Ovunque note di pace (Foto di Mariano Beltrame). 2 VeneziaMusica e dintorni Anno x – n. 50 – gennaio / febbraio 2013 Reg. Tribunale di Venezia n. 1496 del 19 / 10 / 2004 Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004 ISSN 1971-8241 Direttore editoriale: Giuliano Segre Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano Direttore responsabile: Leonardo Mello Caporedattore: Ilaria Pellanda Art director: Luca Colferai Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano, Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin, Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti Segreteria di redazione: Erica Molin e Antonietta Giorni Redazione e uffici: Dorsoduro 3488/U – 30123 Venezia tel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939 e-mail: [email protected] [email protected] web: www.euterpevenezia.it VeneziaMusica e dintorni è stata fondata da Luciano Pasotto nel 2004 In copertina: 50 arte grafica di Luca Colferai. Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore), Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis, Ignazio Musu, Giampaolo Vianello Editore: Euterpe Venezia s.r.l. Euterpe Venezia è una società strumentale della Fondazione di Venezia che si occupa dello studio, della produzione e della gestione di processi e interventi formativi, di ricerca e di presenza nel campo delle arti e dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivo e alle discipline a esse correlate Presidente: Gianpaolo Fortunati Amministratore delegato: Giovanni Dell’Olivo Consiglieri: Mariano Beltrame, Eugenio Pino La Fondazione di Venezia è presieduta da Giuliano Segre Consiglio generale: Giorgio Baldo, Vasco Boatto, Riccardo Calimani, Carlo Carraro, Renata Codello, Antonio Foscari, Anna Laura Geschmay Mevorach, Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza, Amerigo Restucci, Paolo Rubini, Franco Reviglio, Maria Luisa Semi, Giovanni Toniolo Stampa: Tipografia Crivellari 1918 Via Trieste 1, Silea (Tv) Questo numero è stato realizzato grazie alla collaborazione di Michele Girardi, Fernando Marchiori, Massimo Tamalio, Adriana Vianello, Andrea De Marchi, Livia Sartori, Elena Casadoro, Andrea Benesso Raccolta pubblicitaria: Luciana Cicogna 347 6176193 – [email protected] Nicoletta Echer 348 3945295 – [email protected] Tiratura: 3000 copie Uscita bimestrale Venezia, musica, dintorni… di Giuliano Segre 7 Un traguardo importante di Luciano Pasotto 8 Editoriale 50 di Leonardo Mello 9 Un Manifesto per VeneziaMusica e dintorni sommario 6 3 focus on 12 La vocalità restituita Gregory Kunde è Otello alla Fenice di Riccardo Rocca 14 Intorno ai «Masnadieri» di Fabrizio Della Seta 16 Libertà o morte Schiller/Verdi secondo Gabriele Lavia a cura di Leonardo Mello 18 Daniele Rustioni dirige «I masnadieri» alla Fenice a cura di Mirko Schipilliti 20 Verdi versus Wagner: alla pari? di Quirino Principe 22 Sul «Tristano» di Paolo Petazzi 23 Le ambiguità di un antieroe Il «Lohengrin» di Claus Guth alla Scala di Mario Messinis 24 Il «Nabucco» di Verdi secondo Stefano Poda di Mario Merigo 9 12-24 opera 25 Verdi e Wagner alla Fenice (e non solo) Interventi di Fabrizio Della Seta, Quirino Principe, Paolo Petazzi e Mario Messinis Mozart e i bambini: ecco il pubblico di domani di Mirko Schipilliti classica 26 Giovani interpreti per future platee La nuova iniziativa della Società Veneziana di Concerti di Letizia Michielon 27 Diego Matheuz sul podio tra Čajkovskij e Mozart di Chiara Squarcina 28 Un omaggio a Luciano Berio di Vitale Fano 29 Luciano Berio, un ritratto di Angela Ida De Benedictis 30 «Le salon romantique» di Palazzetto Bru Zane di Andrea Oddone Martin 31 La «Trasfigurazione» di Cascioli per l’Orchestra di Padova e del Veneto a cura di Maria Chiara Del Piccolo 27 28-29 29 4 sommario l’altra musica 32 «Ecco» Niccolò Fabi, l’ostinato a cura di John Vignola 34 La rinascita di Alice suona in «Samsara» di Guido Michelone 35 Suoni, musiche e speranze: i Sigur Rós fanno tappa a Jesolo di Tommaso Gastaldi 36 Da «Azzurro» a «Yellow Submarine», ecco il Carnevale dei colori di Manuela Pivato 37 Al Candiani un 2013 di Jazz Groove di Giovanni Greto 38 Franco Battiato Nel bazar del venditore di tappeti sonori di Giò Alajmo 39 La Venezia schietta e perduta di «Kociss» di Fernando Marchiori 40 «… Cossa sarala ’sta Merica» L’emigrazione italiana nei canti popolari di Gualtiero Bertelli 42 Il ritorno di «The Wall» Parla Roger Waters di Giò Alajmo 32 42-44 Il ritorno di «The Wall»: Giò Alajmo conversa con Roger Waters prosa 45 «Un tram che si chiama desiderio» secondo Antonio Latella Al Goldoni grandi attori per uno spettacolo pluripremiato di Carmelo Alberti 46 Ricordando Annibale di Enrico Fiore 47 Il «Ferdinando» di Arturo Cirillo a cura di Leonardo Mello 48 Alla ricerca di Riccardo III di Shaul Bassi 50 Un Re fuori scala Riccardo Terzo secondo Alessandro Gassmann a cura di Ilaria Pellanda 52 Vitaliano Trevisan o l’arte di riscrivere di Leonardo Mello 52 R III Una scheda di Vitaliano Trevisan 53 Riccardo III, atto primo, scena quarta Due versioni a confronto 54 La cancellazione del narratore onniscente «Aldo Morto / tragedia» di Daniele Timpano di Massimo Marino 55 «Who’s Who?»: vanno in scena le identità plurali di Alberto Massarotto 47 48-53 Dossier «Riccardo III» Alessandro Gassmann racconta il suo primo Shakespeare con l’adattamento di Vitaliano Trevisan 5 56 Premi Ubu 2012: e poi? Brevi considerazioni sparse di Roberta Ferraresi 57 Una vita da mediano La Fondazione di Venezia per il teatro di Fabio Achilli 57 Fare lentamente qualcosa di necessario di Cristina Palumbo 56 sommario prosa – commenti cinema 58 Roberta Ferraresi sui Premi Ubu 2012 Un documentario su Wagner e Venezia di Gianni Di Capua arte 59 Il 2013 della Fondazione Giorgio Cini di Ilaria Pellanda in vetrina 60 Presentato il Nono Rapporto sulla Produzione Culturale di Manuela Bertoldo 62 La Fondazione Levi compie 50 anni di Giorgio Busetto in vetrina – Mario Bortolotto 62-64 I cinquant’anni della Fondazione Levi 65 Il provetto stregone Mario Bortolotto e le vie della musicologia (5) un progetto a cura di Jacopo Pellegrini 66 La musica francese «moderna» secondo Mario Bortolotto di Emilio Sala 70 Mario Bortolotto, «cavaliere errante senza dama certa» di Francesco Zambon 72 Per Mario Bortolotto di Iván Vándor 73 Le recensioni di Giuseppina La Face Bianconi 75 Laura Barbiani racconta i vent’anni dello Stabile del Veneto di Leonardo Mello 75 In volume un omaggio allo storico della danza José Sasportes di Ilaria Pellanda 76 Il teatro del professore Due nuove raccolte di Paolo Puppa di Leonardo Mello 79 La nuova «Scorribanda» di Marco Castelli di Ilaria Pellanda 79 La laguna provoca dipendenza: lo dicono i «Veneziani per scelta» di Ilaria Pellanda carta canta – libri / dischi 65-72 Il provetto stregone Quinta puntata dello Speciale dedicato a Mario Bortolotto 76 6 Venezia, musica, dintorni… I di Giuliano Segre l traguardo dei 50 numeri – e dei cento mesi di lavoro, trattandosi di un bimestrale – è una scommessa vinta per VeneziaMusica e dintorni. Nata in concomitanza con la riapertura (dopo l’incendio e la ricostruzione) del Teatro La Fenice, la rivista ha saputo, in questo arco di tempo, tenere fede alle premesse che hanno portato alla sua creazione e rafforzare, in modo sorprendentemente prospettico, i temi che sono contenuti nel nome della testata. Innanzitutto Venezia: nome (e marchio) universale, meta di un flusso turistico che non ha paragoni nel nostro Paese, ma soprattutto culla – per la sua storia – di cultura. Se oggi, grazie a studi condotti in modo sistematico e statisticamente valido anche dalla Fondazione di Venezia, anche attraverso la Fondazione Venezia 2000 e il sito Agenda Venezia, si riescono a enumerare e classificare gli appuntamenti culturali che si svolgono ogni anno nella nostra città (oltre 2.500, secondo l’ultima rilevazione), è pur vero che mancava uno strumento capace di riordinarli dal punto di vista scientifico, collegandoli alla sua immensa tradizione. Quello che nelle pagine della rivista viene raccontato e analizzato tiene sempre conto del contesto nel quale esso è nato. Analogo discorso si può fare per il lemma musica: fin dall’inizio sono stati trattati tutti i generi e gli stili musicali – dalla lirica alla sinfonica, dal violino barocco al pianoforte jazz, dagli ultimi esiti della sperimentazione contemporanea alla migliore produzione cantautoriale – superando i rigidi steccati dottrinali e affrontando con eguale rigore il teatro, la prosa, allargando infine l’orizzonte a manifestazioni non legate alle cosiddette arti dal vivo, come il cinema e la fotografia, sottolineando le sempre più fitte connessioni e commistioni tra un genere e l’altro. Dintorni è però la parola che meglio identifica l’anima della rivista. Innanzitutto dal punto di vista geografico: Venezia e dintorni sta dilatando il suo significato, le trasformazioni che per legge coinvolgeranno la città, in prospettiva metropolitana, sono già effettive nella produzione e nella fruizione culturale, che si irradia ad un territorio sempre più vasto ma non per questo meno coeso o omogeneo. Dintorni perché appunto i temi affrontati si sono ampliati e abbracciano le espressioni tipiche del Novecento. Dintorni perché alla parte prettamente giornalistica ha saputo affiancare una vena formativa, rivolta agli esperti, ai cultori e anche ai giovani. VeneziaMusica e dintorni dunque ha rappresentato per la Fondazione di Venezia un investimento culturale diretto, al quale possiamo riconoscere per molti versi carattere pedagogico e di utilità sociale, più di quanto sarebbe potuto avvenire – non ce ne voglia nessuno – con un’erogazione economica, tipica di una modalità fondazionale che presso quella di Venezia ha avuto sempre meno domicilio. Dal «dare al fare» è stato il motto della Fondazione di Venezia nel suo secondo decennio di vita operativa; «facendo» abbiamo trovato compagni di strada di alta qualità e di consolidata fama: VeneziaMusica e dintorni darà conto dell’intesa che dal 2013 legherà sul territorio metropolitano le due fondazioni Fondazione Teatro La Fenice e Fondazione di Venezia. In questa nuova prospettiva importanti novità riguarderanno la rivista, nel tentativo di rafforzarne l’identità veneziana e l’apertura verso nuovi dintorni, spaziali e tematici. Appuntamento al numero 100, per vedere dove saremo arrivati. ◼ Un traguardo importante L’ 7 di Luciano Pasotto onda emotiva che si è diffusa per la ricostruzione della Fenice ha progressivamente contagiato tutti, pubblico privato e istituzioni, raggiungendo il suo apice nella seconda metà del 2004, all’annuncio dell’imminente riapertura. In quel periodo Euterpe Venezia aveva già deciso di dare vita a questa rivista, e si stavano ultimando gli ultimi preparativi in vista della prima uscita. Così, al nostro già alto entusiasmo per il primo numero si univa quello di dedicare all’evento della riapertura qualcosa di speciale. La nascitura redazione, composta da Leonardo Mello e Ilaria Pellanda e coadiuvata da Manuela Pivato, creò per l’occasione – sotto l’attenta supervisione di Emilio Melli – una speciale copertina, dal valore fortemente simbolico, in cui era raffigurato il palcoscenico restaurato della Fenice, ma ancora chiuso e solitario. Mentre il doppio risvolto di copertina lo presentava invece aperto e affollato di membri dell’orchestra durante il primo concerto dopo il lungo periodo di chiusura. In questo modo tutti noi volevamo, appunto simbolicamente, augurare al Teatro una nuova, lunghissima vita, facendo coincidere il suo ritorno all’attività operistica – con la celebre Traviata diretta da Lorin Maazel – e il primo tassello di una storia editoriale che oggi festeggia un traguardo importante, anche grazie al sostegno di Giuliano Segre, presidente della Fondazione di Venezia. Nella mia presentazione di allora cercavo di definire quale fosse la fisionomia di questo nuovo periodico, e come essa dovesse conciliarsi con le finalità di Euterpe Venezia, affermando che lo scopo prioritario della rivista doveva essere «informare, aprire nuove possibilità, fornire nuove direzioni, documentare quanto già esiste e raccontare quanto sta per accadere nel settore musicale». Ebbene, a distanza di quasi nove anni, sono estremamente soddisfatto dell’evoluzione di VeneziaMusica e dintorni, che ha saputo mantenere vivi nel tempo quei primi punti programmatici, ampliando allo stesso tempo il suo sguardo ad altri settori della creatività, che – insieme alla musica – compongono il complesso e articolato mondo dell’arte dal vivo. Un approfondimento competente e di alto livello – che non è mai sfociato nella pubblicazione di nicchia, appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori – è andato di pari passo con quell’apertura che già invocavo agli inizi: apertura a nuove fasce di lettori, anche anagraficamente più giovani, e a un bacino territoriale che non si risolvesse in Venezia, ma ne ampliasse i confini facendo di questo bimestrale uno strumento utile e ambito per tutto il Triveneto (e anche al di là delle mere e schematiche delimitazioni geografiche). E così è stato. Mi sono riempito d’orgoglio quando mi è stato chiesto di scrivere queste poche righe per festeggiare il cinquantesimo numero, perché l’essere arrivati fino a qui sta a significare che nel 2004 avevamo visto giusto cercando di colmare una lacuna concreta nel panorama culturale veneto e veneziano. Alla rivista auguro di cuore di aggiungere a questi primi cinquanta moltissimi altri numeri, continuando in questa direzione, migliorando sempre i propri contenuti non solo per raggiungere e appassionare sempre più lettori ma anche per poter aspirare a collaborare con importanti specifici enti. ◼ 8 Editoriale 50 È di Leonardo Mello trascorso ormai molto tempo da quando (era il maggio 2004) – su invito di Luciano Pasotto, allora presidente di Euterpe Venezia – ho cominciato a immaginarmi la struttura di quella che sarebbe poi diventata VeneziaMusica e dintorni. Il committente, una società strumentale della Fondazione di Venezia, aveva come suo obiettivo prioritario la diffusione e la divulgazione, all’interno del vasto territorio veneziano, della musica «classica», o meglio «colta», in termini al tempo stesso culturali e formativi. In quell’orizzonte, oltre alle rassegne, agli appuntamenti concertistici e alla gestione della Scuola di Musica «Santa Cecilia» di Portogruaro, Euterpe manifestava la volontà di dare vita a un’attività editoriale, che avesse un profilo informativo-formativo e fosse il luogo deputato all’approfondimento di tematiche strettamente connesse alle sette note. Mi fu subito chiaro – cercando e rubando spunti in altre, affermate testate nazionali – che la nascitura rivista avrebbe dovuto coniugare il suo aspetto locale – dando voce alle molteplici realtà attive a Venezia e nel suo circondario – e una vocazione all’«apertura», al dialogo tra i diversi settori delle cosiddette arti dal vivo, che invece conducevano, non solo in laguna, vite parallele e impermeabili l’una all’altra. Alcuni mesi dopo, il progetto è stato condiviso con Ilaria Pellanda, che è stata sin dall’inizio insostituibile caporedattrice e con la quale si è formulato uno schema organico e si sono formalizzate categorie funzionali in cui suddividere, in modo convincente e accessibile a tutti, l’ampio flusso di informazioni che contraddistingueva (e tuttora contraddistingue) l’offerta cittadina (nonché, più estesamente, regionale e triveneta). Sul piano ideativo, ancor prima che il giornale divenisse realtà, fondamentale è stato l’apporto, oltre che del già citato Pasotto, di altre due persone: Manuela Pivato, che si è assunta fino al 2007 la responsabilità direttiva e ha dato impulso alla definizione della rivista nelle sue linee essenziali (sua l’idea, rivelatasi assai proficua, dei «dintorni»), ed Emilio Melli, il quale, pur incarnando – come consigliere e in seguito amministratore delegato di Euterpe – il ruolo di editore, è stato sempre al nostro fianco suggerendo, proponendo e stimolando riflessioni, in un rapporto pluriennale di fertile e affettuosa quotidianità. Con questa «squadra» nel novembre 2004 siamo usciti con il primo numero, in simbolica ed empatica coincidenza con l’agognata riapertura della Fenice, nostro naturale e imprescindibile punto di riferimento. Nel riassunto, necessariamente sintetico, di otto anni e mezzo di lavoro, va sottolineata la comunanza d’intenti con l’editore anche nella successiva gestione di Euterpe, guidata da Gian Paolo Fortunati e Giovanni Dell’Olivo, e soprattutto l’arrivo alla direzione editoriale, nel 2010, di Giuliano Segre, che ha sin da subito istituito un Comitato dei Garanti composto da illustri personalità della cultura e dell’arte dal vivo (i nomi li potete leggere nel colophon). Questo nuovo soggetto – cui ha partecipato attivamente e con grande passione Giovanni Morelli – ha aggiunto autorevolezza a quella conquistata sul campo nel corso degli anni grazie all’apporto, il più delle volte a titolo gratuito, di autorevoli esponenti della comunità scientifica e della critica militante. Ma ogni periodico vive, oltre che di contenuti, anche della sua riconoscibilità grafica, e in questo senso cruciale è stato il ruolo dell’art director Luca Colferai, che ne ha perfezionato sempre più il disegno e la fisionomia, in piena sintonia con le esigenze che di volta in volta nascevano dalle stesse pagine. E così siamo arrivati al cinqua ntesi mo numero. Per fe steg g ia rlo, quattro intellettuali «amici» di VeneziaMusica hanno voluto regalarci un breve «manifesto», non futurista e certo non rivendicativo, ma che definirei piuttosto «storicofotografico», e che è stato poi condiviso da molte altre personalità locali e nazionali. Con un po’ di civetteria, e appunto in occasione delle cinquanta candeline, lo pubblichiamo nelle pagine successive. I promotori sono persone che hanno creduto nel progetto sin dai suoi inizi, a cominciare da Mario Messinis, un po’ il «papà» della rivista, sempre prodigo di consigli e disponibile a mettere a disposizione il suo (molto) sapere. E poi Giuseppina La Face Bianconi, che ci onora di una rubrica fissa dal marzo del 2008, Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli. Firme che, per nostra fortuna, ricorrono nel corso degli anni, insieme a quelle di molti altri collaboratori (l’elenco completo si trova nel risvolto di copertina). Negli ultimi anni, anche su spinta dei Garanti – e senza rinunciare mai a rivolgere uno sguardo vigile alle nostre istituzioni maggiori – abbiamo focalizzato ulteriormente la nostra attenzione sull’immaginario giovanile e contemporaneo, convinti che l’eterogeneicità (anagrafica e di gusti) dei lettori sia una delle nostre risorse più preziose. Ma giunto a questo punto dell’amarcord, per non incorrere ancora di più nel monito «chi si loda s’imbroda», taglio corto e – brindando insieme a voi – auguro a tutti una buona lettura. ◼ Alcune prove di copertina. N ata nel 2004, in concomitanza simbolica con la riapertura del Teatro La Fenice, VeneziaMusica e dintorni offre fin dai primi numeri una panoramica delle migliori proposte spettacolari prodotte nel territorio triveneto o in esso itineranti, pur senza rigidi steccati. A dispetto del suo stesso nome, la struttura del bimestrale, articolata in plurime sezioni, intende favorire e sviluppare il dialogo e l’interconnessione tra le diverse discipline che compongono il frastagliato mondo dell’arte dal vivo, trattando in modo approfondito le variegate forme di espressione musicale, ma anche teatrale e coreografica, e rivolgendo particolare attenzione alla contemporaneità e alle sue declinazioni sceniche. Nel panorama veneziano, veneto e spesso anche nazionale, VeneziaMusica e dintorni amplifica l’offerta editoriale e culturale nel settore. Nutrendosi dalle radici ben profonde che l’arte ha a Venezia, ha saputo crescere, estendendo i rami della sua attività ben oltre i confini lagunari, diventando punto di riferimento per studiosi ed appassionati. Nel corso del tempo la rivista ha allargato i suoi interessi anche ad altre discipline artistiche, in quel disegno di sintesi e superamento dei generi codificati che da sempre la contraddistingue. In parallelo, ha accresciuto la propria vocazione formativa rivolgendosi direttamente alle nuove generazioni di spettatori, e diventando luogo privilegiato del dibattito culturale, coinvolgendo negli anni artisti, studiosi e intellettuali da tutto il Paese, per molti dei quali rappresenta una risorsa imprescindibile. Sottoscrivono Mario Messinis Giuseppina La Face Bianconi Lorenzo Bianconi Giorgio Pestelli Giò Alajmo – Critico musicale de «Il Gazzettino» Carmelo Alberti – Associato di Storia del Teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia Florence Alibert – Direttore generale del Palazzetto Bru Zane (Venezia) Roberto Alonge – Già Ordinario di Storia del teatro rinascimentale all’Università degli Studi di Torino Claudio Ambrosini – Compositore – Fondatore dell’Ex Novo Ensemble (Venezia) Alberto Arbasino – Scrittore Lorenzo Arruga – Critico musicale di «Panorama» – Musicologo Anna Bandettini – Critico teatrale de «la Repubblica» Paolo Baratta – Presidente della Biennale di Venezia – Già Ministro della Repubblica Luca Massimo Barbero – Curatore associato della Collezione Peggy Guggenheim Laura Barbiani – Presidente del Teatro Stabile del Veneto Guido Barbieri – Critico musicale de «la Repubblica» – Musicologo Marco Beghelli – Associato di Musicologia e Storia della Musica all’Università di Bologna Marco Bellocchio – Regista Alessio Benedettelli – Presidente e Direttore artistico dell’Associazione Festival Galuppi di Venezia – Presidente cormav (Comitato per la realizzazione di un monumento ad Antonio Vivaldi a Venezia) – Docente al Conservatorio «Cesare Pollini» di Padova Leonetta Bentivoglio – Inviato speciale per Cultura e Spettacoli de «la Repubblica» Sonia Bergamasco – Attrice Luigi Berlinguer – Presidente del Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica – Già Ministro della Repubblica Eugenio Bernardi – Già Ordinario di Letteratura tedesca all’Università Ca’ Foscari di Venezia Virgilio Bernardoni – Ordinario di Storia della musica moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Bergamo Enrico Bettinello – Direttore artistico del Teatro Fondamenta Nuove (Venezia) – Critico musicale de «Il Giornale della Musica» e di «Blow Up» Alfredo Bianchini – Presidente della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova (Venezia) Maria Ida Biggi – Ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – Direttore del Centro Studi per la Ricerca documentale sul Teatro e il Melodramma europeo della Fondazione Giorgio Cini (Venezia) Irene Bignardi – Giornalista Carla Bino – Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo dell’Università Cattolica di Brescia Alessandro Bonesso – Presidente degli Amici della Musica di Mestre Fabrizio Borin – Associato di Storia del Cinema all’Università Ca’ Foscari di Venezia Anno III - luglio/agosto 2007 - n. 17 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Un Manifesto per VeneziaMusica e dintorni Mario Bortolotto – Musicologo – Scrittore Franco Branciaroli – Attore – Regista César Brie – Regista – Fondatore del Teatro de los Andes Enrico Bronzi – Direttore artistico dell’Estate Musicale di Portogruaro – Fondatore del Trio di Parma Giorgio Brunetti – Vicepresidente della Fondazione 9 EC IA SP SP EC IA L Oskar Kokoschka, ritratto di Arnold Schönberg, 1924. Olio su tela, 99,5 X 75,8 cm Collezione privata PA LE RT N E SE OV CO E N CE DA N TO PA E RT N E OV PR E IM C A E N TO Anno V - settembre/ottobre 2008 - n. 24 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Teatro La Fenice – Professore Emerito di Strategia e politica aziendale all’Università Bocconi di Milano Elena Bucci – Attrice Giorgio Busetto – Direttore della Fondazione Ugo e Olga Levi (Venezia) – Docente di Management degli Istituti culturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia Sylvano Bussotti – Compositore Emanuela Caldirola – Responsabile Ufficio Stampa dei settori Danza, Musica e Teatro della Biennale di Venezia Roberto Canziani – Critico teatrale de «Il Piccolo» di Trieste – Docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università degli Studi di Udine Anno V - luglio/agosto 2008 - n. 23 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 10 Anno VI - luglio / agosto 2009 - n. 29 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VI - maggio /giugno 2009 - n. 28 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VI - marzo/aprile 2009 - n. 27 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 cantiere regia Abbado – Ambrosini – Arruga Barberio Corsetti – Battistelli Bellussi – Bentivoglio – Bianconi Bino – Bortolotto Carsen – Cappelletto Dammacco – Dante – De Bosio De Ana – Delbono – De Monticelli Fabbri – Fedele – Ferrone – Fertonani Gallarati – Gandini – Gasparon Girardi – Guarnieri – Guccini Krief – Le Moli – Lievi – Livermore Mancuso – Manzoni Minardi – Mosca Pestelli – Pier’Alli – Pinamonti Pizzi – Principe Sala – Servillo – Solbiati – Squarzina Tiezzi – Vacchi – Villatico – Zurletti LA BIe NN SP AL eC e IA – Le Me Te DI AT Te ro rr – AN LA eo BIe NN AL e – Me DI Te rr AN eo Anno VI - gennaio/febbraio 2009 - n. 26 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Federico Capitoni – Critico musicale de «la Repubblica» Gianfranco Capitta – Critico teatrale de «il manifesto» Sandro Cappelletto – Critico musicale de «La Stampa» – Docente di Economia e Gestione delle Arti e delle Attività culturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia Romeo Castellucci – Regista – Già Direttore artistico del settore Teatro della Biennale di Venezia (2005) Paolo Cattelan – Presidente degli Amici della Musica di Venezia – Docente di Storia della Vocalità all’Università Ca’ Foscari di Venezia – Docente di Musicologia e Storia della musica all’Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo» foto Monika Rittershaus - Speciale anatolij VaSil’eV - DoSSier licei muSicali Anno VII - luglio / agosto 2010 - n. 35 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VII - maggio / giugno 2010 - n. 34 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VII - marzo / aprile 2010 - n. 33 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VII - gennaio / febbraio 2010 - n. 32 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VI - novembre / dicembre 2009 - n. 31 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Paolo Cecchi – Associato di Musicologia e Storia della Musica all’Università di Bologna Ascanio Celestini – Attore – Scrittore Cristiano Chiarot – Sovrintendente del Teatro La Fenice Ugo Chiti – Drammaturgo – Scrittore Arturo Cirillo – Regista – Attore Renata Codello – Sovrintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e Laguna Massimo Contiero – Direttore del Conservatorio «Benedetto Marcello» – Critico musicale de «La Nuova Venezia» chance to change le esperienze di giovani a teatro 2010 Franco Cordelli – Critico teatrale del «Corriere della Sera» Laura Curino – Attrice – Drammaturga Gian Antonio Danieli – Presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (Venezia) Elio De Capitani – Regista – Fondatore del Teatro dell’Elfo (Milano) Pippo Delbono – Regista – Attore Gianni De Luigi – Fondatore e Direttore dell’Istituto Internazionale della Commedia dell’Arte (Venezia) Fabrizio Della Seta – Ordinario di Musicologia all’Università di Pavia/Cremona Barbara di Valmarana – Presidente degli Amici della Fenice Andrea Estero – Direttore responsabile di «Classic Voice» Alexandre Dratwicki – Direttore scientifico del Palazzetto Bru Zane (Venezia) Paolo Fabbri – Ordinario di Storia della Musica Moderna e Contemporanea all’Università di Ferrara Umberto Fanni – Già Direttore artistico del Teatro Verdi di Trieste e dell’Arena di Verona Ivan Fedele – Compositore – Direttore artistico del settore Musica della Biennale di Venezia Siro Ferrone – Ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università degli Studi di Firenze Cesare Fertonani – Associato di Storia della musica moderna e contemporanea all’Università Statale di Milano Goffredo Fofi – Scrittore – Giornalista – Fondatore de «Lo Straniero» Angelo Foletto – Critico musicale de «la Repubblica» – Presidente dell’Associazione Nazionale Critici Musicali Luca Francesconi – Compositore – Già Direttore artistico del settore Musica della Biennale di Venezia (2008-2011) Sandro Franchini – Cancelliere dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (Venezia) Pasquale Gagliardi – Segretario generale della Fondazione Giorgio Cini (Venezia) Paolo Gallarati – Ordinario di Musicologia e Storia della musica all’Università degli Studi di Torino Alessandro Gassman – Direttore artistico del Teatro Stabile del Veneto – Regista – Attore Renato Gatto – Direttore didattico dell’Accademia Teatrale Veneta (Venezia) Fabrizio Gifuni – Attore Enrico Girardi – Critico musicale del «Corriere della Sera» – Docente di Storia della Musica all’Università Cattolica di Brescia Michele Girardi – Associato di Drammaturgia musicale all’Università di Pavia/Cremona Michele Gottardi – Presidente dell’Ateneo Veneto Maria Grazia Gregori – Critico teatrale de «l’Unità» Mariangela Gualtieri – Scrittrice – Drammaturga Adriana Guarnieri – Ordinario di Storia della Musica all’Università Ca’ Foscari di Venezia Marinella Guatterini – Critico di danza de «Il Sole 24ore» Gerardo Guccini – Associato di Drammaturgia all’Università di Bologna Elisa Guzzo Vaccarino – Critico di danza del «Quotidiano Nazionale» e di «Classic Voice» Gioacchino Lanza Tomasi – Musicologo – Già Sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli Paolo Legrenzi – Professore straordinario di psicologia cognitiva presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia Walter Le Moli – Regista – Direttore del Corso di laurea magistrale in Scienze e Tecniche del Teatro allo iuav di Venezia Olivier Lexa – Direttore artistico del Centro Veneziano per la Musica Barocca Luigi Lo Cascio – Attore – Regista Claudio Longhi – Già Docente di Storia del Teatro allo iuav di Venezia – Associato di Istituzioni di Regia all’Università di Bologna Fausto Malcovati – Ordinario di Lingua e letteratura russa all’Università Statale di Milano Dove va il teatro pubblico? (parte seconDa) D on G Abbado – Ambrosini – Angelini – Barbieri – Bettinello – Bevilacqua – Bino – Cagli – Capitta – Carlotto – Castellani/Raimondi Cherubini – Chiarot – Colombo – Curino – Dall’Ongaro – De Capitani – De Ana – Dellbono – De Martino – Donati Estero – Fedele – Fofi – Foletto – Gallarati – Gallina – Girardi – Girondini – Juvarra – Lanza Tomasi – Malaguti – Malosti Mancuso – Mangolini – Marchiori – Martone – Menni – Messinis – Minardi – Munaro – Musu – Nanni – Orselli – Pacor Paganelli – Pastore – Ponte di Pino – Ricci/Forte – Rizzardi – Saravo – Segre – Solbiati – Syxty – Vacchi – Vacis – Vallora – Vlad Anno VIII - maggio / giugno 2011 - n. 40 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - marzo / aprile 2011 - n. 39 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - gennaio / febbraio 2011 - n. 38 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VII - novembre / dicembre 2010 - n. 37 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Dove va il teatro pubblico? (parte prima) Alberti – Alonge – Augias – Barberio Corsetti – Barbiani – Battistelli – Beltrametti – Bentivoglio – Bentoglio – Bernardi Bianconi – Bossini – Brunetti – Bussotti – Cacciari – Cappelletto – Castellucci – Cavalcoli – Celestini – Cirillo – Cognata – Cordelli De Incontrera – De Luca – De Luigi – De Michelis – De Simone – Donin – Erba – Escobar – Ferrone – Francesconi – Gassman Gleijeses – Gregori – Guccini – La Ruina – Latella – Lavia – Le Moli – Lievi – Lissner – Longhi – Marinelli – Martinelli/Montanari Mazzonis – Merlo – Montecchi – Moreni –Morelli – Mosca – Napolitano – Nicolodi – Nieder – Ortombina – Palazzi – Palumbo Pestelli – Petazzi – Pinamonti – Pizzi – Porcheddu – Punzo – Puppa – Purchia – Quaglia – Repetti – Restagno – Rossi – Russo Sambin – Santanelli – Scabia – Servillo – Tiezzi – Trevisan – Tutino – Valenti – Ventrucci – Vergnano – Vianello – Villatico – Violante ’ liv io Di Fes va m tiv n us n ica al i conint e l er uo te na mp zio m or na Di an le sa ss ea o Anno VII - settembre / ottobre 2010 - n. 36 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Emilio Sala – Associato di Drammaturgia musicale, teatrale e cinematografica all’Università Statale di Milano Michele Sambin – Regista – Musicista – Fondatore del Tam Teatromusica (Padova) Giuliano Scabia – Scrittore – Drammaturgo – Performer Maurizio Scaparro – Regista – Già Direttore del settore Teatro della Biannela di Venezia (1979-1983 e 2006-2009) Tiziano Scarpa – Scrittore – Drammaturgo Nuria Schönberg Nono – Presidente della Fondazione Archivio Luigi Nono (Venezia) SPECIALE la critica e gli artisti la (pa cr rt it e se ic co a o nd g a) gi FOCUS ON la «lou salomé» di giuseppe sinopoli Anno IX - marzo / aprile 2012 - n. 45 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno IX - gennaio / febbraio 2012 - n. 44 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - luglio / agosto 2011 - n. 41 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - settembre / ottobre 2011 - n. 42 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Salvatore Sciarrino – Compositore Claudio Scimone – Direttore d’orchestra – Fondatore dei Solisti Veneti (Padova) Toni Servillo – Attore – Regista Alessandro Solbiati – Compositore Massimo Tamalio – Teatro Stabile del Veneto Marco Tamaro – Direttore della Fondazione Benetton Studi Ricerche (Treviso) Silvana Tamiozzo Goldmann – Associato di Letteratura italiana contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 c (pa r rt itic e qu a ar og ta g ) i la la c (pa rit rt ic e te a rz og a) g i Eresia della felicità a Venezia Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. 48 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Federico Tiezzi – Regista Vitaliano Trevisan – Scrittore – Drammaturgo Paolo Troncon – Direttore del Conservatorio «Agostino Steffani» di Castelfranco Veneto – Presidente del Consorzio dei Conservatori Veneti Fabio Vacchi – Compositore Marco Vallora – Critico cinematografico e musicale – Storico dell’arte Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Giovanni Mancuso – Compositore Giacomo Manzoni – Compositore Fernando Marchiori – Scrittore – Critico teatrale Marco Martinelli – Regista Mario Martone – Regista Manuela Massimi – Presidente dell’Accademia Teatrale Veneta (Venezia) Elio Matassi – Ordinario di Filosofia della Storia e Docente di Estetica della Musica all’Università Roma Tre Gianluigi Melega – Giornalista Gian Paolo Minardi – Critico musicale de «La Gazzetta di Parma» – Già Docente di Storia della Musica moderna presso l’Università di Parma Renata Molinari – Dramaturg – Docente di Drammaturgia alla Civica Paolo Grassi (Milano) Ermanna Montanari – Attrice – Drammaturga Giordano Montecchi – Docente di Musicologia e Storia della Musica al Conservatorio «Arrigo Boito» di Parma – Critico musicale de «l’Unità» Carla Moreni – Critico musicale de «Il Sole 24ore» Luca Mosca – Compositore Giuliana Musso – Attrice – Drammaturga Ernesto Napolitano – Associato di Musicologia e Storia della Musica all’Università degli Studi di Torino – Critico musicale de «La Stampa» di Torino Fortunato Ortombina – Direttore artistico del Teatro La Fenice Valeria Ottolenghi – Critico teatrale de «La Gazzetta di Parma» – Vicepresidente dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro Maria Paiato – Attrice Renato Palazzi – Critico teatrale de «Il Sole 24ore» Cristina Palumbo – Curatrice del Progetto Giovani a Teatro della Fondazione di Venezia – Direttore artistico di Echidna/Paesaggio Culturale – Consulente di Tam TeatroMusica (Padova) Jacopo Pellegrini – Critico musicale Paolo Petazzi – Critico musicale de «l’Unità» Ottavia Piccolo – Attrice Paolo Pinamonti – Ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – Già Direttore artistico del Teatro La Fenice Pier Luigi Pizzi – Regista – Scenografo Oliviero Ponte di Pino – Editor – Critico teatrale Andrea Porcheddu – Critico teatrale Quirino Principe – Musicologo – Scrittore – Critico musicale de «Il Sole 24ore» Roberto Pugliese – Critico cinematografico de «Il Gazzettino» Armando Punzo – Regista – Fondatore della Compagnia della Fortezza (Volterra) Paolo Puppa – Ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università Ca’ Foscari di Venezia Renato Quaglia – Docente di Storia del Teatro all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli – Docente di Economia dei Beni culturali all’Università Federico II di Napoli – Già Direttore organizzativo dei settori Danza, Musica e Teatro della Biennale di Venezia – Già Direttore artistico e organizzativo del Napoli Teatro Festival Italia Philip Rylands – Direttore della Collezione Peggy Guggenheim (Venezia) Enzo Restagno – Musicologo – Direttore artistico del Festival MiTo Settembre Musica David Riondino – Attore – Scrittore Luca Ronconi – Regista Mara Rumiz – Già Assessore ai Lavori pubblici e al Patrimonio del Comune di Venezia 11 Pier Mario Vescovo – Associato di Letteratura teatrale italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia Angela Vettese – Presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia) – Associato di Museologia e critica artistica e del restauro allo iuav di Venezia – Critico d’arte de «il Sole 24ore» Alvise Vidolin – Fondatore dell’Associazione di Informatica Musicale Italiana – Regista del suono Dino Villatico – Critico musicale de «la Repubblica» Milena Vukotic – Attrice◼ focus on 12 1813 - 2013 La vocalità restituita a Fenice di Venezia ha pensato di omaggiare il doppio anniversario, verdiano e wagneriano, con un dittico composto dal Tristan und Isolde e dall’Otello. Nel caso del secondo non si è trattato di una semplice scelta di titolo, ma di una vero e proprio atto di restituzione rispetto ad una vocalità, quella del personaggio di Otello appunto, per la quale da decenni si trascina una tradizione esecutiva per molti aspetti interessante, e alla quale appartengono nomi storici ed illustri, ma in qualche misura fuorviante rispetto alla scrittura che Verdi pensò per Francesco Tamagno. Il tenore torinese era infatti l’erede di una vocalità che, sviluppatasi a partire da Duprez fino a Del definitivamente confutato da un Gregory Kunde in gran forma, il cui merito principale consiste nel non essere un tenore declamatore di scuola wagneriana o assimilabile così come lo sono stati la maggior parte dei suoi predecessori novecenteschi. È stato addirittura commovente, alla Fenice, poter riscoprire da un lato la cantabilità e la morbidezza di frasi il cui senso sembrava essere andato perduto e, dall’altro, addirittura l’esistenza di alcune note da altri interpreti circumnavigate: mi riferisco al Do del «cortigiana» nel terzo atto, così come a molti momenti del duetto con Iago. Il capolavoro della serata è stato però, per Kunde, senz’altro il «Dio, mio potevi scagliar», brano in cui, dopo la prima parte sillabata, per la prima volta con il tenore americano abbiamo potuto assaporare la straordinaria finezza di una scrittura verdiana ai vertici massimi, nella quale si rispecchia tutta la sfumata complessità di un personaggio dai tratti mitici. L’Otello di Verdi-Boito è infatti, diversamente da quello di Rossini-Berio, un condottiero la cui sostanza non si esaurisce in un eroismo monodimensionale: Monaco e Corelli, è quella del tenore argentino e squillante, dalla vocalità luminosa e radiosa in acuto. Nessuno osa affermare che sommi artisti come Vinay, Vickers, Domingo o Cura non abbiano avuto un ruolo importante, talora determinante, nel fissare la storia interpretativa del personaggio, ma non v’è dubbio che la fatica in una tessitura che costantemente si avventura in acuto, esigendo slancio e facilità ad alta quota, abbia inflitto loro per anni dure fatiche e suscitato nel pubblico eterne lamentele nonché sterili dibattiti e dualismi sui concetti, in realtà coincidenti, di «canto» ed «interpretazione». Il mito di una parte impossibile da cantare è stato infatti vi è attorno a lui un’aura di epicità che esala dai versi e dalla musica del primo duetto con Desdemona e che per tutta l’opera si propaga. Soltanto su questo fronte, forse, per chi ha in mente Otelli come quelli di Domingo, Cura o, in misura forse ancora maggiore, di Vickers, Kunde ha dimostrato qualche limite dovuto ad una personalità d’interprete certamente più affine a quei «ruoli Nozzari» primottocenteschi dei quali l’Otello rossiniano – ruolo d’elezione di Kunde – è esempio tra i più celebri. Myung-Whun Chung ha concertato l’opera con una bellezza d’intenti che dipende da un profonda conoscenza della partitura, già incisa con Domingo nel 1994 con il comples- Gregory Kunde è Otello alla Fenice L di Riccardo Rocca so dell’Opéra di Parigi, e da un’affinità con il mondo verdiano di cui ha già saputo dare prova in altre occasioni anche veneziane. L’orchestra della Fenice si è dimostrata di livello eccelso, dimostrando che le orchestre italiane, se guidate da direttori di livello, possono raggiungere – almeno nel teatro d’opera – vette qualitative straordinarie: la morbidezza di suono degli archi, il nitore della sezione dei fiati, la precisione di ogni passaggio virtuosistico hanno partecipato ad una lettura di Otello da annoverare tra quelle che, oltre ad offrire una serata di livello molto alto, contribuiscono ad illuminare le pieghe più profonde dei massimi capolavori. Molto interessante, soprattutto sul piano vocale, si è rivelata anche la Desdemona di Leah Crocetto, la cui vocalità accontenta i difensori ad oltranza dei requisiti belcantistici: perfetto appoggio sul fiato, omogeneità dello strumento e capacità di modulare l’intensità dei suoni ad alta quota. Qualche suo eccesso di temperamento non ha impedito al pubblico di apprezzare, accanto ad alcune prodezze vo- Michieletto, attualmente l’unico regista nostrano che pare potersi collocare al livello dei maggior registi d’opera del panorama internazionale. Micheli cerca una via di rilettura contemporanea dell’Otello verdiano attraverso la messa a fuoco di alcuni punti intorno ai quali costruisce la drammaturgia della scena: l’ossessione per il talamo d’amore, oggetto con il quale ogni momento cruciale dell’opera sembra confrontarsi, nonché una rilettura simbolica della morte, luogo virtuale, per Micheli, nel quale i protagonisti si ricongiungono alla fine del dramma come in una riconquistata serenità. Dal punto di vista tecnico l’artista bergamasco è sembrato sapere il fatto suo: sono pressoché assenti i momenti di vuoto registico ed ogni suggerimento della musica sembra trovare un corrispettivo sulla scena. Soltanto a volte si ha l’impressione di uno scollamento arbitrario e stridente con il dettato drammaturgico della partitura: un’entrata di Otello, che è per natura della composizione un momento di trionfo ed esultanza individuale, perde il suo effetto se soffocata da un telo trasparente che taglia il rapporto diretto tra la calistiche, generose esplosioni del quarto atto come «Ah! Emilia, Emilia, addio!» o, nel terzo, un magnifico «E son io l’innocente cagion di tanto pianto!», proiettato sull’orchestra con trascinante ardore. In qualche modo più tradizionale, ma lodevole, lo Iago di Lucio Gallo e tutte di primo livello le parti di fianco. Il nuovo spettacolo di Francesco Micheli è sembrato seguire in una certa misura la via aperta in Italia da Damiano scena ed il pubblico; allo stesso modo può suscitare qualche perplessità un duetto del primo atto che, invece di svilupparsi in direzione di un’acmé di intensità ed intesa amorosa, così come suggerito dalla musica, vede sulla scena i protagonisti progressivamente dividersi ed allontanarsi. I dubbi, poi, sull’effettiva necessità di una resa vagamente pleonastica e volgare dei tormenti di Otello durante il «Dio, mi potevi scagliar» mediante una sorta di tortura fisica del protagonista sulla scena da parte di alcuni uomini armati, aggiungono qualche neo ad uno spettacolo di buone intenzioni e buon livello, ma che difficilmente assumerà un ruolo determinante nella storia interpretativa del capolavoro verdiano. ◼ Scene da Otello alla Fenice, direttore Myung-Whun Chung, regia di Francesco Micheli, scene di Edoardo Sanch, costumi di Silvia Aymonino (foto Michele Crosera). 