libretto
in
sé
considerato
apparirebbe
pur
sempre
una
nobile
composizione, infinitamente superiore a infiniti confratelli suoi, ricco
di azione e ricco di poesia, vigoroso e prezioso insieme; ma tuttavia
non mai tale da recar nuovo lustro alla gran firma dell’autore.
Nei primi due atti, è stato detto, i protagonisti della tragedia si
vedono di scorcio, mentre nella ricostruzione aneddotica dell’ambiente
si notano sproporzioni e incertezze e quasi inosservato, con grave danno
di quanto seguirà, passa il tradimento ordito fra Ostasio e Ser Toldo
per far credere a Francesca che Paolo sia lo sposo, e non il procuratore
del fratello. Tutto questo, in gran parte, è vero, ma, aggiungo subito,
non ha molta importanza, è critica oziosa.
Nessuno poteva supporre che la tragedia dannunziana dovesse ricevere
bellezza da quelle amputazioni, e bisogna rallegrarsi anzi che queste
sieno state eseguite da persona di gusto sicuro e di provata esperienza
teatrale. Uno spettacolo ha esigenze proprie, a cominciar dalla durata
sulle quali non si può passar sopra: la Parisina informi. Ma c’è ben di
più, né lo Zandonai ha dato la sua musica alle sole parole sopravvissute
dopo la riduzione, né il pubblico solamente con la conoscenza di quelle
ha integrato il fantasma puramente musicale.
Poco prima, trascinato dalle abitudini del linguaggio – che sono spesso
cattive abitudini – ho detto che Zandonai ha dato ha dato a Francesca
una nuova «veste musicale»; ebbene, se mai la veste, che è cosa
materiale ed esteriore, trova i suoi limiti necessari, si circoscrive
nelle parole precise del libretto; ma l’anima che è nei protagonisti
della tragedia, nei personaggi minori e nelle cose che li circondano a
18
costituire l’ambiente e il tempo loro, va ben oltre quei limiti.
Zandonai ha musicato, in realtà, tutta la Francesca di D’Annunzio, e più
ancora quella che è viva nella nostra tradizione estetica da Dante in
poi. Se si confrontano allora le parole che effettivamente costituiscono
il libretto al tesoro di quella tradizione, la mutilazione potrà
apparire ben altrimenti enorme; ma, diciamo subito, enorme all’apparenza
e insignificante nella sostanza, perché la musica non ha subìto
riduzione e si è sforzata anzi, coi suoi mezzi che le consentono
concentrazione di espressione ben superiore a quella della poesia, a far
rifulgere tutto quel tesoro senza perderne la minima pagliuzza.
Questo è tanto vero che lo Zandonai stesso dichiara dio non avere avuto
nel comporre il suo spartito nessuna preoccupazione di ricostruzione
storica: questa Francesca non è quale fu, ma quale può essere sentita da
un musicista moderno. La preferenza data alla Francesca dannunziana si
spiega pur facilmente: essa era la forma rappresentativa della creatura
diffusa nella tradizione, per così dire, che probabilmente più si
avvicinava a quella che già viveva nel pensiero dello Zandonai; ed era
anche la forma che più visibili recava gli elementi musicali, intimi ed
esteriori. C’è nella tragedia dannunziana, dal principio alla fine,
un’ombra di torbido patos che ricorda «la bufera infernal che mai non
resta». Dice a Paolo, Francesca implorante:
È dolce cosa vivere obliando
almeno un’ora, fuor dalla tempesta
che ci affatica.
Ma è un attimo; l’onda incalza, e naturalmente doveva trovare la sua
chiara espressione nel dinamismo musicale. C’è la furia di Malatestino,
la bestialità di Gianciotto; e attorno a questo gorgo in cui ribollono
l’oro e le scorie è tutto un fiorire di trilli, di gorgheggi e di risa
per le fresche voci di Biancofiore e di Garsenda, di Altichiara e di
Dionella.
C’è l’ardore del fuoco greco, l’impeto delle balestre e degli acciari; e
vicino un rosaio che diffonde il suo inno alla vita, e ghirlandette di
narcisi che languiscono per troppo amore. Tutto questo è già musica,
musica presentita e non ancora sentita; mentre pure il verso realmente
suona in larghi respiri o tintinna come metallo di ottima lega.
D’altra parte, come già accennavo, il pubblico non si è preparato ad
accogliere la nuova interpretazione musicale con la lettura del solo
libretto o semplicemente col vedere e udire quel che avveniva sulla
scena: esso già conosceva l’intera Francesca di D’Annunzio e aveva nei
propri ricordi fantastici anche la più ampia Francesca della tradizione.
Questa condizione di cose diminuiva di molto la responsabilità del
riduttore-librettista, ma accresceva di gran lunga quella del musicista;
non si trattava di far conoscere una nuova creatura d’arte ma di far
riconoscere chiara, nitida, viva come non mai una creatura che
inconsapevolmente si celava in noi, da quando abbiamo cominciato ad
adornare il contenuto reale del nostro spirito con le figure dei sogni
più profondi.
Questa prima rappresentazione di «Francesca da Rimini» era un eroico
cimento, e Riccardo Zandonai l’ha superato da trionfatore.
*
I cinque quadri di questa «Francesca» hanno uno per uno distinta
fisionomia, ma tutti sono collegati e pervasi da una stessa onda di
passione. «Amor le fa cantare» è il motto che potrebbe sintetizzare ogni
creatura della tragedia musicale. La prima grande originalità di questo
spartito nel confronto con la produzione moderna sta nella prevalenza
19
assoluta del canto. Le voci si diffondono
la loro mutevole fluidità, che sembrano
voler rendere tutta la commozione, il
parole stesse emergono. Zandonai disegna
sintesi di rara profondità. Tutta l’anima
che ella canta dall’alto della loggia, al
in melodie che mai esauriscono
piegarsi parola per parola a
calore individuale da cui le
musicalmente le sue figure con
di Francesca è già nella frase
suo primo comparire:
Come l’acqua corrente
che va, che va, e l’occhio non s’avvede,
così l’anima mia...
Paolo, al suo presentarsi e poi sempre, ha un respiro ampio ed ardente.
Gianciotto si annunzia con un ritmo zoppicante e incalzante. Malatestino
è racchiuso in frasi contorte, che di tanto in tanto si slanciano nelle
note acute e poi tornano a strisciare come serpi. Samaritana ha un canto
pieno di presaga malinconia. Le ancelle di Francesca si sentono
sopraggiungere
e
poi
sparire
in
un
continuo
trillo
fatto
di
inconsapevole
e
semplice
gioia.
Saldi,
nitidi,
immediatamente
comprensibili sono pure tutti gli atteggiamenti di queste figure. La
melodia di continuo ci dà la rivelazione di stati d’animo sempre nuovi.
Lo spettatore ha una particolare commozione nel riconoscere e sentire
una così intensa varietà di vita. È raggiunto uno dei fini essenziali
dell’arte: suscitare aspetti infiniti e tutti veri in quello che pare un
unico monotono vero. Ricordo l’ansia di Francesca dopo che per la prima
volta ha veduto Paolo, quando dice alla sorella:
Portami nella stanza
e chiudi la finestra,
e dammi un poco d’ombra
e dammi un sorso d’acqua
e ponimi nel tuo piccolo letto
e con un velo ricoprimi, e fa
tacere queste grida, fa tacere
queste grida e il tumulto
che ho nell’anima mia...
La maschia gioia di Gianciotto sulla torre della battaglia, dopo che
Francesca inopinatamente incontrata gli ha porto la tazza del vino:
È dolce cosa
rivedere la vostra faccia, dopo
la battaglia e da voi avere offerta
una coppa di vin possente, e beverla
d’un fiato, così.
Il concitato lamento di Paolo nella stanza di Francesca, al ritorno da
Firenze, che incomincia:
Perché volete voi
ch’io rinnovi nel cuore la miseria
di mia vita?
Le semplificazioni non sono possibili perché dovrebbero essere infinite.
Zandonai in tutta la sua produzione è stato eccellente istrumentatore, e
la nuova partitura è un nuovo magnifico documento anche per questo. Il
maestro ha avuto uno straordinario senso di misura: l’orchestra non
supera mai le voci ma intorno ad esse, intorno cioè alle pure formule
emotive, pone di continuo una trama finissima e piacevolissima, tutta
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colore e sfumature, trasparente anch’essa e luminosa. L’orchestra ripete
le eco [sic] delle voci, suggerisce ricordi, idee e sentimenti associati,
ed è poi la voce delle cose che non hanno voce. Solo quando la
commozione troppo intensa par diffondersi e tutto sembra gridare,
l’orchestra pure solleva il respiro, si estende come nelle zuffe
dall’alto della torre al secondo atto, come nella zuffa ben più
terribile del terzo in cui due volontà si perdono e trionfano con un
bacio.
L’opera non ha preludii; solo poche battute di quadro in quadro
precedono l’aprirsi del velario; sono come palpiti dell’imminente canto.
Ma vi sono alcune pagine che hanno trionfato come pagine orchestrali –
pur essendo esse stesse tutte soffuse di canto. Ricordo il coro delle
donne nel primo atto, dall’alto della loggia, e la deliziosa, finissima
«canzone a ballo» del terzo atto.
Questa strumentazione delicata e sapiente, che ha permesso allo Zandonai
di svolgere tutto il secondo atto in due piani estetici, quello della
battaglia e quello dell’incipiente tragedia familiare, non ha mai
stranezze o effetti ricercati. La viola pomposa al primo atto susurra
dolcissime frasi; gli istrumentini dei sonatori del 3° atti danno
graziosissimi colori, ma non si potrebbe mai riconoscere nella
armonizzazione nuova, libera di impacci, alcuna stranezza vo facilmente
come per quest’opera, come del resto per tutta la produzione dello
Zandonai, non si possa parlare né di scuola né di derivazioni. Questa
musica presuppone Verdi, Wagner e Debussy, ma anzitutto presuppone un
artista sincero che alla feconda vena unisce la ponderata sapienza e la
tenace volontà. Anche la volontà: sono certo che lo Zandonai ha dovuto
vincere non poche tentazioni per costringere la sua ispirazione nei
limiti imposti dalla scena. E anche per questo ha trionfato. Il pubblico
l’ha seguito con attenzione intensa, non ha perduto anche in questa
prima audizione il senso di vita profonda che anima tutto il nuovo
lavoro.
Il Maestro può essere ben contento, come il pubblico, dei suoi
interpreti. Linda Cannetti ha creato una Francesca di fiamma: la sua
voce bellissima ha avuto tutte le dolcezze e tutte le violenze. Giulio
Crimi ha cantato con molta passione tutta la sua difficile parte e ha
composto con grande efficacia il personaggio. Ottimo il Cigada come
Gianciotto, e lodevolissimo il Paltrinieri come Malatestino: tutt’e due
hanno reso con drammatica evidenza la scena della delazione nel primo
quadro del quarto atto. Bene assai tutti gli altri, e concorde,
correttissima, la falange orchestrale sotto la direzione del Panizza che
a concertare questa opera ha posto tutto il suo amore e la sua scienza.
Gli applausi sono stati interminabili quadro per quadro, e qualche volta
sono scoppiati a scena aperta. Un successo grande e duraturo. Dobbiamo
rallegrarcene per la gloria dell’arte – e anche dell’arte italiana: il
che non è di troppo.
La
“Francesca
da
Rimini”
di
D’Annunzio
e
Zandonai.
La
prima
rappresentazione al “Regio” di Torino, «L’Ora» [Palermo], 20-21.2.1914
Se la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai conseguirà – come di gran
cuore auguriamo – vittoria, il merito sarà anche di colui che ridusse e
adattò per la musica la tragedia di Gabriele D’Annunzio: vogliamo dire
del comm. Tito Ricordi, il quale dalla pittoresca, passionale, ma qua e
là troppo liricamente verbosa opera del grande poeta abruzzese seppe
trarre un libretto serrato, agile, pieno d’equilibrio, che si presta
mirabilmente alla veste musicale. Tito Ricordi ha fatto una riduzione
che dimostra quale e quanto senso del teatro egli possieda, come senta
ciascuna scena in sé stessa e nella sua concatenazione con le altre,
21
come intuisca e prepari l’effetto scenico che dalla linea totale
dell’opera debba scaturire. La tragedia del D’Annunzio nell’elaborazione
di Tito Ricordi nulla perde del suo colore, del suo calore, del suo
pathos sottile e suggestivo, ma acquista in rapidità, e di statica
diventa in sommo grado dinamica, andando al segno dritta come lama. È
come un albero, cui siansi tolte le troppe fronde che l’ingombravano, e
che meglio splenda nella grazia delle sue corolle magnifiche. Se la
Parisina, prima di cadere in mano di Pietro Mascagni, fosse passata
attraverso uno spirito critico e teatrale come quello di Tito Ricordi,
il nostro teatro lirico vanterebbe oggi forse un dramma musicale in più.
È una riflessione che nasce spontanea da un raffronto tra la Parisina e
la Francesca da Rimini.
Il nostro valoroso inviato speciale ci manderà da Torino larghe notizie
sull’accoglienza che farà il pubblico alla nuova opera di Riccardo
Zandonai, il genialissimo autore di Conchita, il possente musicista che
tanto fa sperare per la gloria del nostro teatro lirico; e giacché
trattasi d’un avvenimento artistico singolarissimo, crediamo opportuno
offrire ai lettori lo schema della tragedia.
La tragedia nella riduzione di Tito Ricordi(*)
---------(*)
Segue, a firma M., il racconto minuziosissimo della storia, scena per scena.
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Enrico Serretta, La musica di R. Zandonai, «L’Ora, 20-21.2.1914
Torino, 19 notte
(Dal nostro inviato speciale)
È ormai divenuto un vecchio luogo comune parlare di attesa vivissima, di
impazienza ansiosa, di previsioni disparate nell’imminenza di un grande
avvenimento artistico. Però mai come per questa Francesca che il comm.
Tito Ricordi ha ridotto dal poema D’Annunziano per la musica di R.
Zandonai le vecchie frasi sarebbero opportune. Critica e pubblico
aspettavano la prima di questa sera con veramente insolita ansia
principalmente per due motivi: per avere anzitutto un altro elemento –
dopo l’esito di Parisina – per giudicare se e quanto convenga a un
musicista ispirarsi e produrre un’opera su un poema di Gabriele
D’Annunzio, ed anche specialmente perché Riccardo Zandonai è il
giovanissimo maestro su cui oggi, dopo le precedenti sue opere,
convergono le migliori speranze di tutti coloro che si appassionano per
il teatro e per la bella musica italiana e da cui si aspetta bene a
ragione «il capolavoro».
La sala del Regio è questa sera meravigliosa di folla, di eleganza e di
intellettualità. Tutti i grandi giornali d’Italia, moltissimi giornali
esteri hanno espressamente inviato a Torino i loro critici musicali. Non
è solamente un’opera nuova che stasera siamo chiamati a giudicare – e
fra i giudici notiamo anche molti maestri e compositori celebri –; ci
può esser da fare qualche cosa di più e di meglio: dare dirò così la
cresima della gloria ad un giovane di trent’anni che ha già da un pezzo
mostrato di che produzione mirabile può esser capace il suo ingegno e
come sia salda e profonda la sua cultura musicale.
Il maestro
Chi avvicina per la prima volta Riccardo Zandonai prova anzitutto come
un senso di piacevole stupore nel non trovare in lui il «grand’uomo». Il
successo non l’ha guastato. Egli è rimasto buon ragazzo, semplice,
affabile, sorridente e vi parla delle sue opere solo se voi gliene
parlate. Altrimenti vi parlerà d’altro, magari del suo virginia che non
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tira – perché come Mascagni ha i toscani, Zandonai ha i virginia a getto
continuo. Oppure non vi parlerà di nulla. Questo è assai più probabile
poiché egli anche trovandosi in compagnia preferisce star zitto. Ascolta
gli altri e sorride, talvolta anche quando non li ascolta. Perché spesso
dal suo sguardo si capisce che è lontano.
Quando, nei brevi riposi, non è al suo paese fra i suo cari, vive a
Milano, spesso ospite di un suo amico, il dottore Pizzini che egli si è
sempre trovato accanto dal principio della sua carriera, validissimo e
fraterno protettore, e passa le sue ore libere in una ristretta
compagnia di giornalisti, fra cui è qualche giovane e noto autore
drammatico, qualche poeta, qualche letterato. Ma raramente si parla di
musica, specie della sua musica. Provare a chiedergli un’intervista e
vedrete subito il suo viso rattristarsi e il sorriso scomparire dalle
sue labbra.
Proprio per questo, per non fargli dispiacere, io ho dovuto rivolgermi
ad altri per avere qualche notizia sui primi anni della sua vita
artistica. Colui a cui mi sono rivolto, che conosce Zandonai da
moltissimi anni, era infatti bene informato. Fin dalla più tenera età –
cominciò – egli mostrava una straordinaria inclinazione per la musica...
Non potei trattenermi dal sorridere ascoltando la solita vecchia frase.
Ma non sorrisi più al resto del racconto.
Perché è verissimo che il musicista di Francesca aveva appena tre o
quattro anni quando ascoltava estatico le vecchie melodie di Bellini e
delle prime opere di Versi strimpellate sulla chitarra da un suo zio,
nel nativo paese di Sacco nel Trentino. Quella chitarra è oggi appesa a
una parete dello studio del maestro e son legati ad essa i più dolci
ricordi. Fu quello il primo strumento musicale da cui trasse le prime
note quando non aveva ancora sei anni, e fu la prova incontestabile
della veramente incredibile passione del fanciullo per la musica, che
era il suo solo balocco, il suo solo svago, l’unico suo passatempo.
E cominciò a studiare. Dapprima con un vecchio tedesco, ex trombone di
una banda militare ed impiegato nella manifattura di tabacchi di Sacco
che gl’insegnava il violino a colpi di arco sulle dita; poi col maestro
Vincenzo Gianferrari, direttore della scuola musicale di Rovereto, che
con gioia lo accolse e gli rifece dai principii la teoria del violino.
Riccardo Zandonai aveva dodici anni quando cominciò a studiare il
pianoforte e l’armonia; a tredici anni componeva le prime romanze, a
quindici fu ammesso al primo corso del liceo musicale di Pesaro. Rimase
al liceo tre anni, quanti gliene bastarono per vincere in tutti gli
esami necessari, e alla fine del terzo anno ebbe il primo successo
quando venne eseguito come saggio di composizione finale un suo poema
sinfonico per cori e orchestra su «Il ritorno di Odisseo» di Giovanni
Pascoli. Fu giudicato un lavoro pieno di bellezze. Il suo primo
melodramma fu «La coppa del Re» tratto dal Taucher di Schiller, che il
giovanissimo maestro presentò a un concorso Sonzogno nel 1902.
Riccardo Zandonai arrivò a Milano due anni dopo, nel 1904, e da Arrigo
Boito fu presentato a Giulio Ricordi. Il grande editore capì subito alla
prima audizione che molto ci sarebbe da aspettarsi da quel ragazzo. Gli
consigliò subito di mettersi al lavoro cercando un libretto e
musicandolo.
La vera carriera di operista di Riccardo Zandonai comincia da allora.
Le prime opere
La prima opera che Zandonai presentò a casa Ricordi e che gli valse i
primi successi teatrali fu Il grillo del focolare, una commedia musicale
tratta da una novella di Dickens. Il maestro si rivelò dunque
affrontando il genere più difficile, poiché rivestì di bella musica
un’azione intessuta di sano e corretto umorismo. Il grillo del focolare
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fu l’opera d’inaugurazione del Politeama Chiarella a Torino ed ebbe
incondizionata ammirazione del pubblico per il giovanissimo autore e
favorevole critica. Anche più tardi a Genova, e poi a Nizza, il successo
fu eguale. Qualcuno credette notare nella musica del Grillo un certo
studio di imitazione del Falstaff e in generale degli ultimi lavori
della scuola italiana. L’osservazione non era esatta perché son da
allora la musica dello Zandonai appariva molto più moderna e si
profilava una nuova e assolutamente originale individualità artistica
che si affermò poco tempo dopo con Conchita, tratta dal romanzo di
Pierre Louis [Louÿs] La femme e le pantin [sic] dal poeta Carlo Zangarini.
Conchita fu data la prima volta al Dal Verme di Milano nel novembre
[ottobre] del 1911, con un successo magnifico. Essa è apparsa subito
dovunque un’opera piena di bellezze e di originalità, frutto veramente
d’un’intelligenza geniale, ed il suo autore è stato giudicato un
colorista straordinario. La musica di Conchita è fatta di melodie che
sembrano sensuali; palpita dal principio alla fine di ritmi avvincenti e
vivaci e brilla di ricche e variate tinte orchestrali. È veramente
moderna di idee e di espressioni pur essendo appassionata nel vecchio
significato italiano. Lo Zandonai ha mirato in Conchita a fare delle
grandi linee sinfoniche con l’orchestra e ad ottenere la caratterizzazione dei personaggi col ritmo più che con altri mezzi, e vi è
indiscutibilmente riuscito.
Così Conchita ha fatto e continua a fare il suo giro trionfale in tutti
i teatri d’Italia e all’Estero. A Londra, a Buenos Ayres, a New York, a
San Francisco, a Chicago ecc. ha avuto successi indimenticabili.
Quest’anno figura nel cartellone del nostro Massimo per l’imminente
grande stagione.
Contemporaneamente a Conchita Zandonai veniva componendo un’altra opera,
Melenis, che aveva cominciato subito dopo la prima esecuzione del Grillo
del focolare e poi aveva quasi abbandonata, L’ambiente di Melenis è la
Roma decadente con la sfrenata corruzione dei costumi e la prima aurora
del cristianesimo. La protagonista è un’etera greca che muore d’amore
per un giovane gladiatore romano. Melenis è stata giudicata un’opera di
grande intensità drammatica e di forte rilievo. Vi appare il sistema
dell’autore di servirsi della declamazione melodica, e, come Conchita,
anche Melenis è pervasa da una melodia a grandi linee, e l’armonia è di
fattura modernissima.
La rappresentazione
Quando il maestro Panizza, alle 20,50 precise dà il primo attacco
all’orchestra e si leva il velario e appare la scena del primo atto, si
fa nella sala subito il più religioso silenzio.
Il canto delle ancelle e del giullare con cui l’atto comincia appare
originale e squisito e conquista subito il pubblico foltissimo, cui
piace anche il duetto fra Ostasio e Ser Toldo. Dolcissimo è il canto
delle donne che prevede l’entrata di Francesca e commovente il duetto
fra questa e Samaritana, L’atto di chiude con l’offerta della rosa che
Francesca fa a Paolo, commentata da una pagina musicale deliziosa piena
di una larga onda melodica. Scoppiano appalusi fragorosi agli artisti,
al maestro Panizza e all’autore.
La Canetti ha cantato egregiamente. A qualcuno sembra un po’ fredda, ma
non si può negare che pur essendo desiderabile in lei un po’ più di
anima e di calore, in compenso ella canta con voce e con arte magnifica.
Il secondo atto è l’atto della battaglia; si preparano armi ed ogni
strumento di guerra quando appare Francesca. All’arrivo di Paolo, il
duetto fra i cognati che si svolge in mezzo ai rumori delle mischie che
sono accompagnati da un vigoroso commento orchestrale, è conciso,
serrato, impressionante. Il tema dell’amore si rinnova nel giudizio di
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Dio innanzi alla bertesca, fino all’arrivo di Gianciotto accompagnato
dal ritmo che lo caratterizza, che vien giudicato originalissimo. Piace
assai il delirio di Malatestino ed il suo grido: a cavallo! che è di
un’efficacia musicale sorprendente.
Il successo è vivissimo, come pel primo atto. La Canetti, il tenore
Crimi, che ha una bella voce fresca ed estesa, il Cigada, il Paltrinieri
sono applauditissimi col maestro Panizza e l’autore. Sono anche molto
ammirati i costumi dovuti all’impareggiabile Caramba.
E siamo al terzo atto, l’atto del bacio. «...Presso la finestra è un
leggio con suvvi aperto il libro della Historia di Lancillotto del
Lago...» All’inizio si vede Francesca dinnanzi al libro in atto di
leggere. Le donne ascoltano l’istoria e ridono. L’orchestra colorisce la
scena e accompagna il canto con motivi dolci e primaverili, come nel
primo atto, che s’interrompono nel duetto fra Smaragdi e Francesca.
L’intero atto, con l’entrata dei musici, il ballo delle ancelle, il
canto di primavera è un continuo succedersi di melodia dolcissima,
commovente. Al bacio finale, commentato con grande vigoria d’orchestra,
il pubblico entusiasta applaude calorosamente, lungamente.
Il quarto atto è diviso in due episodi, l’uno e l’altro stretti, serrati,
efficacissimi. Il duetto tra Francesca e Malatestino, di quando in
quando interrotto dai gemiti del prigioniero che sta per essere ucciso,
è di una drammaticità impressionante. All’arrivo di Gianciotto e alla
denunzia del tradimento ritornano i temi che caratterizzano i personaggi
e il tema della rosa del primo atto. Il duetto fra i due fratelli con
cui si chiude il primo episodio è colorito dall’orchestra con grande
vigoria. Il pubblico applaude con calore.
E veniamo alla catastrofe: nel secondo episodio Francesca appare come
pervasa da un’ansia paurosa. La sua mente vaga fra ricordi lontani, fra
cui specialmente quello della dolce sorella, la piccola Samaritana.
E l’orchestra segue questi ricordi coi temi del primo atto. Poi,
l’entrata di Paolo, il breve duetto e il fragoroso irrompere di
Gianciotto. I morituri, stretti in faccia al tradito, cantano il loro
ultimo duetto d’amore sullo stesso tema che sin dal primo atto ha svolto
solamente l’orchestra. Subito dopo, la morte. Pochi tocchi vigorosissimi
d’orchestra e cala il sipario. Gli applausi scrosciano unanimi,
interminabili.
La musica
Con
Francesca
da
Rimini
Riccardo
Zandonai
ha
meravigliosamente
riaffermato la sua fama di musicista di ingegno aristocratico, originale,
fertilissimo. Colorista mirabile, egli ritrae dall’orchestra infinita
ricchezza e novità di effetti con grande freschezza di tinte e con pochi
tratti caratterizza personaggi e situazioni, ora con forza di passione
violenta, ora con squisite sfumature piene di poesia. Egli dimostra in
Francesca di aver raggiunto la perfezione per quel che riguarda la
semplicità dei mezzi e la chiarezza, che sono le più evidenti
caratteristiche della sua arte.
Compreso da profonda riverente ammirazione pei versi del grande Poeta,
ha voluto che neppure una parola ne sfuggisse ed ha adottato un
declamato melodico suo proprio che si svolge e si snoda flessuoso
colorendo ogni espressione, ogni parola. E un’onda di melodia scorre per
tutta l’opera, ora affidata al canto, ora all’orchestra, ora ad entrambi
e si spiega più limpida quando la situazione lo permette o lo richiede.
È melodia moderna e nel tempo stesso perfettamente italiana, come nel
dolorante duetto delle sorelle al primo atto, di cui il tema, ancora più
triste ed angoscioso, ritorna nella memoria di Francesca al IV atto.
Così pure essenzialmente melodica è la fine del primo atto, e la fresca
scena del canto primaverile delle ancelle. Ogni personaggio, dall’umile
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schiava all’appassionata e dolente Francesca, da Ser Toldo al feroce
Malatestino, al rozzo Gianciotto, è rivestito di vita musicale ed
accenni suoi proprii.
È la più ricca tavolozza di suoni, che in Francesca ci vien presentata
da questo giovane maestro che è stato definito il Segantini della musica.
Ogni battuta, ogni particolare ha la sua importanza, il suo significato,
il suo valore. Al primo atto la scena fra le ancelle e il giullare è
accompagnata da un vero tempo di sinfonia, un allegro con una linea
melodica moderna ma di sapore eminentemente classico. Nella seconda
parte dell’atto è un succedersi di quadri musicali, dalle grida festose
delle ancelle al dolente addio di Francesca e Samaritana, alla sfumatura
di commossa poesia nella presentazione della rosa, quando il tenue coro
delle fanciulle è accompagnato da una melodia affidata al liuto, alla
viola pomposa e all’oboe che imita il piffero. Questa melodia ritornerà
più volte nel corso dell’opera, più o meno trasformata e resa persino
come in tono di caricatura allorché Malatestino denunzia al fratello il
tradimento.
La musica del secondo atto è in pieno contrasto con quella del primo.
L’autore ha voluto esprimere con uno sprazzo violento di colorito
musicale il fremito orribile della battaglia. Ma con questo s’intreccia,
or dolce or concitato, il duetto fra Paolo e Francesca e poi l’entrata
di Gianciotto col suo tema zoppicante, il delirio di Malatestino, il
magnifico grido: a cavallo! Il quadro si chiude con una breve e potente
pagina polifonica nella quale al tema della battaglia si unisce il tema
del duetto nel giudizio di Dio.
Nel terz’atto torniamo all’ambiente sereno col canto di primavera delle
ancelle, che si alterna coi presentimenti angosciosi di Francesca. Il
duetto finale è tutto vibrante di passione intensa negli accenti dei due
amanti quando leggono il libro galeotto, accenti sostenuti dal commento
vigoroso dell’orchestra.
La prima parte dell’ultimo atto è fatta di musica aspra, musica di
ferocia, di rancore e di odio specie nella coloritura delle passioni di
Malatestino. Il declamato raggiunge in questo punto un’efficacia
straordinaria, impressionante. La seconda parte invece è pervasa da un
senso di tristezza e come di vago terrore. L’atto si chiude col duetto
pieno d’impeto fra i due amanti, in cui il tema finale del primo atto,
che fin qui è sempre stato sempre solo affidato all’orchestra, erompe
dalle labbra dei due amanti con gli accenti di una passione folle ed è
troncato dalla catastrofe rapida.
È opinione generale che Francesca sia l’opera più completa del giovane
maestro.
Il successo
Il successo veramente magnifico, indimenticabile che ha stasera ottenuto
Riccardo Zandonai è il degno coronamento di tutto l’amore immenso con
cui egli ha lavorato attorno a questa Francesca che gli ha fornito sì
larga messe d’ispirazione.
Qualche critico ha notato nelle precedenti sue opere come esse siano
fatte più che altro di studio profondo e di bene assimilata scienza
musicale e come in esse faccia un po’ difetto l’anima, la passione.
Ebbene, in Francesca è la passione che prorompe, che ravviva tutta la
musica dalla prima all’ultima nota. E gli spettatori sono stati presi,
avvinti, trascinati atto per atto, scena per scena, ed hanno applaudito
commossi, entusiasticamente.
Il primo atto suscita commozione ed entusiasmo indescrivibile. Il
pubblico chiama sei volte con grandi applausi gli artisti, il maestro
Panizza e l’autore. Nei corridoi i commenti sono favorevolissimi.
26
Nel secondo atto la battaglia è riprodotta con una perfezione
impressionante. Alla fine sono chiamati quattro volte gli artisti e
l’autore.
Nel terzo atto sono applauditi a scena aperta il canto delle donzelle e
l’improvviso di Paolo. Suscita commozione enorme tutto il brano del
bacio e il finale. Il pubblico chiama altre sette volte gli interpreti e
l’autore, al quale fa una grande ovazione.
Nel quarto atto, dopo la prima parte il pubblico chiama tre volte gli
artisti e l’autore, e sette volte li chiama dopo la seconda parte,
facendo un’imponente dimostrazione al maestro Zandonai e consacrando il
successo dell’opera.
13
Filippo Brusa, “Francesca da Rimini” di R. Zandonai al teatro Regio, «Il
Momento», [20.2.1914]
Dopo un lungo periodo preparatorio il novissimo spartito poté ieri sera
giungere lietamente in porto e assecondare così l’attesa vivissima di
quanti nutrono la fiducia migliore nel giovane e fecondo maestro
trentino salito in poco tempo ad una notevole considerazione tra gli
intelligenti.
L’uditorio accorso seguì infatti lo svolgersi dell’opera con quell’
attenzione
intensa
che
al
compiacimento
congiunge
il
rispetto
raccogliendosi in silenzio non appena il maestro Panizza ebbe dato il
segnale d’attacco.
Il primo atto
S’apre su di un movimento spigliato con vaghi accenni di viola interna.
È la vecchia compagna del giullare che viene a chiedere ospitalità nel
castello dei Polentani. Le ancelle di Francesca lo interrogano scherzose.
E passa nell’orchestra un fremito vago di giovinezza e di comicità
contenuta. Il giullare canterà loro storielle e romanze ed in compenso
non chiede che un pezzo di scarlatto per rappezzare la gonnella. Anche
la dama che va sposa ad un Malatesta sarà prodiga al cantatore di doni.
Le fresche voci delle fanciulle commiste allo scoppiettio dell’
istrumentale conferiscono al quadro una grande gaiezza. Si alternano, si
uniscono. Il giullare canterà di Artù e del filtro magico che la madre
Lotta somministrò a Tristano ed Isotta. E la viola preludia mentre le
donne protese dal balcone sono in attesa.
Ma Ostasio, fratello di Francesca, vociando villanamente, sopraggiunge
interrompendo. Egli teme nel giullare un cortigiano di Malatesta venuto
a conoscenza di ogni artifizio ordito da Ser Toldo notaio per dare in
isposa Francesca a Gianciotto, ch’è sciancato e ripugnante, prima
ch’ella lo veda. Lo atterra, lo percuote e lo scaccia.
Un canto giunge dalle stanze. È un ritornello antico, una cantilena
suggestiva. Liuti, viole e pifferi lo accompagnano. E si diffonde una
dolce melanconica nostalgia come un’eco insinuante ed insistente. La
pagina ha sapore evocativo. Qualche accenno agli antichi modi con tocchi
discreti ne accresce il potere. Francesca al braccio di Samaritana
appare come assorta: «Come l’acqua corrente che va, che va e l’occhio
non s’avvede». Anche la sorella nell’ora dell’abbandono è sgomenta.
All’alba dal lettuccio attiguo ella più non sorgerà ad annunziarle la
stella diana ed il tramonto delle gallinelle.
Il gaio sciame delle ancelle ritorna. Si chiama Francesca. Accorra essa
a vedere lo sposo. Esse che lo credono fidanzato è degno di lei. Paolo,
venuto a rogar l’atto per mandato del fratello, si arresta tra gli
arbusti del giardino. Ed i loro sguardi s’incontrano turbati per la
prima volta. Presaga, Francesca dice a Samaritana: Fa cessare questo
27
tumulto: corretegli incontro. Francesca gli si avvicina, coglie una rosa
e gliela offre.
Il momento è musicalmente denso di poesia. Ed il musicista dedito spesso,
come già altrove, all’episodio con una pennellata sapiente riesce a
raccogliere il quadro in un’atmosfera morbida, di delicatezza soavissima.
Un lieve tremolio di archi su larghe armonie delle sonorità medie
avvolge la melodia che i sonatori dalla loggia scandono dolcemente.
La viola pomposa che lo Zandonai ha introdotta quivi trae dalle corde
suoni accorati e penetranti cui risponde l’oboe quasi gemebondo.
Il ritornello delle voci femminili vagamente sin intreccia evocativo
nella sua semplicità.
Il secondo atto
Alla serenità succede ora il fervore guerresco; e nella battaglia
un’altra battaglia d’anime grave, minacciosa e nascosta. Nel maniero dei
Malatesta si combatte. Macchine infernali e fuochi di pece greca
attendono l’avanzarsi del nemico. Trombe, campane, strepito d’armi
risuonano nell’aere sanguigno, solcato da falariche. Richiami angosciosi
di feriti, urla, invocazioni si sperdono nella mischia orrenda. Atto di
movimento, di vita, intesa naturalmente nel significato esteriore. Ed
anche atto di colore intenso, cupo. Voci ed orchestra hanno infatti
ruvidi contrasti improvvisi, aspre dissonanze. E dal punto di vista
descrittivo il sinfoneta ne ha realmente intensificata la dinamica.
Forse nel groviglio di frasi, nell’insistenza stessa della situazione
eccede in macchinosità. La musica descrittiva finché non rivela stati
d’animo ma si accontenta di rendere esteriormente vicende puramente
fisiche, può nascondere un’insidia qualora non la sorregga il criterio
della discrezione, o quando il musicista non sappia raccogliere attorno
a pochi temi decisamente incisivi le sue impressioni. La stessa varietà
conduce in caso diverso all’uniformità.
Due episodi concedono però in quest’atto un po’ di tregua: quello
patetico di Paolo e Francesca, ove il tema che diremo così dello sguardo
ritorna in tutta la sua soavità e l’arrivo di Malatestino ferito. Anche
il declamato è a singulti. Un ritmo puntato, caratteristico, si ripete
come un pedale, mentre altri tocchi nelle sonorità acute guizzano e si
succedono ad intervalli di silenzio come urlo di belva ferita. È cotesto
un accenno abbastanza significativo alla bieca figura del sanguinario e
feroce giovinetto. Accenno vago, ma che illumina a sufficienza il tipo.
Atto terzo
Nella camera di Francesca. All’alzarsi del velario ella è intenta a
leggere. Una nota di pedale fissa ne dà come l’immagine plastica. Dopo
la sera perigliosa essa non ha più veduto Paolo, che il Comune di
Firenze volle Capitano del popolo.
E questa è la parte veramente lirica dell’opera. Al fascino del canto si
aggiunge quello della danza. Sonorità di flauti, liuti, oboi e clarini
echeggiano su dalla loggia. La musica è leggiera, senza costituire
un’imitazione pedestre di modelli arcaici, dà nell’insieme un profumo
sottile, come soffuso di polvere. Le ancelle, giunte le mani, ballano e
cantano: Deh! creatura allegra, conduci questa danza in veste bianca e
negra, com’è tua costumanza. La voce si distende sugli arpeggi ed i
violini in accordi acuti avvolgono il canto in una chiarezza diafana,
quasi impalpabile. Anche la disposizione delle parti si compiace di
intervalli consonanti, appena intercalati da qualche successiva armonia
un poco inconsueta.
L’armonia dello Zandonai, del resto, benché modernissima e non aliena da
passaggi cromatici ed enarmonici, evita spesso quella sovrapposizione
d’accordi così cara agli stranieri: quelle sonorità composte in cui
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nella tonica o nella dominante si accavallano none, undecime e
tredicesime, talora a danno della limpidezza.
La sostanza melodica di cotesto stornello non è certo originale, come
non sempre originale è a rigor di termini lo Zandonai quando si propone
di definire con una linea più sensibile un periodo, una frase. Gli
occorre talvolta di rasentare in flessioni proprie ai maestri dell’
ultima ora, non escluso Puccini e Mascagni. Ma se nel lungo respiro la
sua melopea ci abbandona, si riprende come appunto nella pagina cui
accenniamo non appena la situazione richieda grazia e snellezza.
