IDEE E PROPOSTE PER IL CONGRESSO DEL PARTITO DEMOCRATICO
IL FUTURO HA UN CUORE VERDE
UN GREEN NEW DEAL PER L’ITALIA
“Eppure/mi piace/tutto questo futuro”
(Ivano Fossati)
Siamo dentro la più grave crisi degli ultimi 80 anni. La crisi economica e sociale si intreccia con
quella ambientale, in un mondo che vede trasformazioni profonde degli equilibri economici e
politici. Le conseguenze della crisi sono drammatiche, gli esiti incerti. Non esistono soluzioni facili
a problemi difficili. Eppure, se sapremo comprendere che la crisi è una opportunità di
cambiamento, possiamo uscirne. Se sapremo cogliere il vento che spira a favore di una
modernizzazione ecologica dell’economia e di un green new deal sarà possibile costruire uno
sviluppo durevole, ecologicamente sostenibile e socialmente equo. Non è un sogno, è una cosa
possibile.
La salute del pianeta si è aggravata. I cambiamenti climatici costituiscono una minaccia temibile, il
consumo di risorse naturali cresce a ritmi insostenibili, l’inquinamento compromette gli equilibri
della biosfera. Eppure, se sapremo costruire una risposta politica globale alle sfide ambientali – un
green new deal che affianchi alla nuova rivoluzione industriale della green economy un profondo
mutamento culturale con nuovi stili di vita - sarà possibile evitare il peggio e lasciare alle future
generazioni un pianeta abitabile. Non è un sogno, è una cosa possibile.
L’Italia è ferita dalla crisi economica, resa ancora più fragile dal degrado del sistema politico. La
fiducia verso il futuro sembra essersi smarrita. Eppure, se sapremo far leva sulle energie di un
paese che ha non solo una antica storia alle spalle ma anche grandi potenzialità per il futuro,
l’Italia può farcela. Non è vero che siamo destinati al declino. L’ambiente e l’economia verde,
lungo una via italiana alla green economy, rappresentano una leva decisiva per uscire dalla crisi.
Una nuova frontiera per dare al nostro paese un ruolo in Europa e nel mondo. E’ un’idea
dell’Italia che scommette sul futuro. Non è un sogno, è una cosa possibile.
Anche il Partito Democratico è in difficoltà. Il PD che avevamo sognato ancora non c’è. Il
congresso deve segnare un nuovo inizio. Quasi una rifondazione. Il Partito Democratico non è nato
solo per unire forze politiche e tradizioni progressiste che vengono del ‘900. E’ nato per dare voce
al riformismo del 21° secolo. Ma non c’è riformismo possibile, in questo nostro tempo, se non mette
al centro le sfide dell’ambiente, della sostenibilità dello sviluppo, della conversione ecologica
dell’economia. Con questa consapevolezza vogliamo offrire questo nostro contributo di idee e di
proposte in vista del congresso, con un documento rivolto non solo ai candidati, ma anche a tutti
gli iscritti ed agli elettori del Partito Democratico.
1. LA CRISI DI UN MODELLO DI SVILUPPO INSOSTENIBILE
“E se la crisi del 2008 rappresentasse qualcosa di molto più
radicale di una profonda depressione? E se ci stesse dicendo che
l’intero modello basato sulla crescita che abbiamo creato negli
ultimi 50 anni è semplicemente insostenibile economicamente e
ecologicamente e che il 2008 è stato quando abbiamo sbattuto
contro il muro, quando madre natura e il mercato hanno entrambi
detto: “basta così”?
(Thomas Friedman, editorialista del New York Times, 2009)
E’ davvero sorprendente come ancora non vi sia piena consapevolezza del passaggio d’epoca che
stiamo attraversando. Ancora più sorprendente è come molti continuino a pensare che sia possibile
uscire dalla crisi ripetendo gli errori che ci hanno portato fin qui.
Da tempo siamo dentro la più grave crisi che la nostra generazione abbia mai vissuto. Iniziata come
crisi finanziaria, si è poi trasformata in crisi economica e sociale. Si dice: la più grave degli ultimi
ottanta anni. Ma c’è qualcosa che rende questa crisi ancora più complessa e difficile di quella del
1929. Anzitutto il fatto che la crisi economica si intreccia con quella ambientale: “la coincidenza di
questi eventi – sottolinea il manifesto per un green new deal fatto proprio dall’ONU – minaccia di
creare una tempesta perfetta, qualcosa che il mondo non ha mai visto, con conseguenze
devastanti”.
Al tempo stesso, la crisi dell’Europa e dell’occidente è connessa a cambiamenti che stanno
rapidamente cambiando gli equilibri del mondo, a partire dallo sviluppo impetuoso di grandi paesi
come l'India e la Cina, e di altre parti del pianeta dove centinaia di milioni di uomini e di donne si
affacciano a migliori condizioni materiali di vita.
Si chiude con la crisi un lungo ciclo iniziato negli anni’70. E appare paradossale che l’età del neoliberismo e della ideologia dello “Stato minimo” si sia chiusa con i più massicci interventi statali
mai visti nella storia per salvare le banche dal fallimento, scaricandone il peso sui debiti pubblici.
La crisi, però, non è legata solo agli eccessi della finanza speculativa. La verità è che siamo di
fronte alla crisi di un modello di sviluppo insostenibile sia dal punto di vista economico e sociale
che da quello ambientale.
La crisi è connessa anche ad una impressionante crescita delle disuguaglianze, ed alla illusione che
fosse possibile una crescita economica illimitata, senza fare i conti con i limiti di disponibilità delle
risorse naturali.
Essa nasce, al tempo stesso, dalle conseguenze di un’ideologia che ha portato la politica a
sottomettersi all’economia ed ai mercati finanziari. Il mercato ha una funzione essenziale,
insostituibile per l’economia. Ma i mercati finanziari lasciati a se stessi, spesso opachi e fuori di
ogni controllo, ci hanno portato sull’orlo del baratro.
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E’ un intreccio di ragioni, dunque, quello che ha prodotto la crisi: una finanziarizzazione esasperata
a scapito dell’economia reale; un fondamentalismo di mercato che ha svuotato i compiti di
regolazione e di indirizzo della politica; una crescita delle disuguaglianze sociali che ha prodotto
indecenti ingiustizie ed al tempo stesso ha inceppato la crescita economica; una spirale di
indebitamento non solo economico ma anche ambientale.