13 focus on 1813 - 2013 focus on 14 1813 - 2013 Intorno ai «Masnadieri» A di Fabrizio Della Seta l giorno d’oggi l’allestimento di un’opera quale I masnadieri non è un evento eccezionale. Eppure non sono lontanissimi i tempi in cui la riapparizione di un’opera «minore» di Verdi suscitava discussioni appassionate e un po’ faziose tra i difensori del canone consacrato e gli entusiasti ad ogni costo, tra chi rivendicava il diritto-dovere di distinguere il buono dal men buono e dal cattivo – magari a costo di perdere di vista la struttura complessiva – e chi era propenso ad esaltare acriticamente tutto quel che era uscito dalla penna del Maestro. Già a quei tempi I masnadieri godeva di una fama ambigua: al contrario di altre più o meno coeve, l’opera non ha mai trovato difensori veramente convinti, anche dall’altra critici esigenti quali Mila (che le ha dedicato non poche attente pagine) e Budden l’hanno sempre trattata con un occhio di riguardo, quasi fossero affascinati da un lavoro che pur riconoscevano di qualità complessiva inferiore ad altri; Gabriele Baldini, che passa, benché a torto, per un rivalutatore di opere minori, la riconosceva come l’«opera di Verdi che offre una maggiore unità» fino a quel momento (escluse Ernani e Macbeth), benché si tratti di una unità che «è anche uniformità, in senso negativo: non monotonia, ma assenza di contrasti, appunto perché alla violenza segue la violenza, senza pausa e respiro». Era difficile liquidare I masnadieri con un’alzata di spalle, se non altro per le circostanze della sua genesi: concepita già prima del Macbeth, fu compiuta subito dopo di que- sto e la prossimità si sente; è la prima opera di Verdi concepita espressamente per l’esordio in un importante teatro straniero e subito prima di presentarsi a Parigi con Jérusalem. Insomma, non si potevano attribuire i suoi difetti alle esigenza della «galera» teatrale, come era uso per Alzira e Il corsaro: al contrario che per queste ultime, non si poteva certo dire che il musicista avesse adempiuto l’impegno controvoglia o che l’avesse preso sottogamba. Così, i difetti venivano in parte addebitati alla necessità di soddisfare le esigenze della soprano designata, la celebre Jenny Lind, una diva tutt’altro che capricciosa, ma rappresentante di uno stile di canto che già allora Emanuele Muzio, l’allievo di Verdi, giudicava superato; donde una parte, quella di Amalia, più del solito ricca di fioriture, passi di agilità e persino cadenze ad libitum. Ma il principale imputato della riuscita insoddisfacente è sempre stato il poeta, Andrea Maffei, accusato di aver sovraccaricato il libretto di preziosità letterarie e al tempo stesso di aver voluto aderire ancor più del solito alle convenzioni più fruste del teatro melodrammatico, per esempio nella successione di cavatine che caratterizza il primo atto dell’opera; col codicillo che Verdi, intimidito dalla fama letteraria dell’amico, al quale doveva anche gratitudine per il contributo da lui dato a migliorare il libretto del Macbeth, non avrebSopra e a fronte: scene dei Masnadieri di Schiller, allestiti da Gabriele Lavia nel 2011 (foto di Serafino Amato). A sinistra:Emanuele Muzio in un ritratto di Giovanni Boldini. be saputo o voluto imporre le sue idee come era solito fare col devoto Piave. Con tali premesse, dell’opera è prevalsa una valutazione di tipo antologico: è unanime l’apprezzamento del Preludio (con un intenso assolo di violoncello), del quartetto finale del primo atto, del duetto di Amalia e Carlo nel terzo, del terzetto finale (che Muzio giudicava «il capo d’opera di tutti gli altri capi d’opera»); si riconosce l’originalità di concezione, se non di realizzazione, del sogno di Francesco e del successivo duetto con Moser, la vena melodica non banale, se non memorabile, delle arie solistiche, l’accuratezza dei recitativi. L’aspetto più criticato è la resa musicale del- sarà al cuore dei Demoni (1871) di Dostoevskij, che infatti vi fa esplicito riferimento. L’opera di Verdi, che si colloca all’incirca a tre quarti della distanza di tempo che separa i due testi letterari, non è neppur lontanamente paragonabile al complesso scavo psicologico del romanzo russo, ma viceversa è un’interpretazione musicale à la page (nel 1847) delle esagerazioni del giovane Schiller; per convincersene, basta confrontare I masnadieri con la versione assai più edulcorata che nel 1836 ne aveva offerto Mercadante nei suoi Briganti. D’altra parte, è cosa nota l’influenza su Dostoevskij del mélodrame, il popolare genere teatrale francese senza conoscere il quale non si capisce tutto il lato enfatico e la gestuali- la «masnada», alla quale Verdi attribuì, senza dubbio con consapevolezza, il carattere canagliesco già impiegato per i cori di sicari dei Lombardi e del Macbeth (ma si avverte anche una parentela con le streghe e, in prospettiva, coi futuri cortigiani di Rigoletto). Cosa si può aggiungere a un quadro critico così consolidato? Forse, si può dare più importanza di quanto non si soglia al fatto che si tratta del primo vero incontro di Verdi con Schiller (quello di Giovanna d’Arco era solo parziale), con lo Schiller al picco di una fase Sturm und Drang che egli stesso avrebbe rinnegato. In Die Räuber (1782) le tematiche del male e della violenza che scaturiscono da strutture sociali e famigliari inique erano trattate con un’immediatezza e, se si vuole, con una retorica e una gestualità paragonabili alla foga tipica del giovane Verdi. È stato osservato che in questo dramma Schiller anticipa la problematica che tà del teatro verdiano. Di più: I masnadieri è un tassello non trascurabile nel percorso di ricerca di Verdi sulle tematiche del male e della distruttività, e la lezione shakespeariana, decisiva per il tedesco come per il russo, è non meno importante qui che nel capolavoro immediatamente precedente. In questa prospettiva, l’allestimento che va in scena alla Fenice è particolarmente interessante in quanto Gabriele Lavia ha da poco presentato una sua versione del dramma schilleriano (da lui già diretto e interpretato molti anni fa con una regia più tradizionale) proiettata nel presente. Benché gli spettacoli siano ovviamente diversi, l’idea registica di fondo è comune. Per chi abbia avuto modo di assistere a entrambi, è un’occasione quasi unica per rendersi conto di come forme espressive basate su principi formali così diversi siano capaci di dar forma a inquietudini che sono al cuore della coscienza culturale europea. ◼ Jenny Lind. Andrea Maffei. 15 focus on 1813 - 2013 focus on 16 1813 - 2013 Libertà o morte un bel coro con queste tre parole. Può darsi semplicemente che lui e Maffei non ci abbiano pensato, ma questo concetto fondamentale è certamente presente nell’opera. Dobbiamo ricordarci che «libertà» all’epoca in cui il giovanissimo Schiller scrive è una parola vietata. Noi oggi possiamo pronunciarla senza problema, anzi a cura di Leonardo Mello spesso se ne abusa, ma fino al giorno prima della Rivoluzione francese era un vocabolo proibito, soprattutto in Germafirmare la regia dei Masnadieri, il nuovo allestinia. Perché non è vero che l’uomo era libero, anzi al contramento della Fenice che sarà in scena il prossimo febrio doveva sottostare e obbedire alle leggi del sovrano, che era braio, è un artista celebre ed esperto come Gabrietale per volere divino. La libertà è un’idea piuttosto recente, le Lavia, che ci racconta il suo intenso rapporto con in realtà. In ogni caso nell’opera musicale questo anelito caquest’opera, affrontata più volratterizza indiscutibilmente i perte sia sul versante teatrale, con più sonaggi, che proprio per una manversioni del dramma schilleriano, canza di libertà vedono la loro visia su quello musicale. Iniziamo ta rovinata, la loro felicità distrutquesta conversazione chiedendogli ta. Ed è all’interno di questa manqual è il motivo – se ce n’è uno – di canza che si sviluppa l’intrigo poquesti continui «ritorni». litico, rappresentato da France«Non lo so. Può darsi che sia il sco/Franz, il deforme, lo storpio, destino, o una necessità del caso. l’individuo che racchiude in sé So che nella mia vita mi è capitatutti i mali del mondo ed è zoppo to di mettere in scena I masnacome il demonio. dieri, poi di recitarli, poi ancora Un altro spettacolo del suo sterdi curarne la regia all’opera. Infiminato repertorio è il Riccarne li ho di nuovo affrontati a teado III, allestito al Teatro Antico tro e ho predisposto quest’ediziodi Taormina nel 1989. Lì interne, andata in scena al San Carlo di pretava il ruolo del protagonista, Napoli in marzo e prossima al dementre nei Masnadieri dell’82 inbutto veneziano. Non c’è un mocarnava la parte di Franz. Ci sotivo particolare, ma certo è indino delle somiglianze tra questi due scutibile che questa «materia» «cattivi»? mi ha accompagnato per lunDirei che si tratta di qualcogo tempo, sin dal lontano allestisa di più che semplici assonanze. mento dell’82 all’Eliseo di RoPer scrivere I masnadieri Schiller ma. Per quanto riguarda la versioprende i due personaggi shakespene verdiana posso dire solo che a ariani per antonomasia, Amleto e me quest’opera piace molto, anRiccardo, e su misura del primo che se – dal punto di vista musidisegna il suo Karl, mentre il secale – non ho l’autorità per spiecondo (e in parte Macbeth) sergare perché. Mi piace perché amo ve da modello per Franz. Sceglie l’opera, e ancora di più, va da sé, queste due figure e le mette viciVerdi». ne per creare un lavoro straordiVenezia Che tipo di personaggi propone nario e dal valore fortemente poTeatro La Fenice Schiller, e come si «trasformano» litico. E Verdi, anch’egli autore 18, 22, 24 gennaio, ore 19.00 poi nell’opera di Verdi? estremamente politico, trova in 20, 26 gennaio, ore 15.30 Prima di tutto bisogna dire che Schiller materiale assai prezioso, Verdi utilizza come librettista Annon soltanto per i suoi MasnadieI masnadieri drea Maffei, che è il primo granri ma anche per Don Carlos e LuiMelodramma tragico in quattro parti de traduttore di Schiller (secondo sa Miller. In fondo tutte e tre quedi Giuseppe Verdi me ancora oggi le sue traduzioni ste opere altro non raccontano se libretto di Andrea Maffei dalla tragedia Die Räuber di Friedrich Schiller sono le migliori, anche se hanno non la storia delle vittime di una personaggi e interpreti principali un linguaggio che a noi risulta un tirannia, di un sopruso. Per spieMassimiliano, conte di Moor Giacomo Prestia po’ antiquato). Il poeta trentino gare meglio questo aspetto conCarlo di Moor Andeka Gorrotxategui – pur dovendo tenere conto delviene citare l’incipit del libretto, Francesco di Moor Artur Rucinski le diverse esigenze imposte dal tedove Carlo declama Amalia Maria Agresta atro in musica – resta abbastanza Arminio Cristiano Olivieri fedele allo spirito del dramma oriQuando io leggo in Plutarco, ho Moser Cristian Saitta ginale. E posso immaginare che a noia, ho schifo Rolla Antonio Feltracco maestro concertatore e direttore Daniele Rustioni Giuseppe Verdi andasse bene così, di questa età d’imbelli! regia Gabriele Lavia perché se dovessimo sintetizzare Oh, se nel freddo cenere de’ miei scene Alessandro Camera la ragione profonda per cui Schilpadri costumi Andrea Viotti ler scrive questo testo la troveremancor vivesse dello spirito d’ArmiOrchestra e Coro del Teatro La Fenice mo in una frase che è nel testo tenio una scintilla! maestro del Coro Claudio Marino Moretti atrale e non nel libretto: «Libertà Vorrei Lamagna tutta nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice o morte». Mi sono spesso chiesto in coproduzione con Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli far libera così che Sparta e Atene nel bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi perché Verdi non abbia composto sarieno al paragon serve in catene. Schiller/Verdi secondo Gabriele Lavia A La domanda, legittima, che sorge spontanea è: perché viene utilizzata la parola «Lamagna»? In fondo si poteva dire Germania, ma invece partendo con la «L» il richiamo a «L’Italia» è immediato. Dentro questo inizio folgorante dunque c’è anche un’abile provocazione. A differenza di Schiller infatti Verdi fa cominciare l’opera con Carlo, che arriva davanti al pubblico e pronuncia subito il suo manifesto, dice la parola «libera», evoca la libertà. Io non oso pensare a come dovessero suonare queste parole alle orecchie di un popolo asservito, sottomesso, impossibilitato a esprimere liberamente la propria cultura. Lei è un grande uomo di teatro. Che cosa riversa della sua esperienza nel lavoro registico per l’opera? Nell’approccio non c’è alcuna differenza. L’unica cosa che cambia è il tempo: in un tipo di spettacolo così complesso coA fronte: Gabriele Lavia nei panni di Riccardo III al Teatro Antico di Taormina, 1989 (taormina-arte.com). In questa pagina: scene da I masnadieri al Teatro San Carlo di Napoli. me l’opera lirica ci sarebbe bisogno di un tempo almeno dieci volte superiore a quello che nel migliore dei casi viene concesso a un regista. Per cui, alla fine, credo che il teatro musicale si accontenti troppo (giustificandosi con pensieri consolatori come «tanto poi cantano, la gente vuole che facciano l’acuto…»). Ma non funziona in questo modo. E il risultato, il più delle volte, è appunto accontentarsi di una scenografia e di qualche costume, cui accostare, magari, regie esa- sperate, «alla tedesca», o – che forse è ancora peggio – alla «italotedesca». Ho visto per caso in televisione un don Giovanni che a cena consumava un’orgia. Ma don Giovanni è un uomo disperatamente solo: in quella cena, dove ci sono solo camerieri e portate, portate, portate, non viene nessuno, tranne un morto. Un morto che sta all’inferno perché non ha avuto tempo di confessarsi, e ora ritorna dall’abisso per condurvi anche don Giovanni. Sono, lui e il povero Leporello, due personaggi disperatamente soli, non solo affatto dei goduriosi, almeno per quanto ci è dato di vedere. Non so di chi fosse quella regia, come molte altre che ho intravisto girando di canale in canale. Ma mi è sembrata una baggianata, una lettura senza alcuna profondità. Però il pubblico è così vago ormai… ◼ 17 focus on 1813 - 2013 focus on 18 1813 - 2013 Daniele Rustioni dirige i «Masnadieri» alla Fenice U a cura di Mirko Schipilliti n giovane Verdi per un giovane direttore, Daniele Rustioni, che dirigerà I Masnadieri di Verdi alla Fenice. Ventinove anni, è nel pieno di una carriera in salita, uno dei pochi casi in cui il talento e lo studio si sono fatti valere insieme alle opportunità venute al momento giusto. Quali sono state le tappe musicali più significative della sua vita? Ricordo di essere stato attratto fin da piccolo dalla figura carismatica del direttore d’orchestra; in particolare ero rimasto folgorato dalle direzioni di Riccardo Muti, maestro di rigore e passione, nel periodo in cui facevo parte del Coro di voci bianche del Teatro alla Scala. Intuivo il privilegio di poter respirare insieme a un’orchestra intera, la magia di poter «plasmare» la musica col pensiero e trasmetterla col gesto. Ma ho deciso intorno ai vent’anni, dopo le prime esperienze sul podio e i tre diplomi conseguiti al Conservatorio a Milano, che sarebbe stata la mia strada. C’è voluto tanto coraggio e dedizione soprattutto all’inizio, perchè l’orchestra non è uno strumento sempre a disposizione e le opportunità per un giovane direttore non sono molte. In alcuni casi i musicisti in orchestra possono mettere a dura prova un direttore alle prime armi! Il primo importante concerto della mia carriera si è svolto a Torino con l’Orchestra del Teatro Regio nel giugno del 2007: è stato molto emozionante dopo tanti anni di preparazione e studio arrivare finalmente a dirigere una grande compagine. Da quel momento le tappe importanti sono state sempre più ravvicinate, con l’invito l’anno successivo a diventare Direttore Principale del Teatro Mikhailovsky di San Pietroburgo, dove mi sono confrontato con la mia prima opera, Cavalleria Rusticana di Mascagni; e poi ancora l’incontro con Antonio Pappano al Covent Garden di Londra, dove sono diventato suo assistente e ho diretto Aida. Il calendario dei concerti s’è fatto via via sempre più fitto: nel 2010 il debutto alla Scala, dove sono tornato con La bohème l’ottobre scorso e dove tornerò a luglio con Un ballo in maschera di Verdi. E dal 2011 occupo con grande gioia la posizione di Direttore Ospite Principale dell’Orchestra Regionale Toscana. Ci sono stati quindi dei maestri di riferimento per la sua carriera? Nonostante mi sia trasferito a Londra nel 2006 per completare gli studi, i miei modelli direttoriali rimangono lega- ti alla scuola italiana. Gilberto Serembe, allievo di Mario Gusella e Franco Ferrara, è stato un didatta formidabile e, fra le tante cose che mi ha insegnato, è riuscito a trasmettermi una cultura tipicamente italiana del «peso» che l’orchestra ha nel respiro e nel braccio di chi la dirige. Così come Gianluigi Gelmetti, uno dei pupilli di Ferrara, all’Accademia Chigiana di Siena, che ha sempre insistito affinché forgiassi il mio suono secondo una ferrea volontà interiore, senza mai cadere nel pericolo di una direzione anonima per incidere invece consciamente sull’esecuzione. Negli ultimi anni mi sono legato molto a Gianandrea Noseda e Antonio Pappano: personalità vulcaniche, con doti comunicative innate che vengono coniugate da un indefesso lavoro, disciplina, e rispetto del segno scritto sulla partitura: maestri che affrontano il ruolo direttoriale senza indossare «maschere», e privi di velleità «divistiche». Anche al di fuori del lavoro sono persone squisite e genuine, qualità non sempre facili da trovare nei grandi musicisti. Ma com’è la vita del giovane direttore d’orchestra? In continuo movimento fra alberghi, aeroporti, teatri e sale da concerto, con una partitura da studiare sempre fra le mani e tanta musica in testa. È una vita abbastanza solitaria, nonostante il contatto costante coi musicisti in orchestra, i cantanti e i solisti; le cose che aiutano ad andare avanti sono l’amore e la dedizione nei confronti della musica e lo scambio energetico che si crea con chi ascolta. Le note hanno bisogno dell’interprete come tramite tra l’opera d’arte e il pubblico, che altrimenti non avrebbe modo di entrare in contatto coi grandi capolavori (mentre per esempio nella letteratura o nell’arte visiva il rapporto tra autore e fruitore è diretto). Mi sento carico di responsabilità nei confronti dell’autore che eseguo e del pubblico che ascolta. Si ha sempre la sensazione di dover essere all’altezza del compito. Al tempo stesso mi rendo conto di essere un privilegiato: in questo periodo di crisi molti musicisti di talento non hanno la possibilità di realizzarsi artisticamente, soprattutto in Italia, dove Daniele Rustioni (blog.amicidellascala.it). i giovani talenti non vengono mai valorizzati abbastanza e rischiano di rimanere stagisti a vita… Io ho delle grandi opportunità e devo dimostrare ogni volta di meritarle. Autori preferiti? Mozart, Beethoven, Brahms, Verdi, Puccini. Quindi, in periodo di bicentenario…Verdi o Wagner? Senz’altro Verdi! Riconosco ovviamente l’immensità della musica di Wagner e non posso che augurarmi di dirigere numerose sue opere. Ma il mio cuore era destinato a Verdi ancor prima di venire al mondo: con la sua musica rappresenta l’Italia, e io sono italiano. E in Verdi quali sono gli ostacoli e le difficoltà maggiori da affrontare? A mio avviso bisogna prestare molta attenzione allo studio e alla realizzazione precisa dei tempi; c’è un che di «meccanico» nella sua musica, in senso positivo: una costruzione perfetta che rimane in piedi solo se rispettata nei minimi dettagli. In Puccini la musica di per sé potrebbe funzionare persino stravolgendone i tempi, in Verdi no: è nudo, scoper- to, netto, cristallino, non ammette compromessi. Poi ci sono le considerazioni tecnico-esecutive: una nota fuori posto, un accordo impreciso, un palcoscenico approssimativo, qualcuno fuori tempo… e tutto cade a pezzi. Si sente tutto. Mentre per esempio in Wagner la densità di scrittura fa sì che quasi nessuno si accorga dell’errore. Ma la chiave di lettura fondamentale in Verdi, forse l’ostacolo più grande in fase di concertazione, è il testo o, meglio, la comprensione e realizzazione da parte del cast del rapporto stretto e assolutamente geniale tra musica e libretto, che crea il senso di teatro totale in cui la partitura è parte integrante dell’azione scenica. La difficoltà sta chiaramente nell’assecondare il grandissimo senso teatrale dell’autore senza che nessun elemento prevarichi, sostenere a livello musicale la «parola scenica», così innovativa nel teatro verdiano, mantenendo gli equilibri stilistici e senza interrompere le lunghe e perfette linee del canto. Ci sono anche difficoltà a livello fisico: spesso in VerUna scena della Bohème diretta da Daniele Rustioni alla Scala lo scorso settembre, regia e scene di Franco Zeffirelli (foto di Marco Brescia e Rudy Amisano – teatroallascala.org). di le scene sono lunghe, non «spezzettate» da forme chiuse e devono mantenere la tensione espressiva e drammatica. La concentrazione deve essere quindi maniacale ma consapevole, «fredda» abbastanza da essere in grado di dosare le forze di tutti. Cosa la colpisce maggiormente nei Masnadieri? È un’opera molto forte, dai colori tetri, impregnata di una desolazione e disperazione che incombe su tutti i personaggi. Nonostante il libretto non sia dei più riusciti, la musica di Verdi ci catapulta nell’essenza del dramma di Schiller da cui la vicenda è tratta: azioni e personaggi violenti, carichi di eccessi. Entrambi i fratelli Moor (Carlo e Francesco) sono la personificazione di un gesto ribelle, di un disordine che cerca nella pura bellezza (Amalia) una via di fuga. I masnadieri vengono rappresentati in scena dal coro maschile e sono una presenza costante, si ritagliano un ruolo da protagonisti. Non mancano delle pagine che possono essere annoverate fra i capolavori verdiani: il preludio iniziale (un breve ma geniale pezzo concertato per violoncello solista), il quartetto che chiude il primo atto, la «gran scena» in apertura del secondo atto di Amelia, e la romanza di Carlo in chiusura dell’atto; ma soprattutto il monologo di Francesco e il duetto col padre Moser nel quarto atto. Cosa sig nif ica per lei «voce verdiana»? Si tratta di un concetto tanto importante quanto difficile da descrivere, anche per l’estrema varietà di ruoli e vocalità che l’intero catalogo verdiano presenta. Quello che cerco personalmente in un cantante verdiano è un timbro tagliente ma corposo, di straordinaria potenza ed estensione, la capacità di alleggerire la voce in pianissimi eterei ed eseguire le agilità con scorrevolezza, senza mai perdere la profondità drammatica; l’intuito per la cantabilità italiana ma senza che diventi fine a se stesso; ma soprattutto un innato senso del fraseggio concepito come profonda e reverenziale aderenza al testo; inoltre, la forte presenza scenica, il senso della misura (l’esagerazione in Verdi rischia di creare facilmente interpretazioni che sfiorano il ridicolo) e un grande temperamento drammatico. Insomma... un ideale utopico ma che rispecchia profondamente il viscerale amore (e rispetto) che provo per Verdi. Di questi tempi non possiamo prescindere dalla storia recente, dall’enorme quantità di informazioni discografiche e da tutto il materiale che si può trovare in rete. Ascolta dischi, video, si collega al sito Youtube? Cosa ne pensa? Ascolto molti dischi, guardo video e faccio molte ricerche su Youtube (specialmente ora che caricano anche opere complete). Penso sia molto utile utilizzare la tecnologia ai fini della conoscenza, non per uno studio fine a se stesso. Non assimilo le partiture basandomi su questi ascolti: il duro lavoro va fatto con l’orecchio interno e/o al pianoforte. ◼ 19 focus on 1813 - 2013 focus on 20 Verdi versus Wagner: alla pari? D di Quirino Principe ue grandezze, due visioni dell’arte e del pensiero, due uomini; ci piace immaginarli simmetrici, paralleli. Questa nostra visione è insicura, e dev’essere verificata continuamente, di generazione in generazione, almeno fino a quando esisteranno le arti e, nel loro esistere, avranno significato nella società. Già questa persistenza di significato non è certa. L’Occidente è stato l’unica area planetaria nella cui tradizione e fisionomia le arti non si siano limitate a generare bellezza anche mirabile soltanto per decorare il potere o per rendere meno ripugnanti la credulità religiosa e il servilismo verso le caste sacerdotali. Soltanto in Occidente, le arti hanno legittimato la loro propria esistenza empiendosi di pensiero, di λόγος, di energia eletta a governare il mondo. Soltanto in Occidente, le arti sono riuscite, in una fase storica non remota, a non essere più mercimonio né potlatch né circenses; «in una fase non remota», poiché l’allegoria disegnata da Wagner nella fiaba Wieland der Schmied per una musica mai scritta denunciava gli obbrobri del passato, di un lungo passato. Quel destino di «non essere più» qualcosa di marginale e d’inessenziale di cui il mondo potrebbe anche fare a meno, e di «essere altro e più rispetto a ciò che si è stato», ha assunto respiro più ampio e caratteri particolarmente vistosi nella musica che definisco «forte», e che altri, in maniera impropria e insufficiente, si ostinano ancora a definire «classica». È quella che io chiamo «musica» senza aggettivi. Nella cultura occidentale, la musica ha guadagnato il diritto a una metamorfosi axiologica: se ai tempi di Alcmane a Sparta, o di Orazio nella Roma di Augusto e di Mecenate, o di Hildegard von Bingen, e ancora, sia pure a metamorfosi in atto, ai tempi di Guillaume Dufay o di Bartolomeo Tromboncino, la musica era soprattutto seducente ed emozionante creatrice di stati d’animo, Jacopo Peri, Claudio Monteverdi, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Tomás Luis de Victória sono già all’opera per sollevarla al rango che è la sua entelechia: quello di nodo di significati, di linguaggio con un proprio lessico, una propria morfologia e sintassi, un proprio tessuto cellulare interno in cui significante e significato siano in rela- 1813 - 2013 zione indissolubile. Questa fenomenologia per così dire orizzontale e diacronica si associa a una fenomenologia verticale e sincronica, la quale accoglie in sé una singolarità, una sorta di contro-metamorfosi: un numero incalcolabile di musicisti, in ogni plaga d’Occidente, lascia coesistere l’antico e il nuovo, il passato e il futuro, ciò che la musica era stata e ciò che tendeva a divenire, ma si ravvisano due zone estreme in cui rari artisti di genio intendono la propria arte esclusivamente (o quasi) come linguaggio, pensiero, λόγος, verità, e altrettanto rari artisti di altissimo talento si appagano di connotati che certamente sono connaturati nella musica ma gravitano verso una concezione «naíve»: l’energia delle emozioni, la potente influenza sulla psiche e sul temperamento. Esempi del primo tipo: Gesualdo, Bach, Wagner, Debussy, Stravinskij. Esempi del secondo tipo: Händel, Telemann, Weber, Verdi, Saint-Saëns. Ci domandiamo: i due coetanei, Richard Wagner poco fa nominato e con un vantaggio d’anzianità di pochi mesi (Lipsia, sabato 22 maggio 1813 – Venezia, martedì 13 febbraio 1883), e Giuseppe Verdi (Le Roncole di Busseto, Parma, sabato 9 o domenica 10 ottobre 1813 – Milano, domenica 27 gennaio 1901), sono veramente due figure simmetriche, parallele? Si direbbe di no, se le mie precedenti considerazioni sono accettabili almeno in parte. L’immagine di due sommi custodi del pensiero, di due dioscuri dell’arte, è affascinante anche come ombra fuggevole, come immagine eidetica, e comunque s’impone con la forza irresistibile di una «Gestalt». Talvolta accade che l’enfasi di un accostamento celebrativo e di una simbologia plaudente corrisponda davvero a due grandezze di pari misura, in equilibrio come il bianco giorno e la nera notte nella scacchiera di Borges, o come la fresca notte e l’afoso giorno nella poesia Der Tod, das ist die kühle Nacht di Heinrich Heine. Torna alla mente la Stanza della Segnatura (la «segnatura di giustizia») in Vaticano: là, su commissione del papa Giulio II, Raffaello Sanzio (Urbino, venerdì 28 marzo o demenica 6 aprile 1483 – Roma, venerdì 6 aprile 1530) affrescò nel 1509-1510 quattro grandi allegorie, una su ciascuna delle quattro pareti: la Teologia, la Filosofia, la Giurisprudenza, la Poesia. L’allegoria filosofica è La Scuola di Atene: al centro della gloriosa architettura e della folla di teste pensanti in drammatico movimento, campeggiano Platone e Aristotele, indicanti, il primo, il cielo delle idee, il secondo, la terra delle cose reali. Torna alla mente anche il monumento che s’innalza nel Theaterplatz di Weimar, effigiante in bronzo i dioscuri della poesia tedesca, Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, giovedì 28 agosto 1849 – Weimar, giovedì 22 marzo 1832) e Friedrich Schiller (Marbach sul Neckar, nel Richard Wagner ritratto nel 1862 da Cäsar Willich (1825–1886). Württemberg, sabato 10 novembre 1759 – Weimar, giovedì 9 maggio 1805). Si affacciano alla memoria storica di ogni intelligenza d’Occidente degna di questo nome i dettagli storici che evocano intorno al «GoetheSchiller-Denkmal» un’aura di vera e grande passione nazionale, etica e civile: l’iniziativa di Karl Alexander August Johann von Sachsen-Weimar, granduca di Sassonia-WeimarEisenach; l’originaria assegnazione dell’impresa allo scultore Christian Daniel Rauch (Arolsen in Assia, allora principato di Waldeck, mercoledì 2 gennaio 1777 – Dresda, giovedì 3 dicembre 1857), che avrebbe voluto rivestire i due poeti con abiti di antichi eroi; la ragionevole decisione di rivolgersi a Ernst Friedrich August Rietschel (Pulsnitz in Sassonia, sabato 15 dicembre 1804 – Dresda, giovedì 21 febbraio 1861), che optò per abiti moderni, sì da «far vivere» i due poeti fra i cittadini di Weimar; la divertente ma non frivola scelta di attribuire la medesima statura a Schiller, alto m. 1,90, e a Goethe, alto m. 1,69; l’opera perfetta del maestro fonditore Ferdinand von Miller (Fürstenfeldbruck in Baviera, lunedì 18 ottobre 1813 – Monaco di Baviera, venerdì 11 febbraio 1887) che realizzò le due figure in bronzo; l’inaugurazione avvenuta venerdì 4 settembre 1857 per celebrare il centenario della nascita di Karl August, il granduca di Sassonia-Weimar che aveva voluto la presenza di Goethe alla propria Corte e alla guida del più che illustre e glorioso Großherzögliches Theater dove Franz Liszt, con ardimentosa scelta e sfidando le infamie del potere di un re che aveva condannato Wagner alla fucilazione, diresse la prima «illecita» rappresentazione di Lohengrin; la memorabile esecuzione a Weimar, al culmine di quei festeggiamenti, della Dante Symphonie di Liszt (Hoftheater, sabato 7 novembre 1757). Ho profuso questi dettagli non per amore di inutili pleonasmi. Volevo sottolineare due casi di reale simmetria, di parità nella statura artistica e nella funzione storica. Ciò vale anche per Verdi dinanzi a Wa- gner? Non credo. L’unico elemento unificante ha certo molta visibilità ma non è decisivo: entrambi i compositori si dedicarono al teatro d’opera con impegno quasi esclusivo, aggiungendo al proprio rispettivo lascito pochi lavori non teatrali. Per ciascuno dei due, al di là della drammaturgia musicale soltanto una o due o al massino tre delle altre composizioni sono importanti e degne di essere riascoltate più volte: di Wagner, i Wesendock-Lieder; di Verdi, il Requiem, i Quattro pezzi sacri, il Quartetto in Mi minore. Si pensi, a proposito di Wagner, alla differente distribuzione dei pregi tra le opere teatrali di Weber e le bellissime partiture sinfoniche e cameristiche di lui; a proposito di Verdi, alle composizioni pianistiche e vocali di Rossini, nonché alla Petite Messe Solennelle. In ogni caso, un elemento che accosti Verdi e Wagner quasi parificandoli ma che sia pur sempre una considerazione di una comune mancanza e non di una comune acquisizione, mi pare l‘anello debole di un ragionamento. La disparità tra Verdi e Wagner risulta invece, inequivocabile, nella diversa collocazione dei due compositori in merito al processo di metamorfosi della musica occidentale. Lo sappiamo tutti che Verdi, anche il meno affinato, anche quello dello «zúm-papa-zúm-papa», è capace di scatenare passioni, e che riesce a sedurci e a portarci al delirio. Ma è Wagner colui che trasforma la musica occidentale in linguaggio, difficile ai neofiti, ma intelligibile ai fedeli. E più ancora: a partire da Tristan und Isolde, a partire dal «Tristan-Akkord», egli compie una seconda metamorfosi, che è, a dire il vero, una transustanziazione: la musica di Wagner non è più simbolo dell’universo condensato in suoni, ma universo creato dai suoni, anzi, rintracciato e identificato nei suoni dopo una queste du Gral e dopo una consacrazione della fisicità connaturata nei suoni. Il motivo iniziale di Tristan und Isolde non è simbolo del filtro d’amore: è il filtro d’amore. Il pedale e l’arpeggio di Mi bemolle non sono il nodo simbolico dell’origine dell’universo: sono l’origine dell’universo, e ogni volta che gli udiamo, misteriosamente in una parte inconoscibile di ciascuno di noi, a quell’ascolto emergono dal Nulla come universo. Ciò significa, semplicemente, che nelle mani di Richard Wagner la musica può essere Dio, e che Dio, semplicemente, potrebbe essere null’altro se non la musica. ◼ Giuseppe Verdi ritratto nel 1866 da Giovanni Boldini (1842 – 1931). 