Formazione
Base
P E R C O RS O EQ U I PE C A R I T A S D IO C E S A NA
anno pastorale 2010/2011
LECTIO DIVINA
OSSERVARE
Sr Benedetta ROSSI
Seconda tappa - Roma, 27 febbraio /2 marzo 2011
1
OSSERVARE – Es 3,1-10
Il testo che abbiamo letto è senza dubbio assai conosciuto: si tratta della narrazione del primo
incontro tra Jhwh e Mosè, un incontro nel quale troverà posto la famosa rivelazione del nome
divino (Es 3,14) e l’esplicitazione a Mosè della sua missione.
All’inizio dell’esperienza di Mosè, così come raccontata dal narratore biblico, sta un evento di
visione, messo ben in evidenza da un accumulo di verbi e sostantivi che indicano la percezione
visiva (vv. 1-6). Proprio prendendo le mosse da questa caratteristica del testo che pone il vedere al
centro, vorremmo ripercorrerlo cercando di comprendere il senso di questo vedere, le dinamiche di
questo osservare, cercando di esplorare da dove questa attitudine ha origine, come si sviluppa e
quali sono le conseguenze dell’osservazione di Mosè 1.
La straordinarietà nel quotidiano
Il brano prende l’avvio dalla descrizione di una attività di Mosè assolutamente ordinaria e
quotidiana: “Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero” (v. 1); la forma verbale usata
qui dal testo ebr. (h[,ro hy"h') indica un’azione abituale e continuata nel passato. Mosè sta svolgendo
la sua occupazione quotidiana, ma in questo egli “condusse il bestiame oltre il deserto”,
presumibilmente alla ricerca di nuovi pascoli, un evento che possiamo presupporre consueto per un
pastore. Tuttavia è bella questa attitudine di Mosè, l’uomo che nel suo quotidiano ricerca sempre un
oltre, anche faticoso da raggiungere perché posto “dietro il deserto” (cf. lett.). In questo suo andare
oltre Mosè, quasi inconsapevolmente, giunge al monte di Dio, l’Oreb. Questa direi l’attitudine
richiesta per osservare: andare oltre, “dietro” il deserto visto e attraversato; a partire da questa
attitudine il quotidiano si trasforma in momento di rivelazione, in luogo di una privilegiata
esperienza di osservazione, quasi aprendosi e svelando ciò che nasconde.
“L’angelo del Signore gli apparve”: in questo quotidiano improvvisamente qualcuno decide di
“mostrarsi”, di “farsi vedere” (questa la lettera dell’ebr. ar"YEw): ; tutto parte dal desiderio di Dio di
mostrarsi, di rendersi visibile. In particolare il testo prosegue specificando come il messaggero
divino gli apparve: “in una fiamma di fuoco” (vae-tB;l;B.). La locuzione ebr. può essere interpretata
in molti modi; seguendo Fornara, possiamo leggere la preposizione con significato strumentale:
“l’angelo del Signore si fece vedere per mezzo di una fiamma di fuoco”. Mosè non vede qualcosa di
strano e soprannaturale: è per mezzo di una realtà sensibile che il messaggero divino si rende
visibile.
E il testo afferma ancora: “dal mezzo di un roveto (hn<S.h; %ATmi)”, cioè dal centro del roveto.
L’immagine che il testo ci rimanda ad un centro verso nel quale il messaggero divino si rende
visibile; un centro che evoca quasi la presenza di un involucro, quello della realtà ordinaria di una
fiamma, la quale nel suo centro, in un modo misterioso contiene e racchiude la possibilità di vedere
Dio.
Questo offre alcune indicazioni preziose: c’è innanzi tutto la realtà, una realtà ordinaria che –
come in un involucro – contiene in se stessa una possibilità di visione più profonda, una possibilità
rivelativa dello stesso volto di Dio. Per passare dalla fiamma al suo centro è necessario andare oltre
1
Per molte delle considerazioni seguenti rimandiamo all’accurata analisi di R. FORNARA, La visione
contraddetta. La dialettica fra visibilità e non-visibilità divina nella Bibbia ebraica, AnBib 155, Roma 2004, 349-369.
2
questa realtà (ecco che torna l’attitudine quotidiana di Mosè, l’uomo che andava oltre, dietro il
deserto).
