L’oggetto tra spirito e memoria Le opere di Louise Nevelson alla Cortesi Gallery di Lugano / 13.03.2017 di Alessia Brughera Nel panorama artistico del secondo dopoguerra alcune figure si sono distinte per la loro capacità di rileggere e reinterpretare le avanguardie attraverso una personale idea dell’arte e una soggettiva visione del mondo. In una totale libertà di espressione, hanno prelevato dai diversi movimenti gli stimoli per una ricerca originale, contribuendo a creare un clima eterogeneo e ricco di soluzioni formali che, sottraendosi alle logiche di una specifica corrente, hanno travalicato i perimetri delineati dai percorsi comuni. Tra coloro che hanno portato avanti un linguaggio in cui la singola indagine si pone come inevitabile e necessaria c’è Louise Nevelson, artista ucraina naturalizzata statunitense (nata a Kiev nel 1899 e morta a New York nel 1988) che ha saputo distinguersi nella produzione scultorea del XX secolo per la sua carica innovativa. Innovativo non è stato soltanto l’apporto che la Nevelson ha dato allo sviluppo e alla ridefinizione della poetica dell’oggetto con i suoi assemblages e i suoi collages, ma anche il suo sapersi imporre come protagonista femminile in un momento in cui l’arte americana, dominata dall’Espressionismo astratto, era pressoché totale appannaggio degli uomini. Il suo repertorio creativo rimanda alle sperimentazioni dadaiste e surrealiste, trova affinità con il cubismo picassiano ed è imbevuto di suggestioni provenienti dalla scultura africana e da quella precolombiana, nonché dalla pittura murale messicana (fondamentale in questo senso è stata la sua esperienza di lavoro con Diego Rivera). Eppure l’artista ha dato forma a una modalità linguistica inedita che, se da un lato si è appunto arricchita grazie a un rapporto dinamico e aperto con varie correnti, dall’altro è stata sempre tesa ad approfondire, prima di tutto, riflessioni intime e moti dell’anima. L’arte della Nevelson ha raggiunto la piena maturità e il punto di svolta nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando incominciano a vedere la luce i singolari assemblaggi monocromatici costituiti da legni di scarto recuperati dalla strada e poi montati tra loro a generare complesse strutture dall’equilibrio sapientemente casuale. L’estremo interesse suscitato da queste creazioni porta l’artista, quasi sessantenne, a partecipare all’esposizione collettiva «Sixteen Americans» che il Museum of Modern Art di New York organizza nel 1959: accanto ai lavori di giovani nomi quali Robert Rauschenberg, Frank Stella e Jasper Johns, a quei tempi all’inizio delle loro carriere, la sua monumentale opera in bianco dal titolo Dawn’s Wedding Feast, allestita nella sala più ampia del museo, sorprende e suggestiona. Una mostra alla Cortesi Gallery di Lugano, organizzata in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano, raccoglie un significativo nucleo di sculture di questa audace interprete dell’arte del Novecento, fra i primi autori americani ad aver trasformato la tecnica dell’assemblaggio in piccole e grandi architetture astratte che racchiudono un microcosmo lirico e immaginario. Dagli assemblages presenti a Lugano, molti dei quali emblematici della stagione produttiva degli anni Settanta e Ottanta, affiora la peculiare poetica dell’artista, improntata al riscatto degli oggetti umani abbandonati, gli avanzi delle «cose» dell’uomo, per conferire loro una nuova vita spirituale. Frammenti in legno appartenuti a sedie, sgabelli, tavoli, letti, scatole, colonne e balaustre di ogni tipo vengono sottoposti a una sorta di purificazione artistica dalla realtà esterna che cancella la loro funzione originaria e gli affida un significato più nobile. «Ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia», diceva la Nevelson. E difatti nelle sue opere sono custoditi, come in armadi ben ordinati, elementi di un mobilio non più utilizzabile, relitti e oggetti fuori uso che vengono meticolosamente allestiti attraverso una prassi che procede per addizione, dando vita a quadri scolpiti, spesso di grande formato, che mantengono la bidimensionalità della pittura e che trovano nella monocromia del nero, del bianco o dell’oro lo strumento per intensificare profondità e movimenti chiaroscurali. Queste strutture, in cui ogni dettaglio è stato posizionato con cura per accordarsi con il tutto, diventano preziosi scrigni evocativi che conservano tracce di un’esistenza personale e collettiva, altari a cui è stato consacrato un universo interiore e simbolico fatto di memorie stratificate e di pensieri trasfigurati. Sono spazi affollati ma organizzati, costituiti da anfratti segreti e scomparti regolari dove trovano posto materiali portatori di un vissuto e di una dimensione temporale. Manufatti che la Nevelson rigenera nella trama di garbati accostamenti e di serrate associazioni, assurgendoli a oggetti affettivi che si fanno espressione dell’inconscio e del ricordo. Insieme agli assemblaggi troviamo in mostra anche una serie di collages che l’artista elabora tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta giustapponendo su fondi monocromatici lamine di metallo, elementi lignei e carte. Anche questi lavori testimoniano la capacità della Nevelson di creare composizioni sospese tra calcolo e casualità, in una miscela di istinto e ragione, di materia e spirito.