21 focus on 1813 - 2013 focus on 22 1813 - 2013 Sul «Tristano» A di Paolo Petazzi spetto decisivo della doppia inaugurazione con Tristan und Isolde e Otello era la presenza sul podio in entrambe le opere di Myung-Whun Chung, una scelta che valorizzava il rapporto privilegiato che il direttore coreano ha attualmente con Venezia e assicurava un decisivo punto di riferimento per i complessi del teatro, la cui bella prova è stata la miglior conferma della validità e della capacità di stimolo dell’impegnativo progetto. Del Tristan ho potuto ascoltare la prima e la quinta rappresentazione, che dal punto di vista musicale mi è parsa particolarmente felice: ogni aspetto dell’esecuzione era giunto a un grado di maturazione superiore al pur alto livello della prima, ma soprattutto è stata ben diversa la prova di Brigitte Pinter nella parte di Isolde. In entrambe le serate l’interpretazione di Chung si imponeva con raffinata cura del suono, chiarezza e sensibile intelligenza, in una prospettiva in ultima analisi estranea alle più alte tradizioni tedesche, ma capace di conferire intensa evidenza soprattutto a momenti di lirico intimismo e a forti accensioni drammatiche. Punto di forza della compagnia di canto era Ian Storey nella parte di Tristan: la sua ammirevole interpretazione culminava in un terzo atto di straordinaria intensità; ma proponeva anche molte finezze, soprattutto in certi sommessi «piano». Brigitte Pinter come Isolde alla prima rappresentazione rivelava problemi vocali che spesso la portavano a carenze di intonazione, soprattutto a partire dal secondo atto, mentre nell’ultima ha retto l’impervia parte con continuità e sicurezza maggiori, e sembrava aver trovato con Chung un rapporto migliore. Attila Jun era un nobile Marke, Tuija Knihtilä un’ottima Brangäne, mentre Richard Paul Fink era un Kurwenal piuttosto esteriore e sopra le righe. La qualità dello spettacolo non era allo stesso livello di quella musicale, sebbene le scene di Robert Innes Hopkins apparissero essenziali e suggestive. Evocavano l’interno di una nave nel primo atto con gli stessi elementi che, spezzati e diversamente disposti, si ritrovavano nel terzo: in entrambi gli atti si evitava l’apertura su paesaggi marini. Nel secon- do un albero al centro evocava il giardino di cui parlano le didascalie del libretto. Così le scene offrivano una ambientazione coerente al sobrio e pertinente minimalismo della regia di Paul Curran, un regista che in Italia e a Venezia aveva già ideato spettacoli di rilievo. Una impostazione di estrema sobrietà nel Tristan appare sempre opportuna; ma non dovrebbe comportare una certa povertà di idee. Qualche residua traccia di naturalismo avrebbe forse fatto desiderare un minimalismo anche più radicale, però con una più netta individuazione dei momenti decisivi: quando, per esempio, i due protagonisti bevono il filtro nella convinzione di consegnarsi alla morte, il loro gettarsi a terra (da due lati opposti) non sembra la soluzione più persuasiva e rischia di provocare un effetto di comicità involontaria. Un esempio di naturalismo cui anche l’immobilità sarebbe stata preferibile. ◼ Tristan und Isolde alla Fenice (foto di Michele Crosera). Le ambiguità di un antieroe Il «Lohengrin» di Claus Guth alla Scala L di Mario Messinis a regia di Claus Guth del Lohengrin alla Scala continua ad essere motivo di discussione. Per una valutazione dello spettacolo credo sia utile una premessa. Il Lohengrin è un’opera bivalente: da un lato guarda alla tradizione franco-italiana, con scene di popo- lo, cortei, clangori e cori spettacolari; dall’altro anticipa le pagine nere del Crepuscolo degli dei, nelle figure perverse di Ortruda e Telramondo, e i luoghi eterei e disossati, ma anTre momenti del Lohengrin alla Scala (foto di Monika Rittershaus / teatroallascala.org). che sospesi nel vuoto del Parsifal: l’apparente trasfigurazione celestiale è in realtà una perdita. Lohengrin e Parsifal sono a mio parere personaggi di sofferente umanità. Naturalmente i «Bidelli del Wahlhalla», come scrive ironicamente Beniamino Dal Fabbro, prendono alla lettera le ipotesi drammaturgiche di Wagner: Lohengrin come messaggero messianico, l’olocausto di Brunilde come palingenesi, il finale del Parsifal come redenzione. In realtà Lohengrin è un vinto, votato all’annichilimento, Brunilde nel rogo celebra il cosmico sprofondamento pessimistico, Parsifal vive tra luci ambigue e non si libera dall’ombra della ferita di Amfortas. Nell’attuale racconto scaligero di Lohengrin, con la voce immacolata di Jonas Kaufmann, non c’è salvazione, ma rinuncia. Anche per questo motivo l’idea problematica della magnifica regia di Guth mi pare rivelatrice, persino più della versione storica di Strehler alla Scala: proprio perché rivela le ambiguità di un antieroe tra le inquietudini della borghesia. Un dramma recitato come nel teatro di parola. E il direttore Daniel Barenboim recupera la tradizione romantica senza retorica, all’interno di una severa, e moderna, idea razionale. ◼ 23 focus on 1813 - 2013 focus on 24 1813 - 2013 Il «Nabucco» di Verdi secondo Stefano Poda I di Mario Merigo l Nabucco di Giuseppe Verdi è uno dei titoli più popolari del repertorio operistico, quello con cui il grande compositore afferrò il successo che stava per sfuggirgli dopo il fiasco del dramma giocoso Un giorno di Regno. Con Nabucco Verdi dimostra tutta la sua capacità di assimilatore di linguaggi, utilizzati con mirabile sintesi drammatica. Ma soprattutto si rivela già nel 1842 il grande maestro che sa esplorare l’animo umano e le sue devastanti passioni. Con Nabucco e la figliastra Abigaille abbiamo i primi ritratti di quella lunga galleria di tiranni puniti negli affetti e destinati alla solitudine. Il giovane Verdi lascia ancora spazio alla speranza e Nabucco riesce a ravvedersi e a ottenere il perdono di Dio; arriva invece troppo tardi il pentimento di Abigaille, che turbata si avvelena. Nel nuovo allestimento del capolavoro verdiano andato in scena nei mesi scorsi al PalaBassano e poi al Teatro Verdi di Padova, il regista Stefano Poda evita ogni possibile tentazione risorgimentale così come ci risparmia quella paccottiglia assiro-mesopotamica diffusa ancor oggi in molti teatri internazionali. Il suo spettacolo, basato su giochi di ombre e luci soffuse, rinuncia al facile effetto anche quando il blasfemo Nabucco viene colpito da un fulmine che lo atterra. La contrapposizione tra popolo di Israele e babilonesi, tra bene e male viene annullata in nome di un dissidio interiore che connota ciascun individuo. Sul palcoscenico, sopra le teste di tutti, pendono le sagome dei personaggi, quasi si trattasse dell’anima riflessa e silente di ognuno. Tutto è vissuto in una dimensione intima, di lacerante scissione. Un’altra via per esaltare comunque il messaggio universale di Verdi, che trent’anni più tardi si ricorderà di Abigaille nel tratteggiare la figura di Amneris. Nabucco è anche opera di grandi affreschi corali che esige l’autorevole presenza delle masse. Accortamente, oltre a collaborare per questa nuova produzione con Padova e Rovigo, il comune di Bassano ha coinvolto gli organici stabili del Teatro Verdi di Trieste. Pregevole è stato così l’apporto del coro preparato da Paolo Vero che ha intonato a fior di labbro il celeberrimo «Va, pensiero», divenuto simbolo per eccellenza dell’epoca risorgimentale. Puntuale anche l’orchestra diretta da Antonello Allemandi. Il nostro grande musicista, di cui sono già iniziate un po’ dappertutto le celebrazioni per il bicentenario della nascita – ma di fatto Verdi è ampiamente festeggiato ogni anno –, dà grande rilievo anche al protagonista e soprattutto alla sua supposta figlia, Abigaille. Non è facile trovare un soprano drammatico d’agilità che possieda vigore, intensità e un’ispirazione lirica quasi belliniana. A Bassano si è ascoltata l’audace Sorina Monteanu mentre come Nabucco c’era Carlos Almaguer, a suo agio nel medium della voce. Ricordiamo ancora nel ruolo «rossiniano» di Zaccaria il basso Ernesto Morillo, nonché Romina Tommasoni (Fenena) e Armaldo Kllogjeri (Ismaele). Successo caloroso per tutti. ◼ Una scena del Nabucco secondo Stefano Poda (foto di Giancarlo Ceccon). sica classica con spettacoli semplici e divertenti». Non c’è molto di organico su questo specifico tema, soprattutto a Venezia, che affronti la difficile missione del portare la musica al pubblico di domani. Si tratta di un allestimento semplice, che include un piccolo ensemble con pianoforte, uno o più cantanti e un recitante. Nel cast la celebre atdi Mirko Schipilliti trice Maria Pia Colonnello, che sarà la voce recitante, insieme al giovane attore che interpreta Mozart, Ivan Anoè; e poi ozart sfiora, nelle apparenze delLara Matteini sarà la cantante, la violinista Pia Pulkinnen il la più infantile semplicità, un presagio Violino sognante. inconscio di verità altissime», scrive «“Amadeus a teatro in casa Mozart, spettacolo di TeatroMassimo Mila commentanMusica per bambini da sei a cento anni” – contido il Flauto Magico, la sua stessa vita è una finestra nua la Paroletti – è una biografia romanzata che non solo sull’epoca e i rapporti dell’artista con la percorre i momenti salienti della vita del Genio di Venezia società, ma anche sulle relazioni misteriose con il Salisburgo con gag divertenti, battute, una cantanTeatrino dei Frari proprio percorso artistico. Dai cartoni animati di 13 gennaio, ore 16.30 te stonata, un compleanno finale con banchetto e trent’anni fa sulle vite dei grandi personaggi delpanettone per tutti, lancio di palloncini e tante alla storia alla coproduzione televisiva internazionatre sorprese! Il cast è rappresentato da un attore che le sulla vita di Mozart del 1982 di Marcel Bluwal trasmessa interpreta Mozart, un soprano che interpreta la cantante di dalla Rai e al film Amadeus di Milos Forman, la vita di Wolfcui lui si era realmente innamorato, Aloysia Weber, il Violigang Amadeus non ha mai smesso di suscitare stupore, tanto no sognante, una voce recitante e la Dea della Musica, imche Roberta Paroletti, giovane musicista veneziana con una personata da me». grande esperienza nell’educazione musicale dei più piccoli, La Paroletti, persona umile e preparatissima, si occupa di M « ha finalmente pensato di creare uno spettacolo per ragazzi (fascia elementari medie) in grado di avvicinarli alla musica attraverso la vita di Mozart bambino, uno spettacolo ideato e scritto interamente da lei. «Da quasi vent’anni – spiega la Paroletti – mi dedico all’insegnamento del pianoforte ai bambini, e da una decina lavoro con La Fenice come maestro collaboratore e pianista in orchestra. Questa vicinanza al mondo “giovanile” e al teatro ha fatto crescere in me il desiderio di realizzare spettacoli di teatro-musica rivolti principalmente ai più piccoli. Non solo, vorrei che fossero accompagnati dalle famiglie e anche da zii e nonni! Vorrei avvicinare i bambini al teatro e alla muTom Hulce è Mozart in Amadeus di Miloš Forman (1984). tutto: da ex-bambina prodigio al pianoforte passa ora dall’altra parte, offrendo a grandi e piccoli tutta la sua preziosa e raffinata esperienza. Un «lavoraccio» ma realizzato davvero col cuore. Quanto è importante continuare a credere nella formazione dei più giovani? «Mi interessa che l’attenzione sia sullo spettacolo, sulla musica e la promozione di teatro-musica per bambini. Quando chiedo ai miei allievi se vanno a teatro mi guardano perplessi e a fatica ricordano l’ultima rappresentazione alla quale hanno partecipato. Ho parlato con molti genitori e tutti sarebbero felici di altre iniziative di questo tipo. I bambini di oggi saranno il pubblico di domani». Amadeus a teatro in casa Mozart andrà in scena domenica 13 gennaio al Teatrino dei Frari alle 16.30 (ingresso libero). ◼ opera Mozart e i bambini: ecco il pubblico di domani 25 classica 26 Giovani interpreti per future platee e in duo con la violinista Sofia Gelsomini. Il prossimo 9 gennaio sarà la volta della tedesca Camilla Köhnken, che rileggerà i Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Allieva a Colonia di Pierre-Laurent Aimard, ha proseguito gli studi con Lev Natochenny a Francoforte. Attiva interprete di musica contemporanea e antica, ha vinto il Lenzewski Competition e partecipato a numerose trasmissioni televisive. L’impressionismo francese sarà il tema dell’incontro che si di Letizia Michielon svolgerà invece il 17 gennaio, durante il quale Tommaso Lepore (1986) suonerà Estampes di Debussy e Le Tombeau de opo il successo dei primi due appuntamenti, Couperin di Ravel. Lepore, che ha studiato a Benevento e a prosegue il progetto che la Società Veneziana di Roma durante gli anni della propria formazione, ha ottenuto Concerti (svc) dedica ai giovani interpreti. Ideil Premio Pianistico Regione Lazio, si è aggiudicato numeroata dal presidente dell’ente veneziano, Fausto si concorsi ed è attivo come solista e come camerista. Adami, la rassegna è resa possibile grazie al contributo delSeguirà il 30 gennaio la veneta Virginia Rossetti (1988), la Cassa di Risparmio di Venezia, il sostegno che proporrà un programma monografico dedel Teatro La Fenice e il patrocinio dell’Assesdicato a Schumann e comprendente le Walsorato alle Attività Culturali del Comune di dszenen op. 82 e gli Studi sinfonici op.13. DiVenezia Venezia. L’obiettivo è quello di avvicinare alplomatasi con Daniele Borgatti, ha suonato Sale Apollinee la musica classica gli studenti delle scuole suin prestigiose sale e si è imposta in importandel Teatro La Fenice periori, in particolare quelli che frequentano 9, 17, 30 gennaio, ore 10.30 e 17.30 ti competizioni nazionali e internazionali (tra le classi del penultimo e ultimo anno di corcui il Premio Venezia 2009 e il Premio Ma5 febbraio, ore 10.00 e 17.30 so, attraverso concerti che si svolgono graturizza di Trieste), vincendo numerose borse di itamente al mattino nelle Sale Apollinee del studio. Il ciclo si concluderà il 5 febbraio con il Teatro La Fenice, con replica per il pubblico nelle ore pomerecital chopiniano di Francesco Carletti (1988), che eseguirà ridiane (17.30). la Polacca op. 26, n. 1 e la Sonata n. 3 op. 58. Dopo il diploma La formazione dei fruitori di domani si coniuga così alla al Conservatorio «Santa Cecilia» di Roma, ove ha vinto il valorizzazione di nuovi interpreti, in questo caso tutti proPremio Via Vittoria, si è aggiudicato concorsi pianistici navenienti dalla Musik-Akademie di Basilea, prestigiosa istizionali (tra cui il Premio Nazionale delle Arti 2010 e il Pretuzione ove attualmente insegna uno dei migliori pianisti mio Casella nella scorsa edizione del Premio Venezia). Ha italiani, Filippo Gamba, docente dei sei giovani musicisti selezionati. Il gemellaggio con la Svizzera si intreccia a un altro fil rouge, quello che avvolge la Scuola di Musica di Fiesole dove insegnava Maria Tipo, che ha formato, oltre allo stesso Gamba, anche Alessandro Zattarin, al quale è affidata l’introduzione di ognuno dei concerti. Pianista, scrittore, dottore di ricerca in Italianistica e cultore della materia in Letterature comparate all’Università di Padova, Zattarin fornisce una breve guida all’ascolto pensata per restituire, insieme all’esattezza dei dati storici, la suggestione che la storia della musica custodisce tra le righe, evocando l’approfondimento di temi e forme della modernità e incoraggiando la ricerca di percorsi alternativi e curiosità personali. L’esordio, con Beethoven e Rachmaninov, è stato inoltre partecipato al documentario Il suono della memoria affidato lo scorso 2 ottobre a Joseph-Maurice Weder (1988), diretto da Giovanni Sinopoli . Le intenzioni di Adami sono vincitore in Svizzera di alcuni dei più significativi riconosciquelle di potere proseguire e ampliare questo progetto anche menti e borse di studio. La trevigiana Fiore Favaro (1986) ha nella prossima stagione della svc, considerando «un dovere invece interpretato, il 15 novembre dell’anno da poco pasetico aiutare i giovani interpreti e provvedere alla formaziosato, alcuni capolavori di Chopin e Schumann. Formatasi ne culturale del pubblico di domani». ◼ con Alessandro Commellato e Riccardo Zadra, Favaro si è aggiudicata numerosi concorsi, coltivando contemporaneaFiore Favaro durante la conferenza/concerto dello scorso 15 novembre. mente l’attività cameristica con l’Hirzen Pavillon Ensemble La nuova iniziativa della Società Veneziana di Concerti D D di Chiara Squarcina proprio per questo, vicino alla dilatazione e alla lacerazione degli elementi formali nonché alle grandi esperienze musicali europee che dovevano approdare agli sperimentalismi successivi. La Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64 è stata più volte eseguita alla Fenice; ma certamente Diego Matheuz, a differenza di altri direttori, saprà estrapolare con lucida enfasi tutta la forza emotiva del tema centrale che Čajkovskij abilmente presenta in maniera sintetica, sviluppa, scompone e ricompone attraverso una decostruzione timbrica della compagine orchestrale. Nel programma del concerto il compositore russo, geniale nel coniugare trasposizioni armoniche con variazioni tematiche, è correlato al fenomeno unico e in un certo qual modo iego Matheuz e l’Orchestra della Fenice da una parte, Pëtr Il’ič Čajkovskij e Wolfgang Amadeus Mozart dall’altra. Questo il connubio irresistibile che potranno godersi gli spettatori del concerto di febbraio inserito nella stagione sinfonica del Teatro veneziano. Il direttore sudamericano (classe 1984) non ha bisogno di particolari presentazioni, essendo ormai, a soli ventotto anni, una vera celebrità. Va però almeno ricordato il suo percorso artistico, iniziato sotto l’ala protettiva di José Antonio Abreu e continuato all’interno dell’Orchestra Giovanile del Venezuela Simón Bolívar, per poi collaborare assiduamente con Claudio Abbado e con la sua Orchestra Mozart, di cui nel 2009 è stato nominato direttore ospite principale. Dopo un 2010 di lavoro frenetico (tra le compagini che dirige si ricordano almeno, per restare al solo ambito italiano, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino, l’Orchestra Filarmonica della Scala e l’Orchestra Verdi di Milano), dal 2011 è direttore principale della Fenice. Qualche parola sui due mostri sacri riuniti in un’unica semiracoloso di Wolfgang Amadeus Mozart, colui che scrisse rata e sui brani prescelti. l’epilogo della grande epoca illuministica. Non fu un innoČajkovskij ha portato lo stile a quell’estrema maturità e vatore, né avviò rivoluzioni estetiche, ma praticando un linperfezione dove la forza creativa deforma, attraverso enfasi guaggio comune a tutti i compositori del suo tempo, accete tensioni, le labili barriere dei tempi introducendovi all’intandone cioè i modelli formali e gli stilemi linguistici, septerno quei sommovimenti sismici che insidiano perfino l’upe tuttavia innalzarli a un’ineffabile classicità per la quale nità e la continuità del ritmo, inscindibili dalla rigorosa colo stesso Goethe non trovò altro termine di paragone se non erenza della modulazione. Più di altri ha rivelato la capaciquello con il periodo aureo dell’arte greca. La sintesi davvetà di approfondire quel riconosciuto varo irrepetibile che realizzò nel breve spalore dogmatico alla trasposizione oggetzio di un trentennio di frenetica attività tiva della tavolozza emotiva, basata sulla racchiude l’esperienza di un intero secoVenezia chiarezza di una scansione di granitica rolo, esaurendo e sublimando in essa tutta Teatro La Fenice bustezza per via di blocchi saldamente inuna civiltà musicale e percorrendo spes22 febbraio, ore 20.00 nervati sovrapponendo, e non sostituenso l’inquieta sensibilità che andava matu23 febbraio, ore 17.00 do, un fraseggio supremamente poetico. rando e che avrebbe preso forma solo con Wolfgang Amadeus Mozart Indubbio, quindi, come Čajkovskij abla generazione successiva. La mozartiaSinfonia n. 29 in la maggiore KV 201 bia impostato le sue opere attraverso la rina Sinfonia n. 29 in la maggiore kv201, Sinfonia concertante per oboe, meditazione concettuale della libertà credell’aprile 1774, ha un carattere personaclarinetto, corno, fagotto e orchestra ativa, che non era mai arbitrio ma ricerle e molto individuale nel suo combinain mi bemolle maggiore KV Anh. I, 9 ca timbrica, con ciò demolendo una delre uno stile intimo e cameristico con mole principali accuse che da sempre si sono di focosi e impulsivi. La frase con una garPëtr Il’ič Čajkovskij appuntate su di lui, ovvero quella di esseSinfonia n. 5 in mi minore op. 64 bata appoggiatura e l’ottava discendente re portavoce di un decadentismo latente. dell’inizio sono drammatizzate e rese più Ritagliata su di lui, già nel primo quarto del Novecento, taintense dalla ripresa in forte con i bassi in imitazione; l’Anle definizione comportava allora implicazioni negative che dante, che prescrive gli archi con sordina, nello stile melodisolo un’ulteriore distanziazione prospettica ha permesso di co non si differenzia da numerosi altri esempi precedenti ma far cadere: Čajkovskij fu senz’altro un decadente romantico si rileva molto più espressivo. Anche qui l’elaborazione della quando la stagione del romanticismo era esaurita, di intenripresa rende la musica più intensa. Il finale presenta poi una zioni cosmopolite quando la scuola russa cercava una sua masezione di sviluppo insolitamente estesa, di tono incalzante, nifesta espressione nazionalista, sinfonista quando la sinfocon molto tremolo degli archi e con bassi e violini primi in nia era in declino. Dunque apertamente decadente ma, forse imitazione. A seguire, ancora di Mozart, la splendida Sinfonia concertante per oboe, clarinetto, corno, fagotto e orchestra in mi bemolle maggiore KV Anh. I, 9. ◼ Diego Matheuz (teatrolafenice.it). classica Diego Matheuz sul podio tra Mozart e Čajkovskij 27 classica 28 Un omaggio a Luciano Berio Gallois. Qui Berio esplora le caratteristiche opposte che lo strumento a fiato presenta nei registri estremi della sua estensione, e sperimenta glissandi, ribattuti, suoni multipli ottenuti con l’ancia e con la voce e il rapido alternarsi di registri di Vitale Fano molto lontani per dar vita a timbri nuovi e articolati. La seconda parte ha come protagonista la voce e iniell’ambito della stagione della Società zia con le Beatles Songs, quattro arrangiamenti cameristiVeneziana di Concerti, si terrà il 24 febbraio, in ci di «Michelle», «Ticket to Ride» e «Yesterday» scritti collaborazione con il Teatro La Fenice, un conda Berio nel 1967 dopo aver incontrato a Londra Paul Mc certo dedicato a Luciano Berio nel decimo anniCartney e aver subìto il fascino delle canzoni del gruppo inversario della scomparsa. Per ricordare il grande compositore glese. Sono deliziose miniature barocche (che richiamano ligure, che fu una delle figure più importanti del Novecento ora Haendel, ora Bach) in cui Berio correda le celebri memusicale italiano, sarà eseguito un programma lodie dei Fab Four di un’aura di contrappunti e bipartito che toccherà due punti significativi delsonorità che le proiettano, a tratti, «verso il suola sua produzione musicale: la ricerca sul suono e no cameristico, pudico e insinuante, dell’eterno Venezia sulle possibilità tecniche degli strumenti e l’amoRavel» (Bortolotto). Teatro La Fenice re per la musica pop e tradizionale. La raccolta delle undici Folk Songs per mez24 febbraio, ore 20.00 Il primo aspetto sarà rappresentato dalle zo-soprano e sette strumenti (flauto, clarinetto, Sequenze per arpa e per fagotto, tratte dalle didue percussioni, arpa o chitarra, viola, violoncelciotto Sequenze per strumento solista nate fra il 1958 e il lo) rappresenta un punto di incontro fra due universi mu2004, il cui titolo deriva dalla costruzione basata su «sesicali distinti: quello popolare e quello dello sperimentaliquenze e sovrapposizioni di caratteri armonici e di tipi di smo. La scelta delle canzoni spazia dal melos mediterraneo alle song americane: quattro sono italiane, tre francesi, due statunitensi, una armena e una dell’Azerbaigian. Confluiscono in queste riscritture (pensate per Cathy Berberian, moglie di Berio dal 1950 al 1966) la sensibilità strumentale del compositore, che trova soluzioni timbriche originali, ricercando similitudini con strumenti popolari o arcaici (la viola che in «Black Is The Colour» evoca l’antica fidula) e la maestria nel coniugare elementi disparati in tessiture eterofoniche: ad esempio la sonorità mediterranea della siciliana «A la femminisca», che rilegge in chiave novecentesca la preghiera di una giovane per il suo uomo, o le sonorità frenetiche che accompagnano il «Ballo», o il malinconiazioni strumentali» (Berio). Elementi comuni a tutti i braco contrappunto della melodia popolare sarda «Motettu de ni sono il virtuosismo (inteso come ricerca di soluzioni tecniTristura», animato dalle percussioni. che inedite richieste dalla novità e dalla complessità del penInterprete dei brani vocali sarà il soprano inglese Lorna siero musicale) e la ricerca di trasformazione delle prassi eseWindsor, musicista eclettica e raffinata che abbraccia un cutive nel rispetto della natura e della specificità di ciascuvasto repertorio comprendente l’opera lirica, il barocco, la no strumento. musica da camera, la musica contemporanea, il jazz, l’opeLa Sequenza ii per arpa è del 1963 ed è dedicata all’arpista retta e il musical. Al suo fianco il pianista e direttore d’orfrancese Francis Pierre: una sorta di «polifonia di azioni» chestra Antonio Ballista, la cui carriera in duo con Bruno dove stilemi dell’Impressionismo francese e iberico conviCanino lo ha fatto conoscere ovunque per più di mezzo sevono con sollecitazioni attualissime e tecniche di esecuzione colo. Dedicatario di composizioni di Berio, Stockhausen, percussiva sulle corde (come il pizzicato con l’unghia, il pizLigeti, Bussotti, Donatoni e molti altri, è stato un punto di zicato «alla Bartók», lo sfregamento di due corde una conriferimento per le avanguardie nazionali e internazionali. tro l’altra, ecc.). Un corpo in movimento che dalla nota sinL’ensemble sarà formato dagli strumentisti del Teatro La gola ribattuta iniziale va verso una crescente complessità arFenice, fra cui l’arpista Nabila Chajai e il fagottista Roberto monica, fino a sfociare nei blocchi accordali dell’ultima parGiaccaglia, che eseguiranno le Sequenze. ◼ te del brano. La Sequenza xii per fagotto è di un trentennio successiLuciano Berio (circa 1975, foto Archivio eredi Berio – lucianoberio.org). va: risale al 1995 ed è dedicata al fagottista francese Pascal N di Angela Ida De Benedictis Luciano Berio è nato ad Oneglia, in Liguria, il 24 ottobre del 1925 da una famiglia di solida tradizione musicale. Nel 1945 si trasferisce a Milano, dove studia composizione presso il Conservatorio «Giuseppe Verdi»: nel 1952 segue i corsi di Luigi Dallapiccola a Tanglewood, negli Stati Uniti. Fin dai primi anni cinquanta si afferma come una voce autorevole tra i giovani dell’avanguardia musicale. A questo periodo risalgono Cinque Variazioni (1952-1953), Chamber Music (1953), Nones (1954), Serenata (1957). Nel 1954 frequenta per la prima volta i Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt. Nel dicembre dello stesso anno, insieme a Bruno Maderna, costituisce inoltre presso la rai di Milano il primo studio di musica elettronica italiana, inaugurato l’anno successivo con il nome di Studio di Fonologia Musicale. È in questa sede che ha modo di sperimentare nuove interazioni tra strumenti acustici e suoni prodotti elettronicamente (Momenti, 1957; Différences, 1958-1959) ed esplorare soluzioni inedite nel rapporto suono-parola (Thema. Omaggio a Joyce, 1958; Visage, 1961). Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta il suo interesse si focalizza ulteriormente sulla ricerca di nuove e complesse combinazioni timbriche (Tempi concertati per 4 solisti e 4 orchestre, 1959; Sincronie per quartetto d’archi, 1964). La ricerca sulle risorse espressive della vocalità femminile – sollecitata dalla voce di Cathy Berberian – procede con Epifanie (1959-1960, poi confluito in Epiphanies del 1991-1992), Circles (1960) e Sequenza III per voce (1965). La concezione drammaturgica implicita in queste opere vocali si precisa e affina nei primi lavori realizzati per il teatro, quali Allez-Hop (1959, da Calvino), Passaggio (1962) e Laborintus II (1965), entrambi su testo di Sanguineti. L’indagine sulle potenzialità idiomatiche dei singoli strumenti dà avvio nel 1958, con Sequenza I per flauto, alla serie delle quattordici Sequenze per strumenti solisti (l’ultima, del 2002-2003, è per violoncello). L’insieme di questi brani solistici e dei relativi Chemins – elaborazioni per insieme strumentale di alcune Sequenze – evidenzia il peculiare carattere di «work in progress» del comporre di Berio, inteso potenzialmente come un incessante processo di commento e di elaborazione che prosegue e prolifera da un pezzo all’altro. Luciano Berio nello studio di Via della Mendola, Roma, inizio maggio 1972 (foto di Frans van Rossum – lucianoberio.org). Nell’ambito delle compagini per grande orchestra il compositore esplora nuove disposizioni spaziali (già sperimentate negli anni cinquanta in Allelujah I e II) e nuove formazioni strumentali: Eindrücke (1973-1974), Bewegung (1971-1983), Formazioni (1985-1987), Continuo (1989-1991), Ekphrasis (Continuo II, 1996). Il rapporto dialettico tra strumento solista e orchestra è al centro di lavori quali Concerto per due pianoforti (1973); «Points on the Curve to Find…» per pianoforte e orchestra da camera (1974), confluito in Concerto II (Echoing Curves) per pianoforte e due gruppi strumentali (1988-1989); Voci (Folk Songs II) per viola e due gruppi strumentali (1984), Alternatim per clarinetto, viola e orchestra (1994). Oltre al Concerto, Berio rilegge altri generi storici quale il quartetto d’archi (Quartetto, 1956; Sincronie, 1964; Notturno, 1993; Glosse, 1997) e uno strumento carico di connotazioni tradizionali come il pianoforte, indagato con criteri sonori, formali ed espressivi inediti in una serie di lavori che dalla Sequenza IV (1966) portano all’acme della Sonata (2000). La ricerca musicale di Berio si caratterizza per l’equilibrio raggiunto tra una forte consapevolezza della tradizione e una propensione alla sperimentazione di nuove forme della comunicazione musicale. Nelle sue varie fasi creative il compositore ha sempre cercato di mettere in relazione la musica con vari campi del sapere umanistico: la poesia, il teatro, la linguistica, l’antropologia, l’architettura. L’interesse per le diverse espressioni della musicalità umana ha condotto a una rivisitazione costante di diversi repertori di tradizione orale (Folk Songs, 1964; Questo vuol dire che…, 1968; Cries of London, 1974-76; Voci, 1984). Il grande patrimonio della musica occidentale è esplorato nelle rivisitazioni di Monteverdi (Il Combattimento di Tancredi e Clorinda), Bach (Contrapunctus XIX), Boccherini (Ritirata notturna di Madrid), Mozart (Vor, während, nach Zaide), Schubert (Rendering), Brahms (Op. 120 N. 1), Mahler (i due cicli di Frühe Lieder), Puccini (il Finale di Turandot), e altri ancora. L’ideale di far convivere le diverse dimensioni e tradizioni delle nostre civiltà si manifesta inoltre in lavori quali Sinfonia (1968), Coro (1975-1976), e Ofanìm (1988-1992), lavoro quest’ultimo che prepara il terreno ai suoi due ultimi lavori teatrali. Proprio il teatro musicale costituisce un nodo fondamentale della ricerca e della poetica di Berio. Dopo i primi lavori scenici degli anni cinquanta e sessanta (Allez-Hop, Passaggio), egli approda nel decennio successivo alla sua prima azione musicale in più atti su testi propri: Opera (1969-1970/1977). Seguono La vera storia (1977-1979) su testo di Calvino; Un re in ascolto (1979-1983) su testi di Calvino, Gotter, Auden e Berio; Outis (1992-1996) su testi di Dario Del Corno; e Cronaca del Luogo (1997-1999) su testo di Talia Pecker Berio. Menzione a sé merita A-ronne (1974-1975), documentario radiofonico per cinque attori (elaborato nel 1975 per otto voci) su testo di Sanguineti, punto di approdo delle sperimentazioni radiofoniche condotte da Berio fin dagli anni cinquanta. Luciano Berio si è spento a Roma il 27 maggio del 2003. Nella sua ultima opera, Stanze (2003, per baritono, tre cori maschili e orchestra, su testi di Celan, Caproni, Sanguineti, Brendel e Pagis) l’autore dà voce a un’ultima intima sintesi della propria poetica. ◼ classica Luciano Berio, un ritratto 29 classica 30 «Le salon romantique» di Palazzetto Bru Zane comune nell’Ottocento: le trascrizioni e parafrasi di opere celebri; strumento privilegiato di questa prassi ottocentesca: il pianoforte. Il concerto sarà dedicato all’opera di Wagner trascritta da due compositori: Alfred Jaëll – Deux Improvisations d’après Rienzi, Paraphrase sur Lohengrin et di Andrea Oddone Martin Tannhaüser, Paraphrase de Tristan und Isolde in prima esecuzione moderna – e Franz Liszt – Transcription du Vaisseau i tiene a febbraio la rassegna centrale delle tre fantôme, Transcription de Isolde Liebestod. A chiudere il conproposte dal Palazzetto Bru Zane per l’anno 2012certo, un estratto dall’esiguo catalogo di composizioni esclu2013, rassegna di inattese rarità e possibili incontri. sivamente musicali di Richard Wagner: la Sonata per pianoIncontri senz’altro musicali per «Le salon forte in la bemolle maggiore del 1853. Sabato 16 romantique», un festival dove la proposta non è febbraio alle 20.00 al Bru Zane un altro concerdefinita rigidamente dai confini tematici di rifeto che si distingue per la rarità delle proposte: il Venezia rimento ma, rifacendosi all’usanza ottocentesca Quartetto Manfred eseguirà i quartetti di Louis Palazzetto Bru Zane (purtroppo non più in voga) dei comuni cenacoVierne e di Albéric Magnard. Il concerto, che è dal 2 al 28 febbraio li letterari, musicali e artistici, amplia il ventaglio in tour europeo dal 29 agosto scorso, sarà riprodelle possibilità di genere e d’autore. Certo, la preposto il giorno successivo, domenica 17 febbradilezione è cameristica, data la preziosa disponibilità della io, a Palazzo Leoni Montanari di Vicenza. Giovedì 21 febsala da concerto del Palazzetto veneziano, dalle dimensioni braio alle 20.00 si torna in Palazzetto con il Trio Paul Klee, corrispondenti a quelle dei salotti ottocenteschi, destinatari che eseguirà il concerto «Moderni o romantici?» con muideali di molte opere da camera composte nel Romanticismo. Il programma del festival, forte dei partenariati creati dall’impegno internazionale dell’equipe del Bru Zane, si dirama in tutta Europa oltre che in Veneto, principalmente a Venezia. Il primo concerto veneziano si svolgerà sabato 2 febbraio alle ore 20.00 al Palazzetto, dove il violinista Nicolas Dautricourt, accompagnato dal pianoforte di Dominique Plancade, eseguirà (prima esecuzione moderna) la Sonata per violino di Fernand de la Tombelle, eclettico e colto artista romantico, siche di Alphonse Douvernoy e Maurice Ravel. Ultima daseguita dal Poème élégiaque per violino e pianoforte del belta veneziana della rassegna, giovedì 28 febbraio, stesso luogo ga Eugène Ysaÿe. A chiudere il concerto, la Sonata per vioe stessa ora per il recital pianistico di Geoffroy Couteau inlino del più celebre César Frank. Il giorno seguente, dometeramente dedicato alla musica del prolifico Camille Saintnica 3 febbraio alle 17.00 sempre al Bru Zane, un’altra priSaëns. «Scoprire Saint-Saëns» è il titolo attribuito a questo ma esecuzione moderna: la Fantaisie romantique di Eugène concerto, dove si ascolteranno le Bagatelles, la riduzione piaAnthiome, vincitore del Prix de Rome nel 1861. Geneviève nistica del poema sinfonico Danse Macabre, gli Studi n. 1, 2, Laurenceau al violino e David Bismuth al pianoforte ese3 per mano sinistra op. 135, Menuet et valse op. 56 e gli Studi guiranno poi la celebre Sonata per violino di Camille Saintn. 