Industria e comunità locale Franco A. Fava Settembre 2007 Testo per Storiaindustria.it 1 Ad esclusivo uso didattico. Gli altri diritti riservati. Industria e comunità locale 1. INDUSTRIA E COMUNITA’ LOCALI 1.1 Dalle cascine ai borghi operai La creazione della periferia urbana torinese è strettamente collegata all’intersezione sviluppatasi, sin dalla seconda metà del XIX secolo, tra le aree rurali e le prime porzioni di territorio edificate ad edilizia popolare. Al fine di tracciare un profilo evolutivo della città industriale, attraverso i primi insediamenti operai, è necessario argomentare, anche brevemente, il rapporto esistente tra la città e la campagna dalla metà del XIX sec. all’inizio del XX sec. Esaminando la mappa del territorio della Città di Torino e dintorni del 1840, curata da Antonio Rabbini, (MAPPA) possiamo facilmente renderci conto di quanto fosse circoscritto il perimetro urbano rispetto all’estensione agricola del territorio circostante della pianura torinese, attraversato dall’alveo dei fiumi Po e Dora Riparia, delimitato ad ovest dall’inizio delle Valli di Lanzo e di Susa e a sud est dai primi rilievi delle colline astigiane. Il perimetro cittadino di Torino, fino alla metà del 1800, era delimitato ad ovest dalla struttura fortificata della cittadella militare (1564) e ad est dalle rive del fiume Po, a sud ovest dalla piazza d’armi (area sita in prossimità della futura stazione ferroviaria di Porta Nuova costruita nel 1861) e a nord est dai bastioni delle mura romane, ancora in parte esistenti. Scheda: Ferrovie e sviluppo Lo stretto rapporto che ha legato la localizzazione delle attività produttive alla presenza dell’energia naturale (acqua e legna), prima dell’introduzione del carbone fossile come materia prima e dell’energia a vapore, è reso evidente dal fatto che tutti gli antichi opifici, e in particolare le cartiere, i setifici, le fucine, le vetrerie, erano stabiliti in prossimità di luoghi ricchi di energia naturale (boschi, canali e corsi d’acqua). Questa situazione è rimasta immutata fino a quando la rete ferroviaria ha permesso un facile approvvigionamento delle materie prime, nonché lo smistamento dei prodotti e dei manufatti sui mercati lontani, cambiando così radicalmente il rapporto tra territorio ed industria. Con il tracciato della rete ferroviaria, qualche anno prima della metà del 1800, si modificava il rapporto privilegiato stabilito fino ad allora tra la dislocazione delle fonti energetiche ed i siti produttivi; la rapidità del trasporto delle merci su rotaia consentiva di spostare anche le materie prime (legno e carbone) verso i luoghi carenti di queste risorse naturali, affrancando così molti territori dalla dipendenza dall’energia idraulica. L’assetto urbano torinese, come rilevabile dalle mappe dell’epoca, è caratterizzato dalla presenza di possenti bastioni della cittadella fortificata, struttura difensiva identificabile nelle planimetrie dell’epoca come una stella a punte. Accanto alla cittadella si estendeva verso il Po un reticolato di vie e piazze cittadine, disposte in modo ortogonale, in un disegno topografico coerente con l’antico assetto dell’insediamento romano (castrum). Dal concentrico urbano torinese si sviluppavano i grandi viali alberati di collegamento: ad ovest in direzione della Reggia di Rivoli (1718), per poi continuare verso la Francia (strada di Francia) in 2 Industria e comunità locale direzione del valico del Monginevro, e a nord est verso Milano e del valico del Sempione, a nord ovest in direzione della reggia di Venaria Reale (1659), e verso sud ovest verso la Palazzina di caccia di Stupinigi (1729), costeggiando appena fuori città il Castello del Valentino (1660), eretto lungo il corso del Po, con una successiva diramazione viaria di collegamento al Castello di Moncalieri. I percorsi viari dei viali alberati, costeggiati da platani, olmi e pioppi, che si diramavano dalla capitale sabauda verso le principali residenze di corte (Venaria Reale, Rivoli, Castello del Valentino, Palazzina di caccia di Stupinigi, Carignano e Moncalieri), e le più importanti città del regno, si identificano facilmente sulle mappe del tempo, poiché collocati in un ampio ed affascinante contesto di paesaggio agreste extra moenia. Tale struttura territoriale creava un continuum tra il centro del potere regio e le principali realtà economiche del territorio del regno sabaudo, disseminato da numerose ville con attigue cascine. La rappresentazione del territorio descritta attraverso le mappe del tempo sottolinea in modo evidente la contrapposizione tra l’insediamento urbano rispetto alla campagna. Anche dal punto di vista economico le funzioni tra città e campagna sono ben distinte: la città che amministra e consuma, rispetto alla campagna che produce beni destinati al mercato della città. 1.2 Cascine e ville fuori porta Disseminate sull’intero territorio torinese coesistevano numerose realtà di centri di produzione agricola, costituite dal complesso sistema socio-economico rappresentato dalle cascine. Tale sistema agreste, rappresentato dalle cascine, discendeva precedentemente da quello arcaico feudale, trasformato nel corso dei secoli in poderi, generalmente di proprietà nobiliare oppure della Chiesa. Queste entità produttive si caratterizzavano dalla presenza della villa padronale (con antistante giardino e con annessa cappella privata, dal viale, delimitato dalle alberate e dalle pergole, a loro volta situate accanto all’abitazione rurale dei contadini addetti alla conduzione dei campi), il tutto inserito all’interno di una vasta corte (dotata di stalla, fienile, cantine, forno a legna, ghiacciaia e tettoie, per il ricovero dei raccolti e degli attrezzi di uso agricolo). La nobiltà residente nei palazzi di città, nonché i primi rappresentati della ricca borghesia (banchieri, avvocati, proprietari di filande e mercanti), si trasferivano durante il periodo estivo nelle residenze di campagna in occasione della villeggiatura. Molte proprietà agricole erano possedute dalle famiglie nobili strettamente legate alla Corona sabauda, come i San Marino di Agliè di Garessio (villa e cascina il Palazzo), i Falletti di Barolo (proprietà il Casino), i Dal Pozzo della Cisterna (la Saffarona), nonché dai rappresentanti del nuovo ceto di benestanti rappresentati dalla nascente borghesia. Questi ultimi amavano emulare lo stile di vita della nobiltà, come i Tron (proprietari della cascina il Gibellino), i Mignon (il Verruca), i Sombrero (il Tarino), i Martin (il Morozzo) ed altri ancora. Le cascine nell’area torinese, erano importanti centri di produzione agricola e di allevamento di animali ed assolvevano ad un’importante funzione espressa nell’approvvigionamento di derrate alimentari per gli abitanti della città. Inoltre all’interno delle cascine si svolgevano delle attività di carattere artigianale, funzionali alla manutenzione degli attrezzi indispensabili per i lavori nei campi, come quelle di maniscalco, di falegname e di fabbro. Inoltre a domicilio si svolgevano delle attività manifatturiere, prevalentemente femminili, come quelle relative alla filatura delle matasse di canapa e seta, nonché di tessitura. Nel sistema delle cascine la competenza artigianale coesisteva con la 3 Industria e comunità locale sapienza agricola, in un’unità di conoscenze e di sapienze tramandate dagli avi nel corso dei secoli. L’economia georgica, fondata prevalentemente sul sistema delle cascine, si caratterizzava, come abbiamo brevemente esaminato, come un vero e proprio luogo di multi servizi (pluralità rurale), indispensabili a sostenere un’economia autosufficiente, ove il legame tra città e territorio era ben saldo. Dall’ altro canto l’economia della capitale sabauda era costituita essenzialmente da un lato dalle attività del ceto militare e da quello dei funzionari dell’entourage di corte, e dall’altro lato da quello commerciale ed artigianale, quest’ultimo specializzato nella produzione di manufatti, oggetti, capi di abbigliamento ed accessori di alta qualità. Inoltre in alcune città del regno molti artigiani si erano specializzati in alcuni settori di eccellenza, come quello dell’ebanisteria a Saluzzo, nei cordami a Carmagnola, nella produzione di tessuti a Chieri e Poirino (telerie) e della manifattura in ceramica, come quella di Castellamonte, tanto per citare le principali attività esistenti. Tale sistema socio economico è sopravvissuto fino alla seconda metà dell’ottocento, agli albori della prima industrializzazione del nostro territorio, per poi entrare in un lento ma inesorabile declino. Da un lato il trasferimento della capitale da Torino a Firenze negli anni successivi all’Unità d’Italia (1864) e dall’altro lato lo sviluppo dell’economia industriale, anche grazie all’apertura di nuove vie di comunicazione (linea ferroviaria Torino – Genova, via Alessandria nel 1848, il traforo ferroviario del Frejus del 1871), hanno contribuito al cambiamento nei rapporti tra le classi sociali, nonché alla diversificazione dei flussi di scambio commerciale rimasti fino ad allora immutati per secoli. Con il trasferimento della capitale da Torino a Roma parte della classe dirigente, impiegata nella burocrazia e nell’esercito sabaudo, si era spostata nella città eterna, causando una crisi d’identità ed una depressione economica della capitale, situazione durata per circa un ventennio. Bisognerà attendere l’ultima decade del 1800, con l’avvio di numerose attività industriali, per rivedere nella città subalpina un rinato slancio economico. Nel delicato passaggio da capitale politica a capitale industriale, Torino, nonostante le avversità degli eventi, si è caratterizzata successivamente anche a seguito di un profondo cambiamento urbano, stimolato dalla nuova vocazione industriale che stava assumendo il territorio. L’economia locale, caratterizzata dal sistema produttivo agricolo delle cascine torinesi, entrò in crisi in un lungo periodo di tempo, dalla metà dell’ottocento fino ai primi decenni del novecento. Molti fattori sono stati la causa di questo declino, ma alcuni sono stati essenziali. Con l’intensificazione degli scambi commerciali, attraverso l’apertura di nuovi collegamenti stradali e dall’avvento delle linee ferroviarie, le derrate alimentari potevano essere importate ed esportate da e verso territori lontani, inoltre molti prodotti agricoli iniziavano ad essere messi in coltivazione in modo estensivo e specializzato, in aziende agricole in aree ambientali dove alcune coltivazioni ( frutticole, orticole, leguminose, etc…) erano particolarmente favorite, con risultati molto positivi in termini di qualità e di quantità. Un altro elemento da sottolineare è relativo al fatto che negli ultimi decenni del 1800 una consistente quota di manodopera si spostò dalle campagne verso Torino (urbanesimo), attratta dalla ricerca di un lavoro stabile e meglio retribuito, sovente in continuità con i mestieri già svolti precedentemente nelle stagioni invernali quando il lavoro in campagna era ridotto. Nonostante la crisi di Torino nel difficile passaggio post capitale, si manifestavano nuove opportunità di sviluppo economico, correlate alle nuove attività artigianali che si stavano avviando nell’ex capitale subalpina. L’economia cittadina richiedeva nuova manodopera da impegnare nelle manifatture e 4 Industria e comunità locale negli opifici, mentre l’offerta di nuovi servizi, fino ad allora inesistenti, era in crescita. Molti contadini iniziarono ad offrire i loro servigi utili alla vita cittadina, inizialmente nei periodi in cui la campagna non richiedeva molta manodopera: dal trasporto del legname per il riscaldamento, al servizio di lavanderia (Lavatoi pubblici di Barca Bertolla), da quello offerto dagli spazzacamini, al rifornimento di filoni di ghiaccio da stipare in cantina, per la conservazione dei cibi, e molti altri ancora. Dopo la crisi socio economica della prima metà del 1800, il capoluogo subalpino realizzò, durate l’età giolittiana, il primo decollo industriale (mentre il secondo sarà realizzato negli anni sessanta del 1900), caratterizzando la città come importante area industriale italiana. Tra il 1871 ed il 1911 i residenti nei quartieri esterni alla cinta daziale torinese passarono da 20.201 a 114.246 abitanti. Tra il 1871 ed il 1891 a causa delle difficoltà economiche in agricoltura, un crescente numero di contadini si trasferirono a Torino, anche senza avere la sicurezza di un lavoro stabile. Inizialmente la manodopera era molto richiesta nel settore edilizio, mentre quella femminile s’indirizzava prevalentemente nei lavori domestici e nelle manifatture. Lo sviluppo economico tra il 1880 ed il 1900 fu agevolato dalla nascente industria idroelettrica, mentre la società per azioni Elettricità Alta Italia (1896), rappresentava la più importate realtà nel settore energetico in Italia. Dalla seconda metà del 1800 il paesaggio di Torino iniziava lentamente a modificarsi. Progressivamente venivano abbattuti parte dei bastioni, che avevano fortificato la città sin dal seicento, e in lontananza si delineavano i profili dei corpi di fabbrica di opifici e ciminiere, contribuendo a caratterizzare il nuovo profilo del paesaggio urbano torinese sullo sfondo dell’arco alpino, in modo indelebile. Questa trasformazione aveva interessato maggiormente le aree periferiche della città, oltre il perimetro definito dalla cinta daziaria, nonché alcune zone limitrofe al centro città, sovente senza soluzione di continuità con le case di abitazione di periferia. 