Riflessione
 Andare oltre per osservare: andare oltre nel quotidiano, nella fatica di un cammino
costante e continuo al di là, dietro il deserto… Poso lo sguardo sulla mia vita
quotidiana, fatta di azioni ripetute: alimento le attitudini che mi spingono ad andare
oltre? Oppure, al contrario, cosa mi frena?
 La quotidianità, la realtà sotto i miei occhi che diventa luogo di rivelazione… in
questa quotidianità incontro il desiderio di qualcuno di mostrarsi a me, di farsi
vedere…
Osservare per passare dagli occhi al cuore
Perché una fiamma, cioè un fenomeno di per sé assolutamente normale, diventi luogo di
rivelazione, per passare dall’involucro della realtà al suo centro non basta che qualcuno voglia
mostrarsi, è necessario osservare. Si devono incontrare due desideri, quello di colui che si fa vedere
e quello di colui che cerca e desidera vedere.
Come allora passare dal visibile all’invisibile? Dalla realtà e dalla sua forma, al suo
contenuto, al suo cuore? “Egli guardò”: ecco il primo passo di Mosè, affatto scontato. Si può
passare oltre di fronte a un arbusto che brucia o si può decidere di osservare, un gesto che richiede
innanzi tutto un tempo, il tempo necessario per rendersi conto che “il roveto ardeva nel fuoco, ma
quel roveto non si consumava”. Secondo i commenti rabbinici attraverso il roveto il Signore mise
alla prova Mosè per vedere se sapeva posare lo sguardo su di una realtà per più di un minuto. Per
comprendere che il roveto non si consuma è necessario per Mosè sostare, posare lo sguardo su
quella fiamma per un certo tempo.
Osservando la realtà, sostando di fronte ad essa, è il paradosso a diventare luogo di
rivelazione; cosa vede Mosè? Non si dice che vede l’angelo e neppure il roveto di per sé: il centro
della sua visione, ciò che diventa per lui oggetto di osservazione e contemplazione è racchiuso in
quel ma, nel paradosso di un evento contraddittorio. Solo osservando, questa contraddizione può
venire alla luce e diventare oggetto di rivelazione; solo per chi si ferma a guardare le contraddizioni
della realtà emergono e diventano luogo di senso.
Proprio questo paradosso, questo contrasto che si pone davanti all’osservatore provoca Mosè
il quale pensò: “Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non
brucia?” (v. 3). Improvvisamente il narratore ci apre uno squarcio sul pensiero di Mosè, e il lettore
attento scopre allora che lo sguardo di Mosè, catturato dalla stranezza di ciò che sta accadendo, lo
spinge innanzi tutto alla riflessione (“pensò”), suscitando in lui un desiderio (“voglio avvicinarmi”
aN"-hr"sua)' e una conseguente decisione della volontà (tanto la dimensione di desiderio, quanto quella
volitiva sono espresse dalla forma coortativa del verbo) tutte operazioni che nell’antropologia
biblica portano in primo piano un coinvolgimento del cuore. Dopo aver posato lo sguardo, per
osservare ancora, per entrare dentro la realtà e il suo paradosso è necessario un coinvolgimento del
cuore, nella sua dimensione riflessiva, di desiderio ma anche di decisione.
3
È alla fine con il cuore che si osserva, con una decisione, con un desiderio e una decisione che
ci si avvicina per osservare. È il cuore a diventare organo e strumento privilegiato di osservazione:
“ognuno vede col cuore prima che con gli occhi; e il cuore in quel momento […] vedeva soltanto le
cose che non c’erano, perché a differenza degli occhi, il cuore fissa le assenze” (cf. Primo
Mazzolari, Tra l’argine e il bosco).
Il coinvolgimento del cuore era proprio ciò che l’apparizione del messaggero divino
richiedeva, secondo sfumature e assonanze della lingua ebraica. L’angelo era, infatti, apparso nella
“fiamma di fuoco” e l’espressione ebr. che la indica (vae-tB;l;B.) è strana, presenta difficoltà. La
fiamma si direbbe qui hB'l;, sostantivo che presenta assonanze importanti con il leb, con il cuore. Sia
che l’immagine del cuore sia presente nel testo, come sostenuto spesso dall’interpretazione ebraica
e anche da qualche autore moderno, sia che essa sia solo evocata tramite l’assonanza, essa è però
sullo sfondo. C’è come un cuore, un centro nella realtà da scorgere, da osservare; è possibile vedere
questo cuore soltanto con un altro cuore, quello dell’osservatore.
