Maria Cristina BARTOLOMEI, Sulla filosofia morale, in

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Maria Cristina BARTOLOMEI, Sulla filosofia morale, in Massimo TURA, Etica e filosofia morale.
Concetti modelli prospettive, CUEM, Milano 2008, pp. 11-21.
Due cose riempiono l'animo di meraviglia e reverenza
sempre nuove e crescenti,
quanto più sovente e a lungo il pensiero vi si sofferma:
il cielo stellato sopra di me
e la legge morale dentro di me
(Immanuel Kant)
MARIA CRISTINA BARTOLOMEI
Sulla Filosofia morale
I. La Filosofia morale è ormai da tempo acquisita nel novero delle discipline filosofiche. La
dicitura che la denomina è strettamente legata alla lingua italiana; in altre lingue, infatti, lo stesso
ambito disciplinare viene caratterizzato con altre formulazioni terminologiche. Ma, al di là di tali
differenze, pur non irrilevanti e legate alle diverse tradizioni culturali e accademiche, non vi sono
divergenze quanto alla individuazione dell’ambito e del taglio problematico che costituiscono e
contraddistinguono tale specifica modulazione della riflessione e del questionare filosofici, che
hanno una lunghissima tradizione, coestendentesi all’intero arco storico della filosofia.
Amava ammonire Kant1 come non si possa imparare la filosofia, ma “solo” apprendere a
filosofare: quest’ultimo è dunque lo scopo dello studio filosofico. Le due cose vanno, peraltro,
distinte, ma non separate: giacché l’addestramento al filosofare non può che avvenire attraverso la
conoscenza e la comprensione dei testi filosofici, e l’interlocuzione critica con essi.
Affinché dunque la filosofia morale diventi non solo oggetto di un apprendimento, ma, come
deve essere, occasione e modalità di esercizio filosofico, anche la sua stessa nozione e concezione
non può essere semplicemente data per scontata, né registrata passivamente come un semplice ed
1
La prima formulazione di tale osservazione kantiana risale al periodo pre-critico e la sua radice viene
individuata nel razionalismo wolffiano cui allora Kant aderiva: cfr. I. Kant, Nachricht von der Einrichtung
seiner Vorlesung in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766 [Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre
invernale 1765-66], in KANT’S gesammelte Schriften, Akademie Ausg., Reimer/de Gruyter, Berlin 19021995, Band II, Vorkritische Schriften II ,1757-1777, Berlin 19121/1995, pp. 303-313. Ma l’osservazione si
correla più generalmente al convincimento kantiano che la filosofia non sia una un sistema scientifico,
dottrinale o nozionale compatto, chiuso e finito, ed essa viene infatti ribadita più volte nelle opere maggiori
del periodo critico: cfr. per esempio I. KANT, Critica della Ragion pura [Kritik der reinen Vernunft – 1781],
Dottrina trascendentale del metodo, cap. III: “L’architettonica della ragion pura”, trad. ital. di G. Gentile e
G. Lombardo-Radice, Laterza, Bari 1949 ssg., p. 646.
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Concetti modelli prospettive, CUEM, Milano 2008, pp. 11-21.
esterno criterio di organizzazione accademica e didattica. Essa stessa e per prima deve essere
investita dalla domanda filosofica “che cos’è?”. Una domanda che non chiede solo “che cosa c’è”,
ossia quali posizioni universalmente riconosciute come appartenenti all’ambito della filosofia
morale, siano rinvenibili. Una domanda che, invece, chiedendo “che cos’è?” chiede insieme quale è
il suo senso, quale la sua logica, con quale criterio tale modulazione della questione filosofica venga
distinta da altre, perché, ossia per quale motivo, a quale scopo e a partire da quali antecedenti, si sia
posta in essere una riflessione filosofica specificamente caratterizzabile come morale e, perciò
stesso, distinta dalla logica, dalla teoretica, della estetica, dalla filosofia politica, dalla storia della
filosofia ecc. Se la distinzione disciplinare è sempre provvisoria e guidata da criteri pratici e non
teoretici, ed infatti è molto mutata nel tempo e varia a seconda dei paesi, tuttavia ad essa è sotteso il
coglimento di come la domanda filosofica nella sua integralità e totalità non possa essere detta, non
possa essere formulata se non dando luogo a una pluralità di modulazioni e direzioni di tale
domandare.