1.3 Le barriere operaie La cinta daziaria di Torino, creata nel 1853, si estendeva a forma di semicerchio alla sinistra del Po, delimitando il territorio cittadino in un tracciato ora costituito dagli attuali corsi Bramante, Lepanto, Mediterraneo, Ferrucci, Tassoni, Svizzera, Mortara, Vigevano, Novara e Tortona. La cinta daziaria era costituita da un muro ove si aprivano degli accessi verso l’esterno, in corrispondenza delle principali vie di comunicazione, detti barriere (da qui il nome dei futuri borghi costituiti oltre le mura perimetrali della città). Le principali barriere erano dodici, ove in prossimità si organizzarono alcuni centri abitati, futuri quartieri operai e di accoglienza delle prime immigrazioni, ossia: Borgo Vittoria, Barriera di Lanzo, Campidoglio, Regio Parco, Madonna di Campagna e Borgo San Paolo. Con l’avvento dell’energia a vapore e successivamente con quello dell’energia elettrica, le industrie si affrancarono dal vincolo di prossimità dei corsi dei fiumi, che per secoli avevano fornito l’energia idraulica, indispensabile per mettere in movimento le pulegge (dall’energia idraulica e a vapore si passò all’inizio del XX secolo all’energia elettrica). 5 Industria e comunità locale Scheda: Dall’energia idraulica a quella a vapore L’utilizzo dell’acqua quale fonte di produzione di energia, attraverso lo sfruttamento della capacità di scorrimento e di caduta, è stata uno dei fattori energetici di maggiore utilizzo nella prima rivoluzione industriale, anche se nella storiografia l’apporto dell’energia a vapore è stato maggiormente riconosciuto. La maggior parte dei macchinari, degli ingranaggi e delle pulegge erano azionate dall’energia idraulica ed in misura minore dagli animali, dal vento o dal calore. La macchina a vapore è stata certamente il fattore decisivo per lo sviluppo della prima rivoluzione industriale, anche se l’acqua è stata contestualmente determinante per l’avvio di molte fasi del processo produttivo, conservando un ruolo di primo piano durante la prima rivoluzione industriale. L’energia idraulica venne sconfitta soltanto nella metà del XIX secolo a seguito del passaggio da un’economia “organica”, basata su risorse energetiche riproducibili (acqua, suolo, foreste), a un’economia “inorganica”, strutturata sui giacimenti minerali limitati (carbone e coke). Tra il 1750 ed il 1760 con il posizionamento della ruota idraulica a fianco della caduta dell’acqua al centro del meccanismo, si originava una maggiore potenza di rotazione, permettendo la produzione di energia cinetica in quantità maggiore. A partire dal 1765 James Watt sfruttò la potenza dell’energia a vapore, generata attraverso una caldaia, tramite il meccanismo “biellamanovella”, con la possibilità di produrre un movimento alternativo o rotativo. Con l’invenzione della turbina (1827) l’energia idraulica continuò ad essere utilizzata rispetto ad altre fonti energetiche, anche grazie al suo costo contenuto ed in tutte quelle attività ove era richiesta la regolarità dei movimenti, garantita solo dalla ruota idraulica, piuttosto che da una non ancora perfetta macchina a vapore. Nell’industria tessile l’acqua continuò ad essere utilizzata quale fonte energetica principale, vista la presenza delle antiche manifatture presenti in prossimità dei corsi d’acqua naturali o dei canali artificiali. All’inizio del XX secolo, con il perfezionamento delle macchine a vapore, l’energia idraulica progressivamente fu sostituita da quella a vapore, consentendo a molte industrie di affrancarsi definitivamente dalla dipendenza dei corsi d’acqua, consentendo alle stesse di creare degli insediamenti in aree differenti creando così nuovi siti industriali. L’energia idraulica continuò invece ad essere utilizzata per la produzione di energia elettrica attraverso l’utilizzo delle turbine. Questa rivoluzione consentì alle industrie di dislocarsi in diversi luoghi del territorio, non necessariamente limitrofi ai corsi d’acqua, ampliando la disponibilità di nuove aree idonee per ospitare nuovi impianti e siti produttivi. Così all’inizio del XX secolo lo sviluppo delle aree destinate agli insediamenti abitativi si estese anche verso sud ovest della città, oltre la cinta daziaria. Borgo San Paolo è stato uno dei primi borghi industriali ad essere insediato, creando ulteriori condizioni per lo sviluppo demografico ed urbanistico della futura città industriale. Il centro politico amministrativo di Torino, delimitato dal reticolo di vie e piazze: da piazza Castello a Porta Nuova e da piazza Statuto alla Gran Madre, si contrapponeva alle nuove aree di produzione e di servizi: al nord le manifatture e gli opifici di antico e nuovo insediamento, e a sud le nuove industrie meccaniche. A ridosso dei nuovi siti manifatturieri ed industriali si edificarono nuove case di abitazione, di due e tre piani, caratterizzate da cortili ove si affacciavano i balconi a ringhiera (c.d. le case di ringhiera). Borgo Dora 6 Industria e comunità locale Borgo Dora rappresenta uno dei più antichi insediamenti produttivi ove avevano sede concerie, opifici, battitori da panno, peste da canapa e da olio, mulini per la macina delle granaglie (tra i quali il più importante il Molassi), setifici (presenti sin dal 1600) e la la Regia Polveriera, oggi sede dell’Arsenale della Pace del Sermig. Borgo Dora, abitato nel 1850 da circa 20.000 residenti, si può considerare come il primo nucleo di “quartiere operaio” della futura città industriale. La vicinanza ai corsi d’acqua aveva consentito la diffusione delle industrie le quali utilizzavano la forza motrice alimentata dall’energia idraulica, indispensabile per la messa in moto dei macchinari. Barriera di Milano Poco distante da Borgo Dora si estende quella di Milano, ove il nome del toponimo ricorda l’asse del collegamento viario, la strada d’Italia, verso il capoluogo milanese, l’attuale corso Giulio Cesare. In Barriera di Milano si stabilirono nuove realtà industriali, accanto a quelle tradizionali di più antico insediamento, come quelle tessili (Opificio tessile Abrate Depanis-1869-, poi Cotonificio Bass Abrate ed in seguito nel 1930 Gruppo Finanziario Tessile per il confezionamento di abiti pronti; la filatura di Tollegno, il cotonificio Hofmann, la filatura dei fratelli Piacenza e nel 1917 la Snia Viscosa). Inoltre nel borgo si insediarono nuove attività industriali, come: la Società Elettrica Alta Italia (1896), le Fonderie Subalpine in via Bologna, le industrie Metallurgiche di via Cigna (1914), la Gilardini (1905), le officine Barone in corso Vigevano, e la fabbrica di armamenti Michele Ansaldi (1884), acquistata successivamente dalla Fiat Grandi Motori. Borgo Regio Parco In questo borgo si era insediato uno dei più antichi opifici torinesi la Manifattura Tabacchi, all’inizio del ‘900 una delle maggiori manifatture italiane, ove trovavano occupazione manodopera prevalentemente femminile, dedita alle attività di confezionamento manuale di sigarette e sigari. Sempre a Regio Parco nel 1851 si stabilì la Società Piemontese per l' illuminazione a Gas di Torino, fondata su iniziativa dei fratelli Albani, a suo tempo proprietari di un' industria di fiammiferi. Nel 1856 la società si fuse con la concorrente: la Compagnia d’illuminazione a gas per la città di Torino, dando vita alla Società Gaz -Luce di Torino. Le due officine di produzione di Porta Nuova e di Borgo Dora furono gestite in maniera coordinata e conseguentemente unificate le due reti di distribuzione. Borgo Vanchiglia Poco distante dai due precedenti borghi sorge l’insediamento di Vanchiglia, notoriamente chiamata bôrg d’l fum (denominato “Moschino”). L’area di Borgo Dora e Vanchiglia rappresentano l’area di primo sviluppo industriale subalpino, grazie alla presenza del vicino corso d’acqua, generato dalla Dora Riparia, che forniva l’energia idraulica necessaria per l’alimentazione energetica dei mulini, delle segherie, delle industrie militari e dei torcitoi di seta. Borgo San Donato 7 Industria e comunità locale Il borgo, creato nel 1835 dall’unione dell’antico Borgo del Martinetto, accoglieva alcuni opifici di origine settecentesca. Il suo sviluppo industriale era dovuto dalla presenza di un vicino corso d’acqua: il canale Torino. Il percorso del Canale costeggiava le attuali vie San Donato, Carena, e, sottopassando la ferrovia, giungeva fino alla stazione di Porta Susa. Il canale Torino, come altri corsi d’acqua e bealere, è stato interrato negli anni Trenta. Nel quartiere nella prima metà dell’ ‘800 si erano installate delle attività economiche come le fabbriche per la produzione della birra Metzger (via San Donato 68) e Bosio-Caratsch (C. Principe Oddone 19), le concerie Fiorio –1910 (in via Durandi 10), i mulini del Martinetto, poi Feyles (in C. Tassoni 56), le fabbriche di cioccolato Michele Talmone –1850- (prima in via degli Artisti e poi in via Balbis) e Caffarel del 1818 (in via Carema). Di questa tradizione industriale sopravvivono ancora alcuni riferimenti architettonici e qualche ciminiera, nonché il ricordo di un’importante tradizione industriale grazie ad alcune indicazioni riportate nella toponomastica delle vie del quartiere, come: Martinetto, Industria, le Chiuse, Fucina ora Pinelli. Borgo Rossini Gli insediamenti industriali ed abitativi a Borgo Rossini, in prossimità di Regio Parco, sono più recenti rispetto a quelli prima esaminati. Verso la fine del XIX secolo sono installate alcune importanti realtà industriali come la Fonderia e smalteria Ballada (1906) ed il Gallettificio militare. Verso il finire del 1800 in via Bologna venne eretto il fabbricato, in mattoni rossi, della muova Centrale elettrica. Anche da un punto di vista architettonico i nuovi insediamenti industriali in alcuni casi si identificano per la loro particolarità rispetto alle precedenti costruzioni, originando strutture ancora oggi rappresentative di un patrimonio esempio di pregevole archeologia industriale. L’architetto Pietro Fenoglio “ in continuità con le scelte stilistiche della sua precedente produzione industriale… egli ( si affermò) …nella produzione civile come interprete dell’art nouveau, la struttura dello stabilimento è concepita come una cattedrale del lavoro di ispirazione gotica. Fenoglio accentuerà i caratteri decorativi di gusto liberty nella successiva produzione industriale. La grande navata, illuminata sia superiormente che lateralmente, è fiancheggiata da due navate più basse e questa impostazione determina l’assetto del fronte col grande finestrone tripartito. Eccezion fatta per la facciata ed i tamponamenti laterali, realizzati in muratura, le strutture di tutto l’edificio sono in tralicci reticolari di ferro” (D’Amuri). Silvano Venchi nel 1878, in via degli Artisti, avviò un laboratorio artigianale per la produzione di caramelle, trasformandolo nel 1905 in società anonima. Nel 1907 fu costruito, in C.so Regina Margherita 16 un nuovo stabilimento capace di ospitare i cinquecento operai occupati. Nel 1924 Riccardo Gualino creò l'"Unica" (Unione Nazionale Industria Commercio Alimentare), riunendo sotto questa sigla alcune importanti aziende alimentari: la Talmone, già Moriondo & Gariglio, la Bonetti, le Fabbriche Riunite Gallettine, la Dora Bisquits e la Idea (Industria Dolciumi ed Affini). Dieci anni dopo la Venchi assorbì l’Unica e si trasferì nel nuovo stabilimento di corso Francia 325, oltre l' attuale piazza Massaua, diventando così la maggiore fabbrica dolciaria torinese, con un’importante produzione a ciclo completo di cioccolato, panettoni, confetti, caramelle e biscotti. Borgo della Vittoria e di Madonna di Campagna Il primo borgo ricorda nel toponimo la vittoria ottenuta dai Savoia sui francesi dopo l’assedio di Torino del 1706. In borgo Madonna di Campagna, si stabilirono altre importanti iniziative industriali, favorite dalla vicinanza delle comunicazioni ferroviarie e dai corsi del fiume Dora Riparia e del 8 Industria e comunità locale torrente Ceronda, come: lo stabilimento conciario della C.I.R. (Concerie italiane riunite in via Stradella –1896-), la ditta meccanica Elli Zerboni –1911- (sita nell’attuale corso Venezia 11), la manifattura Giovanni Paracchi & C. (nell’attuale via Pianezza 