Riflessione
 Osservare chiede una sosta, chiede di posare lo sguardo per un certo tempo davanti ad
una realtà… quante volte piuttosto il mio osservare è lanciare uno sguardo di fretta…
 Osservare come un atteggiamento che inizia dallo sguardo, ma ben presto coinvolge il
cuore della persona, con le sue dinamiche… considero che posto ha la riflessione nel
mio osservare?
Non solo: osservare, come abbiamo visto chiede anche un desiderio di andare verso l’altro che
si concretizza in una decisione: “voglio avvicinarmi”. Di per sé il verbo ebr. qui impiegato (rws)
significa “allontanare” (per es. Ex 8,4 “Pregate il Signore che allontani le rane da me”), “volgersi”
(cf. Dt 2,27 “camminerò per la strada maestra e non mi volgerò né a destra né a sinistra”).
Evidentemente una prima la sfumatura di senso implicata dal verbo è la seguente: per avvicinarsi al
roveto Mosè si allontana dalla propria strada, compie una deviazione dal proprio cammino,
abbandona il luogo in cui si trova.
Non soltanto: il verbo swr non indica solo un avvicinamento conseguente all’allontanamento
dalla propria strada, ma più precisamente un girare intorno al roveto. Per osservare è necessario non
solo avvicinarsi, ma dopo aver abbandonato la propria prospettiva, il proprio punto di vista, girare
intorno ad una realtà, posando su di essa lo sguardo da ogni lato, da ogni prospettiva; per contrasto,
questo tipo di atteggiamento ci rivela un rischio dello sguardo.
Lo sguardo rischia talvolta di appiattire l’oggetto di visione in una dimensione unica:
l’atteggiamento di Mosè ci rivela che questo non è possibile. “Questo grande spettacolo” chiede di
essere avvicinato da ogni lato, osservato in tutte le sue dimensioni.
“Perché il roveto non brucia?”: Mosè è mosso nel suo avvicinamento da una domanda che ha
catturato il suo sguardo. E, ancora una volta, una sfumatura del testo ebr. può essere preziosa per
offrire indicazioni interessanti; l’ebr. conosce due diverse congiunzioni interrogative per significare
“perché?”, le quali hanno alcune sfumature diverse. La congiunzione qui impiegata ([:WDm;) indica
non tanto una domanda retorica, quanto la reale ricerca di senso, di una motivazione e porta con sé
una connotazione di sorpresa (secondo Fornara, 356 n. 20 sarebbe meglio tradurre: “come
mai…?”). Questa piccola sfumatura rivela un dato: per osservare è necessario rimanere aperti alla
4
meraviglia; per osservare è necessario mantenere quell’apertura del cuore – significata da una
domanda reale, da una sincera ricerca di senso – la quale consente l’esperienza della meraviglia.
Ogni realtà osservata, ogni situazione, ogni persona porta in sé la capacità di suscitare
stupore: colui che osserva è chiamato a mantenere aperta la porta per questo stupore.
Riflessione
 Abbandonare le proprie postazioni per osservare… significa lasciare la propria strada,
le proprie certezze: quali resistenze a questo? Talvolta ho la pretesa di osservare nella
distanza, dal mio posto di osservazione…
 Girare intorno al roveto: osservare è un operazione complessa, che chiede continui
spostamenti di prospettiva; per osservare sono chiamato a riconoscere la complessità
della realtà… quando al contrario il mio sguardo appiattisce in una dimensione sola…
e giungo attraverso l’osservazione a deduzioni certe, sicure e inalterabili…
 La porta aperta per la meraviglia: lasciarsi sorprendere ancora e ogni volta… questo
passa proprio dall’abbandono delle proprie certezze, dalla consapevolezza di avere più
domande che risposte…
La distanza del mistero
Ecco che lo sguardo di Mosè, il suo desiderio di osservare, il suo muoversi per osservare
aprono lo spazio per un incontro assolutamente inatteso e imprevedibile.