Esiziale per apprendere a filosofare sarebbe il considerare i diversi percorsi disciplinari cui
lo studio universitario della filosofia avvia ed invia, come percorsi paralleli e irrelati. Essi vanno
invece visti come percorsi che convergono a raggiera verso il punto focale della domanda filosofica
originaria circa il sapere del vero e le condizioni e vie della sua conoscibilità e dicibilità; a tale
questione sono immediatamente e intrinsecamente connesse la domanda circa il buono, il giusto, il
bello e le condizioni della loro conoscibilità e praticabilità nella vita personale, sociale e politica.
Da un punto di vista esistenziale, si può osservare che la sequenza di motivazione è da rovesciare: la
provocazione dell’ingiustizia e del male e la correlata questione del senso, l’esperienza dell’agire,
l’esperienza sociale e politica, l’esperienza della vita del sentimento e delle passioni, lo sviluppo di
conoscenze razionali settoriali, l’esperienza linguistica, artistica, religiosa, la coscienza storica
precedono la questione teorica circa il buono, il bello, il giusto, che trovano poi il loro apice nella
formulazione della domanda filosofica integrale circa il vero nel cui orizzonte si radicano
ultimamente le questioni summenzionate.
La filosofia nasce, storicamente2
e teoricamente3, nel momento in cui la questione
raggiunge tale formulazione integrale, nel suo sviluppo successivo, la dipana poi in varie
prospettive, mai separate, ma che, anche in ragione della organizzazione degli studi, vanno
2
Cfr. J. P. VERNANT, Le origini del pensiero greco, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1976 e ssg. (Les origines de
la pensée grecque, PUF, Paris 1969).
3
Cfr. A. BADIOU, Manifesto per la filosofia, tr. it., Feltrinelli, Milano 1991 (Manifeste pour la philosphie, du
Seuil, Paris 1989).
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progressivamente assumendo l’aspetto di discipline, ognuna delle quali vive anche in riferimento al
confronto critico con la propria storia.
Nel momento in cui si pensasse che alla filosofia morale non inerisse essenzialmente un
approccio teoretico e uno sguardo storico, nel momento in cui si pensasse che la filosofia morale
nulla ha a che fare con la filosofia del diritto, con la filosofia della politica, con la filosofia del
linguaggio, con l’estetica ovvero con le scienze umane e sociali, in quel momento la filosofia
morale stessa perderebbe il suo carattere filosofico, decadrebbe, da prospettiva entro la quale
declinare la domanda filosofica, a mera metodologia, applicativa o prescrittiva.
Dunque, l’esercitarsi a filosofare nell’ambito e ‘in compagnia’ della filosofia morale va
riconosciuto innanzitutto come esercizio filosofico, che, nella specificità della sua tradizione e del
suo ambito privilegiato di problemi, modula l’integralità della questione filosofica ed è in
comunicazione osmotica con le altre prospettive in cui tale questione viene articolata. Di più: è
proprio e doveroso da parte di ogni modulazione specifica della domanda filosofica porre e porsi la
questione del suo rapporto con le altre e del rapporto dei problemi che formano oggetto privilegiato
della sua investigazione con gli altri ambiti problematici. Anche questa riflessione, dunque, fa parte
della filosofia morale.
II. “Filosofia morale” è formulazione al singolare, che allude a una visione unitaria. Che lo
sia, in considerazione dell’aspetto formale, ossia del taglio filosofico, è facilmente intuibile.
Ovviamente vi sono molti modi di intenderla, molte diverse prospettive quanto al suo metodo 4,
ossia alla via che essa percorre, molte diverse opzioni di contenuti. Si potrebbe dunque anche
parlare di “filosofie” morali, ma, poiché e in quanto ognuna di esse sia intenda essere filosofia, il
loro insieme è sussumibile con piena ragione sotto la dicitura “filosofia”, al singolare.
Ma quanto all’oggetto? Si potrebbe altrettanto giustificatamente parlare di “morale”, al
singolare? Non si dovrebbe piuttosto parlare, neutralmente, di morali?
La questione non è solo lessicale. Essa sottende, invece, la distinzione tra diversi approcci al
“fatto” morale5.
Dall’età moderna in poi si sviluppano e vengono accolte anche in ambito filosofico diverse concezioni del
metodo come grandezza autonoma, indipendente dal suo oggetto, cui viene solo ‘applicato’. Metodo viene
invece qui inteso nella sua accezione originaria, indicata dall’etimo greco di méthodos: metà-hodós, la via, il
percorso da seguire per compiere il viaggio della investigazione, attraverso il quale giungere alla meta. Tale
via, tale percorso sono strettamente correlati all’oggetto, non separabili da quanto lo connota e lo costituisce.