17) ed il calzaturificio Superga (in via Orvieto 41), la Società Nazionale delle Industrie di Savigliano, fondata nel 1879 a Savigliano (Cn) e poi trasferita a Torino nel 1881 (in Corso Mortara 41), la Cimat costruzioni meccaniche (in Corso Venezia 53), la Fiat Ferriere (in Corso Mortara 41) ed il complesso per la produzione dei pneumatici Michelin di Torino Dora ( ove il primo nucleo sorse nel 1906 in via Livorno). Borgo San Paolo e Barriera di Nizza Millefonti Borgo San Paolo e Barriera Nizza Millefonti sono in ordine cronologico i più recenti insediamenti abitativi risalenti all’inizio del 1900. Borgo San Paolo si è sviluppato lungo l’asse viario di via Monginevro in direzione delle caserme del Genio Ferrovieri e di Fanteria, edificate negli anni trenta. In Via Boggio 19/21 si installarono le Officine Ferroviarie per la costruzione e la riparazione delle locomotive e dei vagoni ferroviari (1880), mentre nei primi anni del 1900 si installarono le industrie Nebiolo, Diatto (poi diventata Metalferro, in Via Rivalta), Lancia (Corso Peschiera 193), Fiat Automobili (Corso Ferrucci 122) e la Fabbrica Italiana di Pianoforti, in Corso Racconigi. Collegno e Rivoli Lo sviluppo della Torino industriale in direzione di Rivoli risale ai primi decenni del 1900, periodo in cui alcune aziende torinesi e non iniziarono a trasferii lungo l’asse di Corso Torino (oggi Corso Francia) tra Collegno e Rivoli, al fine di ampliare le loro attività. I fattori che rendevano interessante l’area possono essere così sintetizzati: a) facilità di accesso a Torino, b) accesso al servizio ferroviario lungo la tratta da Torino verso la Francia, c) disponibilità di aree agricole a costi contenuti, d) la presenza del collegamento tranviario con Torino (Linea Torino – Rivoli del 1871: prima linea tranviaria intercomunale italiana a vapore, elettrificata nel 1910, e sostituita nel 1955 con il filobus). Inoltre nell’area tra Torino e Rivoli, sin dalla fine del 1800, si erano installate alcune importanti attività industriali, come ad esempio le manifatture Leumann (1875), la Sales meccanica per l’industria tipografica (1886), la Marchisio meccanica (1842) e la ditta Arlorio Vermouth (1892). Rivoli prima della seconda guerra mondiale contava oltre ad una ventina di aziende di dimensioni rilevanti. Nell’area compresa tra Corso Susa, Via Nizza e Via Trieste, in prossimità dello stagno (bôleng), si erano sviluppate importanti industrie alimentari (dolciarie) come: Taglia, Graffi e Michela & Angiolo, appellando così il quartiere nel detto popolare come bôrg del sucher (borgo dello zucchero). Queste attività non lontane dal atri insediamenti industriali del settore dolciario, come la Venchi Unica in piazza Massaua, nella periferia ovest di Torino, creavano, come oggi si direbbe, un vero e proprio distretto dolciario alle porte di Torino. Nel territorio di Collegno, lungo la dorsale viaria di comunicazione tra Rivoli e Torino in zona Cascine Vica, da tempo vi erano installate importanti attività manifatturiere ed industriali, come: la Fabbrica nazionale dei Pizzi, la Filp, il Saponificio dei F.lli Filippi e la fabbrica dei liquori Pietro Viarengo, la conceria Fraschini, la segheria Durbiano, l’officina meccanica Tavella, la fabbrica di buste e sacchetti di carta Aldo Bugnane, la Fabbrica di laterizi in cotto in regione Bellezzia. Nell’area confinante con i comuni di Alpignano e Pianezza, in prossimità della Dora Riparia, vi erano insediate le attività del Cotonificio Valle Susa e della Società Esercizio Molini, per la produzione di energia elettrica. 9 Industria e comunità locale Nei primi decenni del 1900 l’area industriale si sviluppò nel campo della meccanica, a seguito dell’insediamento di numerose attività industriali, le quali richiedevano per le loro lavorazioni ampi spazi ed il facile accesso alle vie di comunicazione per il trasporto delle materie prime da adibire alla successiva lavorazione, e delle merci, successivamente trasformate in prodotti finiti. Le principali aziende storiche dell’area di Collegno-Rivoli sono le seguenti1: Arlorio vermouth 1892/1975 Bardini distilleria 1908-1961 Busso off. Meccaniche 1928-2007 Fraschini conceria 1932-1981 Coral impermeabili e cappotti 1912-1984 Val Susa cotonificio 1906—1965 Fustella distilleria 1908-1961 Marchisio meccanica 1842-1991 Maule 1921-2006 Michela Angiolo alimentari 1927-1951 Mussino Rapetti vestiario 1927 Musso Tessili 1927 Officine pavesi meccanica 1929-1989 Vica meccanica 1906-2006 Soc. Molini energia 1900-1953 Fabbrica Pizzi 1912-1984 Fast Nebiolo meccanica tipografica 1924-1953 Fergat 1922-2006 Filiup pellame 1927 Filp Lime 1924-1986 Fisia trattamento acque 1925-1975 Graff dolci 1930-1972 Henn saponi 1911-1965 Persero fornace 1927 Rosa minerali 1927 Saiag gomma 1935 –1984 Sales Poligrafici 1886-1965 Sir saponificio 1911-1965 Taglia alimentari 1933 Tavella meccanica 1936 Viarengo alimentari 1928-1985 Lievito Bertolini (1911) Nizza Millefonti La Barriera di Nizza-Millefonti si estende lungo il percorso del fiume Po in direzione di Moncalieri. Il suo sviluppo come area industriale risale al primo insediamento della Fiat (fondata l’11 luglio 1899 al numero 35 di corso Dante). Dopo pochi anni, a seguito del successo ottenuto dall’azienda automobilistica, l’insediamento industriale richiedeva la disponibilità di maggiori dimensioni, al fine di garantire grandi produzioni di autovetture. Inoltre bisognava disporre di nuovi spazi per organizzare un ciclo di produzione, fondato sulle nuove teorie organizzative del lavoro provenienti da oltre oceano e messe in atto negli stabilimenti Ford di Detroit (il Taylor -Fordismo). Nel 1916 1 www.stroriadelleindustrie.comune.rivoli.to.it 10 Industria e comunità locale iniziarono i lavori della costruzione dello stabilimento del Lingotto, a firma dell’architetto Trucco, inaugurato nel 1922. La presenza della nuova fabbrica, al tempo una delle più moderne al mondo, caratterizzò inesorabilmente i tempi ed i ritmi di vita del quartiere. Dopo pochi anni s’insediarono nuovi stabilimenti, come quello della Riv Skf (1923), originaria della Val Chisone e specializzata nella produzione di cuscinetti a sfera, e la Microtecnica in via Madama Cristina 147, industria per la costruzione di macchinari di precisione. Nel 1929 s’iniziò l’edificazione del nuovo complesso ospedaliero del San Giovanni Battista e della Città di Torino, in quanto l’antico edificio del 1600 del Castellamonte, in Via Giolitti, non era più idoneo a garantire lo sviluppo della moderna scienza medica. In prossimità del fiume Po, in un’area insediata da orti urbani, furono costruiti i nuovi padiglioni ospedalieri del nuovo Ospedale delle Molinette, nome derivato dalla presenza di molti mulini che alimentavano le pompe idrovore utilizzate per prosciugare l’area acquitrinosa. Nelle vicinanze esisteva sin dal 1832 la manifattura di Giovanni e Vittorio Lanza, specializzata nella produzione di candele, unificata nel 1905 con l’oleificio Lombardo Piemontese T. Ovazza, dando luogo ad una nuova società denominata: S. A. Stearinerie e Oleifici Lanza2. Nel quartiere coesistevano da un lato gli insediamenti industriali e dall’altro lato il nuovo complesso ospedaliero, rendendo il tessuto sociale eterogeneo ed atipico rispetto ad altre barriere. Il quartiere Nizza Millefonti - Lingotto si distingueva dagli altri insediamenti industriali della città, proprio per la sua diversità, essendo nel contempo un quartiere operaio e di servizi, almeno fino alla fine degli anni settanta del ‘900 quanto lo stabilimento Fiat Lingotto cessò la produzione d’automobili. Borgo Filadelfia L’insediamento abitativo di borgo Filadelfia, nello sviluppo delle periferie torinesi tra le due guerre mondiali, è stato l’ultimo in ordine cronologico. Nel 1926 si inaugurò il campo da calcio della squadra granata del Torino (il mitico Fila), FOTO, in via Filadelfia angolo con via Giordano Bruno. Intorno agli anni trenta si avviarono i lavori per la costruzione dei nuovi Mercati Generali e della nuova sede della Dogana (1931) in Corso Sebastopoli. Accanto a questi nuovi insediamenti sorsero i primi nuclei di case popolari I.A.C.P. nel quadrilatero delimitato dalle vie: Tunisi, Taggia, Reduzzi e Montevideo, accanto alla Chiesa di Madonna delle Rose ed al Convento dei Frati Domenicani. Il quartiere di Borgo Filadelfia, separato dal percorso della ferrovia e collegato dal sottopassaggio del lingotto, costruito nel 1936, assunse una caratteristica prettamente commerciale. La specificità commerciale del quartiere è stata ulteriormente segnata nel 1957 dall’apertura del primo supermercato alimentare piemontese organizzato con il sistema di vendita all’americana a selft service (Supermercato Garosci in Via Tunisi angolo Piazza Galimberti), concorrendo così alla nascita di un nuovo sviluppo commerciale e di uno straordinario cambiamento della società italiana, proiettata sin dagli anni sessanta al consumismo. 1.4 Villaggi operai Lo sviluppo dei primi insediamenti operai a Torino è stato caratterizzato da importanti fenomeni sociali, come ad esempio l’immigrazione di popolazioni dalle campagne verso la città (urbanesimo), il cambiamento dei mestieri, di abitudini e di stili di vita. Tra la metà e la seconda metà dell’ottocento assistiamo ad un’immigrazione di prossimità dalle campagne torinesi verso il 2 http://marcoeula.tripod.com/id1.html 11 Industria e comunità locale capoluogo. L’avvio delle prime importanti fabbriche ed opifici richiedeva la disponibilità di manodopera, alimentata in buona parte dai flussi di popolazione provenienti dalle campagne. Inoltre con lo sviluppo dell’industria tessile la richiesta di manodopera femminile era crescente e nello stesso tempo diventava per molte famiglie un’occasione di preziosa integrazione al limitato reddito. La manodopera proveniente dalle campagne portava con se non soltanto forza lavoro, ma anche molte competenze artigianali, tipiche della conduzione dell’economia agricola. Il lavoro nelle campagne non era soltanto indirizzato al lavoro nei campi ed all’allevamento del bestiame, ma i contadini erano in molti casi abili artigiani, capaci di affrontare le quotidiane esigenze dovute alle riparazioni dei macchinari agricoli. Inoltre, sin dal 1700, al reddito famigliare si sommava quello correlato alle piccole attività di tessitura e l’allevamento dei bachi da seta, prevalentemente condotte dalle donne. Il concorso di queste circostanze facilitarono lo spostamento di molti contadini dalle campagne verso la città, grazie alle abilità artigianali spendibili nei nuovi insediamenti industriali. Con lo sviluppo delle barriere operaie anche il modello abitativo della città subì una lenta ed inesorabile trasformazione. Torino fino all’unità d’Italia si distingueva essenzialmente come città amministrativa e militare. Anche dal punto di vista urbanistico, gli insediamenti abitativi caratterizzavano la città capitale del Regno sabaudo. Nei palazzi di Torino gli spazi aulici (piano nobile, secondo piano, androne d’accesso alla strada con scalone d’onore e cortile con annesso giardino) comunicavano, tramite un sistema di disimpegni, con le parti messe a reddito, ossia gli alloggi dei piani alti, le soffitte, i magazzini nel seminterrato e le botteghe al piano terra. I palazzi della città erano abitati da diversi ceti sociali, al piano nobile ed al secondo piano risiedevano i componenti della famiglia proprietaria del palazzo, mentre agli ultimi piani, comprese le soffitte, abitavano i famigli addetti ai lavori domestici ed i vari affittuari. Nei locali collocati al piano terra, in prossimità dei cortili e dei giardini interni, trovavano inoltre abitazione i giardinieri, gli addetti alle scuderie e gli artigiani. In alcune vie i palazzi ospitavano impiegati e militari che prestavano la loro opera al servizio della corte, ed anche in questo caso la servitù alloggiava agli ultimi piani, mentre al piano terreno si affacciavano negozi e botteghe artigiane. In questo contesto i diversi ceti sociali coesistevano nelle stesse abitazioni, anche se separati in ambiti ben distinti. Con lo sviluppo delle borgate operaie si verificò l’inizio di una separazione abitativa tra le classi sociali a livello territoriale e di quartiere. Le barriere erano abitate prevalentemente da contadini immigrati e da artigiani, mentre la borghesia commerciale ed impiegatizia, trovava alloggio nei nuovi quartieri periferici al centro storico della città. Anche i fabbricati si differenziavano a seconda della classe sociale che vi abitava, gli immigrati abitavano nelle case a ringhiera con i servizi igienici in comune sistemati in un angolo del ballatoio, mentre il nuovo ceto borghese abitava nei nuovi palazzi ove era presente l’acqua corrente, ed erano dotati di servizi igienici all’interno di ogni abitazione. Questi ultimi palazzi si disponevano su