La situazione saliente è però nella seconda parte dell’atto: nel dialogo
tra Paolo e Francesca. La situazione ha, prima dello Zandonai,
soggiogati compositori illustri ed incogniti. E si comprende. Là ove il
sentimento sopravviene, impera la lirica. L’arte dei suoni riacquista
allora tutto il magico suo potere suscitatore, sia esso passionale e
gagliarda come in Riccardo Strauss, mistica e sognante come in Wagner,
sottile e voluttuosa come in Massenet, o profonda, umanamente e
sanamente sentita come in Verdi.
Riccardo Zandonai, più che coll’onda travolgente della passione, trattò
la scena in maniera sentimentale. Volle seguire il lungo indugio di
Francesca parola per parola, e dai morbidi tocchi di colore dell’inizio
salire solo in fine alla vera espansione, che però presto dilegua nell’
eco lontana di voci interne.
L’ultimo atto
La tragedia volge trucemente all’epilogo. La cupa figura di Gianciotto è
sorpassata in brutalità da Malatestino. Anch’degli ama Francesca.
Ucciderà Gianciotto purché ella lo voglia come uccide il prigioniero che
geme nel sotterraneo ed il lamento del quale la fa rabbrividire. Anche
qui la sinfonia si distende negli strumenti, pervasa da quello spunto
ritmico che già aveva accompagnato Malatestino. Il declamato a tratti vi
si intreccia e tra i lunghi silenzi passa come un senso di sgomento.
E nella scena susseguente si rinvigorisce, si rafforza ed agevola il
dialogo, che se non raggiunge sempre comunicativa intensa, si mantiene
però vibrato e svelto. È notevole quivi il carattere sarcastico che
assume in certi atteggiamenti ripetuti a guisa di leit-motif [sic];
atteggiamenti che esprimono assai bene lo scherno con cui Malatestino
ferisce ed aizza il fratello.
Nella seconda parte che conduce alla catastrofe appena preparata da un
intermezzo pittorico in cui aleggia inconsapevolmente una tristezza
infinita e da uno scoppio intenso di passioni, coteste virtù sono
mantenute, insieme ad una invidiabile chiarezza di espressione.
Peccato che la tragedia per la stessa sua natura non commuova realmente,
riuscendo a mala pena a mascherare l’artifiziosità vuota della
situazione portata all’iperbole dalla ferocia più sanguinaria, e che ciò
si rifletta anche nella musica.
Impressioni
E la mancanza di sincerità tradisce spesso l’intera tragedia e ne fa
opera di poesia più che di teatro e di verità. Opera di poesia e quindi
armonica, imbevuta di musica e di suoni tenui e diffusi, quasi intenti
esclusivamente a soggiogare ed a disporre per solo compiacimento proprio
le idee, i pensieri. In ciò sta il lascito maggiore dell’arte di
D’Annunzio, ed entro certi limiti la giustificazione di un connubio
colla musica.
Riccardo Zandonai, come il D’Annunzio poeta e colorista, ne restò
soggiogato: anima squisita e sensibile, ne intuì l’armonia, ne fu scosso
e compreso. E volle scendere a scrutarne le fibre, e col potere
evocatore del suono esaltarne la psiche commossa e cantare colla
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leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova; non
consapevole in tutto forse del pericolo e dell’insidia che gli si
riserbava.
L’arte di questo giovane autore fecondo che in pochi anni ha dato alla
scena un Grillo del focolare, una Conchita ed una Melenis, malgrado uno
sforzo evidente per tornare alla lirica d’onde aveva preso le mosse
coll’allargare le volute del canto verso più spaziosi orizzonti, è
essenzialmente anche in «Francesca» quella dell’impressionista. Dell’
impressionista italiano, diremo così, vale a dire ove non è rinnegato
del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che
in altri come in Strauss, Debussy o Dukas passano a volte in seconda
linea, e che nondimeno nello Zandonai elevati a fattore giovano colla
loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’
ente fonico.
Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna che si
manifesta in ogni arte, e nella pittura in ispecie, e nella musica muove
alla ricerca costante del colore nuovo e del nuovo suono – siano essi
semplici o più spesso composti – lo Zandonai seguì il sistema, in parte
per temperamento proprio, in parte per influsso altrui. E risultò
analitico più che sintetico: propenso al particolare anziché alla vasta
e vigorosa concezione.
La stessa sua sinfonia, per quanto ligia ai principi tematici, è talora
un fantasioso succedersi di elementi difformi, che conservano colle
origini un nesso appena superficiale, ove i richiami già poco plastici
ed afferrabili, raramente riescono riconoscibili nel mare fluttuante,
nel caleidoscopio dei più svariati colori in cui sono disciolti.
Ed è appunto nelle parti della tragedia ove il colore tenue e diffuso
prepondera che il musicista vi s’accorda coll’armonia latente.
Più che non nel crescendo passionale, nell’impeto lirico, od ancora
nelle truci scene dell’ultimo atto. Quivi sentiamo venirgli meno la
profondità del sentire; noi sentiamo mancare al discorso quella
robustezza che in un solo momento può lumeggiare una coscienza; quel
«pathos» misterioso che rivela noi stessi agli altri.
L’artificio del drammaturgo invano cerca sostegno nel declamato a volte
senza ragione nelle estreme regioni, e qualche volta ancora troppo
diffuso o interrotto da inutili didascalie strumentali.
Francesca da Rimini rimane tuttavia un documento prezioso d’arte
superiore: e prezioso non soltanto per qualità di tecnica, ma ancora per
dignità ed elevatezza di contenuto: per lo sdegno di tutte quelle
formule melodrammatiche consacrate dall’uso che a volte costituiscono il
tramite sicuro del successo.
L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se ne rese conto,
ammirato anche quando non ne fu convinto della figura d’artista cui si
trovava si fronte.
E riserbò all’opera novissima accoglienze festose. Il primo atto si
chiuse infatti con cinque chiamate, di cui una agli interpreti e quattro
agli interpreti stessi, all’autore e al maestro concertatore Ettore
Panizza. Al secondo, più esteriore e macchinoso e di minor contenuto
espressivo per quanto magistralmente trattato, due chiamate evocarono
ancora artisti ed autore.
Il terzo risollevava però decisamente le sorti con sei chiamate dopo
essere stato interrotto da applausi al canto delle ancelle ed alla frase
del tenore: «al vostro viso» che il Crimi disse con molta espressione.
Ed alle due parti dell’ultimo atto risuonarono ancora approvazioni
abbastanza vive e nutrite agli interpreti, all’autore e al Panizza.
Quest’ultimo fu col Ricordi, che ridusse per la scena lirica la tragedia
d’Annunziana, un vero collaboratore del successo. Concertò con amorevole
zelo la bella partitura e ne fu assecondato con diligenza dall’orchestra,
30
dai cori che disimpegnarono con lode il loro compito, e dagli interpreti.
Sono essi la Cannetti, il Crimi, il Cigada ed il Paltrinieri.
La Canneti fu una protagonista intelligente, diede alla passionale e
dolorante figura tutta la vita, tutta la sincerità, facendosi apprezzare
anche come eletta cantatrice in una parte ardua e faticosa. Il Crimi –
assai più a posto quivi che nella Gioconda – diede risalto vocale e
drammatico, come risalto ne ebbero dal Cigada e dal Paltrinieri le due
figure di Gianciotto e di Malatestino. La messa in scena ed i costumi di
Caramba sontuosi.
Per l’avvenimento erano convenuti al Regio molti critici di quotidiani
della penisola, tra cui Clerici del «Corriere della Sera», Nicola d’Atri
del «Giornale d’Italia», Gustavo Macchi, Gino Monaldi, artisti,
musicisti, letterati. Tra questi Umberto Giordano, Armando Seppilli,
Carlo Zangarini, l’editore Riccardo Sonzogno. Assisteva allo spettacolo
la Principessa Laetitia.
La sala era ben popolata. «Francesca da Rimini» si replica domani sera.
[...]
14
La prima rappresentazione di “Francesca da Rimini” tragedia di G.
D’Annunzio, ridotta da Tito Ricordi per la musica di Riccardo Zandonai
al Teatro Regio, «La Stampa», 20.2.1914
Il successo e il pubblico
Un giudizio intorno alla musica dello Zandonai non è cosa agevole anche
per chi abbia di questa “Francesca da Rimini” seguite con attenta cura
le ultime prove e conosca l’opera nella buona riduzione per canto e
pianoforte fatta da Ugo Solazzi e pubblicata dalla Casa Ricordi con
quella signorilità che è in essa consuetudine.
Il pubblico mostrò nondimeno di apprezzare di primo acchito quanto di
veramente buono è nell’opera dello Zandonai. E noi non possiamo che
dargliene lode. Cinque chiamate al proscenio, di cui quattro con lo
Zandonai e l’ultima col maestro Panizza, dopo il primo atto; tre dopo il
secondo di cui due con lo Zandonai, sei dopo il terzo di cui l’ultima
assai calorosa per il solo autore dell’opera; tre dopo la prima parte
dell’ultimo atto e nuove acclamazioni al finire dell’opera costituiscono
la migliore prova di un successo tanto più notevole in quanto non era
certo facile per il pubblico penetrare di primo acchito l’essenza di una
musica abbastanza complicata come questa.
E quale pubblico
Interamente occupati i palchi, fra cui quelli delle Loro Altezze la
Principessa Laetitia e la Duchessa di Genova, presenti allo spettacolo;
eleganti ed animatissimi i posti distinti; meno affollato il pubblico
altrove, ma pur sempre tale da dare un aspetto assai vivace
alla sala, ove notammo i critici di Milano, di Venezia, di Roma; il
maestro Giordano; l’editore Riccardo Sonzogno ed altri personaggi
notevoli.
L’opera d’arte
Così il pubblico torinese, che primo aveva saputo scorgere in Il grillo
del focolare i segni squisiti di una tempra di musicista ricca di
originalità e di cultura, ed allo Zandonai esordiente aveva dato la
gioia dell’applauso, si è trovato ieri sera dinanzi all’ultima prova del
compositore trentino, fatto maturo di esperienza e reso agguerrito alle
lotte della scena dalla pallida ombra di Melenis e dalla sensualità
ardente di Conchita.
Quali dunque i legami tra questa nuovissima Francesca da Rimini e le
opere dello Zandonai che la precedettero? La ricerca non è ardua per sé,
31
poiché è evidente che, tracciatasi una via, il compositore l’ha seguita
nelle sue opere con fortuna maggiore o minore ma certamente con la
magnifica sicurezza di chi ha una convinzione profonda di ciò che fa e
di ciò che crede vada fatto.
Ma la tempra dello Zandonai è quella di un musicista complesso e
delicato; ed è per ciò una tempra complicata. Dire pertanto che in
Francesca da Rimini ricompaiono molte delle doti di Conchita e di Il
grillo del focolare – quali la ricchezza dell’orchestrazione; la
preziosità e spesso l’originalità dell’armonizzazione; i bagliori di una
tavolozza tutta accesa di un vibrante senso del pittoresco; una
irrequietezza di ritmi persino esuberante; un’audacia che qualche volta
può soltanto essere giustificata dall’esito; una preponderanza assoluta
del linguaggio orchestrale sui mezzi di espressione concessi alla voce;
una ineluttabile tendenza a restringere il volo della melodia entro
confini che sembrano anche più stretti dato che l’idea musicale nello
Zandonai non ci appare mai, o di rado, dominata dal soffio potente e
largo della vera ispirazione – dire questo ed altro è bensì dare rilievo
ad alcuni del caratteri dominanti in tutta la musica dello Zandonai, ma
non è approfondire la ricerca delle qualità che fanno di quest’ultimo
lavoro il lavoro più complesso e più equilibrato e più caratteristico
del compositore trentino, qualunque possa essere il giudizio intorno ad
esso, qualunque l’esito sulla scena.
I caratteri generali della musica
Poiché il maestro ci appare qui in tutta la sua interezza, colle sue
qualità migliori, co’ suoi difetti più sensibili. E nel contesto
musicale è tanta la schiettezza degli intendimenti ed è un così
disciplinato ardore di libertà da indurci a credere che oramai lo
sviluppo delle facoltà artistiche del compositore sia veramente completo,
e nitida e piana la sua visione d’arte. Egli infatti ha spinto l’abilità
nel sapersi valere di ogni risorsa orchestrale ad un punto che sarebbe
forse pericoloso per lui il voler superare. Egli ci ha dato il tessuto
più ricco e il più faticosamente trapunto che dalla sua abilità di
agitatore di grandi masse orchestrali potessimo riprometterci. La
varietà dei piccoli giochi ritmici è pervenuta ai confini oltre i quali
non vige più – regolatrice inflessibile – quella compostezza di linee
cui – per quante possano essere le licenze consentite – deve pur sempre
porre mente il musicista nell’architettura grandiosa del dramma lirico.
La ricercatezza dell’armonizzare rasenta oramai la preziosità ricercata
del linguaggio; gli effetti sapientemente calcolati, ma non mai
sfioranti la volgarità, hanno qui toccato tal grado da far sembrare
anche nutrito di una qualche sostanza di idee ciò che invece semplicemente artificio gustoso. La meraviglia ci assale così ad ogni tratto. Ma,
come a tale sensazione si conviene, il piacere che essa ci procura è
cerebrale. Non scende quasi mai dai meandri del cervello alle radici,
donde originano la commozione e l’irrefrenabilità di certi impeti
dell’animo nostro. Noi ci troviamo come in una magnifica serra, gelosa
custode di preziose piante tropicali.
Nell’atmosfera umida e calda i ricchi fogliami contendono la luce alle
vetrate, e all’ombra dei fusti carnosi s’annidano e crescono fiorellini
di specie rare e dall’aspetto strano. La serra è ampia e superba d’ogni
ornamento. Eppure noi sentiamo qualche cosa che ci pesa; proviamo un
desiderio ardente di un po’ d’aria pura che ci venti sul viso, in
cospetto del grande cielo, della pianura deserta, povera di piante e di
fiori ma tutta percorsa da un fremito di vita, che non è la vita chiusa
della serra, dosata nei gradi di calore, uguale, resa soltanto possibile
grazie a cento abili artifici.
32
Non voglio dire con questo che lo Zandonai sia artificioso. Ho anzi la
convinzione che in lui sia una così completa corrispondenza – e direi
compenetrazione – dell’idea colla forma da far sì che nulla di quanto
egli scrive non sia sincero. La mancanza di schiettezza assumerebbe un
altro aspetto.
Ma questo affermo: che nella musica dello Zandonai è quasi sempre
qualchecosa di studiato – nel senso buono della parola –, di evoluto,
che stringe tra i suoi lacci la ispirazione come per tema che essa – la
bella puledra selvaggia – possa, non frenata, gettarsi focosa tra ai
campi inondati di sole e tutti fragranti dell’aspro aroma della terra,
Dio sa con quale grave pericolo per i molti sofismi onde è nutrita la
concezione del teatro melodrammatico moderno. Lo Zandonai, insomma,
sembra soffocare la sua creatura per volerla baciare con troppo ardore;
o fa della melodia una Pisanella che muore sotto il peso dei fiori che
la rigidità di un sistema e l’arte consumata del compositore le gettano
sopra. E poiché l’idea melodica non ha quasi mai ampio e profondo il
respiro, accade che noi vediamo nel ricco trapunto orchestrale onde è
rivestita l’azione una superba bellezza di sottili disegni e di gustosi
ricami, senza che mai – o di rado – la nostra mente riesca ad adagiarsi
in qualche forma così ampia da potervi rinvenire un po’ di quel riposo
che non esclude affatto la commozione.
Né di ciò devesi fare un appunto allo Zandonai più di quanto non lo si
faccia al Mascagni di Parisina od allo Smareglia nella sua opera di
ieri: L’abisso. L’eccesso attuale nell’asservimento della musica alla
parola è una reazione necessaria contro l’abuso invalso un giorno in
senso inverso. Oggi preme sulle forme del melodramma la logica più
assoluta e più serrata; ieri ebbe invece un dominio irrefrenato e talora
spinto al grottesco la melodia quadrata e dottrinaria nelle sue formule
semplici ma intransigenti. E forse, sotto questo aspetto, sarebbe
abbastanza interessante un confronto tra le due ultime e maggiori
concezioni musicali sorte in Italia in questo scorcio di tempo e la
«Francesca da Rimini». Ma per poter bandire dalla scena il periodare
largo, caro ai nostri padri, occorrerebbe almeno che nella declamazione
fosse tanta intensità di espressione e tanto intimo vigore da non farci
rimpiangere tale ostracismo. Accade ciò in Francesca da Rimini?
Schiettamente credo di no. Non nelle voci, bensì nel commento
orchestrale è la tragedia. Il commento è colore, è vita, è materia
profondamente elaborata, che ha impeti violenti, tenerezze, abbandoni,
schianti di passione, terrori, gridi di esultanza, collere selvagge.
Sulla scena i personaggi ci appaiono come dominati dal grande soffio che
emana dall’orchestra e spinti là ove esso vuole. Le alzate terribili di
voce ed i sospiri non ci turbano, non ci commuovono. Le nostre anime e
più i nostri orecchi sono intenti altrove. In Francesca da Rimini, è
vero, sono anche momenti di ispirazione fresca e delicata: ad esempio i
canti di Biancofiore e di Garsenda, di Altichiara e di Donella – le
donne di Francesca – raggiungono spesso una soavità di espressione, una
dolcezza di atteggiamenti musicali ed emanano intorno una così tenue
fragranza da fare, ad esempio, della seconda metà del primo atto, una
delle cose più squisitamente colorite e poetiche che ci abbia dato il
teatro lirico in questi ultimi tempi. E la frase, dallo spunto così
dolce e passionale, che accompagna la comparsa di Paolo nella casa dei
Polentani; la frase, che riudremo trasformata leggermente nei ritmi e
profondamente nei coloriti orchestrali in tanti momenti dello spartito,
e che l’amante di Francesca non farà mai sua poiché dalle labbra gli
eromperà soltanto nell’ora d’amore che precede quella del sangue –
delicato e sapiente artificio! – è anch’essa d’una ispirazione larga e
poetica.
Ma una rondine non fa primavera, né la fanno tre o quattro.
33
«Che importa?» direte voi. «Che importa la bellezza di qualche canto
(onde udii ieri sera accennare a profonde orme di italianità nella
musica dello Zandonai) se i personaggi vivono innanzi colle loro
gagliarde e torve passioni, e il dramma musicale si compenetra
pienamente con quello poetico?»
E ciò che voi dite è giusto.
Vediamo dunque quale sia il modo tenuto dal maestro nel comporre
musicalmente il carattere dei personaggi.
Le persone della tragedia nella musica
Le dramatis personæ, come ama chiamarle il poeta, sono quindici; e
naturalmente non tutte importanti o necessarie all’azione. Alcune
appajono in guisa da farci ritenere a tutta prima strettamente legata
all’intero svolgimento del dramma la loro presenza, e poi non
ricompajono più. Tali Ostasio – figlio di Guido Minore da Polenta – e
Ser Toldo Berardengo – orditori della trama onde Francesca andrà sposa
per triste inganno a Gianciotto. Essi, spiegato l’intrigo al cominciare
del primo atto, non ci vengono più innanzi. Così non ritorna più il
giullare, che non è il matto che nella Francesca da Rimini del Colautti
musicata dal Mancinelli si fa delatore, e che ha quindi una assai
maggiore ragione di essere che non sia quella di riempire in qualche
modo l’azione nella prima parte dell’atto primo dell’opera, come fa qui.
Altre figure, come quelle del balestriere, della schiava e del
torrigiano sono soltanto come una pennellata atta ad ambientare
l’azione; epperò non hanno notevole importanza nei rapporti con la
musica.
Né maggiore importanza hanno le donne di Francesca di quanto non ne
derivi loro dal desiderio del poeta di infondere nella tragedia un non
so quale senso di fragrante freschezza giovanile in contrasto col
torbido incupire delle passioni intorno.
Rimangono dunque la protagonista, Paolo, Gianciotto (Giovanni lo
sciancato), Malatestino e Samaritana. Cioè gli elementi più atti a dar
vita ad un dramma per musica, anche se visti di scorcio, come spiegai
ieri scrivendo della riduzione fatta da Tito Ricordi della tragedia
Dannunziana. La bellezza e la grazia, rinvigorite in Francesca dal rude
ambiente fra cui fiorì la sua giovinezza; Paolo, nobile e prestante
figura di cavaliere uso a largheggiare con trovieri e con giullari;
Gianciotto, rozzo ed animoso, cui solo sorride il sorriso della moglie
sua, Francesca; Malatestino, cupido, vendicativo, feroce; Samaritana,
timido fiore che cresce melanconico accanto a Francesca, nella grande
luce di dignità, di bellezza, di pietà che costei sparge intorno.
Dati questi elementi, l’effetto del contrasto scenico non poteva venir
meno, per poco che fossero abili il poeta e il musicista dimentichi che
qui siamo dinanzi un D’Annunzio ed uno Zandonai.
Orbene, il musicista volle anzitutto caratterizzare con una forma decisa,
senza accostarsi per questo al sistema Wagneriano, i personaggi,
affidando, per così dire, la loro persona scenica ad una frase che
ritorna durante tutto lo spartito più a foggia del vecchio motivo di
reminiscenza che non del vero «leit-motif».
È, ad esempio, per Paolo la frase, cui già accennai, e che vela di
un’ombra di dolcezza e di passione la scena, ogniqualvolta essa sale
dall’orchestra e dilaga; per Gianciotto un breve ritmo saltellante,
ineguale, e ad un tempo vigorosamente rude, poiché Gianciotto è zoppo e
veemente e valoroso e rozzo; è per Malatestino un succedersi di accordi
di terza, con un caratteristico salto discendente, su un movimento
sincopato del basso che bene dà una sensazione di perfidia e di affanno;
è per Samaritana un altro movimento sincopato, pieno di angosciosi
presentimenti.
34
Naturalmente noi abbiamo queste impressioni perché conosciamo la psiche
dei personaggi, ché la musica non può esprimere certi sentimenti per sé
stessa. Ma la corrispondenza tra il pensiero poetico e la musica c’è, e
ciò a noi deve bastare.
Ora di questi motivo lo Zandonai fa certamente un uso abilissimo e
logico. Ma se il pubblico può apprezzare in tali procedimenti
l’ingegnosità del compositore – sempreché sia sempre così vigile in esso
l’attenzione da avvedersene – è peraltro nelle pennellate ampie e
vigorose, è nell’arte di colorire potentemente le situazioni drammatiche,
è nella vivacità scenica che esso trova l’elemento sostanziale del
plauso.
Fermare
la
figura
scenica
entro
un
contorno
saldo
e
caratteristico; dare ad essa un linguaggio che degli altri non sia e,
col linguaggio, alcuni atteggiamenti così peculiari da farci distinguere
tosto l’un personaggio dall’altro anche a traverso la sola grande voce
dell’orchestra, non è cosa agevole per il musicista, ed è oramai
essenziale al dramma. È giustizia riconoscere che lo Zandonai raggiunse
spesso, e mirabilmente, l’intento.
Ma di non minore importanza è il toccare quell’altra meta che noi
chiamiamo «la teatralità».
La «teatralità»
La «teatralità» è istinto. Epperò niun artificio può supplire, ove
questo istinto manchi. Con mezzi semplicissimi il Verdi giunge talora ad
una vera terribilità di effetti cui invano tenderebbero altri collo
scatenare tutte le bufere vocali e orchestrali. Ed ecco correre allora
per la folla quel brivido di commozione sincera e profonda che determina
i grandi e gli immediati successi.
Ha lo Zandonai tale istinto?
Premetto che le situazioni sceniche non hanno sempre in sé tanto da
interessarci, ove non sia per la ricchezza delle immagini poetiche e per
la bellezza del verso: due cose che qui, come nella «Parisina» del
Mascagni, hanno un valore assai scarso. Così tutto il primo atto ed il
secondo quale dovizie di elementi puramente musicali possono offrire ad
un musicista? Accade pertanto che lo Zandonai, poveretto, fa quanto sa e
può per suscitare un qualche interesse: e lo fa con quella stessa arte
per l’orecchio con cui lo scenografo, l’attrezzista, il vestiarista
cercano di cattivarsi l’attenzione dell’occhio. Né dicendo questo credo
di menomare la dignità artistica del maestro. Qui tutto ha un valore
uguale. Non è d’altra parte questo uno degli articoli del «credo»
Wagneriano?
Noi vediamo la scena: ma l’interesse per ciò che accade sul palcoscenico
ci lascia per lo più abbastanza indifferenti.
Sul finale del primo atto si chiude il velario e noi ci domandiamo quale
è la sostanza di quanto udimmo. Abbiamo ammirato la scienza del
musicista, e sovratutto la delicatezza e la originalità e la bellezza di
colore di alcuni impasti orchestrali; ci siamo compiaciuti della varietà
degli episodi; abbiamo udito qualche bella frase, da Francesca nel suo
duetto con Saracena [Samaritana]; ci siamo meravigliati di tanto gridìo
delle donne al comparire di Paolo e di tanta pletora di agitazione in
Francesca, come se uno sparviere minacciasse roteando uno strupo [?] di
pavidi uccellini, e non un nobile e bel cavaliere comparisse; abbiamo
udito un canto di donzelle tutta freschezza e sapore arcaico; siamo
passati per una serie di momenti quasi insignificanti sino a che il bel
canto che colla viola pomposa si sprigiona dall’orchestra è venuto a
darci finalmente una qualche commozione profonda. Ma il nostro
compiacimento fu anzitutto cerebrale. E per la scena non basta.
E così accade per il secondo atto, ove la parte in cui ferve la difesa
agli spalti è trattata con mirabile sicurezza, ma che non ha
35
corrispondenza di effetti drammatici negli episodi che si svolgono al di
qua dello sfondo. Così ci pare freddo e stanco il duetto tra Paolo e
Francesca; così ci sembrano poco interessanti musicalmente la figura di
Gianciotto e quella di Malatestino. E quando il velario si chiude la
nostra ammirazione va forse al di là della musica: va alla bellezza
della messa in scena, al movimento delle masse, allo splendore dei
costumi, all’effetto scenografico.
Le cose volgono assai meglio al terzo atto. E perché? Perché finalmente
lo Zandonai può veramente esprimere colla musica un qualche movimento
dell’animo
che
non
rivesta
un’apparenza
puramente
decorativa
e
superficiale.
Ed infatti tutto questo terzo atto non solo segnò il momento culminante
del successo, ma fu quello che veramente rivelò, colla seconda parte del
primo e con la seconda metà dell’ultimo, una più stretta comunione fra
il pubblico e il musicista. Tre volte eruppe l’applauso a scena aperta.
e fu dopo la canzone a ballo – leggiadra canzone cantata dalle quattro
donne do Francesca e ravvivata da graziose figurazioni di danza per
entro cui spira la grazia che più tardi animerà i dipinti del Botticelli
e gli affreschi del palazzo di Schifanoja –; dopo il dolente canto di
Paolo; e dopo una frase di Francesca, tutta ricca di contenuta e
dolorante passionalità. Ma l’atto intero è ricco di bellezze. La musica
si anima, si riscalda; nelle interrogazioni di Francesca alla schiava è
una concitazione che raggiunge spesso una notevole intensità di effetti
drammatici; le risposte della schiava sono ricche di intimo valore
espressivo; il duetto tra Paolo e Francesca è tutto una pagina di nobile
e sostenuta purezza. L’ispirazione mette le ali e s’innalza ad alti voli
nei cieli del patetico. Eh sì che non era facile dare un’anima alle due
figure così freddamente rievocate qui dal D’Annunzio! Perciò se dianzi
dissi che nello Zandonai l’istinto della «teatralità» non appare forte,
debbo aggiungere, argomentando da quest’atto, che la colpa devesi
attribuire più a mancanza di situazioni nel libretto che non ad altre
cause più intime. Tant’è che qui la musica fa miracoli: eppure,
attraverso la signorilità della forma e la bellezza del canto trapela un
po’ di monotonia, di freddezza. Di chi la colpa?
La prima parte del quarto atto ha qualchecosa di scultorio, di vibrante,
di fortemente sentito e di vigorosamente reso. Essa è destinata, a mio
credere, – e malgrado l’apparente mancanza di musica – a piacere ogni
sera più. Ed è ricca di sentimento l’ultima parte dell’opera,
arieggiante il quarto atto di «Otello».
Dovrei ora riassumere queste impressioni. E rispondere se l’opera è
bella; se lo Zandonai segue Debussy o Strauss, o Wagner, e via via. Ma
parmi che il maestro trentino cerchi piuttosto una strada propria – ciò
che vale molto meglio – e l’abbia in grande parte trovata. Egli ha
composto una nobile opera d’arte. Egli ha evitato ogni accenno alla
volgarità. Dove il libretto glielo consentì egli trovò accenti veramente
drammatici ed espressivi. Fu colorista a volte vigoroso, a volte
semplicemente audace. Seppe essere denso e chiaro ad un tempo. L’opera
sua non avrà una grande unità organica; apparirà frammentaria e qua e là
un po’ ricercata e talora fredda o almeno priva di quei momenti vibranti
che trascinano il pubblico all’entusiasmo. Ma così come è «Francesca da
Rimini» correrà ugualmente con fortuna la scena per il maggior nome
della giovine scuola italiana. E questo mi pare che basti.
L’esecuzione
Fu semplicemente degna di un avvenimento artistico, che per il nome del
D’Annunzio e dello Zandonaj, richiamò su di sé l’attenzione del così
detto mondo musicale.
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L’aspettativa non fu delusa da alcuno. Tutti gli esecutori seppero
tenere con onore il posto loro affidato, e parvero comprenderne la
responsabilità. Di qui una fusione, un equilibrio, una cura di ogni
particolare, una delicatezza di coloriti, atti a mettere in piena luce
ogni bellezza dell’opera.
Il Panizza ed il Ricordi furono per lo Zandonaj due fratelli. L’uno
attese alla messa in scena con una grande signorilità di gusto, con
vigile cura di ogni minuzie; l’altro non si turbò dinanzi alle gravi
difficoltà dell’opera, e questa sua calma fatta di proprio valore fu uno
dei principali elementi della vittoria di ieri sera. Ritrovammo infatti
l’orchestra dei nostri tempi migliori; e la direzione sicura, vigile del
maestro Panizza fu veramente degna del plauso che il pubblico volle
decretargli, chiamandolo più volte all’onore della ribalta.
Non dirò oggi partitamente degli esecutori sulla scena. Dopo la seconda
rappresentazione sarà più agevole il farlo. Ma dove trovare una più
deliziosa interprete della Canetti? Essa, in pochi giorni, studiò la
difficilissima parte. E la vittoria fu degna dell’abnegazione di cui
essa diede prova. Alla sua volta, il Crimi parve qui assai più a posto
che non nella Gioconda, e cantò veramente con passione, con nobiltà di
accenti, con giusto senso del colore; il Cigada sfoggiò la sua bella
voce possente e diede grande risalto alla parte di Gianciotto; il
Paltrinieri fu ancora una volta l’artista studioso, originale, che
apprezzammo in altre opere, e la figura di Malatestino parve piena di
vita e di carattere; Raquelita Merly fu una lodevole Samaritana; la
Besanzoni, nella parte della schiava, cantò con grande purezza ed ebbe
momenti assai ricchi di espressione; il Pellegrini, il Berardengo [?], il
Malatesta e le quattro donne di Francesca (signorine Avezza, Polazzi,
Vaccari e Marck [Marek]) completarono degnamente l’ottimo insieme.
Benissimo i cori, anch’essi non risparmiati dallo Zandonai nelle
difficoltà. E belli gli scenari dipinti dallo Stroppa, dal Gheduzzi, dal
Testi, ed i costumi che direi di Caramba, tanta signorilità di gusto e
ricchezza di particolari presiede ad essi.
Una lieta serata, dunque. Ed un avvenimento artistico degno di
corrispondere alla più esigente aspettativa.
«Francesca da Rimini» ricomparirà sulla scena domani sabato [...]
15
La “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai. Il grande successo al
Regio di Torino (Servizio particolare del «Corriere della Sera»),
«Corriere della sera», 20.2.1914
Torino, 19 febbraio, notte.
Stasera al Teatro Regio si è data la prima rappresentazione della
Francesca da Rimini, la tragedia di Gabriele d’Annunzio musicata da
Riccardo Zandonai. Il teatro era affollatissimo e magnifico.
Il primo atto s’apre con un brevissimo preludio, nel quale già si
presenta – col preludiar d’una viola dietro la tela – la figura del
giullare. All’alzarsi della tela sono in scena le quattro donne di
Francesca e il giullare: e fra quelle e questo si svolge un chiacchierio
che l’orchestra accompagna con un movimento vivace. Prevalgono nel
commento musicali i semplici ritmi di danza: un breve tema di quattro
note caratterizza la bizzarra figura del giullare. Voci ed orchestra
sembrano gareggiare di spensierata gaiezza: solo allorché gli umili
personaggi sfiorano nel loro discorso quegli argomenti che sembrano a
loro di cronaca domestica banale e saranno invece gli elementi
essenziali della tragedia, accenni di ben altro tono si disegnano nella
profondità dell’orchestra. Così quando Adonella racconta che Messer
Guido da Polenta dà la figlia in sposa ad un Malatesta, nell’orchestra
37
compare non già il tema di Gianciotto, lo sposo designato, tema dal
ritmo spezzato e zoppicante, sibbene i due accordi pieni e ben cadenzati
che costituiscono uno dei temi di Paolo. Così fin dalla prima scena si
mostrano parecchie delle formole proprie della musica di tutta l’opera:
l’importanza assai grande data agli effetti prevalentemente ritmici e
coloristici in confronto agli effetti legati alle melodie nette e bene
sviluppate; la concentrazione massima nell’uso dei motivi conduttori ai
quali non si domanda più – secondo la maniera wagneriana – la parte
maggiore del materiale pel lavoro sinfonico dell’orchestra ma solo la
rievocazione rapida, quasi istantanea d’un personaggio o d’una idea,
mentre è l’emozione unita alla vicenda del momento che primeggia nel
determinare il carattere del commento musicale.
Nella scena seguente fra Ostasio, fratello di Francesca, e Ser Toldo, il
notaro intrigante, vien combinato l’inganno per cui Francesca crederà di
sposare Paolo il Bello, mentre verrà data invece a Gianciotto lo
Sciancato. Alla parte di Ser Toldo sono affidati effetti caratteristici
coll’abile impiego del vecchio recitativo a piacere.
Nella scena successiva, occupata da una canzone delle donne e da un
dialogo fra le due sorelle, Francesca e Samaritana, la struttura
musicale diventa, nell’apparente tenuità della situazione, sempre più
forte e complessa: Il canto delle donne è d’un sapore deliziosamente
arcaico: esso fa da sfondo ai canti delle due sorelle, d’una dolcezza di
sentimento e d’una grazia melodica squisite. Specialmente notevole è il
punto in cui le due voci si riuniscono sulle parole: «E si vivrà
oimè...», preceduto da una bella frase degli archi.
L’annuncio dell’arrivo del fidanzato porge alla musica di sfondo – voci
delle donne e orchestra – l’occasione di farsi ancora più mossa e
colorita (solo gli accordi del tema di Paolo mantengono sempre un
carattere misterioso); e intanto la commozione che invade l’anima di
Francesca si espande a volta a volta in appelli tumultuosi all’avvenire
– «e il tumulto che ho nell’anima mia» – o in ritorni dolci e mesti alla
sua vita di giovinetta che la musica riveste d’una melodia dolcissima:
«portami nella stanza e chiudi la finestra».
L’entrata di Paolo, il falso fidanzato, è segnata da uno scoppio di
sonorità dove tuttavia i timbri sottili e gai dei campanelli, del liuto,
dei piccoli legni riescono ancora ad affermarsi contro l’echeggiar degli
ottoni: sembra quasi che il terribile futuro sospenda per un momento di
gettare la sua ombra su quella scena di allegrezza piena d’ingannevoli
speranze. Ecco: i due giovani stanno l’uno di contro l’altra,
guardandosi senza parole e senza gesto. Una dolce larga melodia piena di
un fascino appassionante viene intonata dalla viola pomposa: per un poco
vi si sovrappongono i canti augurali delle donne:
«Per la terra di maggio»;
ma essa ricompare, ripresa dall’intera orchestra. Ora Francesca porge a
Paolo la grande rosa vermiglia: e mentre nella morente luce del vespro
il gesto affettuoso è appena visibile, gli accenti intensi della viola
evocano del fatidico fiore il profumo inebriante.
In verità la musica di codesta fine d’atto riproduce in modo perfetto
l’atmosfera delicatamente ambigua della passione nascente.
La scena della battaglia
Mentre il primo atto era sopra tutto ricco d’emozione gentile nel dramma
e di tinte delicate nell’ambiente, nel secondo atto la fiamma passionale
getta i suoi primi guizzi, e il ventar [sic] violento della battaglia e
delle stragi circostanti l’attizza.
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Francesca, sposata a Paolo con una cerimonia fittizia, è stata condotta
al marito designato, Gianciotto, e vive ora con questo e col cognato a
Rimini, in mezzo all’infuriar delle lotte di fazione. Ella non ama
Gianciotto, e non ha perdonato – o crede di non aver perdonato – a Paolo
la parte ch’egli ha preso al suo sposalizio di frodo. Ora, mentre si
apre la scena del secondo atto, sullo spalto d’una torre dei Malatesta,
in un pomeriggio di battaglia fra i Malatesta guelfi e i Parcitade
ghibellini, ella cerca di distrarsi dal suo cruccio interno conversando
col torrigiano, mentre questi sta preparando il fuoco greco. Il primo
tratto saliente della scena – dal punto di vista musicale – è la strofa
in cui Francesca chiede contezza del fuoco greco: «È vero che arde nel
mare?» Qui la musica è piena d’effetti realistici, nei quali il
compositore dà pieno sfogo alla sua vena di strumentalista. Paolo giunge,
e Francesca ha con lui un colloquio nel quale, come nel primo atto del
Tristano, la passione che si celava sotto le apparenze dell’ostilità si
svela e vince. È noto con quale arte sottile il poeta nostro, per
condurre il dramma fino al momento decisivo, abbia ricorso alla
psicologia stessa del personaggio di Francesca, mentre il poeta di
Tristano aveva ricorso al soprannaturale del filtro: in piena conformità
colle idee superstiziose del suo tempo, Francesca chiede a Paolo ch’egli
si purifichi dal peccato commesso coll’averla sposata per frode, e gli
propone perciò di sottoporsi al giudizio di Dio: combatta egli senza
elmo e scudo, balestrando dagli spalti, e se le armi dei nemici lo
avranno risparmiato vorrà dire che Dio gli ha perdonato. Così avviene
infatti: e allora Paolo abbandona, vittorioso e illeso, il posto di
combattimento, Francesca lo ritiene mondato dal peccato e può perciò
abbandonarsi alla gioia di amarlo in segreto.