2 e 6 op. 52. Un’offerta di opere di compositori celebri e Saëns. Il mercoledì successivo, il 6 febbraio alle 20.00 presautentiche rarità, «Le salon romantique» permette ascolso la medesima sede, saranno eseguiti dalla soprano Chantal ti certamente non frequenti e la scoperta di autori non celeSanton e dalla mezzosoprano Clémentine Margaine, acbrati nel secolo ma non minori nell’opera. Straordinaria sarà, compagnate dal pianoforte di Emmanuel Olivier, duetdunque, la possibilità di confrontarsi con la musica di De la ti e arie estratti da opere di vari compositori ottocenteschi Tombelle, dello sfortunato Louis Vierne o dell’appartatissiquali Léo Delibes, Emmanuel Chabrier e l’italiano Nicola mo Albéric Magnard, come anche di Eugène Ysaÿe, compoVaccaj di cui sarà proposto in prima moderna il duetto tratsitore ma soprattutto importante virtuoso del violino e deto da Roméo et Juliette; e ancora George Bizet e Charles stinatario di opere scritte tra gli altri da Claude Debussy e Gounod. Il mercoledì successivo, il 13 febbraio sempre alCésar Franck. ◼ le 20.00 e sempre al Palazzetto, sarà la volta del recital pianistico di Dana Ciocarlie. In programma, esecuzioni di alNicolas Dautricourt, che aprirà il festival il 2 febbraio cune di quelle particolari composizioni la cui pratica era (nicolasdautricourt.com). S struito su un unico tema molto semplice, presentato dai corni nelle battute iniziali. Nell’ambito di una fluida e continua variazione del materiale, il tema viene sottoposto a svariate trasformazioni che ne modificano continuamente le caratteristiche: eterofonia da canoni, sviluppo degli intervalli in forma melodica e armonica, aumentazioni e diminuzioni progressive di ritmi e intervalli, aumentazioni e diminuzioni contemporanee di incisi in maniera puntillistica, polistilismo, quadrati magici esacordali, tecnica dell’armonia orbia cura di Maria Chiara Del Piccolo tale gravitazionale di Roberto Lupi anche unita a un denso contrappunto dodecafonico. Al culmine di tali metamorfosi l 22 febbraio l’Orchestra di Padova e del Veneto toril tema perde il suo nobile carattere iniziale e si ripresenta alla nerà di scena all’Auditorium Cesare Pollini insieme al fine del brano in maniera misteriosa e trasfigurata, eseguito direttore Johannes Wildner. Il concerto, inserito nel xlda un glockenspiel in lontananza: è da questo procedimento vii cartellone dell’opv, prevede, oltre alstrutturale che deriva il titolo del brano. le musiche di Mendelssohn, Schubert e Dvořák Una recentissima indagine britannica mo(il raro Concerto per pianoforte op. 33, solista stra che circa il trenta per cento di un campioPadova Gabriele Carcano), anche Trasfigurazione di ne di duemila «under 25» è incuriosito dalla Auditorium Cesare Pollini Gianluca Cascioli, opera vincitrice del Primo musica «classica» e vorrebbe saperne di più. A 22 febbraio, Concorso Nazionale di Composizione Fran- ore 10.30 (prove generali) e 20.45 dispetto di tale curiosità, la scarsa presenza di cesco Agnello, promosso dal cidim (Comitato giovani ai concerti resta uno dei problemi della Nazionale Italiano Musica). Abbiamo inconvita concertistica, non solo italiana. trato Gianluca Cascioli, al quale abbiamo chiesto qual è il suo Sono appena tornato da una tournée in Giappone: laggiù rapporto con la tradizione e quali i compositori che rappresenho trovato un interesse enorme, sale (acusticamente perfettano un riferimento nella sua attività di compositore. te) sempre colme di pubblico (di ogni età), religioso silenzio e grande attenzione. Anche il mercato discografico non sem«Credo che gli uomini siano il risultato della storia che li bra in crisi. Perché? Da giovane musicista non mi permetto ha preceduti. Allo stesso modo i musicisti di oggi hanno un di suggerire o dare consigli su un argomento tanto compleslegame forte con i grandi del passato. Scrivere musica ignoso quanto spinoso. A mio avviso la musica è in grado di risverando completamente la tradizione è estremamente rischiogliare il mondo spirituale interiore degli uomini ed è portaso. Detto questo, è ovviamente giusto e normale cercare vie trice di un messaggio elevato e nobile. Questo aspetto quadi espressione sempre nuove. Sono molti i compositori che amo e ascolto spesso: più volte Alfred Schnittke si è rivelato essere per me un riferimento, lo trovo sempre geniale e imprevedibile. Amo anche György Sándor Ligeti. Tra gli italiani ho moltissima ammirazione per Carlo Mosso e Alberto Colla, mentre considero Aaron Jay Kernis uno dei compositori viventi americani più interessanti». Qual è stato l’incontro che ha avuto maggiore influenza sul suo modo di comporre? Conoscere il geniale compositore Alberto Colla è stato per me decisivo. Le sue lezioni mi hanno spalancato universi nuovi e vastissimi. Non esito a definire l’incontro con Colla come uno dei più importanti della mia vita, anche a livello umano. Cosa significa essere un compositore al giorno d’oggi? E in che rapporto si pone con il pubblico? Non è possibile generalizzare, giacché la situazione contemporanea è estremamente variegata. Comporre significa riuscire a intuire quale possa eslitativo è estremamente importante: la musica non dovrebsere il giusto cammino di una cellula germinativa di partenbe essere ridotta a mero intrattenimento o sottofondo di uno za. Questo cammino è la «verità» che si cerca, un concetto spot commerciale. Se non stiamo attenti perderemo la capatutt’altro che statico, e per afferrarlo è necessario percorrere cità di cogliere l’aspetto sublime e più profondo delle note. vie sempre nuove, sempre diverse. Nel Novecento il rapporForse modelli alternativi al concerto tradizionale possono to compositori-pubblico è peggiorato notevolmente. La siessere interessanti quando vi è una necessità artistica valida tuazione al momento attuale è grave e i compositori hanno che li giustifichi, ma inventarsi idee strampalate con l’unico il dovere di valutare questo stato di cose molto seriamente. È intento di portare pubblico in sala (o chissà dove) e riempire urgente una rivalutazione critica che porti a capire cosa abpoltrone non è a mio avviso una soluzione valida. Ormai se bia creato questa rottura e perché: solo sulla base di una nuone vedono di tutti i colori: si fanno concerti di musica classiva consapevolezza si potrà procedere oltre. ca nelle stazioni ferroviarie, per strada, nelle metropolitane, Ci può illustrare brevemente il suo brano Trasfigurazione? e poi si invitano comici o cantanti rock nelle sale da concerto. È stato composto nell’estate del 2011 ed è interamente coQualcosa non funziona: tutto questo non fa altro che sottolineare l’aspetto circense dell’esibizione pubblica e svilisce la Gianluca Cascioli (foto di Silvia Lelli). verità spirituale che è insita nella grande Musica. ◼ I classica La «Trasfigurazione» di Cascioli per l’Orchestra di Padova e del Veneto 31 l’altra musica 32 «Ecco» Niccolò Fabi, l’ostinato sa fare con la musica – per poi divagare sui momenti così strani e difficili che stiamo attraversando. Di Ecco colpisce subito il grande entusiasmo, percepibile nella sua progettazione, nella freschezza dei brani, nel coinvolgia cura di John Vignola mento di tanti altri artisti. È tutto in sintonia con il titolo del disco: una presentazione lle spalle di Niccolò Fabi c’è tantissimo: alcuni non solo o non tanto del sottoscritto ma di quello che abbiabrani entrati nell’immaginario adolescenziale di mo fra le mani, noi e voi: forse la musica, sicuramente parecqualche anno fa, («Capelli», per chia disperazione ma pure il senso del riscatesempio), il Festival di Sanremo, to, la voglia di connetterci fra di noi, per davuna musica cortesemente pop, che da qualche vero. Vorrebbe essere un’opera resistente, che Trento anno è diventata più aperta, non complicata non scade nelle paternali o nelle didascalie. È Auditorium Santa Chiara ma disposta a mettersi in relazione con eletcome seguire un’onda, lasciarsi sommergere e 19 gennaio, ore 21.00 tronica, folk, canzone d’autore. L’ideazione poi riemergere, un po’ più forti. del progetto Violenza 124 aperta a molti amiCome le prove della vita. Mestre ci, musicisti che poi lo hanno accompagnato Quelle segnano, belle o brutte che siano. A Teatro Toniolo in un disco convincente come Solo un uomo, me è capitato di perdere una figlia, a qualcu24 gennaio, ore 21.00 nel 2009. Un lutto familiare tremendo, menno capita di perdere la vita sul lavoro o di non tre Fabi è in tour: la scomparsa della figlia di trovare più un senso in quello che fa. Esistere nemmeno due anni, Olivia, il pensiero fugace di lasciar perè fare i conti con un senso di mancanza, di perdita perenne. dere la musica per sempre. Però Ecco è essenzialmente propositivo. Non è una rinascita, è il senso della lotta e della mia fragilità. Nella copertina scocca una freccia. È una specie di rappresentazione della forza: quando si punta a qualcosa si è forti, o almeno ci si fa coraggio. Si rimanda verso altro, si rimane tesi, attenti. Ecco significa anche «sono pronto, andiamo». Dove? Nel gorgo della vita, facendosi un po’ di domande. Per esempio, quella di «Indipendente». Una canzone cruciale. Per me di siEcco, uscito verso la fine del 2012, testimonia soprattutto curo. Cosa può voler dire, oggi, essere indipendente? Ed è una tenacia artistica importante, al di là di ogni considerauna considerazione a cui aspirare? zione retorica. La scelta di non farsi trafiggere dal dolore si Lei cosa pensa? accompagna a una forte curiosità, alle numeNon ho risposte facili e i miei pezzi sono rose collaborazioni (con i compagni di semspesso problematici, non risolvono le dopre, come Roberto Angelini, ma anche con mande. Credo che si debba puntare verso la nuovi amici, per esempio il polistrumenticoralità: nell’album ho scelto, se non la dista Enrico Gabrielli, oppure Roy Paci, nei cui pendenza da altri, almeno la connessione, studi è stato registrato il cd), a un canto meuna relazione che mi ha riportato ai miei seno sottile di un tempo e più attento alle incredici anni. spature. Come dice il suo artefice, «è firmato Un sedicenne che la ascolta potrebbe avere i da me solo per comodità artistica, ma si tratsuoi entusiasmi dell’epoca? ta quasi di un’opera collettiva», che ci spiega nell’intervista che segue – per quanto si posNiccolò Fabi (foto di Simone Cecchetti). A siero. I mezzi di comunicazione dovrebbero essere neutri: la tv non mi interessa, oggi, perché è utilizzata male. Spero che non duri per sempre. E il cinema? Il cinema mi piace, da appassionato, ma vedo poche novità. Anche in questo ambito ci sono tantissimi spot mascherati da film, che finiscono per deprimermi. Quello che manca al mondo di oggi è l’artigianato: troppo è nelle mani di grandi filiere produttive, mentre si dovrebbe ritornare a curare le produzioni, per esempio discografiche, una a una, senza grandi staff ma con grande passione. Il futuro… Il futuro è un viaggio, letteralmente. Ho avuto la fortuna di crescere in un mondo pieno di suoni, mio padre produceva dischi, ho sentito tantissimo e ho imparato parecchio dai miei compagni di strada. Ho zone della mia esistenza che ritengo fortunate. Fra queste, la sorte di condividere ciò che faccio con persone splendide. Ho imparato ad aspettarmi di tutto ma non lo farò mai passivamente. E la musica? Quella degli altri o la mia? Entrambe. Quella degli altri mi interessa sempre. Sono calato nel cantautorato americano, oramai da una vita, e non mi delude mai. Per esempio, Sufijan Stevens mi piace moltissimo e trovo che sia geniale, qualsiasi cosa faccia. Per quel che mi riguarda direttamente, dopo l’uscita di Ecco ho rallentato ancora un po’ i ritmi per capire bene dove andare. Dopo l’esperienza quasi solitaria degli scorsi mesi, ho invece intrapreso un percorso corale. I concerti saranno vasti, responsabili, divertenti, a tratti dolorosi, sempre in movimento. Si tratta di rimanere all’altezza, non della stima che ho di me ma della via che sto seguendo: ce la metterò tutta, con la famosa ostinazione di cui si diceva. ◼ l’altra musica Mi auguro che siano diversi, ma che ci siano. Sono convinto che chi fa musica continua ad avere passione, anche se magari non compra più dischi o la sente in maniera diversa dalla mia. È essenziale pensare il rock o il pop come dei veicoli di socializzazione, di divertimento, di riscatto: di bellezza, insomma. La situazione non è rosea, però. Non vorrei fare l’ottimista a ogni costo ma credo che la nostra crisi, economica, morale, non sia necessariamente artistica. Non confondiamo l’incrinarsi delle discografiche con la fine della musica: ce n’è ancora tantissima, che gira intorno e si diffonde sui palchi e magari in Rete. Come scovarla? Accendendo la radio, andando a un concerto, navigando nel web: è tutto attorno a noi. Mi sta dicendo che quasi tutto è bello. No, per niente. Le sto dicendo che non bisogna smettere di cercare, che uno dei problemi più importanti di questi anni è la pigrizia, la mancanza di curiosità. Ogni cosa ci sembra a portata di mano, così non cerchiamo più nulla. Lei cosa sta cercando? Mi piacerebbe viaggiare meglio, incontrare persone diverse e scoprire diversi modi di vita. Il mio impegno sociale va in una direzione del genere. «Sedici modi di dire verde» è un brano molto importante nell’economia di Ecco, secondo me. Racconta di come altrove, nelle comunità tribali dell’Amazzonia, avere sedici modi diversi di chiamare il colore verde sia più importante di avere molti sinonimi della parola «malinconia». Punti di vista, priorità differenti, con una caratteristica comune: quella di approfondire, di andare dentro alle cose che vediamo o che proviamo. A proposito di parole, si riconosce in un vocabolo come «ostinazione»? È un vocabolo chiave, più della ricerca del vero, che secondo me non è essenziale. Bisogna ostinarsi a trovare una via, senza ansie di definizione ma percorrendola con molta convinzione. Così tento di vivere. Da qualche parte ho letto che non guarda più la televisione. La guardo poco. Non mi interessa quello che trasmettono i canali principali, la politica è soltanto compravendita, la musica è pochissima. Sembra quasi un binario morto. Meglio Internet? Meglio un libro, innanzi tutto, e un po’ di libertà di pen- 33 l’altra musica 34 La rinascita di Alice suona in «Samsara» berto Tafuri, Michele Canova Iorfida. E per quanto riguarda i contenuti, molti brani risultano densi di riferimenti storico-letterari, si pensi a «Morire d’amore», che racconta la vita di Giovanna D’Arco, e a «Come il mare» e «Autunno già», ispirati alle liriche di Arthur Rimbaud e Paul Verlaine. di Guido Michelone In genere i temi delle canzoni del «Samsara Tour» affrontano problemi esistenziali o vicende spirituali – come avviene amsara Tour» al Geox di Padova il 12 in «Eri con me» – o più semplicemente trattano l’amore, la gennaio è la ghiotta occasione per assaporaquotidianità, le relazioni umane, tutto quanto insomma dà re, dal vivo, il nuovo album di inediti di Alice luogo all’eterno scorrere della vita. Le canzoni del tour par– Samsara, appunto – disco che arriva a quatlano quindi di ciò che senza sosta continua ad agire, accadetordici anni dal precedente Exit (1998): per l’interprete e re, fluire, scorrere, come se il nuovo lavoro di Alice somigliascompositrice forlinese si tratta di un momento di rilancio se appunto al compiersi di un giro di ruota che va a contenenell’ambito della pop song, da lei frequentata soprattutto tra re in sé gioie e sofferenze, a loro volta catturate dallo scorrere gli anni settanta e novanta, per incamminarsi sucintenso di questo flusso continuo. cessivamente lungo percorsi musicali impegnatiSamsara racchiude in sé voci e suoni, lascia canvi, a loro volta ricchi di classici otto-novecenteschi tare le parole e narra quei momenti in cui vivere siPadova (soprattutto nell’album Mélodie passagère). Per la gnifica aspirare a un’unità superiore, benché spesGran Teatro Geox Bissi Carla dei timidi esordi o l’Alice Visconti so si finisca per restare prigionieri di un imperfet12 gennaio, ore 21.15 trionfatrice a Sanremo con Per Elisa (1981) moto to paradiso terrestre che si chiama vita. E al protempo è trascorso, soprattutto nel senso di un’eposito calzano a pennello le frasi che Alice stesvoluzione stilistica che la conduce a smarcarsi dallo show sa pronuncia in un’intervista di tre anni fa: «Io lo chiamebusiness per diventare quasi subito l’interprete prediletta di rei percorso esistenziale, perché in fondo siamo qua per imFranco Battiato (cfr. ???): un’icona della canzone d’autore parare a dare un senso alla nostra vita, per cercare di comin un periodo transitorio per l’intera musica leggera italiaprenderne il significato. Certo le cose sono molto cambiate na. Insomma, per Alice quelli tra il 1981 e il 1998 sono anni e dal 1981 a oggi ho visto tutto modificarsi. Adesso, tra l’aldi grandi dischi – Alice, Azimut, Gioielli rubati, Park Hotel, tro, stiamo vivendo un momento talmente difficile – da ogni Elisir, Il sole nella pioggia, Mezzogiorno sulle Alpi, Charade, punto di vista – che, insomma, non è che si possa far finta di Alice canta Battiato – con tanti brani ancor oggi in scaletta. niente». ◼ Ma se Exit pare un titolo che, riletto a posteriori, sembra quasi anticipare il desiderio di Alice di uscire di scena dal mondo della discografia ufficiale (con progetti dedicati spesso a riletture di materiali sonori altrui), ora con Samsara il discorso quasi si capovolge: la parola d’origine sanscrita (letteralmente «scorrere insieme») connota, nelle religioni indiane dall’Induismo al Buddhismo, una dottrina che riguarda un ciclo di vita, morte e rinascita (non a caso sovente raffigurato come rotante). E questa rinascita per Alice passa attraverso dodici nuove canzoni scritte da alcuni «illuminati» degli anni sessanta, settanta, ottanta negli ambiti pop, rock, prog. C’è anzitutto Battiato con la melodia «Eri con me», quindi Mino Di Martino, già cantante/tastierista della rock band I Giganti, che firma ben quattro titoli («Morire d’amore», «Un mondo a parte», «Autunno già», «Come il mare»). A loro due si affianca una giovane conoscenza del pop contemporaneo, Tiziano Ferro, che le dedica «Nata ieri» e «Cambio casa», mentre la stessa Alice scrive «Orientamento» e «Sui giardini del mondo», insieme al primo chitarrista dei Bluvertigo, Marco Pancaldi. Importanti sono anche tre cover, forse i picchi del disco a livello di interpretazione vocale: «Il cielo», una delle prime ballad del Lucio Dalla cantautore; «Al mattino» un successo del complesso beat I Califfi; «’A cchiù bella» di Giuni Russo, versione-studio di una rilettura sonora dell’omonima poesia di Totò. In Samsara anche il team produttivo è vincente, a cominciare dall’ex-Japan Steve Jansen, per passare a Francesco Messina, storico alter ego artistico, fino a Marco Guarnerio, AlAlice. S « fica rosa della vittoria. L’inizio fu subito incoraggiante, visto che fu la ben più celebre conterranea Björk a scegliere il loro primo singolo per una compilation celebrativa dei cinquant’anni d’indipendenza del Paese dalla Danimarca. Passano invece quasi tre anni per vedere pubblicato il loro primo album Von, che in islandese significa speranza: a fronte di un’ottima reazione della critica specializzata, le vendidi Tommaso Gastaldi te risultano poco convincenti e la fama della band rimane relegata ai confini islandesi. Von è un disco giovane, che pecca n approfondito studio di etnomusicolodella poca esperienza dei membri del gruppo ma che contiegia e antropologia musicale potrebbe certamenne molti elementi che caratterizzeranno in futuro il sound te definire quanto la geografia di un luogo, ove dei Sigur Rós. Il passo successivo avviene all’inizio del nuosia nato un certo tipo di musica, possa aver influvo secolo, una nuova partenza e «un buon inizio», come reito sullo sviluppo della stessa. Ad esempio la nascita del blues cita il titolo del loro secondo disco Agætis Byrjum uscito nel è geograficamente connotata in una certa parte loro paese nel 1999 e successivamente in Europa d’America in un periodo storico ben preciso, e lo all’inizio del 2000. I Radiohead li scelgono come stesso può valere per la musica barocca, per il rap loro gruppo spalla per il tour di Kid A e finalmenJesolo o per la musica dodecafonica. Ma oltre ai persote cominciano a farsi conoscere anche nel vecchio Pala Arrex naggi, ai momenti storici e alle invenzioni tecnocontinente. Il successivo lavoro ( ), minimalista 18 febbraio, ore 21.00 logiche c’è un contesto territoriale che non può nel titolo e nelle sonorità, segna la loro ascesa al non essere preso in considerazione quando si anasuccesso, consacrato da una fortunata tournée e lizza la nascita di qualsiasi genere. La musica dei Sigur Rós è dalla firma di un contratto con una major. Takk… (grazie) esce nel 2005: rispetto ai lavori precedenti segna una svolta più positivista e luminosa, segnata da singoli come «Glòsoli» e «Hoppipolla», usata (a loro insaputa) come jingle durante una recente edizione del Festival di Sanremo. Il doppio cd Hvarf / Heim è invece una compilation mista tra rielaborazioni di pezzi precedenti e brani inediti, uscita in contemporanea con il dvd Heima in cui omaggiano la loro terra natia filmando una serie di concerti tenuti in luoghi caratteristici dell’Islanda. Se finora avevano fatto tutto da soli, per il disco successivo, Með suð í eyrum við spilum endalaus, decidono di affidarsi al produttore Flood (che aveva già indissolubilmente legata al luogo della sua nascita, l’Islanlavorato con Depeche Mode, U2 e Smashing Pumpkins, soda. Una terra dominata dai contrasti della natura, dall’estrelo per citarne alcuni): il risultato è un disco con canzoni più mizzazione dei suoi elementi, siano essi l’acqua sputata da un definite, con un suono volutamente più pop accostato a brageiser, il fuoco di un vulcano o le verdi distese di terra. Chi ni maggiormente vicini ai lavori precedenti. Nel 2011 alla questa nazione la vive, aldilà di tutto ciò che può normalMostra del Cinema di Venezia viene proiettato Inni, documente caratterizzare la vita di una paese, può contare come mentario in bianco e nero che raccoglie diverse esibizioni lifonte di ispirazione sulla bellezza di spettacoli naturali unive del gruppo: naturalmente sul red carpet non si sono fatci al mondo. I Sigur Rós hanno musicato questa bellezza inti vedere, anche perché impegnati nella lavorazione del loro contaminata del paesaggio islandese esportandolo nel monultimo disco, Valtari, che segna un ritorno alle origini mudo e diventando la colonna sonora del proprio Paese. La nasicali dei lavori iniziali. I Sigur Rós raccolgono al loro interscita della band ha una data ben precisa, il 4 dicembre 1994, no un mondo di suoni e musiche che parte da un certo gusto giorno in cui nacque la sorella di uno dei membri fondatori psichedelico di derivazioni floydiane, per aprirsi a influen(Jònsi Birgisson) alla quale presero in prestito il nome Sigur ze rock, elettroniche ma anche sinfonico-orchestrali. MusiRós, abbastanza comune da quelle parti e che tradotto signica aperta ed emozionale, cantata dall’eterea e femminile voce di Jònsi Birgisson in islandese e in vonlenska, o hopelandic, lingua totalmente inventata, con parole senza significaSigur Rós in concerto to, che tradotta in italiano suonerebbe più o meno come… (Ásbyrgi, 2006, foto di Anton Brink «speranzese». ◼ per www.myspace.com/sigurros). U l’altra musica Suoni, musiche e speranze: i Sigur Rós fanno tappa a Jesolo 35 l’altra musica 36 Da «Azzurro» a «Yellow Submarine», ecco il Carnevale dei colori coglierà le serate musicali d’ispirazione cromatica, da «Azzurro» a «Yellow Submarine», da «Black in Black» a «Purple Rain» fino ad «Abba Gold», con costumi e coreografie degli Abba all’oro puro. Oltre naturalmente a ospitare la sfilata di maschere, il corteo delle Marie (sabato 2 febbraio) per la prima volta senza il regista Bruno Tosi e a essere la postazione migliore per assistere ai tre voli dal campanile. Il primo, domenica 3 febbraio, vedrà la tradizionale discesa da ottanta metri d’altezza dell’Angelo del Carnevale, di Manuela Pivato che quest’anno avrà il sorriso e la grazia di Marta Finotto, la arà il Carnevale dei colori che, crisi o non Maria 2012. Il secondo, quello di domenica 10, coinvolgerà crisi, brillerà su maschere e coriandoli nei palazzi, nei invece un artista il cui nome sarà svelato solo all’ultimo. Per martedì grasso, invece, è in programma lo «svolo» del Leon: teatri, al cinema, nei musei e ovunque ci sarà spazio un gigantesco gonfalone di San Marco planee voglia di far festa. Si comincia il 26 gennaio e si finisce il 12 febbraio: in mezzo, rà su migliaia di nasi all’insù per salutare la ficompatibilmente con i tempi e le risorse, la ne della festa. manifestazione che per tre settimane trasforDi tonalità in tonalità, il Carnevale «Vivi i Venezia merà la laguna in un palcoscenico che avrà cocolori-Live in Colour» offrirà anche una modal 26 gennaio al 12 febbraio me fulcro una Piazza San Marco variopinta, stra di libri antichi sul colore nelle Sale Mocome prologo una colossale scorpacciata in numentali della Marciana, con letture tefondamenta di Cannaregio e come cerimonia di congedo la atrali musicate in tema e commentate da un straordinario Vogata del silenzio in Canal Grande tra le due ali dei palazzi teorico del colore come il professor Manlio Brusatin. Una illuminati da candele. mostra sull’utilizzo storico dei colori sarà invece presentata all’Archivio di Stato, dove saranno esposti documenti che racconteranno l’utilizzo delle tinte nei diversi ambiti sociali, dalla politica alla decorazione, attraverso i secoli. L’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti e la Casa del Cinema omaggeranno invece i dieci giorni più pazzi dell’anno con una rassegna cinematografica sui colori nel cinema. I titoli? Cromaticamente a tema, ovvio: Il pirata nero, La carrozza d’oro, Scarpette rosse. E ancora: la pista di pattinaggio in campo San Polo, le fiabe per bambini a Palazzo Grimani, i suoni e colori del Barocco a Ca’ Rezzonico. I colori, dunque, saranno il filo conduttore dell’edizione Tocchi d’arcobaleno anche nel programma teatrale che en2013 del Carnevale, così come ha deciso il direttore artistico trerà a Ca’ Pesaro con «Tutti i colori del mondo» di GioDavide Rampello che cita John Ruskin («Le menti più pure vanni Montanaro, al Museo di Storia Naturale con «Erboe più pensose sono quelle che amano i colori») per compenlato ovvero arzigogoli di un ciarlatano su natura e scienza» sare il budget ridotto rispetto a quello dell’anno scorso. Con e a Casa Goldoni con uno spettacolo itinerante. Avrà invece poco più di un milione di euro non si potranno fare miracoli tutte le tinte del mistero lo spettacolo curato da Alberto Toma, come spiega il presidente di Venezia Marketing & Eventi so Fei, che condurrà passo dopo passo in una Venezia insolita Piero Rosa Salva, il Carnevale di Venezia resta tra i più amati e segreta e, per una volta, più in bianco e nero che a colori. ◼ del mondo e i turisti in arrivo troveranno comunque una girandola di iniziative per tutti i gusti. Principe Maurice Agosti in Piazza San Marco Di colore in colore, il Gran Teatro di Piazza San Marco ac(foto www.carnevale.venezia.it). S cussiva, legata forse al fatto di aver cominciato la carriera come maestro di percussioni. L’incontro di sei anni fa con Fresu ha poi portato alla recente incisione di Alma, un disco nel quale ai due si unisce il violoncellista brasiliano Jaques Morelenbaum, dando vita a composizioni sognanti, poetiche, indi Giovanni Greto dirizzate verso una moderna «musica d’ambiente». Ma è al pianoforte che emerge la bellezza cristallina del suo tocco, nizia il 20 gennaio una nuova puntata di «Jazz l’agilità tecnica e una spiritualità di fondo. Groove», la rassegna che da otto anni, grazie al circolo Sia per chi non lo conosce, sia per chi lo abbia già visto, meculturale Caligola, riesce a portare un po’ di buona murita un ascolto non superficiale il chitarrista e compositosica, spesso felicemente di ricerca, nell’amre americano, nato a Newark, nel New Jersey, biente veneziano. Dopo una convincente esibiMarc Ribot, classe 1954. In un panorama musizione il 26 maggio 2009 nella basilica dei Fracale troppo spesso piatto, accanto a una serie di Mestre ri, ritorna Omar Sosa, musicista e compositointerpreti che durano il tempo di un disco, proCandiani mossi in maniera massiccia dalle case discografire cubano (nato il 10 aprile 1965 a Camaguey) Centro culturale Omar Sosa che sceglie di cimentarsi con il pianoforte solo. che (che spesso puntano tutto sull’aspetto esteti20 gennaio, ore 18.00 È sempre una sfida, quando un artista decide di Marc Ribot – Ceramic Dog co, cercando di renderlo trasgressivo, una parola farsi ascoltare in solitudine. Non c’è scampo, né che giorno dopo giorno si allontana dai confini 17 febbraio, ore 18.00 si può bleffare per mascherare eventuali lacune etimologici al punto che quasi niente ormai è in tecniche o espressive, quando si è da soli sul palco. Ci si spogrado di stupire) Ribot ha il coraggio di osare. Può essere un glia di ogni protezione e ci si offre non solo all’ascolto, ma bravo chitarrista jazz, mainstream magari. E lo vediamo in anche a un giudizio sul proprio modo di essere. Non tutti i duo con un monumento del piano-jazz come McCoy Tyner. progetti del musicista cubano hanno però incontrato il conOppure cerca di riscoprire personaggi dimenticati, ma fonsenso di pubblico e critica. Pensiamo a una noiosa, del tutdamentali per l’affermazione della musica cubana moderna, to fuori traccia, celebrazione dei cinquant’anni dall’uscita di andando a documentarsi sulla figura di Arsenio Rodriguez Kind of Blue, uno dei massimi capolavori discografici di Mi(classe 1911), rendendogli omaggio nell’album Los cubanos les Davis. In un teatro La Fenice rivelatosi inadatto a ospitapostizos (1998). Non ha certo paura di perdere la faccia. Se re certe proposte, assistemmo a un’esibizione imbarazzanne infischia di apparire o suonare sempre in maniera dignite, preceduta da una orribile Jam session con il percussionitosa, impeccabile, ed è capace di esibirsi anarchicamente, in un set costellato di sonorità noise, che possono anche infastidire un orecchio non aperto o accostumato, ma riescono a far breccia nell’immobilità di un ascolto banale, regalando emozionanti improvvisazioni. È ciò che capitò alcuni anni or sono, al tempo della lira, nell’aula Magna ai Tolentini, sede dello iuav. È forsta indiano Trilok Gurtu. In quell’occasione, Sosa sembrase per questo che Ribot piace tanto ai musicisti? Ha suonava un imbonitore, il quale, attraverso scenografie etnico-relito a lungo con Tom Waits e compare accanto a Marianne giose, cercasse di dare un senso a una musica buttata là. ViceFaithfull, Arto Lindsay, Caetano Veloso, Laurie Anderson, versa, nell’album Promise, registrato con il suo quintetto ad la grande cantante peruana Susana Baca, l’instabile MadeAmburgo nel maggio 2006 e con il trombettista Paolo Freleine Peyroux, la brasiliana Marisa Monte, Elton John, Lesu nella veste di ospite illustre, tutte le influenze del pianista on Russell, l’ex Led Zeppelin Robert Plant, fino al nostro – le radici latine, l’improvvisazione jazz, le espressioni meestroso Vinicio Capossela. Oltre a rispondere sempre presentropolitane contemporanee come l’hip hop, gli elementi ette, quando il sassofonista e compositore John Zorn lo convonici che rimandano alla trance music Gnawa del Marocco e ca per un nuovo progetto. Al Candiani ci sarà da soffrire. Lo alle tradizioni spirituali Yoruba – avevano prodotto un lavoascolteremo nel trio «Ceramic Dog», letteralmente «cane ro godibile e convincente, in cui anche l’utilizzo dell’elettrodi ceramica», un’espressione che sta a significare il gelo sotto nica, al giorno d’oggi diventato troppo spesso un abuso, era il quale si cela l’emozione, il cane fotografato nel momento stato pensato con intelligenza. Al piano solo Sosa dimostra in cui gli si rizza il pelo prima di un combattimento, gli innala propria iniziale preparazione classica e un’istintività permorati che si guardano fissi nel volto, assumendo un’espressione catatonica. Anche se al leader non piace che la sua musica venga inserita in un genere predefinito, Ceramic Dog è A sinistra Omar Sosa. un avant-garage trio – basso, chitarra e batteria – impegnato A destra Marc Ribot (il primo da sinistra) sulle elettrosperimentazioni ad alto volume. ◼ con i Ceramic Dog. I l’altra musica Al Candiani un 2013 di Jazz Groove 37 l’altra musica 38 Franco Battiato in tutto in tredici, artisti compresi: Francesco Messina, Dimitri Golowaskin, e Battiato che si esprimeva nella posizione del loto con sonorità gutturali e vocalizzi zen. Rimpiansi per anni ogni secondo della partita perduta e ricordo divertito quella sera ogni volta che penso al suo successo repentino di Giò Alajmo un anno dopo, affiancato da Giusto Pio, con cui creò un sodalizio strepitoso, e il ritorno alle canzoni. ranco Battiato non si può dire sia una persoNel giro di tre album diventò artista da oltre un milione na simpatica, ma forse è anche questo che lo rende di copie di dischi venduti («Bandiera bianca», presentato a simpatico. Gioca alla perfezione il suo ruolo di artiVenezia) e da lì in poi poté permettersi quasi ogni cosa, dissta diverso, che insegue la cultura, l’asacrazioni dei generi di successo, dei miscetismo, la spiritualità nei luoghi più lontani ti rock, incursioni nell’opera, nella musiPadova della storia, senza che si capisca mai bene doca classica, lirica, fusioni strumentali eletGran Teatro Geox ve vuole andare a parare, cosa gli passa davvetroniche acustiche regie di (spesso noio20 gennaio e 7 marzo, ore 21.15 ro per la testa, cosa sa o cosa ha orecchiato, se sissimi) film, passando con noncuranza il suo circondarsi di filosofi, maghi, teoreti, sada un documentario su Gesualdo BufaliUdine pienti sia verità o posa. Teatro Nuovo Giovanni da Udine no a un’apparizione al festival di Sanremo, Con lui mi sono incontrato e scontrato più da autore per Milva e Alice a traduttore in 24 gennaio, ore 21.00 volte negli anni, sorridendo alle sue battute musica del pensiero del filosofo Sgalambro. sarcastiche, ascoltando i suoi giudizi sferzanti, La sua casa è in effetti un piccolo borgo le prese di posizioni spesso arroganti, immediatamente doalle pendici dell’Etna, a Milo. Il salotto pieno dei suoi inpo aperte e disponibili, e condividendo il terreno comune, la quietanti quadri in stile arabo, un viottolo che si inerpica vermusica e la curiosità per la vita. so la cappella e la cantina trasformata in luogo di preghiera ed esercizio spirituale, lo studio dove un tempo elaborava le sue composizioni con un piccolo Atari St beandosi del poter riascoltare subito le proprie idee senza la mediazione del musicista come era toccato invece a Mozart. Il suo percorso artistico a scale di Escher (l’artista che disegnava per illusioni ottiche) ha, a leggerlo con attenzione, un’assoluta coerenza nel tempo. Battiato è riuscito a fare ciò che voleva, portando la gente dove voleva, dominando alla perfezione il mondo pop e penetrando mirabilmente quello colto giocando con ironia e non senza presunzione con le arti, i pensieri, le banalità e i luoghi comuni come nei collage di nastri del primo periodo. Franco era in origine il tipico immigrato al nord con la speSempre sul filo del rasoio nel suo rapporto con il pubblico ha ranza di diventare cantante. Il naso oblungo, i capelli ricci, l’accortezza di non tirare mai troppo la corda, pur consapela voce palatale, la voglia di stupire. In lui credette solo Giorvole che fra ciò che lui intende e ciò che la gente capisce da ciò gio Gaber, ma fu sufficiente. Dalle canzoni di protesta pasche lui propina c’è spesso un gap consistente, ma il gioco ha sò a quelle d’amore e poi sfidò la sorte con dischi troppo aliecomunque per entrambi motivo di soddisfazione. E così ecni per il tempo, «Fetus», «Pollution», incrociando territocolo di nuovo in tour, con l’orchestra, e un nuovo album cori affini a quelli di Frank Zappa senza sufficiente credibilità. me Apriti sesamo, che cita Gluck e Rimskij-Korsakov, Ulisse Di lui si parlava come di uno strano tipo piombato nell’uniin Dante e Santa Teresa d’Avila, e perfino un autore del priverso pop che portava crocifissi giganti in scena (ben prima mo barocco, Stefano Landi. di Madonna), parlava di inquinamento (ben prima del riIl tutto prenderà il via il 19 gennaio a Bergamo per toccascaldamento globale) e di genetica usando musicisti d’avanre subito il 20 Padova, teatro Geox (con replica il 7 marzo), guardia, strumenti elettronici e srotolando preservativi gie Udine il 24. Il venditore di tappeti sonori riapre il suo baganti sulla testa del pubblico. zar un’altra volta. Consapevole che qualcuno dei suoi tessuMentre il rock entrava nella sua fase critica lui era già olti è un falso, qualcuno vola davvero per magia, e che tu non tre. Tony Pagliuca, tastierista delle Orme, mi trascinò a forsaprai distinguere a prima vista l’uno dall’altro, finché non za a un suo concerto del 1978, contemporaneo alla finale dei avrai sviluppato il terzo occhio. ◼ mondiali fra Argentina e Olanda (che non vidi) in una notte di tregenda allo stadio Allende di Spinea. Credo fossimo Franco Battiato (francobattiato.it) Nel bazar del venditore di tappeti sonori F 1 di Fernando Marchiori 3 marzo 1978. Dalla chiesa di San Isepo a Castello un corteo di ottocento persone accompagna il feretro di Silvano Maistrello, il bandito Kociss, ucciso il giorno precedente mentre fuggiva in barca lungo un rio cittadino dopo l’ennesima rapina in banca. Ci sono i compagni in abito bianco, i familiari, i boss della mala veneziana e quelli della Riviera del Brenta che presto si scontreranno per il controllo del territorio. La gente lancia fiori dalle finestre. La gondola che porta la bara al cimitero di San Michele viene affiancata da un’improvvisata scorta di barche di contrabbandieri. Basterebbe questo scorcio su una Venezia quasi completamente perduta – quella, nel bene e nel male, più popolare e schietta – per cogliere la dimensione anche storica e sociologica dello spettacolo Kociss di Giovanni Dell’Olivo (la replica più recente è stata quella del 18 novembre al Teatro Goldoni, in occasione del Festival dei Matti). Ma la plebe stracciona, la santa canaglia della città lagunare fa da sfondo a molti quadri di un teatro-canzone che prova a tenere insieme la storia del ladro diventato famoso per la destrezza dei colpi e per le fughe rocambolesche con quella di una Venezia che, «segnata dalla miseria, tentava di rifarsi un volto». Il soggetto di Gianni De Luigi, le canzoni di Dell’Olivo e i disegni di Mauro Moretti – proiettati sul fondale e in parte eseguiti dal vivo su tavola grafica – ci raccontano la miseria del dopoguerra, i soldati alleati che sbarcano dalle navi ancorate in Riva dei Sette Martiri, in cerca di bettole e prostitute. Come la madre di Silvano, arrivata un giorno, dalle Puglie «incinta, a bussare alle porte di chissà quale avvenire. Un’altra puttana in concorrenza con le veneziane. Terrona per di più». Il piccolo cresce fra la strada e il rancore, reagisce presto alle offese di chi lo vorrebbe inchiodato a una subalternità umiliante e comincia a mettere a segno i primi piccoli furti nei negozi del centro, nelle gioiellerie del Lido. Diventa in breve un delinquente spietato e un attaccabrighe pericoloso, un ribelle orgoglioso che tiene più al rispetto che all’oro rubato e che sembra rappresentare il risvolto sottoproletario e disperato della rabbia che in quegli stessi anni dilaga nelle fabbriche e nelle scuole occupate. I giornali lo raffigurano come un eroe del cinema, tutti in città ne conoscono le imprese, che fino a un certo punto suscitano persino simpatia. Lo arrestano in una soffitta del Teatro Malibran, in un magazzino di vecchie scenografie dove si nascondeva con la giovanissima compagna; evade e riprende le sue scorribande. Quando lo mettono dentro, i detenuti lo acclamano; quando scappa stupisce per il suo coraggio. Lo stanno interrogando e si butta da una finestra del tribunale scivolando sul tendone di un negozio, per poi sparire tra le calli affollate. Lo stanno trasferendo al carcere di un’altra città e mentre il treno attraversa il ponte translagunare lui salta in acqua, dove un barchino spuntato dal nulla lo preleva facendolo sparire. Ma è anche capace di tornare indietro per aiutare un compagno di fuga da Santa Maria Maggiore facendosi prendere piuttosto che scappare da solo. Accanto ai musicisti del collettivo Lagunaria (Alvise Seggi, Stefano OtGiovanni Dell’Olivo (giovannidellolivo.com). togalli, Walter Lucherini, Jimmy Weinstein, Serena Catullo) le voci di Ilaria Pasqualetto e Giacomo Trevisan tracciano i contorni di una vicenda umana che sembra uscita da un romanzo. Alla prima è affidata la prospettiva affettiva sulla storia, che passa attraverso lo sguardo della madre di Kociss; al secondo il referto oggettivo dei fatti, che riproduce cronache e misfatti. Ma in dialogo con questi due piani narrativi, a loro volta intrecciati con i disegni che prendono forma sullo schermo, ce ne sono altri due: quello cui dà voce lo stesso Dell’Olivo, che diventa il respiro del ladro-acrobata anche quando le canzoni non gli danno la parola in prima persona; e quello appunto del coro cittadino che fa capolino tra colpi e inseguimenti, canali e calli, arresti e progetti di nuova vita, trovando concreta pronuncia in una lingua che impasta le colorite forme dialettali e il gergo della mala (la pula, la madama, i ghèbi, i sgòbi, ecc.). Il rischio di presentare un malvivente come un eroe, una sorta di improbabile Robin Hood nostrano, è sventato dalla crudezza dei fatti narrati e dalla messa a fuoco storico-antropologica del personaggio: «Kociss – dichiarano infatti gli autori – incarna le aspirazioni di una “non-classe” che, sognando i miti del riscatto individuale, è stata progressivamente marginalizzata e quindi dispersa nell’esodo inarrestabile che ha colpito Venezia negli ultimi cinquant’anni». Quanto all’altro rischio sempre incombente in operazioni del genere, quello cioè di scadere nel folklore musicale e nell’equivoco di una cultura popolare artefatta, Dell’Olivo non dimentica mai, da raffinato musicista e compositore qual è, i reciproci scambi verticali e le contaminazioni orizzontali che caratterizzano ogni tradizione. Se dunque nelle composizioni originali dello spettacolo non mancano echi dal Canzoniere Popolare Veneto, e se la citazione di un celebre canto della mala veneziana (Il primo furto) trova perfetta incastonatura nella filigrana drammaturgica, le sonorità del Collettivo Lagunaria (già apprezzate nel disco omonimo del 2009) si aprono a un ventaglio di influenze (melodie mediterranee, blues, flamenco, canzone popolare italiana e francese, ballate latinoamericane, ecc.) che proprio attraverso la contaminazione rendono viva e presente, fatta presente nella ricerca di un «popolare aldilà del popolare», la grande tradizione del canto veneto e veneziano senza fossilizzarla in un canone. ◼ l’altra musica La Venezia schietta e perduta di «Kociss» 39 l’altra musica 40 «…Cossa sarala ’sta Merica» L’emigrazione italiana nei canti popolari G di Gualtiero Bertelli li emigranti italiani, partiti tra Ottocento e Novecento a centinaia di migliaia verso le mete più diverse e lontane, hanno portato con sé pochi bagagli, grande paura, verdi speranze e canti, tanti canti della loro terra che hanno gelosamente conservato per decenni, infoltendo le rotte del mondo di vilote e tarantelle, stornellate e canti epico-lirici. Superato il momento del distacco e temporaneamente soffocata l’angoscia per l’ignoto, sul ponte delle navi riservato alla terza classe comparivano chitarre, organetti, fisarmoniche «...e da bordo cantar si sentivano / tutti allegri del suo destin». Il punto di partenza per affrontare il tema del vastissimo repertorio dell’emigrazione è questo: il patrimonio di canti e di musiche che i nostri emigranti hanno trattenuto come il più prezioso e vivo dei ricordi. Là dove c’è stata un’alta concentrazione di emigranti italiani il repertorio si è consolidato e permane ancora oggi indelebile, specialmente nelle aree rurali, come succede ancor oggi anche nel nostro Paese. Nelle nostre campagne, nelle montagne e spesso anche in città, tra l’Otto e il Novecento si muore di fame, di pellagra, delle mille ragioni della miseria e dell’ignoranza; andarsene sembra