quattro o cinque piani, con gli appartamenti disposti sul lato della strada, mentre all’interno del cortile si affacciavano abitazioni più modeste, collegate da una seconda scala di accesso separato dallo scalone principale, prevalentemente abitate dalla piccola borghesia urbana. Nelle borgate operaie al di fuori della cinta daziale, i servizi sociali per la popolazione erano ridotti al minimo. Il comune metteva a disposizione i servizi igienici essenziali, come bagni e lavatoi pubblici al fine di garantire un minimo di igiene personale. Nelle borgate operaie la presenza dei mercati rionali garantiva l’approvvigionamento alimentare degli abitanti delle città, anche se la presenza degli orti urbani accanto alle case di abitazione rappresentava per molti abitanti una concreta possibilità d’integrazione al limitato reddito familiare. Le aree mercatali erano presenti in città da molto tempo, ma i mercati alimentari delle nuove borgate potevano disporre di maggiore spazio, nonché di un approvvigionamento quotidiano dalle campagne, anche grazie ai legami mantenuti dalle popolazioni emigrate di recente in città dalle 12 Industria e comunità locale vicine cascine. Le derrate alimentari offerte in quei mercati erano vendute a minor prezzo e la scelta di prodotti era maggiore. Grazie a queste condizioni favorevoli ancora oggi Torino mantiene il primato italiano ed europeo della città con il maggior numero di aree mercatali, con la presenza del più grande mercato alimentare d’Europa, quello di porta Palazzo, dotato dal 1916 di spazi al coperto con tettoie in ferro in stile Liberty. La struttura sociale delle borgate, abitate dalla nascente classe dei lavoratori, favorirono tra i residenti lo sviluppo di un forte sentimento di appartenenza e di identificazione alla borgata. A causa delle difficili condizioni di vita e di penuria di servizi sociali, tra gli abitanti si erano instaurati importanti rapporti di solidarietà e di aiuto reciproco. La solidarietà si esprimeva nei legami di vicinato ove le relazioni di solidarietà, tra parenti, amici e compaesani, erano intense. Nello stesso tempo le Società di Mutuo Soccorso estendevano i primi servizi di assistenza tra gli operai per far fronte a situazioni difficili, come la malattia, l’indigenza a seguito della perdita del posto di lavoro, la prematura morte del capofamiglia, sovente unico produttore di reddito, ed in aiuto all’assistenza ai minori bisognosi. Nelle borgate erano presenti i circoli delle prime società operaie di mutuo soccorso (una delle più antiche si trovava in Via Omega 5 nel quartiere di San Donato), le Case del popolo, i primi circoli Socialisti che associavano l’attività ricreativa a quella politica, ma anche le bocciofile e le filodrammatiche per trascorrere il limitato tempo libero a disposizione. Inoltre le parrocchie assolvevano ad importanti compiti educativi rivolti ai più giovani. L’opera di Don Bosco, attraverso l’istituzione degli oratori, è emblematica nell’educazione dei giovani appartenenti ai ceti sociali più modesti, residenti nelle aree marginali della città (come ad esempio a Valdocco). La vita quotidiana delle borgate era scandita dai nuovi tempi di lavoro, non più dettati dai ritmi dei lavori dei campi, bensì dal fischio delle sirene delle manifatture. La città era ancora una realtà lontana e slegata dal territorio della barriera, tanto che quanto gli abitanti della borgata andavano in centro dicevano: n’doma a Turin, quasi come se dovessero affrontare un viaggio verso una realtà lontana ed ignota. L’avvicinamento tra centro e periferia è avvenuta a seguito dell’avvio dell’esercizio regolare delle prime linee tranviarie della Società Tranvie Municipali (A.T.M.), sorta a Torino nel 1907, con la gestione delle prime sette linee di tram, riscattate dalla Società Alta Italia. Nel 1915 Torino contava quindici linee di trasporto pubblico gestite dall’A.T.M. e diciassette da società private, tra le quali la Società Belga, successivamente assorbita dal Comune di Torino nel 1922. Verso la seconda metà del XIX secolo con l’affermarsi delle prime grandi manifatture, in alcune realtà industriali europee, su impulso di grandi famiglie di imprenditori, si avviarono originali progetti di urbanizzazione in prossimità degli stabilimenti per soddisfare le impellenti esigenze abitative delle maestranze. In Italia i principali esempi di villaggi operai sono riconducibili a quelli di San Leucio (Caserta), Crespi d’Adda in Lombardia, di Schio in Veneto, Trossi e Rivetti a Biella e quello di Leumann a Collegno (Torino). In molti casi l’intervento sociale delle industrie era circoscritto alla sola costruzione di case per gli operai. In alcuni casi emblematici l’azione filantropica di illuminati imprenditori cercò di materializzare un’utopia, finalizzata ad unificare i tempi del lavoro con quelli della vita quotidiana. La filosofia di fondo era quella di creare una micro società ove la componente del lavoro doveva rientrare in un complessivo rapporto di legame con l’industria, quasi a voler circoscrivere in un unico spazio (villaggio) i destini umani. I villaggi operai modello offrivano non soltanto migliori condizioni abitative, rispetto agli standard del tempo (le casette dotate di servizi igienici, con l’orto ed il giardino attiguo), ma erano organizzati con strutture per tempo libero (il teatro, la biblioteca ed il campo di calcio), nonché forniti di servizi sociali, educativi o di aggregazione, come lo spaccio aziendale, l’infermeria, l’asilo, le scuole elementari e la chiesa. Il villaggio era la risposta concreta al problema dovuto alla lontananza dal luogo di lavoro delle maestranze e consentiva altresì all’imprenditore di perseguire una serie di vantaggi pratici, come la regolare presenza sul posto di lavoro delle maestranze, ma anche di controllo sociale sui 13 Industria e comunità locale dipendenti. Da un lato i miglioramenti dei servizi igienici previsti nelle nuove abitazioni e la vicinanza al posto di lavoro contribuivano ad una diminuzione dell’assenteismo, mentre dall’altro la disponibilità di un servizio d’assistenza all’infanzia, come l’asilo per i bimbi, favoriva l’inserimento del lavoro femminile in fabbrica, una manodopera meno costosa rispetto a quella maschile. Inoltre la formazione di una comunità accanto alla fabbrica poteva affievolire i conflitti sociali tra imprenditori ed operai, diffondendo l’idea di una solidarietà e di un legame tra le classi, sconfessando nei fatti la nascente ideologia socialista che contrapponeva i lavoratori ai capitalisti. Inoltre il controllo sociale delle maestranze era molto più facile all’interno del villaggio, ove la fabbrica rappresentava sempre di più non solo l’occasione di lavoro per il capofamiglia e per le mogli, ma anche l’opportunità di utilizzare servizi sociali fino ad allora sconosciuti, ad eccezione di quelli messi ai disposizione dalle mutue cooperative. I villaggi operai rappresentavano delle vere e proprie “macchine” per abitare e per lavorare (Falansterio), con una forte valenza da parte dell’imprenditore nel voler programmare non soltanto i tempi di vita lavorativa, ma anche quelli del “non lavoro”. In compenso i villaggi operai offrivano una qualità di vita certamente superiore rispetto agli standard conosciuti dalla classe operaia alla fine del XIX secolo, in termini di servizi igienici ed assistenziali. La presenza degli orti accanto alle abitazioni proponeva agli occhi degli operai un’illusione di continuità con il passato contadino, nonché rappresentavano anche dal punto di vista pratico anche una possibile disponibilità di ortaggi e frutta. Le esperienze più significative di villaggi operai in Piemonte ed in Liguria la ritroviamo in alcuni insediamenti come: Vigliano Biellese: il villaggio operaio Trossi e Rivettti Il 10 aprile 1905 veniva registrata a Londra la Società Anonima Pettinatura Italiana Limited, con sede legale a Bradford e stabilimento a Vigliano Biellese. A gestire lo stabilimento a Vigliano, quale rappresentante della società in Italia, fu designato Carlo Trossi. Nel 1916, a causa della lontananza e dei saltuari rapporti con la casa madre inglese, la società inglese fu liquidata e sostituita da una nuova società. Trossi e Rivetti, questi ultimi anche loro da tempo impegnati nel commercio del tessile, diedero così vita alla nuova società C. Trossi e Ditta Giuseppe Rivetti e figli, subentrando alla precedente gestione inglese. “…Da una parte la tipologia delle casette era quella che meglio si prestava all’acquisto. Inoltre era la forma abitativa preferita dall’azione filantropica dei grandi industriali sia per una visione naturalistico-romantica connaturata allo spirito nordico (esperienze di Howard, Owen, Fourier), sia per il fatto che le grosse industrie promotrici di queste iniziative erano prevalentemente situate in campagna o all’estrema periferia della città, dove il costo dell’area non incideva moto sulla costruzione; inoltre era netto l’interesse nel “fissare” una popolazione operaia sana e ben alloggiata, quindi più produttiva…” (Massimo Scolari cit. p. 119 in “Tipi e trattati sulle case operaie: le origini”). “…sono maturate nel corso del tempo svariate proposte da parte di architetti e urbanisti, filantropi e sociologi,….dal villino al grattacielo, dalla città giardino alla città verticale, dal falansterio alle siedlungen, dall’unitè di Le Corbusier alla broadacre di F.L. Wright: tentativi di rappresentare e di dare forma attraverso pietre e parole, forme e impianti alla nuova realtà…” (cit. p. 40 I villaggi operai Trossi e Rivetti: un’analisi storico architettonica, a cura di Cesare Piva, 2000) 14 Industria e comunità locale Il Villaggio Trossi e Rivetti, non distante dall’insediamento industriale della Pettinatura Italiana (1920), era così organizzato: • Case operaie bi famigliari all’inglese con bow window (1920-1923) • Chiesa di San Giuseppe (1926) • • Cine Teatro Erios (1927) Il nome del teatro, da alcuni in passato messo in relazione con “Erion”, in greco “lana”, è la sigla che corrisponde a “Ermanno Rivetti Opere Sociali”. • Convitto femminile (1939) • 39 edifici residenziali a due piani • 2 lavatoi pubblici • 35 palazzine a due piani • 3 villini • 1 cottage • forno e macello Collegno – Cascine Vica : il Villaggio Leumann Tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900 fu costruito il Villaggio Leumann in località di Cascine Vica nel comune di Collegno, accanto all’omonimo cotonificio avviato dall’industriale svizzero Napoleone Leumann. L’opificio era stato fondato nel 1875 in un’area dotata di corsi d’acqua artificiali (bealere, presenti sin dal XVI sec., alimentate dalle acque della Dora Riparia) e ben servito nei trasporti grazie alla vicina della stazione ferroviaria di Collegno, sulla linea verso la Francia. Nel cotonificio si svolgevano le lavorazioni di tessitura, di tintura dei tessuti ed il finissaggio. Il villaggio progettato in stile liberty dall’ing. Pietro Fenoglio è costituito da abitazioni disposte su due piani mono e bi famigliari per operai ed impiegati, con attiguo giardino. L’impostazione del villaggio è caratterizzata da ampi viali interni costeggiati da alberi, con edifici per i servizi sociali essenziali, come: il convitto per le giovani operaie provenienti dai vicini paesi di montagna impegnate nelle attività stagionali invernali, il circolo sociale, lo spaccio alimentare (ove era vietata la vendita di alcolici compreso il vino al fine di garantire una quiete pubblica) ed i bagni pubblici. All’interno del villaggio era stata costruita una chiesa, un asilo nido, la scuola elementare, l’ufficio postale e la “stazionetta”, ove si fermava il treno che collegava Torino (piazza Statuto) a Rivoli (la prima linea tranviaria intercomunale con locomotiva a vapore in Italia - 1871)3. Villaggio case operaie a Torino de “La Cooperante” 3 http://www.atts.to.it/documenti/storia_tram_torino_1.php, http://www.villaggioleumann.it/eventi.php?IDevento=52 15 Industria e comunità locale Un’interessante esperienza di villaggio operaio è quella della Società di Mutuo Soccorso La Cooperante a Torino. Sul lungo Po Machiavelli, poco prima di Corso Regina Margherita, esisteva fino a metà degli anni sessanta il quartiere-villaggio dell’omonima Società cooperativa, costruito nel 1889. L’iniziativa si avviò grazie alla concessione, a prezzo di favore di un terreno comunale, al fine di offrire un’abitazione salubre e comoda in una “località sana ed amena”, non distante dal fiume Po e dalla collina torinese, agli operai delle manifatture della zona4. Testona (Moncalieri): Villaggio di lavoratori agricoli del 1938 Sopravvive a Testona (frazione di Moncalieri), sebbene alterato nel tempo da successivi rifacimenti, il villaggio per lavoratori agricoli edificato nel 1938. Il villaggio per i lavoratori agricoli è composto da dodici case unifamiliari