L’insostenibilità ambientale è un fenomeno di più lungo periodo, connesso a tutti i modelli di
sviluppo che si sono susseguiti dopo la rivoluzione industriale. Si è però aggravata negli ultimi
decenni, sia per la crescente alterazione degli equilibri della biosfera, a cominciare dai cambiamenti
climatici, sia a causa del crescente consumo di risorse naturali scarse e in via di esaurimento.
I processi di globalizzazione, pur producendo condizioni di maggior benessere materiale per un
numero crescente di esseri umani, per il modo in cui sono avvenuti hanno al tempo stesso
alimentato la crescita di forti disparità sociali. Oggi l’1% più ricco della popolazione mondiale,
circa 70 milioni di persone, possiede la stessa ricchezza dei 4 miliardi di persone più povere e gode
di oltre la metà dei beni consumati sulla Terra. La crisi che viviamo è la crisi di un’economia della
avidità tanto insostenibile sul piano ambientale quanto ingiusta su quello sociale.
Insomma: se questo modello di sviluppo si è inceppato è perché il mercato senza regole non gira nel
verso giusto, perché il debito non può crescere all’infinito, perché è finita l’era delle materie prime e
dell’energia a basso costo. Non è certo la fine del mondo, ma la fine di un mondo. E non si esce
dalla crisi se non si cambia il modello di sviluppo.
2. UN GREEN NEW DEAL PER USCIRE DALLA CRISI
“A quanto pare esiste un punto in cui il
progresso, per essere un vero avanzamento, deve
variare leggermente la sua linea di direzione….”
(Joseph Conrad, “Alcune riflessioni sul naufragio
del Titanic”, 1912)
Dalle grandi crisi si esce solo cambiando rotta. Ogni crisi, anche la più dura, costituisce una
opportunità di cambiamento.
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Molti continuano a pensare che, passata la nottata, tutto potrà ricominciare come prima. E’
un’illusione. Diceva Albert Einstein: “follia è pensare che ripetendo le stesse azioni possano
prodursi effetti diversi”. Ripetendo gli stessi errori andremo di nuovo a sbattere. Non sarà
rimettendo il treno deragliato sugli stessi binari di prima che potremo ripartire, ma solo cambiando
direzione. Servono profondi mutamenti dell’economia e della società, dei modelli di produzione e
di consumo, degli stili di vita. Un nuovo orizzonte di civilizzazione.
Per cambiare rotta la prima condizione è che la politica – non solo a livello nazionale ma anche sul
piano globale – sappia riformare i sistemi finanziari, regolare i mercati, orientare l’economia. La
finanza deve essere ricondotta al servizio dell’economia reale.
La seconda condizione è perseguire una più equa distribuzione della ricchezza e delle opportunità,
contrastando le disuguaglianze e la povertà sia sul piano globale che all’interno di ciascun paese.
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La terza condizione è imboccare la strada dello sviluppo sostenibile. Una modernizzazione
ecologica dell’economia che consenta di produrre ricchezza e benessere con meno consumo di
materia e di energia, meno inquinamento, maggiore efficienza. Si deve accelerare la transizione
dall’era dei combustibili fossili a quella delle energie rinnovabili e sviluppare la nuova rivoluzione
industriale connessa alla green economy.
Abbiamo bisogno non solo di una terza rivoluzione industriale imperniata su tecnologie pulite e
produzioni compatibili con l’ambiente, ma di un cambiamento del paradigma stesso dello sviluppo.
Travolti dalla crisi, siamo finiti dentro una trappola micidiale. Da un lato perché per pagare il debito
l’economia dovrebbe crescere, ma le politiche di rigore e risanamento dei bilanci pubblici hanno
aggravato la recessione e la crisi si è avvitata sempre più su se stessa. Dall’altro perché è difficile
immaginare di continuare a crescere aumentando all’infinito gli attuali consumi, in maniera
incompatibile con gli equilibri ecologici e la disponibilità di materie prime.
Non si esce da questa trappola se non si cambia radicalmente prospettiva. Non si supera la crisi
dell’economia mondiale senza una riforma dei caratteri e delle finalità dello sviluppo, senza la
capacità di orientare l’economia verso la sostenibilità ecologica e sociale.
E’ un cambiamento che peraltro già si intravede. Fin dal 2008, a crisi appena esplosa, la prospettiva
della green economy è stata indicata tra i temi centrali nell’azione di molti governi come chiave per
uscire dalle due grandi crisi, quella economica e quella climatica, mentre l’UNEP ha lanciato il
programma di un “Global green New Deal”.
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Da allora l’economia verde è cresciuta in molte parti del mondo. La rivoluzione energetica ha preso
sempre più corpo con un peso crescente delle rinnovabili, mentre il drammatico incidente di
Fukushima ha ulteriormente frenato il ruolo del nucleare. Sono cresciuti gli investimenti sulle
energie verdi, sulle tecnologie pulite, su nuovi prodotti caratterizzati dalla innovazione ecologica.
Al tempo stesso nei paesi più ricchi si intravedono cambiamenti negli stili di vita e nei consumi,
non solo per effetto del minor reddito disponibile ma anche per l’affermarsi di comportamenti legati
a modelli di consumo più sobri.
Il cambiamento verso uno sviluppo sostenibile è tuttavia ancora troppo lento rispetto all’urgenza ed
alla gravità dei problemi.
Il primo decennio del nuovo secolo ha visto aggravarsi la crisi climatica. Eventi meteorologici
estremi sono sempre più frequenti ed estesi a vaste zone del pianeta. Contrastare il cambiamento
climatico vuol dire evitare che intere parti della Terra diventino tanto inospitali da alimentare
ulteriormente povertà, conflitti e migrazioni, ma significa anche rendere più forte e sostenibile la
nostra economia.
Il cuore di un progetto di cambiamento in questo inizio del nuovo secolo è dunque costituito dalla
necessità di affrontare in modo congiunto queste due crisi, quella climatica e quella economica.
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La green economy è la leva per promuovere questo cambiamento. Green economy non significa
solo sviluppare le energie rinnovabili o ritinteggiare con un po’ di verde qualche settore
dell’economia tradizionale. La green economy, come sottolinea l’UNEP, è “una forma di
organizzazione economica e una riorganizzazione delle priorità sostanzialmente diversa da quella
che ha dominato il pensiero economico nei paesi più ricchi negli ultimi decenni”.
La green economy non è un settore aggiuntivo rispetto all’economia tradizionale, è un processo di
innovazione ecologica che riguarda tutti i settori dell’economia. Come dire, insomma, che ciò che
oggi chiamiamo green economy un giorno dovrà essere, semplicemente, l’economia.