l’unica soluzione, lasciare tutto e andare “a catar fortuna”. A centinaia gli imbonitori prezzolati, e i venditori di carne umana girano le piazze del nord e del sud promettendo terre meravigliose, paesi di sogno. «...Di tanti che sono andati nel Brasile a travagliar / Nessuno senz’oro non s’ha visto a ritornar / L’America, l’America si sente cantar / Andiamo nel Brasile la fortuna a ritrovar» e la conclusione non lascia scampo: «Finisco sta canzone per chi la vol ben capire / Chi vuole far fortuna el vada nel Brasile / E ora ho terminato questa mia canzon / Queste sono le notizie buone, vendi il letto e anche il pajon». Vendi il letto e anche il materasso e scappa via! E non solo dal Veneto o dal nord: «Chi scumpigli chi c’è ni li paisi, / ntra li famigli, ntra tutti li casi: / di po’ ca di L’America si ‘ntisi / pi la partenza ognunu fa li basi». In «Merica» troveremo non solo fortuna, ma anche, finalmente, giustizia sociale: «Quando saremo in Merica / la terra ritrovata / noi ghe darem la zapa / ai siori del Trentin», e in un altro canto: «...Vu altri siori cavé i guanti / e andé te i campi a laorar!». Non sapevano neanche cosa fosse il mare, i nostri montanari trentini o abruzzesi, i contadini della Lombardia e quelli della Puglia che mai si erano staccati dalla loro terra, mai nella vita. Non l’avevano mai visto, mai sarebbero riusciti a immaginarlo così; e non un qualsiasi mare, ma l’oceano, «l’immenso» di cui non si riesce a ridurre la paura, neppure affogandola in una canzone nel tentativo di sdrammatizzare. Quando arriva il momento del distacco e l’ignoto ti prende alla gola, il canto si fa vero, si fa emozione, si fa angoscia: «... Parto per l’Australia / parto diman matina / Non aspetarmi invano / non aspetare il mio ritorno / cercati un altro amore / sarai felice un giorno». Gli occhi si riempiono di lacrime amare come il fiele e ci si affida alla buona sorte, alla fortuna: « ...Tante funtane faru l’uocchie mie. / Nun so’ funtane, no, ma fele e tassu, / tassu che m’entassau la vita mia. / Io partu pe’ l’America luntana, / nun sacciu adduje me porta la fortuna». Il momento del distacco è stato cantato mille volte, in tutte le lingue e i dialetti della nostra penisola. A volte con malinconica dolcezza: «Al ciante il gial / al criche il dì / Mandi, ninine mê / mi tocie partì», a volte con sfrontata sicurezza e malcelata preoccupazione: «E mi parto vago via / con la musica in alegria,/ Budapeste in Ungheria, / la me vita se finirà». Partivano in allegria paesi interi con il prete, la maestra, la banda in testa sperando, sognando un’altra vita, poiché peggio di così non poteva andare. Ma la partenza diventa dolore vero quando si rompe un amore ancora vivo e senza futuro: «Quando sarai via nell’America / tu sposerai un’americana / non penserai più di me italiana...», quando si spezzano le famiglie: «Cara Rita ti devo lasciare / me ne vado a cercare i confini. / Ti raccomando i miei cari bambini / che mi distruggo doverli lasciar». Chissà quante Catinete si sono sentite avanzare promesse come queste: «No sta piandar Catineta / se in America ho d’andar: / che se po la me va dreta / se se podaremo sposar // Ne la casa dei me veci / andarem le nozze a far; / ghe sarà del vin a seci / e polastri da strazhar». Ancora una volta un sogno piccolo, ma concreto: vivere nella propria terra senza l’incubo della fame! Comunque si partiva, il viaggio più faticoso, lungo, talvolta tragico era quello sul mare. «Trenta giorni di nave a Vapore / che nell’America noi siamo arrivati / e nell’America che siamo arrivati / abbiam trovato né paglia e né fieno / Abbiam dormito sul piano terreno / e come bestie abbiamo riposà». Ma non sempre si arrivava. «...Va te pure o figlia mia / in mezo al mare te sfonderà / Quand l’è stata in mezo al mare / el bastimento se gà sfondà /...Bastimento l’è andato al fondo / e in questo mondo ritorna più». È certo il triste presagio di una madre, ma anche il dato di fatto che naufragi e disastri accadevano con una certa frequenza. In realtà attraversare gli oceani, di quei tempi, con quelle navi, con quel carico di vite umane era davvero una sfida alla buona sorte e spesso è accaduto che si perdesse la sfida. Il naufragio più noto, perché cantato da una drammatica e bellissima canzone, è quello del vapore Sirio. Era il vanto della marina italiana e quel 4 agosto 1906, alle cinque del pomeriggio, la giornata era stupenda, la visibilità assoluta. Il vapore, tra lo stupore dei comandanti di tutte le navi che stavano in zona, andò a impiantarsi sugli scogli davanti a Capo Palos, vicino a Cartagena. Scogli segnati su tutte le carte nautiche. Solo che i nostri ufficiali erano partiti senza le carte ed erano andati ad incagliarsi proprio lì, dove nessuno avrebAngelo Tommasi, Gli Emigranti, 1896, Galleria Nazionale d’Arte Moderna (Roma). Emigranti italiani in attesa dell’imbarco. mente raccontata dalle canzoni anche in tempi recenti. Il cantastorie ce la ricorda così: «Il 22 di agosto a Boston in America / Sacco e Vanzetti van sulla sedia elettrica / e con un colpo di elettricità / all’altro mondo li voller mandar. // ...E tutto il mondo intero reclama la loro innocenza / ma il presidente Fuller non ebbe più clemenza / “Siano essi di qualunque nazion / noi li uccidiamo con grande ragion». Il 23 agosto 1977, esattamente cinquant’anni dopo, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, dicendo: «Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti». L’emigrazione riprese con drammatico vigore nel secondo dopoguerra. Ancora oceani: Canada, Venezuela, Australia, ma anche tanta Europa. «Partono gli emigranti / partono per l’Europa, i deportati della borghesia» cantava Alfredo Bandelli, interpretando così l’angoscia degli «uomini-carbone» caduti nelle miniere del Belgio e della Francia; Marcinelle è certamente l’episodio più noto e drammatico, cantato in modo straordinario dal cantastorie siciliano Cicciu Busacca, su testo del poeta Ignazio Butitta, con la ballata «Lu trenu di lu suli». Adriano Callegari, cantastorie pavese, ci ricorda la spaventosa vicenda del ghiacciaio di Mattmark, in Svizzera :«Ancor oggi una coltre ricopre / operai ch’eran pieni di vita / e una bara di neve indurita / ma salvarli nessuno riuscì». Schiacciati da un enorme blocco di ghiaccio, perirono 108 operai, tutti immigrati, 56 dei quali italiani. Era il 30 agosto del 1965; morti annunciate poiché il ghiacciaio da tempo dava segnali inequivocabili. Due anni prima un’analoga criminale sordità aveva strappato all’Italia un intero paese con i suoi 1918 abitanti: il disastro del Vajont e la distruzione di Longarone. Non sono ancora passati cinquant’anni. Le lapidi, i lutti ancora vivi, le canzoni sono lì a ricordarlo anche agli occhi che non vogliono vedere, alle orecchie che non vogliono sentire. Quello dell’emigrazione è stato ed è ancor oggi un tema molto evocato anche nelle canzoni d’autore e nella musica leggera, a volte come pretesto, ma molto spesso con grande realismo e affetto. È impossibile affrontare con sufficiente attenzione anche questa parte di repertorio. Voglio ricordare però una canzone, di cui resta solo il testo in quanto si è perso traccia della musica e che testimonia di quanto fosse presente il problema nei nostri musicisti: «Qui fa tanto freddo, / piove sempre, / parlami del sole, / qui non c’è» recita «Con tanta nostalgia» di Cajati-Vaime-Casini, Premio della critica discografica 1972, interpretata da Nilla Pizzi. E continua: «Sto in una baracca / come fossi in guerra, / forse c’è la guerra / ma solo per me». Possibile che ci siamo dimenticati di tutto ciò? Accadeva appena ieri! ◼ l’altra musica be mai potuto immaginare che potesse succedere. Sciatteria umana questa volta, colpevole scelta altre; come nel caso della nave Principessa Mafalda, un tempo ammiraglia della flotta italiana, che nel 1927 era ormai un rudere da disarmo. Infatti quello doveva essere il suo ultimo viaggio e per otto volte i motori si fermarono nel Mediterraneo, quasi ammonendo di non proseguire. Così non fu, si puntò la prua verso l’America del sud e a qualche centinaio di miglia dalla costa argentina si staccò una delle due eliche provocando il rapido affondamento dell’imbarcazione con buona parte del suo carico umano. Sono storie che mettono in evidenza il dramma ancora presente di chi attraversa il mare affidandosi a mani irresponsabili, a mezzi inadeguati o a coscienze infami: talvolta per una vacanza, il più delle volte per sfuggire alla fame ed alla guerra. Giunti finalmente alla meta i nostri nonni si son dovuti scontrare con le realtà più dure: foreste immense da disboscare in zone desolate, lavori pesanti e umili, condizioni di vita terribili in catapecchie o in block in cui si viveva in dieci per stanza, ma soprattutto le attese di guadagno vengono ovunque deluse. «Cara moglie di nuovo ti scrivo / che mi trovo ai confin de la Francia / anche quest’ano c’è poca speranza / di poterti mandar dei dané // La cucina l’è molto asai cara / e di paga si piglia asai poco / e i bresiani se ne vano al galopo / questa vita la poso più far». E non importa che si fosse nelle «Meriche» della fine Ottocento o nell’Europa del secondo dopoguerra: le condizioni di vita erano comunque segnate dalla precarietà, dall’emarginazione, dalla miseria. Nel 1962 a New York Roberto Leydi raccoglie questo grido di un venditore di fiori immigrato italiano: «Flowers! Flowers! / Cheap ti cheap today! / Chi me l’à fatto ffà / vennì sta terra cà/ in cerca di speranza/e nun l’aggia truvà./ Crysanthem, pink, roses ,/ cheap to cheap today! / Flowers! Flowers!». A condizioni di vita inaccettabili si aggiungono la discriminazione razziale, la xenofobia antitaliana, un vero e proprio odio diffuso che, specialmente negli Stati Uniti, sfocia in atti di grande violenza: siamo stati, dopo i neri, il popolo più linciato d’America, in triste compagnia con i cinesi, e la lirica popolare ci consegna una dolente traccia di tanta tragedia. «Canto per quei linciati, / che laboriosi e onesti, / perché italian nomati / non fu pietà per questi; / In tanta strage, perfidia, orror! / uccisi, appesi qual malfattor ,// ...Tradotti alla foresta / son tutti e cinque appesi, / di colpi una tempesta,/ atrocità palesi. / Grida di gioia? Infamia, orror! / Aimè! che sento mancarmi il cuor». Questa citazione è tratta dal foglio volante «I cinque poveri italiani linciati a Tallulah in America» scritto da Corso Antonio, ex sottufficiale di finanza; Tipografia M. Artale, Torino 1899. Cinque siciliani furono linciati nel 1899 a Tallulah, in Louisiana, a causa di un banale alterco con un vicino di casa, giudice della contea. Benché arrestati e chiusi in prigione, furono aggrediti, trascinati fuori dalle celle e impiccati. I giornali dell’epoca condannano l’accaduto, anche se c’è chi non manca di sottolineare come gli italiani siano «una colonia di viziosi omicidi e assassini» per i quali «omicidio e sangue sono quello che rose, luna piena e musica sono per poeti ed amanti», e indica per i cittadini di Tallulah come unica soluzione «estirpare la colonia». («The New Orleans Daily State», 27 settembre1899). Tanto odio, che aveva anche connotazioni politiche, si rappresenta agli occhi del mondo con l’assassinio consapevole dei due incolpevoli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti il 22 agosto 1927, una vicenda che è stata ripetuta- 41 l’altra musica 42 Il ritorno di «The Wall» Parla Roger Waters I di Giò Alajmo l Muro sta per crollare su Padova. Roger Waters realizza quello che da oltre trent’anni era solo un sogno, portare in tour negli stadi The Wall, l’opera rock che incise con i Pink Floyd nel 1979 e che all’epoca ebbe solo poche possibilità di essere messa in scena per la sua complessità tecnica. Appena 29 repliche in sole quattro città: Los Angeles, New York, Dortmund, Londra. La vidi a Dortmund nel 1981, l’ultimo degli show tedeschi in una Westfalenhalle trasformata da velodromo smontabile in teatro gigante per undicimila spettatori tutti seduti in posti numerati. Fu un’esperienza sconvolgente trovarsi di fronte a questo immenso muro di mattoni di cartone, decine di teli neri col simbolo dei martelli incrociati appesi al soffitto a fare da trappole acustiche, il suono quadrifonico che ti aggrediva dai lati e per la prima volta l’amplificazione sospesa per aria, al centro, per non disturbare la visuale e il movimento. L’idea dell’impresario veneto Francesco Sanavio era di portare The Wall in Italia all’Arena di Verona, ma non se ne fece nulla. Non c’era una tecnologia adatta all’epoca per sospendere in uno spazio aperto tanto materiale, le luci, le casse di amplificazione, per non parlare delle marionette giganti (il maestro, la madre, la moglie) – oltre al maiale volante – previste dallo spettacolo, e il modello di aereo Sptifire che all’inizio si schianta contro il muro dopo aver sorvolato le teste del pubblico in platea. «Sono estremamente contento di eseguire The Wall nuovamente in Europa – ha annunciato Roger Waters –. Sarà motivo di grande divertimento per tutti noi. Ho rielaborato lo spettacolo per eseguirlo all’aperto in grandi stadi. È davvero buono. Ancora più commovente, coinvolgente, drammatico ed emozionante degli spettacoli nelle arene. Ho dovuto ripensare il tutto per gli stadi. Non si sarebbe potuto fare quarant’anni fa. Non avremmo potuto riempire lo spazio in un modo emotivamente, musicalmente e teatralmente soddisfacente. La tecnologia è cambiata. Ora si può». È cambiata la tecnologia di allestimento dei palchi, più solida, snella e affidabile di una volta, che consente quindi tempi di montaggio e smontaggio più celeri. È cambiata la tecnologia audio, con il controllo dei suoni facilmente realizzabile al computer, invece che con la quantità di nastri analogici e registratori a bobine multitraccia che andavano sincronizzati a mano. È cambiata la tecnologia di proiezione, che nel 1980 utilizzava tre proiettori cinemascope puntati sul «muro» e oggi consente di soncronizzare quarantanove proiettori digitali trasformando l’intero muro in uno schermo gigante, ed è cambiata la videografica, con effetti straordinari, che fanno letteralmente «vivere» la parete bianca in tre dimensioni. L’allestimento di The Wall 2012 prevede la costruzione di un vero muro di 150/180 metri alto 12 che taglia da parte a parte lo stadio collegando le tribune opposte e che sarà completato durante lo show secondo i tempi narrativi. A differenza dello spettacolo nelle arene, che ha girato il mondo negli ultimi tre anni, le parti più esterne rimanderanno a distanza le immagini dei musicisti al pubblico più lontano, fino al completo innalzamento della barriera bianca, destinata poi a crollare al suolo letteralmente nell’ultima scena. Si tratterà con ogni probabilità del concerto itinerante più grande mai allestito nella storia. Basti pensare che come palco posteriore di supporto sarà utilizzata la stessa colossale struttura alta 18 metri utilizzata come palco principale nell’ultimo tour di Madonna. The Wall ebbe solo una replica all’aperto, appositamente allestita da Roger Waters a Berlino nel 1990, l’anno dopo la« caduta» dell’altro famoso Muro, quello che aveva diviso per vent’anni una città e due mondi. Ebbi la fortuna di assistere non solo allo spettacolo ma anche, del tutto casualmente, alle prove generali la sera prima, arrivando per un sopralluo- go nella Postdamer Platz prima che si accendessero le luci e partisse lo show per poche centinaia di fortunati. Fu un’esperienza traumatica. Eravamo nella terra di nessuno, sminata da poco, sopra il bunker di Hitler, con il muro ancora in piedi con le sue recenti ferite, che si poteva attraversare da Ovest a Est guardati dall’altra parte del filo spinato da sorridenti Vopos armati, con al guinzaglio dentuti cani lupo che sorridevano essi stessi, e la gente si divertiva ancora incredula a passeggiare da una parte all’altra della barriera di cemento armato mentre ogni tanto un taxi dell’est arrivava a ovest fermandosi per chiedere informazioni sulle vie di una città sconosciuta. In quest’area il giorno dopo si radunarono quasi cinquecentoLa regia audio «analogica» dei Pink Floyd e il burattino gigante di Teacher sul palco in The Wall a Dortmund, 1981. me un dirigibile teleguidato. Le marionette giganti sono statiche e non vagano per il palco come il maestro 1980. Ma le proiezioni sul muro, che conservano i cartoons originali di Gerard Scarfe ampliati e corretti, sono di straordinaria efficacia dando vita alla storia e al muro stesso, film nel concerto, meglio di come rese l’opera la versione cinematografica ideata da Alan Parker con l’ancora sconosciuto Bob Geldof. Nonostante il suo gigantismo The Wall era un’opera molto cupa e introspettiva. E, come capita alle opere d’arte, con diversi piani di lettura. Nei fatti l’opera riprende e sviluppa diversi temi cari a Waters e già affrontati in passato, l’isolamento, l’alienazione, la scrutati dai fari che controllavano la zona, vedendo poi l’arrivo dei soldati, della banda e del coro dell’Armata Rossa di stanza a Berlino, sulle camionette e i blindati e poi con banda fanfare e bandiere, coinvolti per le scene di massa dello show. Per l’edizione del Terzo Millennio Roger Waters ha puntato sulla grafica computerizzata più che sul movimento delle masse, ma l’effetto è comunque clamoroso. Tutti gli elementi dell’allestimento 1980 sono stati conservati, lo Spitfire, la quadrifonia, la stanza che si apre nel muro, la costruzione mattone per mattone, le marionette giganti e il maiale volante, con qualche aggiustamento. Il maiale è diventato un cinghiale zannuto per motivi di copyright e si muove co- morte del padre in guerra durante lo sbarco di Anzio, il potere della macchina da spettacolo, il controllo del pensiero e delle masse, l’educazione, i rapporti familiari, la droga, il totalitarismo politico. La decisione di scrivere The Wall nasce durante il precedente tour di Animals, il lavoro ispirato alla Fattoria degli animali di Orwell, quando Waters, irritato dalle urla di un fan esagitato gli sputò in faccia dal palco. Quel gesto, di cui si pentì subito dopo, gli ispirò la storia basata sul rapporto di sudditanza del pubblico e sul potere delle rockstar chiuse nel loro mondo dorato, capaci di creare con i fan un rapporto di tipo quasi nazista. E così i Pink Floyd diedero vita alla storia di Pink, rockstar che troviamo subito sul palco di un concerto, e che analizza il suo passato, la perdita del padre, la madre iperprotettiva, una educazione autoritaria, un matrimonio infelice, la scoper- Scene da Roger Waters’ The Wall 2011 (in alto a sinistra, The Teacher, sopra, il maiale volante). l’altra musica mila persone provenienti da ogni parte di Berlino, della Germania, del mondo, per una celebrazione straordinaria di un isolamento che aveva avuto finalmente termine, di un altro muro che era finalmente crollato. Fu uno straordinario evento, malamente raccontato in tv e ridicolmente reso dalla versione su piccolo schermo. Invece lì, più che la presenza di una così incredibile serie di artisti ad aggiungersi a Waters e rendere vivo lo show, dagli Scorpions a Cindy Lauper, da Joni Mitchell a Van Morrison, da Ute Lemper ai Chieftains a cui era stato affidato l’intrattenimento della folla, la presenza dell’orchestra sinfonica Rundfunk diretta da Michael Kamen, fu il trovarsi avvolti dall’inquietante rumore delle pale degli elicotteri, 43 l’altra musica 44 ta del tradimento, l’allontanamento dalla realtà, la paranoia, la costruzione di un alto muro fra sé e il mondo fino all’isolamento totale, rotto solo dalle necessità del business con un medico che lo droga e un manager che lo riporta in scena perché lo show deve continuare. Ma la mente di Pink è ormai sconvolta ed entra nel gioco come un dittatore, che maltratta i fan, va a caccia dei diversi, trasforma l’esibizione in una specie di raduno di Norimberga, fino a esplodere, svestire i panni della star e cercare espiazione in un processo in cui la società, la famiglia, madre, moglie, maestro e giudici gli impongono di abbattere il muro che lo divide dal mondo reale. E il muro crolla letteralmente sul palco con un effetto scenico I dissidi personali si appianarono soltanto dopo anni di carriere parallele, quando Bob Geldof convinse i quattro musicisti, Waters, Gilmour, Mason e Wright a tornare insieme per un giorno in occasione della replica dell’evento benefico Live Aid nel 2005, il Live Eight, e i quattro accettarono dicendo che i loro dissidi personali erano meno importanti della buona causa del concerto. Intanto The Wall è andato ben oltre le intenzioni dell’autore trasformandosi da realizzazione di un incubo personale nel simbolo pacifista di totalitarismi e diffidenze da abbattere. «In realtà – spiega Waters – noi siamo divisi gli uni dagli altri solo dal caso e dalla geografia. Chi cresce in un piccolo paesello dell’Iran ha più facilità di sviluppare viosioni politiche estreme di chi cresce nel Kansas. Sono divisioni del tutto casuali. Ma oggi per fortuna c’è la tecnologia, c’è facebook, twitter, e si può capire meglio come vivono persone molto distanti. Su youtube, per esempio, c’è il video di una band iraniana che ha preso alcuni brani di The Wall e ha cambiato i testi raccontando come si vive sotto il regime di Teheran, e il video ha fatto il giro del mondo. Comunicare è più facile». Ateo, cresciuto da una madre trotzkista, Waters, sessantanove anni, non si meraviglia quando nel suo lavoro c’è chi trova tracce di Sartre, e riferimenti all’antipsichiatria. «Sono cresciuto con quella cultura, erano le cose che sentivo e di cui si parlava, non c’è da meravigliarsi che si ritrovino in ciò che scrivo». L’ultimo muro che vorrebbe abbattere è quello che divide i palestinesi di Gaza da Israele, e a fine novembre Waters si è recato all’Onu a parlare di Palestina alla commissione per i diritti umani. Ha anche sostenuto la rielezione di Barack Obama, «e sono felice che sia stato rieletto. Ma non vuol dire che ap- senza pari. In origine mezzo spettacolo era realmente suonato dai musicisti nascosti alla vista del pubblico, confuso anche dalla comparsa improvvisa di una band di cloni. Nella versione attuale Waters si porta più spesso dalla parte del pubblico, quasi come un narratore, giocando anche con la sua stessa immagine ripresa nel 1981, in un duetto tra due epoche. Per i Pink Floyd, The Wall fu il culmine della carriera e l’inizio della fine. I contrasti personali già affiorati in Wish You Were Here e acuiti in Animals, dove Waters era diventato predominante nelle scelte compositive raggiunsero qui l’apice, al punto che il tastierista Rick Wright fu licenziato dal gruppo e assunto solo come turnista. Alcune idee di The Wall furono poi sviluppate nel successivo The Final Cut che apparve piuttosto come un album solista di Waters che non un progetto collettivo e segnò la fine del sodalizio, con i rapporti affidati ad avvocati e la spartizione di diritti e perfino di materiale scenico. provi tutto. Per esempio non il fatto che ci siano persone chiuse in una stanza che possono decidere senza sottostare ad alcun controllo legale di uccidere qualcuno con un drone da un’altra parte del mondo». Intanto il suo nome è comparso nella lista di Forbes come quello del secondo musicista più ricco del mondo per gli incassi tra il maggio 2011 e il corrispondente mese del 2012. Merito del tour in spazi chiusi di The Wall che gli avrebbe fruttato 88 milioni di dollari per 192 spettacoli davanti a quasi tre milioni e mezzo di spettatori. Non male per uno che si lamentava oltre trent’anni fa di vedere gli spettatori avanti a sé come fossero tanti impersonali sacchetti di denaro... ◼ Scene da Roger Waters’ The Wall 2011 (in alto a sinistra: Big Mother; a destra: Roger Water tra i suoi musicisti fra le rovine del Muro). Tutte le foto sono di Giò Alajmo. Al Goldoni grandi attori per uno spettacolo pluripremiato L di Carmelo Alberti a luce abbagliante dei fari rivolti verso la platea, puntati contro gli occhi dello spettatore, non basta ad attenuare il lungo viaggio dentro la notte che Antonio Latella fa compiere alla protagonista di Un tram che si chiama desiderio, il capolavoro di Tennessee Williams rappresentato al Teatro Goldoni di Venezia, pochi giorni dopo aver ottenuto importanti riconoscimenti, fra i quali il Premio Ubu 2012 per la regia, il Premio Hystrio per l’interpretazione a Laura Marinoni come miglior attrice, l’Ubu 2012 a Elisabetta Valgoi come miglior attrice non protagonista. Scritto nel 1947, nello stesso anno il dramma A Streetcar Named Desire è consacrato al successo dalla realizzazione teatrale newyorkese e, nel 1951, dalla versione cinematografica di Elia Kazan, interpretate entrambe da Marlon Brando. In Italia la prima esecuzione è curata da Luchino Visconti, nel 1949 all’Eliseo di Roma, interpretata da Rina Morelli, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. Per la sua messinscena, prodotta da Emilia Romagna Teatro e dal Teatro Stabile di Catania, Latella ha pensato a una scena rovesciata, ideata da Annelisa Zaccheria, che, entro lo spaccato di un interno familiare in costruzione, assembla un letto, un tavolo, un frigo, una vasca da bagno e altre suppellettili, utilizzati come piano d’appoggio per riflettori e amplificatori. È uno spazio che altera la visione teatrale, fino a inglobare la sala e il pubblico, con l’aiuto delle luci dinamiche e colorate di Robert John Resteghini e i suoni dilatati e ritmati di Franco Visioli. Vi abitano sei personaggi, avvolti da un gioco estremo di bagliori e oscurità, colorazioni e segni liquidi; vestite da Fabio Sonnino anche con le magliette stampate con i volti dei divi del film, le sei figure paiono manovrate come le marionette d’una storia già accaduta: tranne uno che, da suDue momenti di Un tram che si chiama desiderio (foto di Brunella Giolivo – emiliaromagnateatro.com). bito, si comporta alla stregua di un narratore che incalza lo sviluppo dell’azione, di un regista impegnato a dare particolare rilievo alle battute, imponendo un andamento enunciativo alle didascalie. Gradualmente la rappresentazione si rivela una proiezione onirica della mente di Blanche, nel corso di una seduta d’analisi governata dal Dottore, il vero artefice dello psicodramma che materializza le fantasie caotiche della mente di un’infelice, incapace di scindere le proprie ossessioni dalla realtà. Rileggendo con attenzione il testo di Williams, Latella assorbe una molteplicità di segnali che evidenziano la distanza che intercorre fra la disperazione di una bugiarda per necessità, che mente per contrastare la sua disperante solitudine, e l’instabilità dei sentimenti di coloro ai quali chiede soccorso. Blanche piomba nel piccolo appartamento di Stella, la sorella sposata con l’operaio polacco Stanley e in attesa di un bambino: la casa si trova nella povera periferia di New Orleans, in un luogo chiamato Campi Elisi, dove per arrivare occorre prendere un tram che si chiama «Desiderio». Dal momento in cui l’aristocratica vagabonda entra nella villetta dipinta di bianco, ha inizio l’ultima sfida contro la propria emargina- zione sociale, sperando ancora d’incontrare qualcuno con cui condividere un’esistenza senza amore: per un attimo sembra averlo trovato in Mitch, un giovane solitario e incerto, suggestionato dall’amicizia di Stanley. Ma ben presto la presenza dell’ex-insegnante d’inglese, bollata dal marchio di essersi prostituita, sia pure per la disperazione cagionata da una lacerante delusione amorosa, non può essere ammessa nelle stanze in cui sta per nascere una vita. L’attrazione-scontro con il violento Stanley, intriso dal comune istinto animalesco, si conclude con l’internamento di Blanche in una clinica, in cui prende le mosse il procedimento catartico voluto dal Dottore. Il merito di avere risolto la complessità dello spettacolo acre e antirealistico di Antonio Latella appartiene agli interpreti: la straordinaria Laura Marinoni elabora il ruolo di Blanche lungo il filo sottile che separa l’esaltante pulsione di una donna verso la libertà delle passioni dall’eterno sacrificio a cui è destinata l’esistenza femminile; la splendida Elisabetta Valgoi sprigiona l’energia necessaria a difendere la certezza delle scelte di Stella, fino a ergersi a simbolo della potenza creatrice della maternità. A Vinicio Marchioni spetta il merito di aver disegnato uno Stanley tenero e violento; altrettanto efficace risulta l’impegno di Giuseppe Lanino per Mitch. Il bravo Rosario Tedesco è, invece, il medico impegnato a sciogliere le ossessioni di Blanche; infine, Annibale Pavone assume il compito di dare voce a una coralità d’ambiente. ◼ prosa «Un tram che si chiama desiderio» secondo Antonio Latella 45 prosa 46 Ricordando Annibale S di Enrico Fiore ono vicini, nella Villa Comunale di Castellammare di Stabia, i monumenti a Raffaele Viviani e ad Annibale Ruccello, che di Viviani si considerava figlio. Ed entrambi quei monumenti recano la firma di Antonio Gargiulo, un pittore e scultore, anche lui stabiese, che come me vide crescere (in tutti i sensi) Annibale. Il monumento a Ruccello fu inaugurato la mattina del 31 maggio 2000, e nella circostanza dovetti venire da Napoli – dov’ero nato e dov’ero tornato, dopo quarant’anni vissuti a Castellammare – per dire qualche parola di commento. E non seppi (giacché, evidentemente, non avrei potuto fare altro) che riassumere le sensazioni che avevo provato vedendo in anteprima, nello studio dell’artista, il busto scolpito da Antonio Gargiulo. Il tempo è strano, crudele e tenero insieme. A volte, con il trascorrere degli anni, la memoria di certi fatti e di certe persone sbiadisce progressivamente, fino al punto che quei fatti e quelle persone vengono completamente cancellati; altre volte, invece, proprio il precipitare degli anni determina intorno a un fatto (e ancor più a una persona) come un alone di risonanze arcane, di modo che la persona medesima – soprattutto se è scomparsa – diventa, così sfocata dal consumarsi del ricordo, più vera di quanto fosse nella realtà: e giusto perché, «ricreata» quasi in sogno, si fa intangibile e, quindi, incorruttibile. A questo m’aveva indotto a pensare il busto di Annibale scolpito da Antonio. A mano a mano che gli giravo intorno, mi sembrava che ritraesse, a seconda del punto da cui lo guardavo, sempre una persona diversa. E non si trattava, naturalmente, che delle diverse facce della multiforme personalità di Ruccello. Antonio Gargiulo quelle diverse facce le aveva afferrate (e fuse, pur senza confonderle) proprio perché, passati quasi quindici anni dalla morte di Annibale, e non avendo a disposizione che poche foto di lui, aveva dovuto farne rivivere l’immagine per virtù d’immaginazione. E non è, s’intende, un gioco di parole: ogni artista vero, e certamente Antonio lo è, in fondo fa sempre questo, «reinventa» il mondo. Ce lo ricordò il grande Calderón: la vita, per l’appunto, è sogno; e ce lo ricordarono, in maniera addirittura lancinante, i bozzetti di avvicinamento all’opera finale che Gargiulo espose nella mostra intitolata «Ricordando Annibale» e allestita a margine dell’inaugurazione del monumento. Quei bozzetti somigliavano, a parte il valore artistico in sé, proprio alle fasi successive di un’avventura onirica. E dunque, sottolineavano per contrasto quella drammaturgica di Ruccello, dal canto suo radicata nella storia. Una volta – nel 1980, prima del terremoto – Jennifer abitava in una casa dei Quartieri Spagnoli, indossava una vestaglia fatta con le tende di merletto e ascoltava Radio Cuore Libero, con le canzoni di Patty Pravo, di Milva e persino di Orietta Berti. Poi – nel 1986, dopo il terremoto – abitò in una casa di un quartiere residenziale, indossò una vestaglia di raso bianco e ascoltò Radio Enola Gay, con le canzoni di Raffaella Carrà e della Minastrenna natalizia. Non a caso, quindi, Annibale Ruccello volle riscrivere «Le cinque rose di Jennifer», il testo che lo aveva imposto all’attenzione della critica e del pubblico nazionali. In breve, il travestito protagonista di quell’atto unico diventava, tout court, un simbolo di Napoli: e, di conseguenza, accadeva che il testo medesimo non descriveva Napoli, ma, puramente e semplicemente, era Napoli. Una Napoli, si capisce, considerata – giusto – in quanto corpo storico, colta, cioè, nel suo divenire e nel magma delle sue contraddizioni sociali e culturali, al di là di qualsiasi preclusione ideologica. In altri termini, il travestito Jennifer costituiva il sacerdote e, ad un tempo, la vittima di un’autorappresentazione che celebrava unicamente un valore d’oggetto e di merce di scambio. E chi può dire che questo non fosse (e, per molti versi, non sia ancora) lo stesso destino di Napoli? In un simile quadro, allora, deflagra la verità umana dei personaggi di Annibale, figli, palesemente, delle mutazioni antropologiche indotte dalla civiltà postindustriale: figure – accanto a Jennifer, la Adriana di Notturno di donna con ospiti, la Ida di Week-end, la Clotilde di Ferdinando, le lacere eroine di Mamma, la delirante impiegata di «Anna Cappelli» – figure «deportate», come le definiva lui. Deportate, è ovvio, dalla loro cultura e dai loro valori originari e genuini. Ma riscattate e rivitalizzate, al fondo, da un sentimento che, innervato d’ironia, rappresenta il segno certo di un grande teatro. ◼ Il busto di Annibale Ruccello alla Villa Comunale di Castellammare di Stabia, opera di Antonio Gargiulo (foto di Giuseppe Plaitano). terprete partenopea, quasi a voler uguagliare Isa, e optai per affidare le parti femminili a Sabrina Scuccimarra e Monica Piseddu, due attrici della mia compagnia nessuna delle quali napoletana. Questo per affrontare da un’altra angolatura il discorso linguistico, che in Ferdinando è centrale. La Baa cura di Leonardo Mello ronessa infatti si identifica con il dialetto napoletano in opposizione a un italiano sentito come la lingua dei conquistalla fine di febbraio approderà al Goldoni Fertori Savoia. Scegliere Monica e Sabrina ha dato luogo a una dinando, da molti considerato il capolavoro di Ancerta contaminazione, che mi riguarda da vicino, avendo io nibale Ruccello, grande drammaturgo napoletano per primo con la lingua napoletana un rapporto molto teaprecocemente scomparso nel 1986. Ne parliamo con trale e poco naturalistico, cioè legato alla vita. Lavorare con Arturo Cirillo, regista dello spettacolo nonché interprete del la mia compagnia (il quarto attore è Nino Bruno) mi ha inolruolo di Don Catellino. tre permesso di riequilibrare le forze all’interno dello spettaCon quest’ultimo allestimento è la terza volcolo. È indubbio che Clotilde sia un personaggio ta che porti in scena Ruccello. Come mai hai scelfondamentale, ma gli altri tre non sono da meno. to Ferdinando? Il testo per me è veramente un quartetto, creato Venezia Prima di tutto devo confessare che, prima di afdall’autore con uno schema geometrico, che preTeatro Goldoni frontarlo, non ero affatto convinto che questo tevede quattro scene e appunto quattro personaggi. 