Assai ben fatto l’episodio di Malatestino che si svolge sopra un
insistente ritmo di corsa e culmina nel grido: «A cavallo, a cavallo!»
Il canto di Francesca: «Bevete, mio cognato» è magnifico per la nobiltà
della linea melodica.
Ma subito dopo Paolo le dice il suo amore: ella, sbigottita, lo
respinge: l’arrivo di Gianciotto interrompe il colloquio.
Per musicare questo duetto lo Zandonai ha affidato alle voci una serie
di canti declamati in forma piuttosto libera, incaricando l’orchestra di
accentuarne il potere espressivo colle risorse d’una strumentazione e
d’una armonizzazione estremamente ingegnose.
L’ardimento è grande, perché l’uditore così vien messo nell’obbligo di
afferrare rapidamente e completamente la forma e il contenuto del
discorso musicale, senza essere aiutato dalla grande regolarità del
ritmo e dalla simmetria dell’idea nelle melodie a forma chiusa, o dalla
ripetizione frequente di certi temi nel commento a forma sinfonica. Il
compositore evidentemente ha ritenuto di poter comporre della musica
tale da imporsi all’animo dell’uditore pel suo valore espressivo
intrinseco, senza bisogno di alcun artificio di tecnica tradizionale. Il
tentativo gli è riuscito dove il particolare emotivo era meno intenso e
profondo, ad esempio nella frase ironica di Francesca:
Donarmi un bell’elmetto
Voi dovreste, signora mia cognata [signore mio cognato];
ma non là dove nel verso la passione di Paolo tumultua violenta, e
Francesca più soffre della sua doppia ambascia, davanti al pericolo
corso dall’amato e davanti all’amore che sente sorgere in sé.
Il valore della musica si rialza nel restante dell’atto, dove l’elemento
descrittivo della battaglia riprende il sopravvento.
Tutto il finale, colle acclamazioni dei balestrieri al Malatesta
vittorioso, è trattato con tinte di un realismo ad oltranza: i
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balestrieri non fanno coro, ma gettano delle fortissime grida, mentre
gli ottoni squillano col massimo fragore in note dissonanti. Ma l’abilità con cui questi mezzi eterodossi sono usati è così grande, così fino è
nel compositore l’intuito dei rapporti profondi fra emozione e suoni,
che l’effetto non solo è raggiunto dal punto di vista teatrale ma anche
appare perfettamente legittimo dal punto di vista dell’estetica musicale.
La scena d’amore - Il tradimento
Il terzo atto si apre con un preludietto nel quale ricompaiono,
alleggeriti anche più, i ritmi di danza della prima scena dell’opera.
Francesca nella sua camera sta leggendo di Lancillotto e come amor lo
strinse: ella legge ad alta voce; le ancelle commentano rumorosamente la
timidezza del cavaliere e l’intervento di Galeotto: la musica scorre e
sfugge sotto le parole con fine malizia. Anche più bella risulta la
scena seguente, colla canzone a ballo delle quattro donne: «Marzo è
giunto»; lo spunto melodico indovinatissimo, il trattamento delle voci
in un contrappunto assai semplice di nota contro nota, l’accompagnamento
diviso fra l’orchestra, il liuto e l’orchestrina sulla scena: tutto ciò
è di un profumo arcaico e d’una grazia quasi infantile; e l’episodio,
lungi dal sembrare pleonastico, riempie l’animo di una vaga melanconia,
quasiché fosse codesto lo sforzo vano delle piccole persone e cose
amiche per trattenere madonna sulla oscura via del suo destino.
La scena seguente si svolge fra i due cognati che leggono insieme le
parole tentatrici: «Tra le braccia lo serra e lungamente – lo bacia in
bocca» e sono travolti essi stessi dalla passione. Ma prima che si
arrivi a questo punto ha luogo fra i due un lungo colloquio, nel quale
Paolo tenta invano di vincere Francesca parlando di sé, dicendo quanto
egli abbia sofferto allorché era lontano da lei.
Anche questo duetto, come quello del secondo atto, è costruito sopra una
serie di canti declamati, molti dei quali presi a sé sono dei veri
modelli, tanto giusta è la rispondenza del metro e del sentimento fra il
testo poetico e quello musicale; ma anche qui essi non son tali da
conquistare l’uditore e da trasportarlo. Persino la raffinatezza dei
mezzi orchestrali, contribuendo a fermar l’attenzione sul particolare
prezioso, raffredda l’emozione. Nella chiusa si fa riudire la larga
melodia del finale del primo atto, svolta ora con un grande sfoggio di
sonorità.
Il quarto atto è diviso in due parti. Nella prima la scena rappresenta
una sala nella casa dei Malatesta. Malatestino offre a Francesca di
liberarla da Gianciotto, e accenna con parole subdole al premio immondo:
respinto, per spavalderia, egli scende nel sotterraneo a decapitare il
prigioniero Parcitade. Intanto Gianciotto sopravviene; e alcune parole
imprudenti di Francesca fanno sorgere in lui il sospetto che Malatestino
non tratti la donna sua coi dovuti riguardi. Francesca esce: i due
fratelli si trovano ora a faccia a faccia. Malatestino compie
bruscamente la sua opera di delazione: «Vuoi tu vedere e toccare? –
Bisogna, se vuoi scampare dalla mia tenaglia, o mortale. – Vuoi
stanotte? – Voglio!»
In queste scene terribilmente drammatiche la musica si mantiene
costantemente intonata alla situazione: scelta e maneggio dei temi (fra
i quali quello di Gianciotto dal ritmo spezzato e rude trova qui un
impiego specialmente efficace), taglio delle frasi nei canti declamati,
coloriti strumentali: ogni particolare musicale possiede qui un
significato netto, desta immediato nell’uditore il fremito della
commozione.
La seconda parte dell’atto si svolge nella camera di Francesca. È notte:
le donne di Francesca prendono congedo da lei. La scena contiene
particolari squisiti; specialmente bello è il saluto di Francesca a
40
Biancofiore, colla dolce rievocazione della figura di Samaritana: «Era
dolce la mia sorella, è vero, Biancofiore?» Ma, poiché essa è basata in
gran parte su effetti minuziosi di rispondenza fra il testo e la musica,
la sua intensità di ispirazione viene apprezzata a stento. L’ultima
scena fra Paolo e Francesca è breve. L’entrata di Paolo è accompagnata
da un crescendo vertiginoso nell’orchestra; più tardi ancora una volta
nel canto di lui «Ti trovo dov’è l’oblio» risuona il gran tema del primo
incontro: e ancora una volta le voci dei due amanti esaltati dalla
passione si fondono in un unisono grandioso (del quale non v’è traccia
nel libretto). Gianciotto sopraggiunge e in un impeto di furore trafigge
i due amanti: mentre egli si spezza sul ginocchio lo stocco sanguinoso
nell’orchestra passano gli ultimi sussulti d’orrore.
La musica
Volendo aggiungere all’analisi qualche impressione complessiva, diremo
anzitutto che con questa opera lo Zandonai conferma la sua fama di
musicista dotato di qualità veramente eccezionali. Nella tecnica della
strumentazione e dell’armonizzazione egli si classifica addirittura fra
i migliori non solo per la solidità della scienza ma anche e meglio per
la felicità e la ricchezza delle disposizioni native, per cui egli sa
trarre appunto dalla tecnica una quantità di effetti drammatici e
sentimentali nuovi ed altamente espressivi.
Egli si classifica fra i migliori anche come sinfonista; possiede ormai
alla perfezione l’arte di far commentare dall’orchestra una data
situazione secondo linee perfettamente logiche, chiedendo alle varie
voci orchestrali il loro concorso per quanto ciascuna di esse può fare,
né più né meno; e sa anche plasmare l’idea musicale sul testo poetico,
in modo che la rispondenza giunga fino ai minimi particolari, così quando si tratta di semplici evocazioni pittoriche, come quando si tratta di
riprodurre i più sottili movimenti dell’animo. Insomma in questa
Francesca da Rimini il contenuto tragico delle scene dannunziane,
abilmente concentrate da Tito Ricordi, ha trovato veramente uno sviluppo
musicale denso d’interesse proprio, mentre nessuna delle risorse offerte
dall’ambiente storico fu trascurata dal compositore.
Pure essendo così grandi ed evidenti i meriti della nuova opera, si ha
l’impressione che essa non è perfetta; come si ha pur l’impressione che
a codesto grande musicista, che ha l’istinto dell’arte, la padronanza
della tecnica, la vigoria dell’ispirazione, qualche cosa manchi ancora
per essere un perfetto operista. Che cosa adunque? A parer nostro
null’altro che un maggiore spirito di concentrazione nella scelta dei
mezzi. La fantasia dello Zandonai è così vivace che ogni strofa, ogni
verso, ogni parola del testo le dà occasione di uno slancio, di un volo
nuovo. Ma è chiaro che per tal modo l’opera d’arte risulta in complesso
d’una varietà e rigogliosità eccessive: l’attenzione dell’uditore non
arriva in tempo a fissarsi, le sue capacità percettive a un certo punto
si saturano; e il senso di sazietà genera a volte il senso di stanchezza.
Si tratta, è vero, di una menda isolata: gli applausi ieri seta così
numerosi e convinti dimostrarono che essa non basta a compromettere la
solidità e la bellezza dell’edificio d’arte complessivo.
Il grande successo
Il successo fu grandioso: cinque chiamate al primo atto, tre al secondo,
quattro al terzo, tre dopo la prima parte del quarto atto, sei – tutte
fra applausi nutriti – alla chiusa dell’opera. Inoltre si sono avuti
applausi a scena aperta, nel terzo atto, dopo la canzone a ballo e dopo
il canto di Paolo: «Perché volete voi?»
E fu un successo sincero. Se pure alcune parti dell’opera, alcuni
caratteri della musica venivano discussi, l’impressione di ammirazione
41
pel complesso del lavoro e pel compositore era generale. Fu insomma una
magnifica serata, non soltanto per Zandonai, che vede la sua fama
d’operista consacrata in modo definitivo, ma anche per l’arte italiana
che ha festeggiata una delle manifestazioni più potenti e più pure della
sua inesauribile vitalità.
L’esecuzione fu ottima sotto ogni rapporto. L’orchestra sotto la
direzione del Panizza suonò con slancio e precisione. La Canetti diede
un rilievo bellissimo al personaggio di Francesca con la sua splendida
voce e la sua azione drammatica efficace, pur essendo sempre assai
misurata e corretta. Il tenore Crimi (Paolo), il baritono Cigada
(Gianciotto), il tenore Paltrinieri (Malatestino) furono anch’essi
ottimi interpreti delle rispettive parti e come cantanti e come attori:
notisi che lo Zandonai ha pochi riguardi pei limiti di resistenza delle
voci e dà loro molto da fare negli acuti. La Merly eseguì la parte di
Samaritana con bella voce, ma dando ad essa poco rilievo drammatico.
Assai bene anche il quartetto delle Donne di Francesca (Polazzi, Avezza,
Vaccari, Maretz [Marek]) che hanno delle parti né brevi né facili; buoni
anche Malatesti [?] (il Giullare), Orlandi (Ser Toldo), Pellegrini
(Ostasio), Besanzoni (Smaragdi), Nesti (Balestriere) e i cori diretti
dal maestro Veneziani. Furono ammirate le scene e ancor più i costumi
(del Caramba).
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Gaetano Cesari, “Francesca da Rimini» del maestro Zandonai al Regio di
Torino, «Il Secolo», 20.2.1914
La cronaca della serata
Torino, 19 notte.
La prima rappresentazione della Francesca da Rimini del maestro Zandonai
ha segnato per il giovane maestro un grande successo.
Tutto il primo atto è ascoltato con religiosa attenzione. Non appena il
velario cala sull’apparizione di Paolo dinanzi a Francesca, che è nelle
sue stanze insieme con le ancelle, il pubblico che gremisce quasi
completamente il teatro scoppia in un applauso fragoroso e chiama gli
esecutori alla ribalta per due volte. Si odono insistenti grida di:
«Fuori l’autore!»: il giovane compositore appare in mezzo agli
interpreti accolto da una grande ovazione, che si ripete insistente una
seconda volta. Alla quinta chiamata, si presenta con gli altri anche il
direttore di orchestra, maestro Panizza. Il pubblico sfolla lentamente
la sala e si sparge nel foyer a commentare favorevolmente l’arte di
Zandonai, la squisita sua esperienza musicale, le qualità finissime
della partitura. Noto, fra coloro che discutono animatamente, il maestro
Giordano, il maestro Alfano, il maestro Seppilli, Mingardi della Scala e
gli inviati di parecchi giornali della penisola. In teatro è presente
Tito Ricordi, Riccardo Sonzogno e la famiglia Ricordi. Vi è poi una vera
colonia di milanesi.
Nel secondo atto riscuotono subito viva ammirazione le splendide scene
che rappresentano l’assalto delle mura dei Malatesta. Al cadere del
velario tre chiamate calorose agli interpreti, all’autore e al maestro
Panizza. Si attende con interesse il terzo atto, di cui coloro che hanno
assistito alle prove dicono molto bene. Infatti, il canto delle
fanciulle che danzano lievemente intorno a Francesca è gustatissimo.
Abbiamo qui il primo applauso a scena aperta, e un secondo applauso
segue il canto di Paolo. Alla fine dell’atto tutto il teatro acclama
entusiasticamente e si hanno cinque chiamate. Lo Zandonai, il Panizza
devono presentarsi per ben tre volte alla ribalta. Ormai il successo
dell’opera è assicurato. Il quarto atto, diviso in due parti, è
ascoltato dal pubblico favorevolmente. Tre chiamate al breve intermezzo
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e altri applausi alla fine della rappresentazione. Il pubblico esce
lentamente dopo avere decretato una vittoria. La difficile prova è stata
vinta brillantemente, benché si giudicasse molto arduo il compito di
mettere in musica la tragedia di D’Annunzio. Assistevano la principessa
Laetitia e la duchessa di Genova.
L’opera d’arte
Nel volgere di pochi anni Riccardo Zandonai è pervenuto alla sua quarta
opera. Dopo Il Grillo del focolare, dopo Conchita e Melenis, eccoci ora
innanzi questa Francesca, concepita e tracciata con rapidità, senza
giovanili esitanze, con baldanza schietta e vigorosa.
Zandonai, anche questa volta, ha agito con la sicurezza di chi,
sapendosi ben reggere in arcioni, non conosce i rischi della corsa. Alle
negazioni, a cui talvolta conduce l’autocritica, egli preferisce le
affermazioni concrete e lascia al pubblico, al tempo, la cura della
selezione. Il suo modo di comportarsi dipende dalle qualità stesse della
sua natura di musicista. Poiché alle disposizioni musicali veramente
forti non può riuscire molto faticoso il lavoro, lo Zandonai non lesina
sul quantitativo della sua produzione. Vedremo poi fino a qual punto
questa
abbondanza
produttiva
si
lascia
anche
qualitativamente
giustificare.
La scelta del soggetto trattato dallo Zandonai è forse da ascriversi a
cause estrinseche. Lasciamo da parte i ricordi incancellabili del divino
canto dantesco che già ebbe la potenza di trascinare, assai prima dello
Zandonai, uno stuolo numeroso di musicisti. Ma ci pare certo che se
D’Annunzio, plasmando in forme più consentanee al nostro teatro l’antica
materia drammatica non l’avesse in certo modo ritornata di moda,
difficilmente l’infelice eroina del canto dantesco sarebbe stata
richiamata ai nuovi onori della scena.
Inoltre la Francesca d’annunziana, scelta dal compositore quando la
sorella Parisina non era ancor nata e sul ricettario dell’esiliato
volontario di Arcachon erano meno lecite le critiche, la Francesca
doveva offrire al temperamento musicale dello Zandonai ragioni di
preferenza. Egli, il colorista delle notti lunari di Conchita vantate
come il suo prodotto più spontaneo, deve essersi accorto che quel tenue
velo di acaica poesia onde si adornano le donne di Francesca, ben
conveniva alla sua tavolozza; e quanto il rude linguaggio di certi
personaggi d’annunziani si prestava al genere di declamazione musicale
da lui prediletto.
Fatta la scelta, occorreva provvedere alla misura. Il libretto d’opera,
già si sa, pretende una concisione assai lontana dalla verbosità del
discorso d’annunziano. In questa bisogna il maestro trovò nell’editore
un ausiliare abile e, come le circostanze lo volevano, senza inutili
scrupoli.
Le
chiacchiere
d’argomento
storico
vennero
senz’altro
soppresse; l’azione ridotta al Minimum necessario. Ad onta di ciò,
parecchi punti risentono ancora della irreducibile prolissità originale.
Il coraggio degli operatori non riuscì sempre a vincere il male. Né
poterono
riparare
ad
un
altro
e,
quando
Francesca
fu
scelta,
imprevedibile inconveniente. Si tratta del richiamo di certe situazioni
sceniche a situazioni dallo stesso D’Annunzio introdotte in un libretto
scritto poi; di certe scene di maniera qual è quella lunga lettura della
Historia di Lancillotto del Lago nel terzo atto; della fissità a cui
sono costrette le masse nel secondo atto, serventi più da sfondo del
quadro che partecipanti all’azione.
Di questo libretto, il primo atto è stato trattato dal maestro Zandonai
a tinte piuttosto fredde, come atto di presentazione. Il colorista vi fa
subito capolino, facendo accompagnare un coro interno di donne da una
curiosa orchestrina. È musica che non appartiene ad una determinata età
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storica, ma che dell’antica possiede la fragile e malinconica vena,
l’indeterminatezza plastica e la uniformità tonale. I moduli strumentali
– l’avrebbe mai pensato il cardinale Sadoleto – rivivono nella pittura
del costume, ritornano alla profanità associati alla scena moderna. Ma
vi ritornano come evocazione libera, fattrice d’illusione. Se guardiamo
ben davvicino la loro materia, vi ritroviamo la mano dell’autore di
Conchita: il nocciolo è diverso, il seme è sempre quello.
Quest’effuso mormorar di canti, di Oimè, portati lontani dall’aria, fra
le mura delle case dei Polentani, preludia ad una delle pagine più
delicate dello spartito. Francesca, dove andrai? Chi mi [ti] toglie?
interroga la sorella Samaritana, quasi presaga del triste destino.
Accompagna il tenero colloquio un insistente sincopar lamentoso, un
espressivo incatenarsi di armonie. Il declamato, senza consolidarsi in
vera linea melodica, scende una volta tanto giù dal labbro al cuore.
Guardando alla produzione del maestro, questo ci sembra uno dei pochi
casi in cui l’espressione si interiorizzi. La natura del dialogo fra le
due sorelle pretendeva accenti sommessi: Zandonai ha saputo renderli con
sincerità. E crediamo anche che sopra il musicista di gusto la loro
azione si conserverebbe profonda se una logora frase gounodiana di un
paio di battute in Largo cantabile (E si morrà, oimè) non disturbasse la
chiusa.
Meno felice ci sembra invece la seconda metà dell’atto. La frase di
Samaritana, O Francesca, anima mia, risente di un altro declamato
d’origine alquanto mascagnana; il pedale centrale di preparazione all’
arioso di Francesca: Portami nella stanza è ricalcato sul disegno
dell’ansioso movimento ritmico che accompagna il giungere di Tristano
nel secondo atto dell’omonimo dramma musicale. Né l’arioso stesso di
Francesca si offre in forme troppo peregrine. Si obietterà forse, a
questo riguardo, che per non giungere a una soluzione di continuità
stilistica, il compositore è stato costretto dal genere di declamato
ammesso nell’opera a non consolidare meglio le sue linee melodiche. In
questo caso però l’idea sistematica del maestro avrebbe commesso una
sopraffazione, costringendo il libero espandersi del sentimento del
musicista ad una formula preconcetta. Premesso poi che la ragion dello
stile non potrà mai servire da scusante alla evaporazione del contenuto
sentimentale, perché in ogni arte sincera è questo che determina quello,
dobbiamo osservare come in tutta la Francesca la presenza di un vero
calore interno non sia che assai relativa, e non si manifesti per le vie
della immagine melodica. Questo calore permane allo stato di puro
dinamismo, sia che sobbalzi da un grado all’altro nella gamma variamente
intensiva del declamato, sia che cerchi d’attingere alle potenze
dell’orchestra. Ne vogliamo la prova? Si badi alla frase della viola
pomposa, frase generata dal primo incontro di Paolo con Francesca de
dall’avvincente effusione del loro primo sguardo. essa dovrebbe essere
il simbolo di una parola d’amore che conduce all’adulterio, alla
catastrofe. Ebbene, il suo tracciato melodico è quello di un melisma, il
suo carattere quello dell’improvviso, il suo contenuto armonico quello
della tonica e dell’accordo di quarto grado. Il ricamo degli archi da
cui essa è avvolta è elegante come una trina e ricorda l’arte colorita
del compositore di Conchita; ma la sua materia vale per la sensazione
pura, e sembra suggerita tutt’al più per chiudere un atto con effetto.
Il secondo atto è il più massiccio e greve dell’opera. Lo strumentale ci
sembra carico. Forse non tutti gli effetti propostisi dal maestro
risultano corrispondenti alle belle disposizioni fissate nella partitura.
È un caso del resto che capita a molti, anche ai maggiori sinfonisti. Le
voci, inoltre, cominciano a farvisi un po’ troppo spesso sentire nel
registro acuto. Alle dolci frasi interrogative di Francesca, piene di
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terrore, di ansia: Che mai è questo, o Dio! Paolo! segue un duetto
piuttosto enfatico, senza calore d’idee nuove.
Più felice in quest’atto appare invece la musicale caratterizzazione di
certi personaggi. Gianciotto, Malatestino, il Torrigiano ricevono fin
dal loro primo apparire una fisionomia musicalmente distinta. Nel senso
della ruvidezza e della perversità, la musica dello Zandonai è assai più
plasmabile che nel senso dell’amore e del dolore.
Ma eccoci alla prima parte del terz’atto, teatralmente la migliore,
forse, dell’opera. Zandonai vi deve fare il quadro: Biancofiore e
Garsenda, Altichiara e Donella, movendo il piede alla danza, sciolgono
inghirlandate la canzone di primavera. I musici le accompagnano col
liuto, col piffero, col flauto:
Marzo è giunto e febbraio
gito se n’è col ghiado.
Or lasceremo il vaio
per veste di zendado.
E andremo passando a guado
acque di rii novelli
tra chinati arboscelli verzicanti,
con stromenti e con canti in compagnia
di presti drudi, o nella prateria
iscegliendo viole
ove redole più l’erba, de’ nudi
piedi che al sole v’ebbe Primavera.
Il quadro è tutto un luccicore di fili d’oro; vi si sente come un
leggero aleggiar di rondini. La canzone si muove da uno spunto giù
volgarizzato da Puccini, che però lo strumentatore di Conchita e delle
danze di Melenis fa presto dimenticare. D’Annunzio ferma l’azione per
intrecciare i fili di un arazzo; Zandonai, costretto a seguirlo,
s’indugia a suo agio, trovando l’atmosfera più favorevole alla sua
ideazione artistica. Il duetto che viene dopo, innanzi al fatale...
antifonario, non equivale questa prima parte.
Così si giunge all’ultimo atto, fortemente drammatico nella prima scena
fra Francesca, Malatestino e Gianciotto. Il maestro, alle prese con la
perversità e la ruvidezza dei caratteri scenici, torna ad avere buon
giuoco. Il declamato lo serve, l’orchestra l’ubbidisce. Più che la
violenza rugge in queste scene il demone della ferocia. La forza
grossolana dei tipi non è disciolta e nemmeno attenuata dalla musica.
Sentiamo il compositore di teatro valersi dei mezzi limitati di cui
dispone con un fine chiaro, determinato. L’effetto è raggiunto; ora chi
bada in teatro ai mezzi? I critici, che son pochi, e fors’anco non tutti.
Nella prima scena della seconda parte di quest’atto spira un’aura di
tragico presentimento: quell’aura stessa che nell’ultimo atto di Otello
precede la catastrofe. Zandonai l’ha resa nel fiato lirico del canto dio
Francesca:
O Biancofiore, piccola tu sei!
Non arrivi ad accendere la tua
lampadetta. Tu sei
la più tenera, piccola colomba!
Dopo tanto languore di tinte, l’invito di Paolo: Vieni, vieni, Francesca,
sa di rancido; l’espressione musicale non riesce a concentrarsi né a
trovare il suono adatto alla situazione. La frase della viola pomposa,
udita alla chiusa del primo atto, non basta a rendere la frenesia
spasmodica degli esseri; la musica è inferiore alle parole, alla
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passione. E quando sotto lo stocco di Gianciotto cadono i due amanti
sorpresi, l’immanità della catastrofe non giunge a scuoterci per le vie
del cuore. La passione è stata sempre troppo poco sentita in tutta
l’opera per aprirci ora l’animo alla pietà. Il crudo realismo della
tragedia d’annunziana, in quest’ultima scena, sembra eccessivo, e goffa
l’avventura di Paolo che, fedelmente alla storia, va ad impigliarsi per
la falda della sopravveste ad un ferro della cateratta. Il vero estetico
non riesce, come nell’inferno dantesco, a far dimenticare il vero
morale; e nessuno sognerebbe qui il tramortimento di Dante.
L’esecuzione offerta al Regio è stata in tutto degna del teatro e dell’
avvenimento. Riccardo Zandonai, Tito Ricordi ed il maestro Panizza sono
riusciti, dopo difficoltà di ogni genere, ad ottenere il desiderabile.
Sia musicalmente che scenicamente lo spettacolo è apparso di primo
ordine. Fra gli artisti citeremo soltanto la Cannetti (Francesca), la
Merly (Samaritana), il tenore Crimi (Paolo), il baritono Cigada
(Gianciotto), il Paltrinieri (Malatestino) e le signorine Polazzi,
Avezza, Marek, Vaccari, Besanzoni nelle rispettive parti di Biancofiore,
Garsenda, Altichiara, Donella e la Schiava. Bellissimi i figurini del
Caramba ed accurate anche le scene.
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Giuseppe Adami, «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai al Teatro
Regio di Torino, «La Sera» (Milano), 20.2.1914
TORINO, 19 notte.
Riccardo Zandonai persegue con indefessa energia, con fede entusiastica,
il suo glorioso sogno di arte.- Non sono molti anni che il delicatissimo
Grillo del focolare, in questa stessa città, lo affermava musicista di
grande avvenire, e già un’opera nuova, assolutamente diversa di colore e
di intendimenti, Conchita, nasceva bella e sana e vitale dal suo
cervello fecondo.- A brevissima distanza seguiva Melenis, lavoro di
vasta linea in contrasto, anche questo, con l’elaborata frammentarietà
del precedente. Ed ecco, adesso, un nuovo ardimenti meraviglioso, l’
opera di colore, di poesia, di passione, tragica e delicata ad un tempo,
sottile ed ampia, squisita di dettaglio e potente d’insieme, ecco
Francesca da Rimini raccogliere nella cerchia dei suoi cinque quadri la
matura virtù di questo giovane artista così vivo, così fecondo, così
immaginoso, così esperto.
***
Fra le opere teatrali di Gabriele d’Annunzio Francesca da Rimini è
indubbiamente la tragedia più ricca di movimento e più densa di azione.
Qui non è soltanto il fastoso ornamento della veste poetica, ma una
serrata successione di fatti, un precipitare di fatalità e di passione
verso la catastrofe. L’artista non ha preso il sopravvento sull’uomo di
teatro.
Francesca ha un’ossatura, una costruzione solida e ben tagliata. Ma
riducendo per il teatro lirico la visione dannunziana era necessaria la
mano sicura di un esperto conoscitore dell’effetto scenico, che non
alterasse la linea del poema, non ne offuscasse la chiarezza, non ne
turbasse la bellezza. A tale impresa si accinse non senza trepidazione
Tito Ricordi. Si accinse soltanto per provare, sottoponendo al Poeta
come un semplice tentativo la sua riduzione. D’Annunzio ne fu così
convinto e ammirato che volle il nome dell’amico riduttore vicino al suo,
nel testo del libretto.
Ora a questa sfrondatura taluno credette muovere appunto e scrisse che
la tragedia, costretta nei limiti di una riduzione per musica, perdeva
molto della sua selvaggia e impetuosa fierezza. Il grande successo che
Francesca da Rimini ottenne stasera risponde meglio di ogni nostra
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parola alla critica ingiusta e ingiustificabile. A noi, a tutti quelli
che furono avvinti non soltanto dalla prorompente onda musicale ma dalla
rapida vicenda tragica, parve invece che anzi, così ischeletrita,
Francesca acquistasse nella sua virtù teatrale. Lo stesso critico
trovava oscura, nel libretto, la ragione dell’inganno ordito da Ser
Toldo ed Ostasio ai danni di Francesca. Ma la scena, pur rimpicciolita,
ci appare di una chiarezza evidente, e a dare un più forte rilievo
all’importanza della parola, lo Zandonai si è appunto servito – come
vedremo più tardi – del recitativo scoperto. Accusare di oscurità questa
fondamentale scena del dramma significa non voler leggere o non voler
ascoltare. E la colpa, anzi le due colpe, in questo caso non ci sembra
devano proprio cadere sul riduttore. Comunque, ad avvalorare la solidità
di tale critica preventiva sta una affermazione che è bene rilevare: lo
scrittore trova che la Francesca da Rimini concepita in un atto dal
Colautti «può bene gareggiare in efficacia scenica con la tragedia
ridotta del D’Annunzio». Quand’è così, facciamo punto, andiamo a capo e
parliamo della musica.
***
Parliamo anzi, prima di tutto, della vittoria vera, calorosa, assoluta
ottenuta ieri sera da Riccardo Zandonai. Non era e non fu una facile
vittoria. Zandonai non appartiene – beato lui – a quella categoria di
musicisti incompresi o perseguitati dalla sfortuna, per i quali è tutta
la benevola aspettazione del pubblico e il compassionevole elogio della
critica. No, Zandonai è un arrivato e quindi un fortunato. La sua strada
è ampia, piena di lusinghe, feconda di risultati, E l’Italia è quel
paese nel quale quanto più un artista dimostra di elevarsi in una
eccezionalità di ingegno, in una disciplina di lavoro, in una volontà di
ardimento e di battaglia, tanto più contro di lui s’azzannano le
diffidenze atroci, le ostilità sorde, il contrasto implacabile. Buon
segno. Segno di grande valore, non fosse altro. Conquistare, in tale
stato di grazia, un pubblico gelido, sorprenderlo poco a poco con la
sola forza dell’arte, riscaldarlo gradatamente fino all’entusiasmo pur
senza nulla concedere, pur esplicando interamente la propria personalità
e il proprio convincimento: ecco i meriti precipui di questo successo
che si è manifestato in una successione di applausi quadro per quadro.
Già al chiudersi del velario sul primo atto, Riccardo Zandonai aveva
operato il miracolo. Fino dalle prime battute egli aveva saputo creare
l’atmosfera alla sua tragedia. Un colore di cose remote, una nebulosità
di leggenda, un delicato e squisito sapore arcaico è nelle sottili
pennellate che iniziano l’atto. E subito il chiassoso cinguettar delle
ancelle, e un’ondata di piccole risa e di piccoli trilli. A quale
miracolosa tavolozza ha attinto il musicista tanta efficacia di colore?
Epoca di fantasia, colore di fantasia naturalmente. Eppure non è così
che nello spirito nostro abbiamo sentito sospirar Francesca fra il
cicaleccio delle cameriste loquaci?
La viola del giullare tronca come un singhiozzo cupo tanta placida
allegrezza:
Come Morgana manda al re Artù
lo scudo che predice il grande amore
del buon Tristano e d’Isotta fiorita.
Così incomincia la pietosa leggenda; così imprime il musicista la sua
tragica nota fondamentale. Ancora per un poco il cinguettio riprende. La
breve scena ha un movimento vocale e orchestrale su fioriture di tipo
classico. Poi, subito, una nuova forma le succede. Una forma che
sorprende tanto pare antica e tanto è nuova. Il colloquio di Ostasio e
Ser Toldo è improntato al vecchio recitativo melodrammatico, ma la
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parola è declamata su un commento armonico modernissimo. Là dove la
tragedia non richiede una interpretazione lirica e melodica lo Zandonai
ricorrerà ancora a questa formula che ottiene il doppio risultato di
allentare in una specie di piccoli riposi la prorompente linea musicale,
e di far risaltare esattamente il valore della frase. Ma l’iniziale
carattere arcaico riprende con l’entrata di Francesca. Per la corte dei
Polentani si diffonde la eco della canzone delle ancelle. Una piccola
orchestrina interna accompagna questo canto che si ripercoterà come una
persistente nota ambientale per tutto l’atto e ne coronerà con limpida
poesia il finale. Ora il musicista canta. Il duetto di Francesca e della
Samaritana è essenzialmente lirico. Due elementi di grande commozione vi
si confondono: la infantile dolcezza della piccola sorella, la infinita
tristezza della futura sposa di Gianciotto. C’è nella musica un vago
presentimento di angoscia, e le due figure si ingigantiscono in una
rassegnazione mistica che ne aumenta, con semplicità estrema di mezzi,
il valore drammatico:
...pace,
datti pace...
Il movimento delle ancelle ora è ansioso ed intenso. Di lontano l’arrivo
dello sposo è segnalato. Ancora un grido di spasimo: il tumulto do
Francesca. Poi una serena ondata di poesia su una nube di archi: lo
sfondo su cui si tesse il ricamo della viola pomposa che accompagna
l’entrata di Paolo.
È discesa la sera. Il cortile è avvolto di ombre. Traverso il chiuso
cancello trema un annunzio di chiarità lunare. Francesca strappa la rosa
di fiamma e la tende all’ignoto con il suo cuore, con l’anima sua,
mentre il coretto arcaico, d’un curioso colore agreste, pare il sospiro
d’una primavera d’amore:
...A convito selvaggio
in contrada lontana
uno cor si dimanda...
L’effetto è irresistibile. Il pubblico prorompe in un applauso che si
ripete sei volte agli interpreti, all’autore, al maestro Panizza.
***
Il secondo atto è rapido e violento. Riccardo Zandonai vi ha superata
una difficoltà che pareva insormontabile. Nel tumulto della battaglia è
il primo tumulto della passione. Tra il folgorar delle saette, le grida
dei combattenti, gli strilli lontani delle donne inseguite per le
contrade, in un convulso musicale pieno di cacofonie, che s’innalza,
languisce, si riprende, torna ad allargarsi, torna a spegnersi, si eleva
una mirabile pagina musicale: il giudizio di Dio. E ancora su questo
sfondo di ferro e di sangue, fra la selvaggia lotta è, prima, lo spasimo
della pietà amorosa di Francesca:
...non sanguini
non hai stilla di sangue sul tuo capo...
quando la freccia sfiora l’amato; ed è poi la sosta ampiamente lirica
dell’offerta della coppa ai due fratelli. Alternare e fondere tanto
contrasto
di
atteggiamenti,
serrarli
in
una
linea
complessiva,
innestarvi ancora l’episodio così pieno di carattere di Malatestino, era
impresa nella quale anche il più esperto compositore poteva naufragare.
L’atto si apre con il tema di Gianciotto: un tema, quasi diremo,
claudicante. Risentiremo poi gli elementi della viola pomposa – che ci
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richiameranno all’ingresso di Paolo nella casa dei Polentani –, quando
Francesca rimprovera al cognato l’inganno. E finalmente l’ampio tema del
giudizio di Dio, concluso nella frase
perdonato ti sia con grande amore
formerà la base di tutto il finale.
Certo quest’atto, staccandosi con un grande effetto di contrasto dal
primo, non ne ha un uguale valore.
Lo sforzo enorme di Riccardo Zandonai non è valso a intensificarne la
debolezza organica costituita dalla sua frammentarietà. Questo squarcio
di violenza in un’opera di poesia e di passione può quasi apparire come
una stonatura. Non è questo il tumulto che il pubblico cerca. Paolo e
Francesca devono vivere in una più ampia atmosfera: quella del loro
infinito ed inutile desiderio, soltanto. Ma il musicista doveva seguire
completamente la visione dannunziana e, seguendola, non poteva risolvere
in miglior modo l’ardua difficoltà.
Tre chiamate caldissime, due delle quali all’autore, accolgono anche
quest’atto.
Ora il pubblico aspetta il grande cimento. La tragedia è tutta nel terzo
episodio. È qui che l’autore raggiungerà la sua espressione massima. Ed
è qui che Riccardo Zandonai l’ha raggiunta. L’atto è tutto mirabile. Il
musicista vi ha cantato con una foga così travolgente, con una linea
melodica così vasta, così chiara, così espressiva che al chiudersi del
velario sette od otto chiamate entusiastiche lo acclamano.
Torniamo al primo carattere arcaico della tragedia. La lettura di
Francesca ha un andamento quasi religioso. Con la stessa intenzione è
espresso più tardi l’episodio famoso. Ed è notevole rilevarlo, appunto
perché questo soffio di misticismo manterrà figure ed episodio in una
linea di grande purità, togliendo anche al bacio ogni turbamento
sensuale. Purità e poesia: l’atto si impernia in queste due atmosfere.
L’episodietto della canzone a ballo, proposta da Biancofiore e Garsenda,
ripresa da Altichiara e Donella, da tutte conclusa, è pieno di tenerezza,
squisito di forma e di grazia, indicibilmente dolce. Un vivo applauso ne
è giusto coronamento. Poi un altro applauso durante il duetto, al canto
di Paolo:
Perché volete voi
ch’io rinnovi nel cuore
la miseria di mia vita?...
È questo – com’è noto – l’inizio del nuovo squarcio lirico aggiunto dal
Poeta. Brano che si chiude perdutamente con la risposta di Francesca:
– Ora perché vi togliete dal capo
la ghirlanda?
– Ho sentito
che già non è più fresca.
Arriviamo subito alla lettura e alla perdizione:
...«e lungamente
lo bacia in bocca...»
La sonorità sale con un impeto meraviglioso. Poi si accascia in un
languore infinito. Il canto della viola pomposa del primo atto è dato,
in questo finale, dall’orchestra con un violino e una viola. Poi ancora
s’attenua, illanguidisce, si spegne nel sospiro di un solo violino,
49
mentre lontano, quasi portato dalla marina, giunge come un soffio il
canto della primavera.