alle pendici della collina, firmato dai progettisti Passanti e Perone, dei quali si deve anche il progetto dell’attigua Manifattura. Il complesso manifatturiero sorge nel verde di un grande parco ai confini tra Torino e Moncalieri, si presenta come un edificio monumentale e nello stesso tempo leggero, grazie all’architettura classicheggiante che lo contraddistingue dagli altri insediamenti simili del territorio circostante. La zona di Testona è attigua all’area di importante tradizione tessile settecentesca: Chieri e Poirino, con una particolare vocazione alla tessitura dei filati di cotone e di lino. Buttigliera: il villaggio delle Ferriere Nella frazione Ferriera di Buttigliera Alta (To) verso la fine del 1800 la famiglia Vandel, proveniente dall’omonima frazione del Comune di Jounge in Francia, impiantò una fabbrica di chiodi e di attrezzi agricoli. Nel 1890 Giuliano Vandel arrivò a Buttigliera Alta e valutata l’idoneità del luogo per installarvi una fabbrica, acquisì un mulino ed i terreni circostanti, incoraggiato nell’opera dalla marchesa Clementina Carron dell' Ordine Mauriziano e dall' amministrazione Comunale. Alla fine del 1891 iniziarono le attività dell’industria e la località prese il nome di Ferriere, in ricordo di La Ferriere Sous Jougne, paese di provenienza dei Vandel e delle maestranze trasferitesi in loco. Per far fronte alle necessità abitative Vandel avviò la costruzione di case operaie, sia per le maestranze francesi e sia per quelle italiane. Grazie all’iniziativa di Vandel la valle delle Ferriere dopo pochi anni fu al centro di un vero boom economico, grazie alla disponibilità di acqua e legname, come risorse naturali, necessarie per far funzionare le caldaie, le forge, i magli, le trafilerie e le chioderie. Non lontano da Buttigliera Alta ad Avigliana nel 1872 Alfred Nobel fondò l’omonimo dinamitificio, approfittando dell’abolizione nel 1869 del monopolio statale sulla fabbricazione degli esplosivi. Anche questa iniziativa ebbe un grande successo industriale, tanto da caratterizzare all’inizio del 1900 la zona tra Avigliana e Buttigliera Alta come un territorio ad alta industrializzazione. Perosa Argentina: Gutermann ed Abbegg Nell’area di Perosa Argentina, tra la Val Chisone e quella Germanasca, sin dalla metà del 1800 ha avuto inizio un importante processo di industrializzazione, prima nel settore tessile e poi nel ‘900 in quello meccanico (la Riv). L’avvio di importanti manifatture per la lavorazione dei cascami di seta e di un cotonificio si deve essenzialmente a due importanti famiglie straniere: i Gutermann, provenienti dalla Germania, e gli Abbegg, originari della Svizzera. Queste realtà industriali si inserivano in un territorio ricco di tradizioni nel settore tessile grazie alla presenza di filande, a conduzione famigliare, esistenti sin dal 1700. L’avvento degli insediamenti manifatturieri attirarono 4 http://www.comune.torino.it/circ7/pagine/cooperante.htm 16 Industria e comunità locale centinaia di persone dalle valli limitrofe, rendendo necessarie delle rapide trasformazioni urbanistiche e la costruzione di nuove case per gli operai ed impiegati, nonché dei convitti per le lavoratrici stagionali, scuole, asili e dopolavori. Dalla seconda metà del 1800 il lavoro a domicilio nel campo tessile è stato soppiantato da quello nelle manifatture, organizzate con nuovi cicli di lavoro e dotate di nuovi e moderni macchinari. La produzione di tessuti nelle manifatture poteva garantire una varietà ed una quantità di manufatti molto maggiore rispetto a quella fornita dal lavoro domestico. L’industrializzazione in queste piccole realtà cittadine, rappresentava una trasformazione importante nel tessuto sociale ed economico, tanto da identificarle i ritmi del paese con quelli della fabbrica, mutando in poco tempo gli usi e costumi della comunità, rimasti immutati per secoli. Il villaggio Snia Viscosa a Torino Il villaggio operaio Snia Viscosa sorge nella periferia nord di Torino in prossimità dell’attuale accesso all’autostrada per Milano. Costruito nel 1925 su progetto dell’architetto Vittorio Tornelli, rappresenta una tipicità nel panorama cittadino, nonché anche rispetto ad altri villaggi operai. Il villaggio sorge in prossimità degli stabilimenti della Snia Viscosa, azienda fondata dall’eclettico imprenditore Riccardo Gualino (Biella 1879 - Firenze 1964) negli anni venti del novecento, con il compito di mettere in produzione la “seta artificiale” utilizzabile in sostituzione delle fibre naturali, a costi minori. Il villaggio è costituito da una serie di palazzine disposte su tre piani che si affacciano su cortiligiardini interni. L’insediamento, rispetto ad altre tipologie del genere, si caratterizza essenzialmente come quartiere abitativo e la presenza di servizi, rispetto ad altri esempi di villaggi operai, è meno importante. Il Villaggio operaio di Condove della Società Moncenisio Fortunato Bauchiero nel 1905 avviò a Condove, importante sede di mercato dell’area della bassa Valle di Susa, gli stabilimenti della Società Anonima Bauchiero, poi rinominate Officine Moncenisio e successivamente Fiat Vertek, trasformando la vocazione prevalentemente agricola e commerciale del paese. La presenza industriale a Condove della Società attirò molta manodopera, sia dalle zone più povere della montagna e sia dagli altri paesi della valle e del Piemonte, in particolare da Savigliano e da Carmagnola. Il notevole afflusso di maestranze propose in breve tempo al Comune il problema delle case e dei servizi sociali. Fortunato Bauchiero, industriale filantropo, programmò ed attuò un piano di sviluppo abitativo del paese, dotandolo di case per gli operai ed impiegati, nonché dei principali servizi sociali. L’insediamento abitativo sorse a cinquecento metri dalla fabbrica in un contesto ancora agricolo. La Società Anonima Bauchiero iniziò ad edificare le prime abitazioni sin dal 1907, con la costruzione di una serie di villette per gli impiegati e di case a tre piani per gli operai, delimitate da giardini e cortili interni. Nel 1911 fu progettata la villa Bauchiero, con un’architettura liberty di particolare pregio. Lo sviluppo del villaggio operaio continuò con la Società Moncenisio, secondo gli intendimenti del suo fondatore, nel periodo dal 1934 al 1940, con l’organizzazione di servizi sociali al fine di migliorare la qualità della vita degli abitanti del villaggio, costruendo: scuole, bagni pubblici, l’infermeria, locali di incontro, un campo sportivo, un refettorio stabilito in un edificio su due piani, ed un asilo. Negli anni cinquanta l’ampliamento del villaggio continuò ad opera dell’istituto pubblico Ina case. 17 Industria e comunità locale Il Villaggio Anselmetti di Cogne Nei pressi dei siti estrattivi di Cogne in Valle d’Aosta, negli anni trenta fu fondato un villaggio per accogliere i minatori impiegati nelle miniere di Cogne. Il sito minerario di Cogne, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, è il più famoso della Valle d’Aosta rispetto a quelli di: Aosta, Orfeuille (Valgrisenche), Ollomont, Saint Marcel, Ussel, Challand e Champdepraz. Il complesso estrattivo delle Miniere di Cogne (situato a 2500 m sul Monte Crepa) era collegato alle acciaierie di Aosta attraverso un sistema di trasporti particolarmente complesso composto da gallerie e da percorsi di trasporto ferroviario del materiale estratto. Le case, costruite ai margini della funivia Costa del Pino, creavano nel loro insieme l’ambito di un piccolo villaggio alpino, dotato di locali ad uso sociale e di una chiesa dedicata a Santa Barbara. Il villaggio era stato concepito al fine di rispondere ai bisogni abitativi sia dei minatori stabili e sia di quelli stagionali. La miniera rappresentava per molti lavoratori stagionali un’importante integrazione al reddito della povera economia di montagna. Di conseguenza si rendevano necessari degli alloggiamenti anche per i lavoratori stagionali oltre che per quelli stabili con le famiglie a seguito. Il Villaggio di Cogne è ora integrato nel contesto del Museo Minerario Regionale Alpino della Valle d’Aosta5. Il Villaggio operaio della Ferrania a Cairo Montenotte (Sv) Il complesso industriale della Ferrania di Cairo Montenotte risale al 1917, data in cui la F.I.L.M. (Fabbrica Italiana Lamine Milano) assorbì gli impianti della S.I.P.E. (Società Italiana Prodotti Esplodenti), realizzando la più grande industria fotografica italina, ceduta nel 1964 all’americana 3M. Il complesso della Ferrania, firmato dai progettisti Moretti, Portaluppi e Mongoni, presenta numerosi esempi architettonici industriali di pregio, come l’ex centrale elettrica e quella termoelettrica Sipe, ingentilite all’esterno dall’elegante rivestimento in mattoni rossi alternati da elementi in ferro secondo lo stile liberty littorio, nonché le palazzine ed i fabbricati adibiti alle varie lavorazioni industriali. Fuori del complesso industriale, lungo il viale della Libertà, in direzione di San Giuseppe di Cairo, si disponevano le case operaie, organizzate in villini bi famigliari, dotati di eleganti bow window, inseriti in un grazioso contesto di città giardino. Il villaggio era dotato di una struttura associativa (il Cral), anche questo edificio di particolare pregio architettonico, con all’interno sale di incontri e per la proiezione cinematografica6. La Spezia: il Villaggio Umberto I ed il borgo a Ponzano Belasio in Val Magra La presenza di villaggi operai nel versante levante ligure, ed in particolare nella provincia di La Spezia, è dovuta all’insediamento dell’arsenale Militare e al conseguente sviluppo industriale nell’area spezzina. Le origini dell’Arsenale militare risalgono al 1749, data in cui si sviluppò l’idea di attrezzare il golfo di La Spezia con strutture marittime ad uso militare, grazie alle sue favorevoli condizioni logistiche. L’avvio dei lavori per la costruzione del porto militare risalgono invece al 1862, quando l’area portuale diventò a tutti gli effetti di interesse militare. In provincia di La Spezia esistono due interessanti siti di Villaggi operai: il quartiere Umberto I, sorto ai margini del centro storico del capoluogo del levante ligure, e il borgo di Ponzano Belasio, ubicato nella piana della bassa valle del fiume Magra. A seguito dell’epidemia di colera del 1884, che aveva colpito con intensità La Spezia, si pose con urgenza il problema di edificare delle abitazioni salubri anche per soddisfare la crescente richiesta di abitazioni, a seguito dello sviluppo della nuova area industriale. 5 6 www.centrosviluppo.it/_download_pup.cfm?dwd=2513,1 http://www.ticcihcongress2006.net/paper/Paper%2011/Luciano.pdf 18 Industria e comunità locale Il nuovo complesso abitativo sorse ad ovest del centro storico di La Spezia, nell’area pianeggiante di Piandarana, L’impianto urbanistico a pianta ortogonale prevedeva residenze popolari, abitazioni per gli impiegati, caratterizzate da edifici in blocco, in stile umbertino, suddivisi per isolati. Il secondo insediamento per gli operai è quello ubicato in Val Magra, nei pressi della Ceramica Vaccai Spa, azienda insediatasi sin dal 1800 su di una preesistente fornace di laterizi (la Società anonima stabilimento ceramico Ellena). L’opificio, stabilito lungo il torrente Belaso a Ponzano nella piana della bassa val Magra, si inserisce in un contesto prevalentemente agricolo. Il villaggio, ora in parte demolito, era costituito da case su due piani con edifici a corte, con cortile interno di accesso alle unità immobiliari, dotati di servizi igienici in comune. Il villaggio era servito da uno spaccio aziendale, di una Chiesa ed in posizione preminente spiccava la villa Vaccai, residenza della famiglia dell’imprenditore, in stile liberty. 