Industria e comunità locale
Franco A. Fava
Settembre 2007
Testo per Storiaindustria.it
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Ad esclusivo uso didattico. Gli altri diritti riservati.
Industria e comunità locale
1. INDUSTRIA E COMUNITA’ LOCALI
1.1 Dalle cascine ai borghi operai
La creazione della periferia urbana torinese è strettamente collegata all’intersezione sviluppatasi,
sin dalla seconda metà del XIX secolo, tra le aree rurali e le prime porzioni di territorio edificate ad
edilizia popolare. Al fine di tracciare un profilo evolutivo della città industriale, attraverso i primi
insediamenti operai, è necessario argomentare, anche brevemente, il rapporto esistente tra la città
e la campagna dalla metà del XIX sec. all’inizio del XX sec.
Esaminando la mappa del territorio della Città di Torino e dintorni del 1840, curata da Antonio
Rabbini, (MAPPA) possiamo facilmente renderci conto di quanto fosse circoscritto il perimetro
urbano rispetto all’estensione agricola del territorio circostante della pianura torinese, attraversato
dall’alveo dei fiumi Po e Dora Riparia, delimitato ad ovest dall’inizio delle Valli di Lanzo e di Susa e
a sud est dai primi rilievi delle colline astigiane.
Il perimetro cittadino di Torino, fino alla metà del 1800, era delimitato ad ovest dalla struttura
fortificata della cittadella militare (1564) e ad est dalle rive del fiume Po, a sud ovest dalla piazza
d’armi (area sita in prossimità della futura stazione ferroviaria di Porta Nuova costruita nel 1861) e
a nord est dai bastioni delle mura romane, ancora in parte esistenti.
Scheda: Ferrovie e sviluppo
Lo stretto rapporto che ha legato la localizzazione delle attività produttive alla presenza
dell’energia naturale (acqua e legna), prima dell’introduzione del carbone fossile come materia
prima e dell’energia a vapore, è reso evidente dal fatto che tutti gli antichi opifici, e in particolare
le cartiere, i setifici, le fucine, le vetrerie, erano stabiliti in prossimità di luoghi ricchi di energia
naturale (boschi, canali e corsi d’acqua). Questa situazione è rimasta immutata fino a quando la
rete ferroviaria ha permesso un facile approvvigionamento delle materie prime, nonché lo
smistamento dei prodotti e dei manufatti sui mercati lontani, cambiando così radicalmente il
rapporto tra territorio ed industria.
Con il tracciato della rete ferroviaria, qualche anno prima della metà del 1800, si modificava il
rapporto privilegiato stabilito fino ad allora tra la dislocazione delle fonti energetiche ed i siti
produttivi; la rapidità del trasporto delle merci su rotaia consentiva di spostare anche le materie
prime (legno e carbone) verso i luoghi carenti di queste risorse naturali, affrancando così molti
territori dalla dipendenza dall’energia idraulica.
L’assetto urbano torinese, come rilevabile dalle mappe dell’epoca, è caratterizzato dalla presenza
di possenti bastioni della cittadella fortificata, struttura difensiva identificabile nelle planimetrie
dell’epoca come una stella a punte. Accanto alla cittadella si estendeva verso il Po un reticolato di
vie e piazze cittadine, disposte in modo ortogonale, in un disegno topografico coerente con l’antico
assetto dell’insediamento romano (castrum).
Dal concentrico urbano torinese si sviluppavano i grandi viali alberati di collegamento: ad ovest in
direzione della Reggia di Rivoli (1718), per poi continuare verso la Francia (strada di Francia) in
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direzione del valico del Monginevro, e a nord est verso Milano e del valico del Sempione, a nord
ovest in direzione della reggia di Venaria Reale (1659), e verso sud ovest verso la Palazzina di
caccia di Stupinigi (1729), costeggiando appena fuori città il Castello del Valentino (1660), eretto
lungo il corso del Po, con una successiva diramazione viaria di collegamento al Castello di
Moncalieri.
I percorsi viari dei viali alberati, costeggiati da platani, olmi e pioppi, che si diramavano dalla
capitale sabauda verso le principali residenze di corte (Venaria Reale, Rivoli, Castello del
Valentino, Palazzina di caccia di Stupinigi, Carignano e Moncalieri), e le più importanti città del
regno, si identificano facilmente sulle mappe del tempo, poiché collocati in un ampio ed
affascinante contesto di paesaggio agreste extra moenia. Tale struttura territoriale creava un
continuum tra il centro del potere regio e le principali realtà economiche del territorio del regno
sabaudo, disseminato da numerose ville con attigue cascine. La rappresentazione del territorio
descritta attraverso le mappe del tempo sottolinea in modo evidente la contrapposizione tra
l’insediamento urbano rispetto alla campagna. Anche dal punto di vista economico le funzioni tra
città e campagna sono ben distinte: la città che amministra e consuma, rispetto alla campagna che
produce beni destinati al mercato della città.
1.2 Cascine e ville fuori porta
Disseminate sull’intero territorio torinese coesistevano numerose realtà di centri di produzione
agricola, costituite dal complesso sistema socio-economico rappresentato dalle cascine. Tale
sistema agreste, rappresentato dalle cascine, discendeva precedentemente da quello arcaico
feudale, trasformato nel corso dei secoli in poderi, generalmente di proprietà nobiliare oppure della
Chiesa. Queste entità produttive si caratterizzavano dalla presenza della villa padronale (con
antistante giardino e con annessa cappella privata, dal viale, delimitato dalle alberate e dalle
pergole, a loro volta situate accanto all’abitazione rurale dei contadini addetti alla conduzione dei
campi), il tutto inserito all’interno di una vasta corte (dotata di stalla, fienile, cantine, forno a legna,
ghiacciaia e tettoie, per il ricovero dei raccolti e degli attrezzi di uso agricolo).
La nobiltà residente nei palazzi di città, nonché i primi rappresentati della ricca borghesia
(banchieri, avvocati, proprietari di filande e mercanti), si trasferivano durante il periodo estivo nelle
residenze di campagna in occasione della villeggiatura. Molte proprietà agricole erano possedute
dalle famiglie nobili strettamente legate alla Corona sabauda, come i San Marino di Agliè di
Garessio (villa e cascina il Palazzo), i Falletti di Barolo (proprietà il Casino), i Dal Pozzo della
Cisterna (la Saffarona), nonché dai rappresentanti del nuovo ceto di benestanti rappresentati dalla
nascente borghesia. Questi ultimi amavano emulare lo stile di vita della nobiltà, come i Tron
(proprietari della cascina il Gibellino), i Mignon (il Verruca), i Sombrero (il Tarino), i Martin (il
Morozzo) ed altri ancora.
Le cascine nell’area torinese, erano importanti centri di produzione agricola e di allevamento di
animali ed assolvevano ad un’importante funzione espressa nell’approvvigionamento di derrate
alimentari per gli abitanti della città.
Inoltre all’interno delle cascine si svolgevano delle attività di carattere artigianale, funzionali alla
manutenzione degli attrezzi indispensabili per i lavori nei campi, come quelle di maniscalco, di
falegname e di fabbro. Inoltre a domicilio si svolgevano delle attività manifatturiere,
prevalentemente femminili, come quelle relative alla filatura delle matasse di canapa e seta,
nonché di tessitura. Nel sistema delle cascine la competenza artigianale coesisteva con la
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sapienza agricola, in un’unità di conoscenze e di sapienze tramandate dagli avi nel corso dei
secoli.
L’economia georgica, fondata prevalentemente sul sistema delle cascine, si caratterizzava, come
abbiamo brevemente esaminato, come un vero e proprio luogo di multi servizi (pluralità rurale),
indispensabili a sostenere un’economia autosufficiente, ove il legame tra città e territorio era ben
saldo.
Dall’ altro canto l’economia della capitale sabauda era costituita essenzialmente da un lato dalle
attività del ceto militare e da quello dei funzionari dell’entourage di corte, e dall’altro lato da quello
commerciale ed artigianale, quest’ultimo specializzato nella produzione di manufatti, oggetti, capi
di abbigliamento ed accessori di alta qualità. Inoltre in alcune città del regno molti artigiani si erano
specializzati in alcuni settori di eccellenza, come quello dell’ebanisteria a Saluzzo, nei cordami a
Carmagnola, nella produzione di tessuti a Chieri e Poirino (telerie) e della manifattura in ceramica,
come quella di Castellamonte, tanto per citare le principali attività esistenti.
Tale sistema socio economico è sopravvissuto fino alla seconda metà dell’ottocento, agli albori
della prima industrializzazione del nostro territorio, per poi entrare in un lento ma inesorabile
declino. Da un lato il trasferimento della capitale da Torino a Firenze negli anni successivi all’Unità
d’Italia (1864) e dall’altro lato lo sviluppo dell’economia industriale, anche grazie all’apertura di
nuove vie di comunicazione (linea ferroviaria Torino – Genova, via Alessandria nel 1848, il traforo
ferroviario del Frejus del 1871), hanno contribuito al cambiamento nei rapporti tra le classi sociali,
nonché alla diversificazione dei flussi di scambio commerciale rimasti fino ad allora immutati per
secoli.
Con il trasferimento della capitale da Torino a Roma parte della classe dirigente, impiegata nella
burocrazia e nell’esercito sabaudo, si era spostata nella città eterna, causando una crisi d’identità
ed una depressione economica della capitale, situazione durata per circa un ventennio. Bisognerà
attendere l’ultima decade del 1800, con l’avvio di numerose attività industriali, per rivedere nella
città subalpina un rinato slancio economico. Nel delicato passaggio da capitale politica a capitale
industriale, Torino, nonostante le avversità degli eventi, si è caratterizzata successivamente anche
a seguito di un profondo cambiamento urbano, stimolato dalla nuova vocazione industriale che
stava assumendo il territorio.
L’economia locale, caratterizzata dal sistema produttivo agricolo delle cascine torinesi, entrò in
crisi in un lungo periodo di tempo, dalla metà dell’ottocento fino ai primi decenni del novecento.
Molti fattori sono stati la causa di questo declino, ma alcuni sono stati essenziali. Con
l’intensificazione degli scambi commerciali, attraverso l’apertura di nuovi collegamenti stradali e
dall’avvento delle linee ferroviarie, le derrate alimentari potevano essere importate ed esportate da
e verso territori lontani, inoltre molti prodotti agricoli iniziavano ad essere messi in coltivazione in
modo estensivo e specializzato, in aziende agricole in aree ambientali dove alcune coltivazioni (
frutticole, orticole, leguminose, etc…) erano particolarmente favorite, con risultati molto positivi in
termini di qualità e di quantità.
Un altro elemento da sottolineare è relativo al fatto che negli ultimi decenni del 1800 una
consistente quota di manodopera si spostò dalle campagne verso Torino (urbanesimo), attratta
dalla ricerca di un lavoro stabile e meglio retribuito, sovente in continuità con i mestieri già svolti
precedentemente nelle stagioni invernali quando il lavoro in campagna era ridotto. Nonostante la
crisi di Torino nel difficile passaggio post capitale, si manifestavano nuove opportunità di sviluppo
economico, correlate alle nuove attività artigianali che si stavano avviando nell’ex capitale
subalpina. L’economia cittadina richiedeva nuova manodopera da impegnare nelle manifatture e
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negli opifici, mentre l’offerta di nuovi servizi, fino ad allora inesistenti, era in crescita. Molti contadini
iniziarono ad offrire i loro servigi utili alla vita cittadina, inizialmente nei periodi in cui la campagna
non richiedeva molta manodopera: dal trasporto del legname per il riscaldamento, al servizio di
lavanderia (Lavatoi pubblici di Barca Bertolla), da quello offerto dagli spazzacamini, al rifornimento
di filoni di ghiaccio da stipare in cantina, per la conservazione dei cibi, e molti altri ancora.
Dopo la crisi socio economica della prima metà del 1800, il capoluogo subalpino realizzò, durate
l’età giolittiana, il primo decollo industriale (mentre il secondo sarà realizzato negli anni sessanta
del 1900), caratterizzando la città come importante area industriale italiana. Tra il 1871 ed il 1911 i
residenti nei quartieri esterni alla cinta daziale torinese passarono da 20.201 a 114.246 abitanti.
Tra il 1871 ed il 1891 a causa delle difficoltà economiche in agricoltura, un crescente numero di
contadini si trasferirono a Torino, anche senza avere la sicurezza di un lavoro stabile. Inizialmente
la manodopera era molto richiesta nel settore edilizio, mentre quella femminile s’indirizzava
prevalentemente nei lavori domestici e nelle manifatture. Lo sviluppo economico tra il 1880 ed il
1900 fu agevolato dalla nascente industria idroelettrica, mentre la società per azioni Elettricità Alta
Italia (1896), rappresentava la più importate realtà nel settore energetico in Italia.
Dalla seconda metà del 1800 il paesaggio di Torino iniziava lentamente a modificarsi.
Progressivamente venivano abbattuti parte dei bastioni, che avevano fortificato la città sin dal
seicento, e in lontananza si delineavano i profili dei corpi di fabbrica di opifici e ciminiere,
contribuendo a caratterizzare il nuovo profilo del paesaggio urbano torinese sullo sfondo dell’arco
alpino, in modo indelebile.