***
Il quarto atto si compone di due quadri: la delazione di Malatestino,
poi, subito, la catastrofe.
Nella scena fra Malatestino e Francesca torniamo alla forma del
declamato melodico. Qui parla la tragedia e il musicista si limita a
commentarla in orchestra. Ma il commento assume una importanza
grandemente drammatica e significativa nel concitato dialogo fra
Malatestino e Gianciotto che chiude il primo quadro. Altre tre chiamate
allo scendere del velario sul cambiamento scenico. L’inizio dell’ultimo
quadro sull’accorato e sommesso spiar delle ancelle è tessuto sul
temetto del piccolo coro del primo atto che accompagna l’entrata di
Francesca. E tutta la scena che ne segue, con Biancofiore, non è che una
squisita, suggestiva, commovente rievocazione della figura della piccola
Samaritana. Torniamo dunque in pieno lirismo; ancora il canto melodico
trova nuove espressioni nel breve duetto, così caldo e così vivo, fra
gli amanti travolti in una vita e in una unica morte. Ora alla frase di
Paolo: «ti trarrò dov’è l’oblio» riappare il tema del terzo atto: «una
visitatrice si chinava su me». È questa la visione dell’amante nella
lunga assenza. La visione è adesso tradotta in realtà di amore. E il
tema della viola, affidato per la prima volta alle voci, chiude il
duetto:
Dammi la bocca. Ancora! Ancora! Ancora!
La tragedia prorompe. Il passaggio dall’amore alla duplice morte è
rapidissimo. Solo sul disperato gesto di Gianciotto che piega il
ginocchio a spezzare la spada, la tragedia si chiude con un grido di
orrore.
Per sei volte l’ovazione all’autore si ripete. Il trionfo è completo.
***
Abbiamo seguito nelle sue linee generali la struttura dell’opera, ma
siamo ancora ben lontani dall’averne analizzato il valore. Più si
ascolterà questa Francesca da Rimini e più ne appariranno evidenti le
infinite
bellezze.
Riccardo
Zandonai
vi
ha
affermata
tutta
la
personalità del suo magnifico talento, oramai maturo e completo. Di
fronte a tanta bellezza, a tanta originalità, a tanta sapienza, miglior
commento è l’ammirazione. Il musicista non poteva infatti intendere,
penetrare, rendere la tragedia in veste musicale più evidente e più
chiara. Sembra che egli aspiri alla semplicità assoluta. Il suo commento
è come un sussurro sommesso. Ma l’essenza e la forma del commento sono
frutto d’una elaborazione magistrale. Ci sono in questa orchestra che ha
una trasparenza purissima tali acuti dettagli, così sottili impasti,
così originali e strani atteggiamenti da sbalordire il più moderno dei
tecnici. Dove egli canta, quando la sua fantasia vuole librarsi al più
ampio dei voli, la sua personalità più appare evidente. Il pubblico ne è
trascinato. Sente che questa onda melodica gli richiama, con assoluta
novità di forma, la classica melodia italiana, quella melodia che gli
impressionisti rinnegano e di cui tutti siamo assetati. Aver trovato
tale espressione è un altro meraviglioso merito della nuova opera e
forse la prevalente ragione del suo successo.
***
Al quale, indubbiamente, ha contribuito l’esecuzione. Ettore Panizza, in
prima linea, studiò e rese l’opera con anima d’artista; la Canetti, il
Crimi, il Cigada, il Paltrinieri gareggiarono in valore. La Canetti
imparò in pochissimi giorni la difficoltosa parte e fu cantante ed
attrice perfetta. Il Crimi ha una delle più belle e maschie voci
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tenorili che si possono ascoltare. E tutti, anche i minori, furono
all’altezza del loro compito. Il quadro scenico, su bozzetti del
Rovescalli e con costumi di Caramba, fu reso con grande effetto da Tito
Ricordi che ne curò ogni dettaglio con quella visione di teatro e quell’
acuto talento che lo rendono un direttore scenico insuperato.
Perfetti in ogni particolare gli attrezzi del Rancati, scrupolosamente
studiati su modelli dell’epoca.
L’arte italiana non poteva dunque avere iersera un trionfo maggiore e
più significativo.
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La seconda rappresentazione di “Francesca da Rimini” di R. Zandonaj al
teatro Regio, «La Stampa 22.2.1914)
La nuovissima opera dello Zandonai vide iersera rinnovate presso a poco
le ottime accoglienze onde fu accolta la prima sera. Il pubblico,
magnifico nei palchi e nei posti distinti e abbastanza affollato in
platea e nelle gallerie, volle salutare più volte alla ribalta l’autore,
gli artisti e il maestro Panizza. E se anche l’applauso non raggiunse
sempre il grado di intensità che fece della prima rappresentazione uno
dei successi migliori conseguiti in questi ultimi anni al Regio da opere
nuove, l’impressione parve anche maggiore in quanti udivano lo spartito
per la seconda volta. Questo sentimmo dire da molti. E volontieri ne
prendiamo nota, poiché è questo un segno caratteristico d’intima
bellezza che non interamente si discopre di primo acchito, per concedere
tutta se stessa al pubblico.
Questa sensazione, d’altra parte, collima con quanto prevedemmo, dicendo
della prima rappresentazione. Ed era facile profezia.
La musica dello Zandonai non è infatti musica di facile acchito. O
almeno lo è soltanto in alcuni episodi, e per quel tanto bastevole ad
afferrare l’attenzione del pubblico ed a trascinarlo con sé. È «il soave
liquor» di cui il Tasso voleva aspersi gli «orli del vaso» per «l’egro
fanciul» costretto a bere gli amari succhi della medicina.
Essa è tutta fatta di materia preziosa e salda per chi la giudichi alla
sola stregua con cui può giudicarla un musicista. Ma guardiamo noi forse
nel diamante l’arte di chi dagli angoli delle sfaccettature seppe
ricavare il partito maggiore? No: i bagliori, le iridescenze soli ci
meravigliano.
E così è per questa Francesca da Rimini. Il grande pubblico ne vede le
grandi linee; ne gusta la parte più semplice, quella ove la melodia
s’innalza in più vaste ruote, e lascia a chi vuole di scendere nell’
intima struttura della musica. Nondimeno sente sprigionarsi dai meandri
a tutta prima un po’ oscuri dell’orchestra e della scena qualchecosa di
non comune, di fortemente studiato, di vivo, di caratteristico. Lo intuì
udendo la prima volta l’opera, e ne rimase colpito ma disorientato. Lo
sentì ieri sera, e n’ebbe compiacimento. Francesca da Rimini è infatti
una di quelle opere che tutto hanno da guadagnare ad essere riudite:
nulla a perdere. Ciò che è in essa di vuoto, di inorganico, di freddo,
di voluto, può a poco a poco trovare un largo compenso nella bellezza e
nella ricchezza di molti episodi, man mano che essi appaiono più netti,
più perspicui col procedere delle rappresentazioni. E l’opera resiste
così nella sua intima essenza.
Intanto ieri sera il successo si concretò in tre chiamate dopo il primo
atto; tre meno vivaci dopo il secondo, che ha un difetto grave: quello
di voler descrivere lo sfondo di una battaglia alternando i momenti di
lotta con quelli dominati dagli episodi che agitano i personaggi
principali: donde qualche cosa di squilibrato, di artificioso, che già
nella rappresentazione della tragedia del D’Annunzio nocque al successo
51
immediato. Il terzo atto rinnovò il magnifico plauso della prima sera,
con altre quattro o cinque chiamate, e fu gustato maggiormente l’ultimo
atto, di cui sovratutto la prima parte ha una superba incisività
drammatica.
L’esecuzione fu tutta una bellezza. La Canetti seppe unire ai pregi di
una voce dolce, calda, ricca di passione, educata ad ottima scuola, un
portamento scenico dignitoso e fiero. Non eccedette mai: anzi la nota
della passione parve qua e là velarsi d’una tinta melanconica e grigia
che ad una parte del pubblico poté sembrare freddezza. Ma freddezza non
è, ove si discenda nell’anima del personaggio.
Il Crimi ebbe momenti bellissimi per vigore d’accenti passionali, ed
altrove seppe invece contenere il suo canto in una nota di sconfortato
dolore, come conviensi a Paolo.
Gianciotto (Cigada) e Malatestino (Paltrinieri) rinnovarono l’eccellente
impressione lasciata in tutti la prima sera. Ed è strano come anche il
cosidetto phisique du rôle convenga ad essi. Tarchiato, forte, d’una
rara potenza di mezzi vocali il Cigada; nervoso, svelto, insinuante il
Paltrinieri, per cui questa nuova importante interpretazione è un giusto
compenso dovuto ad un artista cui furono affidate in passato soltanto
parti secondarie, ma che dimostrò sempre una singolare intelligenza.
Ricordate, ad esempio, il folle nel magnifico Boris Godunoff.
Degli altri esecutori già dissi il bene che pensavo dopo la prima
rappresentazione. E soltanto del ricordo mi valgo per riparare ad un
piccolo errore, rivendicando al tenore Orlandi la buona interpretazione
della parte di Ser Toldo,
Né ripeto le lodi per l’orchestra e per il maestro Panizza.
Piuttosto a me pare che in questa esecuzione così accurata in ogni
punto; in questa esecuzione ove le comparse sembrano riporre lo stesso
amore nella figurazione scenica che dànno gli artisti principali alla
loro parte; in questa rappresentazione ove ogni aggruppamento di
personaggi ha qualche cosa di artistico sia un grande insegnamento. E l’
insegnamento è del Wagner: «Abbia la scena importanza uguale a quella
della musica e del poema». E scena non significa soltanto scenografia e
vestiario.
A proposito di vestiario, non mi apposi male attribuendo i bellissimi
costumi a Caramba, e fu la ditta Zamperoni di Milano ad eseguirli.
[...]
19
“Paolo e Francesca” del M° Zandonai - Il successo al “Regio” di Torino,
«Il Corriere d’Italia», 20.2.1914
TORINO, 20 matt.
Dopo un lungo periodo preparatorio il nuovissimo spartito poté stasera
giungere lietamente in porto ed assecondare così l’attesa vivissima di
quanti nutrono fiducia nel giovane e fecondo maestro trentino salito in
poco tempo ad una notevole considerazione fra gli intelligenti.
L’uditorio accorso seguì infatti lo svolgersi dell’opera con quella
attenzione intensa che al compiacimento congiunge il rispetto raccogliendosi in silenzio non appena il maestro Panizza ebbe dato il segnale
d’attacco.
Primo atto
Si apre su di un movimento spigliato con vaghi accenni di viola interna.
È la vecchia canzone del giullare che viene a chiedere ospitalità nel
castello dei Polentani. Le ancelle di Francesca lo interrogano scherzose
e passa nell’orchestra un fremito vago di giovinezza e di comicità
contenuta. Il giullare canterà le storielle e romanze e in compenso non
52
chiede che un pezzo di scarlatto per rappezzare la gonnella. Anche la
dama che va sposa a un Malatesta sarà prodiga al cantore di doni. La
fresca voce della fanciulle commista allo scoppiettìo dell’istrumentale
conferiscono al quadro una grande gaiezza. Il giullare canterà di Artù e
del filtro magico che la madre Lotta somministra a Tristano e ad Isotta
e la viola preludia mentre le donne dal balcone sono in attesa.
Ma Onstanlio [Ostasio], fratello di Francesca, vociando villanamente,
sopraggiunge interrompendolo. Egli teme nel giullare un cortigiano di
Malatesta, venuto a conoscenza di ogni artifizio ordito da Ser Toldo il
notaio, per dare in sposa Francesca a Ginciotto [Gianciotto] che è sciancato
e repugnante. Prima che ella lo veda lo afferra, lo percuote e lo
scaccia. Un canto giunge dalla stanza: è un ritornello antico, una
cantilena suggestiva: liuti, viole, pifferi lo accompagna[no] e si
diffonde una dolce malinconica nostalgia come un’eco insinuante ed
insistente. La pagina ha sapore evocativo: qualche accenno all’antico
modo con tocchi discreti ne accresce il potere. Francesca al braccio di
Samaritana appare come assorta, come l’acqua corrente che va e va e
l’occhio non se ne avvede. Anche la sorella nell’ora dell’abbandono è
sgomenta. All’alba dal lettuccio attiguo ella non sorgerà ad annunciarle
la stella diana e il tramonto delle gallinelle. Il gaio sciame delle
ancelle ritorna. Si chiama Francesca; accorra essa a vedere lo sposo
Paolo [che,] venuto a rogare l’atto per mandato del fratello, si arresta
tra gli arbusti del giardino. Gli sguardi si incontrano turbati per la
prima volta. Presaga, Francesca dice a Samaritana: «fa’ cessare questo
tumulto, corretegli incontro».
Il momento è musicalmente denso di poesia ed il musicista, dedito spesso
come già altrove all’episodio, con una pennellata sufficiente riesce a
raccogliere il quadro in una atmosfera morbida di delicatezza soavissima.
Un lieve tremolio di archi avvolge la melodia che i suonatori della
loggia cantano dolcemente. La viola pomposa che lo Zandonai ha
introdotto quivi trae dalle corde suoni penetranti cui risponde l’oboe
quasi gemebondo. Il ritornello delle voci femminili vagamente si
intreccia evocativo nella sua semplicità.
Atto secondo
Alla serenità succede ora il fervore guerresco: e nella battaglia
un’altra battaglia dilaga. Grida minacciose e nascoste; nel maniero dei
Malatesta si combatte: macchine infernali e fuochi di pece greca
attendono l’avvicinarsi del nemico; trombe, campane, strepiti d’arme
risuonano nell’aria sanguigna; richiami angosciosi di feriti, urla [e]
invocazioni si spandono nella mischia orrenda. Atto di movimento, di
vita intesa naturalmente nel significato esteriore, ed anche atto di
colore intenso, cupo. Voci ed orchestra hanno infatti ruvidi contrasti
improvvisi, aspre dissonanze: dal punto di vista descrittivo il
sinfoneta ne ha realmente intensificato la dinamica. Forse nel groviglio
di frasi, nella insistenza stessa della situazione eccede di macchinosità. La musica descrittiva, finché non rivela stati di animo ma si
accontenta di rendere esteriormente vicende pure fosche, può nascondere
un’insidia qualora non la sorregga il criterio della discrezione o
quando il musicista non sappia raccogliere intorno a pochi temi decisivi
le sue impressioni.
La stessa varietà conduce in caso diverso alla uniformità. Due episodi
concedono però in questo atto un po’ di tregua: quello patetico di Paolo
e Francesca ove il tema che chiameremo dello sguardo ritorna in tutta la
sua soavità, e l’arrivo di Malatestino ferito. Anche il declamato è a
singulti: un ritmo puntato caratteristico si ripete come un pedale
mentre altri tocchi nella sonorità acuta guizzano e si succedono ad
intervalli di silenzio come urla di belva ferita.
53
È questo un accenno abbastanza significativo della bieca figura del
feroce e sanguinario giovanetto, accenno vago ma che illumina a
sufficienza il tipo.
Atto terzo
Nella camera di Francesca
All’alzarsi del velario ella è intenta a leggere. Una nota di pedale
fissa ne dà come l’immagine plastica. Dopo la sera perigliosa non ha più
veduto Paolo che il Comune di Firenze volle capitano del popolo. È
questa la parte veramente lirica dell’opera. Al fascino del canto si
aggiunge quello della danza: sonorità di flauti, liuti, oboi e clarini
echeggiano su dalla loggia. La musica è leggera, senza costituire una
imitazione pedestre di modelli arcaici e dà nell’insieme un profumo
sottile come soffuso di polvere. Le ancelle, giunte le mani, ballano e
cantano: «Deh, creatura allegra, conduci questa danza in veste bianca e
negra come è tua costumanza». La voce si distende sugli arpeggi ed i
violini in concordi acuti avvolgimenti del canto in una chiarezza
soffiano quasi impalpabili. Anche la disposizione delle parti si
compiace di intervalli consonanti, appena intercalati da qualche
successiva armonia un po’ inconsueta. L’armonia dello Zandonai del resto,
benché modernissima, è non aliena da passaggi cromatici e enarmonici,
evita spesso quella sovrapposizione d’accordi così cara agli stranieri,
quella sonorità composita in cui nella tonica o nella dominante si
accavallano none, undicesime e tredicesime, talora a danno della
limpidezza.
La sostanza melodica di questo stornello non è certo originale come non
sempre originale è – a rigor di termini – lo Zandonai; quando si propone
di definire con una linea più sensibile un periodo, una frase, gli
occorre tal volta di risentire inflessioni proprie ai maestri dell’
ultim’ora non esclusi Puccini e Mascagni. Ma se nel lungo respiro della
sua lunga melodia si abbandona, si riprende, come appunto nella pagina
cui accenniamo, non appena la situazione richieda grazia e snellezza.
L’ultimo atto
La tragedia volge trucemente all’epilogo: la cupa figura di Gianciotto è
sorpassata in brutalità da Malatestino. Egli ama Francesca e ucciderà
Gianciotto pur che ella lo voglia, come uccise il primogenito che geme e
i lamenti del quale la fanno rabbrividire. Anche qui la sinfonia si
distende negli strumenti, pervasa da quello spunto ritmico che già aveva
accompagnato Malatestino: e qui nel lungo silenzio passa come un senso
di sgomento.
L’impressione
Mancanza si sincerità che tradisce spesso l’intera tragedia ne fa opera
di poesia più che di teatro e di verità: opera di poesia e quindi
armonia imbevuta di musica e di sogni, tenuamente diffusa, quasi intenta
esclusivamente a soggiogare e disporre per solo compiacimento proprio le
idee e i pensieri, in ciò sta la scena maggiore dell’arte di Gabriele
D’Annunzio e ciò limita la giustificazione di un connubio con la musica.
Riccardo Zandonai, come d’Annunzio poeta e colorista, ne restò
soggiogato e, anima squisita e sensibile, ne intuì l’armonia e ne fu
scosso e compreso, e volle scendere a scrutarne le fibre e col potere
evocatore del suono esternarne la psiche commossa, e cantare con la
leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova, non
consapevole in tutto forse dei pericoli e delle insidie che gli
sorgevano dinanzi.
L’arte di questo giovane autore che in pochi anni, con «Il Grillo del
focolare», con «Conchita» e «Melenis» si è meritatamente acquistato una
54
fama considerevole, malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica
donde aveva preso le mosse, con allargare le volute del canto verso
spaziosi
orizzonti,
è
essenzialmente
anche
[in]
«Francesca»
impressionista.
Impressionista italiano – diremo così – dove non è rinnegato del tutto
il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri
come in Strauss, Debussy e Ducas [Dukas] passano a volte in seconda linea,
e che non di meno nello Zandonai, elevati a fattori, giovano con la loro
fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’ente
fonico. Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna
che si manifesta in ogni arte – pittura in specie – [e] nella musica
muove alla ricerca costante del colore nuovo e dei nuovi sogni assai
semplici e più spesso compositi, lo Zandonai seguì il sistema in parte
per temperamento proprio e in parte per influsso altrui, e risultò
analitico più che sintetico; più propenso a particolari anziché alla
vasta e vigorosa concezione. La stessa sua sinfonia per quanto ligia ai
principi tematici è talvolta un fantasioso succedersi di elementi
difformi che conservano colle origini un nesso appena superficiale dove
i richiami già poco plastici ed afferrabili raramente escono riconoscibili nel mare fluttuante del caleidoscopio di più svariati colori in cui
sono disciolti. Ed è appunto nella parte della tragedia ove il colore
tenuamente diffuso prepondera che il musicista si accompagna e si
accorda con l’armonia latente più che non nel crescendo passionale
dell’impeto lirico o ancora nella truce scena dell’ultimo atto.
L’artificio del drammaturgo invano cerca sostegno nel declamato spinto a
volte senza ragione nelle estreme regioni, e qualche volta ancora troppo
diffuso e interrotto da inutili didascalie strumentali. La psicologia di
Francesca, come quella di ogni altro personaggio, rimane un poco nell’
ombra: ecco perché non ci sentiamo spesso partecipi o vicini e meno
ancora immedesimati nella loro vita; ecco perché la vediamo più
attraverso ad un velo che vibrante in noi stessi.
La cronaca della serata
La cronaca della serata è stata assai lieta.
Si ebbero al primo atto cinque chiamate di cui una agli interpreti e
quattro all’autore. All’ultima comparve anche insistentemente chiamato
il maestro direttore Panizza che col Ricordi fu della messa in scena e
della concertazione amoroso cooperatore dell’autore.
Anche gli artisti dal canto loro cooperarono al successo e le difficoltà
da sormontare non erano né poche né lievi. La Cannetti, il Crimi, il
Cigada e il Paltrinieri furono attori e cantanti degni del migliore
encomio. La Cannetti, benché la parte non le si convenga del tutto per
il fatto che il suo sistema di canto e la dolcezza della sua voce
potrebbero meglio figurare là dove si richiede una linea più larga,
visse il personaggio di Francesca e lo rese da grande artista.
Il tenore Crimi le figurò degnamente accanto vincendo una tessitura
acuta e sostenendo i trapassi più aspri con vigore e voce vibrata.
Il Cigada fu uno sdegnoso Gianciotto minaccioso e violento ed il
Paltrinieri colorì la figura felina di Malatestino. Pure molto bene
fecero le ancelle di Francesca.
L’orchestra suonò con anima, e chi conosce il tessuto istrumentale di
Francesca da Rimini, meraviglioso tale da fare invidia a quello dei più
reputati autori nostrani e stranieri, sa che essa non fece poco e che
non facile fu il compito del direttore.
Il secondo atto, un po’ macchinoso, interessò meno ma riscosse pure due
chiamate agli interpreti ed all’autore.
55
Le sorti dell’opera si risollevarono al terzo atto interrotto dalla
“canzone” e dalla frase del tenore “il vostro viso”, detta dal Crimi con
molta espressione.
Al quarto atto si ebbero pure varie chiamate che suggellarono così il
lieto successo dell’opera.
La sala del “Regio” era popolatissima. Erano presenti per l’avvenimento
molti critici dei quotidiani della penisola, scrittori, musicisti ed
ammiratori della musica, venuti specialmente da Milano. Notati furono il
comm. Tito Ricordi, editore dell’opera, e Riccardo Sonzogno.
20
La “Francesca da Rimini”
Messaggero», 20.2.1914
del
m.
Zandonai
al
Regio
di
Torino,
«Il
TORINO, 19.
Questa sera al teatro Regio ha avuto luogo la prima rappresentazione
della Francesca da Rimini, l’opera del maestro Zandonai tratta dalla
tragedia di Gabriele D’Annunzio.
La Francesca è riuscita una nuova affermazione dell’ingegno e dell’arte
dello Zandonai che nel volgere di pochi anni dal Grillo del focolare a
Conchita a Melenis a questo suo nuovo lavoro è venuto raggiungendo una
lirica d’arte vigorosa e personale.
Il primo atto è stato tracciato dal maestro a tinte piuttosto fredde,
come atto di presentazione. Ma il colorista appare subito dopo la prima
battuta: e l’autore fa accompagnare un coro interno di donne da una
curiosa orchestrina.
Il recitativo, senza consolidarsi in vera linea melodica, scende si può
dire dal labbro al cuore.
Meno felice sembra la seconda metà dell’atto. La frase di Samaritana «O
Francesca, anima mia» risente di un altro declamato di origine alquanto
mascagnana. Ma il finale ricorda l’arte singolare del compositore di
Conchita.
Il secondo atto è il più massiccio e greve dell’opera. Lo strumentale
sembra carico; forse non tutti gli effetti propostisi dal maestro
risultano corrispondenti alla bella disposizione fissata nella partitura.
Più felice in questo atto appare invece la musicale caratterizzazione di
certi personaggi. Gianciotto, Malatestino, il Torrigiano ricevono, fin
dal loro primo apparire sulla scena, una fisionomia musicalmente
distinta; nel senso della rudezza e della perversità la musica dello
Zandonai è assai più plasmabile che nel senso dell’amore e del dolore.
Ed eccoci alla prima parte del terzo atto: teatralmente il migliore
dell’opera.
Biancofiore e Garsenda, Altichiara e Donella muovono il piede alla danza,
sciolgono
inghirlandate
la
canzone
di
primavera;
i
musici
le
accompagnano col liuto, col piffero, col flauto. Il quadro è tutto un
luccichìo di fili d’oro; vi si sente come un leggero aleggiare di
rondini. La canzone si muove da uno spunto già volgarizzato dal Puccini(*),
che però lo strumentatore di Conchita e della Danza di Menelis [Melenis] fa
presto dimenticare.
L’ultimo atto è fortemente drammatico nelle sue prime scene fra
Francesca, Malatestino e Gianciotto.
Il maestro, alle prese con la perversità e la rudezza dei caratteri
scenici, torna ad esser padrone della sua arte; il declamato e l’
orchestra gli obbediscono fondendosi mirabilmente; più che la violenza
rugge in queste scene il demone della ferocia.
Al finale però la musica è inferiore alle parole e alla passione.
L’esecuzione del Regio è stata in tutto degna del teatro e dell’opera.
Riccardo Zandonai, Tito Ricordi ed il maestro Panizza sono riusciti,
56
dopo difficoltà di ogni genere, ad ottenere il desiderabile. Sia
musicalmente che scenicamente lo spettacolo è apparso di prim’ordine.
Tra gli artisti citeremo la Canneti [Cannetti] (Francesca), la Merly
(Samaritana), il tenore Krismer [Crimi] (Paolo), il baritono Cigada
(Gianciotto), il Baltrinieri [Paltrinieri] (Malatestino). Bene tutti gli altri.
Bellissimi i figurini della casa Caramba e accurate anche le scene.
Per la cronaca: teatro meraviglioso; tutto il primo atto ascoltato con
religiosa attenzione e salutato alla fine con cinque chiamate agli
artisti e all’autore. Nel secondo atto riscuote applausi vivissimi e
calda ammirazione la splendida scena che rappresenta l’assalto alle mura
di Malatesta; il calare del velario è accompagnato da tre calorose
chiamate agli interpreti, all’autore e al maestro Panizza.
Al terzo atto si ha un applauso a scena aperta e alla fine tutto il
teatro acclama entusiasticamente. Si hanno cinque chiamate.
Il quarto atto, diviso in due parti, è ascoltato favorevolmente: tre
chiamate si hanno nel breve intermezzo e altri applausi alla fine. Il
pubblico esce lentamente dopo aver decretato una vittoria.
Assistevano alla rappresentazione la principessa Letizia, la duchessa di
Genova, i maestri Giordano, Alfano, Seppilli, Mingardi e altre
personalità.
---------(*)
In Fanciulla del West.
21
“Francesca da Rimini” del maestro Zandonai al teatro “Regio” di Torino,
«La Tribuna», 21.2.1914
La rappresentazione
Torino, 20.
Diciamo subito che se il lavoro non ha avuto un successo straordinario,
strepitoso, tale da lanciare di colpo il giovane musicista nei campi
dorati della gloria e renderlo l’uomo del giorno, è stato però
calorosissimo, schietto, oltremodo lusinghiero. Il pubblico torinese,
che a Zandonai esordiente aveva dato la grande gioia del primo successo,
ha compensato il suo nuovo lavoro, lo studio e la passione sua, con un
nuovo trionfo incontrastato. Il pubblico gustò la musica e gustò la
tragedia; non trovò soverchio distacco dall’una all’altra; è nel
complesso una opera organica che non stancò, come qualcuno prevedeva.
Sulla drammaticità e sul contenuto del libretto sono vari i giudizi.
Non è necessario spender molte parole intorno al libretto di questa
Francesca da Rimini. Si sa che esso è formato dal testo dannunziano,
opportunamente sfrondato di alcuni episodi scenici e di molti brani
narrativi non necessari all’intelligenza dell’azione drammatica. Lo
stesso Tito Ricordi si è accinto all’impresa di alleggerire e ridurre la
tragedia del D’Annunzio a libretto d’opera e, si deve riconoscerlo, egli
è riuscito mirabilmente nel suo intento. I tagli operati nella compagine
folta del testo originario non si avvertono, leggendo il libretto.
Eppure questi tagli sono semplicemente colossali. Basti dire che al
primo atto è stato soppresso, oltre ad una buona metà del dialogo fra
Ostasio e Ser Toldo, tutta l’intera scena fra Ostasio e Bannino col
ferimento di quest’ultimo. Di bene in meglio: la scena iniziale del
secondo atto con il colloquio tra “il Torrigiano” e “il Balestriere”,
lunga centododici versi nella tragedia, è stata ridotta a tre soli versi
nel libretto. E le successive scene tra Francesca, Paolo e Gianciotto
hanno subìto anch’esse decurtazioni importantissime. Al terzo atto sono
state tolte interamente le lunghe scene con il Mercante, l’Astrologo e
il Medico; anche la scena capitale tra Francesca e Paolo è stata ridotta
a poco più di un terzo, guadagnando molto la forza drammatica.
57
Il quarto e il quinto atto della tragedia, ridotti ai minimi termini,
formano nel libretto un atto solo diviso in due parti.
Del resto, come già abbiamo detto, queste amputazioni non hanno
sfigurato affatto l’opera bellissima del d’Annunzio.
La vicenda drammatica, in fondo, è rimasta immutata: il primo atto
consta nell’arrivo di Paolo Malatesta nel palagio dei Polentani [di]
Ravenna e termina con l’offerta della rosa che Francesca fa al
sopravveniente; il secondo si svolge fra il tumulto della battaglia sull’
alto della torre malatestiana a Rimini ed è inframmezzato dalla scena
nella quale Paolo e Francesca rivelano l’affetto che li sospinge l’uno
verso l’altra; il terzo, eminentemente poetico e lirico, ha luogo nella
camera di Francesca e si chiude con l’episodio della lettura del libro e
del bacio; il quarto e il quinto (collegati insieme) ci fanno assistere
alla delazione di Malatestino, all’agguato di Gianciotto e all’uccisione
degli adulteri.
Nell’insieme,
il
libretto
può
dirsi
eccellente
per
taglio
e
sceneggiatura, oltre che smagliante per la forma letteraria. Tutti
conoscono,
del
resto,
i
meravigliosi
pregi
formali
dell’opera
dannunziana, e sarebbe certo ingenuità il parlarne ora.
Il primo atto si apre con un breve preludio spigliato su una scena di
donne alle prese con un giullare che canta comiche storielle d’amore. La
gaia scena è interrotta dal sopraggiungere irruento di Ostasio; ma poi
le donne ritornano e chiamano Francesca perché accorra a vedere lo sposo.
Le donne lo credono realmente il fidanzato e lo trovano degno di lei; ma
Paolo è venuto invece a rogare l’atto per mandato del fratello e si
arresta tra gli alberi del giardino. Gli sguardi dei due giovani si
incontrano, per la prima volta, turbati. Francesca si avvicina a Paolo:
coglie una rosa e gliela offre.
Il momento è musicalmente denso di melodia poetica, delicatissima. Il
quadro è contenuto in un’atmosfera dove un lieve tremolio di archi su
una larga armonia di sonorità medie avvolge le melodie che i suonatori
della loggia scandono dolcemente. Il “canto delle donne” riesce
deliziosamente arcaico ed è gustato dall’uditorio. Il coro si spegne:
A convito selvaggio
in contrada lontana
uno cor ti [si] domanda...»
Il pubblico scoppia in applausi calorosi. Sono 5 le chiamate che
salutano l’autore e gli interpreti.
Il secondo atto risulta, nel suo insieme, di minore contenuto musicale
in confronto del precedente e di quelli che seguono.
Inferiorità evidente, sentita. Esso si sostiene tuttavia per la sua
bellezza esteriore e per il suo movimento scenico. Sono infatti resi
assai bene il fervore della battaglia, i richiami dei feriti, gli
episodi
di
morte.
Nonostante
che
lo
svolgimento
dell’atto
sia
esteticamente impeccabile, l’atto stesso non riceve che 3 chiamate.
Questo atto, così diverso dalla gentile tenuità del primo e rotto da un
episodio che può chiamarsi di riposo, cioè quello patetico di Paolo e
Francesca, a qualcuno tuttavia è apparso stanco. Quando infatti l’atto
si chiude non si sa bene se gli applausi siano diretti agli esecutori o
alla musica.
Ma il successo rimbalza di nuovo al terzo atto che sembra la parte
migliore di tutto il lavoro. Già a scena aperta si hanno parecchi
applausi; piace infatti molto la leggiadra canzone a ballo delle 4 donne
di Francesca: un quadretto di danze che ricorda gli affreschi tanto cari
al Poeta del Palazzo Schifanoia nella silenziosa Ferrara; ed è insieme
al mesto canto di Paolo:
58
«Perché volete voi?...»
una delle fini gemme dello spartito.
La musica di questo atto è calda, ispirata. Su nella loggia echeggia una
piacevole sonorità di flauti, di clarini, di oboi, molto gustata. La
seconda parte è tutta sentimentale. Vi si svolge un lungo colloquio in
cui Paolo tenta invano di vincere Francesca parlandole delle proprie
sofferenze d’amore. Ma la lettura delle parole tentatrici e vittoriose:
«tra le braccia lei serra - lungamente - la bacia in bocca» [sic] – come
dice la didascalia del Poeta.
L’atto si chiude con un grande sfoggio di melodia che ricorda il finale
del primo atto e strappa calorosi applausi.
La tragedia volge al suo epilogo: la cupa figura di Gianciotto è
sorpassata in brutalità da quella di Malatestino. Anche egli ama
Francesca e ucciderà il fratello Gianciotto purché ella lo voglia, come
uccise freddamente un prigioniero il cui lamento di notte la faceva
rabbrividire. La sinfonia qui si distende negli strumenti pervasi da
quello spunto ritmico che già aveva accompagnato Malatestino durante la
sua prima scena.
Intanto Giangiotto [Gianciotto] sopraggiunge e alcune incaute parole di
Francesca fanno sorgere in lui il sospetto che Malatestino non tratti la
donna sua col riguardo dovutole. Francesca esce; i due fratelli si
trovano faccia a faccia e Malatestino compie brutalmente la sua opera di
delazione. la scena è profondamente drammatica: la musica si mantiene
all’altezza sua e riproduce quel momento di sgomento e di terrore.
Tre applausi coronano questa prima parte.
Il velario si abbassa per breve. La seconda parte si svolge nella camera
di Francesca. È notte, le donne prendono congedo da lei. La scena
comprende molti particolari delicati, specialmente il saluto di
Francesca a Biancofiore con la rievocazione della figura di Samaritana:
«Era dolce la mia sorella, è vero, Biancofiore?»
La musica conduce l’animo da una tristezza infinita, presaga di sventura,
ad uno scoppio di passione intensa. Appare Paolo: nel suo canto risuona
il gran tema del primo incontro che il pubblico ha già gustato e di cui
ora si ricompiace. Le voci si fondono. Arriva Gianciotto. Trafigge i due
amanti e spezza lo stocco sanguinante.
Sei chiamate chiudono l’opera.
Il maestro Panizza ha concertato lo spartito con diligenza, assecondato
con molta lode dagli interpreti: la Canetti [Cannetti], il Krismer [Crimi], il
Cigada e il Paltrinieri.
La Canetti fu una protagonista intelligentissima che si fece apprezzare
come eletta artista in una parte ardua e faticosissima.
Il Krismer [sic] dette giusto risalto drammatico e vocale alla sua parte.
Molto bene il Cigada e specialmente il Paltrinieri nelle parti di
Gianciotto e di Malatestino.
La messa in scena e i costumi di Caramba, magnifici, sontuosi.
L’opera ha commosso realmente? La musica di Zandonai nella sua essenza
ha convinto?
Nella Francesca, come già in Melenis, la parte drammatica è in
prevalenza su quella lirica. Il musicista riesce a scrivere pagine di
efficacia non dubbia, quando l’azione assume un carattere fosco e
angoscioso; viceversa, là dove il canto di amore dovrebbe esplicarsi
libero, flessuoso e spontaneo, sembra che la sua ispirazione si trovi un
po’ inceppata. Questo si nota sia nell’episodio del secondo atto fra
Paolo e Francesca, sia specialmente nell’ultimo duetto d’amore, assai
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meno significativo della precedente scena tra Gianciotto e Malatestino,
così torva e vibrante.
Lo Zandonai è sopra tutto uno straordinario colorista: egli maneggia
l’orchestra con un’abilità superlativa e sa, con pochissimi elementi
tematici, imbastire un quadro lussureggiante. Per questo la musica
interessa più di quel che non commuova: essa sembra rivolgersi più allo
spirito che al cuore dell’ascoltatore. Nella Francesca da Rimini, di
vere melodie passionali che abbiano un periodo di una certa ampiezza e
un disegno caratteristico, ve ne è una soltanto, che appare nel finale
del primo atto – cantata da una viola pomposa – e poi ritorna nel
secondo atto e chiude il terzo, commentando l’episodio del bacio. Forse
la storia lancinante dei “due cognati” avrebbe richiesto un maggior
corredo di melodie amorose. Tuttavia nell’opera v’ha una pagina animata
da un lirismo sottile e seducente al massimo grado: la canzone della
primavera, intessuta su di un motivo che per lo spunto iniziale fa
pensare a un famoso brano della Fanciulla del West, ma che poi si svolge
in modo originale, tra una successione di effetti fonici e vocali
veramente squisiti.
Ma, a parte ogni giudizio sul valore intrinseco dell’opera d’arte, una
cosa è certa: che il pubblico nella sua massa, senza anatomizzare, ha
provato istanti di godimento.
La critica
Il critico del «Momento» scrive: «Peccato che la tragedia per la stessa
sua natura non commuova realmente riuscendo a malapena a mascherare
l’artificiosità vuota della situazione, portata all’iperbole dalla
ferocia più sanguinaria, e che ciò si rifletta anche sulla musica». Ma
occorre tenere calcolo del colore del giornale e della opportunità di
non esaltare l’opera dannunziana. Circa la musica lo stesso critico
scrive: «L’arte di questo giovane autore fecondo, che in pochi anni ha
dato alla scena un «Grillo del focolare», una «Conchita» e una «Melenis»,
malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica donde invece aveva
preso le mosse, con allargare le vedute del canto verso più spaziosi
orizzonti è essenzialmente, anche in «Francesca da Rimini», quella dell’
impressionista; e dell’impressionista italiano(*). «Francesca da Rimini»
rimane un documento prezioso, considerato da una visuale d’arte
superiore; prezioso non solo per qualità di tecnica, ma anche per
elevatezza di contenuto, per lo sdegno di tutte quelle formule
melodrammatiche consacrate dall’uso che a volte costituiscono il tramite
sicuro del successo. L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se
ne rese conto, ammirato anche quando non ne fu convinto, alla figura
d’arte cui si trovava di fronte».