1.5 Case popolari Nel 1888 fu fondata a Torino la società cooperativa La Cooperante, con l’intento di costruire case operaie ai propri iscritti e/o su incarico di aziende per i propri operai, come nel caso delle case operaie della Martini e Rossi a Torino. Il complesso abitativo fu edificato tra il 1888 ed il 1902 nella zona di barriera di Orbassano, oltre la cinta daziaria, tra le attuali Vie A. Pigafetta e G. da Verrazzano. L’impianto architettonico dell’insediamento, predisposto dal’ing. Camillo Riccio, è caratterizzato da una tipologia di fabbricati isolati di tre piani fuori terra con due alloggi per piano dotti di servizi igienici all’interno, allineati perpendicolarmente lungo l’asse stradale e separati tra di loro da cortili longitudinali. Al pino terreno sorgevano botteghe e negozi. Tutto l’insediamento può essere identificato come il primo esempio di edilizia aziendale torinese, come eredità urbana della tradizione dei villaggi operai del 1800. Nel solco delle esperienze architettoniche di edilizia popolare, avviate in Inghilterra nella seconda metà del 1800 (working class housing), come ad esempio il sobborgo giardino di Bedford park a Londra, all’inizio del XX secolo si diffuse nel nostro paese il loro modello urbano, con lo scopo di rievocare ai margini della città, secondo un impostazione ideologica intrisa di “nostalgie ruraliste”, alcuni luoghi abitativi di pace agreste capaci di allietare il rientro a casa dei lavoratori dalle fatiche del lavoro in fabbrica. Sin dagli anni sessanta dell’ottocento era attiva la Società Torinese delle abitazioni popolari (Stap). Soltanto verso la fine del 1800 la Stap trovò un nuovo slancio grazie al sostegno del Comune di Torino, nel destinare aree fabbricabili per l’edilizia popolare, ed ai contributi finanziari elargiti da alcuni rappresentanti dell’industria, come Napoleone Leumann, membri del consiglio di amministrazione. La società aveva altresì coinvolto nella progettazione importanti architetti dell’epoca, come Pietro Fenoglio, caratterizzando in modo esemplare l’architettura torinese nel settore dell’edilizia popolare, come gli insediamenti abitativi in Via Vanchiglia, Corso Regina Margherita ed in Via Oddino Morgari, costruiti con influssi architettonici che s’ispiravano all’opera dello spagnolo Antoni Gaudi. Nel 1903 l’istituto per le Opere Pie di San Paolo, opera fondata a Torno nel 1563, deliberò la costruzione di un gruppo di case economiche destinato “…ad offrire gratuito ricovero a vedove di operai con prole, in speciali condizioni di bisogno, con preferenza per quelle i cui mariti avessero perdutra la vita in seguito di infortunio sul lavoro…”. L’insediamento in Via Vigone, in barriera San Paolo oltre la cinta daziaria, era costituito da sei fabbricati indipendenti a due piani fuori terra con due alloggi simmetrici per piano. A seguito 19 Industria e comunità locale dell’emanazione della legge Luzzati sull’edilizia popolare (1902), nel 1907 con R.D. fu fondato l’istituto per le case popolari riconosciuto come Ente Morale. Nel 1914 l’edilizia popolare municipalizzata si era diffusa in molti comuni italiani (trentuno) di cui diciotto avevano scelto la forma giuridica di azienda speciale (tra cui Torino) e i restanti tredici avevano optato per l’intervento diretto nel settore dell’edilizia popolare. Il primo cantiere del neonato istituto torinese fu aperto su di un terreno municipale in barriera di Milano, delimitato dalle Vie Pinerolo, Schio, Cuneo e Damiano (un tempo Via Mondovì), accanto agli stabilimento della Fiat Grandi Motori. Seguirono altri interventi edificativi come quelli in regione Valdocco, grazie all’offerta finanziaria del cotonificio Torinese del gruppo Mazzonis, interessato a garantire la presenza di alloggi popolari nei pressi dei propri opifici. In quel periodo l’industria declinò ogni intervento diretto nell’edificazione di case operaie in favore di finanziamenti indiretti, sottoforma di contributi e donazioni di terreni edificabili, al nuovo Istituto pubblico case popolari, al fine di favorire l’insediamento abitativo delle proprie maestranze in quartieri in prossimità degli stabilimenti. Seguirono altri insediamenti di case popolari: Via Cimarosa, Via Bologna e Via Ponticello (odierne Via Tripoli e Via Casteagnevizza); Via Chianocco, Revello, Foresto e Corso Racconigi; Via Villar, Principe d’Anhalt e Vittoria in luogo della cascina Colombè, Via Farini, Tommaseo, Faà di Bruno e Pallavicino, su terreno assegnato dalla Società Italiana per il Gas; ed in Corso Spezia angolo Via Santena. 2. WELFARE AZIENDALE TRA DOPOLAVORO ED ASSISTENZA 2.1 Le origini dello stato sociale Con l’emanazione dello Statuto Albertino (1848) ed il conseguente riconoscimento delle libertà associative, in Piemonte nascono le società di mutuo soccorso (la prima fu fondata a Pinerolo nel 1848), e le società operaie di ispirazione mazziniana. Fino all’unità d’Italia lo sviluppo delle S.M.S. restò circoscritto solo al Regno di Sardegna, unico Stato italiano che conservò uno statuto liberale dopo il 1848. L’intervento delle S.M.S. nel campo dell’assistenza, tradizionalmente organizzato dalla Chiesa attraverso le Opere Pie ed altre istituzioni caritatevoli, si diffuse tra le maestranze occupate nei principali insediamenti operai dell’epoca, ma anche tra i contadini e i minatori. L’urbanizzazione e l’avvio della prima rivoluzione industriale nel nostro paese, consentì ad un numero crescente di persone di entrare in contatto tra di loro, favorendo lo scambio di idee e la discussione sui principali problemi di vita quotidiana. Cresceva altresì la consapevolezza della loro condizione di vita e dei bisogni quotidiani, trasformando le aspirazioni per un futuro migliore in rivendicazioni sociali e sindacali, temi assunti successivamente verso la fine del 1800 dai primi movimenti socialisti e libertari nei loro manifesti politici. Le problematiche comuni erano essenzialmente riconducibili alle condizioni lavorative, alle abitazioni malsane e carenti di servizi igienici, alla mancanza di assistenza sanitaria, all’analfabetismo diffuso, alla necessità di forme di assistenza per la vecchiaia, contro la disoccupazione e le invalidità. Molte di queste situazioni di svantaggio sociale erano state affrontate fino ad allora grazie alla solidarietà all’interno della famiglia allargata a più generazioni (il clan famigliare), mentre in molti altri casi, con l’aiuto e l’intervento della Chiesa, attraverso l’azione delle Opere Pie. 20 Industria e comunità locale In Inghilterra i primi interventi pubblici nel campo sociale (Poor law del 1601) sono antecedenti all’avvento della prima industrializzazione (XVIII sec.), con un ulteriore importate sviluppo dopo il secondo conflitto mondiale del novecento, a seguito delle politiche di welfare state avviate dal governo laburista Eaden nel secondo dopoguerra (rapporto Beveridge del 1942 sulla povertà). In Francia le prime normative nel campo assistenziale si hanno dal 1830 in avanti, mentre in Germania la legislazione sociale prende avvio con il governo Bismark nel 1883 con uno slancio ed una portata tale da identificarle come l’inizio del moderno welfare state. Il giovane stato unitario italiano, iniziò ad affrontare la questione sociale attraverso alcuni interventi legislativi, al fine di uniformare gli interventi assistenziali pubblici esistenti, superando le disparità presente nei singoli stati pre unitari. Il 3 agosto 1862 fu varata la legge 753 sull’ordinamento delle Opere Pie, con l’intento di riorganizzare il settore delle Opere, essenzialmente di emanazione di Congregazioni religiose. Con la legge Crispi del 1890 le Opere Pie sono riorganizzate ed in parte soppresse, trasformandole in IPAB (Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficenza), ove l’assistenza pubblica si affiancava a quella benefica nel campo dell’assistenza sociale e delle cure sanitarie. Nel 1886 fu approvata la legge che riconosceva a livello giuridico le S.M.S., consentendo ad alcune di queste, rispondenti ai requisiti di legge, di essere riconosciute come Enti Morali. La diffusione dell’industrializzazione e l’intensificarsi della “questione sociale” indussero la classe dirigente di ispirazione liberale al varo di una serie di interventi legislativi, al fine di tutelare la popolazione dalle nuove forme di povertà, riconducibili alle rapide trasformazioni economiche e dal cambiamento dei ritmi di lavoro. Considerate le mutate condizioni sociali del paese, con particolare riferimento all’avvio di nuove forme di lavoro nelle grandi fabbriche del nord e la nascita di nuovi movimenti sindacali e politici, anche la Chiesa si pose la questione di una sua nuova dottrina sociale, rispondente alle mutate condizioni della società. Con l’emanazione dal parte di Papa Leone XIII dell’enciclica apostolica Rerum Novarum (1891) l’intervento caritatevole della Chiesa, di millenaria tradizione svolto attraverso le Opere Pie, non era più sufficiente a soddisfare le nuove forme di povertà in una società in rapido cambiamento, con particolare riferimento alle aree urbane. L’enciclica articolava in modo organico in una serie d’interventi della Chiesa nel campo sociale, con l’idea di fondo di una conciliazione tra capitale e lavoro, nonché nel rispetto della proprietà privata, attraverso la convergenza di interessi tra operai e datori di lavoro. Verso la fine del 1800, dopo la drammatica fase di crisi di conflitto sociale di fine secolo, si crearono le condizioni di collaborazione tra le forze liberali progressiste ed i settori riformisti del socialismo, inaugurando un nuovo periodo di riforme. Nel 1902 fu emanata la normativa sulla tutela sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sul lavoro nei luoghi insalubri, sulla tutela dei minorenni nelle fabbriche, nuove norme sui limiti dei lavori notturni e l’introduzione delle pause di lavoro. Nel 1903 con il varo della legge Luzzati fu regolamentato l’intervento pubblico nel settore dell’edilizia popolare, con l’istituzione a livello comunale di appositi istituti pubblici. Nel 1904 fu approvato il testo unico sulle leggi in materia sanitaria e sulla tutela degli infortuni sul lavoro, introducendo il principio di rischio professionale ed estendendo ad altre categorie lo schema assicurativo obbligatorio, varato nel 1898. Nel 1897 fu introdotto il riposo settimanale festivo per i lavoratori delle fabbriche. Con l’allargamento del suffragio elettorale, ancora limitato al genere maschile, nel 1912 lo stato liberale estese i diritti di cittadinanza anche sul versante delle politiche sociali. 21 Industria e comunità locale In questa breve sintesi sulle tappe salienti dell’evoluzione dello stato sociale, possiamo delineare alcune trasformazioni avvenute nell’ambito dell’intervento del privato nelle politiche sociali. Fino alla metà del 1800 la Chiesa attraverso le Opere Pie e le Congregazioni, nonché anche attraverso le Misericordie, continuava ad essere la principale erogatrice di varie forme assistenziali. Con l’avvento delle Società di Mutuo Soccorso e le corporazioni dei mestieri iniziò a diffondersi una solidarietà di impronta “laica”. Nello stesso tempo l’intervento filantropico di ricchi esponenti dei ceti nobiliari, ma anche della nascente borghesia che aveva fatto fortuna nel primo sviluppo industriale nel campo della manifattura tessile e nelle attività finanziarie, destinavano periodicamente, come da tradizione, delle somme in denaro in favore della Chiesa ma anche alle S.M.S. Con l’avvio delle prime riforme post unitarie il giovane Stato italiano portò nell’ambito pubblico l’attività delle Opere Pie, trasformandole in Ipab e sottraendole al controllo esclusivo della Chiesa, con nuove regole nell’esercizio delle molteplici attività assistenziali. In questa fase assistiamo ad un allargamento dell’intervento dello Stato nel campo sociale, esercitato dai governi liberal democratici con legislazioni in favore ed a tutela dei lavoratori. Nel nostro paese le politiche sociali dello stato sono indicate con la dizione di Previdenza sociale, che si riferisce ai principali schemi assicurativi obbligatori introdotti nei primi decenni del 1900, come: le pensioni di vecchiaia, gli assegni di invalidità, di disoccupazione e familiari, le normative sugli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali. L’azione del privato, rappresentato dalle SMS e dagli imprenditori, s’indirizzò successivamente verso l’erogazione di servizi riconducibili all’assistenza sociale, completando in modo sussidiario le carenze pubbliche del settore. Lo stato italiano, dall’inizio del 1900 e poi successivamente nel ventennio della dittatura, sviluppò i settori di previdenza sociale obbligatoria nel settore previdenziale, infortunistico e di assistenza sanitaria, lasciando ancora spazio all’intervento privato tramite le casse mutue sanitarie (come ad esempio la Malf – Mutua assistenza lavoratori Fiat -, e molte altre di diverse altre categorie professionali: elettrici, commercianti, coltivatori diretti etc…). I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale Assicurazioni Invalidità e Lavoro – 1933) I.N.P.S. (Istituto Nazionale Previdenza Sociale - 1939) E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza- 1937) O.M.N.I. (Opera Nazionale Maternità ed Infanzia – 1925) 2.2 Le origini del Welfare aziendale Forme di sostegno e di aiuto caritatevole le ritroviamo nella civiltà contadina, con elargizioni dei proprietari fondiari rivolte ai contadini bisognosi, esporti alle carestie, ai continui esodi nel periodo invernale, dovuti al termine dei contratti di mezzadria ed alle condizioni di grave difficoltà in cui versavano le famiglie numerose, ove solo l’assistenza delle istituzioni religiose sovente poteva garantire la loro sopravvivenza. L’intervento delle aziende in favore delle maestranze sottoforma di aiuti e benefici sociali, si sviluppa nel nostro paese dalla metà del 1800 in concomitanza con l’avvio delle prime grandi manifatture ed opifici. Il