23 febbraio, ore 20.30 sto fosse il capolavoro di Ruccello. Dopo averlo Un’altra operazione che mi è venuta spontanea è 24 febbraio, ore 16.00 realizzato invece ho cambiato idea, l’ho molto ristata quella di riprendere in mano il testo originavalutato. Rispetto agli altri due che ho messo in le, contenente anche le parti tagliate nella versioscena, Ferdinando presentava però alcune differenze. Dedine «canone». Studiatolo, ho fatto delle scelte un po’ diverse, candomi all’Ereditiera, mi confrontavo con una scrittura e prima fra tutte quella di non centrare tutta l’azione sulla cicon uno spettacolo senza passato e senza modelli (l’aveva altata nobildonna. Non vorrei però essere frainteso: ho molto lestito solo Annibale tanti anni prima, in una piccola proamato Isa nei panni di Clotilde e più in generale quel granduzione). Nella preparazione delle Cinque rose di Jennifer il de allestimento, ma io cercavo la mia strada, e in questa ricerprincipale riferimento invece era proprio Ruccello, perché ca ho fatto delle scoperte interessanti, come rivalutare – requello era il suo vero cavallo di battaglia: l’ho sempre inteso cuperando alcuni brani esplicitamente erotici che erano stacome una sua strana confessione per interposta persona, coti cassati – la seconda parte dell’opera, che ritenevo erroneame se Jennifer fosse un po’ un alibi per parlare di sé. E io mi mente inferiore alla prima. sono posto in un atteggiamento molto simile, nel senso che ho per così dire fatto diventare lo spettacolo la mia personale autobiografia, sempre per interposta persona. Ferdinando invece ha dietro di sé un modello molto forte, l’edizione curata da Annibale stesso con Isa Danieli protagonista, edizione che è poi stata replicata per molti anni, cambiando tutto il cast attorno a Isa. Altre letture non mi pare ce ne siano state, se si eccettua quella del ’92 di Mario Missiroli, con Ida Di Benedetto nei panni di Donna Clotilde, che però ha girato pochissimo. È dunque ovvio che la versione con la Danieli ha assunto, nel corso del tempo, un’importanza tale da farla diventare una sorta di canone. Per evitare di ripetere lo stesso tipo di impostazione, che ruotava intorno all’arte di una grande attrice, all’inizio avevo avuto l’idea di interpretare io stesso la parte di Clotilde, per «spostare» la chiave di lettura, allontanarmi da quel modello così importante elaborando uno spettacolo con solo uomini in scena. Proposi quest’idea a Carlo De Nonno, che detiene i diritti di Ruccello, e lui, dopo un confronto molto affettuoso, mi disse che non gli sembrava ancora il momento per Si potrebbe definire Ferdinando un dramma storico? un’operazione di questo tipo. Avevo quasi deciso di rinunLa storia è certamente presente. Tuttavia la mia impressiociare, ma poi mi sono detto che forse aveva ragione lui, e la ne sin dall’inizio è stata che l’Ottocento fosse un po’ un trasoluzione che avevo in mente si collocava in una linea un po’ vestimento. Ruccello è un autore di travestimenti, e non soltroppo genetiana. In più il testo continuava ad attrarmi moltanto perché ha messo in scena dei travestiti. Mi sembra che to. Così ho deciso di metterlo in scena con una distribuziosi muova sempre in un ambiente iperrealista, che proponga ne più canonica, anche se fino a un certo punto: mi sembracioè sempre una realtà tanto esasperata da diventare quasi irva infatti inutile e anzi dannoso cercare un’altra grande inreale. Per rendersene conto basta pensare a Notturno di donna con ospiti. Ferdinando parte come se fosse Il Gattopardo e poi diviene sempre più puro Ruccello, con i suoi personaggi Ferdinando di Annibale Ruccello, regia di Arturo Cirillo, sempre disperatamente, violentemente desiderosi di amare produzione Fondazione Salerno Contemporanea ed essere amati. ◼ (foto di Marco Ghidelli). A prosa Il «Ferdinando» di Arturo Cirillo 47 prosa 48 Alla ricerca di Riccardo III di Shaul Bassi U n aneddoto registrato già all’epoca di Shakespeare (e ripreso gustosamente nel film Shakespeare in Love) vuole che il popolare attore Richard Burbage, omonimo del re che stava portando con successo sulla scena, avesse fatto così colpo su una spettatrice; costei gli fece sapere che avrebbe molto gradito una visita notturna di Riccardo III. Pare che l’autore avesse origliato la conversazione e deciso di accedere alle grazie di questa ammiratrice giocando d’anticipo. Quando Burbage fece annunciare che Riccardo III era alle porte, Shakespeare diede ordine di rispondere che Guglielmo (=William) il Conquistatore era arrivato prima. Oltre a dimostrare un antico rapporto tra pettegolezzo sessuale e mondo dello spettacolo, il salace episodio (probabilmente spurio) ci interessa perché ricapitola in forma più leggera alcuni aspetti chiave di uno dei personaggi più affascinanti e controversi dell’universo shakespeariano. Così come il malcapitato Burbage, Riccardo III è un uomo partito da una posizione di svantaggio che usa il potere senza alcun scrupolo come arma di seduzione per guadagnarsi un posto al vertice ma alla fine viene travolto e sconfitto, incapace di superare i limiti che la natura gli ha crudelmente imposto e il suo destino di soccombente. Dramma lunghissimo (battuto per estensione solo dal verbosissimo Amleto…) e popolato da non meno di cinquanta personaggi, Riccardo III si è col tempo trasformato in un one man show, un’opera in cui si stenta a ricordare il nome dei comprimari, siano essi principi, principesse, duchi o conti, fantasmi o assassini, attratti irresistibilmente dall’energia negativa, da quel buco nero esistenziale che è il suo protagonista eponimo. Composto all’inizio della carriera di Shakespeare, intorno al 1592, il dramma completa idealmente la prima delle tetralogie storiche, preceduto dalle tre parti di Enrico VI, le cui fortune teatrali impallidiscono rispetto al duraturo impatto di Riccardo III. Sebbene i primi curatori dell’opera omnia di Shakespeare lo avessero postumamente catalogato come dramma storico e capitolo finale del citato quartetto, alla sua prima pubblicazione apparve col titolo La Tragedia del Re Riccardo III. Tragedia, quindi: per definizione incentrata sull’ascesa e caduta di un individuo formidabile e sovrumano, non semplice attore nella vicenda collettiva di una nazione e di una casata reale. Sin dalla prima scena Riccardo si presenta con un celebre monologo in cui la sua menomazione fisica (che ogni attore reinterpreta a modo suo) è causa della sua emarginazione, e quindi del suo risentimento che gli impedisce di festeggiare il trionfo della casata di York contro i rivali Lan- caster al termine della sanguinosa Guerra delle due rose. Al contrario, questo cadetto cova in silenzio la sua ambizione di diventare re, spazzando via ogni ostacolo si frapponga tra lui e il trono. In una delle sue folgoranti meditazioni sul corpo, Guido Ceronetti ricordava che la poetica di Leopardi, scaturita da una infelicissima condizione esistenziale di isolamento e di sfortuna sentimentale, forse dipendeva anche da una prosaicissima puzza corporea. Vittima della sua pelle maleodorante, Leopardi denuncia la natura ma svetta verso l’infinito. Intrappolato nella sua malformazione, Riccardo rivolta invece sul mondo la sua infelicità, scatenando una violenza spietata il cui esito finale non può che essere una altrettanto cruenta morte in battaglia. Il dramma racconta appunto del ciclo implacabile di efferati delitti che il deforme Gloucester, fratello minore del re Edoardo IV York, compie per usurpare e poi mantenere la corona di Inghilterra. Per questo non esita a far uccidere l’altro fratello Clarence, i suoi figli piccoli, e a corteggiare la vedova del principe Edward, appartenente alla dinastia nemica. Per Richard ogni mezzo è lecito per perseguire il suo fine e non a caso lo si è spesso definito personaggio machiavellico, associandolo alla stereotipata rappresentazione tipicamente inglese del segretario fiorentino. Alla fine la sua uccisione spianerà la strada all’avvento della dinastia Tudor, quella di Elisabetta I, che sedeva sul trono ai tempi in cui Shakespeare compose l’opera: l’efferatezza del tiranno ucciso si contrapporrà quindi simbolicamente all’illuminato governo della Regina Vergine. Ma se Elisabetta rimane tuttora la più famosa dei regnanti ingleAl Pacino in Looking for Richard. riccardo Suvvia, cugino, sei capace di tremare [e cambiar colore, rimanere senza fiato nel mezzo d’una parola e poi ricominciare e di nuovo interromperti, come se fossi uscito di senno e pazzo dal terrore? buckingham Altro che, so imitare il provetto attore tragico, parlare e guardarmi alle spalle e scrutare da ogni parte, tremare e trasalire al movere d’una festuca, fingendo profondi sospetti. Ho al mio servizio una espressione spettrale, non meno che sorrisi forzati, e l’una e gli altri son pronti a entrare in gioco in qualsiasi momento, per secondare i miei stratagemmi. (Atto 3, scena 5) Con un’ironia probabilmente deliberata, Shakespeare fa di Riccardo III un ideale capocomico e attore, echeggiando gli argomenti che nella sua epoca severi predicatori puritani sollevavano contro l’immoralità e mendacità del teatro. E così la strategia del tiranno pluriomicida viene a coincidere con l’autore che lo sta mettendo in scena... A chi non abbia mai visto un Riccardo III in scena e voglia avvicinarsi alla nuova versione di Trevisan e Gassman con una maggiore consapevolezza dell’opera, si può senz’altro consigliare una coppia di film degli anni novanta che in forma complementare dimostrano la sua grande attualità e traducibilità nel presente. Film che consentono di ammirare due attori straordinari cimentarsi con un personaggio eccezionale già portato sullo schermo nel 1955 da Laurence Olivier. Nel 1995 il regista Richard Loncraine, adattando una versione teatrale di successo di qualche anno prima, proietta Ian McKellen nel Riccardo III secondo Richard Loncraine. la vicenda negli anni trenta del Novecento, in un’Inghilterra immaginaria caduta in mano di un regime fascista in cui Riccardo, un dolente Ian McKellen, appare come il nuovo dittatore, la cui proverbiale malformazione fisica prende la suggestiva forma della menomazione del reduce di guerra. Le atmosfere di questo raffinatissimo film, in cui una delle immortali battute dell’opera «un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo…» viene pronunciata da McKellen mentre cerca di impossessarsi di una jeep tra le sventagliate delle mitragliatrici sul campo di battaglia, è forse l’argomento migliore per convincere quei puristi che non amano vedere Shakespeare in abiti moderni (atteggiamento che Shakespeare stesso avrebbe faticato a comprendere…). L’anno successivo Al Pacino firma un film-documentario intitolato significativamente Looking for Richard (letteralmente «Alla ricerca di Riccardo», ma nella versione italiana Riccardo III, un uomo, un re) in cui si alternano scene dalla tragedia con l’istrione americano nei panni del re a momenti di prove, sguardi sul «dietro le quinte» e interviste in cui si raccontano le ricerche e i preparativi per il film stesso, rendendo la pellicola una sorta di indagine postmoderna sulla rilevanza e attualità di Shakespeare e del suo monarca claudicante. Il perdurante effetto del ritratto shakespeariano di Riccardo III è stato tale da convincere alcuni ammiratori del re a fondare varie associazioni in sua difesa, tra cui The Richard III Society, dedicate a riscattarne la reputazione. Nel settembre del 2012, sotto un parcheggio della città di Leicester corrispondente alle notizie sulla sepoltura di Riccardo III, un’equipe di archeologi ha annunciato il ritrovamento di resti di un uomo morto in battaglia e affetto da una grave forma di scoliosi. Sono in corso verifiche che passano anche da un confronto del dna con quello di un cittadino canadese, riconosciuto come l’ultimo discendente in vita del re. Una campagna è stata promossa per garantire al corpo, qualora l’identificazione fosse confermata, funerali di stato e la sepoltura dovuta a un monarca inglese. Ma qualsiasi sia l’esito, a noi resta la convinzione che sia più importante la lezione del Riccardo III immaginato da Shakespeare, che ci ha consegnato una lezione impagabile sui rapporti intimi che esistono tra il linguaggio e la seduzione, tra l’individuo, il male e la sofferenza, tra il potere e i suoi terribili abusi. ◼ prosa si, Riccardo vince dal punto di vista drammatico e narrativo. Maestro della seduzione il cui erede ideale sarà Iago, Riccardo è ben consapevole dell’insidioso potere avvolgente della parola, come dimostra questo fulminante scambio di battute, in cui egli, tipicamente, incita alla dissimulazione uno dei suoi estemporanei alleati: 49 prosa 50 Un Re fuori scala suo essere anche attore, nel senso che, pur rispettosi del linguaggio, rendono il testo, come dicevo poc’anzi, «parlabile». Come si articola la tua regia? Dal punto di vista della scenografia e dei costumi – di cui si stanno occupando rispettivamente Giana cura di Ilaria Pellanda luca Amodio e Mariano Tufano – ci si trova calati tra il Medioevo e la fine dell’Ottocento; la scena avrà un aspetto goebutterà al Teatro Verdi di Padova in febtico, che io stesso mi sono azzardato a suggerire disegnando braio, per poi approdare al Goldoni di Venezia nel qualche bozzetto, che poi Gianluca ha abilmente rielaboramese di aprile, R III – Riccardo Terzo, la nuova to. Così come ho scelto di fare in altre mie regie teatrali, utiregia di Alessandro Gassmann, lizzerò un sistema di proiezioni e retroproche ci racconta come e quando è nata l’idea iezioni grazie al quale gli accadimenti sadi affrontare questo testo e di vestire i panni ranno vissuti con un impatto più immediadel malvagio sovrano shakespeariano. to: utilizzerò tali filmati con un montaggio Padova di tipo cinematografico, che mi consentiTeatro Verdi 19, 20, 21, 22, 23 febbraio, ore 20.45 «Da anni desideravo mettere in scena rà di andare direttamente al cuore del rac21 e 24 febbraio, ore 16.00 questa pièce di Shakespeare, che però mi conto. Vorrei realizzare uno spettacolo che, spaventava un po’ dal punto di vista del linsenza tralasciare alcunché, riesca a rimaneVenezia guaggio, così complesso e articolato e anre entro le due ore, due ore e un quarto al Teatro Goldoni che, in molte traduzioni, arcaico e oscuro. massimo. In scena con me ci saranno die24, 26, 27 aprile, ore 20.30 Mi sarebbe dunque piaciuto poter lavoraci attori, che vestiranno però i panni di più 25 e 28 aprile, ore 16.00 re con un adattamento che mi avesse perpersonaggi, incarnando due o addirittura messo, assieme agli altri attori del cast, di tre ruoli; grazie all’utilizzo delle proiezioni, “parlare Shakespeare” in un idioma rispettoso certamente inoltre, avremo la possibilità di poter contare su molte comdella lingua meravigliosa del Bardo ma scevro di tutti quei parse – anche se non in carne e ossa – e situazioni: popolo, cliché recitativi che solitamente gli vengono attribuiti. Da cavalli, soldati, battaglie, esplosioni, fiamme, e tutto quello questo punto di vista l’incontro con Vitaliano Trevisan (cfr. che Shakespeare ci racconta e che, nel caso di questo mio Ricp. 54) è stato fondamentale: con la sua traduzione, Vitaliacardo, in maniera più o meno realistica accadrà sulla scena. no mi ha offerto la possibilità di affrontare con molta naturalezza un testo e un autore di simile portata, alla ricerca della verità e della semplicità dell’esecuzione. Ora il desiderio è quello di farne uno spettacolo popolare, comprensibile per chiunque. Credo che i limiti di alcune messinscene di Shakespeare, per quel che concerne il nostro Paese, siano dovuti a due problemi: il primo riguarda ciò che io chiamo il “famolo strano”, cioè lo stravolgere Shakespeare per farne una rilettura in chiave moderna, che solitamente viene giustificata appellandosi a un’idea di ricerca intellettuale o artistica, e che invece – a mio modo di vedere le cose – nasconde una fondamentale Il tuo sarà un Re «fuori scala», un gigante al cospetto di un incapacità di mettere in scena il Bardo “normalmente”, che è mondo molto più piccolo. molto più difficile; l’altro problema è rappresentato dagli alGrazie a uno stratagemma – che si sposa con il mio gusto lestimenti aulici ed eccessivamente classici, i quali tediano il per l’«effetto speciale» – sarò più alto, all’incirca poco più pubblico e soprattutto allontanano quello più giovane, che di due metri, e gli altri attori, rispetto a me, risulteranno tutvorrebbe invece ritrovare sul palcoscenico – così come Wilti decisamente più bassi. Anche la scena sarà leggermente più liam Shakespeare immagino avrebbe desiderato – l’immepiccola rispetto alla scala normale, cosicché se nella vita una diatezza propria dei drammaturghi contemporanei». porta è alta due metri, sul palco sarà di un metro e ottanta. E Dal punto di vista comunicativo qual è il registro che hai sceldi conseguenza tutto il resto. Mi interessava molto ampliato? Come vengono a sposarsi la componente poetica ed emoziore, oltre alle questioni legate alla bramosia di potere e alla nale con un’asprezza, appunto, più contemporanea? violenza, anche il tema della diversità; anche in questo caso Tutto avviene nel pieno rispetto della lingua: la traduzione e l’adattamento che Vitaliano ha realizzato «tradiscono» il Alessandro Gassmann. Riccardo Terzo secondo Alessandro Gassmann D rentemente è solo cervello e niente cuore. In realtà Riccardo mostrerà anche un momento di tentennamento e avverrà quando sul campo di battaglia incontrerà sua madre, che gli vomiterà in faccia tutto il disgusto e il pentimento di aver messo al mondo un essere così orribile e nauseabondo. Siamo già però molto vicini al finale: la guerra è alle porte e Riccardo sarà punito dalla sua smania di potere, dalla sua sensazione di invincibilità. Dal momento in cui diventa Re, infatti, Riccardo cambia in maniera netta, orribilmente trasformato dall’avvenuta presa del potere; viene a smarrire anche Quali caratteristiche emergono da questo tuo Re e da che punto di vista può essere – se può esserlo – un personaggio attuale? Credo che di figure che per bramosia di potere camminerebbero sulla propria madre l’Italia ne abbia a non finire. Ne leggiamo tutti i giorni nei giornali. È quindi quasi inutile che ripeta quanto sia attuale Shakespeare. Riccardo è un personaggio molto affascinante e altrettanto ambito dagli attori: è un cattivo senza possibilità di perdono ed è però anche un uomo di raffinata e sublime intelligenza, nonostante la usi male e per fini negativi. Come lui, anche altri personaggi rispecchiano questa tipologia: sicuramente la madre, la Duchessa di York; e poi Buckingham, consigliere luciferino, e di certo un personaggio che abbiamo molto ampliato con Vitaliano: si tratta di Tyrrel, carnefice e braccio armato di Riccardo che sarà interpretato da Manrico Gammarota. Nello spettacolo conto di riuscire anche a far ridere il pubblico, senza forzature, in maniera naturale e proprio grazie alla scrittura di Shakespeare. Questo personaggio negativo, senza possibilità alcuna di pentimento e di perdono, mi fa venire in mente la tua Oscura immensità (cfr. vmed n. 49, p. 47), dove era ravvisabile il dilaniarsi tra il perdono, la colpa e la condanna. Anche in Riccardo Terzo si affronterà un viaggio nelle pieghe più oscure dell’animo umano? Certo, e vi sarà la possibilità di realizzarlo in maniera più approfondita non solo perché il testo è molto più lungo ma anche perché parla di falsità umana, di ritorsione, di mancanza di pentimento e di determinazione alla conquista del potere, tutti caratteri raccolti in un personaggio che appa- alcune delle sue luciferine capacità di conquista e diviene più tronfio: perde forza, in qualche maniera, e smette non tanto di pensare quanto di organizzare, e proprio per questo diviene più vulnerabile. Uscirà nelle sale in marzo Razzabastarda, l’adattamento cinematografico del tuo Roman e il suo cucciolo (cfr. vmed n. 34, pp. 66-67, p. 68 e p. 69), trasposizione che ha ottenuto la menzione speciale nella sezione Opera Prima del vii Festival Internazionale del Film di Roma. Come ti sei trovato a passare dalla regia teatrale a quella su pellicola? Bene, non solo perché quella che andavo ad affrontare era una storia che conoscevo a menadito ma anche perché ho lavorato proprio come faccio in teatro: seguendo una visione, cercando di condividerla con le persone con le quali mi confronto e realizzando un film senza freni. Non ho voluto pensare all’impatto violento che avrebbe potuto avere e che forse avrà sul pubblico, nella convinzione che – così com’è accaduto in scena – riuscirà ad arrivare soprattutto la drammatica complessità del rapporto irrisolto tra un padre semianalfabeta, che sbaglia molto nella vita, e un figlio che tenta disperatamente di uscire dal ghetto nel quale è stato allevato. Forse il mezzo filmico, ai fini della storia narrata, si è rivelato più efficace rispetto alla messinscena, perché mi ha permesso di descrivere e di far vivere tutti quei luoghi, quei personaggi e quelle situazioni che sul palcoscenico – per i limiti che il teatro ha di non poter essere realistico in maniera completa – erano stati invece sottointesi. Nella trasposizione su pellicola i protagonisti da sette diventano circa quaranta: un racconto a più voci che credo sia il lavoro più delicato che ho realizzato grazie anche a Vittorio Moroni, che mi ha aiutato a scrivere l’adattamento. ◼ Alessandro Gassmann e Giovanni Anzaldo in un frame di Razzabastarda. prosa mi sono trovato molto in sintonia con Vitaliano, sul fatto cioè di descrivere un mondo che rientra in una certa scala e un personaggio che invece la supera. Starà a noi decidere se è il primo a essere troppo piccolo o il secondo a essere troppo grande. Sono sempre stato affascinato e attratto da caratteri decisamente distanti dal mio, e Riccardo, da un punto di vista psicologico, lo è totalmente e il fatto di poter aumentare la sua diversità mi stimolava molto. 51 prosa 52 Vitaliano Trevisan o l’arte di riscrivere V di Leonardo Mello italiano Trevisan è scrittore, drammaturgo, attore, e in ciascuna di queste vesti è stato più volte presente nella nostra rivista. Qualche tempo fa però (cfr. vmed n. 41, p. 52) abbiamo dato spazio a un’operazione per lui inedita, quella della riscrittura dai classici, e in particolare da Carlo Goldoni, con la sua pregevole Bancarotta, esempio riuscitissimo di fusione tra le atmosfere antiche e il contesto contemporaneo, attraverso lo stile ellittico, sferzante e asciutto tipico dell’autore vicentino. E proprio questo ultimo testo ha dato origine a una nuova operazione di traduzione/adattamento/riscrittura sul Riccardo iii shakespeariano, in vista – come racconta lo stesso Trevisan nella presentazione che pubblichiamo qui a fianco – del prossimo spettacolo diretto e interpretato da Alessandro Gassmann. «Gassmann era in giuria al Premio Riccione – ci spiega – dove io ero in finale con La bancarotta. Essendogli piaciuta molto, mi ha proposto di “arrangiare” il Riccardo. Nel copione che ho poi messo a punto non c’è una delimitazione netta tra la traduzione dall’inglese, l’adattamento, e quindi un intervento più libero, e la vera e propria riscrittura, dove le modifiche sono molto più sostanziali. Diciamo che i tre concetti (e le tre operazioni) sono compresenti». Ecco dunque che dalla commedia (per quanto piuttosto fosca) si è passati alla tragedia per antonomasia, dove il protagonista è un cattivo senza redenzione ma dalla psicologia estremamente complessa e ricca di spunti drammaturgici. Ma quello che emerge con maggiore evidenza è, ancora una volta, il linguaggio, così personale e allo stesso tempo potente, che accorcia i lunghi periodi delle versioni in prosa italiana, offrendo un respiro e «incidendo» in profondità la materia indagata, sulla quale Trevisan agisce senza complessi, modificando e talvolta eliminando battute, personaggi, intere scene. Un saggio di questa libertà, e allo stesso tempo del rigoroso rispetto verso il dramma shakespeariano, si può godere poche pagine più avanti, grazie a un lungo estratto dalla quarta scena del primo atto. ◼ R III Una scheda P di Vitaliano Trevisan rima di tutto un’equazione molto complicata, piena di variabili, ovvero ritradurre e adattare Riccardo III per dieci attori (a fronte di un originale che conta più di quaranta personaggi, e tenendo conto del fatto che almeno sei degli attori non potranno avere doppie parti) fratto due atti (durata massima due ore e mezza, ma due ore sarebbe meglio; e il primo atto più lungo del secondo). Niente di strano, la drammaturgia è matematica applicata. L’incognita, ovvero il testo, deve sempre fare i conti con la contingenza della scena, altrimenti, anziché andare a teatro, dovremmo accontentarci di leggere. Così è sempre stato, e così era anche al tempo in cui Shakespeare scrisse il suo Riccardo iii. Dare qui la storia del testo sarebbe cosa troppo lunga, oltre che superiore alle competenze di chi scrive. Ci basti dire che la sua composizione viene datata intorno al 1592-1593, ed è quindi opera giovanile di Shakespeare, che aveva allora trent’anni – debuttò a ventotto con Enri- co vi – e che il testo riconosciuto come canone è il risultato della collazione di cinque diverse edizioni. C’è sempre una sorta di sublime incertezza, in tutto ciò che riguarda Shakespeare, biografia compresa; e nei suoi testi qualcosa di non finito, nel senso di organico, di vivo, che tiene perciò la fantasia in costante movimento, sia rispetto al senso che alla drammaturgia. E quelle didascalie, dove c’è tutto e non c’è niente, che intrigano da secoli la gente di teatro di tutto il mondo! Suonerà strano, ma molto, in un testo teatrale, passa per le didascalie. In fondo, anche il nostro incontro, intendo tra Alessandro Gassmann e chi scrive, è in un certo senso una didascalia, e al tempo stesso la variabile decisiva dell’equazione. Una lingua asciutta, secca, dice ag nel corso di quel primo incontro, che arrivi dritta, rendendo la trama chiara e coinvolgente. E un Riccardo gigantesco, aggiunge, fuori scala rispetto agli altri attori e alla scena, costretto a chinarsi per potersi specchiare, per passare da una porta, o per guardare qualcuno negli occhi. Ho già le scarpe adatte, dice sorridendo. L’idea mi intriga da subito. In fondo, la statura scenica di Riccardo, a cui Shakespeare affida la parte più estesa che abbia mai scritto per un attore, superata solo da quella di Amleto, è decisamente gigantesca, fuori scala. Egli è insieme eroe e antieroe, manipolatore del destino altrui e del proprio; cattivo assoluto, senza attenuanti, ma dotato di fascino e humour irresistibili; autore, regista e attore dell’evento teatrale, e insieme sintesi ed emblema di tale evento cioè, in una parola, del Teatro. E quelle gigantesche ombre familiari, evocate da Gassmann, sono anche ombre teatrali assolute, per così dire, nel senso che riguardano una tradizione – non solo italiana – con cui chiunque, trattandosi di Riccardo III, si trova a fare i conti. E poi, naturalmente, il testo per sé, quella materia viva e instabile con cui avremo l’occasione di confrontarci. Il potere, e la responsabilità, di tagliare, di contrarre, di modellare, di riscrivere Shakespeare! La prospettiva ci esalta e ci sgomenta insieme. Dovremo fare affidamento su tutta la nostra incoscienza, questo è certo. E infatti: Sì, dico ad ag accettando l’incarico, credo che la cosa sia possibile. Ed è qui, dalla condivisione immediata di un’idea e di un atteggiamento, che nasce il «nostro» Riccardo. Ora, dopo altri incontri, e scambi di idee e opinioni, il lavoro del drammaturgo è finito. È tempo di andare in scena. Tutto torna in gioco. ◼ Vitaliano Trevisan. P Due versioni a confronto er dare un’idea del lavoro di traduzione- adattamento-riscrittura operato da Vitaliano Trevisan sull’originale shakespeariano abbiamo scelto una porzione della scena quarta del primo atto di Riccardo iii, dove risaltano le differenze tra la versione dello scrittore vicentino (nella colonna di sinistra) e quella (a destra) elaborata da Rodolfo Wilkock e Giorgio Melchiori per i Meridiani Mondadori (Teatro completo di William Shakespeare, volume viii, pp. 925-929). tyrrel E se lo pugnalassi ora mentre dorme (esita) Così quando si sveglia dirà che sono un vigliacco (risoluto) Ma se lo pugnalo non si sveglierà fino al giorno del giudizio (di nuovo esita) Quella parola «giudizio» Solo a sentirla mi fa venire i brividi (un tempo) Possibile che io abbia paura Non di ucciderlo no per quello abbiamo l’autorizzazione Anche se non sono sicuro che mi servirà a qualcosa il giorno del giudizio (un tempo) Meglio se lo lascio vivere Torno dal Duca di Gloucester e glielo dico (un tempo) Calma conta due volte fino a dieci (pausa) Ecco come al solito ogni scrupolo prende il volo prima che arrivi a venti E appena il duca aprirà la borsa volerà via anche la mia coscienza (un tempo) E se poi tornasse No non ne voglio sapere La coscienza rende gli uomini vigliacchi Uno vuol rubare e lei lo accusa vuole bestemmiare e lei lo trattiene vuole sbattersi la moglie del vicino e lei lo scopre Sempre no sempre no Se uno la ascolta finisce che non fa più niente Una volta ho trovato per caso una borsa piena d’oro e mi ha indotto a restituirla La coscienza riduce la gente in miseria per questo è bandita da città e paesi come cosa dannosa e pericolosissima e se un uomo vuol vivere decentemente non deve assolutamente fidarsi di lei (un tempo) E se gli dessi un colpo in testa e poi lo buttassi in una botte di malvasia Sono certo che il Duca apprezzerebbe secondo assassino Lo pugnaliamo ora che dorme? primo assassino No, poi dirà che siamo due vigliacchi, quando si sveglierà. secondo assassino Stupido, quello non si sveglierà fino al giorno del Giudizio. primo assassino Appunto: e allora dirà che lo abbiamo ucciso mentre dormiva. secondo assassino Quella parola, “giudizio”, mi ha fatto provare una specie di rimorso. primo assassino Che, hai paura? secondo assassino Non di ucciderlo: ne abbiamo l’autorizzazione; ma di dannarmi uccidendolo, e da questo pericolo nessuna autorizzazione mi può salvare. primo assassino Ti credevo deciso. secondo assassino Sì: deciso a lasciarlo vivere. primo assassino Torno dal duca di Gloucester e glielo dico. secondo assassino Aspetta, ti prego. Questa mia pia inclinazione passerà, spero; di solito scompare prima che possa contare fino a venti. primo assassino E adesso a che punto sei? secondo assassino A dire il vero, ancora mi rimane dentro qualche fondo di coscienza. primo assassino Ricorda la ricompensa promessa. secondo assassino Per Dio, allora è un uomo morto. Mi ero dimenticato della ricompensa. primo assassino E dov’è adesso la tua coscienza? secondo assassino Nella borsa del duca di Gloucester. primo assassino Vuol dire che quando quello apre la borsa per pagarci, la tua coscienza vola via. secondo assassino Non importa, lasciala volare: pochi o nessuno vorranno darle alloggio. primo assassino E se torna da te? secondo assassino Non ne voglio sapere: la coscienza ti fa vigliacco. Non appena rubi, ti accusa; vuoi bestemmiare, e ti trattiene; vuoi andare a letto con la moglie del vicino, e ti scopre. È uno spiritello vergognoso e pudico che si ribella nel nostro petto: sa frapporre soltanto ostacoli. Una volta mi ha indotto a restituire una borsa d’oro che avevo trovato per caso. Riduce in miseria chiunque la tenga cara. Viene cacciata via da ogni città e capoluogo come cosa pericolosissima: chiunque voglia vivere decentemente deve fidarsi solo di se stesso e fare a meno della coscienza. primo assassino Per Dio, proprio adesso ce l’ho qui accanto: insiste, mi prega di non uccidere il duca. secondo assassino Pensa al diavolo, e non dar retta a quella lì. che vuole convincerti soltanto per farti sospirare. primo assassino Macché, sono forte io, non me la dà a bere. secondo assassino Ben detto: sei un bravo e sai difendere la tua reputazione. Vogliamo metterci al lavoro? primo assassino Dagli un colpo in testa col pomo della spada, poi lo buttiamo nella botte di malvasia, qui nella stanza accanto. secondo assassino Eccellente idea! Lo mettiamo a bagno. ◼ Incisione di Benjamin Holl (1808-1884, wikipedia.org) prosa Riccardo III, atto primo, scena quarta 53 prosa 54 La cancellazione del narratore onnisciente «Aldo Morto / tragedia» di Daniele Timpano C di Massimo Marino on Aldo morto, spettacolo vincitore del premio «Rete critica» 2012 (cfr. VMeD n. 49, p. 67), Daniele Timpano innerva l’ormai agonizzante teatro di narrazione cancellando sia il narratore onnisciente che la narrazione in prima persona in un cortocircuito tra storia, visione personale e immedesimazione ossia pseudobiografia immaginaria, simulata, alla Thomas Bernhard. Si mette in scena come personaggio, come cittadino, come artista, assumendo come punto di vista quello dello smarrimento di una generazione senza certezze e il disgusto per i troppi silenzi, per i misteri irrisolti, per gli errori e le colpe che rendono precario e invivibile il nostro Paese. La vera imputata è la storia: anzi la nostra incapacità, impossibilità di raccontare la storia, di dipanarne i fili più oscuri. L’autore-attore romano sembra partire dalla domanda: il teatro, l’arte, può interpretare i tempi che abbiamo vissuto? E la risposta, al contrario di tutto il teatro politico e di narrazione, che spiega ogni cosa, è: decisamente no. Timpano ci dice: io nel 1978, quando Moro fu ucciso dopo quasi due mesi di prigionia, avevo quattro anni. Se qualcuno gli obiettasse che noi comunque discutiamo di fatti e di epoche in cui neppure eravamo nati, la risposta, con un sorrisetto impacciato, sarebbe: già, ma quale verità sta nei nostri discorsi? Il bellissimo, dolorosissimo spettacolo presentato in prima nazionale in aprile al teatro Palladium di Roma, apre più di una questione. Perché Timpano sembra essersi assunto il compito di fare una controversa antistoria d’Italia attraverso alcuni cadaveri eccellenti. In Dux in scatola ha narrato il fascismo storico e quello postbellico rievocando le vicende della scomparsa della salma di Mussolini (ma ha raccontato, con tale espediente, anche la nostra Italia democratica e antifascista). In Risorgimento pop, intorno alla mummia di Mazzini ha ripercorso non tanto l’epopea dell’Unità quanto i buchi di un Paese mai veramente compiuto, e tutta le retorica che esso sa ritrovare intorno agli anniversari. In Aldo Morto si identifica, anche fisicamente, in Moro, si trasforma in un suo figlio che si chiama Daniele, ripercorre le vicende di quei giorni, di quegli anni di lotte e contrasti, come se fossero puntate dell’infinito talk show nazionale, del continuo spettacolo televisivo zeppo di pubblicità che siamo capaci di allestire su morti, conflitti, idee, con evidenti sconfinamenti nel tifo calcistico più truculento, che ricorda il nostro scarso distacco dalle radici di clan, campanile, fazione. Interpreta, con la sua aria dinoccolata apparentemente ingenua e inetta, pasticciona, l’uomo politico democristiano, e ne nota una somiglianza con un eroe dei fumetti come Nathan Never, con quella pinna bianca nei capelli. Evoca, con toni beffardi, brigatiste che hanno fatto libri più o meno di successo del loro pentimento e altri non pentiti che si sono spostati «sul sociale», brutti film e attori vati da strapazzo. Irrompe sulle note di Viva la pappa col pomodoro e, con la maschera di Mazinga, evoca slogan e canzoncine sanguinarie che si cantavano nei cortei in quegli anni promettendo di spaccare teste a poliziotti. Non mancano gli inviati televisivi sul luogo della strage di via Fani, grotteschi, cinici, di fronte alla «marmellata di sangue» che imbratta l’asfalto. E neppure i riferimenti al fatto che, con cinque processi, non sia stata accertata una verità credibile. Lo spettacolo corre, con toni da cabaret impietoso, tra Renato Curcio e Eros Ramazzotti. Ma ha qualcosa in più, che ne fa un lavoro da vedere, rivedere, ripensare. Vi si coglie il senso di impotenza generazionale di chi percepisce che la storia è impossibile farla: che rimangono gli eventi, le ferite, il sangue, le divisioni, le conseguenze, e mai un’interpretazione appena coerente. Dappertutto? Sicuramente in questa bella Italia di menzogne. Allora non resta che rifugiarsi negli umori, nell’indignazione, nello sberleffo, nella pietas, nell’orrore inconsolabile per la morte. Nel teatro, come veicolo di emozioni personali, come lingua dello smarrimento, come ricerca di (insidiata) presenza. Nella storia di misteri e ipocrisie risalta la figura tragica di Moro, un provinciale tecnocrate che porta le mozzarelle del paese ai figli e parla con un linguaggio forbito e arzigogolato d’altri tempi. Spiccano il dolore umano e la ripugnanza per anni che invocavano la violenza come palingenesi, come se il sangue versato non fosse sangue vero. Timpano guarda con piglio da moralista la capacità di ridurre tutto a spettacolo degli italiani e di lucrarvi sopra. Ma soprattutto mette davanti allo specchio un Paese, il nostro, che non sa guardare dietro le proprie immagini, dentro le proprie tragedie. I testi di Dux in scatola, Risorgimento pop e Aldo Morto, insieme a vari contributi critici sul lavoro di Timpano, si possono leggere nel volume Storia cadaverica d’Italia a cura di Graziano Graziani (Titivillus edizioni). ◼ Una scena di Aldo Morto (foto di Andrea Chesi). S di Alberto Massarotto e, antropologicamente parlando, è vero che tutti i comportamenti sociali racchiudono in sé un alto potenziale teatrale, allora ciò a cui si è assistito in questi giorni a Venezia è riuscito a sottolineare particolari ed entusiasmanti sfaccettature della società in cui viviamo. Tre appuntamenti all’insegna della sperimentazione teatrale hanno dato letteralmente corpo al programma di «Who’s Who? Identità plurali e cose del genere...». Il percorso, sviluppatosi in tre appuntamenti (29 novembre, 4 e 11 dicembre), è stato pensato dall’Assessorato alla Cultura delle Differenze del Comune di Venezia in collaborazione con Vortice/Teatro Fondamenta Nuove, che, anche grazie a quest’occasione, si conferma nel tempo sempre sensibile nel proporre un’attenta diversificazione dell’offerta culturale nel territorio veneziano. La rassegna si è aperta con Never Never Neverland del Teatro delle Moire che si è presentata come una vera e propria isola che non c’è, ricreata sul palcoscenico del Fondamenta Nuove attraverso una serie infinita di indumenti raccolti, persi e ritrovati, grazie ai quali i quattro protagonisti hanno potuto recuperare l’essenza della propria infanzia e avviare un intrigante gioco di travestimenti. Una piattaforma ricreativa nella quale riversare ironia, spirito d’iniziativa e divertimento, dove potersi nascondere e rivelare secondo un gusto e un estro istantaneo. E attraverso il gioco, in quanto azione libera e liberatoria, la compagnia teatrale ha saputo avvertire lo spettatore del bisogno di riflettere sul proprio corpo in quanto autentica immagine rappresentativa di una identità. Al Teatro Momo di Mestre ha avuto invece luogo il secondo appuntamento di «Who’s Who?»: L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi. La commedia di Copi è stata rappresentata in quest’occasione attraverso la rilettura di Andrea Adriatico e la compagnia Teatri di Vita, nella quale il nome di Eva Robin’s ha sicuramente aggiunto non poca curiosità all’evento in programmazione. Lo spettacolo, vincitore dell’edizione 2012 del Premio FaSopra, Pater Familias, Kronoteatro. In alto, a destra: Eva Robin’s in L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi di Copi secondo Andrea Adriatico (Teatri di Vita). cebook/Short Theatre, prende vita sin da subito grazie a una frizzante e spregiudicata scrittura che scardina instancabilmente le connessioni interne della vicenda, attraverso un ritmato susseguirsi di colpi di scena. L’atmosfera beffarda e pungente della commedia, degnamente ricreata dagli attori in scena, ha riportato alla memoria del pubblico lo spirito del vecchio teatro di varietà, dove l’essenza dell’essere, racchiusa nelle tematiche violentemente scosse all’interno dello spettacolo, ha offerto un’accurata panoramica degli elementi che concorrono alla formazione dell’idea di diversità in quanto parte costitutiva della società. Proprio su questo concetto si sfal- da l’eco lontano del vaudeville, che svanisce davanti alla spiazzante contemporaneità delle molteplici questioni irrisolte, che dal testo teatrale si riflettono nella quotidianità. Il cerchio s’è chiuso, ancora una volta nel teatro veneziano, con Pater Familias della compagnia ligure Kronoteatro. Una feroce successione di azioni ha visto protagonista la nuda fisicità degli attori mentre scandiva in maniera ottimale, in un’inarrestabile sequenza di acrobazie evidenziata attraverso un gioco di luce e ombra, la rabbia suscitata da un incolmabile vuoto interiore. È soddisfatto, a conclusione della rassegna, il direttore del Fondamenta Nuove, Enrico Bettinello: «Credo che la riflessione sulle identità sia una caratteristica centrale di gran parte del teatro di ricerca di oggi e l’aver unito in una piccola rassegna tre lavori così differenti è una modalità di lettura che spero possa stimolare ulteriori riflessioni. Questa prima edizione di “Who’s Who?” è stata pensata come un progetto pilota, ma mi auguro di poter proseguire il lavoro anche nel 2013, allargando la progettualità soprattutto a quegli aspetti formativi e laboratoriali che ne costituiscono il naturale complemento culturale». ◼ prosa «Who’s Who?»: vanno in scena le identità plurali 55 prosa - commenti 56 Premi Ubu 2012: e poi? sembra essere quello delle categorie che li compongono, un insieme di scansioni che spesso rischiano di privilegiare «chi se le può permettere»; ovvero, ancora una volta, le produzioni più tradizionali. Ma, a fronte di qualche effettiva mancanza (pensiamo alla composizione musicale, ad esempio), l’elasticità di di Roberta Ferraresi tali divisioni è stabilita innanzitutto dai referendari che le voono passati più di trent’anni dal primo anno di tano: un indizio, per quanto riguarda la categoria «attore», è la Premi Ubu, gli «Oscar del teatro italiano». E, a scorpresenza (per altro non inedita) di uno dei più affermati protorerne gli esiti, è facile ripercorrere e ricostruire le stratipi dell’attore-autore italiano, Saverio La Ruina. Oppure, bade di quelle forme di teatralità che hanno, negli ultisti pensare al recente predominio di una generazione tutta nuomi tempi, popolato il nostro Paese; così come rispecchiato e va di registi che – proprio in questi anni in cui la categoria semassorbito, interrogato, raccontato e rilanciato quel che, anno bra in crisi, guadagnando un proprio prefisso «post-», e proper anno, accadeva dentro e fuori dai teatri. I Premi Ubu voprio in un Paese dove, a differenza della scena internazionaluti da Franco Quadri sembrano, di volta in volta, la cartina le, non l’ha mai fatta veramente da padrona – da qualche temdi tornasole dell’Italia di quegli anni. po sta scuotendo i palcoscenici nostrani: quest’anno preSono passati più di trent’anni e c’è chi potrebbe pensente con Antonio Latella e Marco Tullio Giordana, ma sare che il Premio possa essere un po’ invecchiato. Ananche, negli anni scorsi, con il coreografo Virgilio Sieni. che perché, confrontarsi, come si propone di fare l’AsDefinizioni più precise – come è stato proposto – volte sociazione Ubu, con l’eredità di una figura attenta così a introdurre la cosiddetta «ricerca», la danza o la perfortanto al presente, ma anche alla progettazione del futumance, oltre a contraddire in parte il piglio transdiscipliro, significa certo salvaguardarne l’opera – ad esempio nare che distingue i Premi fin dall’origine, rischierebbecon la convenzione stipulata con la Fondazione Mondaro forse di valorizzare ulteriormente divisioni e promuodori per l’archivio – ma anche saperne rilanciare gli stivere addirittura ghettizzazioni; non considerando, ad moli, muovendosi fra la lettura dell’oggi e la costruzione esempio, ugualmente «registica» l’azione di un colletdel domani. Sotto il segno di quella vivacità di pensiero e tivo rispetto a quella di un singolo, o al pari «drammaazione