Come nel secolo scorso, dopo la grande crisi del ’29, il problema fu regolare il mercato per produrre
occupazione, diritti sociali e redistribuzione del reddito – con la costruzione dello Stato sociale - in
questo nuovo secolo la principale sfida è orientare l’economia verso la sostenibilità. Una sfida
ancora più complicata, perché allora la partita si giocava prevalentemente dentro i confini nazionali,
mentre oggi richiede politiche sovranazionali e cooperazione globale. Una sfida che non può essere
giocata e vinta con le classiche ricette del new deal novecentesco, ma richiede politiche innovative
capaci di utilizzare sia strumenti di regolazione pubblica sia strumenti di mercato per orientare
investimenti pubblici e privati nella direzione di un nuovo modello di sviluppo.
Per ridurre i rischi di potenziali disastri ambientali globali e sviluppare una nuova economia
ecologica servono oggi decisioni comparabili, per importanza, alla riforma della governance
internazionale che si ebbe dopo la seconda guerra mondiale.
3. UNA NUOVA EUROPA SOLIDALE, ECOLOGICA, FEDERALE .
“La crisi dell’Occidente è l’assenza di un
progetto di civiltà. L’Europa si ritrova
senza un modello di sviluppo, senza un
progetto per il suo futuro. Eppure non
sarebbe impossibile. Conosciamo fin d’ora
le grandi priorità del secolo a venire: gli
ecologisti ci hanno convinto della necessità
di far convergere i diritti dell’economia
con quelli della natura…. “
(Alain Touraine)
L’Europa è il nostro orizzonte. Qui si gioca il nostro destino. Fuori da questo orizzonte diventa
impossibile immaginare il ruolo dell’Italia. Senza l’Europa è difficile immaginare una politica di
sviluppo sostenibile.
Ma l’Europa è in affanno, debole e divisa di fronte alla crisi. Le pur necessarie politiche di
contenimento del debito - piegate al dogma ideologico dell’austerità di bilancio, e in assenza di
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politiche per il rilancio dell’economia e di una nuova visione dello sviluppo - ci hanno portato in un
vicolo cieco, aggravando la recessione. Prendono così corpo ripiegamenti nazionalistici e sentimenti
antieuropei, alimentati da forze che intendono lucrare consensi elettorali cavalcando il disagio
sociale e le paure dei cittadini.
Noi pensiamo che sia necessaria più Europa, non meno Europa. Ma l’Europa deve cambiare passo e
cambiare politica. C’è bisogno di un’Europa più forte, più unita, più solidale, con uno scatto in
avanti nel processo di integrazione politica verso la costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Sono necessarie politiche per affrontare la crisi profondamente diverse da quelle messe in campo
dai governi conservatori.
Servono misure per il rilancio dell’economia nel segno dell’innovazione e di una nuova economia
ecologica, con un programma straordinario di investimenti pubblici e privati – sostenuto da
politiche industriali e fiscali che orientino le produzioni e i consumi verso uno sviluppo
ecologicamente sostenibile. Un programma di investimenti, finanziato attraverso eurobond e project
bond, e concentrato in settori quali l’efficienza energetica e le rinnovabili, il riciclo e l’efficienza
nell’uso delle materie prime nei processi industriali, le reti infrastrutturali per l’energia, i trasporti e
le comunicazioni, nuovi beni e servizi di elevata qualità ecologica. Si devono sviluppare programmi
di ricerca e innovazione industriale all’insegna dell’innovazione ecologica in settori strategici per il
futuro.
Per queste ragioni è necessario che il campo del riformismo europeo sappia allargarsi e rinnovarsi,
unendo attorno ad una nuova visione dell’Europa le forze politiche progressiste di ispirazione
socialista, cattolica, ecologista, liberaldemocratica. In questo ambito la capacità di dare
rappresentanza politica a valori e culture legate all’ambiente costituisce sempre più una condizione
per vincere le elezioni e governare il cambiamento.
Il campo delle forze progressiste – in vista delle elezioni europee del 2014 – deve essere quanto più
largo, unito e innovativo possibile, con una piattaforma comune nella quale siano centrali i temi
dell’ambiente e dell’economia ecologica.
Il PD, proprio per la sua peculiare identità, frutto della sintesi di culture politiche socialiste,
ambientaliste, liberaldemocratiche e del cattolicesimo democratico, può avere un ruolo importante
nella costruzione di una nuova casa comune dei progressisti, oltre i confini delle tradizionali
famiglie politiche.
Per contrastare i rischi di declino dell’Europa serve un’idea di futuro. La sua crisi, come ha scritto
Alain Touraine, non è solo economica e politica, ma si manifesta anche “nell’assenza di un progetto
di civiltà”. L’Europa ha creato lo Stato moderno, ha incarnato un’idea di giustizia sociale e di
welfare, è il modello di civiltà più avanzato finora realizzato. Oggi sembra però priva tanto di
leadership lungimiranti quanto della capacità di immaginare nuovi orizzonti per il proprio futuro.
Ebbene, proprio la costruzione di una nuova economia ecologica e di uno sviluppo sostenibile può
rappresentare una nuova frontiera di civilizzazione per il nostro caro vecchio continente. Per la
sinistra e per i democratici può essere un’idea forte e trascinante tanto quanto lo è stata nel secolo
scorso quella del welfare.
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4. UN’IDEA DI FUTURO PER L’ITALIA
“Non c’è vento a favore per il marinaio
che non sa dove andare”.
(Seneca)
Dove va l’Italia? Quale ruolo avrà in Europa e nel mondo? Qual è la visione del futuro che abbiamo
in testa? Noi abbiamo fiducia nelle potenzialità del nostro paese. L’Italia può farcela.
Non possiamo però sottovalutare la gravità della situazione. Quella che stiamo vivendo non è una
parentesi, chiusa la quale si ritornerà a com’era prima.
La recessione ha prodotto disoccupazione, chiusura di imprese, nuove povertà. La precarietà del
lavoro compromette il futuro di un’intera generazione. Crescono le disparità sociali. Cresce il
divario tra ricchezza privata – ancora mediamente elevata seppur distribuita in modo sempre più
diseguale - e miseria pubblica, a causa degli insufficienti investimenti e della scarsa attenzione
rivolti ai beni comuni, ai servizi pubblici, all’istruzione, all’ambiente. Pesano come macigni
l’evasione fiscale, la criminalità, le illegalità diffuse, una burocrazia soffocante e spesso
inefficiente, gli interessi da pagare sul debito pubblico. A tutto ciò si accompagna una drammatica
crisi del sistema politico.
L’Italia può farcela. Ma a condizione di avere chiara la strada da imboccare.