riferimento culturale di queste azioni sociali, da parte dell’imprenditore, è ricondotto principalmente a delle politiche definite con il termine di paternalismo nei rapporti con i dipendenti, al fine di mitigare le tensioni politiche e sindacali all’interno dei posti di lavoro. Nei paesi del nord Europa di cultura calvinista, la restituzione di una parte dei proventi, derivanti dalle imprese economiche, rappresentava una giusta ricompensa alla società da parte di coloro 22 Industria e comunità locale che avevano fatto fortuna. Nel nostro paese invece l’intervento benefico, oltre alle motivazioni esposte in premessa, rappresentava anche per molti imprenditori una concreta azione di carità cristiana, in aiuto verso i più sfortunati. Quest’ultimo atteggiamento lo ritroviamo sia nell’intervento dell’imprenditore in favore dei propri dipendenti ma anche rivolto verso l’intera comunità. Questo duplice percorso, che spesso ritrova comuni punti di contatto, si manifesta attraverso le opere benefiche indirizzate ai propri dipendenti e nelle azioni liberali di pubblica beneficenza, ove i beneficiari sono i componenti dell’intera comunità. Nel primo caso l’interesse dell’imprenditore è orientato anche alla creazione di rapporti sociali meno conflittuali all’interno della fabbrica, utilizzando la “leva benefica” al fine di richiedere alla proprie maestranze un maggiore coinvolgimento nel campo lavorativo, oltre al riconoscimento del giusto compenso dato in termini salariali per il lavoro svolto. La creazione di un clima positivo nei rapporti tra i sottoposti ed i superiori è ritenuto da molti imprenditori un’importante condizione lavorativa al fine di rasserenare il clima di lavoro e di migliorare la qualità del prodotto. Nel secondo caso invece, sovente, l’imprenditore cerca attraverso l’intervento filantropico un consenso pubblico alla propria azione imprenditoriale, collocando la propria opera in un contesto di pubblica utilità. Creare sviluppo, benessere e posti di lavoro rappresentano per l’imprenditore le condizioni indispensabili per il miglioramento complessivo della comunità. Attraverso le tasse l’imprenditore paga la quota dovuta sul legittimo profitto, al fine di contribuire alla gestione dei servizi dello stato. Ma tutto ciò non basta. L’imprenditore si rende conto di dover elargire un di più alla comunità, al fine di essere riconosciuto anche come un benefattore. Le elargizioni creano i presupposti per un clima di maggiore collaborazione tra la presenza della grande industria, sovente portatrice di diverse problematiche dall’impatto ambientale alle problematiche sociali nella comunità di accoglienza. In ulteriori casi invece l’imprenditore è motivato anche a creare, attraverso le opere sociali, le condizioni per il perseguimento di valori etici e religiosi, oppure ancora a realizzare un’utopia (ad esempio la realizzazione della Comunità di lavoro di A. Olivetti). L’esperienza delle Società di Mutuo Soccorso, nate poco prima della metà del 1800, esprimeva tra gli associati il valore della solidarietà, collocando queste iniziative a fondamento di un’ etica tra i lavoratori, elemento generativo del futuro sviluppo delle rappresentanze sindacali all’interno dei primi grandi insediamenti industriali. Parallelamente la classe degli imprenditori cercò di sviluppare un analogo comportamento virtuoso, fondato sulla riconoscenza all’impegno prestato sul lavoro delle maestranze e dal desiderio di creare all’interno delle grandi industrie momenti di socializzazione, capaci di migliorare il clima di relazione tra le persone e di assopire, ove possibile, i contrasti dovuti a causa dei pesanti ritmi lavorativi, ed all’organizzazione di lavoro sempre più alienante. Considerato lo sviluppo dei servizi sociali messi in atto dallo Stato attraverso le assicurazioni obbligatorie, gli imprenditori iniziarono ad erogare fondi al fine di migliorare la qualità della vita dei dipendenti. Le grandi aziende iniziarono sin dagli anni trenta del novecento ad offrire soggiorni marini e montani per i figli dei dipendenti (Colonie estive), contestualmente a quelle organizzati dalle Federazioni dei fasci locali, durante il ventennio della dittatura. Le grandi aziende sovvenzionavano e si facevano promotrici di associazioni sportive amatoriali nel settore del calcio e del ciclismo, ove i dipendenti erano i principali artefici, venivano erogate borse ed assegni di studio ai figli meritevoli dei dipendenti per sostenerli nei corsi di studio superiori, si costruivano asili nido in favore dei figli delle lavoratrici in prossimità dei luoghi di lavoro, venivano aperti spacci aziendali, ove i dipendenti ed i familiari potevano fare la spesa a costi ridotti e sostenevano le 23 Industria e comunità locale bocciofile costituite da ex dipendenti in quiescenza. Durate le festività natalizie si erogavano pacchi dono per i figli dei dipendenti consegnati durate la festa della Befana benefica. Per le maestranze si destinavano doni di “fedeltà” aziendale al compimento dei venticinque o trent’anni d’azienda o in occasione del pensionamento. Non ultimo si istituì il servizio dei refettori, poi sostituiti da quello delle mense aziendali, riconosciuta come un’importante conquista delle classe lavoratrice negli anni sessanta, con il pagamento del pasto, inizialmente limitato ad una minestra calda sovente proposta ad un costo simbolico (Mensa aziendale Olivetti 19617). Inoltre le aziende iniziavano a finanziare i Cral aziendali con l’obiettivo di sostenere le attività ricreative tra i dipendenti, anche in questo caso al fine di migliorare i rapporti tra i lavoratori e l’azienda. Questi servizi ed erogazioni sociali potevano essere molto diversificate secondo la dimensione dell’azienda e della loro capacità finanziaria di intervento in tali opere. In alcuni casi l’appartenenza come dipendente ad un’azienda particolarmente generosa nel campo del sociale, rappresentava un vero e proprio status symbol, sovente invidiato da coloro che ne erano esclusi. Essere dipendente di un’azienda erogatrice di importanti attività sociali era un segno di distinzione verso gli altri cittadini, considerato che al tempo le politiche sociali dei Comuni non erogavano con tale generosità i benefici sopra citati. 2.3 Luoghi, strutture e servizi del welfare aziendale I servizi sociali Dai primi decenni del XX secolo, il welfare aziendale introdotto in molte grandi e medie aziende, si è manifestato essenzialmente sottoforma di servizi assistenziali, ma anche sotto l’aspetto ricreativo, sportivo e culturale. Tali interventi sono finanziati tuttora da numerose aziende in favore dei propri lavoratori e spesso costituiscono un vero e proprio salario accessorio (fringe benefit). I servizi sociali promossi dalle aziende rappresentano l’evoluzione degli interventi nel sociale, avviati inizialmente dalle Società di Mutuo Soccorso a beneficio dei propri soci, nonché di quelli nei primi interventi abitativi promossi dalle manifatture per le proprie maestranze (villaggi operai e sovvenzioni per la costruzione di case popolari in prossimità dei luoghi di lavoro). Con lo sviluppo della prima industrializzazione italiana e con la diffusione dei nuovi sistemi di organizzazione industriale del lavoro, di derivazione tayloristica, si crearono al centro nord i primi grandi agglomerati produttivi con la presenza di centinaia di operai. I ritmi lavorativi delle catene di montaggio e le difficili condizioni di lavoro da un lato e la nascita delle prime organizzazioni sindacali dall’altro lato, sollecitarono gli imprenditori ad adottare una serie di interventi sociali, come una sorta di compensazione ai faticosi ritmi di lavoro, al fine di contenere il malumore tra gli operai e contrastare le contestazioni sindacali, con un approccio di tipo paternalistico. Contestualmente l’imprenditore, attraverso gli interventi sociali, ricercava un consenso pubblico al suo operato al fine di migliorare il suo rapporto con la collettività, ben consapevole delle problematiche causate dalla presenza dei grandi insediamenti industriali, portatori di una trasformazione sociale non sempre accompagnata dalla presenza di servizi essenziali (case, servizi sociali, scuole, etc..), nonché causa di problemi di carattere ambientale (l’emissione di vapori, di rumori, inquinamenti di vario genere, etc…). L’intervento degli imprenditori nel campo assistenziale, ed in misura minore in quello ricreativo, costituiva uno strumento utile per migliorare il clima all’interno dell’azienda, integrando e a volta sostituendosi ai servizi pubblici, assai limitati, del giovane Stato unitario. 7 http://www.mamivrea.it/collezione/edifici/mensa.html 24 Industria e comunità locale I servizi di carattere sociale attivati da molte aziende sono di seguito riassunti per tipologia: • Colonie estive e campeggi Nel 1856 il dott. Giuseppe Baretti condusse a Viareggio tre bambini indigenti affetti da scrofolosi, patologia invalidante di origine tubercolare, constatando dopo il soggiorno climatico un notevole miglioramento delle loro condizioni di salute. Da quella data lo sviluppo degli ospizi e successivamente delle colonie marine ebbero una rapida diffusione in tutto il paese. In Liguria si diffusero molte di queste strutture di accoglienza climatica, come a Loano ove l’ing. P. Fenoglio progettò nel 1909 l’edificio della Colonia Marina Piemonte. Le Colonie sono state istituite per consentire ai bambini fra i sei e i dodici anni di trascorrere un soggiorno di circa venti -trenta giorni in condizioni climatiche ed igieniche ideali, al fine di contrastare la scrofolosi. Le Colonie erano anche luoghi di aggregazione per i giovani ove potevano iniziare un primo cammino di indipendenza dalla famiglia, nonché praticare sport, imparare le regole di convivenza e di disciplina. Nel periodo fascista l’organizzazione delle colonie marine trovò un ulteriore sviluppo con l’apertura di strutture capaci di ospitare centinaia di giovani, come quelle di Rimini e a Marina di Massa. Industrie come l’Olivetti e la Fiat sono state tra le prime ad organizzare tale servizio per i figli dei dipendenti. L’Olivetti metteva a disposizione le Colonie marine di Marina di Massa e quelle montane a Brusson in Val d’Aosta. La Fiat in occasione dei primi venticinque anni di fondazione dell’azienda fondò nel 1924 a Challand Saint Victor la prima colonia climatica. Seguirono dopo pochi anni quella di Marina di Massa e di Sauze d’Oulz. Le strutture di accoglienza climatiche, marine e montane, furono organizzate da molti grandi Comuni, come quello di Torino, e da molte aziende, come l’azienda elettrica torinese. Durante il corso dell’anno molte aziende organizzavano anche dei campeggi di alcuni giorni, sul modello di quelli dei Boy Scout in località montane tramite le iniziative promosse dall’ufficio di assistenza sociale presente in fabbrica, come attività preparatorie alla partecipazione alle colonie estive. • Assistenza materno infantile ed asili nido L’assistenza sanitaria alle lavoratrici e dei figli dei dipendenti, veniva incontro alle necessità di erogare dei servizi sanitari non facilmente fruibili nei giorni lavorativi a causa degli impegni di lavoro delle donne in fabbrica. Inoltre molte aziende, come l’Olivetti, anticiparono le normative sulla tutela delle lavoratrici madri (D.Lgs 860/1960) con permessi e periodi di aspettativa pagati pre e post partum. Dopo il periodo di allattamento e di svezzamento le mamme potevano, in molte grandi fabbriche, affidare i loro piccoli ai nidi ed agli asili aziendali, generalmente vicini ai luoghi di lavoro, evitando così lunghi trasferimenti tra casa, lavoro e nido. I nidi e gli asili per l’infanzia, avevano una fisionomia di centri di igiene fisica e mentale per il bambino, ove si organizzavano una serie di iniziative per l’infanzia sia nel campo pedagogico e sia in quello della salute. Disponevano altresì di personale qualificato come educatrici e puericultrici ed erano attrezzati con mense interne. Una di queste strutture all’avanguardia era presente preso l’azienda Olivetti di Ivrea. In molte realtà industriali era attivo un servizio pediatrico, generalmente con sede in un locale attiguo all’asilo nido. L’attività di medicina pediatrica si organizzava in: un ambulatorio, un consultorio, un’assistenza giornaliera ai bambini dell’alilo-nido, visite preventive per l’ammissione ai soggiorni presso le colonie climatiche, il servizio di vaccinazioni e di profilassi. Tali servizi erano presenti in molte medio-grandi città, promossi dall’OMNI (L’Opera maternità ed infanzia fondata nel 1925), ma non sempre le numerose richieste di iscrizione dei bimbi potevano 25 Industria e comunità locale essere soddisfatte a causa delle limitate disponibilità di accoglienza delle strutture infantili. Il servizio aziendale per la custodia dei figli delle