Questa trasformazione aveva interessato maggiormente le aree periferiche della città, oltre il
perimetro definito dalla cinta daziaria, nonché alcune zone limitrofe al centro città, sovente senza
soluzione di continuità con le case di abitazione di periferia.
1.3 Le barriere operaie
La cinta daziaria di Torino, creata nel 1853, si estendeva a forma di semicerchio alla sinistra del
Po, delimitando il territorio cittadino in un tracciato ora costituito dagli attuali corsi Bramante,
Lepanto, Mediterraneo, Ferrucci, Tassoni, Svizzera, Mortara, Vigevano, Novara e Tortona.
La cinta daziaria era costituita da un muro ove si aprivano degli accessi verso l’esterno, in
corrispondenza delle principali vie di comunicazione, detti barriere (da qui il nome dei futuri borghi
costituiti oltre le mura perimetrali della città). Le principali barriere erano dodici, ove in prossimità si
organizzarono alcuni centri abitati, futuri quartieri operai e di accoglienza delle prime immigrazioni,
ossia: Borgo Vittoria, Barriera di Lanzo, Campidoglio, Regio Parco, Madonna di Campagna e
Borgo San Paolo.
Con l’avvento dell’energia a vapore e successivamente con quello dell’energia elettrica, le industrie
si affrancarono dal vincolo di prossimità dei corsi dei fiumi, che per secoli avevano fornito l’energia
idraulica, indispensabile per mettere in movimento le pulegge (dall’energia idraulica e a vapore si
passò all’inizio del XX secolo all’energia elettrica).
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Scheda: Dall’energia idraulica a quella a vapore
L’utilizzo dell’acqua quale fonte di produzione di energia, attraverso lo sfruttamento della
capacità di scorrimento e di caduta, è stata uno dei fattori energetici di maggiore utilizzo nella
prima rivoluzione industriale, anche se nella storiografia l’apporto dell’energia a vapore è stato
maggiormente riconosciuto. La maggior parte dei macchinari, degli ingranaggi e delle pulegge
erano azionate dall’energia idraulica ed in misura minore dagli animali, dal vento o dal calore. La
macchina a vapore è stata certamente il fattore decisivo per lo sviluppo della prima rivoluzione
industriale, anche se l’acqua è stata contestualmente determinante per l’avvio di molte fasi del
processo produttivo, conservando un ruolo di primo piano durante la prima rivoluzione
industriale. L’energia idraulica venne sconfitta soltanto nella metà del XIX secolo a seguito del
passaggio da un’economia “organica”, basata su risorse energetiche riproducibili (acqua, suolo,
foreste), a un’economia “inorganica”, strutturata sui giacimenti minerali limitati (carbone e coke).
Tra il 1750 ed il 1760 con il posizionamento della ruota idraulica a fianco della caduta dell’acqua
al centro del meccanismo, si originava una maggiore potenza di rotazione, permettendo la
produzione di energia cinetica in quantità maggiore. A partire dal 1765 James Watt sfruttò la
potenza dell’energia a vapore, generata attraverso una caldaia, tramite il meccanismo “biellamanovella”, con la possibilità di produrre un movimento alternativo o rotativo. Con l’invenzione
della turbina (1827) l’energia idraulica continuò ad essere utilizzata rispetto ad altre fonti
energetiche, anche grazie al suo costo contenuto ed in tutte quelle attività ove era richiesta la
regolarità dei movimenti, garantita solo dalla ruota idraulica, piuttosto che da una non ancora
perfetta macchina a vapore. Nell’industria tessile l’acqua continuò ad essere utilizzata quale
fonte energetica principale, vista la presenza delle antiche manifatture presenti in prossimità dei
corsi d’acqua naturali o dei canali artificiali. All’inizio del XX secolo, con il perfezionamento delle
macchine a vapore, l’energia idraulica progressivamente fu sostituita da quella a vapore,
consentendo a molte industrie di affrancarsi definitivamente dalla dipendenza dei corsi d’acqua,
consentendo alle stesse di creare degli insediamenti in aree differenti creando così nuovi siti
industriali. L’energia idraulica continuò invece ad essere utilizzata per la produzione di energia
elettrica attraverso l’utilizzo delle turbine.
Questa rivoluzione consentì alle industrie di dislocarsi in diversi luoghi del territorio, non
necessariamente limitrofi ai corsi d’acqua, ampliando la disponibilità di nuove aree idonee per
ospitare nuovi impianti e siti produttivi. Così all’inizio del XX secolo lo sviluppo delle aree destinate
agli insediamenti abitativi si estese anche verso sud ovest della città, oltre la cinta daziaria. Borgo
San Paolo è stato uno dei primi borghi industriali ad essere insediato, creando ulteriori condizioni
per lo sviluppo demografico ed urbanistico della futura città industriale.
Il centro politico amministrativo di Torino, delimitato dal reticolo di vie e piazze: da piazza Castello
a Porta Nuova e da piazza Statuto alla Gran Madre, si contrapponeva alle nuove aree di
produzione e di servizi: al nord le manifatture e gli opifici di antico e nuovo insediamento, e a sud le
nuove industrie meccaniche. A ridosso dei nuovi siti manifatturieri ed industriali si edificarono
nuove case di abitazione, di due e tre piani, caratterizzate da cortili ove si affacciavano i balconi a
ringhiera (c.d. le case di ringhiera).
Borgo Dora
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Borgo Dora rappresenta uno dei più antichi insediamenti produttivi ove avevano sede concerie,
opifici, battitori da panno, peste da canapa e da olio, mulini per la macina delle granaglie (tra i quali
il più importante il Molassi), setifici (presenti sin dal 1600) e la la Regia Polveriera, oggi sede
dell’Arsenale della Pace del Sermig.
Borgo Dora, abitato nel 1850 da circa 20.000 residenti, si può considerare come il primo nucleo di
“quartiere operaio” della futura città industriale. La vicinanza ai corsi d’acqua aveva consentito la
diffusione delle industrie le quali utilizzavano la forza motrice alimentata dall’energia idraulica,
indispensabile per la messa in moto dei macchinari.
Barriera di Milano
Poco distante da Borgo Dora si estende quella di Milano, ove il nome del toponimo ricorda l’asse
del collegamento viario, la strada d’Italia, verso il capoluogo milanese, l’attuale corso Giulio
Cesare. In Barriera di Milano si stabilirono nuove realtà industriali, accanto a quelle tradizionali di
più antico insediamento, come quelle tessili (Opificio tessile Abrate Depanis-1869-, poi Cotonificio
Bass Abrate ed in seguito nel 1930 Gruppo Finanziario Tessile per il confezionamento di abiti
pronti; la filatura di Tollegno, il cotonificio Hofmann, la filatura dei fratelli Piacenza e nel 1917 la
Snia Viscosa). Inoltre nel borgo si insediarono nuove attività industriali, come: la Società Elettrica
Alta Italia (1896), le Fonderie Subalpine in via Bologna, le industrie Metallurgiche di via Cigna
(1914), la Gilardini (1905), le officine Barone in corso Vigevano, e la fabbrica di armamenti Michele
Ansaldi (1884), acquistata successivamente dalla Fiat Grandi Motori.
Borgo Regio Parco
In questo borgo si era insediato uno dei più antichi opifici torinesi la Manifattura Tabacchi, all’inizio
del ‘900 una delle maggiori manifatture italiane, ove trovavano occupazione manodopera
prevalentemente femminile, dedita alle attività di confezionamento manuale di sigarette e sigari.
Sempre a Regio Parco nel 1851 si stabilì la Società Piemontese per l'
illuminazione a Gas di
Torino, fondata su iniziativa dei fratelli Albani, a suo tempo proprietari di un'
industria di fiammiferi.
Nel 1856 la società si fuse con la concorrente: la Compagnia d’illuminazione a gas per la città di
Torino, dando vita alla Società Gaz -Luce di Torino. Le due officine di produzione di Porta Nuova e
di Borgo Dora furono gestite in maniera coordinata e conseguentemente unificate le due reti di
distribuzione.
Borgo Vanchiglia
Poco distante dai due precedenti borghi sorge l’insediamento di Vanchiglia, notoriamente chiamata
bôrg d’l fum (denominato “Moschino”). L’area di Borgo Dora e Vanchiglia rappresentano l’area di
primo sviluppo industriale subalpino, grazie alla presenza del vicino corso d’acqua, generato dalla
Dora Riparia, che forniva l’energia idraulica necessaria per l’alimentazione energetica dei mulini,
delle segherie, delle industrie militari e dei torcitoi di seta.
Borgo San Donato
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Il borgo, creato nel 1835 dall’unione dell’antico Borgo del Martinetto, accoglieva alcuni opifici di
origine settecentesca. Il suo sviluppo industriale era dovuto dalla presenza di un vicino corso
d’acqua: il canale Torino. Il percorso del Canale costeggiava le attuali vie San Donato, Carena, e,
sottopassando la ferrovia, giungeva fino alla stazione di Porta Susa. Il canale Torino, come altri
corsi d’acqua e bealere, è stato interrato negli anni Trenta.
Nel quartiere nella prima metà dell’ ‘800 si erano installate delle attività economiche come le
fabbriche per la produzione della birra Metzger (via San Donato 68) e Bosio-Caratsch (C. Principe
Oddone 19), le concerie Fiorio –1910 (in via Durandi 10), i mulini del Martinetto, poi Feyles (in C.
Tassoni 56), le fabbriche di cioccolato Michele Talmone –1850- (prima in via degli Artisti e poi in
via Balbis) e Caffarel del 1818 (in via Carema). Di questa tradizione industriale sopravvivono
ancora alcuni riferimenti architettonici e qualche ciminiera, nonché il ricordo di un’importante
tradizione industriale grazie ad alcune indicazioni riportate nella toponomastica delle vie del
quartiere, come: Martinetto, Industria, le Chiuse, Fucina ora Pinelli.
Borgo Rossini
Gli insediamenti industriali ed abitativi a Borgo Rossini, in prossimità di Regio Parco, sono più
recenti rispetto a quelli prima esaminati. Verso la fine del XIX secolo sono installate alcune
importanti realtà industriali come la Fonderia e smalteria Ballada (1906) ed il Gallettificio militare.
Verso il finire del 1800 in via Bologna venne eretto il fabbricato, in mattoni rossi, della muova
Centrale elettrica. Anche da un punto di vista architettonico i nuovi insediamenti industriali in alcuni
casi si identificano per la loro particolarità rispetto alle precedenti costruzioni, originando strutture
ancora oggi rappresentative di un patrimonio esempio di pregevole archeologia industriale.
L’architetto Pietro Fenoglio “ in continuità con le scelte stilistiche della sua precedente produzione
industriale… egli ( si affermò) …nella produzione civile come interprete dell’art nouveau, la
struttura dello stabilimento è concepita come una cattedrale del lavoro di ispirazione gotica.
Fenoglio accentuerà i caratteri decorativi di gusto liberty nella successiva produzione industriale.
La grande navata, illuminata sia superiormente che lateralmente, è fiancheggiata da due
navate più basse e questa impostazione determina l’assetto del fronte col grande finestrone
tripartito. Eccezion fatta per la facciata ed i tamponamenti laterali, realizzati in muratura, le strutture
di tutto l’edificio sono in tralicci reticolari di ferro” (D’Amuri).
Silvano Venchi nel 1878, in via degli Artisti, avviò un laboratorio artigianale per la produzione di
caramelle, trasformandolo nel 1905 in società anonima. Nel 1907 fu costruito, in C.so Regina
Margherita 16 un nuovo stabilimento capace di ospitare i cinquecento operai occupati. Nel 1924
Riccardo Gualino creò l'"Unica" (Unione Nazionale Industria Commercio Alimentare), riunendo
sotto questa sigla alcune importanti aziende alimentari: la Talmone, già Moriondo & Gariglio, la
Bonetti, le Fabbriche Riunite Gallettine, la Dora Bisquits e la Idea (Industria Dolciumi ed Affini).
Dieci anni dopo la Venchi assorbì l’Unica e si trasferì nel nuovo stabilimento di corso Francia 325,
oltre l'
attuale piazza Massaua, diventando così la maggiore fabbrica dolciaria torinese, con
un’importante produzione a ciclo completo di cioccolato, panettoni, confetti, caramelle e biscotti.
Borgo della Vittoria e di Madonna di Campagna
Il primo borgo ricorda nel toponimo la vittoria ottenuta dai Savoia sui francesi dopo l’assedio di
Torino del 1706. In borgo Madonna di Campagna, si stabilirono altre importanti iniziative industriali,
favorite dalla vicinanza delle comunicazioni ferroviarie e dai corsi del fiume Dora Riparia e del
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torrente Ceronda, come: lo stabilimento conciario della C.I.R. (Concerie italiane riunite in via
Stradella –1896-), la ditta meccanica Elli Zerboni –1911- (sita nell’attuale corso Venezia 11), la
manifattura Giovanni Paracchi & C. (nell’attuale via Pianezza 17) ed il calzaturificio Superga (in via
Orvieto 41), la Società Nazionale delle Industrie di Savigliano, fondata nel 1879 a Savigliano (Cn)
e poi trasferita a Torino nel 1881 (in Corso Mortara 41), la Cimat costruzioni meccaniche (in Corso
Venezia 53), la Fiat Ferriere (in Corso Mortara 41) ed il complesso per la produzione dei
pneumatici Michelin di Torino Dora ( ove il primo nucleo sorse nel 1906 in via Livorno).