In che modo si può rilanciare l’economia italiana? Non si può immaginare che ciò possa avvenire
senza un’idea profondamente nuova dello sviluppo.
Tutti, o quasi tutti, invocano la crescita. Anche noi, sia chiaro, riteniamo che l’economia italiana
debba tornare a svilupparsi. Non pensiamo che la soluzione sia nella decrescita (che oltretutto si sta
rivelando tutt’altro che felice). Ma non si può contrapporre all’idea della decrescita una vecchia idea
di crescita quantitativa illimitata, né ignorare la crescente domanda di dare un altro senso allo
sviluppo, cambiando rotta rispetto all’insensatezza ed alla follia della distruzione delle risorse
naturali, dell’obsolescenza programmata delle merci, del consumismo esasperato.
La strada giusta è quella di un’economia a misura d’uomo, della rivoluzione della green economy,
della sobrietà negli stili di vita, di una crescita intelligente e selettiva, di uno sviluppo da misurare
sempre più non con il rozzo termometro del PIL ma, come finalmente propone anche l’ISTAT, con
quello del benessere equo e sostenibile (BES).
Insomma, non si può continuare a invocare genericamente la crescita, né tantomeno riproporre le
stesse ricette del passato. Cosa vogliamo che cresca? Quale crescita è oggi possibile? Ci sono cose
che devono crescere, e altre no. La crescita di una nuova economia ecologica – questo è l’obiettivo
su cui dovrebbero essere concentrati gli sforzi - non è solo quella che più ci piace: è per molte
ragioni l’unica oggi possibile. Una crescita verde, per uno sviluppo equo e sostenibile.
Un’altra domanda richiede risposte altrettanto chiare e non generiche: come può oggi crescere
l’economia? Quali sono le scelte politiche necessarie? Noi pensiamo, ad esempio, che se non si
punta a ridurre le disuguaglianze sociali sostenendo i redditi più bassi è difficile immaginare una
ripresa della domanda sul mercato interno. Pensiamo che se non si investe in qualità, ricerca,
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innovazione, non si può essere competitivi sui mercati globali. Pensiamo che l’aumento della
produttività va oggi cercato in una maggiore efficienza nell’uso della materia e dell’energia, non
certo in una competizione al ribasso giocata sulla riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori.
Pensiamo che sia difficile immaginare un rilancio dell’economia se non si apre una fase di
investimenti pubblici e privati orientati verso nuovi beni legati alla qualità della vita, all’ambiente,
ai servizi di pubblica utilità, perchè non sarà affidandosi solo alla ripresa dei consumi privati e ad un
vecchio modello di crescita che potremo avere uno sviluppo forte e duraturo.
Già oggi vediamo, accanto alle drammatiche difficoltà di un paese colpito duramente dalla
recessione, anche un paese vitale, coraggioso, competitivo, che non solo resiste alla crisi ma
scommette sul futuro.
L’Italia può farcela se guarda al futuro.
Può farcela se promuove l’innovazione e la qualità per creare lavoro qualificato e non precario, con
un’idea nuova dello sviluppo. Se cerca di essere economicamente più competitiva non attraverso la
riduzione dei diritti di chi lavora, ma puntando sull’innovazione e sulla coesione sociale.
Può farcela se si rompono incrostazioni corporative e privilegi, garantendo a tutti pari opportunità,
premiando il merito nello studio e nel lavoro.
Può farcela se accelera la transizione verso un nuovo modello energetico imperniato sull’efficienza
e sulle rinnovabili, a maggior ragione dopo il risultato del referendum sul nucleare, e se sceglie
politiche radicalmente innovative sui trasporti e la mobilità.
Può farcela se favorisce l’evoluzione verso stili di vita e di consumo sobri ed intelligenti, se investe
sui beni comuni.
Può farcela se si promuove una redistribuzione del reddito e una riduzione delle disuguaglianze, se
si riforma con coraggio il sistema di welfare.
Può farcela se si fanno pagare le tasse agli evasori e si riforma il sistema fiscale per garantire equità
nel prelievo; se si tassano di più rendite e patrimoni, consumi di energia e di risorse ambientali, per
tassare di meno il lavoro e la produzione; se si usa la leva fiscale per incentivare produzioni e
consumi ecologicamente virtuosi.
Può farcela se si rafforzano la legalità e l’etica pubblica, si riformano le istituzioni e la pubblica
amministrazione; se la politica ritrova uno spessore culturale, etico e ideale; se si rafforzano la
coesione sociale e il civismo.
Può farcela se, come è accaduto in occasione dei festeggiamenti per i 150 anni dall’unità d’Italia,
vive tra gli italiani un sincero, profondo e rinnovato sentimento nazionale; un patriottismo dolce,
aperto e solidale, inteso come amore per il proprio paese e per il bene comune.
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5. LA VIA ITALIANA ALLA GREEN ECONOMY
“L’Italia, partita da un dopoguerra disastroso, è
diventata una delle principali potenze economiche. Per
spiegare questo miracolo (…)la ragione vera è che
l’Italia incorpora nei suoi prodotti una componente
essenziale di cultura e che città come Roma, Milano,
Firenze, Siena, Venezia, Napoli, Palermo, pur avendo
infrastrutture carenti, possono vantare nel loro
standard di vita una maggiore quantità di bellezza”
(John Kenneth Galbraith, 1983)
E’ nella green economy il futuro dell’Italia. Una prospettiva che riguarda il mondo intero, ma che
nel nostro paese ha forse perfino maggiori potenzialità che altrove, se saprà svilupparsi in forme
originali. Una vera e propria via italiana alla green economy.
L’economia verde rappresenta oggi per l’economia quello che l’elettrificazione e l’automobile
prima e la rivoluzione informatica poi sono state nel secolo scorso. E’ una straordinaria occasione
per modernizzare e rendere più competitiva la nostra economia, che ha il suo punto di forza in un
sistema produttivo fatto prevalentemente di piccole e medie imprese legate al territorio. E’ una
opportunità per lo sviluppo delle regioni meridionali, riducendo il divario che storicamente separa
il nord ed il sud del paese.
Dalla green economy possono nascere milioni di posti di lavoro, tra nuovi occupati e riconversione
di attività esistenti.
Già oggi, quando parliamo di green economy, parliamo di una sfida verso l’innovazione che
coinvolge decine di migliaia di imprese e riguarda molti settori: dal risparmio energetico alle fonti
rinnovabili, dalla chimica all’edilizia, dai trasporti agli elettrodomestici, dal turismo all’agricoltura,
dall’high tech al riciclo dei rifiuti. Una sfida che in prospettiva, attraverso l’innovazione ecologica
di processo e di prodotto, può riguardare tutti i settori della nostra economia, nessuno escluso.