Il critico della «Gazzetta del popolo» dice che «si rimane abbagliati,
che si ammira anche molto la musica; ma che la ammirazione è più
cerebrale che cordiale. Senza dubbio si ammira, ma si ripensa e forse
anche si rimpiange quell’ampio respiro melodico che per tanto tempo fu
la delizia del pubblico e del nostro teatro d’opera. Si avverte pure un
onesto
e
lodevole
desiderio,
una
intenzione
molto
chiara
di
italianizzare i procedimenti adottati nella costruzione della musica, ma
in fondo al cuore resta sempre come una sete, un desiderio di melodie
più larghe, più profonde e sviluppate. A nessuno può sfuggire la abilità
di questo tentativo; ma all’abilità si vedrebbe volentieri accoppiato
l’impeto e il valore di una ispirazione spontanea e più travolgente. Si
rimane un poco freddi: insomma senza esaltazione, come avviene quando si
contempla un gioiello sfaccettato e cesellato da un orafo perfetto».
Quindi il critico soggiunge: «Ottimo successo; e quello che è più,
successo serio di Riccardo Zandonai, che con questa nuova fatica d’arte
prende un bel posto tra i nostri compositori».
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La «Stampa» dopo aver accennato alla tempra dello Zandonai, tempra di
musicista complesso e delicato, ai suoi lavori ricchi di orchestrazione,
originali nella armonizzazione irrequieta ed esuberanti di ritmi, con
una preponderanza assoluta del linguaggio orchestrale sui mezzi di
espressione concessi dalla voce, si chiede se lo Zandonai abbia seguito
Debussy, o Strauss, o Wagner, e conclude: «Parmi che il maestro trentino
cerchi piuttosto una strada propria, ciò che vale molto meglio; e la ha
in gran parte trovata. Egli ha composto una nobile opera d’arte; egli ha
evitato molti accenni alla volgarità; dove il libretto glielo consentì
egli trovò accenti veramente drammatici ed espressivi. Fu colorito, a
volte vigoroso, e a volte semplicemente audace. Seppe essere denso e
chiaro ad un tempo. L’opera sua non avrà una grande unità organica,
apparirà frammentaria e talora fredda o almeno priva di quei momenti
vibranti che trascinano il pubblico all’entusiasmo, ma, così come è, la
«Francesca» correrà egualmente con fortuna le scene per il maggior nome
della giovane scuola italiana. E questo mi pare che basti».
In complesso l’opera dello Zandonai ha avuto un nobile successo del
quale il giovane compositore si può molto rallegrare.
---------(*)
In realtà la citazione, ancorché parafrasata, sembra appartenere al «Corriere d'Italia» del 20.2.1914 - cfr. sopra, n. 19.
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La “Francesca da Rimini” di Zandonai al Regio di Torino - La lieta
accoglienza del pubblico, «La Vita», 21.2.1914
Torino, 20.
Magnifica ieri sera la sala del Regio per la prima della Francesca da
Rimini, l’opera di R. Zandonai su parole di Gabriele D’Annunzio. Il
libretto come è noto è stato tratto dal Ricordi dalla tragedia
dannunziana.
Il Libretto
La tragedia del D’Annunzio è stata ridotta da cinque atti a quattro ma i
quadri sono stati conservati quali erano: la corte nella casa dei
Polentani al primo atto, la piazza d’una torre dei Malatesta al momento
della battaglia nel secondo, la camera di Francesca al terzo. Il
quart’atto invece riunisce il quarto ed il quinto della tragedia, ma ne
conserva i due quadri, che son divisi in due parti: la sala ottagona
nella casa dei Malatesta e di nuovo la camera di Francesca. Tutta la
tragedia magnifica così è percorsa ugualmente da ondate di calda poesia.
La necessità di sfrondare ha portato anche alla soppressione di qualche
personaggio: così è stato tolto Bannino, il fratello di Francesca e di
Ostasio, che non aveva più nulla da fare dopo la soppressione della
violenta scena con Ostasio, e le cinque donne di Francesca son diventate
quattro – è scomparsa Alda, e Adonella è nominata Donella – e non più
appare il mercatante al terzo atto e sono anche levati nella loro
espressione singola i partigiani di Guido Minore da Polenta e di
Malatestino da Verucchio. Ma restano, oltre alle figure essenziali, la
piccola Samaritana, la dolce sorella di Francesca, e Smaraggi [Smaragdi],
la schiava, e il notaro ser Toldo Berardengo, e il giullare, e alcuni
uomini d’arme.
Il critico musicale della Stampa trova stamane però che la tragedia così
ridotta e sfrondata abbia perduto assai della sua fierezza. Egli così
scrive:
«Nella riduzione, per quanto abile essa sia, per quanto asservita alle
esigenze della scena lirica da un uomo di buon gusto e pratico di teatro
come Tito Ricordi, la tragedia del D’Annunzio, costretta nei limiti
consueti di un libretto d’opera, perde – a traverso i tagli inevitabili
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– molto della sua selvaggia ed impetuosa fierezza; molto del suo
carattere rievocativo di tempi aspri per aspre e per continue contese.
Confermo però che non so chi avrebbe potuto con altrettanta abilità e
con altrettanto amore sfrondare la tragedia del D’Annunzio di quanto
poteva costituire un ingombro al rapido sviluppo dell’azione sulla scena
o che avrebbe creato difficoltà gravissime per il musicista, soltanto
con danno dell’opera sua».
Gli episodi
Al prim’atto l’entrata di Francesca è annunziata da un coro leggiadrissimo delle sue giovani donne. Ella appare sulla loggia insieme a
Samaritana «piccola colomba», la sorellina dolce che implora Francesca
di non andare sposa. Ricordate?
O sorella, sorella,
odimi: resta ancòra con me! Resta
con me, dove nascemmo!
Non te n’andare! Non m’abbandonare!
Ch’io faccia ancòra
il mio piccolo letto accanto al tuo!
L’entrata di Paolo – Paolo è il terrore [!], naturalmente – al finale del
primo atto è appoggiata al suono di tre strumenti antichi: una viola
pomposa a cinque corde con sotto altre corde metalliche di risonanza, un
piffero e un liuto. Paolo non dice parola. Francesca «rimane immobile ed
egli si ferma fra gli arbusti, e stanno l’una di contro all’altro,
divisi dal cancello, guardandosi senza parola e senza gesto». Poi ella
si separa dalla sorella, coglie una grande rosa vermiglia e di sopra
alla chiusura la offre a Paolo. E il coro delle donne canta:
Per la terra di maggio
l’arcadore in gualdana
va caendo vivanda.
A convito selvaggio
in contrada lontana
uno cor si domanda...
Al terz’atto, che si svolge nella camera di Francesca, col ritorno di
Paolo da Firenze, il maestro si era fermato dinanzi a una difficoltà: il
racconto che il Malatesta fa delle sue giornate fiorentine e dell’
incontro di Dante:
E un giovinetto
degli Alighieri nominato Dante...
appariva difficile e lo sbigottiva invece di inspirarlo. Se ne parlò a
D’Annunzio, e D’Annunzio sostituì il racconto con questi versi nuovi.
Solamente i primi quattro che legano sono dell’edizione primitiva:
Perché volete voi
ch’io rinnovi nel cuore la miseria
di mia vita? Mi fu a noia e spiacque
tutto ch’altrui piaceva.
Nemica ebbi la luce,
amica ebbi la notte,
ove su dal silenzio di me stesso
nata e dal fondo dell’eterna doglia,
simile alla sorgente che disseta
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e simile alla fiamma che riarde,
freschezza e incendio, lenimento e piaga,
or torbida ruggente come fiaccola,
or mite come lampada,
una visitatrice
si chinava su me, quasi a nudrirmi
dell’assidua mia veglia;
quando si partiva
al tremor delle stelle,
non più foco né fonte
era, ma il vostro viso...
FRANCESCA
Ah, Paolo, Paolo!
PAOLO
...il vostro viso
mostrava ella nudato al mio dolore
FRANCESCA
Paolo se perdonato
vi fu, perché vi rilampeggia ancòra
sotto i cigli la colpa?
Ahi, che già sento all’arido
fiato sfiorir la primavera nostra!
La lettura del libro di Lancillotto del Lago, alternata da Paolo e da
Francesca, è declamato sovra un sommesso accompagnamento dell’orchestra
che ha appena l’aria di sfiorare le parole. E prima, nello stesso atto,
la canzone a ballo soavissima:
Nova in calen di marzo
o rondine, che vieni
dai reami sereni d’oltremare...
è intonata prima a duetto da Biancofiore e da Garsenda, poi danzata
dalle quattro donne, poi ripresa da Altichiara e da Donella, e in fine
cantata dalle quattro voci insieme. Il precipitar della tragedia – lo
irrompere di Gianciotto nella camera di Francesca e l’uccisione dei due
amanti – è qui rapidissimo(*). Sono state tolte le parole di Paolo alla
donna impietrita dal terrore mentr’ella obbedisce al marito furente e va
ad aprire vacillando, e tolte sono le parole che lo Sciancato avventava
contro il fratello impigliato nella fuga a un ferro della botola.
Gianciotto urla di fuori, squassando l’uscio:
Apri, Francesca, pel tuo capo! Apri!
E quando, l’uscio aperto, lo Sciancato si precipita innanzi furibondo
cercando con gli occhi il fratello, e lo scorge ritenuto per la
sopravveste alla cateratta, e gli si fa sopra e lo afferra per i capelli
forzandolo a risalire, la donna si getta tra mezzo ai due:
Lascialo! Me, me prendi! Eccomi!
E come il ferro le trapassa il petto la morente sospira:
Ah, Paolo!
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E sono le ultime parole della tragedia.
La musica - Il successo
Ecco intanto le impressioni dopo la prima dell’opera. La musica è stata
giudicata fine, elegante, melodica. Si tratta di un’opera veramente
italiana in tutte le sue parti.
Il successo si è delineato fin dal primo atto sicuro.
L’autore è stato chiamato cinque volte al proscenio fra grandi ovazioni.
Nel secondo atto hanno riscossa subito la più viva ammirazione le
splendide scene che rappresentano l’assalto alle mura dei Malatesta. Al
cadere del velario tre chiamate calorose agli interpreti, all’autore e
al maestro Panizza che ha diretto l’orchestra magistralmente.
Alla fine dell’atto terzo il teatro ha acclamato con entusiasmo e si
sono avute cinque chiamate, e Zandonai ed il maestro Panizza si sono
presentati tre volte alla ribalta.
Il quarto atto, diviso in due parti, è stato ascoltato dal pubblico
favorevolmente. Tre chiamate al breve intermezzo ed altre tre alla fine
della rappresentazione. Il pubblico è uscito lentamente, dopo aver
decretato una piena vittoria.
La difficile prova è stata vinta, perché si giudicava molto arduo il
compito di mettere in musica la tragedia di D’Annunzio.
L’esecuzione vocale ed orchestrale è stata ottima. Specialmente si
distinsero la signorina Canetti [sic] (Francesca), il baritono Cigada
(Lanciotto [Gianciotto]), il tenore Crini [Crimi] (Paolo).
Assistevano la Principessa Laetitia e la Duchessa di Genova.
---------(*)
È evidente che qui l'articolista confonde le situazioni sceniche del terzo atto con quelle del quarto.
23
Nicola D’Atri, Il gran successo della “Francesca da Rimini” di
d’Annunzio e Zandonai al Teatro Regio di Torino, «Il Giornale d’Italia»,
21.2.1914
Torino, 20 febbraio.
La Francesca da Rimini è finita or ora al “Regio” tra le acclamazioni
prolungate.
È stato un successo crescente. Dichiaratosi al finale del primo atto,
quando, all’arrivo di Paolo, Francesca gli offre la rosa, ha toccato la
nota alta dell’entusiasmo alla fine del terzo atto per la bellezza della
musica inspirata e spirante tutta poesia nella scena d’amore e alla
lettura del libro.
E il plauso entusiastico si è mantenuto durante il quarto atto, potente
nel primo quadro per drammaticità della grande scena in cui Malatestino
annunzia a Gianciotto il tradimento di Francesca, e profondamente
patetico nel secondo ed ultimo quadro fino alla catastrofe tragica.
Quattro chiamate al primo atto, due al secondo, che è l’atto della
battaglia, sei dopo il terzo, otto o nove durante e dopo l’ultimo atto.
L’aritmetica
ormai
banale
delle
chiamate
questa
volta
diventa
significativa. L’opera si dava in ambiente difficile e per sé stessa
sollevava diffidenze; l’autore era un giovane stimato già in Italia
dagl’intelligenti, ma senza il prestigio della popolarità e del gran
nome. Gl’intelligenti medesimi non osavano riconoscergli altro che
talento e sapere; solo pochissimi, e di questi mi onorai far parte senza
ambagi, non indugiarono a concedergli anche le doti superiori della
genialità creatrice, che pure s’intravedevano nelle sue opere precedenti.
Ma Riccardo Zandonai, con la sua giovinezza audace nell’affrontare
l’altissimo soggetto, ha vinto d’impeto la sua battaglia decisiva con la
Francesca, conquistando il gran pubblico che non gli ha resistito; ha
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vinto la grande battaglia da cui esce ormai col suo destino di operista
italiano potente ed inspirato. L’aritmetica quindi delle chiamate che
dinota un successo pieno, incontrastato, discusso, ha questa volta
un’importanza singolare che trascende la pura cronaca dell’avvenimento.
Ma, appresa la cronaca, sorgerà nella mente curiosa dei lettori lontani
il desiderio di molte domande cui non mi è dato rispondere in questa
prima ora dopo lo spettacolo, cui ho assistito per informarvi e a cui
fui attratto anche e sopratutto dalla fede che avevo nell’autore della
nuova musica e nel soggetto da lui prescelto.
Saranno probabilmente, quelle del lettore lontano, domande non scevre di
dubbi su quest’altra Francesca da Rimini, ultima di una serie da anni
molti ininterrotta di opere musicali inspirate dall’immortale episodio
dantesco, che tutte le ha soverchiate con la propria grandezza poetica e
subito poi le ha cancellate quasi sul nascere dal novero delle cose vive.
Vivrà all’arte, vivrà lungamente alla scena quest’ultima Francesca? A
domande così esplicite, eppure tanto comuni dopo le prime rappresentazioni teatrali, nessuno che abbia senno ed esperienza vorrà esplicitamente rispondere. Basterebbe per oggi sapere, e sarebbe già molto, che
in questa Francesca ferve di vita un artista. Ma se e quali elementi di
schietta poesia, se e quali elementi di teatralità viva e sana, se e
quanta genialità musicale contenga il nuovo dramma lirico per la propria
esistenza all’arte e per la propria fortuna alla scena, si potrà dire,
sia pure di sfuggita, nel corso veloce di questo resoconto.
Quel che intanto preme affermare, per sciogliere i dubbi, è che questa
Francesca da Rimini, apparsa iersera alla scena lirica, ultima di una
serie dimenticata, è tale opera che sorprende e impressiona, penetra
fascinosamente nell’animo, persuade l’intelletto e asseconda il gusto
dello spettatore moderno. Potrà poi essere tranquillamente e variamente
giudicata nel suo insieme e notomizzata nella parti, ma frattanto si
offre al teatro con alte suggestioni, e un fascino nuovo di bellezze
rare vi spiega la musica, inspirata dal poema tragico in cui Gabriele
D’Annunzio rivisse e riespresse in nuove forme l’episodio dantesco. È
opera insomma che, indipendentemente dal successo di teatro e da ogni
altro criterio momentaneo, s’imporrà come un oggetto degno alla critica
d’arte, e fin da oggi innalza il giovane musicista, Riccardo Zandonai,
ch’ebbe l’audacia di un gran cimento, nella sfera di quei tali artisti
che, come suol dirsi, hanno le scintille.
Per darvi un’idea del nuovo dramma lirico v’invito a ripensare la
tragedia dannunziana, ch’egli stesso, il Poeta, denominò poema di sogni
e di delitti. Non diversa è stata la visione del musicista.
Ridotta per la scena lirica, la tragedia perde episodi e versi preziosi
ma acquista in rapidità ed efficacia drammatica, e conserva inalterato
l’ambiente duecentesco, inalterata la soavità d’amore che la pervade,
inalterata la ferocia delle armi. E l’ambiente, l’amore, la ferocia
ritrovano una figurazione sonora per virtù geniale del musicista.
Nel primo atto si susseguono con una grazia arcaica le scene musicali
delle ancelle col giullare, di Ostasio con Ser Toldo, un duettino,
questo, caratteristico per la sua andatura che richiama il vecchio
recitativo italiano, e quella della entrata di Francesca al braccio
della Samaritana mentre il corettino interno delle donne modula
un’ingenua cantilena accompagnata dall’orchestra, che si fonde con
un’orchestrina interna composta di un liuto, una viola pomposa, un
clarinetto, un piffero e un flauto. E non soltanto il suono di questa
orchestrina all’antica, ma l’insieme della melodia e delle armonie dànno
un senso di lontananza nel tempo, il senso di cose che furono e tra le
quali si maturarono sogni e delitti. E quasi trasognata incede Francesca,
appoggiata alla cara sorella e carezzata dalle tenui armonie vaganti per
l’aria. Alcuni accordi tristissimi dell’orchestra, che ricorreranno in
65
tutta la partizione con significato tragico, vengono a impostare
musicalmente il dramma, tosto che il pensiero di Francesca si volge allo
sposo annunziato ed atteso. Quindi, al lamento della Samaritana che
trepida per la dipartita di lei e la scongiura di non abbandonarla, la
«piccola colomba». Ma sull’improvviso suono rapido e festoso dell’
orchestra le ancelle invocano Francesca perché corra a vedere lo sposo,
Paolo, che passa. Qui l’animo di lei entra in tumulto, e l’orchestra
ferve in un modo che lo esprime e che ingrossa e che incalza finché
raccoglie l’agitato canto di Francesca.
La commozione a questo punto si propaga nell’uditorio. Risuona festosa l’
orchestra e, prorompente ora nella gioia, Francesca accorre, la
Samaritana singhiozza; le ancelle conclamano la venustà dello sposo;
Paolo si appressa al cancello della corte dei Polentani, si fa silenzio,
trepido silenzio: mormora leggerissima tutta l’orchestra intorno ad una
melodia, la melodia d’amore, intonata dalla viola pomposa cui presto si
uniscono gli altri strumenti dell’orchestrina all’antica, sulla scena;
tutti guardano verso il giardino, e un coretto di donne intercala la sua
mite cantilena. È il finale dell’atto che finisce come in un sospiro di
suoni, come in un sogno. La visione dannunziana è raggiunta ed è come
avvolta in un velo di armonie fascinose da cui emerge semplice, pura,
gentile, italianissima, l’onda melodica. Si chiude il velario.
Scrosciano irresistibili gli applausi. Seguono le chiamate.
Analizzare ora ciascun pezzo musicalmente? Dirne il pregio, i difetti,
la struttura o la linea? A che vale, se il loro nesso, creato dalla
fantasia del musicista, produce in sintesi la sensazione del quadro
dannunziano nel primo atto del suo poema? Lirico paesista è stato
chiamato D’Annunzio; e un paesaggio musicale arcaico in cui ferve l’
animo lirico di un musicista moderno ha dipinto con i suoni Riccardo
Zandonai nel primo atto della sua opera.
Così nel secondo egli ha visto la battaglia ardente e tumultuosa, in cui
violenta si scatena a tratti nel fragore, e tra il pericolo incombente
di morte, la passione dei due cognati. Brevi episodi lirici, frasi
cantabili di Paolo e Francesca, poi di Gianciotto traversano i clamori
della battaglia. L’atto, di carattere sinfonico, è costruito superbamente come una immensa chiazza di colore crudo, in forte contrasto con
l’atto precedente. Forse è oscuro nella sua costruzione a chi lo ascolta
per la prima volta, e ferisce con le aspre sonorità dell’orchestra e
delle
voci,
realisticamente
trattate.
Forse
la
parte
lirica
è
soverchiata. Ma nel quadro sinfonico irrompe, maschia e scultoria pur
musicalmente come nella tragedia, la figura di Gianciotto, e si
determina nel suo ritmo caratteristico, strano ed indimenticabile poi
nella partitura, il perverso tipo di Malatestino. Altro paesaggio
musicale a grandi macchie impressioniste e con le sue figure in iscorcio
questo secondo atto, che poi si chiude con la ripresa sinfonica della
battaglia in cui trionfa con gli ottoni il tema del giuramento d’amore
tra Paolo e Francesca.
Il terzo atto, l’atto della scena d’amore e del bacio presso il libro
galeotto, meriterebbe davvero anche una esegesi musicale riposata e
tranquilla. Altri la darà o noi stessi in diverso momento, ma ora qui,
sotto l’impressione provata, noi cerchiamo di intuire, nella visione
generale del quadro, le intenzioni d’arte del musicista. Poiché la
critica non è, come i più credono, quell’osservare e rilevar pregi
oppure rimproverar difetti, e nemmeno è la semplice analisi musicale di
pezzi e brani e melodie e ritmi e accordi; critica è lo interpretare,
intendere e fare intendere l’artista se questi ci ha sinceramente
penetrati e commossi, la critica è nella sua prima fase una sintesi, una
ricostruzione emotiva.
66
Onde è che il terzo quadro musicale della Francesca da Rimini ci è
apparso come un trionfo della poesia della primavera così come fu visto
nel fondo dal paesaggio lirico dannunziano. Paesisticamente lo Zandonai
ha tratteggiato e sfumato tutto il suo quadro con i brani e i frammenti
della fresca canzone della primavera intonata dalle quattro ancelle
nella camera di Francesca che attende il suo amato. E quando nel quadro
si delineano le figure dei due amanti che sciolgono dal cuore e dal
labbro le melodie più tenere e appassionate, i frammenti della canzone
primaverile si insinuano come lieta risonanza arcana dei loro animi,
finché
all’ultimo
accompagnano
il
bacio
d’amore
coi
loro
echi
indefinibili, generati sommessamente dall’orchestra e dalle voci interne
in lontananza, le quali cadenzano soavemente mentre il bacio si prolunga
e dura: primavera! Primavera! – Cala la tela e il pubblico rapito scatta
di entusiasmo.
Così il temperamento musicale coloristico dello Zandonai già rilevato
nella Conchita qui trova esplicazione altamente poetica e si completa
con l’affermazione di un altro temperamento che è in lui, quello del
melodista che lirizza e canta. Tutta la Francesca, salvo alcune scene
come quella della battaglia, è materiata di musica melodica e cantabile;
le voci secondo la grande tradizione italiana regolano la condotta
musicale del dramma, non l’orchestra; l’orchestra dipinge, descrive con
frammenti a lei apprestati dalle melodie vocali.
Rievocando ora rapidamente il quarto atto nel quale il dramma domina in
tutto sull’ambiente e il quadro è preso dal disegno delle figure, si ha
nella prima parte, dopo le prime due scene forse troppo sviluppate
relativamente
all’azione
melodrammatica,
quella
tra
Gianciotto
e
Malatestino, potente nella tragedia e resa potentissima dalla musica. Il
dialogo declamato fra i due e intercalato di un ritmo crescente
dell’orchestra è di una efficacia teatrale immancabile, onde il successo
ottenuto da tale scena. La seconda parte dell’atto contiene una delle
pagine musicali più inspirate di tutta l’opera, quella tra Francesca e
le sue ancelle e poi con Biancofiore: pagina, questa, piena di profonda
melanconia, che sembra preludere come un presagio alla tragica morte di
Francesca e Paolo. La scena ultima tra i due amanti non ha pregio
musicale in senso assoluto, ma è piena di passione e di foga nel canto;
qui le voci dei due amanti insieme ripetono in uno slancio comune la
melodia della rosa, quella con cui sulla fine del primo atto si aprirono
i loro animi all’amore.
Così termina felicemente l’opera inspirata dal nobile poema di Gabriele
D’Annunzio al più forte tra i giovani operisti italiani. Opera in cui
questo ha esaltato il suo estro sinfonico nel contemplare le visioni del
Poeta, ed al sonito del fulgido verso dannunziano ha potuto formare una
sua melodia cantabile italianamente bella ed eletta spontanea infiammata.
La vittoria di un giovane musicista che già si sapeva fortemente
temprato nella sua arte e che oggi nel contatto spirituale con un alto
soggetto poetico guadagna la palma dell’operista ho voluto io qui
esaltare ai lettori.
Non ho inteso celebrare nella Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai
un capolavoro musicale: né mi farà velo il suo successo odierno nel
giudicarne quando che sia il valore intrinseco di opera d’arte e
rilevarne pacatamente o le rare bellezze o i mancamenti.
Oggi noto soltanto che da consimile materia poetica e da siffatte tempre
di artisti quali si mostrano nella nuova opera sorgono i capolavori; e
constato né più né meno che da oggi esiste per la scena lirica un
melodramma nobilmente inspirato nel quale l’arte ha detto una sua parola.
E constato pure che per il pubblico teatrale esiste un’altra opera
italiana bella e commovente.
67
L’esecuzione
Della esecuzione dell’opera al “Regio” non si può affermare che sia
stata veramente perfetta: fu commendevole per alcune parti, manchevole
per alcune altre. La protagonista medesima, signorina Canneti [sic], una
squisitissima cantante, se fu ammirevole per bellezza di canto, non fu
abbastanza
efficace
nell’azione
scenica
e
nemmeno
in
qualche
accentuazione drammatica del suo canto. Ma a lei va tenuto gran conto
che dovette assumere la parte all’ultim’ora e studiarla in pochissimi
giorni, onde si può dire ch’ella abbia compiuto un vero miracolo e abbia
nello stesso tempo assicurata l’andata in iscena dell’opera. Nella parte
di “Paolo” si è magnificamente affermato il giovane tenore Crimi, che si
fece applaudire anche a scena aperta. Egli è un cantante dalla voce
bella, calda, simpatica, estesa ed ha contribuito non poco al successo
dello spettacolo.
Il baritono Cigada, un artista ben noto, è stato un “Gianciotto”
efficacissimo per robustezza di voce e vigoria di accento e per l’azione
scenica sempre felice. Così pure un efficacissimo “Malatestino”, parte
difficile, è stato il tenore Paltrinieri. Fra le parti minori si
distinse il basso Malatesta, il giullare.
Il maestro Ettore Panizza, un direttore stimatissimo, ha posto tutta la
sua coscienza di artista nella concertazione dell’opera difficilissima:
che risulta anche di tante finezze strumentali ed armoniche le quali
costituiscono un lato originalissimo della nuova musica di Zandonai.
Quindi il maestro Panizza fu con gli artisti e con l’autore chiamato più
volte al proscenio, e fu anche evocato il valentissimo maestro Veneziani
istruttore dei cori.
Generalmente ammirata è stata poi la messa in iscena. Bellissime alcune
scene del Rovescalli e i costumi di Caramba.
La sala(*)
La sala presentava un bellissimo aspetto benché ieri sera fervesse a
Torino in ogni ritrovo il giovedì grasso.
La principessa Letizia e la duchessa di Genova assistettero a tutto lo
spettacolo dai palchi di Corte. Tra gli intervenuti si notavano molte
notabilità artistiche torinesi. Coi treni di Milano eran giunti Umberto
Giordano e i maestri Seppilli, Alfano, Donaudy, Barone e vari altri.
Vi erano gli editori Riccardo Sanzogno [Sonzogno] e Tito Ricordi, quest’
ultimo complimentato per la riduzione della «Francesca da Rimini» di
D’Annunzio, da lui fatta per la musica di Zandonai e riuscita
teatralmente efficace.
I giudizi dei giornali
Torino, 20 febbraio.
Nella Stampa di stamane Ferrettini constata il grande successo ed
esaminata l’opera così conclude:
«Dovrei ora riassumere e rispondere se l’opera è bella, se lo Zandonai
segue Debussy o Strauss o Wagner e via via. Ma parmi che il maestro
trentino cerchi piuttosto una strada propria e ciò che vale molto meglio
che l’abbia in gran parte trovata. Egli ha composto una nobile opera
d’arte; egli ha evitato molti accenni alla volgarità. Dove il libretto
glielo consente, egli trova accenti veramente drammatici ed espressivi.
È un colorista a volte vigoroso, a volte semplicemente audace. Francesca
da Rimini correrà con fortuna le scene per il maggior nome della giovane
scuola italiana, e questo mi pare che basti».
A. Borta nella Gazzetta del Popolo parla in particolar modo del terzo
atto della Francesca e dice:
«La virtù di alta poesia non è in un sol momento o in un episodio
dell’atto, ma in tutto l’atto che – a parte qualche lieve prolissità –
68
si potrebbe classificare tra le cose più indovinate che l’arte possa
produrre. Questa è musica vera, grande musica che mi costringe a battere
le mani mosso da un impeto misterioso che mi sale su dal cuore
palpitante».
Filippo Brusa nel Momento dice:
«L’arte di questo giovane autore fecondo, che in pochi anni ha dato alle
scene
un
Grillo
del
focolare,
una
Conchita,
una
Melenis,
è
essenzialmente anche in Francesca quell’impressionista.
«Dell’impressionista italiano – diremo così – vale a dire ove non è
rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e
ritmici che in altri come in Strauss, Debussy e Dukas passano a volte in
seconda linea e che nondimeno nello Zandonai sono elevati a fattori,
giovano con la loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio
evanescente dell’ente fonico. Francesca da Rimini rimane un documento
prezioso non soltanto per qualità di tecniche, ma anche per dignità,
anzi elevatezza di concetto, per lo sdegno di tutte quelle formule
melodrammatiche che a volte costituiscono il tramite sicuro del
successo».
Milano, 20 febbraio.
Clerici nel Corriere della Sera scrive:
«Con quest’opera lo Zandonai conferma la sua fama di musicista dotato di
qualità veramente eccezionali. Nella tecnica della strumentazione e
della armonizzazione egli si classifica addirittura tra i migliori non
solo per la solidità della scienza ma anche e meglio per la felicità e
la ricchezza delle disposizioni native. Egli si classifica fra i
migliori anche come sinfonista; possiede ormai alla perfezione l’arte di
far commentare dall’orchestra una data situazione e sa anche plasmare
l’idea musicale sul testo poetico in modo che la rispondenza giunga fino
ai minimi particolari, così quando si tratta di semplici evocazioni
pittoresche come quando si tratta di riprodurre i più sottili movimenti
dell’animo».
Cesari nel Secolo dice:
«Nel volgere di pochi anni Riccardo Zandonai è pervenuto alla sua quarta
opera. Dopo Il grillo del focolare, dopo Conchita e Melenis eccoci ora
innanzi a questa Francesca, concepita e tracciata con rapidità, senza
giovanili esitanze, con baldanza schietta e vigorosa. Zandonai anche
questa volta ha agito con la sicurezza di chi sapendosi ben reggere in
arcione non conosce i rischi della corsa. Alle negazioni a cui talvolta
conduce l’autocritica egli preferisce le affermazioni concrete e lascia
al pubblico e al tempo la cura della selezione. Il suo modo di
comportarsi dipende dalla qualità stessa della sua natura di musicista,
poiché alla disposizione musicale veramente forte non può riuscire mai
faticoso il lavoro. E Zandonai non lesina sul quantitativo della sua
produzione».
---------(*)
Questa parte è un'appendice redazionale.
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echi a Roma 1914
24
Livio Marchetti, La «Francesca» di Riccardo Zandonai
maestro. Una primizia ai romani, [non id.], [27].2.1914
eseguita
dal
Roma, 26 febbraio
Il grandioso successo che la Francesca da Rimini ha ottenuto al Teatro
Regio di Torino – mentre è oggetto di fervido compiacimento per coloro
che, come chi vi scrive, nutrono da tempo una fede profonda e sincera
nella crescente gloriosa affermazione del Maestro trentino e non hanno
69
pensato di fare dell’adulazione regionale ma di esprimere un loro
convinto giudizio quando altri maggiori giornali facevano sul conto di
Zandonai alcune non simpatiche riserve – richiama alla mia mente uno
splendido pomeriggio primaverile romano che mi fu prodigo della
compagnia e della generosità artistica dell’ormai celebre musicista di
Sacco.
Avevamo consumato deliziosamente il nostro pasto meridiano sulla
terrazza del Castello dei Cesari, invitati dal comune amico prof.
Giovanni Lorenzoni e col concorso del caro compagno e collega di studî
Augusto Sandonà. la magnifica distesa della città e della campagna di
Roma, presentata al gaudio degli spettatori dai primeggianti cipressi
dei ruderi Palatini, tutta quella grande maestà di ricordi e quella
lieta festa di speranze primaverili raccolta nel nostro occhio, tutti i
conversari che quel panorama tanto famigliare e pur sempre nuovo
suggeriva alla comune anima trentina (che è sempre soffusa di nostalgia
anche quando la lontananza si sopprime) avevano singolarmente preparato
i nostri spiriti a gradire e gustare la primizia che il Maestro ci aveva
preannunziata.
Era il 24 marzo: due giorni prima la Melenis aveva ottenuto al Costanzi
la brillante riconferma della fama del nostro artista; ma questi soleva
dire – e ci ripeteva allora – che se Melenis era una produzione
giovanile rammodernata, se Conchita aveva fatto erompere sulle scene non
ancora ben organato [sic] il suo sistema musicale e ne aveva rappresentato
il primo adattamento al dramma lirico, Francesca da Rimini doveva
raffigurare la pienezza di espressione di questo sistema, la maturità
vera dell’arte sua di maestro.
Il libretto, tagliato da Ricordi sulla tragedia di Gabriele d’Annunzio,
esigeva dal suo lavoro un impegno superlativo, ed egli ne era pienamente
consapevole, ed il suo ingegno si applicava al soggetto di Francesca con
una intensità di preoccupazione così alta, con uno studio così
coscienzioso e appassionato, che a prescindere dallo stesso temperamento
suo genialissimo e dai fortunati precedenti teatrali non si poteva
dubitare del grande trionfo che a questo nuovo poderoso sforzo era
preparato, e – all’udirlo parlare dei suoi propositi coll’equilibrata
visione che lo conforta e lo sorregge in ogni cosa che lo riguardi – si
finiva per sposare la sua fede in una più viva e più tenace affermazione.
La esecuzione al pianoforte dei primi due atti – allora già compiuti –
della Francesca da Rimini, esecuzione nella quale doveva prodursi lo
stesso Zandonai, era destinata a seguire il nostro lieto simposio, ed
infatti convenimmo nello studio Ricordi al Corso Umberto I in una
stretta compagnia di critici, di musicisti, di pubblicisti e di amici:
c’erano fra gli altri Nicola d’Atri, critico del Giornale d’Italia, la
signorina Tarquini, festeggiata interprete di Conchita, il Dr. Augusto
Sandonà, il collega Mario Mengoni di Rovereto e molti altri.
Il Maestro attaccò l’opera al pianoforte con quella piena passione che
egli mette in ogni manifestazione d’arte; e via via ch’egli continuava
era in noi un senso di meraviglia e di gioia più alto: era in noi la
rivelazione di una originalità veramente spiccata, di un metodo
altamente nuovo allontanatosi di produzione in produzione dalla comune
pratica di tutti i vecchi e nuovi autori musicali per raggiungere un
ritmo distintamente personale.
Ciò che più ci commosse – e che certo sarà stato l’intimo segreto del
successo di Torino – non fu tanto la tecnica arricchita di nuove
colorazioni, il tessuto sinfonico percorso da preziosi ricami, il
complesso armonico fissato in ogni punto con originali consonanze e
dissonanze, il prodigioso effetto orchestrale ottenuto al tempo stesso
con tanti ardimenti imprevisti ed impensati e con equilibrio così sicuro
e gagliardo, ma fu invece il ritmo e la modulazione del canto, in ogni
70
sua cadenza suggerito dalla impressione e dall’ambiente scenico del
momento. Se ciascuna locuzione ritrova nel ritmo e nella frase musicale
il vero, caldo, vivo sfogo dell’anima in tutti i suoi lieti o tristi,
fugaci o tenaci atteggiamenti o movimenti; in particolare le più
drammatiche sensazioni, le angosce vibranti, le sospensioni spasmodiche,
gli sfoghi ai quali la tragedia dantesca e dannunziana aprono largo
campo, toccano nella musica una felice indovinatissima rispondenza, sì
che la nota non appare che un rinforzo gagliardo alla cadenza della
parola, e la voce che nella sua sensibilità a tutte le emozioni può in
sé stessa raffigurare la prima gamma di ogni moto dell’anima, è da
questo metodo musicale dello Zandonai ancor più sensibilizzata ed
esaltata in tale suo delicato drammatico ufficio. E attorno al
conduttore caldo e suggestivo delle voci – che alitano nel dramma in una
espressione profondamente, potentemente umana – gli strumenti modellano
con eleganza e sapienza gli accordi più squisiti, aprendo uno sfondo
polifonico tale da dare al canto una evidenza, un risalto, un effetto
passionale anche più robusto.
Tale fu la nostra impressione, tale il nostro giudizio, e gli spettatori
come i critici di Torino – non solo gli antichi convinti fautori del
Maestro, ma anche i più rigidi suoi censori di un tempo – non hanno che
brillantemente e clamorosamente confermato ciò che in quell’aureo
pomeriggio romano diede la gioia alla nostra amicizia, e più ancora al
nostro sentimento d’arte e di bellezza.
25
Filippo Brusa, “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Tirso»
XI/9, 1.3.1914
Torino, 20 febbraio.
Il nuovissimo spartito del maestro trentino ha ottenuto al nostro
massimo teatro un esito lietissimo.
Non uguale per intensità ad ogni atto, ma tale nel suo complesso da
legittimare l’aspettativa di cui era circondato.
Il primo e sopratutto il terzo parvero interessare di più, mentre il
secondo, di genere descrittivo, e i due ultimi quadri lasciarono come
un’impressione di incertezza, malgrado il carattere eminentemente
drammatico del poema. E ciò del resto si spiega. Già sulla scena di
prosa la «Francesca» del D’Annunzio non aveva in quanto a teatralità
quel fascino da altre opere d’arte di pretese più modeste raggiunto.
A mala pena il poeta riesce quivi a mascherar nella cupa ferocia
l’artifiziosità del congegno e la mancanza di sincerità, che tradisce
spesso il poema e ne fa un’opera di letteratura e di poesia più che non
di teatro e di verità. Opera di poesia e quindi armonica, imbevuta di
melodia e di suoni tenui e diffusi, quasi intenti esclusivamente a
soggiogare ed a disporre per solo compiacimento proprio le idee, i
pensieri.