Borgo San Paolo e Barriera di Nizza Millefonti
Borgo San Paolo e Barriera Nizza Millefonti sono in ordine cronologico i più recenti insediamenti
abitativi risalenti all’inizio del 1900. Borgo San Paolo si è sviluppato lungo l’asse viario di via
Monginevro in direzione delle caserme del Genio Ferrovieri e di Fanteria, edificate negli anni
trenta. In Via Boggio 19/21 si installarono le Officine Ferroviarie per la costruzione e la riparazione
delle locomotive e dei vagoni ferroviari (1880), mentre nei primi anni del 1900 si installarono le
industrie Nebiolo, Diatto (poi diventata Metalferro, in Via Rivalta), Lancia (Corso Peschiera 193),
Fiat Automobili (Corso Ferrucci 122) e la Fabbrica Italiana di Pianoforti, in Corso Racconigi.
Collegno e Rivoli
Lo sviluppo della Torino industriale in direzione di Rivoli risale ai primi decenni del 1900, periodo in
cui alcune aziende torinesi e non iniziarono a trasferii lungo l’asse di Corso Torino (oggi Corso
Francia) tra Collegno e Rivoli, al fine di ampliare le loro attività. I fattori che rendevano interessante
l’area possono essere così sintetizzati: a) facilità di accesso a Torino, b) accesso al servizio
ferroviario lungo la tratta da Torino verso la Francia, c) disponibilità di aree agricole a costi
contenuti, d) la presenza del collegamento tranviario con Torino (Linea Torino – Rivoli del 1871:
prima linea tranviaria intercomunale italiana a vapore, elettrificata nel 1910, e sostituita nel 1955
con il filobus). Inoltre nell’area tra Torino e Rivoli, sin dalla fine del 1800, si erano installate alcune
importanti attività industriali, come ad esempio le manifatture Leumann (1875), la Sales meccanica
per l’industria tipografica (1886), la Marchisio meccanica (1842) e la ditta Arlorio Vermouth (1892).
Rivoli prima della seconda guerra mondiale contava oltre ad una ventina di aziende di dimensioni
rilevanti. Nell’area compresa tra Corso Susa, Via Nizza e Via Trieste, in prossimità dello stagno
(bôleng), si erano sviluppate importanti industrie alimentari (dolciarie) come: Taglia, Graffi e
Michela & Angiolo, appellando così il quartiere nel detto popolare come bôrg del sucher (borgo
dello zucchero). Queste attività non lontane dal atri insediamenti industriali del settore dolciario,
come la Venchi Unica in piazza Massaua, nella periferia ovest di Torino, creavano, come oggi si
direbbe, un vero e proprio distretto dolciario alle porte di Torino.
Nel territorio di Collegno, lungo la dorsale viaria di comunicazione tra Rivoli e Torino in zona
Cascine Vica, da tempo vi erano installate importanti attività manifatturiere ed industriali, come: la
Fabbrica nazionale dei Pizzi, la Filp, il Saponificio dei F.lli Filippi e la fabbrica dei liquori Pietro
Viarengo, la conceria Fraschini, la segheria Durbiano, l’officina meccanica Tavella, la fabbrica di
buste e sacchetti di carta Aldo Bugnane, la Fabbrica di laterizi in cotto in regione Bellezzia.
Nell’area confinante con i comuni di Alpignano e Pianezza, in prossimità della Dora Riparia, vi
erano insediate le attività del Cotonificio Valle Susa e della Società Esercizio Molini, per la
produzione di energia elettrica.
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Industria e comunità locale
Nei primi decenni del 1900 l’area industriale si sviluppò nel campo della meccanica, a seguito
dell’insediamento di numerose attività industriali, le quali richiedevano per le loro lavorazioni ampi
spazi ed il facile accesso alle vie di comunicazione per il trasporto delle materie prime da adibire
alla successiva lavorazione, e delle merci, successivamente trasformate in prodotti finiti.
Le principali aziende storiche dell’area di Collegno-Rivoli sono le seguenti1:
Arlorio vermouth 1892/1975
Bardini distilleria 1908-1961
Busso off. Meccaniche 1928-2007
Fraschini conceria 1932-1981
Coral impermeabili e cappotti 1912-1984
Val Susa cotonificio 1906—1965
Fustella distilleria 1908-1961
Marchisio meccanica 1842-1991
Maule 1921-2006
Michela Angiolo alimentari 1927-1951
Mussino Rapetti vestiario 1927
Musso Tessili 1927
Officine pavesi meccanica 1929-1989
Vica meccanica 1906-2006
Soc. Molini energia 1900-1953
Fabbrica Pizzi 1912-1984
Fast Nebiolo meccanica tipografica 1924-1953
Fergat 1922-2006
Filiup pellame 1927
Filp Lime 1924-1986
Fisia trattamento acque 1925-1975
Graff dolci 1930-1972
Henn saponi 1911-1965
Persero fornace 1927
Rosa minerali 1927
Saiag gomma 1935 –1984
Sales Poligrafici 1886-1965
Sir saponificio 1911-1965
Taglia alimentari 1933
Tavella meccanica 1936
Viarengo alimentari 1928-1985
Lievito Bertolini (1911)
Nizza Millefonti
La Barriera di Nizza-Millefonti si estende lungo il percorso del fiume Po in direzione di Moncalieri. Il
suo sviluppo come area industriale risale al primo insediamento della Fiat (fondata l’11 luglio 1899
al numero 35 di corso Dante). Dopo pochi anni, a seguito del successo ottenuto dall’azienda
automobilistica, l’insediamento industriale richiedeva la disponibilità di maggiori dimensioni, al fine
di garantire grandi produzioni di autovetture. Inoltre bisognava disporre di nuovi spazi per
organizzare un ciclo di produzione, fondato sulle nuove teorie organizzative del lavoro provenienti
da oltre oceano e messe in atto negli stabilimenti Ford di Detroit (il Taylor -Fordismo). Nel 1916
1
www.stroriadelleindustrie.comune.rivoli.to.it
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Industria e comunità locale
iniziarono i lavori della costruzione dello stabilimento del Lingotto, a firma dell’architetto Trucco,
inaugurato nel 1922. La presenza della nuova fabbrica, al tempo una delle più moderne al mondo,
caratterizzò inesorabilmente i tempi ed i ritmi di vita del quartiere.
Dopo pochi anni s’insediarono nuovi stabilimenti, come quello della Riv Skf (1923), originaria della
Val Chisone e specializzata nella produzione di cuscinetti a sfera, e la Microtecnica in via Madama
Cristina 147, industria per la costruzione di macchinari di precisione.
Nel 1929 s’iniziò l’edificazione del nuovo complesso ospedaliero del San Giovanni Battista e della
Città di Torino, in quanto l’antico edificio del 1600 del Castellamonte, in Via Giolitti, non era più
idoneo a garantire lo sviluppo della moderna scienza medica. In prossimità del fiume Po, in
un’area insediata da orti urbani, furono costruiti i nuovi padiglioni ospedalieri del nuovo Ospedale
delle Molinette, nome derivato dalla presenza di molti mulini che alimentavano le pompe idrovore
utilizzate per prosciugare l’area acquitrinosa. Nelle vicinanze esisteva sin dal 1832 la manifattura di
Giovanni e Vittorio Lanza, specializzata nella produzione di candele, unificata nel 1905 con
l’oleificio Lombardo Piemontese T. Ovazza, dando luogo ad una nuova società denominata: S. A.
Stearinerie e Oleifici Lanza2.
Nel quartiere coesistevano da un lato gli insediamenti industriali e dall’altro lato il nuovo complesso
ospedaliero, rendendo il tessuto sociale eterogeneo ed atipico rispetto ad altre barriere. Il quartiere
Nizza Millefonti - Lingotto si distingueva dagli altri insediamenti industriali della città, proprio per la
sua diversità, essendo nel contempo un quartiere operaio e di servizi, almeno fino alla fine degli
anni settanta del ‘900 quanto lo stabilimento Fiat Lingotto cessò la produzione d’automobili.
Borgo Filadelfia
L’insediamento abitativo di borgo Filadelfia, nello sviluppo delle periferie torinesi tra le due guerre
mondiali, è stato l’ultimo in ordine cronologico. Nel 1926 si inaugurò il campo da calcio della
squadra granata del Torino (il mitico Fila), FOTO, in via Filadelfia angolo con via Giordano Bruno.
Intorno agli anni trenta si avviarono i lavori per la costruzione dei nuovi Mercati Generali e della
nuova sede della Dogana (1931) in Corso Sebastopoli. Accanto a questi nuovi insediamenti
sorsero i primi nuclei di case popolari I.A.C.P. nel quadrilatero delimitato dalle vie: Tunisi, Taggia,
Reduzzi e Montevideo, accanto alla Chiesa di Madonna delle Rose ed al Convento dei Frati
Domenicani. Il quartiere di Borgo Filadelfia, separato dal percorso della ferrovia e collegato dal
sottopassaggio del lingotto, costruito nel 1936, assunse una caratteristica prettamente
commerciale. La specificità commerciale del quartiere è stata ulteriormente segnata nel 1957
dall’apertura del primo supermercato alimentare piemontese organizzato con il sistema di vendita
all’americana a selft service (Supermercato Garosci in Via Tunisi angolo Piazza Galimberti),
concorrendo così alla nascita di un nuovo sviluppo commerciale e di uno straordinario
cambiamento della società italiana, proiettata sin dagli anni sessanta al consumismo.
1.4 Villaggi operai
Lo sviluppo dei primi insediamenti operai a Torino è stato caratterizzato da importanti fenomeni
sociali, come ad esempio l’immigrazione di popolazioni dalle campagne verso la città
(urbanesimo), il cambiamento dei mestieri, di abitudini e di stili di vita. Tra la metà e la seconda
metà dell’ottocento assistiamo ad un’immigrazione di prossimità dalle campagne torinesi verso il
2
http://marcoeula.tripod.com/id1.html
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Industria e comunità locale
capoluogo. L’avvio delle prime importanti fabbriche ed opifici richiedeva la disponibilità di
manodopera, alimentata in buona parte dai flussi di popolazione provenienti dalle campagne.
Inoltre con lo sviluppo dell’industria tessile la richiesta di manodopera femminile era crescente e
nello stesso tempo diventava per molte famiglie un’occasione di preziosa integrazione al limitato
reddito. La manodopera proveniente dalle campagne portava con se non soltanto forza lavoro, ma
anche molte competenze artigianali, tipiche della conduzione dell’economia agricola. Il lavoro nelle
campagne non era soltanto indirizzato al lavoro nei campi ed all’allevamento del bestiame, ma i
contadini erano in molti casi abili artigiani, capaci di affrontare le quotidiane esigenze dovute alle
riparazioni dei macchinari agricoli. Inoltre, sin dal 1700, al reddito famigliare si sommava quello
correlato alle piccole attività di tessitura e l’allevamento dei bachi da seta, prevalentemente
condotte dalle donne. Il concorso di queste circostanze facilitarono lo spostamento di molti
contadini dalle campagne verso la città, grazie alle abilità artigianali spendibili nei nuovi
insediamenti industriali.
Con lo sviluppo delle barriere operaie anche il modello abitativo della città subì una lenta ed
inesorabile trasformazione. Torino fino all’unità d’Italia si distingueva essenzialmente come città
amministrativa e militare. Anche dal punto di vista urbanistico, gli insediamenti abitativi
caratterizzavano la città capitale del Regno sabaudo. Nei palazzi di Torino gli spazi aulici (piano
nobile, secondo piano, androne d’accesso alla strada con scalone d’onore e cortile con annesso
giardino) comunicavano, tramite un sistema di disimpegni, con le parti messe a reddito, ossia gli
alloggi dei piani alti, le soffitte, i magazzini nel seminterrato e le botteghe al piano terra. I palazzi
della città erano abitati da diversi ceti sociali, al piano nobile ed al secondo piano risiedevano i
componenti della famiglia proprietaria del palazzo, mentre agli ultimi piani, comprese le soffitte,
abitavano i famigli addetti ai lavori domestici ed i vari affittuari. Nei locali collocati al piano terra, in
prossimità dei cortili e dei giardini interni, trovavano inoltre abitazione i giardinieri, gli addetti alle
scuderie e gli artigiani. In alcune vie i palazzi ospitavano impiegati e militari che prestavano la loro
opera al servizio della corte, ed anche in questo caso la servitù alloggiava agli ultimi piani, mentre
al piano terreno si affacciavano negozi e botteghe artigiane. In questo contesto i diversi ceti sociali
coesistevano nelle stesse abitazioni, anche se separati in ambiti ben distinti. Con lo sviluppo delle
borgate operaie si verificò l’inizio di una separazione abitativa tra le classi sociali a livello
territoriale e di quartiere. Le barriere erano abitate prevalentemente da contadini immigrati e da
artigiani, mentre la borghesia commerciale ed impiegatizia, trovava alloggio nei nuovi quartieri
periferici al centro storico della città. Anche i fabbricati si differenziavano a seconda della classe
sociale che vi abitava, gli immigrati abitavano nelle case a ringhiera con i servizi igienici in comune
sistemati in un angolo del ballatoio, mentre il nuovo ceto borghese abitava nei nuovi palazzi ove
era presente l’acqua corrente, ed erano dotati di servizi igienici all’interno di ogni abitazione. Questi
ultimi palazzi si disponevano su quattro o cinque piani, con gli appartamenti disposti sul lato della
strada, mentre all’interno del cortile si affacciavano abitazioni più modeste, collegate da una
seconda scala di accesso separato dallo scalone principale, prevalentemente abitate dalla piccola
borghesia urbana.