Solo chi ha lo sguardo rivolto all’indietro, ad esempio, di fronte al drammatico caso dell’ILVA di
Taranto, può ancora continuare a parlare di lavoro e salute, di sviluppo e ambiente, come se fossero
termini irrimediabilmente contrapposti. L’alternativa non è scegliere tra deserto produttivo o
fabbrica che inquina. C’è un futuro possibile – che altri paesi già praticano – di innovazione
ecologica che consente di avere un’industria siderurgica moderna, non inquinante, compatibile con
il territorio.
L’Italia, che ha la seconda economia manifatturiera d’Europa, deve stare da protagonista nella
nuova rivoluzione industriale dell’economia a basso contenuto di carbonio, dell’efficienza
energetica e delle rinnovabili, delle tecnologie pulite, dei nuovi prodotti ecologici.
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Se parliamo di una via italiana alla green economy, al tempo stesso, è perché nel nostro paese la
rivoluzione tecnologica e produttiva legata all’economia verde incrocia la propensione alla qualità
tipica di molte produzioni e molti territori. Può innestarsi su vocazioni che vengono dalla nostra
storia e su un patrimonio ambientale di grande valore.
Non è un caso che il meglio di sé, l’Italia, riesca a darlo quando intreccia l’economia con
l’ambiente, la forza dell’innovazione con quella della tradizione, la tecnica con l’arte, il manufatto
con il design.
L’ambiente rappresenta in Italia, più che in altri paesi, un problema ma anche una straordinaria
opportunità.
C’è l’ambiente ferito dalle illegalità delle ecomafie, c’è il paesaggio segnato dall’abusivismo
edilizio e dal consumo di suolo che distruggono la bellezza del nostro paese, c’è l’aria inquinata
delle nostre città, c’è un territorio fragile ed esposto al rischio idrogeologico, ci sono aree del paese
dove la gestione dei rifiuti è in condizioni di drammatica arretratezza.
Al tempo stesso però l’Italia ha cose che il mondo ci invidia. Un patrimonio straordinario di civiltà,
un intreccio irripetibile di storia, natura, cultura. Beni culturali ed ambientali, città d’arte, la
bellezza del paesaggio. L’agricoltura di qualità. Il saper fare “le cose belle che piacciono al mondo”.
E’ un patrimonio da proteggere con attenzione e cura, che costituisce un punto di forza per la nostra
economia, per una nuova stagione del made in Italy.
Intrecciare tecnologia e bellezza, economia ecologica e qualità ambientale, tradizione e
innovazione: sono queste le carte migliori che possiamo giocare per dare all’Italia un nuovo ruolo in
Europa e nel mondo. Sono questi gli elementi alla base della nostra idea di paese e della nostra
identità nazionale. Ecco perché l’Italia può interpretare e declinare in modo originale la corsa alla
green economy.
Già nel corso di questi anni, nonostante la crisi economica, l’Italia si è rafforzata in diversi settori
puntando proprio sulla qualità e sulla innovazione. Molte nostre aziende sono già nel cuore della
green economy. L’economia verde è già qui.
Lo confermano, ad esempio, i dati sullo sviluppo delle rinnovabili: oltre un terzo dell’energia
elettrica che consumiamo viene da lì. Lo confermano i numeri degli interventi per l’efficienza
energetica degli edifici – oltre un milione e mezzo - attivati grazie agli eco bonus. Ce lo dicono i
numeri: il 23% delle imprese italiane ha realizzato negli ultimi anni investimenti in tecnologie e
prodotti “green”, puntando sull’innovazione ecologica per rendere più efficienti i processi produttivi
e intercettare nuova domanda di beni e servizi. Sono imprese che conquistano una presenza più
marcata sui mercati esteri e che più assumono.
La green economy ha svolto in questi anni di crisi una rilevante funzione anti-ciclica. Anche
l’economia verde, però, deve misurarsi con ostacoli e difficoltà di ogni tipo, che frenano e rischiano
di compromettere il suo sviluppo. Le imprese e gli operatori si scontrano con difficoltà di accesso al
credito, oltre alle insopportabili lentezze delle procedure necessarie per avere un’autorizzazione,
alla pesantezza della burocrazia, alle leggi spesso contraddittorie e farraginose.
C’è un’Italia che scommette sul futuro e che chiede alla politica di sostenere e guidare questo
cambiamento.
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La green economy cammina sulle gambe di chi lavora e produce, ma deve essere sostenuta e
accompagnata da efficaci politiche industriali e fiscali, da una pubblica amministrazione efficiente,
da leggi semplici e chiare, da un adeguato sistema di accesso al credito.
Vanno in questo senso le “Dieci proposte per una via italiana alla green economy” – presentate
dagli Ecologisti Democratici - come contributo ad un programma di governo e di cambiamento per
l’Italia.
6. VERSO UNA SOCIETA’ ECOLOGICA: NUOVI VALORI E STILI DI VITA
“La crisi ha modificato comportamenti di consumo e
stili di vita. Un dato ormai ampiamente acquisito.
Minore è invece la consapevolezza che si tratta di un
fenomeno strutturale, destinato cioè a non venir
riassorbito, a crisi superata, dall’inerzia di antiche
consuetudini. (…) Il termine sobrietà, se inteso in
contrapposizione all’ubriacatura di un recente
passato, potrebbe costituire il minimo comun
denominatore per connettere i nuovi stili di
consumo. Sobrietà non significa rinuncia, ma presa
di distanza dall’eccesso, dall’etilismo di un consumo
gridato, ostentato o anche soltanto inutile e
inutilmente cospicuo”
(Giampaolo Fabris, “La società post-crescita”)
Scriveva molti anni fa Alex Langer: “Né singoli provvedimenti, né un miglior ministero
dell’ambiente per quanto necessari e sacrosanti potranno davvero produrre la correzione di rotta,
ma solo una rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società si consideri desiderabile.”
E aggiungeva: “ Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico “più veloce, più alto, più forte”,
che meglio di ogni altro rappresenta lo spirito della nostra civiltà. Bisognerebbe invece radicare
una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in “più lento, più
profondo, più dolce”, e cercare in quella prospettiva il nuovo benessere.” Sembrarono allora parole
di un visionario. Come cambiano i tempi: oggi è perfino il “Sole 24 ore” a dirci che è arrivata l’ora
del green style life.
La crisi è l’occasione non solo per sviluppare un’economia più efficiente e sostenibile ma anche per
affermare una nuova idea di benessere. Valori, comportamenti, modelli di consumo orientati verso
una green society, sono oggi coltivati non più solo da piccole minoranze, ma da una parte sempre
più larga della popolazione.