che ha condotto il critico, ad esempio, a una parturgica» l’attività di un’autrice come Lucia Calamaro – ticolare attenzione drammaturgica in anni in cui i palla cui Origine del mondo è forse il vero fenomeno di quecoscenici erano segnati da un’affermata vocazione persta edizione del Premio – rispetto a quella compositiva formativa – tendenza poi confermadi un coreografo o di un autore-attota dallo sviluppo di esperienze come re. Piuttosto, per quanto riguarda la quella della Postavanguardia. definizione delle sezioni, uno spunI vincitori Scomparso l’eti e sempre più rito potrebbe arrivare dalla lettura in dotto il fus, naturalmente, qual- Spettacolo dell’anno: The Coast of Utopia di Tom Stoppard, regia filigrana di quelle che sembrano esMarco Tullio Giordana; Miglior regia: Antonio Latella per Un cosa è cambiato nel teatro italiano: di tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams; Miglior sce- sere ormai, non ufficialmente, delnon è certo una stagione di grande nografia: Lino Fiorito per Giù; Miglior attore: Saverio La Ruina le «categorie di fatto»: basti pensaslancio e nemmeno la critica sem- per Italianesi; Miglior attrice: Daria Deflorian per Reality e L’o- re alla consistente presenza di alcubra passarsela tanto meglio – per rigine del mondo; Miglior attore non protagonista: Fausto Russo ne strutture che si distinguono per per Santa Giovanna dei macelli; Miglior attrice non protadirla con Massimo Marino, «i cri- Alesi gonista ex aequo in ordine alfabetico: Federica Santoro per L’ori- particolari slanci produttivi (l’ert, tici girano poco, gli spettacoli anco- gine del mondo) ed Elisabetta Valgoi per Un tram che si chiama de- gli Stabili di Roma e Torino), così ra di meno». Così, a scorrere le ter- siderio; Nuovo attore o attrice (under 30): Lucrezia Guidone; gli come, riuniti nelle menzioni speciane dei finalisti, è difficile – si potreb- attori e le attrici di Punta Corsara (Mirko Calemme Giuseppina li, da un lato realtà che propongono Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollibe dire impossibile – aver visto tut- Cervizzi, ce, Antonio Stornaiuolo, Giovanni Vastarella); Nuovo testo ita- progettualità culturali di ampio reto; e in questo modo vengono privi- liano: L’origine del mondo di Lucia Calamaro; Nuovo testo stra- spiro (nel 2012 Il Funaro di Pistoia e legiati gli spettacoli che hanno gira- niero: The Coast of Utopia di Tom Stoppard; Miglior spettaco- Dom di Bologna) e, dall’altro, il verto di più, come le produzioni degli lo straniero presentato in Italia: Richard III da William Shake- sante pedagogico-formativo, che vespeare, regia di Sam Mendes. Premi speciali: • Eresia della feliciStabili, cui è garantita un’ampiezza tà di Marco Martinelli/Teatro delle Albe (Santarcangelo e Vene- de nel 2012 la premiazione di Claudi tournée che nessuna compagnia zia), una straordinaria alchimia di poesia majakovskijana ed ener- dio Morganti, di Marco Martinelli indipendente potrebbe permettersi. gia adolescente, afflato pedagogico e domande teatrali, innervata per Eresia della felicità a Santarcanvocazione «asinina» e «dionisiaca» di un maestro-bam- gelo e Venezia, il progetto Pedagogia E, allora, qual è la soluzione? Andrea nella bino intento, con l’intero percorso della non-scuola, a «salvare il Pocosgnich, dalla webzine «Teatro mondo coi ragazzini»; • Anatolij Vasil’ev per il triennale proget- della scena legato ad Anatolj Vasil’ev. e Critica», propone «una festa del to Pedagogia della scena (Fondazione di Venezia – Euterpe Vene- Ecco quello che ci raccontano, oggi, teatro», in cui tutti i votanti possa- zia, Scuola Paolo Grassi – Fondazione Scuole Civiche di Milano), i Premi Ubu, alla loro prima edidi formazione dove gli allievi sono futuri pedagoghi con i zione interamente organizzata dalno prendere visione dei lavori in fi- corso quali il regista ha costruito, attraverso il metodo degli etjud, un’enale, riaggiornando inoltre alcune sperienza di forte relazione personale e artistica, ponendo le basi la neonata Associazione: del nostro categorie obsolete come quella di per istituire una vera e propria scuola internazionale nella corni- teatro e della società in cui viviamo, «regia» o «attore» (protagonista e ce unica della città di Venezia; • Claudio Morganti per la coeren- ci parlano, fra le altre cose, attravere l’ostinazione di un percorso artistico, laboratoriale e intellet- so i termini di una partecipazione cinon). Ma, senza valutarne la realiz- za tuale che attraverso la fondamentale distinzione tra teatro e spetzabilità in senso economico ed orga- tacolo, elaborata anche nel Serissimo metodo Morg’hantieff, riaf- vile che non si limita al livello estenizzativo – posto che, nel momento ferma l’autonomia poetica della scena; • Il Funaro – centro cul- tico, lasciando emergere le pressioni in cui l’iniziativa passasse di mano turale di Pistoia fondato e condotto da Massimiliano Barbini, Li- produttive e il lavoro dei tanti spazi Cantini, Antonella Carrara, Mirella Corso, Francesca Giaco- che costellano la penisola, così come alle strutture produttive, si concre- sa ni di Teatro Studio Blu – per l’attività di residenza e formazione tizzerebbe un orizzonte di conflitto artistica, per il proficuo dialogo con la critica e per l’apertura alla il lavoro dei numerosi maestri che si difficilmente gestibile –, questa sti- scena internazionale nonostante l’assenza di finanziamenti pub- muovono oggi dentro e – soprattutmolante idea sul modello del tedesco blici; • Dom la cupola del Pilastro di Laminarie, spazio che lavora to – fuori il teatro. ◼ confini tra produzione in residenza e ospitalità, tra città e peTheatertreffen rischia di restare una sui riferia, tra migrazione e memoria, tra infanzia e età adulta, tra riinteressante utopia. Saverio La Ruina in Italianesi cerca teatrale e ascolto dell’ambiente circostante al quartiere PiAltro punto-limite dei Premi Ubu lastro di Bologna. (foto di Angelo Maggio). Brevi considerazioni sparse S La Fondazione di Venezia per il teatro di Fabio Achilli D a sempre il Veneto è patria del teatro e sin dai suoi primi passi la Fondazione di Venezia al teatro è stata vicina, compagna di strada della Fenice nella fase di ricostruzione e ancora oggi primo socio privato, oltre a gestire congiuntamente la società di servizi teatrali Fest. Nei primi anni la Fondazione, attraverso il modello dei bandi, contribuiva economicamente al sostegno delle produzioni teatrali locali. Nel frattempo gli organi della stessa Fondazione, nell’ambito del settore attività culturali, individuavano tra gli obiettivi quello di sensibilizzare e avvicinare i giovani al mondo della scena. Nell’autunno del 2002 siamo entrati in gioco direttamente, e partendo in sordina abbiamo iniziato a gettare le basi di quello che sarebbe diventato uno dei nostri progetti di punta, Giovani a Teatro. «Chi siete?» «Cosa volete?» «Fate fare a noi!»: questi i primi approcci con gli operatori del settore. Ciò nonostante, muovendoci in un terreno molto fertile, abbiamo ascoltato tutti, lavorato con tutti e tutti insieme abbiamo fatto di Giovani a Teatro un modello di collaborazione, anche internazionale, e – sfruttando appieno il potenziale formativo e didattico che lo strumento teatrale offre – abbiamo creato una tribù di giovani attenti e disponibili a partecipare alla vita del teatro. Intorno a questo percorso è poi nata l’idea di offrire opportunità di formazione anche a chi il teatro lo aveva scelto come professione, e con Jurij Alschitz, César Brie e molti altri abbiamo avviato il primo corso per «formare i formatori», Methodika. Questa prima esperienza si è poi evoluta nell’Isola della Pedagogia, progettata e gestita in collaborazione con la prestigiosa scuola «Paolo Grassi» di Milano. L’Isola della Pedagogia ha da poco concluso il triennio formativo diretto da uno dei più importanti maestri delle scene mondiali, Anatolij Vasil’ev. Questo, in estrema sintesi, il lungo percorso intrapreso dalla Fondazione, che in questi ultimi due anni è stato riconosciuto da due prestigiosi premi, quello dell’Associazione nazionale Critici teatrali e, fiore all’occhiello, il mitico premio Ubu. Rivedremo i nostri modelli? Cambieremo i progetti? Forse. Valuteremo. Ma il dna del teatro è ben radicato in Fondazione e di certo non abbandoneremo la strada intrapresa. Per parafrasare una canzone di Ligabue, la nostra è stata una vita da mediano, abbiamo lanciato l’azione e siamo stati a coordinare il gioco. Diversi i giocatori e gli allenatori che si sono succeduti in campo, ma il team Fondazione Theatre Club è sempre lì a tenere la barra dritta. ◼ Fare lentamente qualcosa di necessario I di Cristina Palumbo l 10 dicembre scorso il comparto delle arti sceniche cresciuto all’interno della Fondazione di Venezia (anche grazie all’impegno e alla convinzione della sua società strumentale Euterpe Venezia), ha visto ben due progettualità – «Giovani a Teatro» e «Pedagogia della scena» – riconosciute dal massimo premio italiano, l’Ubu inventato da Franco Quadri e continuato ora dall’Associazione a lui intitolata, che – tramite i propri cinquantaquattro referendari – ha premiato con trentasei voti Eresia della Felicità a Venezia, il percorso pedagogico realizzato all’interno di gat per cinque mesi da Marco Martinelli tra Venezia, Asseggiano e Marghera, in uno splendido affresco teatrale scritto e interpretato da sessanta adolescenti. Sul fronte di «Pedagogia della scena» un altro Ubu speciale è andato poi ad Anatolij Vasil’ev, il grande maestro che ha diretto per tre anni il corso di formazione per formatori, ideato coraggiosamente da Maurizio Schmidt per rispondere alla cruciale domanda: cosa si può fare per contribuire alla qualificazione del teatro in Italia? Questi importanti riconoscimenti nazionali – uniti al Premio speciale della Critica 2011, conferito in febbraio a gat dall’Associazione nazionale Critici teatrali – oltre che rendermi orgogliosa, mi hanno spinta a riallacciare i fili di dieci anni di impegno sul versante delle performing arts. Quello reso possibile in questo lungo periodo dalla Fondazione di Venezia è stato un viaggio che ha sviluppato e reinventato «Giovani a Teatro», l’iniziale format di incentivo economico a frequentare i teatri in città, trasformandolo in piattaforma di progetti culturali ed educativi rivolti alla sensibilizzazione dei cittadini under 30 del territorio veneziano verso le forme d’arte dal vivo. Altro obiettivo prioritario è stato quello di offrire opportunità di contatto concreto attraverso percorsi di permanenza artistico-creativa condivisi tra artisti e ragazzi, studiosi e docenti. Con il «Teatro in tasca» l’offerta di 6000 posti per singola stagione ha di fatto creato una comunicazione di rete della qualità delle diverse sale e rassegne di teatro musica e danza dell’intero territorio, dando vita a un unico «cartellone» in progress che, attraverso il web e i social network, informa segnala valorizza. La piattaforma gat resta un prodotto-processo di formazione culturale unico in Italia, che ha nel tempo investito anche sui soggetti media tra ragazzi e adulti, gli insegnanti e gli educatori, permettendo loro di accedere all’offerta teatrale con le stesse facilitazioni riservate ai giovani. È della scorsa edizione poi l’introduzione della Tandem Card, destinata a quegli adulti – genitori, parenti o amici – che cercano di condividere l’esperienza del teatro con un minore. Per quattro anni la piattaforma è stata il frutto del lavoro competente di un formidabile gruppo di operatori anche giovani, che ho coordinato con entusiasmo, e con i quali abbiamo congegnato progettualità in molti ambiti delle arti sceniche, dalla drammaturgia alla danza, dalla musica contemporanea alla scrittura critica, chiamando a Venezia e provincia artisti del calibro di César Brie, Juan Mayorga, Armando Punzo, Babilonia Teatri, Mariangela Gualtieri e Vitaliano Trevisan, per citarne solo alcuni. Alla vigilia della pausa natalizia abbiamo già circa tremila iscritti a gat, e i posti a loro assegnati vanno sempre esauriti, ma i teatri mostrano comunque molte sedie vuote, e questo deve far pensare. Come possono ragazzi e giovani conoscere la meraviglia dello spettacolo d’arte dal vivo se non si lavora all’accompagnamento, all’inclusione, al contatto tra la loro vita e la chimica dei processi creativi? A partire dalla formazione delle loro capacità percettive, che tra fiction pixel e azione dal vivo già molto spesso si confondono. Ritengo che, pur in epoche di crisi, e al di là dei personalismi, quanto è stato costruito grazie allo sforzo della Fondazione di Venezia e di tutti coloro che ci hanno variamente lavorato – dai dirigenti ai consulenti ai dipendenti – non possa essere cancellato, pena il ritorno all’analfabetismo scenico da cui siamo partiti. Credo sia anzi fondamentale, soprattutto in un contesto generale così complicato, investire tutto il possibile in istruzione, educazione, pedagogia, inclusione di qualità. Cioè, come mi ha detto una volta Vasil’ev, «fare lentamente qualcosa di veramente necessario». Continuare a farlo. ◼ Anatolij Vasil’ev. prosa - commenti Una vita da mediano 57 cinema 58 Un documentario su Wagner e Venezia V di Gianni Di Capua enezia, palazzo Malipiero-Barnabò, 17 dicembre scorso. Si allestisce il set per la ripresa della Sonata op.121 di Robert Schumann. La signora Barnabò, la nostra ospite, consente di girare la scena nel grande salone della propria abitazione, consapevole di potere così restituire alla memoria della città una pagina ancora nascosta della sua cospicua storia musidella sinfonia ritrovata cale. La scena, pur Wagner, diario Un documentario essendo collocata a diretto da Gianni Di Capua metà della scenegProduzione Kublai film giatura, chiude cinin associazione con Tunastudio que settimane di riin uscita a febbraio prese del documentario Richard Wagner, diario veneziano della sinfonia ritrovata. La sinfonia del titolo è un lavoro giovanile di cui Wagner era inaspettatamente tornato in possesso, dopo che alcune parti strumentali erano state rinvenute in una soffitta di Dresda e ricomposte in una nuova partitura da Anton Seidl, al tempo fidato e stretto collaboratore del Maestro. Della sua esecuzione veneziana, Wagner ne fornisce un dettagliato resoconto pubblicato nel gennaio del 1883: «La sera della scorsa vigilia di Natale ho festeggiato con la famiglia, qui a Venezia, l’anniversario della prima esecuzione, avvenuta esattamente cinquant’anni fa, di una sinfonia composta di mio pugno nel mio diciannovesimo anno di vita, facendola eseguire per il compleanno di mia moglie all’orchestra dei professori e degli allievi del locale Liceo San Marcello sotto la mia direzione». Per l’allestimento della sinfonia, Wagner aveva incaricato la figliastra Daniela Von Bulow di interloquire con Raffaele Frontali, un giovane professore di violino del Liceo Musicale: «Signore, vogliate avere la bontà di fare copiare la musica che vi ho inviato (…). ecco l’orchestra di cui mio padre avrebbe bisogno». Qualche giorno dopo Daniela scrive ancora a Frontali: «Signore, mio padre desidererebbe ascoltare qualche strumento separatamente e vi domanda di indicargli l’ora in cui domani o dopo domani, potrebbe venire al Liceo».Wagner invece scriveva ad Anton Seidl: «Venga il più presto possibile da me. Deve nuovamente aiutarmi: il 25 dicembre voglio fare eseguire alla mia Signora la mia sinfonia di cinquant’anni fa; mi hanno promesso di allestire un’orchestra accettabile, formata degli allievi del locale conservatorio». Seidl, tuttavia, non potrà assecondare l’invito del Maestro. A Palazzo Malipiero-Barnabò i preparativi della ripresa video proseguono con il posizionamento su rotaia di un lungo braccio mobile alla cui estremità viene collocata la cinepresa. Il movimento della ripresa sarà un unico e articolato piano sequenza lungo quanto la durata del quarto movimento della Sonata op. 121. Palazzo Malipiero, all’epoca dei nostri fatti, era la dimora della principessa Hatzfeld, madre di Marie Von Schleinizt, intima amica e confidente di Cosima Wagner. La sua presenza in Laguna s’inquadra in un periodo in cui a Venezia risiedevano importanti esponenti dell’aristocrazia e dell’imprenditoria europea. Nei loro palazzi fiorivano i «salotti» che presto diventano il punto di riferimento per i connazionali residenti in città, luoghi d’incontro e occasioni di eccellenti accademie musicale di cui Raffaele Frontali è la contesa ve- dette. Il salotto di Malipiero ha luogo il giovedì e Ada Pinelli, la dama di compagnia della principessa, ne è la brillante animatrice. È lei che, approfittando della presenza di Franz Liszt a Venezia, scrive a Frontali: «Caro e illustris.mo Professore! Che bella festa avremo Giovedì sera! Che magnifica accademia! Stradivarius e Liszt. Dunque: Orfeo = Liszt vi accompagnerà lui-stesso, ha scelto dal vostro quaderno di musica tre brani. Il Maestro vi attende alle 8 1/2; gli ho molto parlato del vostro violino incantatore ed è impaziente di farne ampia conoscenza». Uno dei brani prescelti da Liszt è la Sonata op.121 di Schumann. Poi, nella stessa lettera Ada aggiunge: «la Principessa spera anche di vedervi domenica, 10 del mese, quando reciteremo una piccola commedia del nostro immortale Goethe. M.lle Daniela ed io vi racconteremo il contenuto del dramma affinché possiate seguirla, poiché è in tedesco. Mille amabili messaggi da Ada Pinelli, nata B.ssa de Treskow». A quella serata del 10 dicembre interverrà anche Richard Wagner con Cosima. Il giorno dopo Frontali assieme al fondatore e presidente del Liceo Musicale conte Giuseppe Contin invitati da Wagner, si recano a Ca’ Vendramin. Il 12 sarà Wagner a ricambiare la visita recandosi al Liceo Musicale. Il 14 l’orchestra viene convocata nella più grande delle sale Apollinee per l’audizione. Il 15 hanno inizio le prove e infine il concerto, il 25 dicembre. Palazzo Malipiero-Barnabò. 17 dicembre, fuori si è fatto buio. Dalla riva opposta del canale si scorgono alcune luminarie natalizie che si specchiano sulle acque mosse dal passaggio dei vaporetti. Il set per la ripresa è pronto. Igor Cognolato al pianoforte e Ivan Rabaglia al Guadagnini sono in posizione. S’impone il silenzio. Motore! Ciak! Azione! ◼ L di Ilaria Pellanda a Fondazione Giorgio Cini entra in questo neonato 2013 con un programma di iniziative culturali articolate in un susseguirsi di mostre, convegni, giornate di studio e seminari. Sul versante espositivo, proseguono le attività che fanno capo al progetto «Le Stanze del Vetro» (cfr. vmed n. 47, p. 63), disegno pluriennale volto allo studio e alla valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento, nato dalla collaborazione tra Fondazione Cini e Pentagram Stiftung, e inaugurato lo scorso anno con la mostra «Carlo Scarpa. Venini 1932–1947» (prorogata fino al 6 gennaio). In aprile verrà inaugurata «Fragile?», esposizione a cura di Mario Codognato che tratterà l’utilizzo del vetro nelle arti visive del secolo scorso e di quello appena iniziato, proponendo, fra gli altri, i lavori di Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Gerhard Richter, Ai Weiwei, Rachel Whiteread, Yayoi Kusama. Sul finire della prossima estate, nel mese di settembre, è invece in programma una mostra monografica curata da Marino Barovier e dedicata alle creazioni di Napoleone Martinuzzi – tra gli artisti prediletti da Gabriele D’Annunzio – per la vetreria Venini. Accanto alle iniziative che fanno capo alle «Stanze del Vetro», l’isola di San Giorgio Maggiore ospiterà altri due allestimenti, che prenderanno vita in concomitanza con la lv Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (dall’1 giugno al 24 novembre 2013): il primo racconterà una selezione antologica di sculture, dipinti, disegni e altri oggetti d’arte di Marc Quinn, uno dei più noti e longevi esponenti della cosiddetta generazione degli Young British Artists; il secondo, dal titolo «Le mythe d’Arachnée. Figures de la modernité et de la postmodernité» – realizzato dalla Fondazione Cini in collaborazione con il Mobilier National de France, con la curatela di Françoise Ducros –, proporrà una serie di arazzi prodotti dalle manifatture nazionali francesi su disegno di artisti – quali, tra gli altri, Picasso, Braque e Mirò – Gli spazi espositivi delle «Stanze del Vetro» (foto di Fabio Zanta). dalla seconda metà dell’Ottocento ai nostri giorni. Per quel che concerne il versante della ricerca, la Cini andrà a consolidare la propria reputazione scientifica attraverso l’organizzazione di convegni, giornate di studio e seminari, come si accennava all’inizio di questo articolo. Tra tali iniziative ricordiamo il xviii seminario internazionale di etnomusicologia dal titolo «Prospettive di una musicologia comparata nel xxi secolo: etnomusicologia o musicologia transculturale?» – organizzato dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati (iismc) dal 24 al 26 gennaio –, nel quale si rifletterà sull’opportunità e sulle modalità con cui liberare l’etnomusicologia dal peso dei suoi miti di fondazione e affrancarla da un ritardo nei canoni ideologici della rivoluzione antropologica compiutasi nel secolo oramai trascorso, ampiamente superati dalla realtà attuale, ferma restando la possibilità di uno studio storico delle diverse culture musicali. Di tali questioni saranno invitati a discutere Timothy Rice (ucla University), il filosofo Wolfgang Welsch, Svanibor Pettan (Ljubljana University), Lars Christian Kock (Berliner Phonogramm-Archiv), Giorgio Battistelli (compositore). Dal 22 al 24 marzo, con il convegno internazionale «L’ascolto musicale nell’epoca della riproducibilità tecnica», l’I- stituto per la Musica diretto da Gianmario Borio inaugurerà le proprie attività, che nel corso dell’anno vedranno una serie di manifestazioni dedicate alla memoria di Giovanni Morelli. Negli stessi giorni aprirà i battenti una mostra di alcune delle fonti più interessanti tra quelle conservate dall’Istituto veneziano. Sono previsti inoltre tre momenti musicali: un concerto dell’Ex Novo Ensemble, l’inaugurazione di una scultura sonora en plain air di Mario Bertoncini (Vele, la cui prima versione fu installata nell’atrio della Nationalgalerie di Berlino nel 1973) e l’esecuzione di An Index of Metals di Fausto Romitelli. Dal 15 al 20 aprile, sempre sull’isola veneziana, si terrà la seconda edizione dei seminari di musica ottomana Bîrûn. Il 7 e l’8 maggio si svolgerà tra Padova e Venezia un convegno internazionale di studi dedicato a Vittore Branca. E poi ancora: il seminario di musica antica «Egida Sartori e Laura Alvini» a cura di Pedro Memelsdorff, il convegno internazionale «Il linguaggio di Roncalli: diplomazia, teologia, spiritualità», e quello dedicato alle opere di Giuseppe Verdi nel bicentenario della nascita, nel quale interverranno anche Emilio Sala, Robert Carsen, Mario Martone, Damiano Michieletto e Francesco Micheli. ◼ arte Il 2013 della Fondazione Giorgio Cini 59 in vetrina 60 Presentato il Nono Rapporto sulla Produzione Culturale L di Manuela Bertoldo a nona edizione del Rapporto individua nella sezione monitor come sua caratteristica peculiare la dimensione e la consistenza della produzione culturale a Venezia. Nel 2011 l’offerta si è articolata in 2.503 eventi culturali, estesi in 27.176 giornate evento, per un totale di 225 organizzatori e 275 luoghi deputati a ospitare le varie iniziative. I Rapporti costruiti attraverso il data base del sito Agenda Venezia1, che presenta quotidianamente gli eventi temporanei che si svolgono in città e in alcuni luoghi significativi della provincia di Venezia, hanno permesso negli anni di fotografare e analizzare la consistenza e le caratteristiche di questa ricca e vivace offerta culturale. I dati elaborati da Agenda Venezia nel 2011 registrano, anche per quest’anno, un significativo aumento delle manifestazioni culturali, quantità che si esprime in prevalenza nel settore arti visive, mentre musica e conferenze e convegni, mantenendo comunque il primato, denotano una leggera flessione. A tal proposito l’ambito delle arti visive richiede, in quest’occasione, una particolare considerazione poiché, come si osserva anche a livello internazionale, a oggi la produzione culturale si esplica per lo più in un gran numero di mostre ed esposizioni, disseminate in sedi istituzionali o private del centro storico, o in nuovi luoghi periferici recuperati al degrado o semplicemente al disuso, a cui associazioni no profit e fondazioni restituiscono, con eventi spesso di breve durata, un’identità pubblica. La rete della produzione culturale si estende e si infittisce e il processo di collaborazione tra gli organizzatori sembra avviare processi di stabilizzazione e di esperienze nelle quali più professionalità possano riconoscersi ed esprimersi e concorrere al contempo alla valorizzazione di un capitale culturale nel quale convivono non solo eccellenze storiche ma anche realtà dinamiche e innovative. Nel 2011 si è svolta la liv Esposizione Internazionale d’Arte, che ha concentrato nella tipologia arti visive 370 esposizioni per un totale di 24.044 giornate evento, pari al 14,8% degli eventi e l’88,5% delle giornate. Le altre tipologie censite e archiviate dal sito Agenda Venezia sono così distribuite: Musica 18%, Teatro e Danza 12,1%, Rassegne Cinematografiche 12,9% e Conferenze e Convegni 38,6% . Un’analisi per settore Arti Visive - Nel 2011 il settore arti visive conta 370 eventi organizzati, per i quali sono stati coinvolti complessivamente 445 organizzatori. Ovviamente la presenza dell’Esposizione Internazionale d’Arte moltiplica soggetti e luoghi coinvolti. Si confermano per numero di iniziative legate al settore arti visive oltre alla Biennale, la Fondazione Musei Civici, lo iuav con mostre di architettura e fotografia, il Colleggio Armeno Moorat Raphael, la Fondazione Bevilaqua La Masa, la Galleria a+a mentre a Mestre il Centro Culturale Candiani e la libreria Feltrinelli ospitano numerose esposizioni temporanee anche se di brevi periodi. Moltissimi i luoghi sede degli eventi (Tabella 9 e Tabella 10). Musica - Il settore della musica ha coinvolto 540 soggetti sia pubblici che privati, che insieme hanno organizzato 451 concerti. Tra i più attivi organizzatori di spettacoli musicali si confermano in centro storico: l’Associazione Italo Tedesca, il Teatro La Fenice con la tradizionale programmazione, la Fondazione Musei Civici con i concerti di Ca’ Rezzonico, Palazzetto Bru Zane con un intenso programma di musica classica e barocca, ma anche il Conservatorio «Benedetto Marcello». Numerose le associazioni culturali che organizzano concerti di musica classica, moderna e jazz, tra i più attivi l’Associazione musicale Dino Ciani, l’archivio Musicale Fano e il Circolo Culturale Caligola. Tra i luoghi, i teatri, alcune chiese e inoltre il Conservatorio, Palazzo Albrizzi e Ca’ Rezzonico. Teatro e Danza - Nel settore del teatro l’area Produzioni Culturali e Spettacolo del Comune di Venezia risulta il primo organizzatore anche in partnership con il Circuito Regionale Teatrale. Nel 2011 nel Comune di Venezia si contano complessivamente 303 spettacoli di teatro e danza, organizzati o prodotti in collaborazione da 388 soggetti. Ovviamente tra i più attivi il Teatro di Ca’ Foscari, il Teatro Stabile del Veneto, il Teatro l’Avogaria e il Teatro Fondamenta Nuove in centro storico e le associazioni culturali teatrali della Terraferma. In Terraferma il Teatro Toniolo e l’Aurora sono i luoghi dove si svolgono il maggior numero di spettacoli teatrali, mentre in centro storico sono: il Teatro Fondamenta Nuove, il Goldoni e il Teatrino di Ca’ Foscari. Rassegne Cinematografiche - Le rassegne cinematografiche rappresentano un settore molto importante. Nonostante la ridotta presenza di sale cinematografiche, questo settore occupa il quarto posto per numero di eventi organizzati sul totale di tutti gli eventi (12,9%). Primo fra tutti i promotori si conferma il Circuito Cinema, che da anni articola la sua offerta culturale con rassegne tematiche che vanno oltre il singolo film, promuovendo circa il 70% di tutte le proiezioni. Da segnalare l’offerta di film organizzata dalle Il profilo dei cittadini «virtuali» di Agenda Venezia Agenda Venezia si è posta, fin dalla sua nascita, come un sito multi target, indirizzato contemporaneamente ai cittadini residenti, agli operatori culturali, ai city user, ai turisti e agli stessi promotori di eventi culturali. Un luogo di informazione esperto, punto di incontro per quanti vogliano conoscere le opportunità e le proposte offerte da una città che intende essere un riferimento per la cultura internazionale, ambito di confronto tra gli operatori e i promotori di eventi. Un progetto che non voleva e non vuole essere solo un punto informativo ma un vero e proprio strumento operativo: un’agenda di condivisione e programmazione. A dieci anni di distanza è oggi possibile, attraverso i dati derivanti dal sito di Agenda Venezia, ricostruire un profilo, digitale, forse un po’ «asettico» ma sicuramente veritiero del cittadino virtuale di www.agendavenezia.org. Gli accessi al sito riferiti al 2012 raggiungono quasi i 9 milioni di contatti, pari a una media mensile di 740 mila accessi e una media giornaliera di oltre 24 mila. I collegamenti sono stati effettuati da circa 700 mila visitatori unici, che significa che ogni utente si è collegato circa 13 volte in un anno per cercare informazioni e notizie. Agenda Venezia si caratterizza come un sito con una presenza alta di utenti fidelizzati, che lo conoscono e lo consultano più volte. Riguardo alla provenienza geografica, emerge una netta maggioranza di visitatori residenti in Italia, ma una quota consistente proviene anche dall’Europa (7,1%), mentre i visitatori che accedono dagli Stati Uniti sono solo l’1,5%. Tra i fruitori europei al primo posto si trovano i francesi, pari al 16,3%, da sempre assidui frequentatori dell’offerta culturale veneziana e di Agenda Venezia, anche se questa è editata solo in italiano e inglese; a questi seguono i tedeschi (12,3%); un quarto degli accessi europei comprende svizzeri, inglesi e spagnoli; seguono austriaci (5,3%), olandesi e belgi. Il 53,2% dei visitatori italiani risiede nel Nordest, un’area che si caratterizza anche per la sua integrazione e per gli scambi culturali (vedi la candidatura di Venezia e del Nordest a capitale europea della cultura del 2019), oltre che per la forte e consolidata presenza di relazioni, interessi economici, connessioni. L’altra metà dei visitatori italiani è distribuita tra Nordovest e il resto d’Italia, rispettivamente 22,5% e 24,3%. ◼ 1. Il sito www.agendavenezia.org, è prodotto dalla Fondazione di Venezia, l'ideazione e redazione è della società Sistema snc di Venezia. AgendaVenezia.org, configurata come una vera e propria agenda, consente di rintracciare gli eventi suddivisi per settore di interesse, data, orari, modalità di accesso. Fornisce inoltre il link per collegarsi con i promotori dei singoli eventi e la mappa per rintracciare i luoghi delle manifestazioni. in vetrina Università e i film in lingua proposti da Alliance Française. I luoghi delle proiezioni sono il Centro Culturale Candiani a Mestre e, in centro storico, la Sala Pasinetti, l’Auditorium Santa Margherita e il Teatro ai Frari. Conferenze e Convegni - Il settore delle conferenze e convegni continua a essere il più attivo nel panorama culturale veneziano: nel 2011 si sono organizzati 966 incontri e seminari, pari al 38,6% di tutti gli eventi che si svolgono a Venezia. Si tratta di un settore molto eterogeneo, che si articola in incontri e convegni di carattere locale, nazionale e internazionale Tra i maggiori organizzatori di convegni e conferenze: le Università, l’Ateneo Veneto, il Telecom Italia Future Centre a Venezia e la libreria Feltrinelli a Mestre. Sono moltissimi i luoghi dove si svolgono gli incontri distribuiti nelle sedi universitarie, nelle fondazioni e palazzi del centro storico; in Terraferma le conferenze si svolgono prevalentemente presso il Centro Culturale Candiani. 61 in vetrina 62 La Fondazione Levi compie 50 anni L di Giorgio Busetto* a Fondazione Ugo e Olga Levi per gli studi musicali è una onlus veneziana giunta ormai al mezzo secolo di vita, nota in tutto il mondo fra i musicologi per la propria attività di ricerca ed editoriale e per pochi concerti, sempre di alta caratura filologica, il più noto dei quali da dieci anni vien dato il giorno delle Ceneri, anche quale contributo al prolungamento dell’offerta culturale cittadina dopo il Carnevale. Scelta di campo necessaria, al di là delle aspirazioni generose dei fondatori, per la modestia dei mezzi finanziari a disposizione, data la grande differenza di costo esistente fra ricerca musicologica ed esecuzione musicale. Senza togliere che proprio l’adesione a speciali ragioni della musica consente poi di ritrovare occasioni in connessione stretta con tali itinerari, capaci di generare a loro volta ricerca musicale, in particolare in direzione della formazione dei repertori e delle prassi esecutive. Va notato che in ragione della propria organizzazione e capacità realizzativa la Fondazione utilizza al meglio i contributi finanziari che riesce a reperire, facendone un valore aggiunto che consente ogni volta l’acquisizione di risultati significativi sotto il profilo del rapporto costo/beneficio. Giulio Cattin, decano della musicologia italiana e tuttora presidente onorario della Fondazione Levi, dopo esser stato la guida scientifica dell’istituto dal 1988 al 2006, ha proposto e ottenuto la successione nel proprio ruolo di Antonio Lovato, anch’egli incardinato nell’Università di Padova. Così, negli ultimi anni, si è potuto assistere al progressivo dilatarsi delle attività, con convegni e seminari, ricerche individuali e gruppi di lavoro internazionali, pubblicazioni e presentazioni di libri e dischi, creazione di basi di dati e iniziative di divulgazione, corsi universitari e corsi musicali (in particolare di canto gregoriano), premi e borse di studio, mostre e concerti, trasmissioni televisive e frequente disseminazione delle attività in ambito veneto e oltre, compresi vari Paesi esteri, con un raggio d’azione che spazia dal medioevo al contemporaneo, privilegiando linee di lavoro come la policoralità, la musica per film, l’organologia, l’iconografia, la catalografia, l’etnomusicologia. Parallelamente con Davide Croff, presidente dal 2003, si è venuta svolgendo un’importante attività amministrativa, il cui più evidente risultato, oltre alla intensificazione delle iniziative scientifiche e culturali, è certamente il restauro di Palazzo Giustinian Lolin sul Canal Grande, opera giovanile di Baldassarre Longhena, acquistato dal nonno paterno di Ugo nel 1877, in occasione delle nozze del figlio Angelo, restaurato da Guido Sullam nel 1912 per le nozze di Ugo, che vi era nato nel 1878 e vi morì nel 1971, con la bella e colta triestina Olga Brunner (1885-1961), lei pure appartenente ad una dinastia di finanzieri ebrei. Ecco dunque il segno più forte di una storia che affonda le proprie radici nel secondo Ottocento, allorché l’altro nonno di Ugo, Giacomo Levi, aveva iniziato a costituire una biblioteca musicale, che Ugo ereditò, arricchì e curò per tutta la vita, facendone una entità ragguardevole per numero di opere e per pregio speciale di alcuni cimeli bibliografici. I coniugi Levi non ebbero figli. Appassionati cultori di musica, il loro salotto si apriva almeno una volta alla settimana ad iniziative musicali. Ricco erede di una banca d’affari familiare, generosissimo di carattere, Ugo sosteneva molteplici iniziative musicali, partecipandovi a volte direttamente come pianista o con incarichi amministrativi o onorari. Suonava an- che a quattro mani con la moglie, oppure la accompagnava al pianoforte nel canto. Era noto per la capacità di esecuzione a prima lettura, sicché la sua casa signorile ed accogliente si riempiva spesso anche dopo i concerti, e si animava di discussioni e improvvisazioni, facendosi punto di riferimento per progetti importanti, come ad esempio quello di trasformare il Liceo musicale «Benedetto Marcello» in Accademia di musica, o quello di creare una società di sostenitori atta a consentire la rinascita e il rilancio della Fenice, a quello di creare l’Autunno Musicale e poi di inserirlo tra le attività della Biennale. Negli ultimi anni della loro vita i coniugi decisero di mantenere oltre la loro esistenza in vita la biblioteca e le attività musicali che tanto amavano, destinando per testamento i loro beni alla creazione di una fondazione per gli studi musicali. Olga fu grande sostenitrice dell’iniziativa, proteggendola con fermezza dai parenti e possibili eredi che ne osteggiavano la nascita. Inaspettatamente lei morì prima di Ugo, e toccò dunque a lui organizzare la Fondazione, il cui statuto fu rogato il 14 febbraio 1962, e vederne muovere i primi passi, con attività sulla biblioteca e borse di studio. Persa però l’attenta protettrice, mite e ormai vecchissimo, Ugo, circonvenuto, non seppe sottrarsi a rapaci richieste, sicché, ormai ultranovantenne, fu interdetto e le iniziative della Fondazione, di cui era presidente a vita, si interruppero. Dopo la sua morte la Fondazione, presieduta dal sindaco Giorgio Longo, conobbe un lungo periodo dedicato a laboriosi adempimenti amministrativi e di ristrutturazione del patrimonio. Significativo fu nel 1975 l’acquisto di quattro grandi tele di Jean Raoux, dipinte nei primi anni del Settecento per Palazzo Giustinian Lolin, divenuto sede della Fondazione. A questa data può dirsi concluso il lavoro di impianto e avviata una nuova fase, con la presidenza di Giancarlo Tomasin, dal 1975 al 1984. Gianni Milner (19262005), figlio del legale dei Levi e avvocato egli stesso, assistette col padre e col notaio Gino Voltolina i coniugi Levi per l’elaborazione dell’idea della Fondazione. Fu scelto da Olga come esecutore testamentario per la delicata questione delle lettere d’amore che le aveva inviato D’Annunzio, soprattutto dal 1916 al 1918. Assistette successivamente a tutte le attività della Fondazione, sin dal suo sorgere, entrando poi a far parte del Consiglio di Amministrazione dal 1971, vicepresidente dal 1978, presidente dal 1984 al 2003, quindi presidente onorario sino alla morte. Nel 1976, sulla base di un’ampia e articolata proposta di Milner, il Consiglio discusse lungamente sul ruolo della Fondazione. Sono anni fervidi di grandi entusiasmi collettivi, sull’onda del rinnovamento postulato dai movimenti del ’68 e sancito dalle elezioni amministrative del 1975 che a Venezia vedono insediarsi una giunta di sinistra. Nel 1977, richiesto di proposte operative, si affaccia sulla scena dell’istiUgo Levi. Olga Brunner Levi. al 1987, pubblicando ogni anno anche un Supplemento monografico, primo dei quali i preziosi Indici della rivista Note d’archivio per la storia musicale 1924-1943, con una premessa del Mischiati. Frattanto nel 1984 Tomasin lasciava la presidenza, pur rimanendo nel Consiglio di Amministrazione. Milner divenne presidente e Musu vicepresidente. Si entrò così in una nuova fase della vita della Fondazione, con la nomina di un direttore, Angelo Montanaro, che aveva seguito le attività della Levi sin dall’inizio in quanto assistente del sindaco Longo, e di un comitato scientifico, con Giovanni Morelli, Ugo Amendola e Italo Gomez. Il 1985 è caratterizzato dall’importante convegno internazionale su restauro e riuso degli strumenti musicali antichi che qualifica la Fondazione nel mondo musicologico e in quello musicale, grazie ad un argomento appartenente a entrambi gli