Nelle borgate operaie al di fuori della cinta daziale, i servizi sociali per la popolazione erano ridotti
al minimo. Il comune metteva a disposizione i servizi igienici essenziali, come bagni e lavatoi
pubblici al fine di garantire un minimo di igiene personale.
Nelle borgate operaie la presenza dei mercati rionali garantiva l’approvvigionamento alimentare
degli abitanti delle città, anche se la presenza degli orti urbani accanto alle case di abitazione
rappresentava per molti abitanti una concreta possibilità d’integrazione al limitato reddito familiare.
Le aree mercatali erano presenti in città da molto tempo, ma i mercati alimentari delle nuove
borgate potevano disporre di maggiore spazio, nonché di un approvvigionamento quotidiano dalle
campagne, anche grazie ai legami mantenuti dalle popolazioni emigrate di recente in città dalle
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Industria e comunità locale
vicine cascine. Le derrate alimentari offerte in quei mercati erano vendute a minor prezzo e la
scelta di prodotti era maggiore. Grazie a queste condizioni favorevoli ancora oggi Torino mantiene
il primato italiano ed europeo della città con il maggior numero di aree mercatali, con la presenza
del più grande mercato alimentare d’Europa, quello di porta Palazzo, dotato dal 1916 di spazi al
coperto con tettoie in ferro in stile Liberty.
La struttura sociale delle borgate, abitate dalla nascente classe dei lavoratori, favorirono tra i
residenti lo sviluppo di un forte sentimento di appartenenza e di identificazione alla borgata. A
causa delle difficili condizioni di vita e di penuria di servizi sociali, tra gli abitanti si erano instaurati
importanti rapporti di solidarietà e di aiuto reciproco. La solidarietà si esprimeva nei legami di
vicinato ove le relazioni di solidarietà, tra parenti, amici e compaesani, erano intense. Nello stesso
tempo le Società di Mutuo Soccorso estendevano i primi servizi di assistenza tra gli operai per far
fronte a situazioni difficili, come la malattia, l’indigenza a seguito della perdita del posto di lavoro, la
prematura morte del capofamiglia, sovente unico produttore di reddito, ed in aiuto all’assistenza ai
minori bisognosi. Nelle borgate erano presenti i circoli delle prime società operaie di mutuo
soccorso (una delle più antiche si trovava in Via Omega 5 nel quartiere di San Donato), le Case
del popolo, i primi circoli Socialisti che associavano l’attività ricreativa a quella politica, ma anche le
bocciofile e le filodrammatiche per trascorrere il limitato tempo libero a disposizione. Inoltre le
parrocchie assolvevano ad importanti compiti educativi rivolti ai più giovani. L’opera di Don Bosco,
attraverso l’istituzione degli oratori, è emblematica nell’educazione dei giovani appartenenti ai ceti
sociali più modesti, residenti nelle aree marginali della città (come ad esempio a Valdocco). La vita
quotidiana delle borgate era scandita dai nuovi tempi di lavoro, non più dettati dai ritmi dei lavori
dei campi, bensì dal fischio delle sirene delle manifatture. La città era ancora una realtà lontana e
slegata dal territorio della barriera, tanto che quanto gli abitanti della borgata andavano in centro
dicevano: n’doma a Turin, quasi come se dovessero affrontare un viaggio verso una realtà lontana
ed ignota.
L’avvicinamento tra centro e periferia è avvenuta a seguito dell’avvio dell’esercizio regolare delle
prime linee tranviarie della Società Tranvie Municipali (A.T.M.), sorta a Torino nel 1907, con la
gestione delle prime sette linee di tram, riscattate dalla Società Alta Italia. Nel 1915 Torino contava
quindici linee di trasporto pubblico gestite dall’A.T.M. e diciassette da società private, tra le quali la
Società Belga, successivamente assorbita dal Comune di Torino nel 1922.
Verso la seconda metà del XIX secolo con l’affermarsi delle prime grandi manifatture, in alcune
realtà industriali europee, su impulso di grandi famiglie di imprenditori, si avviarono originali
progetti di urbanizzazione in prossimità degli stabilimenti per soddisfare le impellenti esigenze
abitative delle maestranze. In Italia i principali esempi di villaggi operai sono riconducibili a quelli di
San Leucio (Caserta), Crespi d’Adda in Lombardia, di Schio in Veneto, Trossi e Rivetti a Biella e
quello di Leumann a Collegno (Torino). In molti casi l’intervento sociale delle industrie era
circoscritto alla sola costruzione di case per gli operai. In alcuni casi emblematici l’azione
filantropica di illuminati imprenditori cercò di materializzare un’utopia, finalizzata ad unificare i
tempi del lavoro con quelli della vita quotidiana. La filosofia di fondo era quella di creare una micro
società ove la componente del lavoro doveva rientrare in un complessivo rapporto di legame con
l’industria, quasi a voler circoscrivere in un unico spazio (villaggio) i destini umani. I villaggi operai
modello offrivano non soltanto migliori condizioni abitative, rispetto agli standard del tempo (le
casette dotate di servizi igienici, con l’orto ed il giardino attiguo), ma erano organizzati con strutture
per tempo libero (il teatro, la biblioteca ed il campo di calcio), nonché forniti di servizi sociali,
educativi o di aggregazione, come lo spaccio aziendale, l’infermeria, l’asilo, le scuole elementari e
la chiesa. Il villaggio era la risposta concreta al problema dovuto alla lontananza dal luogo di lavoro
delle maestranze e consentiva altresì all’imprenditore di perseguire una serie di vantaggi pratici,
come la regolare presenza sul posto di lavoro delle maestranze, ma anche di controllo sociale sui
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Industria e comunità locale
dipendenti. Da un lato i miglioramenti dei servizi igienici previsti nelle nuove abitazioni e la
vicinanza al posto di lavoro contribuivano ad una diminuzione dell’assenteismo, mentre dall’altro la
disponibilità di un servizio d’assistenza all’infanzia, come l’asilo per i bimbi, favoriva l’inserimento
del lavoro femminile in fabbrica, una manodopera meno costosa rispetto a quella maschile. Inoltre
la formazione di una comunità accanto alla fabbrica poteva affievolire i conflitti sociali tra
imprenditori ed operai, diffondendo l’idea di una solidarietà e di un legame tra le classi,
sconfessando nei fatti la nascente ideologia socialista che contrapponeva i lavoratori ai capitalisti.
Inoltre il controllo sociale delle maestranze era molto più facile all’interno del villaggio, ove la
fabbrica rappresentava sempre di più non solo l’occasione di lavoro per il capofamiglia e per le
mogli, ma anche l’opportunità di utilizzare servizi sociali fino ad allora sconosciuti, ad eccezione di
quelli messi ai disposizione dalle mutue cooperative. I villaggi operai rappresentavano delle vere e
proprie “macchine” per abitare e per lavorare (Falansterio), con una forte valenza da parte
dell’imprenditore nel voler programmare non soltanto i tempi di vita lavorativa, ma anche quelli del
“non lavoro”. In compenso i villaggi operai offrivano una qualità di vita certamente superiore
rispetto agli standard conosciuti dalla classe operaia alla fine del XIX secolo, in termini di servizi
igienici ed assistenziali. La presenza degli orti accanto alle abitazioni proponeva agli occhi degli
operai un’illusione di continuità con il passato contadino, nonché rappresentavano anche dal punto
di vista pratico anche una possibile disponibilità di ortaggi e frutta.
Le esperienze più significative di villaggi operai in Piemonte ed in Liguria la ritroviamo in alcuni
insediamenti come:
Vigliano Biellese: il villaggio operaio Trossi e Rivettti
Il 10 aprile 1905 veniva registrata a Londra la Società Anonima Pettinatura Italiana Limited, con
sede legale a Bradford e stabilimento a Vigliano Biellese. A gestire lo stabilimento a Vigliano, quale
rappresentante della società in Italia, fu designato Carlo Trossi. Nel 1916, a causa della
lontananza e dei saltuari rapporti con la casa madre inglese, la società inglese fu liquidata e
sostituita da una nuova società. Trossi e Rivetti, questi ultimi anche loro da tempo impegnati nel
commercio del tessile, diedero così vita alla nuova società C. Trossi e Ditta Giuseppe Rivetti e
figli, subentrando alla precedente gestione inglese.
“…Da una parte la tipologia delle casette era quella che meglio si prestava all’acquisto. Inoltre era
la forma abitativa preferita dall’azione filantropica dei grandi industriali sia per una visione
naturalistico-romantica connaturata allo spirito nordico (esperienze di Howard, Owen, Fourier), sia
per il fatto che le grosse industrie promotrici di queste iniziative erano prevalentemente situate in
campagna o all’estrema periferia della città, dove il costo dell’area non incideva moto sulla
costruzione; inoltre era netto l’interesse nel “fissare” una popolazione operaia sana e ben
alloggiata, quindi più produttiva…” (Massimo Scolari cit. p. 119 in “Tipi e trattati sulle case operaie:
le origini”).
“…sono maturate nel corso del tempo svariate proposte da parte di architetti e urbanisti, filantropi e
sociologi,….dal villino al grattacielo, dalla città giardino alla città verticale, dal falansterio alle
siedlungen, dall’unitè di Le Corbusier alla broadacre di F.L. Wright: tentativi di rappresentare e di
dare forma attraverso pietre e parole, forme e impianti alla nuova realtà…” (cit. p. 40 I villaggi
operai Trossi e Rivetti: un’analisi storico architettonica, a cura di Cesare Piva, 2000)
14
Industria e comunità locale
Il Villaggio Trossi e Rivetti, non distante dall’insediamento industriale della Pettinatura Italiana
(1920), era così organizzato:
•
Case operaie bi famigliari all’inglese con bow window (1920-1923)
•
Chiesa di San Giuseppe (1926)
•
•
Cine Teatro Erios (1927)
Il nome del teatro, da alcuni in passato messo in relazione con “Erion”, in greco “lana”, è la
sigla che corrisponde a “Ermanno Rivetti Opere Sociali”.
•
Convitto femminile (1939)
•
39 edifici residenziali a due piani
•
2 lavatoi pubblici
•
35 palazzine a due piani
•
3 villini
•
1 cottage
•
forno e macello
Collegno – Cascine Vica : il Villaggio Leumann
Tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900 fu costruito il Villaggio Leumann in località di Cascine Vica nel
comune di Collegno, accanto all’omonimo cotonificio avviato dall’industriale svizzero Napoleone
Leumann. L’opificio era stato fondato nel 1875 in un’area dotata di corsi d’acqua artificiali (bealere,
presenti sin dal XVI sec., alimentate dalle acque della Dora Riparia) e ben servito nei trasporti
grazie alla vicina della stazione ferroviaria di Collegno, sulla linea verso la Francia. Nel cotonificio
si svolgevano le lavorazioni di tessitura, di tintura dei tessuti ed il finissaggio. Il villaggio progettato
in stile liberty dall’ing. Pietro Fenoglio è costituito da abitazioni disposte su due piani mono e bi
famigliari per operai ed impiegati, con attiguo giardino. L’impostazione del villaggio è caratterizzata
da ampi viali interni costeggiati da alberi, con edifici per i servizi sociali essenziali, come: il convitto
per le giovani operaie provenienti dai vicini paesi di montagna impegnate nelle attività stagionali
invernali, il circolo sociale, lo spaccio alimentare (ove era vietata la vendita di alcolici compreso il
vino al fine di garantire una quiete pubblica) ed i bagni pubblici. All’interno del villaggio era stata
costruita una chiesa, un asilo nido, la scuola elementare, l’ufficio postale e la “stazionetta”, ove si
fermava il treno che collegava Torino (piazza Statuto) a Rivoli (la prima linea tranviaria
intercomunale con locomotiva a vapore in Italia - 1871)3.
Villaggio case operaie a Torino de “La Cooperante”
3
http://www.atts.to.it/documenti/storia_tram_torino_1.php, http://www.villaggioleumann.it/eventi.php?IDevento=52
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Industria e comunità locale
Un’interessante esperienza di villaggio operaio è quella della Società di Mutuo Soccorso La
Cooperante a Torino. Sul lungo Po Machiavelli, poco prima di Corso Regina Margherita, esisteva
fino a metà degli anni sessanta il quartiere-villaggio dell’omonima Società cooperativa, costruito
nel 1889. L’iniziativa si avviò grazie alla concessione, a prezzo di favore di un terreno comunale, al
fine di offrire un’abitazione salubre e comoda in una “località sana ed amena”, non distante dal
fiume Po e dalla collina torinese, agli operai delle manifatture della zona4.