La crisi ha incrinato l’idea che il benessere corrisponda alla crescita illimitata dei consumi, e che il
concetto di benessere sia sinonimo di ben-avere. Siamo forse arrivati al capolinea di un modello di
consumi fatto di febbre ossessiva del possesso, di ricerca compulsiva di oggetti da accumulare.
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Consumare in modo più responsabile e intelligente, vivere con meno sprechi e maggiore sobrietà,
non significa tornare indietro, ad un’era pre-industriale. Significa andare avanti, verso una qualità
della vita migliore e perciò più desiderabile.
Sobrietà è un modo di vivere più intelligente e responsabile. Un modo per non consumare la nostra
stessa vita in una spirale nevrotica piena di oggetti ma povera di senso. Significa avere più tempo
per sé e per le relazioni con gli altri: “L’uomo consuma per vivere, non vive per consumare.
Abbiamo bisogno di un tuffo nella sobrietà. Non si tratta di un concetto economico, o vivere
all’insegna del risparmio minuzioso, o astensione dai consumi. La sobrietà è è uno stile di vita
complessivo, nelle parole, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere come nei comportamenti
quotidiani. Chi è sobrio non è indifferente, riesce a vedere anche l’altro.”
Sobrietà non è solo uno stile di vita, ma anche un’idea di società e di economia. Un’economia
capace di progettare e produrre beni durevoli anziché ad obsolescenza programmata; di fermare il
devastante consumo di suolo e puntare sulla riqualificazione delle città; di mettere al centro
l’importanza dei beni comuni, quei beni comuni attorno ai quali, come hanno dimostrato i
referendum, sta crescendo una nuova e forte sensibilità dei cittadini.
Una green society è fatta di comportamenti che concorrono a costruire un’economia più giusta e
responsabile. E’ una società che valorizza il volontariato, la cittadinanza attiva, la solidarietà.
E’ arrivato il tempo di uscire da quella logica che porta a individuare nel PIL l’unico indicatore del
benessere. Una logica distorta, perché il PIL non distingue tra beni e mali, non è un metro di misura
infallibile e adeguato dello sviluppo umano. E’ arrivato il tempo che la politica, smettendola di
ruotare ossessivamente attorno al PIL come ad un totem, rinnovi il proprio vocabolario e guardi ai
concetti di benessere e di sviluppo con una visione nuova, meno primitiva, più intelligente.
7. RICOSTRUIRE LA BUONA POLITICA
“Non voglio che venga ricordato come un eroe. Non lo
era. Era solo un sindaco, una persona che amava la sua
terra e voleva difenderne il territorio. Faceva il suo
dovere perché era per quello che la gente lo aveva eletto.
Ed è quello che dovrebbero fare tutti»
(Angela Amendola, moglie di Angelo Vassallo)
Senza troppi giri di parole, va detto che di fronte a noi c’è un compito difficile ma assolutamente
necessario di ricostruzione della politica. I risultati delle ultime elezioni evidenziano una ormai
abissale sfiducia dei cittadini verso i partiti ed un rischio di collasso del sistema politico.
La crisi della politica non è un fenomeno solo italiano. Anche in molti altri paesi le forze politiche
tradizionali sono in difficoltà. Cresce la sfiducia dei cittadini, mentre il clima di rabbia e paura
causato dalla crisi è un terreno fertile per forze populiste di ogni tipo.
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La crisi della politica nasce anzitutto dalla sua debolezza. Svuotata di poteri reali a tutto vantaggio
dei mercati finanziari, essa appare agli occhi dei cittadini impotente e inutile. I governi nazionali
sembrano avere margini di scelta sempre più ristretti nell’ambito di condizioni dettate dai mercati
finanziari globali e da soggetti non eletti democraticamente.
Un po’ ovunque le leadership politiche, alla ricerca affannosa di consensi sul breve termine ma
terribilmente povere di idee per il futuro, non appaiono in grado né di soddisfare le aspettative degli
elettori né di indicare nuovi orizzonti di progresso.
In Italia, però, la crisi del sistema politico è ancora più acuta. Il sistema politico si è articolato salvo poche eccezioni - attorno a partiti personali e dalla struttura padronale, con un impressionante
impoverimento di spessore etico e culturale e con una desolante assenza di democrazia. A distanza
di vent’anni da Tangentopoli sono esplose nuovamente gravi forme di corruzione e degenerazione.
La sfiducia dei cittadini verso i partiti ha raggiunto dimensioni senza precedenti. La crisi di oggi è,
per tutte queste ragioni, ancora più grave di quella del 1992 e si configura come una drammatica
crisi della rappresentanza democratica. Una crisi che coincide con la fine di un intero ciclo politico
che ha caratterizzato la cosiddetta “seconda Repubblica”.
Di fronte a noi c’è l’esigenza di una riorganizzazione del sistema politico e di profonde riforme
istituzionali. Ma c’è anche il compito di ricostruire la politica restituendole onore, forza, credibilità.
La soluzione ai problemi italiani non è nella tecnocrazia né nel populismo. La soluzione è in una
rigenerazione della politica.
Non basta dire, come pure va detto, che la democrazia non vive senza partiti. Non basta dire, come
pure va detto, che i partiti non sono tutti uguali e che vi sono tanti amministratori pubblici, dirigenti
politici e militanti che fanno ogni giorno il proprio dovere con onestà e correttezza.
Il problema è che una democrazia vitale non è immaginabile con questo sistema politico. I partiti di
massa del ‘900, nel bene e nel male, non torneranno. Ma neppure si può immaginare l’Italia del
futuro con partiti come questi, ridotti ad involucri poveri di idee e visioni del mondo, mere
aggregazioni di potere senza capacità di formare e selezionare classi dirigenti, con un ceto politico
improvvisato privo di competenze e di cultura politica, guidato non da passioni ma dalla ricerca di
convenienze personali.
Serve una radicale riforma. La politica deve da una parte riconquistare un ruolo effettivo di governo
della società e dell’economia, per tornare ad essere in grado di governare i processi reali e dunque
ad essere percepita come utile. Dall’altra deve riconquistare la fiducia dei cittadini attraverso una
rigenerazione culturale e morale, con una ritrovata capacità di radicamento nella società. Una
politica capace di ascoltare, capire e rappresentare anche l’altra politica, quella che vive nelle tante
forme di impegno civile e sociale che si esprimono anche al di fuori dei partiti e che si è espressa
con forza anche in occasione dei referendum.