5
Per le considerazioni che qui seguono, cfr. in particolare E. WEIL, Morale, tr. it., in L. SICHIROLLO, Morale
e morali, Editori Riuniti, Roma 19851, pp. 15-47 (ediz. orig. in Encyclopaedia Universalis, vol. 11, 1970, pp.
311-318).
4
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Si può convenire nell’ intendere con “morale” il sistema di regole che gli esseri umani seguono,
ovvero debbono osservare, nella loro vita individuale e sociale. Non esiste vita umana associata
senza un impianto di regole. Non esiste, anzi, vita umana, tout-court, senza di esse. Non solo perché
la vita umana si dà sempre come fenomeno sociale, cosicché anche quando gli esseri umani si
trovano materialmente a vivere in solitudine, essi restano degli esseri sociali, con regole sociali
interiorizzate. Ma perché la libertà (pur sempre limitata) che contraddistingue in modo essenziale
l’essere umano, mette quest’ultimo dinanzi al problema della decisione, della scelta delle sue azioni,
e dunque della ricerca di stabilire criteri e regole per essi. “Poeticamente abita l’uomo”: così,
citando e commentando un verso di Hölderlin6, formula Martin Heidegger7, esprimendo un concetto
centrale della sua concezione filosofica. Ma, in analogia esclusivamente formale con la
formulazione heideggeriana (che ha tutt’altra intenzione e portata), si potrebbe anche dire
“Eticamente abita l’uomo”. In greco si distinguono, a seconda che inizino con la heta -e lunga- o
con la epsilon -e breve-) ἔθος da ἦθος (ethos, in entrambi i casi); sono lemmi che derivano da
diversi rami e altezze storiche della lingua greca, i cui significati iniziali sono differenziati. Il
secondo, ἔθος, dice abitudine, uso, costume, consuetudine; il primo, ἦθος, più arcaico, inizialmente
indicava la dimora, il rifugio tanto di uomini quanto di animali; più tardi indicò anche il carattere, il
modo di essere. Entrambi tali aree semantiche concorrono a definire il campo semantico dell’etico:
il costume, ma anche l’abitare, la modalità basilare del modo di se habere, di atteggiarsi, una forma
essenziale del dimorare dell’uomo, con e presso di sé, con e presso altri, con e presso il mondo. Dire
che l’uomo abita eticamente, allora, da un lato sembra dire che l’uomo abita abitando, abita
dimorando, se habet, si atteggia in modo essenziale nella ricerca di un luogo riconoscibile come suo
proprio e nella identificazione e costruzione di esso nell’iscrivere e radicare la sua esistenza
individuale e sociale nella apertura data dalla dimensione etica; d’altra parte, e specularmente,
l’abitare eticamente, sembra voler dire anche che l’uomo dimora, che l’uomo abita, crea il mondo
abitabile solo a partire da un originaria disposizione e apertura etica.
Che i mores, i costumi umani, siano sempre correlativi a regole mostra come il fatto morale
sia formalmente universale. Ma, dal punto di vista dei contenuti, le regole delle varie società ed
individui presentano un ventaglio estremo di varietà, di differenze, di divergenze.
6
Il verso dice: «voll Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde», «pieno di merito, ma
poeticamente, abita l’uomo su questa terra».
7
Cfr. M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi [1954], tr. it., Mursia, Milano 1991, pp. 135-138.
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Le differenti morali, tuttavia, sono destinate a incontrarsi: a scontrarsi, confliggere,
annullarsi, sottomettersi, ovvero fondersi, comunque: riconoscersi8. Come osserva Kant: dal
momento che la terra è rotonda, gli esseri umani non possono evitare di incontrarsi 9 e ciò conduce
alla necessaria reciproca ospitalità culturale.
Ogni singola morale di gruppo non solo intende sé stessa come valida e ‘vera’, ma può
anche concepirsi come assoluta, eventualmente di origine divina. In tal caso, l’incontro con un’altra,
analoga concezione conduce inevitabilmente al conflitto. Se e quando (come per lo più è
storicamente avvenuto) il conflitto non termina con la distruzione, con la cancellazione di uno dei
due gruppi, essi debbono trovare il modo di coesistere. Tale forma di coesistenza può dar luogo a
una subordinazione della morale di un gruppo a quella dell’altro, pur restando ognuna di esse
vincolante in modo assoluto per i propri aderenti. In altri casi (e sono i più importanti e rilevanti), la
coesistenza è considerata una situazione provvisoria, in attesa che un compimento ultimo della
storia umana instauri l’unica morale vera e autentica. La provvisorietà rende possibile una
coesistenza pacifica (o quasi) di morali diverse, relativizzate dalla loro transitorietà.