Testona (Moncalieri): Villaggio di lavoratori agricoli del 1938
Sopravvive a Testona (frazione di Moncalieri), sebbene alterato nel tempo da successivi
rifacimenti, il villaggio per lavoratori agricoli edificato nel 1938. Il villaggio per i lavoratori agricoli è
composto da dodici case unifamiliari alle pendici della collina, firmato dai progettisti Passanti e
Perone, dei quali si deve anche il progetto dell’attigua Manifattura. Il complesso manifatturiero
sorge nel verde di un grande parco ai confini tra Torino e Moncalieri, si presenta come un edificio
monumentale e nello stesso tempo leggero, grazie all’architettura classicheggiante che lo
contraddistingue dagli altri insediamenti simili del territorio circostante. La zona di Testona è
attigua all’area di importante tradizione tessile settecentesca: Chieri e Poirino, con una particolare
vocazione alla tessitura dei filati di cotone e di lino.
Buttigliera: il villaggio delle Ferriere
Nella frazione Ferriera di Buttigliera Alta (To) verso la fine del 1800 la famiglia Vandel, proveniente
dall’omonima frazione del Comune di Jounge in Francia, impiantò una fabbrica di chiodi e di
attrezzi agricoli. Nel 1890 Giuliano Vandel arrivò a Buttigliera Alta e valutata l’idoneità del luogo per
installarvi una fabbrica, acquisì un mulino ed i terreni circostanti, incoraggiato nell’opera dalla
marchesa Clementina Carron dell'
Ordine Mauriziano e dall'
amministrazione Comunale. Alla fine
del 1891 iniziarono le attività dell’industria e la località prese il nome di Ferriere, in ricordo di La
Ferriere Sous Jougne, paese di provenienza dei Vandel e delle maestranze trasferitesi in loco. Per
far fronte alle necessità abitative Vandel avviò la costruzione di case operaie, sia per le
maestranze francesi e sia per quelle italiane. Grazie all’iniziativa di Vandel la valle delle Ferriere
dopo pochi anni fu al centro di un vero boom economico, grazie alla disponibilità di acqua e
legname, come risorse naturali, necessarie per far funzionare le caldaie, le forge, i magli, le
trafilerie e le chioderie. Non lontano da Buttigliera Alta ad Avigliana nel 1872 Alfred Nobel fondò
l’omonimo dinamitificio, approfittando dell’abolizione nel 1869 del monopolio statale sulla
fabbricazione degli esplosivi. Anche questa iniziativa ebbe un grande successo industriale, tanto
da caratterizzare all’inizio del 1900 la zona tra Avigliana e Buttigliera Alta come un territorio ad alta
industrializzazione.
Perosa Argentina: Gutermann ed Abbegg
Nell’area di Perosa Argentina, tra la Val Chisone e quella Germanasca, sin dalla metà del 1800 ha
avuto inizio un importante processo di industrializzazione, prima nel settore tessile e poi nel ‘900 in
quello meccanico (la Riv). L’avvio di importanti manifatture per la lavorazione dei cascami di seta e
di un cotonificio si deve essenzialmente a due importanti famiglie straniere: i Gutermann,
provenienti dalla Germania, e gli Abbegg, originari della Svizzera. Queste realtà industriali si
inserivano in un territorio ricco di tradizioni nel settore tessile grazie alla presenza di filande, a
conduzione famigliare, esistenti sin dal 1700. L’avvento degli insediamenti manifatturieri attirarono
4
http://www.comune.torino.it/circ7/pagine/cooperante.htm
16
Industria e comunità locale
centinaia di persone dalle valli limitrofe, rendendo necessarie delle rapide trasformazioni
urbanistiche e la costruzione di nuove case per gli operai ed impiegati, nonché dei convitti per le
lavoratrici stagionali, scuole, asili e dopolavori. Dalla seconda metà del 1800 il lavoro a domicilio
nel campo tessile è stato soppiantato da quello nelle manifatture, organizzate con nuovi cicli di
lavoro e dotate di nuovi e moderni macchinari. La produzione di tessuti nelle manifatture poteva
garantire una varietà ed una quantità di manufatti molto maggiore rispetto a quella fornita dal
lavoro domestico. L’industrializzazione in queste piccole realtà cittadine, rappresentava una
trasformazione importante nel tessuto sociale ed economico, tanto da identificarle i ritmi del paese
con quelli della fabbrica, mutando in poco tempo gli usi e costumi della comunità, rimasti immutati
per secoli.
Il villaggio Snia Viscosa a Torino
Il villaggio operaio Snia Viscosa sorge nella periferia nord di Torino in prossimità dell’attuale
accesso all’autostrada per Milano. Costruito nel 1925 su progetto dell’architetto Vittorio Tornelli,
rappresenta una tipicità nel panorama cittadino, nonché anche rispetto ad altri villaggi operai. Il
villaggio sorge in prossimità degli stabilimenti della Snia Viscosa, azienda fondata dall’eclettico
imprenditore Riccardo Gualino (Biella 1879 - Firenze 1964) negli anni venti del novecento, con il
compito di mettere in produzione la “seta artificiale” utilizzabile in sostituzione delle fibre naturali, a
costi minori.
Il villaggio è costituito da una serie di palazzine disposte su tre piani che si affacciano su cortiligiardini interni. L’insediamento, rispetto ad altre tipologie del genere, si caratterizza
essenzialmente come quartiere abitativo e la presenza di servizi, rispetto ad altri esempi di villaggi
operai, è meno importante.
Il Villaggio operaio di Condove della Società Moncenisio
Fortunato Bauchiero nel 1905 avviò a Condove, importante sede di mercato dell’area della bassa
Valle di Susa, gli stabilimenti della Società Anonima Bauchiero, poi rinominate Officine
Moncenisio e successivamente Fiat Vertek, trasformando la vocazione prevalentemente agricola e
commerciale del paese. La presenza industriale a Condove della Società attirò molta manodopera,
sia dalle zone più povere della montagna e sia dagli altri paesi della valle e del Piemonte, in
particolare da Savigliano e da Carmagnola. Il notevole afflusso di maestranze propose in breve
tempo al Comune il problema delle case e dei servizi sociali. Fortunato Bauchiero, industriale
filantropo, programmò ed attuò un piano di sviluppo abitativo del paese, dotandolo di case per gli
operai ed impiegati, nonché dei principali servizi sociali. L’insediamento abitativo sorse a
cinquecento metri dalla fabbrica in un contesto ancora agricolo. La Società Anonima Bauchiero
iniziò ad edificare le prime abitazioni sin dal 1907, con la costruzione di una serie di villette per gli
impiegati e di case a tre piani per gli operai, delimitate da giardini e cortili interni. Nel 1911 fu
progettata la villa Bauchiero, con un’architettura liberty di particolare pregio. Lo sviluppo del
villaggio operaio continuò con la Società Moncenisio, secondo gli intendimenti del suo fondatore,
nel periodo dal 1934 al 1940, con l’organizzazione di servizi sociali al fine di migliorare la qualità
della vita degli abitanti del villaggio, costruendo: scuole, bagni pubblici, l’infermeria, locali di
incontro, un campo sportivo, un refettorio stabilito in un edificio su due piani, ed un asilo. Negli anni
cinquanta l’ampliamento del villaggio continuò ad opera dell’istituto pubblico Ina case.
17
Industria e comunità locale
Il Villaggio Anselmetti di Cogne
Nei pressi dei siti estrattivi di Cogne in Valle d’Aosta, negli anni trenta fu fondato un villaggio per
accogliere i minatori impiegati nelle miniere di Cogne. Il sito minerario di Cogne, nel Parco
Nazionale del Gran Paradiso, è il più famoso della Valle d’Aosta rispetto a quelli di: Aosta, Orfeuille
(Valgrisenche), Ollomont, Saint Marcel, Ussel, Challand e Champdepraz. Il complesso estrattivo
delle Miniere di Cogne (situato a 2500 m sul Monte Crepa) era collegato alle acciaierie di Aosta
attraverso un sistema di trasporti particolarmente complesso composto da gallerie e da percorsi di
trasporto ferroviario del materiale estratto. Le case, costruite ai margini della funivia Costa del
Pino, creavano nel loro insieme l’ambito di un piccolo villaggio alpino, dotato di locali ad uso
sociale e di una chiesa dedicata a Santa Barbara. Il villaggio era stato concepito al fine di
rispondere ai bisogni abitativi sia dei minatori stabili e sia di quelli stagionali. La miniera
rappresentava per molti lavoratori stagionali un’importante integrazione al reddito della povera
economia di montagna. Di conseguenza si rendevano necessari degli alloggiamenti anche per i
lavoratori stagionali oltre che per quelli stabili con le famiglie a seguito. Il Villaggio di Cogne è ora
integrato nel contesto del Museo Minerario Regionale Alpino della Valle d’Aosta5.
Il Villaggio operaio della Ferrania a Cairo Montenotte (Sv)
Il complesso industriale della Ferrania di Cairo Montenotte risale al 1917, data in cui la F.I.L.M.
(Fabbrica Italiana Lamine Milano) assorbì gli impianti della S.I.P.E. (Società Italiana Prodotti
Esplodenti), realizzando la più grande industria fotografica italina, ceduta nel 1964 all’americana
3M. Il complesso della Ferrania, firmato dai progettisti Moretti, Portaluppi e Mongoni, presenta
numerosi esempi architettonici industriali di pregio, come l’ex centrale elettrica e quella
termoelettrica Sipe, ingentilite all’esterno dall’elegante rivestimento in mattoni rossi alternati da
elementi in ferro secondo lo stile liberty littorio, nonché le palazzine ed i fabbricati adibiti alle varie
lavorazioni industriali. Fuori del complesso industriale, lungo il viale della Libertà, in direzione di
San Giuseppe di Cairo, si disponevano le case operaie, organizzate in villini bi famigliari, dotati di
eleganti bow window, inseriti in un grazioso contesto di città giardino. Il villaggio era dotato di una
struttura associativa (il Cral), anche questo edificio di particolare pregio architettonico, con
all’interno sale di incontri e per la proiezione cinematografica6.
La Spezia: il Villaggio Umberto I ed il borgo a Ponzano Belasio in Val Magra
La presenza di villaggi operai nel versante levante ligure, ed in particolare nella provincia di La
Spezia, è dovuta all’insediamento dell’arsenale Militare e al conseguente sviluppo industriale
nell’area spezzina. Le origini dell’Arsenale militare risalgono al 1749, data in cui si sviluppò l’idea di
attrezzare il golfo di La Spezia con strutture marittime ad uso militare, grazie alle sue favorevoli
condizioni logistiche. L’avvio dei lavori per la costruzione del porto militare risalgono invece al
1862, quando l’area portuale diventò a tutti gli effetti di interesse militare. In provincia di La Spezia
esistono due interessanti siti di Villaggi operai: il quartiere Umberto I, sorto ai margini del centro
storico del capoluogo del levante ligure, e il borgo di Ponzano Belasio, ubicato nella piana della
bassa valle del fiume Magra.
A seguito dell’epidemia di colera del 1884, che aveva colpito con intensità La Spezia, si pose con
urgenza il problema di edificare delle abitazioni salubri anche per soddisfare la crescente richiesta
di abitazioni, a seguito dello sviluppo della nuova area industriale.
5
6
www.centrosviluppo.it/_download_pup.cfm?dwd=2513,1
http://www.ticcihcongress2006.net/paper/Paper%2011/Luciano.pdf
18
Industria e comunità locale
Il nuovo complesso abitativo sorse ad ovest del centro storico di La Spezia, nell’area pianeggiante
di Piandarana, L’impianto urbanistico a pianta ortogonale prevedeva residenze popolari, abitazioni
per gli impiegati, caratterizzate da edifici in blocco, in stile umbertino, suddivisi per isolati.
Il secondo insediamento per gli operai è quello ubicato in Val Magra, nei pressi della Ceramica
Vaccai Spa, azienda insediatasi sin dal 1800 su di una preesistente fornace di laterizi (la Società
anonima stabilimento ceramico Ellena). L’opificio, stabilito lungo il torrente Belaso a Ponzano nella
piana della bassa val Magra, si inserisce in un contesto prevalentemente agricolo. Il villaggio, ora
in parte demolito, era costituito da case su due piani con edifici a corte, con cortile interno di
accesso alle unità immobiliari, dotati di servizi igienici in comune. Il villaggio era servito da uno
spaccio aziendale, di una Chiesa ed in posizione preminente spiccava la villa Vaccai, residenza
della famiglia dell’imprenditore, in stile liberty.
1.5 Case popolari
Nel 1888 fu fondata a Torino la società cooperativa La Cooperante, con l’intento di costruire case
operaie ai propri iscritti e/o su incarico di aziende per i propri operai, come nel caso delle case
operaie della Martini e Rossi a Torino. Il complesso abitativo fu edificato tra il 1888 ed il 1902 nella
zona di barriera di Orbassano, oltre la cinta daziaria, tra le attuali Vie A. Pigafetta e G. da
Verrazzano. L’impianto architettonico dell’insediamento, predisposto dal’ing. Camillo Riccio, è
caratterizzato da una tipologia di fabbricati isolati di tre piani fuori terra con due alloggi per piano
dotti di servizi igienici all’interno, allineati perpendicolarmente lungo l’asse stradale e separati tra di
loro da cortili longitudinali. Al pino terreno sorgevano botteghe e negozi. Tutto l’insediamento può
essere identificato come il primo esempio di edilizia aziendale torinese, come eredità urbana della
tradizione dei villaggi operai del 1800.