La riforma della politica non consiste dunque solo nelle pur necessarie riforme elettorali e
istituzionali. Per ridare credibilità ai partiti occorre un rinnovamento di uomini e di idee, bisogna
aprirsi alle energie migliori della società, alla voglia di cambiamento, intercettando il desiderio di
buona politica che c’è in molti italiani. E occorre ridare un senso alla politica uscendo da una
angusta e mediocre dimensione dal respiro corto, coltivando pensieri lunghi, tenendo insieme
concretezza quotidiana e visione del futuro.
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8. UN PARTITO DA RIFONDARE. IL PD CHE VOGLIAMO.
“Ci sono persone che guardano le cose come sono e si
chiedono perché. Io sogno cose che non ci sono mai state,
e mi chiedo: perché no?”
(Robert Kennedy)
Da ecologisti l’avevamo voluta con particolare convinzione ed entusiasmo, la nascita del Partito
Democratico, perché sentivamo che le vecchie carte geografiche non erano più sufficienti per
navigare in mezzo alle sfide del nuovo secolo.
Altri avevano cambiato sigle e nomi ai partiti per ragioni di marketing. Noi pensavamo, al contrario,
che ha senso costruire un partito nuovo per ragioni non di facciata, quando si intuisce che si sta
entrando in un passaggio d’epoca e serve perciò un nuovo pensiero politico.
Restiamo tenacemente convinti che il PD sia nato per questo: non solo per unire tradizioni politiche
diverse provenienti dalla storia politica italiana del ‘900, ma per dare forza e voce al riformismo del
21° secolo, con una sintesi innovativa e feconda tra culture politiche di ispirazione ecologista,
socialista, cattolico democratica, liberale.
Ma il PD che volevamo ancora non c’è. Il risultato delle ultime elezioni politiche lo ha confermato
nel modo più impietoso possibile. E’ stato per molti versi il risultato elettorale più amaro degli
ultimi venti anni, con 3 milioni e mezzo di voti persi proprio nella fase più acuta di crisi politica ed
elettorale del centrodestra.
Colpa solo della pessima campagna elettorale? C’è qualcosa di più profondo. Non siamo riusciti ad
essere in sintonia con il paese, né all’altezza delle sfide e del cambiamento necessario. Il PD ha un
problema irrisolto di identità – legata ai programmi, alla cultura politica – ma anche, non meno di
altre forze politiche, un problema di credibilità.
La sconcertante catena di errori e responsabilità che ha fatto seguito ad un negativo risultato
elettorale che già di per sé aveva prodotto una situazione difficilissima – e che ha avuto il suo
culmine nelle votazioni sul Presidente della Repubblica – ha portato alla formazione di un governo
cosiddetto di “larghe intese” con il centrodestra. Sarebbe stato più opportuno, a nostro parere, dar
vita in quel momento ad un governo più esplicitamente “di scopo”, dal forte profilo istituzionale,
con un programma meglio circoscritto negli obiettivi e nella durata.
Il governo Letta ha intrapreso un percorso impegnativo e difficile, che richiede il sostegno leale –
ma al tempo stesso nè subalterno né passivo - del PD.
Non si deve però offuscare la consapevolezza che quella che sorregge il governo è una maggioranza
anomala, legata a circostanze eccezionali. Le divisioni interne al centrodestra possono portare a
nuovi assetti del sistema politico, ma va contrastata in ogni caso l’ipotesi che la logica delle larghe
intese possa avere uno sbocco “neocentrista” con un superamento del bipolarismo.
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Questo governo deve avere lo scopo di portare a termine in un tempo quanto più rapido possibile gli
obiettivi essenziali - dalla riforma elettorale alle misure più urgenti per l’economia – in modo da
consentire il ripristino di una limpida e piena distinzione tra forze politiche alternative. Una limpida
distinzione tra destra e sinistra, entro un sistema politico imperniato su un bipolarismo sano e
maturo. La riforma della legge elettorale deve essere coerente con questo obiettivo.
Ma il congresso non può limitarsi alla discussione su questa fase politica. Deve guardare oltre.
Indicare un progetto di futuro per l’Italia. Deve essere, al tempo stesso, un congresso di
rifondazione del Partito Democratico.
Il PD ha bisogno di un nuovo inizio. Il PD che vogliamo è un partito consapevole delle ragioni per
cui è nato. Tanto più perché la crisi esplosa nel 2008 conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno,
che le sfide inedite di questo passaggio d’epoca non si vincono guardando al passato.
La crisi che viviamo non può essere affrontata né con le tradizionali ricette della sinistra del ‘900,
né con un approccio moderato e subalterno al neoliberismo.
L’alternativa non può essere oggi quella di scegliere tra un riformismo vecchio e un riformismo
debole – in un remake di antiche discussioni tra statalismo e mercatismo. Ciò di cui c’è oggi
bisogno è al tempo stesso di più forti ed efficaci politiche pubbliche capaci di regolare i mercati
finanziari, orientare l’economia verso la sostenibilità, promuovere una maggiore uguaglianza,
garantire la coesione sociale riformando il welfare; di mercati aperti alla concorrenza e
liberalizzazioni che rompano incrostazioni corporative, con un alleggerimento da insopportabili e
ipertrofiche pesantezze burocratiche; di una società capace di autoorganizzarsi, valorizzando la
sussidiarietà e la cittadinanza attiva.
Il PD che vogliamo è un partito cosciente di essere, a pochi anni dalla sua nascita, ad un bivio
decisivo. Se saprà interpretare nel migliore dei modi questo difficilissimo passaggio della storia
italiana potrà essere il perno dell’Italia che verrà; se al contrario non ci riuscirà sarà travolto nella
frana del sistema politico della seconda repubblica. Decisivo è mettere in campo un progetto
credibile di cambiamento del paese, e al tempo stesso rappresentare un’alternativa, agli occhi degli
italiani, anche dal punto di vista morale e culturale.
Il PD che vogliamo è un partito che ha l’ambizione di parlare direttamente a tutti gli italiani, che
non delega ad altri la rappresentanza di questo o quel tema, questo o quel settore della società.
In questo senso la rappresentanza dei valori di chi coltiva una visione del futuro attenta al rapporto
con l’ambiente, come delle aspettative di chi lavora e produce nella green economy, non può essere
delegata ad altre formazioni politiche, ma può e deve trovare piena espressione nel PD.
Il PD che vogliamo è un partito che contrasta la sfiducia verso la politica nel modo più efficace: con
la buona politica, la trasparenza, la moralità. Ma il partito davvero nuovo che abbiamo immaginato
e voluto – innovativo, aperto, partecipato – purtroppo ancora non c’è.