Ma anche entro tali modelli, in cui ogni morale è teoricamente impermeabile all’altra, la
coesistenza non è senza effetti. Di fatto, dà luogo a influssi e contaminazioni, valutabili sia in senso
positivo sia negativo. La scoperta della propria non unicità spinge a interrogarsi sul fatto morale, a
voler comprendere la sua natura e la ragione della molteplicità delle sue configurazioni.
Un primo approccio è quello analitico: indagare, riconoscere nella loro specificità e
registrare le diverse morali, cogliendone le differenze.
Una seconda forma di scienza morale, intesa come scienza delle morali, indaga i valori
fondanti di ogni specifica morale, i criteri che la rendono coerente; ovvero indaga quale funzione
una determinata morale svolga in una certa società e a una certa altezza storica, ovvero a quali
fattori storici e sociali siano riconducibili le trasformazioni dei costumi e delle regole. Questa
indagine non si limita a registrare e riconoscere le differenze, ma cerca una spiegazione causale di
esse, sul piano storico e sociologico.
Diverso è l’approccio filosofico, che è sempre un meta-discorso e che, muovendo dal rilievo
del fenomeno del fatto morale, cogliendone la pluralità di configurazioni e insieme la sua unitarietà
formale, si interroga su ciò da cui muove e su cui poggia tale fondamentale approccio alla realtà,
8
Il tema del riconoscimento è uno dei nodi centrali della riflessione e del dibattito etici e politici
contemporanei e quindi della riflessione e indagine filosofica e sociologica. Cfr. come riferimento esemplare
A. HONNETH, Lotta per il riconoscimento [1992], tr. it. Il Saggiatore, Milano 2002.
9
Cfr. I. KANT, Zum ewigen Frieden: Ein philosphischer Entwurf [1795], Akademie Ausg. , Reimer/ de
Gruyter, II, 3, Berlin 1995, p. 357 ssg.; (tr. it. Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 1995).
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che connota essenzialmente ciò che è umano. Si interroga sui criteri che non solo informano di
fatto, ma che debbono o dovrebbero informare il porsi in essere di una morale individuale e di
gruppo perché essa sia giustificata, ragionevole se non razionale.
L’approccio filosofico non si limita a registrare, ma interroga e interpreta, nell’intento di
portare a pensiero quanto è fatto, di illuminarlo alla luce della ragione e dell’intelletto, di poter
formulare dei criteri morali fondandoli non su un criterio esterno o settoriale o del tutto individuale,
di autorità o tradizione o mero sentire individuale, ma in base ad argomenti persuasivi e fondati,
comunicabili e confrontabili tra tutti gli esseri dotati di ragione e linguaggio, argomenti che, certo,
non sono astratti né si pretendono auto fondanti in senso assoluto, ma muovono dalle esperienze
storiche, si confrontano positivamente anche con quanto è il portato delle diverse tradizioni e
interagiscono con quanto viene suggerito dalla esperienza delle diverse emozioni e dalla vita del
sentimento. Di qui, tutta la possibile gamma di approcci e accenti.
III.
Le questioni che innervano la riflessione della filosofia morale sono riferite sia
all’oggetto di essa, sia al suo metodo, sia al rapporto tra la morale, da un lato, e, dall’altro
l’ontologia o la metafisica, sia al rapporto tra morale, politica, diritto, sia al criterio del giudizio
morale e ai criteri in base ai quali esso viene identificato, sia al rapporto tra la filosofia morale e le
altre branche del sapere filosofico, ad esempio, per citare una recente rivisitazione con la filosofia
pratica.
Morale della coscienza o della conoscenza? Morale delle intenzioni o degli effetti o della
responsabilità? Morale individuale o di gruppo? Morale fatta discendere dalla visione della cose
riconosciuta come vera, ossia dipendente dalla ontologia ovvero dalla metafisica, ovvero morale
‘autonoma’, non scissa dalla ontologia, ma, semmai capace di gettare luce su quest’ultima, invece di
esserne illuminata? Morale del dovere o etica, morale normata dalla ricerca della felicità? Teoria
morale guidata dalla intuizione (del valore), dalla intrascendibilità del dalla ragionevolezza, dalla
razionalità? Concezione assoluta o sempre storicamente determinata dell’etica? Criterio del bene
assoluto, del male minore, del maggior bene per il maggior numero dei soggetti toccati da una
decisione? Quale rapporto tra etica filosofica e religione? E’ il bene o il giusto l’oggetto della
riflessione morale? E la determinazione del giusto quali rapporti ha con la teoria giuridica e sociale?