Ciò può spiegare e giustificare il connubio colla musica e come Riccardo
Zandonai, alla stessa maniera del D’Annunzio poeta e colorista, ne sia
rimasto soggiogato e abbia voluto scendere a scrutarne le fibre, e col
potere evocatore del suono esaltarne la psiche commossa e cantare colla
leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova; non
consapevole in tutto forse del pericolo e dell’insidia che gli si
riserbava.
L’arte di questo giovane autore fecondo che in pochi anni ha dato alla
scena un «Grillo del focolare», una «Conchita» e una «Melenis», malgrado
uno sforzo evidente per tornare alla lirica d’onde aveva preso le mosse
coll’allargare le volute del canto verso più spaziosi orizzonti, è
essenzialmente
anche
in
«Francesca»
quella
dell’impressionista.
71
Dell’impressionista italiano, diremo così, vale a dire ove non è
rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e
ritmici che in altri come in Strauss, Debussy o Dukas passano a volte in
seconda linea, e che nondimeno nello Zandonai elevati a fattore giovano
colla loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente
dell’elemento fonico.
Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna che si
manifesta in ogni arte, e nella pittura in ispecie, e nella musica muove
alla ricerca costante del colore nuovo e del nuovo suono – siano essi
semplici o più spesso composti – lo Zandonai seguì il sistema, in parte
per temperamento proprio, in parte per influsso altrui. E risultò
analitico più che sintetico: propenso al particolare anziché alla vasta
e vigorosa concezione.
La stessa sua sinfonia per quanto ligia ai principi tematici è talora un
fantasioso succedersi di elementi difformi che conservano colle origini
un nesso appena superficiale, ove i richiami già poco plastici ed
afferrabili raramente riescono riconoscibili nel mare fluttuante, nel
caleidoscopio dei più svariati colori in cui sono disciolti.
Ed è appunto nelle parti della tragedia ove il colore tenue e diffuso
prepondera che il musicista vi s’accorda coll’armonia latente.
Nel finale del primo atto, fra gli altri, ove il musicista, dedito
spesso all’episodio, con una pennellata riesce a raccogliere il quadro
in un’atmosfera morbida, soavissima e delicata nel lieve tremore di
archi, sotto cui si svolge a sospiri, tra oboe e viola pomposa, il tema
d’amore nascente.
Nella protasi ancora dell’atto terzo cotesta musica ha profumi e carezze
delicate. L’armonizzazione, nel quadro vigoroso della battaglia aspra e
dissonante, ritorna quieta e serena. Né in genere da una notevole
chiarezza essa si allontana pur non sdegnando i portati della tecnica
modernissima, aliena però da quella specie di sovrapposizione di accordi
che in altri autori genera a volte come un senso di pesantezza e di
oscurità.
Nel crescendo passionale, per contro, nell’impeto lirico ed ancora nei
momenti più tragici, sentiamo a volte venir meno allo Zandonai la
profondità del sentire e, nella ricerca del grande volo, anche la
personalità.
Tutta la seconda parte del dialogo dei due amanti risente di cotesta
lacuna. Nei pochi momenti in cui la melodia si afferma non sono
infrequenti le analogie di successioni armoniche, di cadenze e melopee
alla Mascagni ed alla Puccini, come in altri punti – nel declamato –
alla Wagner.
Anziché il calore intenso troviamo quivi accenni sentimentali. Non la
sensualità gagliarda di un Riccardo Strauss, il mistico e sognante
epperò traboccante amore di Riccardo Wagner o la passione profonda,
umana e sommamente sentita di Verdi e nemmeno la voluttuosa onda sottile,
avvolgente di Giulio Massenet...
Nelle scene drammatiche poi il nostro autore raramente perviene a
scolpire con un disegno ritmico e melodico il ritmo e la melodia latente
della frase del testo, a riprodurlo con quell’incisività che plasma, con
quel “pathos” che lumeggia in un istante uno stato psichico, una
coscienza; con quel “quid” misterioso che rivela gli altri a noi stessi
e noi stessi agli altri.
Francesca da Rimini rimane tuttavia un documento prezioso, considerato
da una visuale d’arte superiore: e prezioso non soltanto per qualità di
tecnica ma ancora per dignità ed elevatezza di contenuto: per lo sdegno
di tutte quelle formule melodrammatiche consacrate dall’uso e famigliari
al gran pubblico le quali a volte possono costituire il tramite sicuro
del successo.
72
L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se ne rese conto,
ammirato anche quando non ne fu convinto, della figura d’artista che
aveva di fronte.
26
Gino Monaldi, La “Francesca da Rimini”
antologia» XLIX/vol. 254, 16.3.1914
di
Riccardo
Zandonai,
«Nuova
Finalmente la cronaca musicale delle tante Francesche e Paolo giunte
sino ad oggi sulla scena lirica ha la soddisfazione di poter registrare
un successo. Un successo vero, reale, completo, consacrato dal consenso
di un pubblico notevole per quantità e qualità, accorso al teatro Regio
di Torino chiamatovi dalla fiducia migliore nel giovane e fecondo
maestro trentino. Il Zandonai aveva infatti diritto a questa fiducia da
lui guadagnata con Il grillo del focolare, Conchita e Melenis, tre
lavori ognuno dei quali ha segnato un passo innanzi nella carriera del
compositore.
Una osservazione notevole è questa: nei tre argomenti scelti dallo
Zandonai per esperimentare la forza e la misura della sua fantasia e
della sua dottrina, si rivela una spiccata disparità di caratteri
scenici e drammatici; eppure, malgrado ciò, lo stile e la personalità
dell’artista rimane ugualmente salda ed integra. L’unità e l’armonia
della lingua musicale da lui adoperata per tradurre ed esprimere le
passioni dominanti nei tre disparati argomenti non appare infatti in
verun modo alterata o depressa. Ciò prova che il giovine compositore
possiede in sommo grado la coscienza della sua personalità e a questa
non intende recare offesa. Lo Zandonai è e vuol rimanere un sincero – e
vincere, senza porre nessun velo a traverso lo specchio di questa sua
bella sincerità. Ciò egli ha sentito e fatto nelle sue tre opere
precedenti e ciò egli ha sentito e fatto altresì adesso nella Francesca.
E bisogna dire che la sua tempra sia davvero ben salda se egli ha potuto
conservare questa sincerità in una tragedia come la Francesca del
D’Annunzio, opera di poesia più che di verità, dove la commozione è
dovuta più che altro alla artificiosità delle situazioni, spinte talora
alla iperbole della più sanguinaria ferocia e sempre avvolte in quella
tristezza profonda che incombe sull’atmosfera del dramma. Eppure lo
Zandonai ha potuto e saputo qui, meglio ancora che altrove, conservare
alla sua musica i propri caratteri originarî. Soltanto che nella
Francesca egli ha sentito il bisogno di concedere alle persone della
tragedia una espansione maggiore, infondendo alle voci una facoltà
melodiosa più confacente alla violenza delle passioni che vivono e
turbinano entro le loro anime.
Naturalmente questa facoltà melodiosa è sempre subordinata alle esigenze
della
parola,
subordinata,
intendiamoci,
non
però
asservita.
L’asservimento esiste solo nei momenti in cui l’azione, come nell’atto
secondo, nella scena della battaglia, assume un carattere pittorico
collettivo e quindi necessariamente descrittivo. E allora il commento
sinfonico ha impeti selvaggi, terrori, sgomenti, schianti violenti,
grida esultanti di vittoria, gemiti dolorosi e clamori formidabili. È la
tragedia che dall’orchestra sale e invade il palcoscenico, e i
personaggi, presi e travolti da quell’onda istrumentale sempre più
grossa e incalzante, ci sembra che sfuggano per un momento alla nostra
attenzione distratta e attratta dalla grandiosità complessa del quadro
scenico-musicale.
Per renderci conto di questo fatto, che a taluni è sembrato motivo o
argomento di censura, occorre ricordare che in questo secondo atto, alla
serenità melanconica dell’atto primo succede il furore d’una battaglia.
Siamo sullo spalto d’una torre nel maniero dei Malatesta: macchine
73
infernali, saettare di balestrieri, pioggie di fuoco greco si rovesciano
contro l’avanzante nemico. Trombe, campane, strepito di ferro e di armi
risuonano nell’aria in mezzo al guizzo di quadrelli e di falariche.
Lamenti angosciosi di feriti, urla forsennate di ebbrezza vittoriosa si
confondono nell’orrore della mischia accanita. È quindi logico e
naturale che voci ed orchestra abbiano contrasti ed urti continui,
dissonanze aspre e concitate. Sono vicende guerresche che bisogna
musicalmente dipingere e la pittura di necessità non può risultare all’
orecchio diversa da quello che l’occhio vede innanzi a sé. Due episodi
scenici però giungono in tempo a dare un po’ di tregua all’imperversare
tumultuoso delle voci e degli istrumenti. Il primo è quello in cui Paolo
e Francesca si trovano vicini l’uno all’altro e l’amore scambievole, che
mal si celava sotto un’apparente ostilità, li accende entrambi d’
improvviso. Francesca vuole però che Paolo si purifichi prima del
peccato da lui commesso per averla sposata con inganno e invoca il
giudizio di Dio: Paolo si toglierà l’elmetto e lo scudo e privo di
quelle due difese combatterà all’aperto, dall’alto degli spalti. Paolo
acconsente e quando, libero ed illeso, si ritira dalla pugna, Francesca,
che pavida e trepidante lo crede ferito e gli cerca invano tra i capelli
la piaga, giustificata nella sua idea superstiziosa, può finalmente
abbandonarsi alla segreta gioia del suo amore. Nel musicare questo
episodio lo Zandonai si serve dello spunto dolce e passionale che
accompagna l’arrivo di Paolo nella casa di Francesca allorché i loro
sguardi s’incontrano per la prima volta. La frase, che chiameremo “dello
sguardo”, abilmente trasformata giunge molto opportuna a colorire il
breve colloquio.
Fortemente significativo è il ritmo puntato che si ripete come un
singulto all’arrivo di Malatestino ferito. Sono poche battute che
bastano a disegnare musicalmente la bieca figura del sanguinario
giovinetto. Questo secondo episodio, tanto dissimile dal primo, ci
dimostra come lo Zandonai senta la psiche de’ personaggi della tragedia
e con quanta bravura ne sappia tradurre e rendere la fisionomia musicale.
Certo che in questo atto secondo non è il caso di ricercare la lirica
musicale in quella sua essenza melodiosa che costituiva la concezione
dell’antico teatro melodrammatico. L’essenza musicale esiste, ma non è
visibile e sensibile che ne’ suoi rapporti soltanto, né potrebbe essere
altrimenti, dato il carattere eminentemente descrittivo di tutto l’atto.
Questa essenza melodiosa noi la percepiamo e la gustiamo invece in tutte
o quasi le pagine che costituiscono la partitura musicale degli altri
atti. La sentiamo e la gustiamo infatti nei canti di Biancofiore, di
Garisenda [Garsenda], di Altichiara e di Donelba [Donella] – le donne di
Francesca –: canti atteggiati ad una soavità e ad una dolcezza
spensierata e serena. Questo movimento melodico che incomincia subito
col cicaleccio delle donne sale e si accentua nella scena fra Samaritana
e Francesca «Anima cara, piccola colomba» e si ha sempre più vivo nelle
scene successive. Sopratutto la musica raggiunge accenti di delicata
melanconia quando il gaio sciame delle ancelle ritorna per annunciare a
Francesca l’arrivo di Paolo venuto a rogar l’atto nuziale per mandato
del fratello. È un momento musicale pieno di bella e di grande poesia.
Con una pennellata magistrale lo Zandonai ci dà tutta intiera la
delicatezza del quadro. La pennellata e costituita dalle note armoniose
e dense di doloroso sgomento vibranti dalle corde d’una viola pomposa
che lo Zandonai vi ha introdotto con raro accorgimento di arte. Mentre
la viola svolge il suo canto suggestivo accompagnato dall’oboe e dal
clarone, Francesca e Paolo si osservano turbati, come presi da un
fascino misterioso. La viola continua intanto la sua ispirata melodia:
le donne cantano e il velario si chiude lentamente mentre lentamente si
vanno estinguendo altresì le voci e gl’istrumenti.
74
L’atto terzo, com’è noto, si svolge nella camera di Francesca. Una
specie di pedale fisso sopra una nota ci porge l’immagine plastica del
quadro. Le ancelle cantano e danzano, mentre su dalla loggia echeggiano
dolci armonie di liuti e clarini. La musica, senza seguire la solita
falsariga arcaica degli antichi modelli, è viva e leggera e si diffonde
da essa come un profumo di sottile voluttà. Anche qui, come sempre o
quasi, lo Zandonai, pure compiacendosi di qualche armonia inconsueta, si
studia affinché la chiarezza del canto non rimanga disturbata.
A questo proposito voglio osservare che nell’armonia dello Zandonai non
si fa mai abuso di quelle famose sovrapposizioni e sonorità complesse in
cui si aggrovigliano none, undecime e tredicesime, tanto care allo
Strauss e a qualche altro, e che recano così grave nocumento alla
limpidezza della idea musicale. E poiché abbiamo nominato la parola idea
intendiamoci bene sul valore di essa. Molte volte abbiamo udito dire: la
musica moderna è priva d’idee: e quest’accusa si è ripetuta da taluno,
anche oggi, a proposito della Francesca. L’arte odierna, ricordiamolo, è
tutta compenetrata di critica, ma ciò avviene perché noi di essa
scorgiamo e avvertiamo le benché menome pulsazioni, mentre l’arte del
passato ci appare nel suo insieme come un oggetto messo a distanza.
Siamo analitici, è vero; ma dobbiamo pur considerare che ciò che è
immediato si presta meglio all’analisi di ciò che è lontano. È naturale
quindi che un fenomeno d’arte moderna ci appaia molto più complesso d’un
simile fenomeno d’arte verificatosi in altri tempi.
Il discutere pertanto sulla psiche, diremo così, delle idee musicali è
una fatica senza costrutto. Si chiami frase, motivo, periodo, idea, la
musica rimane sempre costituita da quella successione di suoni
misurabili alla quale è sottoposta la sua comprensione.
Quali che sieno pertanto i fattori, quali i rapporti ingegnosi di
sonorità e le forme libere e ardite con le quali la musica si offre alla
contemplazione, essa avrà sempre bisogno di significare un pensiero – e
il pensiero non potrà aver mai manifestazione più bella ed efficace
della melodia. Orbene lo Zandonai ha tenuto conto di questo assioma per
tradurre e rendere musicalmente la situazione lirica dell’atto terzo,
nella grande scena d’amore tra Paolo e Francesca. Quella situazione, che
aveva già da tempo sedotto – purtroppo invano – la fantasia di altri
musicisti anche illustri, ha trovato così questa volta nello Zandonai un
interprete squisito. Anzi che lasciarsi travolgere dall’onda irrompente
della passione egli ha preferito di farci sentire la salita di quella
vampa d’amore con un dialogato melodioso che va, cammina e procede con
moto lento e continuo, e a poco a poco si svolge in linee ampie e
suggestive che fissano i contorni d’una serie di frasi eloquenti che
sembrano uscire dai più riposti meandri di quei due giovani cuori. Poche
volte l’inno dell’amore è salito così bello, così alto, così pieno di
esultanza come in questa poderosa pagine musicale descrivente la scena
del “libro galeotto”.
Ciò non esclude che nell’atto ultimo altresì egli non ci sorprenda e ci
avvinca con la forza incisiva di cui fa magistralmente uso nella scena
terribile fra Gianciotto e Malatestino, e non ci rapisca e ci trasporti
con lo scoppio intenso di amorosa passione che esplode dalle anime
deliranti dei due innamorati nella seconda parte dell’atto che prelude
alla catastrofe finale. Egli non solamente possiede l’estro e la
dottrina, il senso del teatro e la ragione dell’arte, il culto
dell’estetica e quello della tecnica, ma sa distribuire queste sue
facoltà con una misura ed un buon gusto che non possono non assicurargli
la vittoria della scena.
E siccome lo Zandonai ha la sicurezza ormai di proseguire la salita per
cui si è messo a raggiungere la sospirata meta, così senso il bisogno di
esporgli un mio parere. I moderni compositori in generale non trovano
75
più, o la trovano raramente, la ragione organatrice che guidava un tempo
la costruzione della sinfonia, della sonata, del concerto, ecc., e
intendono che essa consista in qualche cosa di più d’una semplice
costruzione di parti.
A prima giunta questo sdegno per le forme tradizionali o scolastiche
sembra assolutamente un progresso, e lo è, ma non puro, poiché occorre
ricordare che se la fuga, ad esempio, si giudica oggi un arido artificio,
nemico d’ogni verace espressione di sentimento, si deve pur considerare
ch’essa
nacque
quando
l’opera
pratica
si
concepiva
con
una
determinatezza di confronto che oggi è smarrita. Questo dico e ricordo
allo Zandonai, come a colui che oggi a ragione può dirsi il pioniere
della giovine scuola italiana.
Come tale pertanto egli ha il dovere di non dimenticare che la
vertiginosa evoluzione del pensiero moderno, se può essere illimitata
nelle scienze positive, non può esserlo parimenti nelle discipline
musicali, soggette a certe leggi occulte della natura che invano si
tenterà di scuotere.
Prima di chiudere questa rassegna sento il bisogno d’una sincera parola
di lode per Tito Ricordi, il quale ha saputo evitare che la novella
dannunziana, nel suo travestimento musicale, subisse la sorte poco
fortunata di altre sorelle. E il Ricordi ha saputo evitarlo falciando
senza misericordia ma con mano esperta e sicura, nella tragedia del
D’Annunzio, limitandola a quelle sole necessarie vicende imposte dalla
chiarezza della favola e adatte ai mezzi d’un libretto per musica. Tanto
lo Zandonai quanto il D’Annunzio debbono essere grati alla abilità del
riduttore.
27
Mario Untersteiner, Musicisti
Marzocco», *.3.1914 (tronco)
contemporanei
-
Riccardo
Zandonai,
«Il
Non è la prima volta che parlo qui del musicista trentino che sembra
essere veramente una delle più grandi speranze del nuovo dramma lirico
italiano e che ora colla sua Francesca da Rimini si è certo avvicinato a
quell’ideale di opera d’arte che lo tormenta e che, come tutti sperano,
raggiungerà se egli senza curarsi dei falsi amici continuerà per la sua
strada. Dico falsi amici perché, se io non m’inganno, mi pare di non
poter escludere che Zandonai in questa sua nuova Francesca non sia più
veramente quello di Conchita e forse ancor meno quello di Melenis.
Quali motivi abbiano fatto deviare Zandonai un po’ dalla strada per la
quale egli si era messo, io non so e forse egli stesso ignora. Ad un
giornalista che lo interrogava, Zandonai rispose che la musica della
Francesca era tutto un cantare, musica chiara e cantata, che non deve
mai venire oppressa dalla sinfonia istrumentale. E lo stesso rispose a
D’Annunzio che gli domandava di che note avrebbe vestito i suoi versi;
ma in arte ben di rado volere è potere, quando quello che si vuole non è
veramente ciò che corrisponde alla propria natura. La critica musicale
lodò Conchita e Melenis e ne riconobbe i grandi pregî ma lasciò capire
che dal maestro si chiedeva maggiore abbondanza melodica, meno
spezzatura del canto, e forse essa non è estranea a tutto il cantare
della Francesca, che predomina nell’opera. Né certo poco vi influì
l’armoniosità dei versi e l’ambiente stesso che lo provocava ed in parte
lo pretendeva. Ma non tutto questo cantare è sempre e veramente
spontaneo e non di rado vi si scopre il proposito di essere melodioso
anche dove l’azione non lo richiederebbe o lo vorrebbe altrimenti. Uno
di questi punti è per esempio per me il finale del primo atto che, per
quanto sia musicalmente una trovata e la melodia abbia una dolcezza
76
infinita aumentata da un istrumentale poetico e finissimo, mi sembra
drammaticamente ingiustificato.
Comunque in questa Francesca, Zandonai ha dato la prova di un talento
melodico di primissimo ordine in un tempo in cui di melodia vera ce n’è
ben poca. Ma non tutta la melodia di Francesca è sempre spontanea e
derivante dalla foga inventiva che assale involontariamente il vate e lo
fa cantare; ché anzi in alcune parti del dramma mi pare scoprire lo
sforzo della volontà e perciò qualche cosa di artificioso e non sempre
sincero. Ed allora, come è naturale, il maestro perde un po’ della sua
fisionomia e senza volerlo assomiglia a qualcun altro, che potrebbe
essere anche il Mascagni dell’Iris, certo una delle opere più riuscite
del facile maestro, il Wagner del Tristano, ma specialmente Verdi. Né io
me ne saprei lamentare, perché Zandonai, qualunque cosa si dica, rimane
sempre fino alla midolla italiano e la sua musica per quanto l’abbiano
voluta chiamare impressionistica, nulla ha a che fare con quella dei
maestri di oltralpe e chi lo asserisce non conosce davvero o Zandonai od
i moderni francesi. Anzi a me pare che in questa Francesca aleggi
invisibile lo spirito di Verdi dell’Otello e ciò non solo nell’atto
quarto, che per necessità ha la stessa intonazione delle prime scene del
quart’atto dell’Otello, ma anche in tutto il secondo atto. Questo
sentimento di vera e spiccata italianità si palesa in alcune melodie,
che non possono essere che italiane, per la parabola della linea
melodica, l’ampiezza e semplicità della frase, che appare come deve
essere e che trova la sua bellezza soltanto nel disegno e non nell’
armonia. E veramente italiana, italianissima è tutta la musica arcaica
di questa Francesca, arcaica tanto per dire, giacché Zandonai non ha
frugato i codici musicali del medioevo in cerca di spunti ma l’ha tutta
creata e trovata. E questa evocazione di un’epoca remota, specialmente
nei cori e ballatelle delle donne, è pressoché perfetta, così negli
spunti melodici che ricordano le canzoni di Falconieri ed altri
primitivi di una grande freschezza e dolcezza, come nell’istrumentale
vaporoso e tenue al pari di una vecchia e preziosa trina. In generale la
musica di quest’ultima opera di Zandonai è eminentemente suggestiva ed
io devo cercare fra i capolavori dell’arte musicale per trovare un punto
di paragone nella parte decorativa o descrittiva dell’ambiente. Zandonai
ci ha dato, del resto, anche nelle sue opere anteriori, splendide prove
di questo suo specifico talento, per esempio nel second’atto e negli
intermezzi della Conchita e nel terz’atto di Melenis. Né soltanto in
queste, ma anche nel Grillo del focolare, che io mi ostino a credere
ancor oggi un vero gioiello del quale un giorno o l’altro forse si vorrà
accorgersi, anzi un’opera meravigliosa se si pensa all’età dell’autore.
Ho detto di sopra che ascoltando la Francesca qualche volta si pensa
involontariamente a Verdi. Udendo ripetutamente il second’atto, quello
che a me sembra il meno riuscito e che certo offriva le maggiori
difficoltà, mi domandai cosa ne avrebbe fatto Verdi e credetti di poter
conchiudere che egli l’avrebbe musicato certo altrimenti specialmente
nei pezzi di assieme. Ed è naturale, giacché troppa è la distanza di
tempo che corre fra l’uno e l’altro maestro e troppo diverse sono le vie
del dramma musicale moderno. Ma anche in quest’atto Zandonai ha dato una
nuova prova di saper dipingere a larghi tratti un grande quadro e di
dominare le masse come oggi forse nessuno saprebbe far meglio, cercando
nuove strade e servendosi delle voci del coro quasi semplice mezzo ed
elemento fonico senza pensare a contrappunti e polifonia.
E, fino ad un certo punto, verdiana è la concezione del primo quadro
dell’atto quarto e con ciò non esprimo certo un biasimo, ma anzi una
lode, giacché dal punto di vista drammatico musicale la scena fra
Gianciotto e Malatestino è delle più riuscite e tale che basterebbe a
77
provare la forza drammatica di Zandonai e la sua capacità di scolpire
rudemente con pochi tocchi magistrali una figura ed un carattere.
Un’altra questione che io mi sono ripetutamente posta leggendo od
ascoltando la musica di Zandonai è quella dell’originalità della sua
musica. Ha essa una nota veramente personale? Ebbene, a me pare di poter
oggi rispondere affermativamente, quantunque sia ben difficile dare a
parole una ragione di questa risposta sia per la musica di Zandonai che
per quella di molti altri maestri. In alcuni casi l’originalità o la
nota veramente personale dipende dall’intrinseco del pensiero musicale;
altre volte essa deriva da certi procedimenti quasi tecnici che sono
proprî degli autori. Restando nella ristretta cerchia dei maestri
moderni più noti non v’è dubbio che siamo capaci di distinguere una
melodia di Wagner da una di Verdi. Una simile spiccata e decisa
differenza fra la musica di Zandonai e quella di altri musicisti, tale
da riconoscerla tosto, io non saprei ancora scorgere, quantunque non sia
difficile trovare nella sua musica degli spunti e temi – non dico
melodie nel senso più comune della parola – che sono veramente personali
come, per esempio, il tema «perdonato vi sia con grande amore», o la
perorazione nel second’atto quando Francesca offre la coppa di vino a
Paolo, ed altro. Non parlo poi di una quantità di idiotismi zandonajani
che un po’ alla volta si sono venuti formando e che sono ora preferenze
per certi intervalli, ora sequenze di accordi ed altro, che hanno tutti
un’aria di famiglia.
Io vorrei piuttosto dire che è più facile rispondere alla questione
invertendola, ossia cercando a quale musica essa non somigli. E molti
punti di somiglianza non vi troveremo specialmente in Melenis e Conchita,
senza dubbio le opere più personali del maestro. E neppure nella musica
della Francesca, che nella parte specificamente melodica ha fisionomia
propria più italiana delle altre opere, fisionomia che io sento ma non
so ancora ben definire, giacché non basta dire che il canto è più
spiegato ed ampio e che la linea è più chiara e naturale di prima.
Per via di confronti poi mi pare di poter affermare che Zandonai sia un
talento proteiforme e che egli nelle sue quattro opere, piuttosto che
trasformarsi complessivamente o subire influenze speciali, ha saputo
trovare sempre la musica più adatta al soggetto ed a seconda di questo
cambiarla e modificarla. Pressoché sempre lo stesso egli è rimasto
soltanto nelle parti meno importanti delle sue opere, nelle scene
secondarie per esempio nelle prime di Conchita, di Melenis e della
Francesca, in quelle cioè ove egli si può sbizzarrire in ritmo veloci e
piccole frasi, botte e risposte, che palesano una mano maestra ma in cui
lavora certo più la testa che il cuore. Quando invece l’azione incalza e
domina la passione, allora cessa il gioco dei suoni ed il maestro entra
tosto in medias res trovando sempre la vera nota. Perciò Conchita,
Melenis e Francesca parlano tutte e tre una lingua diversa perché tutte
e tre sono anime diverse.
Ed un’altra lode si può subito aggiungere, quella cioè che Zandonai non
si contenta di trovare uno spunto, una melodia più o meno oggettivamente
riuscita, ma che egli sa quasi sempre scegliere quella che più si adatta
alle parole e alla situazione e sa, se sia necessario, cambiare in un
attimo con un paio di tocchi armonici o ritmici tutta l’intonazione (cfr.
la chiusa del canto del giullare sulle parole «sangue del Nostro Signore
Gesù»).
Ma per approfondire la questione dell’originalità ed altre sarebbe
necessario entrare in analisi tecniche qui fuori di luogo, perché
soltanto con queste si potrebbe veramente dimostrare che ormai Zandonai
non è soltanto un maestro, ma che molte volte ha una lingua od almeno un’
inflessione assolutamente propria e caratteristica.
78
Naturalmente trattandosi di musica moderna è necessario giudicarne anche
la melodia con criteri diversi da quelli di altri tempi. Una volta la
bellezza di una melodia dipendeva quasi sempre dalla semplice linea e
sviluppo della frase. Certe melodie di Verdi ed ancor più quelle di
Bellini non hanno alcun bisogno dell’armonia per palesare la loro
bellezza. Altre invece sono sì complesse che esse non si possono
veramente giudicare che sentite col loro completamento armonico che non
solo serve d’appoggio e ne aumenta il valore, ma che è nato con esse e
ne è indivisibile.
La melodia di Zandonai è di ambedue le specie, ma quella della seconda
maniera è predominante, specialmente nelle opere an[...]
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reazioni a Rovereto 1914 (28)
28
L’imponente omaggio dei roveretani a Riccardo Zandonai. Oltre mille
persone si recano a Sacco ad acclamare il Maestro, «L’Alto Adige», 56.3.1914
L’entusiastica, imponente dimostrazione che il popolo di Rovereto ha
voluti improvvisare al maestro Riccardo Zandonai resterà memorabile
negli annali del paese nostro, come un moto spontaneo, unanime impulsivo
del cuore del popolo di tutta una città palpitante di ammirazione e di
riconoscenza verso un illustre figlio di questa terra: di ammirazione
perché il genio fecondo di tante sublimi pagine musicali non può non
inorgoglire gli abitanti della regione che gli diede i natali, e di
riconoscenza perché riconoscenza sincera e profonda deve questa terra al
maestro che con la sua meravigliosa produzione artistica tiene alto ed
onora il nome della patria per tutta la Nazione ed all’estero.
Quando ieri sera alle 20 la Banda cittadina – scortata da una squadra di
pompieri – mosse dalla sua sede sul Corso Rosmini alla volta di Sacco,
una fiumana di popolo le fece coda e la seguì fino a Sacco. Ad oltre un
migliaio di persone si può, senza tema di esagerare, far ascendere
quella gran folla di popolo di tutte le classi che ieri si è notata a
Sacco, percorrendo a piedi l’orribile strada.
La Banda si è fermata nell’ampio cortile davanti alla casa del maestro.
E in quel cortile si accalcò quanta più gente poté; gli altri, i più,
perché la popolazione di Sacco era uscita dalle case per unirsi alla
folla
acclamante
che
così
s’era
quasi
triplicata
–
dovettero
accontentarsi di starsene sulle vie adiacenti, tutte gremitissime.
La Banda cittadina intanto ha subito attaccato il primo pezzo, una
briosa marcia, che valse ad infiammare vieppiù quella moltitudine già
piena di entusiasmo.
E la Banda suonò magistralmente altri tre pezzi e la folla acclamò il
maestro, prorompendo ogni tanto in grida di evviva.
Il maestro dal poggiolo della sua abitazione guardava commosso la folla,
sventolando un fazzoletto.
Ad un certo punto l’avv. Gino Marzani, che con molti altri era sul
poggiolo vicino allo Zandonai, pronunciò il seguente discorso:
Concittadini,
non so se sia doveroso od opportuno che i brividi di entusiasmo che
passano nelle anime vostre trovino una concretazione nella mia parola,
nella parola di chi sente di esser parte di voi nell’entusiasmo che vi
agita e vi commuove in questo momento. Concedete che le mie parole
dicano a Riccardo Zandonai i vostri sentimenti di ammirazione e di
entusiasmo fraterno. Oltre all’omaggio a Riccardo Zandonai a me piace
che la manifestazione di oggi unisca alla gloria di lui alla modestia
79
dei suoi genitori che insieme a lui ho visto con gli occhi umidi di
commozione al cospetto di questa moltitudine festante.
Il nostro entusiasmo è immenso e profondo malgrado che noi, folla, non
abbiamo mai sentito né potuto comprendere la grande opera di questo
nostro glorioso concittadino.
Qui parla l’affetto di concittadini e di fratelli. Auguro che giunga
presto il giorno in cui a questi sentimenti si unisca l’ammirazione
cosciente con la rivelazione al Trentino dell’opera del Maestro nostro.
In quel giorno noi grideremo a lui non con maggior affetto, ma con più
profonda coscienza una voce alta di: gloria, gloria, gloria a lui che ha
dato lustro a questa terra».
Commosso rispose ringraziando il Maestro:
Io vi dico soltanto questo. Voi mi avete dato stassera una delle più
grandi e più profonde impressioni della mia vita d’artista. Essa mi fa
dimenticare le più grande soddisfazioni della mia carriera, e vi
assicuro che la porterò con me attraverso il mondo. Nel nome vostro e di
tutto il nostro amato Trentino mi sarà facile qualunque lotta ed ogni
vittoria mi sarà sicura. Evviva il Trentino».
Il grido fu ripetuto e nuovi vivissimi applausi, nuove grida di evviva
s’alza[ro]no dalla folla.
Dopo il concerto la Direzione della Banda cittadina salì dal maestro a
presentargli un’artistica pergamena con la quale il maestro vien
nominato socio onorario della Banda stessa. Omaggio gentile che Zandonai
aggradì oltremodo.
La Banda cittadina sostò poi nella vicina Birreria dove eseguì altri
scelti pezzi, molti amici e ammiratori si trattennero per qualche ora
ancora presso il maestro, ed il pubblico chi a piedi e chi in carrozza
fece ritorno a Rovereto.
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London 1914 (29-44)
29
“Francesca da Rimini”, «The Globe, 17.7.1914
There is a good deal of similarity between the two new works that have
been added to the Covent Garden repertory this season. Each deals with
the fearful passage of a crossed lovers play their piteous parts amid
the turbulent changes and chances of medieval Italy, But whereas
Montemezzi’s setting of an old tale was practically unfamiliar, Signor
Zandonai has found his inspiration in a story that has been known the
world over ever since Dante first immortalized it in the page of his
Inferno.
It was an adventurous step to attempt a new version of the tragedy which
Hermann Goetz and Ambroise Thomas had already put upon the operatic
stage, and Tchaikovsky had used as the basis of a symphonic poem. But
Zandonai’s confidence in himself was not ill-founded, and his opera –
performed last night at Covent Garden for the first time since the
initial production at Turin in February – was a marked, if not an
uproarious success.
The book is adapted from the play that D’Annunzio wrote for Eleanora
Duse. The first act deals with the betrothal of Francesca, daughter of
Guido da Polenta, [?] Giovanni “the Lame”, son of the famous Malatesta da
Verruchio. The scene is laid in a court of Polenta’s house, whither –
after some preliminary dialogues between Francesca and her sister
Samaritana – comes Paolo “the Handsome” to act as his brother’s
ambassador; and the marriage being necessary for reasons of state,
Francesca is tricked into believe that Paolo is her destined husband.
The next scene is laid in Rimini, where a fight is in progress between
80
Guelfs and Ghibellines. Pictorially it is magnificent, with its
machicolates towers and all the cumbrous artillery of the Middle Ages.
But it does little to advance the action, and only serves to intensify
the protagonists’ feeling for one another. Those feelings subsequently
become irresistible; and Francesca’s secret meetings with her lover are
discovered by Giovanni’s brother, Malatestino. Himself in love with
Francesca,
and
bitterly
jealous
of
his
more
successful
rival,
Malatestino betrays the intrigue to Giovanni and so brings about the
final tragedy which stained the Palazzo Ruffo in 1285.
Except in a few quite trivial details, the libretto is historically
accurate; but that fact – though interesting in itself – is really
immaterial. Indeed a little less accuracy might have been ad advantage;
for the business of the battle has not raised the composer to his
greatest heights. As in his earlier opera “Conchita”, hi is not at his
best in scenes of movement; and during the whole of the second act, one
almost forgets the score in watching a bustling and riotous pageant that
ceased to fascinate after the first few moments. Elsewhere, however,
Signor Zandonai’s music is delightful. He is rarely imitative and never
eccentric. Too modern to indulge in melodies of the obvious type, he yet
write nothing that is ungrateful for the voice. His harmonies are
unobtrusively vivid, his rhythms are bright and lively, and his scoring
is captivatingly light and fanciful. It is difficult, perhaps, not to
contrast the love-music of the third act with “Tristan and Isolde” and
to feel some disappointment at the absence of Wagner’s passionate
fervour. But in his tranquil moods Zandonai is individual and charming,
and the Song of Spring he has given to Francesca’s maidens is a thing of
real grace and beauty. On the whole, the music is best when it is most
reticent in its reflection of emotion. Yet the composer can achieve a
climax when he wants one; and after the dainty dialogue between
Francesca and her sister in the first scene, he is genuinely thrilling
in the passages that herald the advent of the hero.
The performance was well worthy of a work which is far the best novelty
the Grand Opera Syndicate has submitted since “Louise”. The part of
Francesca suited Mdme. Edvina thoroughly. She looked alluringly girlish,
and while all her singing was marked by freshness and purity of tone,
there was no lack of warmth where warmth was needed. Another individual
success was won by Miss Myrna Sharlow, who played Samaritana. If her
tone sounded a little shrill at times, that was probably because most of
her music lay rather high for the voice; but the fault was not
persistent, and in general Miss Sharlow sang with an amount of charm
that proved her to be a very valuable acquisition.
Signor Martinelli had fewer chances of distinguish himself that usually
fall to the lot of a tenor and a hero. As a fighter he was not exactly a
happy warrior, and though he sang pleasantly enough in the third act, he
gave the impression – perhaps inevitably – that he was rather too
diffident for a lover. Signor Cigada made a much braver figure as the
wronged
husband,
and
there
was
an
incisiveness
about
Signor
Paltrinieri’s singing that was quite in keeping with the malignant
temper of Malatestino. It remains only to mention the consistently good
work done by Francesca’s maidens, to pay a grateful tribute to the
authorities for a sumptuously magnificent setting and to compliment
Signor Panizza on his authoritative conducting.
30
A.K., Success of a New opera. “Francesca da Rimini” at Covent Garden.
Italian Work of Great Interest, «The Daily News and Leader», 17.7.1914
81
Riccardo Zandonai’s “Francesca da Rimini” which first saw the light at
Turin in February, was produced last night at Covent Garden. Whatever
its ultimate fate may be, there is no doubt that from the musician’s
point of view it is the most interesting new Italian work heard for a
considerable time, and fully justifies those who, in spite of the want
of popular success of “Conchita” two years ago, maintained that the
composer had a distinctly original personality and that a work of
abiding interest could be looked for from him.
The chief original characteristic of “Conchita” was the way in which
German influence permeated the score. One felt then the pouring of
German wine into Italian bottles might produce a new and very comforting
beverage.
Mastery of Stage-craft
The text of “Francesca da Rimini” has been adapted by Tito Ricordi with
the poet’s consent. This, it appears, was difficult to obtain. Signor
Ricordi must certainly be given credit for a great mastery of stagecraft, for it was no easy matter to make out a long, slow-moving poetic
drama a libretto with clean-cut characters and swiftly-moving situations,
in which the literary elements do not interfere with the needs of the
stage.