dipendenti veniva incontro a queste necessità, sostituendosi ed integrandosi a volte ai servizi pubblici ove esistevano. • Doposcuola, collegi e scuole tecnico-professionali In alcune grandi aziende, come ad esempio in Olivetti, funzionavano dei servizi di doposcuola rivolti ai figli dei dipendenti iscritti ai corsi di avviamento professionale e alle scuole medie, come ad esempio avveniva ad Ivrea a cura dell’Olivetti per i figli dei dipendenti. Altre aziende agevolavano la frequenza delle scuole superiori per i figli dei dipendenti attraverso la disponibilità di accoglienza in Collegi e Convitti, ove la distanza abitativa delle famiglie non sempre consentiva la frequenza dei corsi superiori presenti soltanto nelle principali città. Quest’ultimo servizio nel tempo si è sostituito con l’erogazione di borse di studio ai ragazzi meritevoli di aiuto. Nel campo scolastico aziende come la Fiat avevano organizzato delle scuole professionali al fine di sostenere la formazione tecnica in alcuni settori molto richiesti dall’industria meccanica, come quelli per disegnatori meccanici, meccanici tornitori e fresatori. Una di queste scuole era quella degli Allievi Fiat, fondata nel 1922 e poi confluita nel 1978 nell’Isvor Fiat, in Corso Giovanni Agnelli a Torino. Nel tempo la formazione degli apprendisti presenti in fabbrica si è evoluta, con l’inserimento nei programmi scolastici anche di materie di cultura generale e di laboratorio, mantenendo sempre un indirizzo tecnico, ma orientando gli studenti anche verso successivi corsi di diploma per periti aziendali, parificati alle scuole statali. Queste scuole biennali e triennali dopo l’avviamento professionale, prima della riforma della scuola media inferiore unica del 1963, erano rivolti prevalentemente ai figli dei dipendenti, futuri operai della grande azienda. In queste scuole l’impostazione professionale si accompagnava a quella formativa, creando così in nuce una vera e propria accademia di lavoro, con una formazione indirizzata a creare uno spirito di corpo ed una positiva relazione con il mondo del lavoro. Da queste scuole la fabbrica traeva nuova linfa generazionale, al fine di soddisfare il ricambio di tecnici per l’azienda, formati secondo un modello del “saper fare”, spesso enfatizzato rispetto a quello della cultura e del “saper essere”. 3. INDUSTRIA E RESPONSABILITA’ SOCIALE 3.1 Le origini del filantropismo Con l’avvio del modello economico mercantile, nel periodo d’oro del Rinascimento, la figura del mecenate simbolicamente rappresentava l’espressione dell’imprenditore dotato di virtù e doti, capace di creare un virtuoso processo di emancipazione civile attraverso la cultura. Dal XIII secolo fino alla metà del XVI secolo in alcune zone del nostro paese (Toscana ed Umbria ed in diversi liberi Comuni del nord ad esempio) si sviluppò un assetto sociale definito di “civiltà cittadina”, segnata da fasi alterne di democrazia partecipativa comunale e di governi autocratici, diffondendo nel tempo, nonostante le discontinuità, una cultura di partecipazione diffusa della cosa pubblica. La vita sociale si svolgeva nei centri abitati tra i palazzi nobili e quelle dei ricchi commercianti, la cattedrale, il palazzo del governo, le chiese sedi delle principali confraternite, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni, mentre la piazza rappresentava il luogo di incontro per eccellenza, ove si maturava una dimestichezza ed un nuovo spirito comunitario, abituando i cittadini all’esercizio delle virtù civiche (la fiducia, la reciprocità e la fraternità). 26 Industria e comunità locale Nel modello di economia capitalistica, realizzata nella prima e nella seconda rivoluzione industriale, emerge invece la figura del capitalista filantropo. Verso la metà del 1800 in Europa si diffonde l’idea di filantropia d’impresa. Alcune tra le principali famiglie capostipiti d’importanti imprese industriali, realizzarono villaggi operai, sostennero opere filantropiche in favore sia dei loro dipendenti ma anche per la comunità, come ad esempio in Europa le opere di Schneider al Creusot (Fr.), dei Michelin a Clermond-Ferrand (Fr.), di Ernest Solvay in Belgio, di Robert Owen in Inghilterra, ed in Italia quelle della famiglia Crespi (villaggio operaio di Crespi d’Adda), di Alessandro Rossi nel Vicentino, di Napoleone Leumann a Collegno (To), tanto per citare alcune tra le esperienze più significative. 3.2 Le Fondazioni Le fondazioni avviate dalle grandi famiglie industriali sono comunemente identificate con il termine inglese di corporate foundations. La loro missione fondamentale è quella di elargire una parte profitto prodotto dall’impresa familiare attraverso interventi sociali, finanziando e promuovendo una serie di iniziative nel campo dell’arte, della ricerca scientifica, dell’assistenza sanitaria, nel recupero e valorizzazione di opere d’arte e nelle promozione della cultura. Le prime fondazioni italiane hanno origine da importanti famiglie esponenti di primo piano del capitalismo italiano (ad esempio la Fondazione Olivetti 1961 e la Fondazione Giovanni Agnelli 1966), successivamente integrate da Fondazioni create da imprese pubbliche (Fondazione Eni Enrico Mattei 1989) o private (Fondazione Ansaldo di Genova costituita nel 2000) e di recente, a seguito della riforma nel settore bancario (L. 218/1990), dalle fondazioni di origine bancarie (le Casse di Risparmio) e dalla trasformazione sociale di importanti musei e teatri pubblici (come ad esempio la Fondazione Torino Musei –2002-). Secondo una recente ricerca della Fondazione Enrico Mattei (2005) in Italia il 22% delle fondazioni nasce fra il 1950 ed il 1979, il 24% durante gli anni ottanta, il 28% negli anni novanta. Attualmente le Fondazioni operanti nel Nord Ovest sono: 4 in Valle d’Aosta, 171 in Piemonte (di cui 11 di derivazione delle ex Casse di Risparmio locali) e in Liguria 55 ( di cui 3 di derivazione da ex Casse di risparmio locali). Secondo la definizione giuridica la fondazione può essere definita come "…un' organizzazione privata la cui finalità non è il profitto, è dotata di fondi propri, è gestita da direttori che sono fiduciari del fondatore o dei fondatori secondo i criteri fissati nello statuto, ed è creata per sostenere attività sociali, educative, filantropiche, religiose, scientifiche e culturali, che possano contribuire al benessere o al progresso collettivi…". Con il consolidarsi dei patrimoni delle principali famiglie proprietarie delle prime grandi fortune create durante la seconda fase dell’industrializzazione, nascono negli Stati Uniti le prime importanti Fondazioni, come la Carnegie Corporation, Philantropy and Public Policy nel 1911, la Rockefeller Foundation nel 1913, la Ford Foundation nel 1936, operanti nel campo dell’assistenza sociale, della cultura e della ricerca scientifica. Per responsabilità d’impresa s’intende l’assunzione di comportamenti corretti nel gestire efficacemente le problematiche conseguenti l’impatto sociale, ambientale ed economico, sia all’interno del luogo di lavoro e sia all’esterno nelle zone di attività, e nell’assumere una corretta condotta nel rapporto con il consumatore, al fine di organizzare una serie di buone pratiche capaci di far riconoscere l’azienda all’interno per i suoi valori “etici” nel contesto sociale. 27 Industria e comunità locale “Il dovere degli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni, di seguire quelle linee di azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti dalla società” (H. Bowen). Un’ulteriore definizione di responsabilità sociale dell’impresa particolarmente efficace la ritroviamo nella definizione del World Business Council for suistainable development: ”…come il continuo impegno dell’azienda a comportarsi in maniera etica e a contribuire allo sviluppo economico, migliorando la qualità della vita dei dipendenti, delle loro famiglie, della comunità locale e più in generale della società”. I principi a cui si dovrebbe attenere l’impresa nella sua condotta responsabile sono riassumibili da un codice di condotta dall’associazione Sodalitas di Milano impegnata nel creare un ponte di contatto tra l’impresa ed il mondo del non profit: “I. Responsabilità e coerenza. Essere responsabili significa in questo particolare contesto valutare le conseguenze del proprio agire sia da un punto di vista sociale sia ambientale e farsene quindi carico. La coerenza dei comportamenti rispetto ai principi sostenuti è altrettanto imprescindibile dal concetto di responsabilità; II. integrità ed equità. Mantenere una condotta onesta e che rispetti i principi del proprio codice deontologico è fondamentale. A ciò deve essere affiancato un comportamento equo, ovvero imparziale ed oggettivo nei confronti sia delle situazioni sia delle persone con cui ci si interfaccia. Esempi lampanti del non rispetto di questo principio sono i casi di corruzione e conflitto di interessi; III. correttezza e trasparenza. Questo principio traduce l’esigenza di rispettare gli accordi contrattuali presi e assicurare un flusso di informazioni corrette e rilevanti, alle quali chiunque possa avere accesso in modo tempestivo e imparziale; IV. centralità della persona. In questa formulazione sono compresi diversi aspetti che si riferiscono alla valorizzazione del “capitale umano”, quali il rispetto dei diritti e della dignità dei lavoratori, la tutela dell’integrità fisica e della sicurezza, la garanzia di pari opportunità e trattamento, l’attenzione per la conciliazione della vita lavorativa con quella familiare, l’impegno a favorire la formazione professionale e la crescita personale dei lavoratori”. L’impatto delle grandi corporations, nel periodo della seconda industrializzazione, è stato traumatico in molte realtà sociali, con problematiche conseguanti all’urbanesimo, in comunità non preparate all’arrivo ad importanti flussi migratori, ed all’impatto ambientale, con conseguenze per la salute umana e la sostenibilità dell’eco sistema del territorio (si pensi all’insediamento dell’Acna di Cengio in Valle Belbo o all’estrazione e la lavorazione dell’Eternit a Balangero, l’Itca di Ciriè e l’Eternit a Casale Monferrato). Al fine di migliorare il rapporto tra industria e territorio molte grandi aziende nelle persone dei loro fondatori, già da qualche tempo impegnate in una serie di interventi a sostegno di iniziative atte a migliorare la qualità di vita delle maestranze, si sono impegnate in importanti opere sociali esterne al proprio ambito di azione aziendale. I principali settori d’intervento si sono indirizzati verso la cultura, promuovendo mostre, restauri di beni architettonici e opere d’arte, scavi archeologici, acquistando opere d’arte per poi lasciarle in donazione a musei pubblici, verso la ricerca scientifica, istituendo borse di studio e di ricerca finalizzate nel campo della medicina, della farmaceutica, della biologia e della fisica, ma anche nel settore delle scienze umane, verso 28 Industria e comunità locale l’assistenza sociale, con l’istituzione di centri di riabilitazione, di case di riposo per anziani e di ospedali sanatori8. Inoltre importanti benefattori hanno fondato università, biblioteche, scuole tecniche, al fine di compensare le carenze del settore pubblico. Con il passare del tempo, a seguito delle trasformazioni societarie e nella composizione delle proprietà familiare delle grandi aziende, molte famiglie di industriali hanno ritenuto di continuare il loro impegno sociale istituzionalizzando il loro intervento, attraverso la creazione di Fondazioni dotate di un loro patrimonio e condotte da uno staff professionale capace di gestire attività conformi alle linee degli obiettivi istitutivi. Tra gli anni Settanta e Ottanta del 1900 molte famiglie di importanti imprenditori hanno costituito Fondazioni destinate a ricordare ai posteri l’opera dei fondatori dell’impresa, affidando all’istituzione uno specifico compito al fine di creare una virtuosa ricaduta verso la società ed in particolare verso il territorio di creazione dell’industria. In questo modo la Fondazione assume una vita autonoma rispetto all’azienda, con una struttura operativa ed un’indipendenza finanziaria capace di sopravvivere alle vicende familiari, garantita dal suo patrimonio costitutivo e dalla sua mission. 8 Per un esempio significativo di attività sociali promosse in Piemonte da alcune importanti Fondazioni di origine aziendale, si rimanda ai seguenti siti internet: Fondazione Piera, Pietro e Giovanni Ferrero di Alba (http://www.fondazioneferrero.it/) Fondazione Giovanni ed Ottavia Ferrero Onlus (http://www.anupi.it/pdf/scriptamanent/locandina_scriptamanent.pdf) Fondazione Giovanni Agnelli (http://www.fondazione-agnelli.it/) Fondazione Sella di Biella (http://www.exibart.com/profilo/sedev2.asp/idelemento/256) Fondazione Adriano Olivetti (http://www.fondazioneadrianolivetti.it/) 29