È l’altro che prende l’iniziativa, il Signore, colui che aveva attirato l’attenzione di Mosè; “Dio
vide che si era avvicinato per guardare” allora “gridò a lui dal mezzo del roveto”. Nel centro di ciò
che attirava l’attenzione, nel cuore di quella realtà quotidiana, ma allo stesso tempo meravigliosa,
prende corpo una chiamata rivolta a colui che sa osservare, una chiamata che è preludio di un
incontro personale. Questa la prima conseguenza del guardare di Mosè.
Osservare una certa realtà porta con sé la possibilità di sentire un appello personale, un
appello rivolto a colui che guarda, un appello che lo coinvolge in prima persona, un appello
proveniente da quella stessa realtà su cui si è posato lo sguardo. Quella realtà ti chiama per nome.
Quale la prima richiesta contenuta in questo appello? “Non avvicinarti oltre!” (v. 5), si tratta
ancora una volta di un paradosso: prima di chiama e attira e poi immediatamente chiede di non
avvicinarsi oltre. C’è il desiderio dell’incontro, tanto da parte di Mosè – come abbiamo visto –
quanto da parte di Dio che lo chiama per nome invitandolo, ma l’incontro può avvenire solo in un
certo modo.
L’appello del Signore (“non avvicinarti oltre”) porta in primo piano una distanza, la quale
necessita di essere mantenuta; ancora una volta per contrasto possiamo capire l’ambivalenza dello
sguardo. Chiedendo il mantenimento di una distanza si lascia intendere che lo sguardo
evidentemente può prevaricare, può abbattere i limiti e le distanze, cercando di impossessarsi del
segreto di quello spettacolo bello e attraente che sta di fronte. Per questo è necessaria una distanza,
la quale evoca un mistero invalicabile. Lo sguardo non può spingersi dovunque, non può frugare
dentro il mistero.
5
Il resto del testo lo conferma: “togliti i sandali dai piedi”. Il piede calzato è il piede che
esprime la propria sovranità e proprietà sul territorio che calpesta (Sal 60,10 “sull’Idumea getterò i
miei sandali”; cf. anche Lc 15,22 “mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi”). Togliersi i sandali,
al contrario, significa la rinuncia alla presa di possesso; è il caso di Elimelec, l’uomo che aveva il
diritto di riscatto sul campo del fratello e su Rut, che rinuncia davanti a Booz al suo diritto di
possesso togliendosi il sandalo (Rut 4,8 “allora colui che aveva il diritto di riscatto rispose a Booz:
“Acquistatelo tu” E si tolse il sandalo”).
Ancora: togliersi i sandali ha a che vedere con l’impotenza; è il prigioniero ad essere portato
via scalzo, colui che si trova consegnato nelle mani di un altro (cf. Is 20,4).
Ecco allora il senso delle parole che Mosè ode davanti al roveto: non si tratta solo della
richiesta di un gesto di autoumiliazione. C’è di più: si tratta della rinuncia alla presa di possesso del
mistero, rinuncia alla propria potenza, una potenza che istintivamente desidererebbe prevaricare il
limite, le distanze; significa rinunciare al proprio diritto di possesso affermando che il mistero che ti
è dato di osservare e la relazione conseguente è dono ricevuto. Togliersi i sandali significa
consegnarsi, come prigionieri, al mistero che ti sta di fronte, scegliendo volontariamente di lasciar
cadere ogni pretesa o diritto di possesso, decidendo di non prevaricare con lo sguardo ciò che mi sta
di fronte.
Solo se allo sguardo sono accompagnate queste attitudini, allora l’altro si svela: “Io sono il
Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (v. 6). E l’identità
dell’altro può solo essere udita nella vicinanza di un tu a tu, nel momento in cui rinuncio ad
afferrarla con uno sguardo sommario.
E di fronte alla rivelazione del mistero dell’altro: “Mosè si coprì il volto, perché aveva paura
di guardare verso Dio” (v. 6). Si tratta di un gesto che conferma il mistero cui Mosè si trova
davanti: per la prima volta si impiega il verbo “guardare” (jbn), piuttosto che vedere, un verbo che
evoca uno sguardo decisamente più prolungato e intenzionale. Mosè si copre il volto, e coprendosi
di fatto gli occhi rinuncia a guardare; è un gesto di resa, un gesto con il quale si abbandona la
possibilità di gestire la situazione attraverso lo sguardo, per arrendersi al mistero. Di fatto, con lo
sguardo coperto, Mosè si consegna al mistero della voce che gli parla, e soprattutto pur non
vedendo accoglie di essere visto.