We learn in the first act that Francesca is to be married to Giovanni lo
Sciancato, or Gianciotto(*), who is lame and unattractive, and so by a
trick Francesca is lead to believe that his brother, Paolo the Beautiful,
is really to be her bridegroom. In the second act we have a violent
battle scene, in which the forces of the Malatesta, under the command of
Gianciotto, defend their citadel. Francesca reproaches Paolo with his
deceit, but he proves to her that he was himself tricked, and did not
know the part he was playing.
We see their passion growing, and in the third act, after some
introductory scenes between Francesca and her waiting-maids, which are
musically delightful, we have a great love scene, which ends with the
famous reading of the story of Lancelot and Guinevere. The fourth act
consists of two short scenes, in the first of which Malatestino,
Gianciotto’s younger brother, who is himself in love with Francesca,
arouses the suspicion of Gianciotto; and in the final scene Gianciotto
kills both Paolo and Francesca.
The Composer’s Rapid Development
Signor Zandonai’s talent for the creation of poetical atmosphere has
developed very rapidly since we heard his last work. In this respect the
first act, with its use of guitars and mandolines, and the curious
intensity which results from constant reiteration of expressive phrase
adroitly varied, is original and striking. In the second act the
functions of the music are mainly pictorial and illustrative, and,
whereas a good deal of it is clever and incisive, the musical value of
the act is perhaps the smallest.
In the third act the songs of Francesca’s waiting maids form a charming
background to her own expressive phrases of foreboding, and the love
duet which follows has fine broad melody phrases, and is worked up to an
impressive climax, while the orchestral atmosphere is maintained with
great skill, and the whole strikes a distinctly personal note. The
irresistible approach of tragic fate is well depicted in the first scene
of the fourth act, and the music gathers strength to the close without
recourse to any of the conventional Italian methods of creating
theatrical excitement. Throughout the work the composer shows more
appreciations of the dramatic value of expressive vocal phrases and of
their development that most modern composers, while at the same time he
82
is thoroughly abreast of the time in the way in which he elaborates he
orchestral commentary.
A Fine Performance
The new opera had every help from the performance. Signor Martinelli is
very well suited by the part of Paolo. He acted with great freedom and
sincerity. Vocally he has not done anything better. His singing in the
love duet at the end of the third act was supremely artistic. Mme.
Edvina, too, was admirable. She is a picturesque figure always in the
wonderful dresses she wear, and she makes Francesca a true heroine of
romance, and suggests with much skill that she is rather driven by fate
than by her own will.
Signor Cigada sang excellently as Gianciotto, the husband, and indicated
the brutality of the character well; his [•]ameness was very cleverly
done. Miss Myrna Sharlow, who made her début as Samaritana, Francesca’s
sister, made a notable impression by the beauty of her voice. A word of
praise is due to the singing of Francesca’s attendants – Miss Sybil Vane,
Miss Rosina Buckman, Miss Violet Hume and Miss Ruby Heyl; while Mlle
Leveroni was excellent as the slave Smaragdis.
Signor Panizza conducted with remarkable insight, and under his guidance
the whole performance was notable for distinction of atmosphere.
The mounting was a real triumph for the management. Nothing more
artistic has been seen than the opening scene in the courtyard of the
house of the Polentani, with its flower garlanded loggia and its view of
a distant landscape.
The new opera was received with real enthusiasm.
---------(*)
Per tutto l’articolo il nome è storpiato in Gianciotti.
31
“Francesca da Rimini” at Covent
«Daily Express»(*), 17.7.1914
Garden.
Zandonai’s
Fine
New
Opera,
If any one really wants to know how they made war in the thirteen
century Covent Garden is the place for them – that is to say, Covent
Garden upon such nights as Zandonai’s new opera, “Francesca da Rimini”
holds the stage.
There they will be initiated into the mysteries of Greek fire and its
extremely unpleasant consequences. They will learn the correct way to
raise a lump on an enemy’s head with a cross-bow, and if they come away
without the din of battle ringing in their ears that will not be the
fault of the composer, his drummers, and all the other gentlemen armed
with implements of offence.
They will also witness certain other unusual sights.
They will, for instance, see a man’s eyes knocked out; they will see a
game-legged, outraged husband give a guilty pair of lovers the unhappy
despatch, and they will see some splendid pictures of mediæval life.
Zandonai has written an opera far and away in advance of anything young
Italian has given us of late.
There is charm and imagination in the composer’s music, and he knows how
to make a noise almost as well as Strauss. But what is even more welcome
is the absence of any attempt at pawky philosophy or cheap psychology.
An incident of a decapitated head excepted, there is nothing nasty,
banal, or gratuitous offensive in the handling of the story.
The music, which fits the situation very happily, is never obvious, and
there are many moments of great charm, if not perhaps real beauty. At
times it betrays French and German influences, but it never strikes one
83
as being anything but the work of one who is an artist at heart and a
wonderfully improved workman.
The immortal scene between the lovers will one disappoint those
unacquainted with the poverty of creative genius from which the world is
suffering. There is no living composer who by any stretch of imagination
could be credited with the ability of doing justice to such a theme.
The Lovers
The first act shows us Francesca surrounded by her waiting women – all
very delightful music this – her heart dangerously susceptible to
Cupid’s darts. Paolo comes: she sees, and is conquered.
In the next she is married – by a trick – to the lame ungainly Giovanni.
She reproaches Paolo for his share in the plot, and, of course, the fat
is in the fire.
Then comes the reading of the story of Lancelot and Guinevere, and every
one knows the result when a young impressionable man reads poetry to a
no les impressionable girl.
A third brother whom the author has introduced into his plot – the
librettist has founded his book upon d’Annunzio’s tragedy – is also in
love with Francesca, and he it is who betrays the secret of the guilty
pair to the enraged Giovanni. The lovers perish miserably at the
dagger’s point.
Mme Edvina and Signor Martinelli were a more convincing pair of lovers
than one had dared to hope. Both sang with fervour, while Mme Edvina’s
acting was always clever and resourceful.
Signor Cigada as Giovanni was a forbidding powerful figure, and Signor
Panizza conducted authoritatively and forcefully.
The opera was more than cordial received.
---------(*)
Incerta l’identificazione della testata.
32
R.C., “Francesca da Rimini”. D’Annunzio Opera at Covent Garden, «Daily
Mail», 17.4.1914
If fine words made fine operas, what an opera were here! “Francesca da
Rimini”, produced in the grand manner at Covent Garden last night, would
then have been the second new masterpiece to see the light there this
season. The poem is Gabriele d’Annunzio’s sumptuous elaboration in four
acts od Dante’s most lovely episode, and the old poetry and the new
mingle their streams. Unfortunately, mere verbal beauties count for
little in opera. All that counts is the broadly general situation and
the music. The result was the impression that here was just “The Love of
Three Kings” all over again.
Francesca is now the name of the fatal woman; the brother Malatesta the
three kings. We are again plunged in the savagery of mediæval love and
warfare. Jealousy claims a preposterous right to the blindest violence,
while the lovers in their love are only a degree less insensate than the
warriors in their hate. Their doom, anyhow, is more a relief than
disaster, so hopeless seem all passions except lust and slaughter in
such a word.
Dante tells Francesca’s story in a few faultless, unforgettable lines.
D’Annunzio is feverishly profuse, The lovers’ reading of Queen Guinevere’
story – the reading that stopped short that day – is naturally the
centre scene. Francesca’s marriage to Paolo’s elder and ill-favoured
brother, is brought about by trickery. The betrayal of the lovers is due
to the youngest brother, Malatestino, with whom d’Annunzio brings his
new peculiar flavour into the story – a curious and slight morbid sense
84
of depraved cruelty. The world will still go back to Dante for the story,
but here incontestably is an opera poem fit for a master-musician’s hand.
“PRETTY
PRETTY”
SCENES
Unfortunately this rare opportunity has been sadly frittered away by the
composer, Riccardo Zandonai. The most striking thing is the lightly,
unwarrantably confident way in which he takes up, trifles with, fusses
with, round and about such a subject which needed either the most
profound and burning accents music could enrich it with, or nothing. He
is not to be reproached with lack of effort. In its piecemeal fashion
the music (Act IV, particularly) is indeed restlessly striving and
straining in incessant effort. What is lacking is unifying conviction
and any trace of genuine impulse. The “pretty pretty” scenes – in
Francesca’s garden, Act I, and in her chamber, Act III – are the weakest,
for it was not given this composer to charm. Act II, which is all
warlike alarums and excursions, was by contrast effectively spirited.
To M. Martinelli the chief honours of the evening. This young tenor has
wonderfully ripened. He sings with all his first ardour and an added
polish. No living singer that we know could have done better. People
should hurry to hear him before he is no longer at his best and special
prices for “Martinelli nights” come in. Mme. Edvina’s Francesca was
beautiful to look on and much resembled other distraught princesses in
her repertory. Her grace seemed sometimes (in the scene of the rose, in
Act I) too deliberate and calculated, and the music obviously was
intended for a more voluptuous voice.
33
P.P.P., “Francesca da Rimini» A Brilliant Success. Composer Excels
Himself, «The Daily Graphic», 17.7.1914
Riccardo Zandonai’s “Conchita” was perhaps the most promising failure
Covent Garden has to its credit. After two years of silence as far as
England is concerned, this brilliant young composer has been given
another hearing and last night was produced his “Francesca da Rimini”.
The famous love story is eminently operatic, and no Italian could fail
to make it vivid. But Zandonai has gone even further than the many
virtues of his previous work led one to expect. His method has been
subtle, restrained, and delicate. He has not made the more intimate
portions of his opera a mere succession of suavely melodious love duets
and the remainder conventional padding. In this respect he is far ahead
of his particular school. He has not Puccini’s facility for well-turned
phrases, and the appeal he makes is less direct. He is a master of
conscientious, but not laboured, detail. He seems to revel in painting
with meticulous care even the less-important corners of his canvas. Thus
the chorus of women in the first act, to an accompaniment of mediæval
instruments, is so well thought out that it brecomes something more than
a picturesque addition. There are many touches of the character – small
in themselves – which all blens to make “Francesca da Rimini” a work of
delicate charm.
THE STORY AND THE MUSIC
The libretto, adapted from Gabriele D’Annunzio’s tragedy, moves a little
slowly, but never loses clearness. The fortunes of the lovers are traced
from their first silent meeting to their murder by Gianciotto, brought
about by the treachery of Malatestino, who himself is cherish a guilty
love for Francesca. The second is the least effective of the of the four
acts, both musically and dramatically. It is occupied with a fight
between the Guelphs and the Ghibellines on a platform of a tower of the
85
Malatesti. The actual combat, although darts and tubs of pitch, is not
less ludicrous than operatic warfare usually becomes, and the music, a
conventional crash of brass and cymbal, is not at this point of
sufficient distinction to prevent the act from striking a jarring note.
The composer is at his happiest in his madrigals and some other
fragments of choral writing for female voices, indefinite in form but
invariably of great beauty. While his mastery over his orchestra is
always evident, he never allows it to run riot. His colour schemes are
perfect, largely because his taste is flawless.
Mme. Edvina sang well in the title role and posed with the grace of a
pre-Raphaelite maiden – probably a conscious touch. But she seemed cold
and unemotional. Signor Martinelli was almost an ideal Paolo, and Signor
Cigada, whose voice is hard, gave a very intelligent performance as the
jealous Gianciotto. Signor Panizza, who was responsible for the original
production in Turin, conducted with due authority, and the general
production was admirable. Although it has come so late in the season,
“Francesca da Rimini” has come to stay. Covent Garden must be
congratulated on having secured so fine a work.
34
H.C., Paolo And Francesca At Covent Garden, «Daily Chronicle», 17.7.1914
An operatic setting of the familiar story of Paolo and Francesca was
given a production of much splendour at Covent Garden last night. The
libretto is a modification of D’Annunzio’s play, “Francesca da Rimini”,
the composer being Riccardo Zandonai, the gifted young Italian whose
opera “Conchita” attracted some attention here in 1912.
Zandonai has unquestionably given us an opera of very great interest,
full of atmosphere and charm, with ideas of much originality.
The first act, entirely idyllic, is delightful almost from beginning to
end. The scenes in the garden, the arrival of the Jester, his
interrogation by four ladies who (like those in “The Magic Flute”) are
always in evidence in the opera as attendant upon Francesca, the
appearance of Francesca and her sister, are all reflected with much
fancy and imagination by the composer, and most of the music is really
very beautiful. The festal music, some delightful phrases for quartet
and chorus of women’s voices with incidental music from a viole d’amore,
a lute and one or two other instruments, which welcomes Paolo, helps to
make an appropriate climax, ending with the briefest suggestion of
tender love-phrase.
In Act 2 the composer has attempted to work on a very ambitious scale—
love music for Paolo and Francesca, against the background of a battle
scene. If he has not been so successful here, it is the fault of the
martial music, the brief duet being genuinely emotional.
EXQUISITE MUSIC
In Act 3 there is a return to the idyllic vein, again with the happiest
results. Francesca, surrounded by her ladies, is reading the story of
Guinevere. She asks for music, which is provided in the shape of a
spring song by the four ladies, with accompaniment from a small band of
stage players. This is music
of exquisite freshness, a dainty prelude
to the long love scene that follows, the music of which, even though it
has unequal moments, is full of romance and delicately-expressed passion.
The last act opens with a scene between Francesca and Malatestino, who
hints both at his own love for her, and his knowledge of her love for
Paolo. The music falters a little here, as it does also in the
succeeding scene in which Giovanni learns from Malatestino of the
intrigue between his wife and his brother. The final duet between Paolo
86
and Francesca now brings us the finest love-music in the opera, phrases
of impassioned beauty. The discovery of the pair by Giovanni and their
death at his hands is illustrated graphically, but the music just misses
real dramatic strength.
The mounting of the opera deserves more than a mere mention. As the
scenery, costumes and accessories were all designed by one artist,
Signor Coramba [Caramba], the stage pictures had an artistic unity which
is not possible in the ordinary way, and most of them were very
beautiful.
The performance was one of all-round excellence. As Paolo Signor
Martinelli sang with great fervour and acted romantically. Mme. Edvina,
as
Francesca,
rather
over-acted,
and
her
singing
was
somewhat
indifferent. Signor Cigada was impressive as Giovanni, and Signor
Paltrinieri very energetic, vocally and dramatically, as Malatestino.
Signor Panizza conducted with much ability, and on the stage every thing
worked smoothly.
35
Royal Opera. Zandonai’s “Francesca da Rimini”, «Evening Standard»,
17.7.1914
Riccardo Zandonai’s opera “Francesca da Rimini”, which has already met
with considerable Continental success, was produced for the first time
in London at Covent Garden yesterday. Tito Riccordi [sic] has adapted the
libretto from Gabriele D’Annunzio’s version of the story, and though in
its salient points it does differ materially from that set down by Dante
in his “Inferno”, and which was later exploited by Paul Heyse, Martin
Greif, Uhland and Stephen Phillips, the details of the tragedy, though
naturally familiar, may be again recounted, as in its present form the
dramatic side is strongly emphasised.
In the first act, as a means to the reconciliation of two hostile
families, Francesca, daughter of Guido da Polenta, has been condemned to
marry Giovanni, generally known as Gianciotto, son of Malatesta da
Verrucchio. Giovanni is deformed and Paolo, the younger brother, is
persuaded to impersonate him, but though achieving the end in view he at
the same time falls in love with Francesca, and his affection is
reciprocated. Act II. takes place in a round tower in the palace of the
Malatesti, which is being attacked by the Ghibellines. Francesca is now
married to Giovanni, and she reproaches Paolo for having deceived her.
Then he confesses his love for her and his ignorance of the deception
that he unwittingly practised upon her, and later Giovanni brings him
word that he has been appointed Captain of the People and Commune of
Florence, for which city he immediately sets out. The third act is
really the romantic climax of the story. Francesca is reading the story
of Guenevere and Lancelot to her attendants, but Paolo has returned from
Florence with the intention of meeting her. He enters her apartment, and
in a lengthy duet they describe the passionate nature of their mutual
feelings. In the fourth act is the inevitable tragedy. Malatestino,
Giovanni’s younger brother, who is himself in love with Francesca,
betrays them, and Gianciotto takes his revenge.
Dramatic as the story is, and highly effective as is much of the music,
Zandonai has not produced anything that will make operatic history. The
general impression that his musical illustrations create is one of
constant disappointment. He is apparently capable of working himself up
to a certain pitch of achievement that on many occasions is remarkably
strong and vivid, but he seems to lack the art of consistency both of
purpose and idea. Acts III. and IV. literally teem with possibilities,
and to a certain extent are conceived with fine dramatic feeling, but
87
just where the forceful climaxes should be there is a curious lack of
concentration of thought that weakens the general effect, and just
evades the thrill that is frequently on the verge of appearing but never
becomes an accomplished fact.
Zandonai is, of course, a disciple of Puccini, and much of the work
bears a strong resemblance to several familiar operas with a not
inconsiderable smattering of Wagner. But to follow in the footsteps of
the great is a sound policy, and there can be no doubt that when
Zandonai has found himself he will produce an opera of real value and
importance, although it can be freely admitted that the one in question
is distinctly interesting. His scoring is always ingenious, and such
extracts as Francesca’s “Anima cara” in the first act and “Il fuoco
greco” in the second provide quite sufficient evidence of the great
developments in his creative art.
Louise Edvina as Francesca looked charming as she always does, and sang
with remarkable beauty of tone and expression. Her portrayal of
uncontrollable passion may have been occasionally unconvincing, but as a
general rule she acted with delightfully youthful grace and was at times
finely dramatic. The Paolo of Giovanni Martinelli was admirable, though
mainly from the vocal standpoint. His voice rang true and resonant, and
was used with consistent excellence, but he, too, in the love scene
lacked the fire that can grip the imagination and approach within
measurable distance of realism.
Francesco Cigada’s reading of the part of Giovanni tended to show him
rather as the outraged husband than as the sinister villain of previous
non-operatic productions. His singing was strong and full of vitality,
and it was always possible to see in him the warrior of unflinching
courage and the true lover hoist with his original petard of deception.
Amongst the smaller parts, Myrna Sharlow as Samaritana and Giordano
Paltrinieri as Malatestino sang well.
The production as a whole is one of the most elaborate that has yet been
staged at Covent Garden. The house of Carramba [Caramba], of Milan, is
responsible for it, and in a practically every detail it has caught the
spirit of the times, as well as presenting much that is architecturally
interesting and a number of colour schemes that are remarkably
attractive. Ettore Panizza conducted a fine performance that never
failed to give the opera every chance of success by the combination of
the admirable work of soloists, orchestra and an exceptionally
intelligent chorus. The reception was enthusiastic, and at the fall of
each curtain the artists were recalled time after time.
36
New Opera At Covent Garden. “‘Francesca da Rimini» By Riccardo Zandonai,
«The Times» 17.7.1914
Francesca
Paolo
Samaritana
Giovanni
Malatestino
Biancofiore
Garsenda
Altichiara
Donella
Smaragdi
Ser Toldo
Giullare
Balestriere
LOUISE EDVINA
GIOVANNI MARTINELLI
Myrna Sharlow
Francesco Cigada
Giordano Paltrinieri
Sybil Vane
Rosina Buckman
Ruby Heyl
Violet Hume
Elvira Leveroni
Octave Dua
Pompilio Malatesta
LEON DE SOUSA
88
Ostasio
CAREL VAN HULST
Torrigiano
Conductor – Ettore Panizza
By the production of Zandonai’s opera Francesca da Rimini last night
Covent Garden reached its mean level of two new operas in the season.
The opera thus brought to a hearing season just before the season closes
is certainly a thing of greater interest than its companion which was
brought out earlier, or than the same composer’s Conchita, given a
couple of years ago. Zandonai has at least found in D’Annunzio’s play a
big subject with an atmosphere and a colour of its own, and has tried to
let its atmosphere and colour suffuse his music.
The general course of the opera is identical with that of the play,
though the words have had to be considerably curtailed in becoming a
libretto for music. The opera is nominally in four acts, but virtually
in five, for D’Annunzio’s last two acts are treated as two scenes in Act
IV. It is easy to see that a much more effective opera could have been
made by adopting a more drastic method in moulding the play for music.
All the part played by the youngest of the three brothers, Malatestino,
that is to say, the whole of the first part of Act IV, might have been
sacrificed without much musical loss, and it would have been a great
gain in condensation. At the same time one appreciates the reverence
which the musician pays to the poet; he is trying, with the help of Tito
Ricordi, who made the adaptation, to give a musical version of the
tragedy, and refuses merely to boil it down into a serviceable libretto.
UNSATISFACTORY AS AN OPERA.
Still, though this appeals to literary sympathies, it is the result as
an opera that we have to consider; and without, on the one hand, the
breadth of musical vision which creates Tristan, and, on the other, the
sensitiveness to poetic suggestion which produced Pelléas et Mélisande,
the result could not be satisfactory. Needless to say, the composer of
Francesca has not this abundant equipment. He has merely tried to
accompany the play scene by scene with music that reflects some of the
character of each situation, and he has brought to the task a good deal
of resources, especially in writing for the orchestra.
The scenes between Francesca’s women and the jester and between
Francesca herself and the women, all the preparation, in fact, for the
coming of Paolo, have a good deal of charm, spoilt only by a youthful
tendency to work everybody and everything much too hard. The voices are
frequently forced to give ear-piercing shrieks because the orchestra is
so busy with rhythms od repeated notes that to use any other part of the
voice would be futile. By the time the climax comes, the trumpets sound
and the bells ring out, the voices and the audience are so tired that
the welcome to Paolo, “Eccolo! è qui presso,” loses its significance.
The scene of the first meeting of the lovers is, however, effective by
its contrasted quietude. The melody for a viola pomposa placed with a
lute and an oboe on the stage, though not peculiarly eloquent among love
themes, is skilfully combined with the suave tune of the women’s chorus,
and makes an imaginative ending to the act.
Of the battle scene on the ramparts not much need be said. Stage battles
are proverbially difficult to handle; musical stage battles are
irredeemably futile. The composer keeps the clatter and bustle going
with unabating [sic] energy, and with it all he has to combine suggestions
of heroism and love; for Paolo, exposing himself bareheaded on the
battlements, shoots the leader of the Ghibelline attack, and Francesca
is by his side pulling up the portcullis that he may take his aim,
handing him his arrows, weeping for his supposed wounds, trying up the
89
real ones of Malatestino. Neither Mme. Edvina’s first aid nor Signor
Martinelli’s archery helped to increase our confidence in a scene which
is carried along chiefly by its extreme theatricality.
THE
CRUCIAL SCENE
But in the crucial scene of the drama, the reading in Galeotto of
Lancelot’s story, the composer has entered sympathetically into his
increased opportunities. It is a scene for music; Francesca’s richly
decorated Florentine room offers suggestions to the musical colourist;
the reading, the discussion and the spring songs of the girls (the
latter is supported by a band of woodwind and lute upon the stage) lead
the musician to a quieter mood; then the long scene between the lovers,
ending in the kiss which reveals the depht of their love, has something
of the restraint of Dante’s comment
Quel giorno più non vi leggemmo avante.
The common mind would have turned this into the conventional love scene
such the middle act of any Italian opera can show; Zandonai reaches real
distinction in refusing to allow the passion to leap too readily to the
surface. Nothingh in the final act is nearly as good, and musically it
is apt to be tautologous. One is glad that when the final struggle
between the two brothers eventually arrives it is swiftly accomplished
and the lovers fall together without an unseemly operatic parade.
The large cast collaborate admirably under the direction of Signor
Panizza to produce a thoroughly good performance and the work was
received with general acclamation. The timbre of Mme. Edvina’s voice,
however, is not one to lessen the disadvantages of Zandonai’s
unfortunate style of vocal writing to which we have referred, in fact
shrillness and uncertainty of intonation rather spoilt the effect of her
painstaking presentation of the part of Francesca. Signor Martinelli’s
voice, however, was as admirably suited by the part of “Paolo il bello”
as the gruffness of Signor Cigada was suited to that of Giovanni, the
elder brother, and husband of Francesca. While the smaller parts were
all well distributed, a special word seems due to Miss Myrna Sharlow,
who as Samaritana sang with an appealing freshness in the duet with Mme.
Edvina in the first act.
37
Royal Opera. Success Of Young Italian Composer. “Francesca da Rimini”,
«The Standard», 17.7.1914
“Francesca da Rimini”, the first performance of which in England took
place last night, is certainly the best of the novelties that have been
heard at Covent Garden for a number of years. The composer, Riccardo
Zandonai, will be remembered by his opera “Conchita”, which was produced
during the last grand season, much of which–despite an unpleasant and
hopelessly theatrical theme–gave high promise for the future.
Perhaps it was too much to expect that young Italy could get away
entirely from the lurid atmosphere and heated emotionalism in which so
much of the music of her younger sons is cast, but at least it was very
comforting to find Zandonai deserting the realistic in favour of the
idyllic—at any rate in two out of the four acts—and turning his back
upon the offal and garbage of pseudo-psychology in which so many
present-day composers delight to delve—either from hope of profit or a
perverted sense of æstheticism.
The composer’s best work is associated with the happenings of the great
story of love and death, which, perhaps, is not surprising, seeing that
90
it would take a Wagner to do justice to a love scene which in ecstatic
passion is equally only by that of Tristan and Isolde.
Very charming is the music allotted to Francesca’s attendants—music
which indirectly suggests the influence of the Valkyries’ chorus,
notwithstanding that it has little direct connection as regards figure
or phrase. On the other hand, the babel of sounds that accompanies the
attack and defence of the castle is unquestionably effective, whatever
may be thought of it as music. Here the din in the orchestra becomes
deafening, the drummers in particular having some very strenuous
quarters of an hour. Indeed, the high pressure at which the score is
maintained almost throughout the opera is most marked, the occasions
when the artists are not singing at the tops of their voices being few
and far between.
SENSE
OF THE THEATRE
As regards the melodic line, the composer gives one the impression of
being at great pains to avoid the facility for tune-making which he
apparently shares with his compatriots. Time after time he employs
scales and harmonic progressions which, to say the least, near something
more than traces of the influence of the modern French school, his
affection for the two-note reiterated figure being his conspicuous
throughout. That he knows his Wagner well would also seem to be beyond
dispute. Strong as is the sense of theatre manifested throughout, all
the scenes would gain by compression, and the elimination of the anticlimax.
Take, for example, the first act, where Francesca first sees Paolo. Here
the music that heralds the entrance of “the fairest knight in all the
world” has been wrought to an ecstatic pitch, but the moment of his
arrival is too long delayed, and the denouement of an artistically built
up situation is whittled away, charming, musically, as is the final
tableau.
Again, a good deal of the music at the opening of the third act might be
dispensed with. Everyone by this time is waiting for the culminating
incident, the reading of the immortal love story of Lancelot and
Guinevere and the impassioned outburst that is the sequel to it. But the
composer marks time while Francesca’s women and some lute-players
indulge in what at another time would be pretty vocal and terpsichorean
exercises.
“Francesca,” in fact, would gain from such pruning as would bring it
within the three hours limit. In that case the opera would stand a
better—a really good—chance of obtaining a permanent place in the
repertoire for some years to come, since, apart from the hurly-burly of
its drama, it contains scenes of great charm and real æsthetic value,
scenes which in conception and execution are upon a far higher artistic
plane than any we had dared to expect from the protagonists of
contemporary Italian opera.
THE
INSTRUMENT OF FATE
Instead of killing Malatestino in infancy, the librettist permits him to
grow up and become the instrument by which the death of the lovers is
accomplished. He it is who, because Francesca repulses him, betrays the
guilty pair to the lame Giovanni. The murder of a certain prisoner whose
groans distress Francesca is a totally unnecessary excursion into the
realm of gruesome realism, and the only vulgar episode in the opera. A
head tied up in a cloth and kicked about the stage like a football is a
gratuitously nasty spectacle.
The fights on the battlements of the castle are remarkably vivid
pictures of mediæval prowess; indeed, the production generally—except
91
for the introduction of some distressingly garish artificial floral
decorations—is one of which the management have ever reason to be proud.
Nothing so good has been seen at Covent Garden for long enough.
If Louise Edvina’s action seemed a little studied, her Francesca is a
clever performance, while her singing was nothing if not an emotional
exercise. Giovanni Martinelli did not wear his heart upon his sleeve to
the same extent as his lovelorn partner in guilt, but he has never sung
more robustly. There was perhaps more passion in his voice than in his
bearing, but artists who possess all the graces with which Paolo is
credited have yet to be discovered.
Francesco Cigada was naturally not as raucous a voiced Giovanni as
tradition demands, but his embodiment of the lame husband was powerful
and
characteristic.
As
the
moon-struck,
half-witted
Malatestino,
Giordano Paltrinieri did well. The women’s music was admirably sung by
Sybil Vane, Rosina Buckman, Ruby Heyl, and Violet Hume.
Ettore Panizza, who conducted, took charge of the work at the original
production in Turin, and consequently one gathers that the high pressure
at which the score was maintained had the sanction of the composer.
The opera met with a flattering reception both at the end of each act
and upon the fall of the final curtain.
Among those at the Royal Operas, Covent Garden yesterday evening at the
first performance in England of Zandonai’s “Francesca da Rimini” were
the Marquess and Marchioness of Lincolnshire, the Marchioness Douro,
Viscount Iveagh, Earl Howe, the Countess of Cavan, Lady Curzon, Lady
Airedale, the Hon. Lady Musgrave, Lady Hastings, Lady Victoria Burke,
Lady Meyer, Lady Dawson, Sir Spencer and Lady Maryon-Wilson, Sir Edward
and Lady Stracey, Mr. and Mrs. St. John Hornby, Mrs. Lewis Harcourt, Mrs.
Gerard Leigh, Mr. and Mrs. Leo Bonn, Mrs. John Leslie, Mrs. Louis Duveen,
and Mrs. Wormald.
38
A New Masterpiece. “Francesca da Rimini”, At Covent Garden, «Pall Mall
Gazette, 17.7.1914 (tronco)
In recent years signs have not been lacking that Young Italy is at last
awakening to the essential vulgarity of post-Verdian opera, with its
alternation of lurid hurry-music for heavy and musiquette for light
libretti. In the current season, for instance, we were given “L’Amore
dei Tre Re,» which, though not of startling originality, at least
indicated an advance in operatic taste. Two years ago we had an
opportunity of judging, by Zandonai” “Conchita”, that an improvement in
musical method was also in course. The weakness of that opera was its
concentration of the interest upon no more than two characters, which,
as is happened, were not particularly well cast, so that the impression
on the operatic public was less vivid that is should have been in
fairness to the composer.
Covent Garden has now produced a second opera from the same source, free
from such dramatic flaws and under much more adequate conditions, with
the result that the advance in both musical taste and technique is too
obvious to escape the most superficial observer. Here is an opera
dealing with a subject of great tragic beauty, and there is no intrusion
of melodrama to cheapen its effect. Even the last scene, which one would
imagine offered almost irresistible temptation to a modern Italian
composer, is treated with a dignified reticence that brings it own
reward in heightened effect.
***
The music is remarkable for its freedom from overworked clichés. A
captious critic might suggest that the composer has merely substituted
92
others of more recent origin—that he owes much to his immediate
predecessors—that the interval of the augmented fourth which he favours
for certain effects is no more his than another’s. But if he is not the
first
Italian
composer
to
profit
by
the
experiences
of
his
contemporaries, he is, so far as we know, the first not to turn them to
base uses, and this is almost enough to stamp him as an innovator. Nor
is he without a definite musical personality of his own. On the contrary,
though certain of his features may be familiar, his profile, se to speak,
is new. More than that, his orchestral colour is personal, and where it
ventures upon experiment, it is almost invariably successful.
***
On the weak points, such as the prolongation of the closing episode of
the first act, with the attendant risk of an anti-climax, we prefer not
to speak, for the moos of the moment is against fault-finding. The cast
is too long for detailed enumeration. The two name-parts were taken by
Mme. Edvina and Signor Giovanni Martinelli. Mme. Edvina’s method in a
work of this kind are well known. Whilst she is too good an artist to
allow her vocal production to suffer from her acting, it is usually to
the matter that she applies most of her technical experience.
Unfortunately, she is hampered by conventions, such as the familiar
heaving of the shoulders when Paolo’s arrival is announced to her. There
is room for more subtlety than can be attained by such methods. Signor
Martinelli’s voice and appearance were effective, but in interest his
part was overshadowed by the remarkable performances of Signor Cigada as
Giovanni and Signor Paltrinieri , a new-comer, as Malatestino. These two
artists were convincing throughout, and when they met in the duet of the
last act they easily scored one of the successes of the evening. A word
of praise is also due to the four ladies attendant upon Francesca, to
whom the composer has allotted some of his most picturesque music, and
who acquitted themselves remarkably well.
***
The production, in which M. Almanz, the stage manager, had the valuable
advice and(*)
---------(*)
Il ritaglio si interrompe qui.
39
Royal Opera. Francesca da Rimini. Successful Production, «The Daily
Telegraph», 17.7.1914
Francesca
Paolo
Samaritana
Giovanni
Malatestino
Biancofiore
Garsenda
Altichiara
Donella
Smaragdis
Ser Toldo
Giullare
Balestriere
Ostasio
Torrigiano
Louise Edvina
Giovanni Martinelli
Myrna Sharlow
Francesco Cigada
Giordano Paltrinieri
Sybil Vane
Rosina Buckman
Ruby Heyl
Violet Hume
Elvira Leveroni
Octave Dua
Pompilio Malatesta
Leon De Sousa
Carel Van Hulst
Last night saw the production at Covent Garden of “Francesca da Rimini”,
the second and last of the novelties promised by the syndicate for the
season now nearing its close. For reasons no doubt unavoidable,
93
Zandonai’s opera has thus had to wait for a hearing until the season has
entered upon its last days. Yet, as things operatic go, the young
Italian composer may reckon himself favoured among his kind, for it is
only a few months since “Francesca,” his latest work, was brought out in
Turin, and already the London public have been enabled to pass judgment
upon it. Moreover they have heard it in circumstances in every way
advantageous the composer and his work. For no opera, indeed, could a
“production” more complete, artistic, and beautiful have been fashioned.
It is only right that all possible credit should be given to the Covent
Garden management for the admirably artistic spirit in which they set
about producing the new opera in such a way as to ensure for it a
setting wholly in keeping with the atmosphere of D’Annunzio’s tragedy—
the source of Zandonai’s inspiration.
And having said thus much let us hasten to add that they have lavished
their pains and resources upon no unworthy work. In some respects,
indeed, one may unhesitatingly welcome “Francesca da Rimini” as the most
satisfying opera that has come out in Italy for a considerable time.
Whether it is likely to prove as successful as its many beauties and
merits deserve is a point we need not stay to consider. Time may be left
to answer that question. It is to the good, at any rate, that a work of
which the mood, for three put of its four acts, is inevitably sombre,
but from which the note of sincerity and high aim is never absent,
succeeded in spite of its considerable length in enlisting the
sympathies and interest of last night’s audience.
D’ANNUNZIO’S TRAGEDY
In D’Annunzio’s well-known tragedy. which was written, it will be
remembered, for Eleanora Duse (whose beautiful performance in it about a
decade since will not have been forgotten by anyone who saw it), there
is obviously much that would appeal to a composer or imagination and
poetic instinct. In it, no less obviously, there is abundance of good
material for music-drama—and we are here only concerned, naturally, with
its value as an opera text. For that purpose the play was “adapted” by
Tito Ricordi—considerable compression was, of course, necessary—and,
generally speaking, there is little fault to find with the result. But
we say this with one important reservation. It is that, in our opinion,
the battle-scene of the second act is a mistake for operatic purposes,
and would have been far better left to the imagination.
For, when all is said and done, the story of Paolo and Francesca—which
is far too familiar to require telling again in connection with the
opera seen last night—is a great love tragedy, simple in its outlines,
as old as the hills in one sense, and yet perennially fresh, because
intensely human, in its emotional appeal. For the purposes of musicdrama, everything, surely, should have been made subservient to the one
paramount, overwhelming issue. And it is for that reason that we regard
the second act of this opera as a mistake, viewed either from the
dramatic or the musical stand-point—but particularly the latter. For
this battle-scene—it is more than that—only retards the one allimportant and only essential issue.
A
POETIC SCORE
Zandonai must not be blamed, therefore, if in this act he failed really
to impress us, notwithstanding that he certainly carried matters along
with no little skill and vitality. Before that desperate affray of the
Guelfs and Ghibellines, with their cross-bows and arrows, he had
succeeded both in charming and interesting us. It was his sure poetic
instinct, his sensitive feeling for atmosphere, that charmed; it was his
manner that interested. In “Conchita,” to which Covent Garden introduced
94
us a year or two ago, this composer—who has been spoken of as Italy’s
“rising star”—revealed himself as the possessor of exceptional gifts and
something of individuality as well. In “Francesca” the promise held out
by the earlier score is abundant fulfilled. One notes the same
reticence—even in that ill-judged battle scene this quality is present–
and the same sureness in arriving at the particular effect aimed. There
is in much of his music a directness of expression by no means common
nowadays in that which is representative of modern musical thought. And
Zandonai is “modern” enough, if one may be allowed that term in these
advanced days in connection with music of which the harmonic basis is
perfectly clear and no less “legitimate.”
His modernity, however, is not of the kind that makes ruthless demands
on the human voice. Indeed, the vocal line in “Francesca” is far more
grateful than in Zandonai’s previous opera, and in his more lyrical
phrases the composer achieves a measure even of suaveness without
falling into commonplaces of melody. And, as we have already hinted, it
is indubitably in his gift of poetic expression that the composer here
shows his chief strength. It enables him to strike the right note at the
very outset in the brief orchestral introduction to the rising of the
curtain, and to sustain that note through the whole of the act, the
music of which, accordingly, reflects with singular felicity the
delicate charm and poetic atmosphere of the scene wherein Francesca
first sets eyes on Paolo. For fragrant beauty, indeed, and delicate
imagination the music treatment of the end of this act, where Francesca
watches from the courtyard Malatesta’s handsome son, whom she fondly
imagines is to be her bride-groom, while her attendants gather about her
and sing, is an achievement of a rare order.
One finds the same poetic feeling in much that comes later, and if in
the scene between the lovers in the third act, where together they read
the story of Lancelot and Guinevere, the note of passion is rather
subdued, it has to be remembered that it is only at the very end of the
act that the lovers lips meet for the first time. The composer,
therefore, may have aimed chiefly at suggesting their heart-yearnings
rather than anything in the nature of ecstatic, all-mastering passion.