Nel solco delle esperienze architettoniche di edilizia popolare, avviate in Inghilterra nella seconda
metà del 1800 (working class housing), come ad esempio il sobborgo giardino di Bedford park a
Londra, all’inizio del XX secolo si diffuse nel nostro paese il loro modello urbano, con lo scopo di
rievocare ai margini della città, secondo un impostazione ideologica intrisa di “nostalgie ruraliste”,
alcuni luoghi abitativi di pace agreste capaci di allietare il rientro a casa dei lavoratori dalle fatiche
del lavoro in fabbrica.
Sin dagli anni sessanta dell’ottocento era attiva la Società Torinese delle abitazioni popolari (Stap).
Soltanto verso la fine del 1800 la Stap trovò un nuovo slancio grazie al sostegno del Comune di
Torino, nel destinare aree fabbricabili per l’edilizia popolare, ed ai contributi finanziari elargiti da
alcuni rappresentanti dell’industria, come Napoleone Leumann, membri del consiglio di
amministrazione. La società aveva altresì coinvolto nella progettazione importanti architetti
dell’epoca, come Pietro Fenoglio, caratterizzando in modo esemplare l’architettura torinese nel
settore dell’edilizia popolare, come gli insediamenti abitativi in Via Vanchiglia, Corso Regina
Margherita ed in Via Oddino Morgari, costruiti con influssi architettonici che s’ispiravano all’opera
dello spagnolo Antoni Gaudi.
Nel 1903 l’istituto per le Opere Pie di San Paolo, opera fondata a Torno nel 1563, deliberò la
costruzione di un gruppo di case economiche destinato “…ad offrire gratuito ricovero a vedove di
operai con prole, in speciali condizioni di bisogno, con preferenza per quelle i cui mariti avessero
perdutra la vita in seguito di infortunio sul lavoro…”.
L’insediamento in Via Vigone, in barriera San Paolo oltre la cinta daziaria, era costituito da sei
fabbricati indipendenti a due piani fuori terra con due alloggi simmetrici per piano. A seguito
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Industria e comunità locale
dell’emanazione della legge Luzzati sull’edilizia popolare (1902), nel 1907 con R.D. fu fondato
l’istituto per le case popolari riconosciuto come Ente Morale. Nel 1914 l’edilizia popolare
municipalizzata si era diffusa in molti comuni italiani (trentuno) di cui diciotto avevano scelto la
forma giuridica di azienda speciale (tra cui Torino) e i restanti tredici avevano optato per
l’intervento diretto nel settore dell’edilizia popolare. Il primo cantiere del neonato istituto torinese fu
aperto su di un terreno municipale in barriera di Milano, delimitato dalle Vie Pinerolo, Schio, Cuneo
e Damiano (un tempo Via Mondovì), accanto agli stabilimento della Fiat Grandi Motori.
Seguirono altri interventi edificativi come quelli in regione Valdocco, grazie all’offerta finanziaria del
cotonificio Torinese del gruppo Mazzonis, interessato a garantire la presenza di alloggi popolari nei
pressi dei propri opifici. In quel periodo l’industria declinò ogni intervento diretto nell’edificazione di
case operaie in favore di finanziamenti indiretti, sottoforma di contributi e donazioni di terreni
edificabili, al nuovo Istituto pubblico case popolari, al fine di favorire l’insediamento abitativo delle
proprie maestranze in quartieri in prossimità degli stabilimenti.
Seguirono altri insediamenti di case popolari: Via Cimarosa, Via Bologna e Via Ponticello (odierne
Via Tripoli e Via Casteagnevizza); Via Chianocco, Revello, Foresto e Corso Racconigi; Via Villar,
Principe d’Anhalt e Vittoria in luogo della cascina Colombè, Via Farini, Tommaseo, Faà di Bruno e
Pallavicino, su terreno assegnato dalla Società Italiana per il Gas; ed in Corso Spezia angolo Via
Santena.
2. WELFARE AZIENDALE TRA DOPOLAVORO ED ASSISTENZA
2.1 Le origini dello stato sociale
Con l’emanazione dello Statuto Albertino (1848) ed il conseguente riconoscimento delle libertà
associative, in Piemonte nascono le società di mutuo soccorso (la prima fu fondata a Pinerolo nel
1848), e le società operaie di ispirazione mazziniana. Fino all’unità d’Italia lo sviluppo delle S.M.S.
restò circoscritto solo al Regno di Sardegna, unico Stato italiano che conservò uno statuto liberale
dopo il 1848. L’intervento delle S.M.S. nel campo dell’assistenza, tradizionalmente organizzato
dalla Chiesa attraverso le Opere Pie ed altre istituzioni caritatevoli, si diffuse tra le maestranze
occupate nei principali insediamenti operai dell’epoca, ma anche tra i contadini e i minatori.
L’urbanizzazione e l’avvio della prima rivoluzione industriale nel nostro paese, consentì ad un
numero crescente di persone di entrare in contatto tra di loro, favorendo lo scambio di idee e la
discussione sui principali problemi di vita quotidiana. Cresceva altresì la consapevolezza della loro
condizione di vita e dei bisogni quotidiani, trasformando le aspirazioni per un futuro migliore in
rivendicazioni sociali e sindacali, temi assunti successivamente verso la fine del 1800 dai primi
movimenti socialisti e libertari nei loro manifesti politici.
Le problematiche comuni erano essenzialmente riconducibili alle condizioni lavorative, alle
abitazioni malsane e carenti di servizi igienici, alla mancanza di assistenza sanitaria,
all’analfabetismo diffuso, alla necessità di forme di assistenza per la vecchiaia, contro la
disoccupazione e le invalidità. Molte di queste situazioni di svantaggio sociale erano state
affrontate fino ad allora grazie alla solidarietà all’interno della famiglia allargata a più generazioni (il
clan famigliare), mentre in molti altri casi, con l’aiuto e l’intervento della Chiesa, attraverso l’azione
delle Opere Pie.
20
Industria e comunità locale
In Inghilterra i primi interventi pubblici nel campo sociale (Poor law del 1601) sono antecedenti
all’avvento della prima industrializzazione (XVIII sec.), con un ulteriore importate sviluppo dopo il
secondo conflitto mondiale del novecento, a seguito delle politiche di welfare state avviate dal
governo laburista Eaden nel secondo dopoguerra (rapporto Beveridge del 1942 sulla povertà). In
Francia le prime normative nel campo assistenziale si hanno dal 1830 in avanti, mentre in
Germania la legislazione sociale prende avvio con il governo Bismark nel 1883 con uno slancio ed
una portata tale da identificarle come l’inizio del moderno welfare state.
Il giovane stato unitario italiano, iniziò ad affrontare la questione sociale attraverso alcuni interventi
legislativi, al fine di uniformare gli interventi assistenziali pubblici esistenti, superando le disparità
presente nei singoli stati pre unitari. Il 3 agosto 1862 fu varata la legge 753 sull’ordinamento delle
Opere Pie, con l’intento di riorganizzare il settore delle Opere, essenzialmente di emanazione di
Congregazioni religiose.
Con la legge Crispi del 1890 le Opere Pie sono riorganizzate ed in parte soppresse,
trasformandole in IPAB (Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficenza), ove l’assistenza pubblica si
affiancava a quella benefica nel campo dell’assistenza sociale e delle cure sanitarie.
Nel 1886 fu approvata la legge che riconosceva a livello giuridico le S.M.S., consentendo ad
alcune di queste, rispondenti ai requisiti di legge, di essere riconosciute come Enti Morali. La
diffusione dell’industrializzazione e l’intensificarsi della “questione sociale” indussero la classe
dirigente di ispirazione liberale al varo di una serie di interventi legislativi, al fine di tutelare la
popolazione dalle nuove forme di povertà, riconducibili alle rapide trasformazioni economiche e dal
cambiamento dei ritmi di lavoro.
Considerate le mutate condizioni sociali del paese, con particolare riferimento all’avvio di nuove
forme di lavoro nelle grandi fabbriche del nord e la nascita di nuovi movimenti sindacali e politici,
anche la Chiesa si pose la questione di una sua nuova dottrina sociale, rispondente alle mutate
condizioni della società. Con l’emanazione dal parte di Papa Leone XIII dell’enciclica apostolica
Rerum Novarum (1891) l’intervento caritatevole della Chiesa, di millenaria tradizione svolto
attraverso le Opere Pie, non era più sufficiente a soddisfare le nuove forme di povertà in una
società in rapido cambiamento, con particolare riferimento alle aree urbane.
L’enciclica articolava in modo organico in una serie d’interventi della Chiesa nel campo sociale,
con l’idea di fondo di una conciliazione tra capitale e lavoro, nonché nel rispetto della proprietà
privata, attraverso la convergenza di interessi tra operai e datori di lavoro.
Verso la fine del 1800, dopo la drammatica fase di crisi di conflitto sociale di fine secolo, si
crearono le condizioni di collaborazione tra le forze liberali progressiste ed i settori riformisti del
socialismo, inaugurando un nuovo periodo di riforme. Nel 1902 fu emanata la normativa sulla
tutela sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sul lavoro nei luoghi insalubri, sulla tutela dei minorenni
nelle fabbriche, nuove norme sui limiti dei lavori notturni e l’introduzione delle pause di lavoro. Nel
1903 con il varo della legge Luzzati fu regolamentato l’intervento pubblico nel settore dell’edilizia
popolare, con l’istituzione a livello comunale di appositi istituti pubblici. Nel 1904 fu approvato il
testo unico sulle leggi in materia sanitaria e sulla tutela degli infortuni sul lavoro, introducendo il
principio di rischio professionale ed estendendo ad altre categorie lo schema assicurativo
obbligatorio, varato nel 1898. Nel 1897 fu introdotto il riposo settimanale festivo per i lavoratori
delle fabbriche.
Con l’allargamento del suffragio elettorale, ancora limitato al genere maschile, nel 1912 lo stato
liberale estese i diritti di cittadinanza anche sul versante delle politiche sociali.
21
Industria e comunità locale
In questa breve sintesi sulle tappe salienti dell’evoluzione dello stato sociale, possiamo delineare
alcune trasformazioni avvenute nell’ambito dell’intervento del privato nelle politiche sociali. Fino
alla metà del 1800 la Chiesa attraverso le Opere Pie e le Congregazioni, nonché anche attraverso
le Misericordie, continuava ad essere la principale erogatrice di varie forme assistenziali. Con
l’avvento delle Società di Mutuo Soccorso e le corporazioni dei mestieri iniziò a diffondersi una
solidarietà di impronta “laica”. Nello stesso tempo l’intervento filantropico di ricchi esponenti dei ceti
nobiliari, ma anche della nascente borghesia che aveva fatto fortuna nel primo sviluppo industriale
nel campo della manifattura tessile e nelle attività finanziarie, destinavano periodicamente, come
da tradizione, delle somme in denaro in favore della Chiesa ma anche alle S.M.S.
Con l’avvio delle prime riforme post unitarie il giovane Stato italiano portò nell’ambito pubblico
l’attività delle Opere Pie, trasformandole in Ipab e sottraendole al controllo esclusivo della Chiesa,
con nuove regole nell’esercizio delle molteplici attività assistenziali. In questa fase assistiamo ad
un allargamento dell’intervento dello Stato nel campo sociale, esercitato dai governi liberal
democratici con legislazioni in favore ed a tutela dei lavoratori.
Nel nostro paese le politiche sociali dello stato sono indicate con la dizione di Previdenza sociale,
che si riferisce ai principali schemi assicurativi obbligatori introdotti nei primi decenni del 1900,
come: le pensioni di vecchiaia, gli assegni di invalidità, di disoccupazione e familiari, le normative
sugli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali.
L’azione del privato, rappresentato dalle SMS e dagli imprenditori, s’indirizzò successivamente
verso l’erogazione di servizi riconducibili all’assistenza sociale, completando in modo sussidiario le
carenze pubbliche del settore. Lo stato italiano, dall’inizio del 1900 e poi successivamente nel
ventennio della dittatura, sviluppò i settori di previdenza sociale obbligatoria nel settore
previdenziale, infortunistico e di assistenza sanitaria, lasciando ancora spazio all’intervento privato
tramite le casse mutue sanitarie (come ad esempio la Malf – Mutua assistenza lavoratori Fiat -, e
molte altre di diverse altre categorie professionali: elettrici, commercianti, coltivatori diretti etc…).
I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale Assicurazioni Invalidità e Lavoro – 1933)
I.N.P.S. (Istituto Nazionale Previdenza Sociale - 1939)
E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza- 1937)
O.M.N.I. (Opera Nazionale Maternità ed Infanzia – 1925)
2.2 Le origini del Welfare aziendale
Forme di sostegno e di aiuto caritatevole le ritroviamo nella civiltà contadina, con elargizioni dei
proprietari fondiari rivolte ai contadini bisognosi, esporti alle carestie, ai continui esodi nel periodo
invernale, dovuti al termine dei contratti di mezzadria ed alle condizioni di grave difficoltà in cui
versavano le famiglie numerose, ove solo l’assistenza delle istituzioni religiose sovente poteva
garantire la loro sopravvivenza.