La varietà di tali percorsi, modelli, approcci individua l’ ambito problematico della filosofia
morale e insieme rispecchia il cammino da essa compiuto. A tali problemi fondamentali si
aggiungono poi specifici temi contenutistici o specifici orientamento applicativi, gli uni e gli altri
molto determinati dalle situazioni, emergenti e contingenti.
Si pensi per esempio all’attuale
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tematica della bioetica, strettamente legato alle novità introdotte dallo sviluppo tecnologico, o al
tema dell’etica sociale, sempre correlato al mutare delle strutture della società, così che oggi, in
epoca di globalizzazione e in paesi che sono mete di imponenti movimenti di immigrazione, nodo
imprescindibile dell’etica sociale risulta per esempio la riflessione sul pluralismo culturale, pur
restandole essenziali altri problemi, quali le tematiche inerenti al lavoro, o ai rapporti tra uomini e
donne, ovvero tra generazioni.
Lo sguardo che vuol cogliere la filosofia morale deve essere duplice: sincronico e
diacronico. Sincronico: deve interrogarla e interrogarsi a partire dalla attuale consapevolezza e
formulazione dei problemi per tracciare a partire da esse una ricognizione dei modelli e approcci e
un loro confronto; ma non può né comprendere il suo “oggetto” né dar conto dei criteri del proprio
sguardo se non attraverso un approccio anche diacronico. Non si tratta, in questo, di una mera
ricostruzione archeologica, di portare alla luce strati precedenti e ormai sepolti. Va detto a tale
riguardo che, peraltro, l’archeologia non è essa stessa mai appunto ‘mera archeologia’: giacché
quanto viene ritrovato nella forma e nella situazione del sepolto, morto, estraneo, nell’essere portato
alla luce illumina e arricchisce ciò che attuale, visibile, vivo, giacché ciò che viene riportato alla
luce è il legame tra il cosiddetto passato e il presente, è il fatto che il cosiddetto passato è una parte,
una componente del presente, pur sempre attiva, ma non conosciuta e riconosciuta. Si tratta,
comunque, nel caso della filosofia morale, di rendersi conto che essa è anche il suo proprio
cammino, che non si può dar conto dello sguardo attuale con il quale la si accosta e la si esercita, se
non riconoscendo che esso è frutto di uno sviluppo, riconoscendo adeguatamente le ascendenze e i
riferimenti di ogni posizione. Ogni posizione attuale, in termini più semplici ed elementari,
chiarisce meglio e più appieno sé stessa a sé e agli altri, quando e in quanto sia in grado di
discernere le posizioni precedenti che in modo diretto o indiretto, per continuità o per opposizione
su di lei influiscono e la segnano, quand’anche non concorrano a costituirla.
Un esempio è opportuno a chiarire quanto appena esposto. David Hume ha notoriamente
formulato il “divieto” di dedurre un valore da un fatto10. La descrizione di una realtà non può essere
tramutata in prescrizione, poiché le due prospettive sono qualitativamente di diversa natura. Gli
enunciati prescrittivi e descrittivi sono indeducibili gli uni dagli altri, sicché da sole proposizioni
conoscitive non possono derivare prescrizioni etiche. L’osservazione humiana ha una sua pertinenza
e validità, naturalmente, ma diventa fuorviante quando se ne faccia un principio assoluto, oltretutto
10
Cfr. D. HUME, Trattato sulla natura umana [1739], a cura di E. LECALDANO. tr. it., Laterza, Roma-Bari
1992, L. III, parte I (pp. 481-503) e parte II, sez. I (pp. 504-512); ed. orig. Treatise of human nature, Oxford
University Press, Oxford 2001. Cfr. in proposito B. CELANO, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio
sulla legge di Hume, Giappichelli, Torino 1994.
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addebitandolo impropriamente al suo Autore11. E la modalità fondamentale per farne un principio
assoluto è, appunto, ‘scioglierla’ dal contesto del dibattito filosofico in cui essa si iscrive, ignorare
la sua determinatezza storica. In tal caso i concetti “fatto” e “valore” vengono, direbbe Theodor
Wiesengrund Adorno, reificati12, trasformati in una ‘cosa’che il relativo lemma si limita a indicare.