One must needs deal briefly with last night’s performance, which, as
already indicated, certainly revealed the novelty in as favourable a
light as possible. Both Mr. Martinelli and Madame Edvina, to whom were
assigned the rôles of the two lovers, may be said to have added to the
laurels that have fallen to them this season. Madame Edvina, if a little
inclined to remind us in some of her movements and attitudes of one or
two other parts with which she has identified herself, yet gave us in in
her Francesca a performance on a high level of skill and sincerity, and
throughout she sang with finish purity of tone, and a full appreciation
of her opportunities. So, too, with Mr. Martinelli, who sang, moreover,
when occasion demanded, with characteristic force and fervour. Mr.
Cigada, the Giovanni of the cast, had to wait until the last act for his
chances, but when they came he seized them with complete success, both
as singer and actor. By this artist and Mr. Paltrinieri, a newcomer
possessing a resonant tenor voice and no small histrionic gifts, the
scene in which the vindictive Malatestino informs his brother of Paolo
and Francesca’ secret meeting—a scene, by the way, wherein the composer
rises finely to his dramatic opportunities—was carried through with
exceeding power and effect.
Mr. Panizza, who conducted, clearly deserved the share that went to him
of the audience’s tributes.
In the audience were: The Marquis and Marchioness of Lincolnshire,
Marchioness Douro, Viscount Iveagh, Earl Howe, the Countess of Cavan,
95
Lady Airedale, the Hon. Lady Musgrave, Lady Dawson, Sir Spencer and Lady
Maryon Wilson, Sir Edward and Lady Stracey, and Mrs. Lewis Harcourt.
40
New
Opera
At
Covent
Garden.
Zandonai’s
“Francesca
da
Rimini”,
«Westminster Gazette», 17.7.1914
Zandonai’s “Francesca da Rimini”, which was heard for the first time in
London at Covent Garden last night, is a work of a type of which Italy
has sent us many examples during recent years. That is to say, it is an
earnest attempt at a work of real value, characterised by a sincerity of
purpose and a sobriety of treatment, putting in in quite a different
category from that of the old-time blatant and vulgar Italian
productions; but when one comes to consider it in other respects the
superiority is unfortunately less pronounced.
These modern Italian operas, in other words, are vastly superior to
their predecessors in externals, but in essentials much the same. This,
however, is only what might be expected, for no amount of high aim and
taking thought can generate genius, even though it may invest with a
more dignified appearance the productions of mediocrity. This “Francesca
das Rimini”, for instance, has all the outward air of a serious and
important contribution to the art. A fine theme is handled with every
evidence of a genuine desire to rise to the occasion. And up to a point,
too, the composer has even succeeded. There is not a little in the
technique of the music, in the good taste and reticence displayed, the
freedom form extravagance and banality, which may be cordially applauded.
But these are negative virtues after all, and it is in the provision of
more positive attractions that the composer fails. His music flows on
with exemplary ease and smoothness, but soon becomes tedious because its
ideas are so ordinary and their treatment so uninspired. The truth is
that only a great composer could hope to deal really adequately with
such a theme as Zandonai has chosen in this case. Wagner in “Tristan”
supplied, of course, the supreme model, while Debussy in “Pelléas”
showed another possible mode of treatment, which had the enormous
advantage of avoiding any direct comparisons with Wagner’s; but Zandonai
has hardly succeeded in providing another.
Apart from these elementary deficiencies the opera is not without its
good points. As regard the book, this is based on D’Annunzio’s version
of the famous story in which form it makes an excellent libretto (Signor
Tito Ricordi has been responsible for the adaptation), distinguished by
not a few happy touches and graceful details.
The opening scene are very charming, for instance, showing Francesca at
her home in Ravenna attended by her women. [•]hiter comes Paolo in due
course to win her for his brother, but in the result to conquer her
heart forthwith not for her destined husband but for himself. The second
act, showing a fight in progress between the Guelfs and Ghibellines,
with Paolo making love to Francesca, now the wife of his brother
Giovanni, between the intervals of shooting with his crossbow at the
enemy, is less effective, since this mingling of love and war is
singularly unconvincing as represented in the stage, being indeed a
purely “literary” conception, which should be confined accordingly to
the printed page.
Much happier is the following scene. In her beautiful apartments
Francesca is reading the story of Lancelot and Guinevere to her women—it
is not historically recorded that Francesca told Dante that she ascribed
her undoing to that earlier tale of guilty love?— till presently Paolo
arrives and the lovers continue the reading together alone. Then finally
comes the tragedy brought about by Giovanni’s younger brother,
96
Malatestino, who, having also succumbed to Francesca’s charms, betrays
her relation with Paolo to her husband, who, surprising them together,
kills both on the spot.
Apart from the fact that it is rather needlessly spun out, the story
makes, as noted above, quite a good book, and if only Zandonai had been
able to provide music of greater interest it might well have served as
the framework of a really notable opera. As it is, for the reason which
have been suggested, the work can hardly be so described. At the same
time, if the music is not great, it is not without its happier moments.
Quite charming, for instance, are some of the lighter pages, such as the
songs of the women in the first act, while again in the third, when
Francesca is with her attendants once more, there are some very pleasing
moments. It is the treatment of these slighter elements of the story
that Zandonai seems most at home, and in such scenes his music at its
best suggests quite happily the appropriate atmosphere of sensuous
beauty and delight as a fitting background for the tragedy that is in
preparation. As the action proceeds, however, his music gets weaker
instead
of
stronger,
and
though
he
strives
hard
by
strenuous
orchestration and other familiar expedients to conceal the fact, it is
not to be disguised, unfortunately, that the whole thing in purely an
affair of clever make-believe and manufacture, and the effect resulting
is correspondingly small.
The production of the work could hardly have been better. Whether the
opera is worth all the money which must have been spent on it or not,
the management have certainly grudged nothing in order to present it in
the most favourable manner to the London public. More beautiful stage
pictures than some of the scenes, such as those of the first and third
acts, could hardly be wished, while the artists are, of course, all of
the first rank.
Mme.
Edvina,
the
Francesca,
is
not
perhaps
quite
the
ideal
representative in all respects of parts of this particular order (in so
many of which she has appeared during recent years at Covent Garden),
since she lacks the temperament which they demand, but within her limits
she is always to be relied on for a sound performance, and she gives of
her best once more in the present case. Excellent, too, with just the
right personality for the part, was Signor Martinelli as Paolo, while
Signor Cigada, with his fine voice and vigorous methods, gave an equally
good account of himself as the rough and savage husband. As the other
brother, Malatestino, Signor Paltrinieri, a newcomer, acted better than
he sang, his voice, a penetrating tenor, being too “white” and shrill in
quality to afford unqualified pleasure. MM. Octave Dua, Malatesta, and
Carel van Hulst, were other membres of the cast, and Signor Panizza as
conductor seemed to have the orchestra well in hand throughout the
evening.
41
Royal Opera. “Francesca da Rimini”, «The Star», 17.7.1914
“Francesca da Rimini” has fascinated many composers both as a subject
for opera and a program for a tone-poem. The latest opera on the subject
is that of Riccardo Zandonai, which was first heard in Turin last
February, and produced at Covent Garden last night, with more than the
usual signs of success. It seems safe to predict that it will be in the
repertoire for a long time than a good many of the novelties heard
recently. It has weak moments, and a little use of the blue pencil would
not be a disadvantage, but it has many of the qualities which make for
life.
To begin with, the composer has something to say, and knows how
to say it; then there is a good book, full of contrast and animation and
97
characters in whom one can take an interest; and, lastly, there is a
picturesque background which appeals to the imagination. The management
has fully realised the importance of this, and has produced a series of
pictures of medieval Italy of singular beauty and unity of style, such
as we used to see at the Lyceum in the days when Irving was king. In
spite of one or two drawback – such as men-at-arms turning their backs
on the enemy in order to gaze at the conductor – no finer stage picture
has been seen for some time than the fight on the battlements of the
Malatestas’ Palace.
***
Signor Tito Ricordi has adapted d’Annunzio’s play for the stage with
remarkable insight into the needs of a composer of opera, and the rival
claims of the three essentials — action atmosphere, and characterisation.
It is true that not much happens in the first act, but it creates an
atmosphere of romance and foreboding, and shows us the character of
Francesca. The fight in the second act is not necessary to the main plot,
but it reveals the natures of the three brothers — Paolo, Gianciotto(*)
(Francesca’s husband), and Malatestino — and shows us how all three love
Francesca. Incidentally, it may be said that the way in which Paolo
hesitates over the drinking of the draught given him by Francesca would
have aroused the suspicion of a far duller man than Gianciotto. The
singing of songs by Francesca’s attendants creates the right atmosphere
for the subsequent meeting of the lovers, and from this point the action
moves at full speed to the final catastrophe.
***
Two years ago it was prophesied that the mingling of Italian
melodiousness with the fullness and subtlety of orchestral treatment and
texture which are largely German might end in the creation of a new
style of peculiar significance, and this prediction has been justified
by “Francesca.” In both respects the composer has made a notable advance.
His melody is more expressive and dramatic, and the atmosphere he
creates by means of his orchestra is more appealing, more original, and
more distinguished. He has a fondness for repetition of short phrases
which is almost Russian, but he does not exceed the due limits. The
first act is fully of charm, and the female choruses show the
imagination of a true poet. The quartet of the four attendants before
the lovers’ meeting is most delicately imagined, and the duet and the
scene of the reading of the story od Lancelot and Guinevere has the true
note of romantic passion. The scene in which Malatestino arouses the
suspicions of Gianciotto is robustly dramatic, and the final scene has
both beauty and power. On the whole, the strong elements fat outweigh
what is less good, and the whole creates a fine impression of unity.
There is, in short, much achievement in “Francesca” and more promise;
and that Zandonai is the man of the future in Italian opera there is
little doubt.
***
The performance was excellent, and Signor Panizza has never done
anything as artistic as his handling of the whole. Mme. Edvina struck
the right note of romance in her embodiment of the dreamy Francesca, and
sang finely, and Signor Martinelli (besides showing great skill in
archery) sang and acted with more authority and breadth of style than
ever before. Signor Cigada was an impressive robust and brutal
Gianciotto, and his lameness was very well done. Signor Paltrinieri made
a good deal of the part of Malatestino, though his voice is not of the
most pleasing. Miss Myrna Sharlow as Francesca’s sister Samaritana
showed herself to have an unusually fine voice, of which we should hear
more, and the four attendants — Miss Sybil vane, Miss Rosina Buckman,
98
Miss Ruby Heyl, and Miss Violet Hume — sang
Leveron was excellent as the slave Smaragdis.
charmingly,
while
Mlle
-----------(*)
Qui e altrove il nome è scritto «Gianciotti».
42
Opera We Have Waited For. Instant Success Of The New Italian Work At
Covent Garden, «Daily Sketch», 17.7.1914
“What a pity they left it till so late in the season”, exclaimed Signor
Scotti in the foyer at the end of a very beautiful first act at Covent
Garden last night. And everybody was saying the same thing.
For “Francesca da Rimini,” the brand new opera based on the tragedy of
Gabriele d’Annunzio, looks like being the new winner that Covent Garden
has been waiting for.
The story is the fascinating old story of Paolo and Francesca, the maid
of Rimini, who falls at sight in love with the brother of her destined
ugly husband.
As for the music of Zandonai, the young Italian whose charming opera
“Conchita” was produced here two years ago, it is the best thing that
Italy has done this century.
Scenery and production, indeed, play a great part in the success of the
new opera.
Martinelli is a handsome and sweet-voiced Paolo and Edvina, if
temperamentally a little too “northern” for Francesca, uses to good
effect her honeyed voice that match so well her trailing walk.
But the success of the evening – especially for the first and third acts
– was the composer, Riccardo Zandonai.
43
The Tragic Lovers: Beautiful Stage Pictures In “Francesca da Rimini” At
Covent Garden, «Evening News», 17.7.1914
The story of Paolo and Francesca has inspired a good deal of music,
although no modern opera on the subject had appeared, so far as one
knows, previous to the Zandonai-D’Annunzio “Francesca da Rimini,” which
was heard at Covent Garden last night.
Such a subject as that of Paolo and Francesca really demands music of as
high a quality as that in which the love of Tristan and Isolde is told
in Wagner’ immortal work.
Zandonai is no Wagner, in musical stature, and his opera, although
beautiful and interesting, as regard much of its music, does not give us
any real expression of the supreme dramatic moments of D’Annunzio’s play,
the meeting of the lovers, their avowal, and their death.
Bur in the more delicate moments of the play, when there is a stage
picture to be illustrated, there is music of real grace and charm, and
of genuine poetic atmosphere.
Last night’s production was one of much elaborate staging, of a rarely
beautiful kind. With scenery, costumes, and accessories all designed by
one and the same artists, the stage pictures were uncommonly harmonious
and striking.
Musically the performance reached a high level of general excellence,
with Signor Panizza conducting. The best individual performance was that
of Signor Martinelli, who sang and acted splendidly as Paolo.
Signor Cigada, as the ugly husband Giovanni, was also very dramatic and
sang finely. Mme. Edvina, as Francesca, seemed to act in a rather
affected and unnatural way, and her singing was not of particularly good
99
quality; the rest of the cast was excellent, and women’s choruses were
beautifully sung.
44
La critica londinese concorde nelle piene lodi alla “Francesca” di
Zandonai, [non id.], 16.7.1914[?]
Tutti i giornali si occupano diffusamente della Francesca da Rimini di
Riccardo Zandonai, e ne scrivono parole di alta approvazione.
Il critico della Pall Mall Gazette descrive la Francesca da Rimini come
un nuovo capolavoro. In particolar modo è ammirato lo stile del giovane
maestro, la sua abilità e la sua misura. Secondo questo critico, l’opera
nuova dimostra nello Zandonai una individualità musicale ben definita e
tutta sua. Il critico osserva che si può quasi considerare lo Zandonai
come un grande innovatore.
Benché non sia condiviso interamente da tutti i critici londinesi,
questo entusiasmo dello scrittore della Pall Mall Gazette offre la
misura del successo riportato qui dalla Francesca da Rimini. Anche quei
critici che scorgono qualche debolezza nell’opera, non possono a meno di
tributare al nuovo lavoro, nel suo complesso, un notevole elogio.
«Se non si tratta di musica veramente grande – scrive il critico della
Westminster Gazette – l’ultimo lavoro dello Zandonai non manca di
momenti assai felici».
Il critico del Times trova che Zandonai, non possedendo ancora gli
accenti magistrali che sarebbero stati necessari per la trattazione di
un tema così sublime, ha semplicemente voluto comporre delle scene
ricche di una musica nobile, che commenta qualche carattere e tutte le
situazioni. In questo compito lo Zandonai ha recato grande copia di
risorse, specialmente di orchestrazione.
Per il critico del Daily Telegraph, la Francesca da Rimini sotto varii
aspetti è, senza discussione, l’opera più soddisfacente che sia venuta
dall’Italia.
Di quasi identico parere è il critico del Daily News, secondo i quale la
Francesca da Rimini è un’opera di grande interesse, anzi la più
interessante di tutte le nuove opere italiane da parecchi anni in qua.
Il critico della Morning Post scrive: «Nell’insieme della musica lo
Zandonai mostra una forte individualità e possiede un carattere che è in
gran parte decisamente italiano. Anche se non è sempre originale,
Zandonai riesce a convincere assai più di ogni altro compositore
italiano contemporaneo. Egli si esprime in uno stile preciso: grazie
alla sua abilità, la versione musicale della tragedia riesce effettivamente a commuovere».
Di parere contrario è soltanto il critico del Daily Mail, il quale pensa
che lo Zandonai si limita a giocherellare abilmente con un tema per cui
erano necessari i più profondi accenti di cui sia capace la musica.
Tutti i giornali indistintamente ritengono ottimo il libretto e lodano
l’adattatore, commendatore Tito Ricordi. Quanto alla messa in iscena ed
alla esecuzione dell’opera, esse vengono giudicate ammirevoli sotto ogni
aspetto, specialmente sotto quello orchestrale, per il quale i critici
vanno a gara nell’elogiare il maestro Panizza. Resta ora a vedere se la
Francesca da Rimini riuscirà a fare una forte presa su questo pubblico.
La Morning Post a questo riguardo osserva: «Non ci indugiamo a
considerare se la Francesca da Rimini avrà probabilità di ottenere
dinanzi al pubblico tutto quel successo che le sue molte bellezze
meritano. Soltanto il tempo potrà rispondere a questa domanda».
-----------------------------------------------------------------------------------------
100
Pesaro 1914 (45-46)
45
Il trionfale successo di Francesca da Rimini del M° Zandonai al nostro
Teatro Rossini, «La Sveglia democratica», 1-2-.8.1914
L’arte di Riccardo Zandonai, il giovane e illustre Maestro trentino di
nascita e pesarese di adozione, ha ormai raggiunto la sua piena maturità.
Le ovazioni che echeggiarono lungamente giovedì sera nel nostro glorioso
Teatro Rossini hanno salutato veramente nella Francesca da Rimini
l’opera di un artista insigne che all’antica vicenda d’amore e di morte
che da secoli commuove il mondo ha saputo aggiungere una nuova
formidabile significazione musicale che rinnova, esalta, ingrandisce
quasi la tragica passione.
Riccardo Zandonai ha voluto affrontare con ardimento magnifico una
difficoltà tale da sgomentare ogni audacia: la grandiosa tragedia di
Gabriele D’Annunzio, che ha rievocato con una concezione teatralmente
perfetta «il disperato amore e il disperato dolore» di Paolo e Francesca,
aveva raggiunto nell’impeto lirico tale altezza che sembrava temerità
voler darle maggiore significazione.
Eppure la musica di Zandonai ha saputo veramente dire ciò che non è
della parola, ha saputo cogliere nella forza della sua arte quel quid
che nessuna parola può esprimere. E la tragedia musicale si eleva così
che nel pubblico stipato e plaudente la commozione era pari all’
entusiasmo che ciascuno sentiva nelle proprie vene correre il brivido
della passione, l’ardore della primavera, l’orrore della strage
grandiosa, e su tutto scatenarsi senza freni né soste la più grande, la
più possente, la più formidabile delle passioni umane.
Vincere così una battaglia tanto ardua significa avere la mente, il
cuore e i polsi capaci di ogni più bella e più ardita vittoria.
Salutiamo in Riccardo Zandonai, spirito eminentemente passionale che
alla grande tragedia malatestiana ha dato uno splendore forse non ai
raggiunto, che ha saputo essere musicista austeramente moderno e spirito
audacemente innovatore ma sempre e sopratutto italiano, una nuova
fulgidissima gloria della patria nostra.
L’opera non ha preludio, ma già nelle prime battute, nel cicaleccio
delle donne di Francesca e del giullare, nel dialogo che segue fra
Ostasio e ser Toldo sull’intrigo infernale che deve trarre in inganno
Francesca, la ricchezza strumentale e la freschezza melodica si rivelano
immediatamente.
S’ode venire dalle stanze alte il canto delle donne: «Oimè che adesso io
provo che cosa è troppo amore». Francesca e Samaritana appaiono sulla
loggia. Una tristezza dolce pervade la scena; la musica ha colori giusti,
nuovi, indovinati: un’arpa, pochi archi e un’orchestrina lontana
accompagnano il soave e semplice canto delle donne: sottile profumo,
dolce poesia!...
Ma Samaritana domanda alla sorella: «Francesca dove andrai? Chi mi ti
toglie?». Allora la linea musicale s’infosca, ha strappi violenti che
preparano la tragedia sulla quale domina come una strana inquietudine.
Ed ecco l’arrivo di Paolo: lo annunciano le ancelle a Francesca mentre
accorrono sulla loggia, sulla terrazza: «No, no! Correte donne, correte,
ch’ei non venga!» Supplica e fa per salire la scala; ma ecco che vede
apparire di là Paolo Malatesta. Rimane immobile fissandolo lungamente,
mentre sulla terrazza i suonatori intonano i loro strumenti. La viola
pomposa canta il tema di passione e d’amore che sarà ripreso da tutta
l’orchestra quando Francesca va lentamente verso Paolo Malatesta per
offrirgli la rosa vermiglia.
E questo tema, che domina in tutta l’opera, è di una tale elevatezza
d’inspirazione, di un crescendo di grandiosità, che il pubblico pervaso
101
da commozione profonda, non ha atteso che si chiudesse il velario per
prorompere in una ovazione veramente entusiasta al grande musicista.
Nel secondo atto, al fuoco della passione si accoppia con linea
dominante il furore bellico e già nell’episodio del fuoco greco che
arde nel mare
arde nei fiumi
brucia le navi
brucia le torri
l’impeto musicale assurge ad altezza impressionante.
Francesca non è più la dolce fanciulla che sogna e freme del suo sogno
d’amore: la sua passione si disfrena nel duetto con Paolo e mentre
l’ardore della battaglia – un quadro veramente meraviglioso – accende
uomini e cose, anche l’amore parla cupi accenti di morte e la musica tra
urla grandiose di furore e d’amore raggiunge altezze quasi ignorate.
La tecnica di questo atto. audacissimo sempre, diventa eccezionalmente
efficace nel tema d’ingresso di Gianciotto, lo sciancato, e di
Malatestino.
Tutto l’atto, seguito con crescente entusiasmo, provoca alla fine una
ovazione magnifica. Le difficoltà superate in esso sono sbalorditive e
Zandonai non è sfuggito a nessuna, sdegnando ogni banalità e mantenendo
una sobrietà di colorito singolarissimo.
La tragedia sosta ora nella dolcezza episodica dei dialoghi tra
Francesca e le sue donne coi quali si apre, per la gioia degli occhi e
dei cuori, il terzo atto nel quale la passione prorompe vittoriosa e
sublime, nel quale il musicista ha lasciato libero volo al suo
temperamento passionale e ha saputo scrivere pagine di melodia che da
tempo, da molto tempo non eravamo chiamati ad udire.
E veramente in quest’atti noi sentiamo come
è dolce cosa vivere obliando
almeno un’ora fuor della tempesta
che ci affatica.
L’oblio è dolcissimo: gli archi miniano la passione con una voce che
raccoglie le anime nella commozione più profonda.
E al canto delicatissimo di Paolo
Inghirlandata
di violette m’appariste ieri,
e al finale formidabilmente appassionato, l’onda del plauso più convinto,
più fremente chiama alla consacrazione di maggiore gloria il nostro
giovane autore,
L’ultimo atto è diviso in due quadri foschi di sangue, di strage, di
tradimento e di perfidia. E il poeta che ha dato ala sublime al sublime
amore, qui trova eguale altezza nel dare espressione formidabile allo
scatenarsi dell’odio, della ferocia, della furia distruttrice.
L’episodio di Malatestino e della feroce uccisione del prigioniero
Montagna è musicalmente efficacissimo.
L’ultima parte è una meravigliosa sintesi di tutta l’opera: la squisita
scena del sogno di Francesca e di Biancofiore ricamata sopra una
tessitura di tristezza e di pianto trascinano a viva commozione.
Prorompono
le
voci
della
passione
con
l’ingresso
di
Paolo,
e
nell’episodio sanguinoso che tronca l’infinito amore, la musica fresca,
sicura, efficacissima come nelle prime note, come in tutta l’opera, dà
102
ad esso un significato nuovo e magnifico che stupisce, esalta,
entusiasma follemente il pubblico.
Non è possibile in queste brevi note dire degnamente di quest’opera:
Riccardo Zandonai con essa si colloca in primissima linea tra i
musicisti italiani e risolve la sicura promessa del Grillo del focolare,
di Conchita e di Melenis.
Che dire della esecuzione dello spettacolo tutto, e di Riccardo Zandonai
come direttore d’orchestra?
Fu una rivelazione trionfale perché Riccardo Zandonai possiede tutte le
qualità del grande direttore e dovremmo scrivere ancora lungamente per
esaminare questa seconda attitudine del sommo artista. La brevità dello
spazio ce lo vieta. Diremo solo che l’esecuzione fu perfetta in ogni suo
dettaglio, e che tutti, orchestra ed artisti, furono all’altezza del
loro compito.
Francesca da Rimini segnerà nella storia del nostro teatro il più grande
avvenimento artistico.
***
Questi nostri apprezzamenti sull’opera d’arte comprendono già la cronaca
della première di Francesca, ma non ci dispensano, per compiere
fedelmente il dovere di cronisti, dal dire partitamente qualche parola
sugli
elementi
che
contribuirono
al
trionfale
successo
della
rappresentazione.
L’opera ha avuto una preparazione sollecita, accurata in ogni suo minimo
particolare; il che è prova della perfetta padronanza che il Maestro
Zandonai ha del teatro e dimostra la valentia dei suoi principali
coadiutori: Il Maestro Nini Bellucci, il Cav. Clausetti, il Maestro
Veneziani.
Gli artisti sono apparsi al pubblico un tutto omogeneo per cui difficil
cosa sarebbe procedere alla consueta distinzione e lode del merito
vocali. Di Maria Wroblenska, di Giulio Crimi, di Giacomo Rimini, di
Salvatore Papaccio, di Osvaldo Pellegrini, di Celestina Magnoni, per
unire in un sol fascio i principali personaggi dell’opera, si può dire:
voci belle, intonate, pronte a tutta la gamma, educate al bel canto,
arricchite di sentimento e di talento.
Giulio Crimi e Maria Wroblenska hanno avuto accenti di passione così
vivi da far scattare il pubblico sorprendendolo ora in uno ora in altro
dei momenti in cui esso si trova più intento per afferrare la melodia
che il Maestro ha saputo con facilità di vena italiana ordire.
La schiava, le ancelle, il giullare e il coro hanno pur fatto
ottimamente superando le non poche difficoltà che per quelle e per
questi presenta l’opera.
L’orchestra è stata meravigliosa; il pubblico ha avuto l’impressione che
quella massa poderosa fosse soggiogata completamente dal fascino di
Riccardo Zandonai.
L’intonazione di uno spettacolo di prim’ordine è stata mantenuta anche
dall’allestimento scenico, ciò che torna a lode dei nostri Morigi e Sora.
La sala presentava un aspetto imponente per numero di spettatori, per
notabilità artistiche, per ricchezza di luce e di toilettes.
Il trionfale successo è stato segnato da più di venti chiamate alla
ribalta agli artisti e all’autore; e il pubblico in una di queste
chiamate ha avuto il gentile pensiero di unire nel plauso e nella
riconoscenza l’editore e il sapiente riduttore del lavoro dannunziano,
Tito Ricordi.
La Società «Amici della Musica» e la città nostra, che vollero,
fermamente vollero questo spettacolo, bene meritano di partecipare alla
gioia che fu e sarà sempre di Riccardo Zandonai.
103
46
Francesca da Rimini - Il trionfale successo, «L’Idea», 1.8.1914
Dopo un lungo periodo preparatorio la nuovissima opera di Riccardo
Zandonai è andata in iscena giovedì sera al nostro «Teatro Rossini»
soddisfacendo completamente l’attesa vivissima di quanti nutrono fiducia
nel grande ingegno del giovane e forte maestro trentino che in breve
tempo si è saputo guadagnare nel mondo dell’arte un posto invidiatissimo,
ed anche – perché non dirlo? – con sommo orgoglio di tutti i pesaresi
che vedono nello Zandonai un loro concittadino e che con slancio unanime
vollero preparargli questo meritato trionfo.
E fu un vero trionfo quello di giovedì sera. Trionfo del maestro che
vede la sua fama di operista nuovamente confermata; trionfo della lirica
italiana che con Francesca da Rimini si arricchisce di una gemma
fulgidissima.
Non sta a noi – l’indole del giornale non lo permetterebbe nemmeno – far
una vera critica dell’opera, già sviscerata da grandi ed illustri
musicologi; esprimiamo solo brevi impressioni e registriamo il successo.
Il primo atto
Si apre con un movimento spigliato, con vaghi accenni di viola interna.
Compare il giullare che chiede ospitalità nel castello dei Polentani a
Ravenna. Le ancelle di Francesca lo interrogano scherzosamente mentre
passa nell’orchestra un fremito di gentilezza e di giocondità. Il
giullare canta alle ancelle e a Francesca stornelli e romanze, e in
compenso non chiede che un po’ di scarlatto per rattoppare la sua veste
sdrucita. Il giullare vuol cantare di Re Artù e del filtro magico che la
madre di Lotta [sic] ha dato a Tristano e Isotta, e la viola preludia.
Ma entra Ostasio, fratello di Francesca, fortemente vociando e
interrompendo il canto. Nel giullare il fratello Ostasio teme un
cortigiano della corte dei Malatesta, venuto a conoscenza di ogni
artificio ordito per dar marito a Francesca, scelto in Gianciotto,
orribilmente sciancato e ributtante, senza che ella lo conosca. Lo
afferra, lo picchia e lo scaccia.
Un canto giunge dalle stanze. È un ritornello di una canzone suggestiva.
La viola accompagna il canto. La pagina ha un riuscito sapore evocativo.
La buona Samaritana nell’ora dell’abbandono è anch’essa sgomenta.
Deve sopraggiungere lo sposo.
Accorre Francesca per vederlo, mentre le ancelle accolgono l’arrivato
che esse credono il fidanzato degno di lei, con esclamazioni di
meraviglia. È Paolo, venuto per mandato del fratello. Essi si arrestano
e il loro sguardo si incontra per la prima volta. Francesca presaga dice
a Samaritana: «Fa cessare il tumulto dell’anima mia». Paolo nel cortile
incontra Francesca e le si avvicina offrendole una rosa. [!] Il momento è
musicalmente denso di poesia. È intorno una atmosfera morbida,
soavissima. Un lieve tremolìo degli archi ondeggia nell’orchestra,
mentre i suonatori della loggia scandono dolcemente. La viola pomposa si
abbandona ad un canto soavissimo, accorato, al quale risponde l’oboe,
quasi gemebondo. Il ritornello risuona ancora, lievemente evocativo,
nella sua semplicità.
È un atto pieno di dolcezza.
Atto secondo
Alla serenità succede il fervore guerresco.
Nella piazza d’una torre rotonda nelle cade sei Malatesta si combatte
con la macchina infernale: il fuoco è lanciato e propagato dalla pece
greca. Giunge il nemico e uni strepito d’armati risuona per l’aria
sanguigna tra il lamento dei feriti e l’urlare dei combattenti, che si
azzuffano in una mischia orrenda.
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L’atto è molto movimentato, pieno di contrasti e dissonanze tra un
fragore di suoni.
Due episodi concedono un po’ di tregua: la scena fra Paolo e Francesca,
nella quale si ritorna in modo suggestivo alla trama dello sguardo; e
l’arrivo di Malatestino ferito. Qui la figura sanguigna di Malatestino è
resa con un contrasto abbastanza significativo.
L’atto terzo
Quando il velario si alza al terzo atto Francesca è intenta a leggere.
Le donne sedute sulle predelle in fondo trapungono gli orli di un
sopraletto ascoltando Francesca. Dopo la sera perigliosa, essa non ha
più veduto Paolo, che il Comune di Firenze volle capitano del popolo. È
questa la parte veramente lirica dell’opera. Una sonorità fluida e
leggera corona il quadro, mentre musiche tenui vengono dalle loggie.
Nell’insieme, si ha l’impressione di un’atmosfera profumata e tutta
cosparsa di poesia. Le ancelle cantano. La voce si distende sugli
arpeggi dei violini, che avvolgono il canto in una armonia soffusa,
quasi insensibile.
Di molta sostanza melodica è giudicata l’aria dello stornello che
caratterizza la prima parte di quest’atto.
La situazione saliente è però nella seconda parte, nel dialogo tra
Francesca e Paolo arrivato or ora. La situazione può soggiogare
qualunque musicista.
Zandonai più che l’onda travolgente della passione vuole seguire il
lungo indugio di Francesca, parola per parola, e dai morbidi tocchi di
colore dell’inizio, salire solo in fine alla vera esplosione che presto
dilaga nell’eco lontana delle voci interne.
È un duetto che conquide e che entusiasma. L’atto è giudicato il più
suggestivo dell’opera.
L’ultimo atto
La tragedia volge trucemente all’epilogo. La cupa figura di
sorpassata in brutalità da Malatestino. Anche egli ama
ucciderà Gianciotto purché ella lo voglia. Anche qui la
distende pervasa da quello spunto ritmico che già aveva
Malatestino, e qui nel lungo silenzio passa come un senso
La morte!...
Gianciotto è
Francesca e
sinfonia si
accompagnato
di sgomento.
Impressioni critiche
La musica del M° Zandonai è, e si deve dire, eminentemente italiana; chi
segue l’onda melodica che pervade a diversi tratti tutta l’opera con una
varietà e ricchezza stragrande, deve riconoscere nello Zandonai il
musicista geniale dalla vena inesauribile, che mai ricorre alle
rievocazioni tematiche senza che lo richieda la situazione del dramma;
il giovane maestro non ha bisogno di ricorrere a tali espedienti che,
per quanto velati del nome straniero di leit-motif, spesso servono a
coprire l’aridità del compositore.
Lo Zandonai è sempre nuovo ed originale nella invenzione tematica; è
sempre efficace nel significato descrittivo della frase musicale. È un
dominatore dei suoni; egli sa trarne qualunque effetto, sia che voglia
descrivere la gaiezza e la loquacità di giovani ancelle, sia che si
voglia infondere un senso di mestizia col canto interno della viola o
col tema della canzone di Francesca, sia che vi voglia trasportare in
una mischia feroce ed incomposta che si batte da un torrione; grida
feroci, lamenti di donne, squilli di buccine; e in mezzo a questo sfondo
tetro e spaventoso, il Maestro sa trovare la sua bella frase, simpatica,
dolce per l’incontro di Gianciotto con Francesca dopo la battaglia; il
feroce combattente diventa agnello all’apparire della sua sposa e
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l’orchestra lascia il suo clamoroso e discordante fragore, il solo
quintetto d’archi con qualche accenno dei legni descrive questo momento
patetico.
Si vede chiaramente l’alto pregio del M° Zandonai, il quale mai dimentica
il quadro dell’azione, ma lo segue nei suoi più minuti dettagli, con una
precisione ed un effetto descrittivo veramente ammirevoli.
Tutte le risorse dell’istrumentale moderno sono a lui note; ed egli le
impiega con una mano abilissima e sicura, da rendere la sua musica
afferrabile anche ai meno colti per l’effetto suggestivo che produce nel
suo complesso; il dotto può seguire tutti i singoli dettagli musicali e
la coesione ritmica delle singole frasi; l’indotto invece subisce tutto
l’influsso
di
quell’insieme
organico
di
suoni,
e
segue
quasi
inconsciamente quella forza irresistibile che lo solleva in un mondo
nuovo.
E noi ora ammiriamo questa natura così privilegiata, che in sì poco
tempo ha saputo acquistarsi il primo posto tra i moderni compositori
italiani (così hanno giudicato i critici Londinesi); questa natura così
ricca ed esuberante nelle doti intellettuali, che ora si manifesta anche
abilissimo direttore d’orchestra, senza averne fatto il lungo e faticoso
tirocinio.
La cronaca della serata
Il successo fu grandioso: cinque chiamate al primo atto, sei al secondo,
compresa una al M° Veneziani.
Il terzo atto fu interrotto alla canzone «Perché volete voi» detta con
molta
espressione
dal
tenore
Crimi
e
si
chiuse
con
ovazioni
entusiastiche. Il M° Zandonai è stato chiamato con gli artisti otto volte
alla ribalta. Alla fine di quest’atto ebbe anche una sincera ovazione i
Comm. Tito Ricordi riduttore del libretto, che assisteva da un palco di
2a fila.
Anche il quarto atto raccolse il favore entusiastico del pubblico.
Quattro chiamate.
Il M° Zandonai salutato al suo apparire da una triplice ovazione è stato
per tutta la serata l’idolo del pubblico.
Fu insomma una rappresentazione indimenticabile non soltanto per il
Maestro, ma anche per i pesaresi che hanno potuto festeggiare la
manifestazione più potente della inesauribile vitalità del compositore
concittadino.
I pesaresi devono al pari di Zandonai andare orgogliosi di simile
trionfo!
L’esecuzione fu magistrale sotto ogni rapporto.
L’orchestra suonò con slancio e precisione e fu perfetta.
Il M° Zandonai seppe ottenere dai professori tutto ciò che volle.
La soprano Maria Wrobleuska [Wroblenska] fu una «Francesca» ideale, piena
di poesia e di passione. Ebbe accenti drammaticissimi e cantò con voce
soave, calda, intonatissima. Dotata di doni preziosi e di tutte le
risorse teatrali, ha valorosamente contribuito al successo dell’opera.
Anche il tenore Giulio Crimi è un «Paolo» perfetto. Ha voce pastosa,
fresca, intonatissima e sa con semplicità passare dalla note liriche
agli accenti vibranti e drammatici. Ed è anche un bravo attore quale la
difficile parte richiede. È stato applauditissimo nella romanza del
terzo atto.
Il baritono Giacomo Rimini ha una voce possente ed intona ed interpreta
il cupo personaggio di «Gianciotto» con sincerità sottolineando ogni
frase degna di risalto e rivelando ogni intenzione del musicista. Ha
ottenuto uno schietto successo personale.
Il tenore Salvatore Papaccio fa degna corona agli altri artisti
principali e interpreta il quarto atto nella parte di «Malatestino» con
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vero intuito artistico e con chiara voce, completando così un raro
complesso primario.
Anche le parti secondarie sono ottime. Assai bene il quartetto delle
ancelle di Francesca (Valpondi, Magnoni, Budassi, Timitz); ottimi anche
il Baldassarri (il Giullare), Orlandi (Ser Toldo), Pellegrini (Ostasio),
la Ferluga (Smaragdi). I cori sotto la direzione del M° Veneziani resero
con sincerità la scena della guerra. Ammiratissime le splendide scene ed
i costumi (del Caramba).
In complesso uno spettacolo del quale possiamo andare orgogliosi, e che
poche volte è dato avere anche nei sommi teatri.
La sala naturalmente era magnifica; teatro delle grandi occasioni. Tutta
Pesaro signorile erasi data convegno alla grandiosa festa d’arte: non
v’era un posto vuoto. Erano presenti anche moltissimi forestieri e varie
personalità fra le quali notammo il Comm. Tito Ricordi editore
dell’opera, il Commendator Clausetti al quale spetta gran merito per il
grandioso allestimento dell’opera, il Duca Visconti di Modrone della
Scala di Milano, il Conte Broglio Grabinskic della celebre agenzia
omonima teatrale, il M° Rodolfo Ferrari, la celebre soprano Gemma
Bellincioni, il tenore Bassi, le soprano Maria Leacer, Giuseppina
Baldassare e tanti altri di cui ci sfugge il nome.
Un particolare: Alla fine del 2° atto il prof. Cicognani e il comm.
Ferrari vanno ad ossequiare e complimentare il M° Zandonai. Questi,
presentando il Cicognani al Ricordi presente, dice: «Ecco il mio
maestro».
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