Osservare significa dunque in ultima analisi posare lo sguardo su un mistero che si riceve in
dono, un mistero non prevaricabile: non puoi guardare verso l’altro pensando di appropriarti del suo
mistero, ma lo accogli e ti lasci vedere da lui.
Riflessione
 Osservare per un incontro… lo sguardo apre la porta all’incontro con l’altro… quando
penso di poter incontrare senza aver prima osservato, posato lo sguardo sul fratello…
Solo lo sguardo apre le orecchie per ricevere una chiamata… l’appello che proviene
dal volto del fratello su cui ho posato lo sguardo… mi soffermo a sentire questo
fratello che mi chiama per nome, perché si accorge che lo sto guardando
 Il suo appello suona così: “non avvicinarti oltre”… quando al contrario con lo sguardo
rischio di prevaricare il mistero dell’altro… quando osservare diventa una scusa per
sapere e vedere tutto… l’ambivalenza dello sguardo…
6


Allora osservare a piedi nudi: mentre poso lo sguardo sul fratello lascio cadere i miei
diritti, le mie prese di possesso?
Osservare e lasciarsi osservare… quanto nell’incontro non accetto di consegnarmi al
mistero dell’altro… quante resistenze a lasciarsi osservare…
La distanza e la parola
I vv. 7-10 mostrano come il vedere, l’osservare lasci lo spazio all’esperienza della parola e
dell’ascolto. La visione con il suo mistero introduce un elemento di distanza: sono proprio la parola
e il dialogo a creare un ponte su questa distanza benedetta, a consentire la relazione con l’altro
rinunciando alla prevaricazione possibile.
Lo sguardo di Mosè posato sul roveto lo abilita, in qualche modo, ad entrare in dialogo con
quel divino che in quella realtà si stava rivelando. Osservare è dunque ciò che rende possibile il
l’ascolto e il dialogo.
Ed ecco che si viene a sapere che quel Dio stesso che era stato osservato e si era lasciato
osservare da Mosè, egli stesso per primo aveva posato lo sguardo sul suo popolo e sulle sue
sofferenze. Non solo egli ha osservato, ma ha anche udito il suo grido.
E si scopre, allora, che osservare e ascoltare sono le stesse attitudini di Dio; ecco che per
liberare il suo popolo, per agire nella storia, egli manderà colui che ha queste stesse attitudini,
manderà un uomo che come lui si è rivelato capace di osservare e ascoltare. Ecco che osservare il
mistero dell’altro, avvicinarsi per udire la sua voce, non sono semplici gesti di curiosità o nel
migliore dei casi di filantropia o pietà; essi piuttosto rivelano nella storia il mistero stesso del volto
di Dio, un Dio che osserva e ascolta il grido del suo popolo, lasciandosi toccare e muovere da
questo.
Conclusione
In estrema sintesi e in conclusione: osservare e ascoltare cambieranno la vita di Mosè, il
quale da pastore di greggi che era riceve l’incarico e la missione di essere liberatore del suo popolo.
Nella missione ricevuta (va’ io ti mando) a Mosè viene donato il senso della propria vita, del
proprio camminare, del proprio andare oltre, del suo essere pastore e della sua stessa capacità di
osservare e ascoltare. Tutto è in qualche modo finalizzato alla liberazione del popolo del Signore, a
manifestare nella storia la paternità e l’opera di un Dio che si lascia coinvolgere dal suo popolo, si
lascia muovere dal suo grido e interviene per liberarlo.
Ecco che l’osservare di colui che si pone di fronte al mistero, lasciandosi sorprendere dalla
meraviglia dell’altro, dona senso al proprio stesso esistere, finalizzando il proprio cammino verso
una meta radicalmente nuova e imprevedibile. L’esistenza di chi posa lo sguardo sul mistero
dell’altro, osservandolo e aprendo a lui il suo orecchi diventa così epifania di Dio nella storia.