Analogamente a quanto Platone osservare nel Fedro13 in relazione alla individuazione delle idee
particolare mediante divisione (diaíresis) delle idee generali, in ogni concetto è invece insito
l’elemento del giudizio, del riconoscimento, della decisione. E si deve aggiungere: ogni concetto
filosofico trae il suo senso il riferimento alla realtà che intende cogliere e rendere intellegibile, ma
altrettanto in riferimento ad altri concetti filosofici. In altre parole, occorre interrogarsi su che cosa
Hume intendesse per fatto e per valore, con quali criteri li distinguesse, a quali posizioni che invece
deducevano valori dai fatti guardasse criticamente. Non tutti i fatti sono meri fatti, solo constatati.
Nel coglimento di un fenomeno vi è un aspetto concettuale di giudizio, un aspetto ermeneutico di
questione del suo senso, un aspetto linguistico di adeguata espressione e simbolizzazione di esso.
Così pure, con quale criterio individuare un valore? Un valore non “c’è”, ma viene individuato e
riconosciuto come tale in base a una interpretazione e a un giudizio. La distinzione, euristicamente
utile, tra fatto e valore non è l’individuazione di due classi di ‘cose’ non miscelabili. Di qui la
plausibilità di posizioni filosofiche che, senza contravvenire in modo crasso alla regola humiana,
ritengano di leggere delle indicazioni di “valori” nella filigrana dei “fatti”.
L’esempio appena riportato illustra bene la necessità di guardare alla filosofia con lo
sguardo binoculare, sincronico e diacronico, ma a questo aggiunge sia la necessità di far oggetto
Il “divieto” di Hume, poi denominato la “Grande Divisione”, è stato soprattutto ripreso e enfatizzato, in
epoca contemporanea, nell’ambito del neoempirismo. Ciò ha dato luogo a un acceso dibattito, tuttora in
corso, in cui si distingue un ampio ventaglio di posizioni: il riconoscimento della diversità delle proposizioni
prescrittive da quelle descrittive non sfocia necessariamente per tutte le posizioni nella incomunicabilità
assoluta tra esse. Una recente (e assai discussa) voce nel dibattito è rappresentata da H. PUTNAM,
Fatto/valore. Fine di una dicotomia e altri saggi [2002], tr. it., Fazi, Roma 2004. Ma va anche detto che
Hume, in realtà, non aveva inteso fare di tale distinzione la base di una filosofia morale; nel suo testo, infatti,
si tratta di una osservazione che si può considerare non particolarmente basilare.
12
Cfr. in proposito TH. W. ADORNO, Philosophische Terminologie, 2 B.de, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 197374 vol. I, pp. 30-55 (in particolare, p. 55); tr. it. di A. SOLMI, Terminologia filosofica, 2 voll., Einaudi,
Torino 19751 (IIa ediz. in unico volume, Einaudi 2006), vol I, pp. 26-50 (in particolare, p. 50).
13
Il procedimento che segue l’intelletto per trascorrere da idea a idea è chiamato da Platone “dialettica”.
Nella Repubblica, Platone illustra la dialettica ascendente, sintetica, che muovendo dal sensibile conduce
alle idee o quindi trascorrendo da idea ad idea alla idea somma del Bene (cfr. PLATONE, Repubblica VII,
533c – 534 c.). E vi è il procedimento opposto, la dialettica discendente o diairetica, che, procedendo per
divisione, giunge, muovendo dalla idea somma, a distinguere via via le idee particolari. Nessuno dei due
procedimenti è meccanico, è una pura applicazione di un metodo, ma comporta l’esercizio del giudizio e il
rischio di sbagliare. In particolare, per il secondo, occorre, dice Platone “saper dividere le idee, in base alle
articolazioni che hanno per natura, e cercare di non spezzare nessuna parte, come invece suole fare un cattivo
scalco”: cfr. PLATONE, Fedro 265 e.
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della riflessione il linguaggio e la concettualità della quale la elaborazione etica si intesse, sia di
ritornare criticamente su tutti tali movimenti del pensiero affinché la riflessione etica diventi
esercizio di filosofia o, se si vuole, affinché, attingendo il livello dello sguardo filosofico, della
“seconda navigazione” la riflessione etica sia pienamente umana e adeguata a sé stessa.
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