L’intervento delle aziende in favore delle maestranze sottoforma di aiuti e benefici sociali, si
sviluppa nel nostro paese dalla metà del 1800 in concomitanza con l’avvio delle prime grandi
manifatture ed opifici. Il riferimento culturale di queste azioni sociali, da parte dell’imprenditore, è
ricondotto principalmente a delle politiche definite con il termine di paternalismo nei rapporti con i
dipendenti, al fine di mitigare le tensioni politiche e sindacali all’interno dei posti di lavoro.
Nei paesi del nord Europa di cultura calvinista, la restituzione di una parte dei proventi, derivanti
dalle imprese economiche, rappresentava una giusta ricompensa alla società da parte di coloro
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Industria e comunità locale
che avevano fatto fortuna. Nel nostro paese invece l’intervento benefico, oltre alle motivazioni
esposte in premessa, rappresentava anche per molti imprenditori una concreta azione di carità
cristiana, in aiuto verso i più sfortunati.
Quest’ultimo atteggiamento lo ritroviamo sia nell’intervento dell’imprenditore in favore dei propri
dipendenti ma anche rivolto verso l’intera comunità. Questo duplice percorso, che spesso ritrova
comuni punti di contatto, si manifesta attraverso le opere benefiche indirizzate ai propri dipendenti
e nelle azioni liberali di pubblica beneficenza, ove i beneficiari sono i componenti dell’intera
comunità. Nel primo caso l’interesse dell’imprenditore è orientato anche alla creazione di rapporti
sociali meno conflittuali all’interno della fabbrica, utilizzando la “leva benefica” al fine di richiedere
alla proprie maestranze un maggiore coinvolgimento nel campo lavorativo, oltre al riconoscimento
del giusto compenso dato in termini salariali per il lavoro svolto. La creazione di un clima positivo
nei rapporti tra i sottoposti ed i superiori è ritenuto da molti imprenditori un’importante condizione
lavorativa al fine di rasserenare il clima di lavoro e di migliorare la qualità del prodotto.
Nel secondo caso invece, sovente, l’imprenditore cerca attraverso l’intervento filantropico un
consenso pubblico alla propria azione imprenditoriale, collocando la propria opera in un contesto di
pubblica utilità. Creare sviluppo, benessere e posti di lavoro rappresentano per l’imprenditore le
condizioni indispensabili per il miglioramento complessivo della comunità. Attraverso le tasse
l’imprenditore paga la quota dovuta sul legittimo profitto, al fine di contribuire alla gestione dei
servizi dello stato. Ma tutto ciò non basta. L’imprenditore si rende conto di dover elargire un di più
alla comunità, al fine di essere riconosciuto anche come un benefattore. Le elargizioni creano i
presupposti per un clima di maggiore collaborazione tra la presenza della grande industria,
sovente portatrice di diverse problematiche dall’impatto ambientale alle problematiche sociali nella
comunità di accoglienza.
In ulteriori casi invece l’imprenditore è motivato anche a creare, attraverso le opere sociali, le
condizioni per il perseguimento di valori etici e religiosi, oppure ancora a realizzare un’utopia (ad
esempio la realizzazione della Comunità di lavoro di A. Olivetti).
L’esperienza delle Società di Mutuo Soccorso, nate poco prima della metà del 1800, esprimeva tra
gli associati il valore della solidarietà, collocando queste iniziative a fondamento di un’ etica tra i
lavoratori, elemento generativo del futuro sviluppo delle rappresentanze sindacali all’interno dei
primi grandi insediamenti industriali.
Parallelamente la classe degli imprenditori cercò di sviluppare un analogo comportamento
virtuoso, fondato sulla riconoscenza all’impegno prestato sul lavoro delle maestranze e dal
desiderio di creare all’interno delle grandi industrie momenti di socializzazione, capaci di migliorare
il clima di relazione tra le persone e di assopire, ove possibile, i contrasti dovuti a causa dei pesanti
ritmi lavorativi, ed all’organizzazione di lavoro sempre più alienante.
Considerato lo sviluppo dei servizi sociali messi in atto dallo Stato attraverso le assicurazioni
obbligatorie, gli imprenditori iniziarono ad erogare fondi al fine di migliorare la qualità della vita dei
dipendenti. Le grandi aziende iniziarono sin dagli anni trenta del novecento ad offrire soggiorni
marini e montani per i figli dei dipendenti (Colonie estive), contestualmente a quelle organizzati
dalle Federazioni dei fasci locali, durante il ventennio della dittatura. Le grandi aziende
sovvenzionavano e si facevano promotrici di associazioni sportive amatoriali nel settore del calcio
e del ciclismo, ove i dipendenti erano i principali artefici, venivano erogate borse ed assegni di
studio ai figli meritevoli dei dipendenti per sostenerli nei corsi di studio superiori, si costruivano asili
nido in favore dei figli delle lavoratrici in prossimità dei luoghi di lavoro, venivano aperti spacci
aziendali, ove i dipendenti ed i familiari potevano fare la spesa a costi ridotti e sostenevano le
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Industria e comunità locale
bocciofile costituite da ex dipendenti in quiescenza. Durate le festività natalizie si erogavano pacchi
dono per i figli dei dipendenti consegnati durate la festa della Befana benefica. Per le maestranze
si destinavano doni di “fedeltà” aziendale al compimento dei venticinque o trent’anni d’azienda o
in occasione del pensionamento. Non ultimo si istituì il servizio dei refettori, poi sostituiti da quello
delle mense aziendali, riconosciuta come un’importante conquista delle classe lavoratrice negli
anni sessanta, con il pagamento del pasto, inizialmente limitato ad una minestra calda sovente
proposta ad un costo simbolico (Mensa aziendale Olivetti 19617).
Inoltre le aziende iniziavano a finanziare i Cral aziendali con l’obiettivo di sostenere le attività
ricreative tra i dipendenti, anche in questo caso al fine di migliorare i rapporti tra i lavoratori e
l’azienda.
Questi servizi ed erogazioni sociali potevano essere molto diversificate secondo la dimensione
dell’azienda e della loro capacità finanziaria di intervento in tali opere. In alcuni casi l’appartenenza
come dipendente ad un’azienda particolarmente generosa nel campo del sociale, rappresentava
un vero e proprio status symbol, sovente invidiato da coloro che ne erano esclusi. Essere
dipendente di un’azienda erogatrice di importanti attività sociali era un segno di distinzione verso
gli altri cittadini, considerato che al tempo le politiche sociali dei Comuni non erogavano con tale
generosità i benefici sopra citati.
2.3 Luoghi, strutture e servizi del welfare aziendale
I servizi sociali
Dai primi decenni del XX secolo, il welfare aziendale introdotto in molte grandi e medie aziende, si
è manifestato essenzialmente sottoforma di servizi assistenziali, ma anche sotto l’aspetto
ricreativo, sportivo e culturale. Tali interventi sono finanziati tuttora da numerose aziende in favore
dei propri lavoratori e spesso costituiscono un vero e proprio salario accessorio (fringe benefit). I
servizi sociali promossi dalle aziende rappresentano l’evoluzione degli interventi nel sociale, avviati
inizialmente dalle Società di Mutuo Soccorso a beneficio dei propri soci, nonché di quelli nei primi
interventi abitativi promossi dalle manifatture per le proprie maestranze (villaggi operai e
sovvenzioni per la costruzione di case popolari in prossimità dei luoghi di lavoro).
Con lo sviluppo della prima industrializzazione italiana e con la diffusione dei nuovi sistemi di
organizzazione industriale del lavoro, di derivazione tayloristica, si crearono al centro nord i primi
grandi agglomerati produttivi con la presenza di centinaia di operai. I ritmi lavorativi delle catene di
montaggio e le difficili condizioni di lavoro da un lato e la nascita delle prime organizzazioni
sindacali dall’altro lato, sollecitarono gli imprenditori ad adottare una serie di interventi sociali,
come una sorta di compensazione ai faticosi ritmi di lavoro, al fine di contenere il malumore tra gli
operai e contrastare le contestazioni sindacali, con un approccio di tipo paternalistico.
Contestualmente l’imprenditore, attraverso gli interventi sociali, ricercava un consenso pubblico al
suo operato al fine di migliorare il suo rapporto con la collettività, ben consapevole delle
problematiche causate dalla presenza dei grandi insediamenti industriali, portatori di una
trasformazione sociale non sempre accompagnata dalla presenza di servizi essenziali (case,
servizi sociali, scuole, etc..), nonché causa di problemi di carattere ambientale (l’emissione di
vapori, di rumori, inquinamenti di vario genere, etc…).
L’intervento degli imprenditori nel campo assistenziale, ed in misura minore in quello ricreativo,
costituiva uno strumento utile per migliorare il clima all’interno dell’azienda, integrando e a volta
sostituendosi ai servizi pubblici, assai limitati, del giovane Stato unitario.
7
http://www.mamivrea.it/collezione/edifici/mensa.html
24
Industria e comunità locale
I servizi di carattere sociale attivati da molte aziende sono di seguito riassunti per tipologia:
•
Colonie estive e campeggi
Nel 1856 il dott. Giuseppe Baretti condusse a Viareggio tre bambini indigenti affetti da scrofolosi,
patologia invalidante di origine tubercolare, constatando dopo il soggiorno climatico un notevole
miglioramento delle loro condizioni di salute. Da quella data lo sviluppo degli ospizi e
successivamente delle colonie marine ebbero una rapida diffusione in tutto il paese. In Liguria si
diffusero molte di queste strutture di accoglienza climatica, come a Loano ove l’ing. P. Fenoglio
progettò nel 1909 l’edificio della Colonia Marina Piemonte.
Le Colonie sono state istituite per consentire ai bambini fra i sei e i dodici anni di trascorrere un
soggiorno di circa venti -trenta giorni in condizioni climatiche ed igieniche ideali, al fine di
contrastare la scrofolosi.
Le Colonie erano anche luoghi di aggregazione per i giovani ove potevano iniziare un primo
cammino di indipendenza dalla famiglia, nonché praticare sport, imparare le regole di convivenza e
di disciplina. Nel periodo fascista l’organizzazione delle colonie marine trovò un ulteriore sviluppo
con l’apertura di strutture capaci di ospitare centinaia di giovani, come quelle di Rimini e a Marina
di Massa.
Industrie come l’Olivetti e la Fiat sono state tra le prime ad organizzare tale servizio per i figli dei
dipendenti. L’Olivetti metteva a disposizione le Colonie marine di Marina di Massa e quelle
montane a Brusson in Val d’Aosta. La Fiat in occasione dei primi venticinque anni di fondazione
dell’azienda fondò nel 1924 a Challand Saint Victor la prima colonia climatica. Seguirono dopo
pochi anni quella di Marina di Massa e di Sauze d’Oulz. Le strutture di accoglienza climatiche,
marine e montane, furono organizzate da molti grandi Comuni, come quello di Torino, e da molte
aziende, come l’azienda elettrica torinese.
Durante il corso dell’anno molte aziende organizzavano anche dei campeggi di alcuni giorni, sul
modello di quelli dei Boy Scout in località montane tramite le iniziative promosse dall’ufficio di
assistenza sociale presente in fabbrica, come attività preparatorie alla partecipazione alle colonie
estive.
•
Assistenza materno infantile ed asili nido
L’assistenza sanitaria alle lavoratrici e dei figli dei dipendenti, veniva incontro alle necessità di
erogare dei servizi sanitari non facilmente fruibili nei giorni lavorativi a causa degli impegni di
lavoro delle donne in fabbrica. Inoltre molte aziende, come l’Olivetti, anticiparono le normative sulla
tutela delle lavoratrici madri (D.Lgs 860/1960) con permessi e periodi di aspettativa pagati pre e
post partum. Dopo il periodo di allattamento e di svezzamento le mamme potevano, in molte
grandi fabbriche, affidare i loro piccoli ai nidi ed agli asili aziendali, generalmente vicini ai luoghi di
lavoro, evitando così lunghi trasferimenti tra casa, lavoro e nido. I nidi e gli asili per l’infanzia,
avevano una fisionomia di centri di igiene fisica e mentale per il bambino, ove si organizzavano
una serie di iniziative per l’infanzia sia nel campo pedagogico e sia in quello della salute.
Disponevano altresì di personale qualificato come educatrici e puericultrici ed erano attrezzati con
mense interne. Una di queste strutture all’avanguardia era presente preso l’azienda Olivetti di
Ivrea.
In molte realtà industriali era attivo un servizio pediatrico, generalmente con sede in un locale
attiguo all’asilo nido. L’attività di medicina pediatrica si organizzava in: un ambulatorio, un
consultorio, un’assistenza giornaliera ai bambini dell’alilo-nido, visite preventive per l’ammissione
ai soggiorni presso le colonie climatiche, il servizio di vaccinazioni e di profilassi.