Ha raggiunto limiti ormai intollerabili il degrado della vita interna, soffocata da correnti costruite su
vecchie appartenenze o nuovi personalismi a livello nazionale, e da feudi e cordate di potere a
livello locale. Se non si cambia strada il PD muore. O si afferma la buona politica – quella attenta
alla vita vera delle persone; che tiene lontani maneggioni ed affaristi; che contrasta l’esasperato,
nevrotico individualismo, e lo sgomitare di chi ha solo ossessione per il potere senza passione per le
idee; la politica che tira fuori le energie migliori di ciascuno, che ci fa sentire parte di un cammino
con gli altri – o altrimenti il progetto stesso del PD non potrà sopravvivere.
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Il PD che vogliamo è un partito che decide di smantellare questo soffocante e degradato sistema
correntizio per essere più aperto e libero. Un partito nel quale trova espressione il pluralismo delle
culture politiche senza fossilizzarsi in appartenenze correntizie. Un partito dove ciascuno porta
liberamente le proprie idee e viene valorizzato per i propri meriti. Un partito che rispetta il principio
delle pari opportunità tra uomini e donne.
Il PD che vogliamo è un partito che vive ogni giorno nella società. Ed al tempo stesso che,
amministrando Regioni, Province e Comuni, sa rispondere di più e meglio ai problemi ambientali
delle tante parti d’Italia in cui governa, sviluppando sistemi di mobilità urbana sostenibile,
garantendo una corretta pianificazione del territorio, gestendo con efficacia il ciclo dei rifiuti e
dell’acqua, facendo dell’ambiente e dell’economia verde il tratto distintivo di una nuova stagione
del buongoverno locale della sinistra.
9. UN PD CON UN PIU’ FORTE PROFILO ECOLOGISTA
“In questa notte scura, qualcuno di noi, nel suo piccolo, é
come quei "lampadieri" che, camminando innanzi, tengono la
pertica rivolta all'indietro, appoggiata sulla spalla - con il
lume in cima. Così, il "lampadiere" vede poco davanti a sè ma consente ai viaggiatori di camminare più sicuri. Qualcuno
ci prova. Non per eroismo o narcisismo, ma per sentirsi dalla
parte buona della vita.”
(Tom Benettollo)
In tutti i paesi occidentali si assiste da tempo ad una forte crescita di attenzione e di sensibilità
attorno ai temi ambientali. L’ambiente è ormai una questione centrale nella percezione
dell’opinione pubblica. Crescono aspirazioni verso stili di vita più orientati a comportamenti
ecologicamente sostenibili, mentre attorno alla green economy prende corpo una nuova economia,
fatta di migliaia di imprese e nuove professioni. Dentro la crisi economica più grave degli ultimi
decenni cresce la convinzione che l’ambiente rappresenti una opportunità. Prende corpo così un
intreccio di valori, interessi, culture che produce nuove domande di rappresentanza politica.
Da ciò derivano sia i successi elettorali di formazioni politiche di ispirazione ecologista in molti
paesi europei, sia lo sforzo di molte forze politiche più tradizionali di mettere maggiormente al
centro della propria proposta politica i temi ambientali. Per la politica questa diviene una frontiera
sempre più decisiva, anche perché mentre le culture politiche più tradizionali fanno fatica a
mobilitare speranze, mettere l’ambiente al centro del discorso politico consente invece di proporre
un’idea di futuro desiderabile.
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Ma anche l’ambientalismo è di fronte ad una prova di maturità. Niente fa più male alle buone
ragioni dell’ambiente di un certo ambientalismo minoritario, tanto fondamentalista quanto miope,
prigioniero di sindromi nimby e capace solo di dire no a tutto. Se vogliamo fare dell’ambiente la
bussola che guida il cambiamento dell’economia e della società, quella ecologista deve farsi sempre
più cultura di governo, lontana da ogni minoritarismo e da ogni fondamentalismo, capace di unire
in modo coerente concretezza quotidiana e visione del futuro, radicalità e pragmatismo, obiettivi
locali e dimensione globale. L’ambientalismo, per vincere, deve saper indicare un progetto di
cambiamento credibile, un’idea di futuro che possa avere il consenso della maggioranza delle
persone.
In Italia il vuoto che si è determinato sia per effetto della profonda crisi dell’esperienza dei Verdi,
sia per i ritardi e le sottovalutazioni delle altre forze politiche, rende ancora più forte e urgente la
necessità di dare piena rappresentanza politica alle ragioni di un moderno ambientalismo.
Il PD, alla sua nascita, aveva indicato l’ambiente come una delle priorità, riconoscendo la cultura
ecologista tra le culture fondative. Nel corso di questi primi anni di vita passi in avanti sono stati
fatti nella elaborazione programmatica, grazie al ruolo propulsivo svolto dagli ecologisti
democratici. Ma ciò non basta ancora al PD per essere percepito come un partito dal forte e coerente
profilo ecologista. Ancora troppe esitazioni, sordità, arretratezze, incoerenze ne frenano le
potenzialità.
La scommessa di fare del PD un partito con un forte e coerente profilo ecologista è una sfida ancora
tutta da vincere. Potrà essere vinta solo con un più forte e coraggioso rinnovamento culturale,
politico, programmatico. Un cambiamento netto è necessario anche dal punto di vista organizzativo,
superando una farraginosa e inutile moltiplicazione delle strutture di partito chiamate ad occuparsi
delle politiche ambientali, e riconoscendo pienamente la funzione della associazione degli ecologisti
democratici,
Esiste altrimenti il rischio che la crescente domanda di rappresentanza politica di valori e sensibilità
legati alle questioni ambientali possa trovare sbocco in posizioni fondamentaliste e demagogiche, in
una versione populista dell’ambientalismo che dà risposte semplificate o sbagliate a problemi
complessi. Anche per questa ragione è fondamentale riuscire a dare piena rappresentanza alle
ragioni di un moderno ambientalismo riformista – un ambientalismo che tiene insieme radicalità e
cultura di governo - all’interno di un grande partito quale il Partito Democratico.
Ci aspettano tempi difficili, ma anche sfide affascinanti. Ci muove la convinzione che spesso la
soluzione ai problemi è lì, a portata di mano, ma non si riesce a vederla perché incapaci di
immaginare qualcosa di diverso dall’esistente. Ci muove l’idea che la crisi, per quanto dura, sia
anche una occasione di cambiamento. Ci muove la ragionevole speranza che la rivoluzione
ecologica sia la chiave di volta per la costruzione di un futuro desiderabile.
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