Tali servizi erano presenti in molte medio-grandi città, promossi dall’OMNI (L’Opera maternità ed
infanzia fondata nel 1925), ma non sempre le numerose richieste di iscrizione dei bimbi potevano
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Industria e comunità locale
essere soddisfatte a causa delle limitate disponibilità di accoglienza delle strutture infantili. Il
servizio aziendale per la custodia dei figli delle dipendenti veniva incontro a queste necessità,
sostituendosi ed integrandosi a volte ai servizi pubblici ove esistevano.
•
Doposcuola, collegi e scuole tecnico-professionali
In alcune grandi aziende, come ad esempio in Olivetti, funzionavano dei servizi di doposcuola
rivolti ai figli dei dipendenti iscritti ai corsi di avviamento professionale e alle scuole medie, come
ad esempio avveniva ad Ivrea a cura dell’Olivetti per i figli dei dipendenti. Altre aziende
agevolavano la frequenza delle scuole superiori per i figli dei dipendenti attraverso la disponibilità
di accoglienza in Collegi e Convitti, ove la distanza abitativa delle famiglie non sempre consentiva
la frequenza dei corsi superiori presenti soltanto nelle principali città. Quest’ultimo servizio nel
tempo si è sostituito con l’erogazione di borse di studio ai ragazzi meritevoli di aiuto.
Nel campo scolastico aziende come la Fiat avevano organizzato delle scuole professionali al fine
di sostenere la formazione tecnica in alcuni settori molto richiesti dall’industria meccanica, come
quelli per disegnatori meccanici, meccanici tornitori e fresatori. Una di queste scuole era quella
degli Allievi Fiat, fondata nel 1922 e poi confluita nel 1978 nell’Isvor Fiat, in Corso Giovanni Agnelli
a Torino. Nel tempo la formazione degli apprendisti presenti in fabbrica si è evoluta, con
l’inserimento nei programmi scolastici anche di materie di cultura generale e di laboratorio,
mantenendo sempre un indirizzo tecnico, ma orientando gli studenti anche verso successivi corsi
di diploma per periti aziendali, parificati alle scuole statali. Queste scuole biennali e triennali dopo
l’avviamento professionale, prima della riforma della scuola media inferiore unica del 1963, erano
rivolti prevalentemente ai figli dei dipendenti, futuri operai della grande azienda. In queste scuole
l’impostazione professionale si accompagnava a quella formativa, creando così in nuce una vera e
propria accademia di lavoro, con una formazione indirizzata a creare uno spirito di corpo ed una
positiva relazione con il mondo del lavoro. Da queste scuole la fabbrica traeva nuova linfa
generazionale, al fine di soddisfare il ricambio di tecnici per l’azienda, formati secondo un modello
del “saper fare”, spesso enfatizzato rispetto a quello della cultura e del “saper essere”.
3. INDUSTRIA E RESPONSABILITA’ SOCIALE
3.1 Le origini del filantropismo
Con l’avvio del modello economico mercantile, nel periodo d’oro del Rinascimento, la figura del
mecenate simbolicamente rappresentava l’espressione dell’imprenditore dotato di virtù e doti,
capace di creare un virtuoso processo di emancipazione civile attraverso la cultura. Dal XIII secolo
fino alla metà del XVI secolo in alcune zone del nostro paese (Toscana ed Umbria ed in diversi
liberi Comuni del nord ad esempio) si sviluppò un assetto sociale definito di “civiltà cittadina”,
segnata da fasi alterne di democrazia partecipativa comunale e di governi autocratici, diffondendo
nel tempo, nonostante le discontinuità, una cultura di partecipazione diffusa della cosa pubblica.
La vita sociale si svolgeva nei centri abitati tra i palazzi nobili e quelle dei ricchi commercianti, la
cattedrale, il palazzo del governo, le chiese sedi delle principali confraternite, il palazzo dei
mercanti e delle corporazioni, mentre la piazza rappresentava il luogo di incontro per eccellenza,
ove si maturava una dimestichezza ed un nuovo spirito comunitario, abituando i cittadini
all’esercizio delle virtù civiche (la fiducia, la reciprocità e la fraternità).
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Industria e comunità locale
Nel modello di economia capitalistica, realizzata nella prima e nella seconda rivoluzione
industriale, emerge invece la figura del capitalista filantropo.
Verso la metà del 1800 in Europa si diffonde l’idea di filantropia d’impresa. Alcune tra le principali
famiglie capostipiti d’importanti imprese industriali, realizzarono villaggi operai, sostennero opere
filantropiche in favore sia dei loro dipendenti ma anche per la comunità, come ad esempio in
Europa le opere di Schneider al Creusot (Fr.), dei Michelin a Clermond-Ferrand (Fr.), di Ernest
Solvay in Belgio, di Robert Owen in Inghilterra, ed in Italia quelle della famiglia Crespi (villaggio
operaio di Crespi d’Adda), di Alessandro Rossi nel Vicentino, di Napoleone Leumann a Collegno
(To), tanto per citare alcune tra le esperienze più significative.
3.2 Le Fondazioni
Le fondazioni avviate dalle grandi famiglie industriali sono comunemente identificate con il termine
inglese di corporate foundations. La loro missione fondamentale è quella di elargire una parte
profitto prodotto dall’impresa familiare attraverso interventi sociali, finanziando e promuovendo una
serie di iniziative nel campo dell’arte, della ricerca scientifica, dell’assistenza sanitaria, nel
recupero e valorizzazione di opere d’arte e nelle promozione della cultura.
Le prime fondazioni italiane hanno origine da importanti famiglie esponenti di primo piano del
capitalismo italiano (ad esempio la Fondazione Olivetti 1961 e la Fondazione Giovanni Agnelli
1966), successivamente integrate da Fondazioni create da imprese pubbliche (Fondazione Eni
Enrico Mattei 1989) o private (Fondazione Ansaldo di Genova costituita nel 2000) e di recente, a
seguito della riforma nel settore bancario (L. 218/1990), dalle fondazioni di origine bancarie (le
Casse di Risparmio) e dalla trasformazione sociale di importanti musei e teatri pubblici (come ad
esempio la Fondazione Torino Musei –2002-).
Secondo una recente ricerca della Fondazione Enrico Mattei (2005) in Italia il 22% delle fondazioni
nasce fra il 1950 ed il 1979, il 24% durante gli anni ottanta, il 28% negli anni novanta. Attualmente
le Fondazioni operanti nel Nord Ovest sono: 4 in Valle d’Aosta, 171 in Piemonte (di cui 11 di
derivazione delle ex Casse di Risparmio locali) e in Liguria 55 ( di cui 3 di derivazione da ex Casse
di risparmio locali).
Secondo la definizione giuridica la fondazione può essere definita come "…un'
organizzazione
privata la cui finalità non è il profitto, è dotata di fondi propri, è gestita da direttori che sono fiduciari
del fondatore o dei fondatori secondo i criteri fissati nello statuto, ed è creata per sostenere attività
sociali, educative, filantropiche, religiose, scientifiche e culturali, che possano contribuire al
benessere o al progresso collettivi…".
Con il consolidarsi dei patrimoni delle principali famiglie proprietarie delle prime grandi fortune
create durante la seconda fase dell’industrializzazione, nascono negli Stati Uniti le prime importanti
Fondazioni, come la Carnegie Corporation, Philantropy and Public Policy nel 1911, la Rockefeller
Foundation nel 1913, la Ford Foundation nel 1936, operanti nel campo dell’assistenza sociale,
della cultura e della ricerca scientifica.
Per responsabilità d’impresa s’intende l’assunzione di comportamenti corretti nel gestire
efficacemente le problematiche conseguenti l’impatto sociale, ambientale ed economico, sia
all’interno del luogo di lavoro e sia all’esterno nelle zone di attività, e nell’assumere una corretta
condotta nel rapporto con il consumatore, al fine di organizzare una serie di buone pratiche capaci
di far riconoscere l’azienda all’interno per i suoi valori “etici” nel contesto sociale.
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Industria e comunità locale
“Il dovere degli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni, di seguire
quelle linee di azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti dalla
società” (H. Bowen).
Un’ulteriore definizione di responsabilità sociale dell’impresa particolarmente efficace la ritroviamo
nella definizione del World Business Council for suistainable development: ”…come il continuo
impegno dell’azienda a comportarsi in maniera etica e a contribuire allo sviluppo economico,
migliorando la qualità della vita dei dipendenti, delle loro famiglie, della comunità locale e più in
generale della società”.
I principi a cui si dovrebbe attenere l’impresa nella sua condotta responsabile sono riassumibili da
un codice di condotta dall’associazione Sodalitas di Milano impegnata nel creare un ponte di
contatto tra l’impresa ed il mondo del non profit:
“I. Responsabilità e coerenza.
Essere responsabili significa in questo particolare contesto valutare le conseguenze del proprio
agire sia da un punto di vista sociale sia ambientale e farsene quindi carico. La coerenza dei
comportamenti rispetto ai principi sostenuti è altrettanto imprescindibile dal concetto di
responsabilità;
II. integrità ed equità.
Mantenere una condotta onesta e che rispetti i principi del proprio codice deontologico è
fondamentale. A ciò deve essere affiancato un comportamento equo, ovvero imparziale ed
oggettivo nei confronti sia delle situazioni sia delle persone con cui ci si interfaccia. Esempi
lampanti del non rispetto di questo principio sono i casi di corruzione e conflitto di interessi;
III. correttezza e trasparenza.
Questo principio traduce l’esigenza di rispettare gli accordi contrattuali presi e assicurare un flusso
di informazioni corrette e rilevanti, alle quali chiunque possa avere accesso in modo tempestivo e
imparziale;
IV. centralità della persona.
In questa formulazione sono compresi diversi aspetti che si riferiscono alla valorizzazione del
“capitale umano”, quali il rispetto dei diritti e della dignità dei lavoratori, la tutela dell’integrità fisica
e della sicurezza, la garanzia di pari opportunità e trattamento, l’attenzione per la conciliazione
della vita lavorativa con quella familiare, l’impegno a favorire la formazione professionale e la
crescita personale dei lavoratori”.
L’impatto delle grandi corporations, nel periodo della seconda industrializzazione, è stato
traumatico in molte realtà sociali, con problematiche conseguanti all’urbanesimo, in comunità non
preparate all’arrivo ad importanti flussi migratori, ed all’impatto ambientale, con conseguenze per
la salute umana e la sostenibilità dell’eco sistema del territorio (si pensi all’insediamento dell’Acna
di Cengio in Valle Belbo o all’estrazione e la lavorazione dell’Eternit a Balangero, l’Itca di Ciriè e
l’Eternit a Casale Monferrato).
Al fine di migliorare il rapporto tra industria e territorio molte grandi aziende nelle persone dei loro
fondatori, già da qualche tempo impegnate in una serie di interventi a sostegno di iniziative atte a
migliorare la qualità di vita delle maestranze, si sono impegnate in importanti opere sociali esterne
al proprio ambito di azione aziendale. I principali settori d’intervento si sono indirizzati verso la
cultura, promuovendo mostre, restauri di beni architettonici e opere d’arte, scavi archeologici,
acquistando opere d’arte per poi lasciarle in donazione a musei pubblici, verso la ricerca
scientifica, istituendo borse di studio e di ricerca finalizzate nel campo della medicina, della
farmaceutica, della biologia e della fisica, ma anche nel settore delle scienze umane, verso
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Industria e comunità locale
l’assistenza sociale, con l’istituzione di centri di riabilitazione, di case di riposo per anziani e di
ospedali sanatori8.
Inoltre importanti benefattori hanno fondato università, biblioteche, scuole tecniche, al fine di
compensare le carenze del settore pubblico.
Con il passare del tempo, a seguito delle trasformazioni societarie e nella composizione delle
proprietà familiare delle grandi aziende, molte famiglie di industriali hanno ritenuto di continuare il
loro impegno sociale istituzionalizzando il loro intervento, attraverso la creazione di Fondazioni
dotate di un loro patrimonio e condotte da uno staff professionale capace di gestire attività
conformi alle linee degli obiettivi istitutivi.
Tra gli anni Settanta e Ottanta del 1900 molte famiglie di importanti imprenditori hanno costituito
Fondazioni destinate a ricordare ai posteri l’opera dei fondatori dell’impresa, affidando
all’istituzione uno specifico compito al fine di creare una virtuosa ricaduta verso la società ed in
particolare verso il territorio di creazione dell’industria. In questo modo la Fondazione assume una
vita autonoma rispetto all’azienda, con una struttura operativa ed un’indipendenza finanziaria
capace di sopravvivere alle vicende familiari, garantita dal suo patrimonio costitutivo e dalla sua
mission.
8
Per un esempio significativo di attività sociali promosse in Piemonte da alcune importanti Fondazioni di origine
aziendale, si rimanda ai seguenti siti internet:
Fondazione Piera, Pietro e Giovanni Ferrero di Alba (http://www.fondazioneferrero.it/)
Fondazione Giovanni ed Ottavia Ferrero Onlus (http://www.anupi.it/pdf/scriptamanent/locandina_scriptamanent.pdf)
Fondazione Giovanni Agnelli (http://www.fondazione-agnelli.it/)
Fondazione Sella di Biella (http://www.exibart.com/profilo/sedev2.asp/idelemento/256)
Fondazione Adriano Olivetti (http://www.fondazioneadrianolivetti.it/)
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