ambiti, quasi sanzione in corpore vili dell’unità degli studi a dispetto delle divisioni degli studiosi. Nel 1986 compaiono due volumi assai significativi delle attività in corso in quegli anni. Uno è La maschera e la favola nell’opera italiana del primo Novecento di Virgilio Bernardoni, che è la pubblicazione premiale del concorso fra le tesi di laurea in musicologia, all’epoca molto importante per aiutare la disciplina ad affermarsi in ambito universitario. Il secondo è il risultato di una prima fase dell’imponente lavoro di riordino della biblioteca affrontato da Franco Rossi, La Fondazione Levi di Venezia. Catalogo del fondo musicale: lavoro che conduce all’apertura al pubblico della biblioteca riallestita nel secondo piano del palazzo sede nel 1985. Rossi, con l’aiuto di Francesco Passadore, coordina anche la pubblicazione di numerosi cataloghi di fondi musicali antichi veneti, che escono progressivamente facendo della Levi, con l’importante contributo finanziario della Regione, un punto di riferimento capitale della catalogazione musicale. Questo lavoro prosegue nell’ambito della conduzione scientifica di Antonio Lovato, assunta a partire dal 2006, integrandosi anche con appositi seminari su tematiche di catalogazione, con la collaborazione della Regione Veneto, dell’Associazione Italiana Biblioteche e dell’Istituto centrale per il Catalogo Unico. Nel 1988 fu riformato il Comitato scientifico, con l’introduzione della figura del Presidente, cui venne affidata la responsabilità culturale della Fondazione. Fu nominato Giulio Cattin, che iniziò una importante opera di recupero della musica sacra soprattutto marciana, impostò una assai lunga serie di seminari e convegni e diede corpo a monumentali pubblicazioni, proprie, come il capitale Musica e liturgia a San Marco, e di altri, come Itinerari e stratificazioni dei tropi, che vide la luce dopo incontri seminariali, studi e ricerche durati nell’insieme diciassette anni. Cattin rappresenta l’elemento di svolta nell’attività della Fondazione Levi, saldando felicemente la propria attività di studioso con quella di amministratore di Milner, che ebbe a definirlo addirittura «colui che riuscì a realizzare in un originale progetto organico il desiderio dei fondatori; è stato cioè l’inventore della Fondazione Levi quale è oggi e a lui va il merito del prestigio che la Fondazione gode in Italia e all’estero». Alle ricerche Cattin accompagna una rigorosa attività seminariale cui farà da supporto dal 1993 la rivista «Musica e Storia», in cui son fissati col primo annuale del 1993 in una paginetta di editoriale secca secca i principi metodologici di un più avvertito fare storia, con un’apertura interdisciplinare che «intende appunto tematizzare i nessi che legano alla storia la musica e viceversa». Cattin chiama accanto a se Lorenzo Bianconi, F. Alberto Gallo e Morelli alla direzione del periodico, che diviene semestrale dal 1998 e quadrimestrale dal 2003, onorando sempre la mole di circa in vetrina tuto un ancor giovane musicologo, Giovanni Morelli (19422011), peraltro studioso già affermato e destinato a divenire uno dei più qualificati protagonisti della vita musicale veneziana e a seguire anch’egli per tutta la vita le attività della Fondazione con incarichi diversi, con indicazioni sempre acute e motivate cui seguiva il personale lavoro per l’individuazione delle singole attività, per l’aiuto alla loro conduzione, sempre collaborativo coi presidenti del Comitato Scientifico, prima Giulio Cattin poi Antonio Lovato. Ferve dunque la vita della Fondazione, con passi e passaggi amministrativi e iniziative culturali, in evidente processo di crescita, di stabilizzazione organizzativa, di più determinati disegni e più ampi orizzonti. Così nel 1978 si lancia un concorso per la composizione pianistica, si approva un regolamento e si nomina un Comitato Direttivo; nel 1979 Pietro Verardo viene incaricato del settore Biblioteca e didattica e Francesco Luisi del settore Editoria; si decide inoltre di creare un laboratorio fotografico, in relazione a grandi campagne di ripresa di manoscritti e stampe antiche, avviate su suggerimento di Morelli e che finiranno per dotare la Fondazione di oltre un milione di riprese di fogli musicali. Una dotazione che colpirà la fantasia di un musicista romanziere, Igal Shamir, che nel suo thriller Il violino di Hitler (2008) ambienta in immaginari sotterranei della Fondazione, adibiti alla conservazione in microfilm, una delle sue più rocambolesche scene d’azione. Nel 1980 fu presentato il progetto di restauro di Palazzo Giustinian Lolin, redatto dagli ingegneri Gianfranco Geron e Walter Gobbetto, chiamati a realizzarvi tra l’altro una moderna foresteria per gli studiosi; fu acquistato un impianto di fotocomposizione, con l’idea di sviluppare un’attività editoriale anche in conto terzi; fu predisposto un programma di pubblicazioni di libri; e fu avviata la microfilmatura del Fondo Torrefranca del Conservatorio «Benedetto Marcello». La collaborazione col Conservatorio si allargava in quegli anni ad iniziative editoriali, che vennero poi progressivamente sviluppandosi pur tra diverse difficoltà gestionali. Nel 1982 Ignazio Musu, economista di Ca’ Foscari allora presidente del Conservatorio, entrò in Consiglio per rimanervi quasi ininterrottamente sino al 2003: una presenza che, unita a quelle di Tomasin e Milner, dette molta stabilità agli organi di governo della Fondazione, superando la difficoltà derivante dalla rotazione delle cariche pubbliche da cui dipende la composizione del Consiglio di Amministrazione. Nel 1983 si dovette prender atto della realtà e rinunciare all’idea di far da casa editrice per gli istituti culturali, senza per questo interrompere le pubblicazioni, in proprio o presso altri editori, e dando anche corso a una nuova serie della gloriosa rivista «Note d’archivio per la storia musicale», alla cui direzione Luisi fu affiancato da Alberto Basso, Oscar Mischiati e Giancarlo Rostirolla: durò per cinque anni, sino 63 in vetrina 64 250 corpose pagine, e anzi estendendosi più volte anche al di là di numeri monografici in separati volumi supplementari (i «Quaderni di Musica e Storia»), ma finendo per accumulare gravi ritardi nei tempi dell’uscita. Nell’équipe del comitato scientifico un ruolo particolare rivestì Tullia Magrini (1950-2005), fondatrice nel 1996 della rivista on line «Music & Anthropology» e guida degli studi di antropologia musicale; lavoratrice infaticabile, portò avanti con energia il proprio ambito di lavoro, inducendo anche con l’appoggio di Cattin la Fondazione a sostenere nell’ateneo patavino l’insegnamento di etnomusicologia affidato a Paola Barzan. Accanto allo sviluppo che vien dato all’attività di ricerca, ai seminari, ai convegni, alle pubblicazioni, nel 2003 si avvia anche la fortunata serie dei Concerti per le sacre Ceneri. Nel 1992 il sottoscritto succedeva a Montanaro nella direzione della Fondazione. Si trattava allora di superare una condizione di disavanzo strutturale, anche seguendo le indicazioni di Giorgio Brunetti, revisore dei conti. Per portare il bilancio in pareggio fu rigettata l’idea di ridurre le spese e vennero invece operate progressivamente una serie di operazioni: completamento di alcune attività di restauro per mettere a reddito degli immobili, con affitti alla Fondazione Guggenheim e all’Università Ca’ Foscari; adeguamento del palazzo sede alle norme per affittarlo per le mostre collaterali della Biennale o per i padiglioni nazionali privi di sede; dismissione di proprietà non interessanti e del pacchetto azionario per finanziare gli interventi; accesso a sia pur modesti contributi di legge speciale per Venezia; esternalizzazione della Foresteria con miglioramento del servizio e delle entrate e dimezzamento della pletorica struttura di personale, ampiamente riqualificata. Fu così possibile riassorbire i disavanzi pregressi e assestare su un diverso livello la parità, con maggiore sicurezza per le attività scientifiche, culturali, editoriali. Il processo conobbe ulteriore razionalizzazione con la presidenza Croff (dal 2003), ciò che ha consentito anche nuovi importanti restauri della sede, la cui facciata è stata messa in sicurezza e riportata all’originario splendore nel 2011, su progetto di Celio Fullin e Mario Gemin. Come detto, nel 2006 Lovato assunse la presidenza del Comitato scientifico. Allievo di Cattin, intese continuarne e svilupparne le linee di lavoro, adeguandole a più sentite necessità di divulgazione. Guidata dal binomio Croff-Lovato la Fondazione Levi è apparsa presente e attiva sia in Italia che all’estero su più fronti. Nel campo dell’attività scientifica, suo tratto distintivo e qualificante, le scelte operative di continuità delle linee di ricerca prefissate hanno privilegiato l’ambito interdisciplinare e la dimensione internazionale, la collaborazione con le istituzioni accademiche e scientifiche presenti nel territorio, la diffusione dei risultati a vari livelli. Si sono attivati gruppi di studio internazionali e si sono organizzati convegni in Italia e all’estero. Si sono avviate ricerche di lungo respiro, capaci dove possibile di attrarre risorse intellettuali, tecniche e finanziarie sia moltiplicando le collaborazioni, sia formulando progetti in funzione della richiesta di contributi pubblici e privati. Per quanto riguarda l’attività didattica, è stata fatta la scelta prioritaria di sostenere insegnamenti e ricerche relativi alla musica medievale e rinascimentale e all’etnomusicologia presso l’Università di Padova, per difendere una specifica tradizione di studi creata da Cattin (unica ormai in Italia) e ritenuta coerente con le scelte della Fondazione intese a supportare un ambito disciplinare penalizzato dalle attuali politiche culturali e garantire la continuità alla trasmissione di specifiche competenze. Si è riguardato alla relazione fra ricerca e didattica, sia dunque finanziando corsi universitari frontali, del resto sostenuti sin dal 2003, sia varandone di nuovi a carattere maggiormente seminariale e laboratoriale, in modo da unire alla musica scritta quella eseguita, vocale e strumentale, col contatto diretto fra discenti e operatori di vario ambito, con visite a luoghi e strumenti. Complemento di tale attività la creazione di una nuova rivista annuale nel 2011, «Musica e Figura», in collaborazione con il Dipartimento dei Beni culturali dell’Università di Padova, destinata ad accogliere saggi soprattutto di giovani studiosi. Altro elemento innovativo nel panorama dell’attività editoriale della Fondazione è rappresentato dall’unione ai volumi di ricerca delle registrazioni di esecuzioni delle musiche che vi sono studiate, per meglio accompagnare la ricezione del lavoro. Dove possibile di tali registrazioni discografiche viene realizzata anche una differente versione commerciale, atta a garantire la maggior diffusione possibile delle risultanze musicali della ricerca musicologica. Si sono anche moltiplicate le iniziative sul territorio regionale, toccando tutte le province. Inoltre si è definito e applicato un processo che prevede ricerche musicologiche, conseguenti definizioni di repertori e ricerche musicali, specie di prassi esecutive, esecuzioni, registrazioni audio e video, trasmissioni televisive e web, con la prospettiva di rendere tutto liberamente scaricabile da un database destinato a raccogliere e rendere disponibile tutta la produzione della Fondazione, anche passata, di ogni genere di documento e relativi metadati. Analogamente si procede con le esposizioni, mettendo anche in relazione le occasioni di studio con i possessi dei fondi bibliografici e documentari della Fondazione; anche in relazione a ciò si è provveduto al riordino dell’archivio della Fondazione, affidato a Martina Buran, e si è dato avvio all’implementazione sistematica della biblioteca e in prospettiva del database: e qui si attendono lavori di ristrutturazione atti a consentire ampliamenti dei locali in uso e ad accogliere le biblioteche specialistiche di Giulio Cattin, che ne ha annunciato la donazione, e del compianto Ennio Simeon. Nell’insieme lo sguardo sul dipanarsi dei cinquant’anni di vita della Fondazione e sui prodromi familiari della sua nascita diviene invito ad approfondire la conoscenza della storia otto e novecentesca della città di Venezia. La sua ricchissima cultura dà certezza delle grandi possibilità che con tali tradizioni e risorse essa ha di riqualificare il proprio ruolo in senso produttivo, in modo da trarre dal valore dell’immagine le linfe finanziarie e ideative per riproporsi con successo nella competizione globale. La sfida della contemporaneità è stata raccolta dalla Fondazione Ugo e Olga Levi nella chiave dell’antico: se il fluire progressivo che pur con naturali difficoltà e incertezze ne ha contrassegnato sin qui lo sviluppo riuscirà a superare gli ostacoli di contesto di un periodo così difficile come quello che stiamo attraversando, questo istituto potrà dare un contributo molto importante, in rapporto alle sue dimensioni contenute, allo sviluppo dei suoi territori di appartenenza, geografici e virtuali. ◼ *Direttore Fondazione Ugo e Olga Levi Palazzo Giustinian Lolin. Mario Bortolotto e le vie della musicologia (5) T un progetto a cura di Jacopo Pellegrini ra Fase seconda, l’immersione nella Nuova musica, che rese celebre il nome (e lo stile letterario) di Bortolotto, e la monografia successiva – Dopo una battaglia, il volume sulla musica francese tra l’ultimo trentennio dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo (esclusi, beninteso, Debussy e Ravel) – corrono ben ventitré anni: 1969-1992. Non che nel frattempo il Nostro sia rimasto con le mani in mano, anzi: tra relazioni a congressi, contributi per periodici, testi di presentazione per allestimenti operistici, assistiamo a uno svariare di epoche e tradizioni musicali. Parte di quel raccolto si trova in Consacrazione della casa: «Non […] brevi articoli occasionali, ma studi assai estesi, anche se prendono le mosse da eventi della vita musicale recente. Forse utopistici programmi di sala, forse saggi per riviste da happy few», com’ebbe a scrivere Massimo Mila in una recensione, irresistibile per verve, uscita sulla «Stampa» del 5 dicembre 1982 (Veleno sull’opera, p. 3). Ora, Emilio Sala (docente di Drammaturgia musicale alla Statale di Milano, assiduo indagatore – tra le altre cose – del teatro in e con musica francese del xix sec.), spiega, dati alla mano, quali e quanti legami corrano tra le due monografie concepite intorno a un fuoco unico, con la mediazione di vari scritti confluiti nella silloge. Dopo una battaglia è innanzitutto un libro tempestivo, pressappoco coevo ai primi veri e seri tentativi di studiare la musica francese subito prima o subito dopo Sedan. A puro titolo esemplificativo e senza la pretesa di stilare graduatorie (non è detto, insomma, che si tratti sempre di pubblicazioni imprescindibili), ricordiamo i testi di Manfred Kelkel e Steven Huebner1. E «la trovata del […] libro […] l’assunto, desumibile giù dal […] sottotitolo: […] Origini francesi del Novecento musicale»2 , trova un suo corrispettivo nella fioritura di ricerche sul cosiddetto neoclassicismo: è dell’88 la versione definitiva, a stampa, della tesi dottorale preparata da Scott Messing3, nel primo capitolo della quale s’incontra qualche accenno al Renouveau francese e a Saint-Saëns (niente a che vedere, comunque, con «lo specillo […] non meno puntuto che deciso»4 impugnato da Bortolotto). Ma vi è dell’altro; ed è Francesco Zambon – filologo romanzo cresciuto alla scuola di Folena, ordinario all’Università di Trento, e nostro esperto maggiore di questioni graaliche5 – con la sua testimonianza sul viaggio in Linguadoca del 19966 e sulle specifiche competenze «iniziatiche», gnostiMario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo). che vantate da Bortolotto, a svelarcelo. Tutta la sua produzione scientifica tende irresistibilmente a un unico sbocco, l’esame del pensiero e della musica di Wagner7, in cui confluiscono pagine risalenti a epoche diverse e a cui vanno ricondotti i volumi che lo precedono e lo seguono (La serpe in seno, su Strauss, certo, ma anche gran parte delle Corrispondenze)8. Per restare a Dopo una battaglia, il nome o le partiture del compositore tedesco vi s’incontrano di continuo, «ombra di Banquo della musica francese»; ma il discorso, rovesciato, vale anche per le panoramiche wagneriane. Penso a vari luoghi della voce «Wagner», l’unica da lui redatta per il Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti diretto da Alberto Basso (utet, Torino, Le biografie, VIII, 1988, pp. 344-357): Vi sono intere zone in cui l’interpretazione, in termini di armonia scolastica, si fa incerta, o meglio polivoca […]. È la decisiva premessa di Wagner a Franck, da un lato, dall’altro alla sensibilità armonica dell’Impressionismo. (p. 352) Ma intanto proprio quell’orchestra [di Wagner] dilaga sulla musica francese, toccando con il Parsifal la stessa orchestra debussiana (tacendosi dei wagneriani di stretta osservanza […]). (p. 354) In sostanza, il «rapporto con Wagner resta, nell’adesione o nella rivolta, l’essenza del pensiero musicale del Novecento» (p. 348), e pure della seconda metà dell’Ottocento. Per concludere, un’ulteriore attestazione di amicizia e di stima (e la rivelazione di trascurate doti tenorili), nel garbatissimo eloquio di Iván Vandór, compositore ungherese naturalizzato italiano, anzi, romano di Trastevere. ( j.p.) ◼ 1. Manfred Kelkel, Naturalisme, verisme et realisme dans l’opera de 1890 à 1930, preface de Serge Gut, Librairie philosophique J. Vrin, Paris 1984; Steven Huebner, The Operas of Charles Gounod, Oxford University Press, Oxford et al. 1990. 2. Sergio Sablich, Echi di una battaglia, «Il Giornale», 14 marzo 1993, p. 3. 3. Scott Messing, Neoclassicism in Music. From the Genesis of the Concept Through the Schoenberg-Stravinsky Polemic, University of Rochester Press, Rochester 1988 («Studies in Musicology», 101). 4. Aldo Nicastro, Mario Bortolotto Dopo una battaglia […], «Pianotime», luglio-agosto 1993, pp. 65-66: 65. 5. Recentissimo, e dedicato giustappunto a Bortolotto: Francesco Zambon, Metamorfosi del Graal, Carocci, Roma 2012, («Frecce»,141). 6. A coronamento di un corso universitario, più tardi trasferito in libro: I trovatori e la crociata contro gli albigesi, introduzione, traduzione e note di Francesco Zambon, Luni, Milano et al. 1999 («Biblioteca medievale», 74); rist Carocci, Roma 2009. 7. Mario Bortolotto, Wagner l’oscuro, Adelphi, Milano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42). Oltretutto, è questo l’unico libro di Bortolotto tradotto (coraggiosamente) in una lingua straniera: Id., Wagner, das dunkle, aus dem ital. von Nikolaus de Palézieux, Matthes & Seitz, Berlin 2007 («Traversen», 1). 8. Id., La serpe in seno. Sulla musica di Richard Strauss, Adelphi, Milano 2007 («Saggi. Nuova serie», 54); Id., Corrispondenze, ivi 2010 («Saggi. Nuova serie», 65). Il provetto stregone Il provetto stregone 65 Mario Bortolotto e le vie della musicologia 66 La musica francese «moderna» secondo Mario Bortolotto I di Emilio Sala ncomincio questo mio intervento con una tendenza pericolosamente regressiva: uno dei libri di Bortolotto è stato infatti in assoluto il primo saggio musicologico che ho comprato poco dopo l’esame di maturità, nel 1977. In realtà lo comprai insieme a un altro libro: Filosofia della musica moderna di Adorno. Questi due volumi rossi, quello di Adorno e Fase seconda di Bortolotto1, sono oggi affiancati nella mia memoria come lo erano allora sullo scaffale della mia libreria – e non solo per la comune veste editoriale. A dire il vero, è da un pezzo che non li rileggo più, ma credo che abbiano agito su di me e su molti miei coetanei musicofili come una sorta di marca generazionale e di percorso iniziatico. Poi vennero gli anni ottanta e ci allontanammo un po’ tutti (anche Bortolotto) dalla Nuova Musica, ma le prime pagine di Fase seconda, quelle dedicate a Debussy, pongono già il problema delle «origini francesi» della modernità musicale sottolineando appunto la funzione fondativa svolta in essa dall’ultima produzione debussyana, quella (tanto amata da Boulez) a dominante «sonorielle» – per usare un’espressione di Stefan Jarocinski che nel suo noto libro pubblicato in Polonia nel 1966 (e in traduzione francese nel 1970)2 arrivava a conclusioni abbastanza simili a quelle cui era pervenuto Bortolotto. Non è mia intenzione rivoltare la frittata: la ricerca delle origini del moderno musicale ha in Bortolotto come punto di riferimento privilegiato la Romantik tedesca e le sue conseguenze, ma già in Fase seconda e soprattutto nella strada che va da Consacrazione della casa (1982) a Dopo una battaglia (1992) è evidente il bisogno da parte sua di fare i conti anche con la musica francese. D’altronde non è forse Parigi il terreno di coltura da cui germogliò la nuova idea di «moderno» così come venne ridefinita soprattutto da Baudelaire? È chiaro che in questo quadro ci si spinge più dalle parti di Benjamin che non da quelle di Adorno (il quale aveva trattato davvero un po’ troppo sbrigativamente il moderno baudelairiano in uno degli ultimi aforismi di Minima moralia: «Nel culto del nuovo, e quindi nell’idea del moderno, ci si ribella contro il fatto che non c’è più nulla di nuovo. […] Lo strato di ciò che non è già stato pensato in anticipo […] sembra consumato. È di esso che sogna l’idea del nuovo»). Così credo che nell’opzione parigina non sia assente presso Bortolotto una certa dose di ambi- valenza nei confronti del pur venerato Adorno. Dunque, se il suo rapporto con la musica francese passa attraverso il problema delle radici della modernità musicale in una prospettiva che superi Adorno, è evidente che sarebbe abbastanza inutile indicare in modo troppo rigido il corpus degli scritti bortolottiani dedicati a tale tema. Certo, Dopo una battaglia (sottotitolo: Origini francesi del Novecento musicale)3 funge da stella fissa di questo gruppo di testi, ma il problema della musica francese fa capolino anche là dove meno te lo aspetti. Per esempio, Consacrazione della casa4 (titolo tedeschissimo se altri mai) si apre con un denso saggio su Lohengrin (Barrage du cygne, pp. 11-43), ma in esso filtra più volte un parallelo con Les troyens di Berlioz alla cui posizione storica sarà dedicato, guarda caso, l’ultimo capitolo del libro. Eccone una sola citazione – cruciale, però, per il nostro discorso: «L’età del Lohengrin, in quell’indagine parallela sulla musica, il teatro e i loro fondamenti ideali, comprende un momento di massima ideazione progressiva. Il suo Vormärz non è certo un ancien régime estetico: Wagner può essere persino antiquato, non è mai neoclassico, a differenza di Berlioz» (p. 27). La questione è già posta non si potrebbe più chiaramente: al moderno postromantico tedesco si oppone il moderno neoclassico francese. Non è forse il flâneur baudelairiano, assetato di nouveau metropolitano, quasi la negazione del Wanderer tedesco, perso nella Natura e nell’Ideale? Le conseguenze ermeneutiche e storiografiche di questa opposizione saranno appunto sviluppate da Bortolotto in Dopo una battaglia. Non può non sorprendere, tuttavia, il ruolo di apripista assegnato a Berlioz nel brano citato e più in generale nel libro Consacrazione della casa. Nonostante che Monsieur Croche detestasse in fondo in fondo Berlioz (la cui influenza sulla musica moderna sarebbe secondo lui da considerarsi «quasi nulla»)5, quest’ultimo è per Bortolotto il primo compositore «sonoriel». Nella sua musica assistiamo «ad un esito di spazialità, certo la più intransigente fino a Nuages […]. La nuova concezione armonica di Berlioz è la condizione materiale dell’oggetto sonoro: sempre più determinante ai fini della spazializzazione è l’uso adialettico degli aggregati più consueti» (Tunisie française, pp. 303-334: 329). A questo proposito Bortolotto arriva a parlare di «suono liberato […] che apre alla cultura francese un’area che, per la prima volta, non sarà né di provincia né marginale né precaria, ma diverrà, per un periodo breve ma dalle decisive conseguenze, il cuore pulsante della musica moderna» (p. 325). Allo stesso modo, quando nel Cellini si rilevi la giustapposizione di caratteri stilisticomusicali riferibili ora al repertorio italiano, ora a quello comique, al grand opéra e persino al lyrique prossimo venturo, la conclusione non potrà essere che una: «Se il Novecento è la commistione dei generi, Berlioz lo anticipa, ancora una volta»6, in ciò svelando «una rabbiosa inattualità» rispetto al proprio tempo7. Nella medesima categoria, in quanto proCharles Gounod. Charles Baudelaire. trovata, si reggono sul ritmo narrativo, sono eminentemente favola didascalica: un Bildungsroman affidato alla continuità tensiva […]. È questo impegno di conservare l’unità d’una fantasmagoria continua, il fondamento dell’inafferrabile, a manifestare l’essenza dell’opera»13. Ed è ancora nel nome di Baudelaire, il Baudelaire del «comique absolu», che mi pare vada letta la singolare chiusa dettata da Bortolotto per il suo programma di sala sui Contes: «Si immaginino, sotto questa esposizione dell’opera, canonici pertichini, a riecheggiare i complimenti profusi dagli invitati di Spalanzani: “charmante, charmante!”»). Questo vuoto, già imbarazzante dopo il fiasco del Tannhäuser, diventa addirittura traumatico dopo la sconfitta di Sedan. Fin dagli anni sessanta del secondo impero, Saint-Saëns e gli altri introducono il concetto di «dislivello stilistico» su cui si fonderà la musica «al quadrato» di ogni futuro neoclassicismo. Di quegli anni è la riscoperta della tradizione clavicembalistica francese, ma non bisogna dimenticare che anche la Petite messe solennelle di Rossini è del 1863 – lo stesso anno in cui Baudelaire pubblica Le peintre de la vie moderne. I grandi slanci verso il passato del romanticismo incominciano a essere guardati con sospetto. Il nuovo classicismo parnassiano si pasce della fine di ogni possibile classicismo. Il passato è filtrato attraverso la consapevolezza di una frattura storica irrimediabile, che produce un senso di distacco nostalgico, ironico-onirico. In questo quadro è soprattutto il Settecento delle fêtes galantes, ultima spiaggia del passato preromantico e preborghese, a proporsi come un punto di riferimento obbligato. L’omonima raccolta di Verlaine viene pubblicata nel 1869 e sappiamo quale sarebbe stato il suo impatto presso i nuovi cultori della mélodie francese come Fauré e Debussy. A tutto ciò, come si diceva, si associa un drammatico bisogno di identità dopo la sconfitta di Sedan nel 1870. L’anno dopo nasce la Société nationale de musique, il cui ruolo in tale contesto è ben noto. È evidente che da questo momento la musica francese moderna diviene anche una «costruzione culturale», nel senso del costruzionismo storico contemporaneo, e una «tradizione inventata» nel senso dell’Invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm14. Naturalmente si tratta di una costruzione complessa e contraddittoria le cui componenti si trovano un po’ tutte nel lavoro storiografico di Bortolotto. Forse vale la pena ribadirle cercando di sviscerarne alcune ulteriori implicazioni: innanzitutto la dimensione «sonorielle» ovvero la poetica del «suono liberato», che porta all’ipersensibilità acustico-coloristica e all’interdipendenza tra armonia e timbro, tipicamente francesi, i cui esiti novecenteschi sono fin troppo evidenti; in secondo luogo il già ricordato «comique absolu» nella musica di Offenbach, che apre la strada a un certo Chabrier, all’Ubu roi di Alfred Jarry e Claude Terrasse, se non al «fumismo» e all’humour noir di Erik Satie (a dispetto dell’antipatia ch’egli ha sempre suscitato in Bortolotto), con tutto ciò che ne segue; infine la grande questione del neoclassicismo che porterà a Strawinsky, certo, ma che nel trattamento del Nostro si carica a sua volta di valenze diverse. Il modo bortolottiano di ripensare la nozione di neoclassicismo, allargandone sorprendentemente i Hector Berlioz. Il provetto stregone pugnatore del kitsch («un altro, e non ultimo, degli elementi intellettuali in cui la cultura, e la musica francese, precorre il Novecento») e dell’«ampliamento dello spettro sonoro come parametro compositivo»8, rientra anche Meyerbeer, con però una correzione decisiva: «la mescolanza di toni e modi diversi affatto […] in un sapientissimo amalgama» ha in questo caso lo scopo di «creare contrasti, fossero di cartapesta» (si riprendono, non sempre per smentirli, i ben noti capi d’accusa formulati da Schumann e Wagner), d’innescare effetti-sorpresa9; è proprio in grazia di essi che gli Ugonotti possiedono una «funzionalità teatrale» tale da renderli «sicuri come un moschettiere, e talvolta financo irresistibili»10. Eccoci dunque al libro in cui Bortolotto indaga le vicende della musica francese moderna – il più volte citato Dopo una battaglia. Recensii questo lavoro nel «Giornale della musica», aprile 199311, e mi pare che molte considerazioni fatte allora siano ancor oggi sottoscrivibili. Ma più che ribadirle qui in modo più o meno aggiornato, mi preme aggiungerne di nuove: mi preme fare i conti con gli anni che sono passati. Vorrei anche tentare di dare uno sguardo unitario a un libro che, come già Consacrazione della casa, potrebbe essere preso per una raccolta di medaglioni indipendenti, ma che è in realtà strutturato in un unico discorso – complesso e magmatico da una parte, fortemente integrato dall’altra. È necessario perciò individuare le idee-guida o i nuclei tematici strutturanti il discorso critico di Bortolotto, che sono tanto più sfuggenti in quanto non risultano quasi mai esplicitati o affrontati direttamente nel corso della trattazione. In primis la questione della modernità musicale che si lega a doppio filo, oggi mi pare più chiaro di allora, al problema dell’origine della poetica neoclassica. La musica francese si pone infatti come un vuoto per i primi adepti della modernità. Essa pare aver perso, dopo il crollo dell’ancien régime, il suo codice identitario. Cosmopolitismo e disincanto sembrano essere i suoi elementi dominanti. Il romanticismo si realizza davvero solo nella forma «bassa» del mélodrame. Nei salotti regna la romance. Quello di Berlioz è un caso che resta anomalo e che non fa testo. Ecco allora che Baudelaire da un lato teorizza il «moderno» come presa di coscienza di una frattura insanabile tra passato e presente, il cui esito è quello di un’attualità che consuma se stessa, dall’altro deve rivolgersi a Wagner, subito dopo lo scandalo del Tannhäuser, per celebrare l’epifania del nouveau musicale. Ma se si parte dall’idea famosa che «la modernité, c’est le transitoire, le fugitif, le contingent», ecc., allora il compositore più «moderno» a Parigi negli anni di Baudelaire è senza dubbio Offenbach, come aveva capito Siegfried Kracauer12 (questo spiega, tra l’altro, la forza d’attrazione che l’operetta ha esercitato su Bortolotto sin da prima di Consacrazione della casa: è chiaro infatti, per parafrasare ancora Baudelaire, che nella musica di Offenbach riconosciamo il marchio che il tempo imprime alle nostre sensazioni; tant’è vero che i Contes d’Hoffmann, «al di là d’ogni singola 67 Mario Bortolotto e le vie della musicologia 68 confini e facendone esplodere tutte le contraddizioni, mostra infatti una notevole dose di insofferenza per i luoghi comuni anche più consolidati: «La musicologia non sembra aver trovato nulla di meglio che la formula ormai faticosa, musica al quadrato: erronea per la più parte dei casi, in quanto s’avrebbe semmai a considerarla come una radice quadrata, qualcosa di assai più riducente, e non sempre per accrescere, con l’esiguità struttiva, la concentrazione essenziale» (p. 55). Ecco allora il formalismo ludico, il frammentismo, il gusto per il montaggio e l’odio per lo «sviluppo». Atteggiamenti già presenti nei pariginissimi Péchés de vieillesse di Rossini, che sembrano potersi ricollegare ex post alle paradossali miniature di Satie (ancora lui), passando per il Carnaval des animaux di Saint-Saëns, dove tra i Fossiles si cita appunto il Pesarese (ma in una folta compagnia, ivi compreso l’autore stesso): un collage parodistico che annuncia per molti versi il Jeu de cartes stravinskijano. Ma accanto a questo procedimento deformante, vi è in Saint-Saëns un altro tipo di neoclassicismo, quell’«attitudine che fu a momenti vigorosa a ripensare, come invenzione propria, qualsiasi procedimento», di modo che «stilemi specifici» tornino a essere «morfemi anonimi, e pertanto rivalutabili a piacere, ricomponibili entro una sintesi formale affatto nuova: autre»15. «Altra», si capisce, dalla lezione tedesca, la recente soprattutto («le piaghe parsifaliane del moderno in musica», p. 74): «la proposta di musica francese […] è quella di una musica perennis, anteriore in ogni caso […] all’irruzione della Romantik: sua divisa è comporre come se non vi fosse stata alcuna cesura, secondo l’antica saggezza e probità d’artigiano slegato dalle vicissitudini del tempo» (p. 73). In questo contesto, quello della «genealogia» del neoclassicismo, appare assai preziosa la presenza di Charles-Valentin Alkan, il cui misterioso pianismo (virtuosistico e intimissimo) è oggi in piena riscoperta16, ma che nel 1992 era – almeno in Italia – negletto o frainteso. In Dopo una battaglia Bortolotto dedica pagine di rara intelligenza critica ad Alkan. Egli parla spesso della «prospettiva neoclassica» insita nella «memoria d’oltretomba» (p. 30) di un artista che «costituisce il collegamento esclusivo, che fu insostituibile, fra la Romantik […] e il Parnasse» (p. 36), e chiosa mirabilmente alcune delle sue bellissime Esquisses (op. 63), come il Duettino (n. 14) che presenta «una annotazione di consapevolezza illuminata: “alla D. Scarlatti”»; oppure La poursuite (n. 25), «che rivolge un inchino ai mani di Fragonard»; oppure gli hommages à Rameau, «che vengono susseguendosi, con fedeltà di ex voto: Les enharmoniques (n. 41), […] Petit air à cinq voix (n. 42), […] il Rigaudon (n. 27)», ecc. (p. 31). Se nella musica di Alkan convivono ironia («costante parodica di ogni neoclassicismo», p. 34), un «teso impegno emotivo» romantico, e «ricadute» nel «sorpassato, il comune, e persino lo spurio» (pp. 36-37), a quella di Poulenc – siamo all’incirca un secolo dopo – l’etichetta «di neoclassico […] si addirebbe meno d’ogni altra. La distanza, anzitutto emotiva, da Strawinsky, è qui incalcolabile. Nel grande alfiere, il giuoco è, sempre, fondato sul dislivello storico […]. Poulenc può rigurgitare di riferimenti: […] ma quanto egli ne deduce ne annulla il riferimento cronologico, il daCharles-Valentin Alkan. to è assunto come mera locuzione. L’espressione […] è tutta e sempre diretta»17. Proprio questa caratteristica di Poulenc (per dirla in altro modo, la sua «inaudita capacità di inventare melodie», di «cantare») serve d’introduzione a un quarto elemento nella «costruzione» e «tradizione» della musica francese moderna – quello del drame lyrique o meglio, e più in generale, del fattore lyrique18 . Delle quattro componenti che ho cercato di enucleare è questa la meno indagata in Dopo una battaglia, forse anche perché considerata dall’autore troppo scontata (e poi, è innegabile il suo penchant per il comique: oltre al capitolo su Offenbach, «Empire d’outre-tombe», pp. 287294, si leggano le pagine dedicate a Chabrier e Delibes, «L’emozione e le spezie», pp. 249-285). Nel capitolo su Bizet, Bortolotto parla comunque di «rivelazione del lyrique» (p. 91), tirando in ballo naturalmente il Faust di Gounod19. La cui persona occupa poche pagine del capitolo introduttivo, «Passage de Sedan», nelle quali sono identificate le premesse di poetica e di linguaggio che «il più anziano» compositore, «affascinante natura doppia» (la devota e la sensuale, la tradizionale e l’innovativa, la squisita e la volgare: tutte fondamentali per una drammaturgia come la sua, imperniata sul «tema del contrasto»: p. 52)20, lasciò in eredità alle generazioni successive: il culto di Mozart (trasmesso a SaintSaëns, Chabrier, Debussy, Ravel, Poulenc…), il «contemplare, come strada unica allegramente percorsa, la distanza dai padri» (p. 44), «l’abbandono delle forme consuete, e la proposta di una nuova melodia, anticipo della petite phrase: di interesse estremo, infine, la ricerca del suono» (p. 23). D’altronde, è indubbio che Bortolotto, nell’ambito della «poetica […] tutta teatrale e francese», al «progenitore» anteponga i discendenti in linea diretta, Bizet (l’uomo che «ha scoperto una ricetta segreta: il motif […] qualcosa di immediato, […] evidente insieme ed incisivo»: p. 91) e, pur con tutti i limiti addebitatigli, Massenet («sul piano vocale, gli stampi gounodiani assai ripetuti cedono il passo […] a quel declamato melodico cui Massenet affida la sua inventiva migliore […]: Massenet può accogliere la strofa, ma tende ad aprirla in frasi libere, secondo equilibri metrici assai più sottili»: pp. 169 e 171). Del lyrique come segno identitario bisogna dire che da una parte esso è la risposta francese (ambivalentissima!) al diffondersi degli ideali estetici wagneriani: ecco allora l’arricchimento del vocabolario armonico, l’irrobustimento «leitmotivico» e l’importanza data alla dimensione orchestrale (al côté «sinfonico»): pensiamo ai lavori per il teatro o per la sala da concerto dei vari Franck, d’Indy, Magnard, Messager, Chabrier, Chauss o n , D u k a s … 21, dall’altra, lo spazio del lyrique si definisce in opposizione al canto italiano. Come scrisse SaintSaëns nei Portraits et souvenirs, «non nell’Orchestra [cioè nel Jacques Offenbach. Erik Satie. 1. Theodor Wiesengrund Adorno, Filosofia della musica moderna, trad. it. di Giacomo Manzoni, saggio introduttivo di Luigi Rognoni, Einaudi, Torino 1959 («Saggi», 245), rist. ivi 1975 («Reprints Einaudi», 30); ed. or. Philosophie der neuen Musik, Mohr, Tubingen 1949. Mario Bortolotto, Fase seconda. Studi sulla Nuova Musica, Einaudi, Torino 1969 («Saggi», 445); rist. ivi, 1976 («Reprints Einaudi», 89), e Adelphi, Milano 2008 («Saggi. Nuova serie», 58). 2. Stefan Jarocinski, Debussy. A impresjonizm i symbolizm, Polskie Wydawnictwo Muzyczne, s.l. s.d. [1966]; trad. franc. di Thérèse Douchy, Debussy. Impressionisme et symbolisme, préface de Vladimir Jankélévitch, Éd. du Seuil, Paris 1970 («Musiques»); trad. it. di Maria Grazia D’Alessandro, Debussy. Impressionismo e simbolismo, prefazione di Vladimir Jankélévitch, Discanto, Fiesole 1980, rist. La nuova Italia, Firenze 1999 («Discanto/contrappunti», 6). 3. Bortolotto, Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale, Adelphi, Milano 1992 («Saggi. Nuova serie», 9). 4. Id., Consacrazione della casa, Adelphi, Milano 1982 («Saggi», 22). 5. «On peut même dire sans ironie que Berlioz fut toujours le musicien préféré de ceux qui ne connaissaient pas très bien la musique… les gens du métier s’effarent encore de ses libertés harmoniques […]. Sont-ce les raisons qui rendent presque nulle son influence sur la musique moderne et qui resta, en quelque sorte, unique?»: Claude Debussy, Berlioz et M. Gunsbourg (1903), in Id., Monsieur Croche et autres écrits, introduction et notes de François Lesure, Gallimard, Paris 19872 («Imaginaire», 187), pp. 168-171: 169. 6. Bortolotto, Utopia d’un insuccesso, in Id., Corrispondenze, Adelphi, Milano 2010 («Saggi. Nuova serie», 65), pp. 166-169: 167. Benché uscito dopo il convegno tenutosi nel 2007 a Ninfa (Latina), in occasione del quale ho preparato questo intervento, il libro raccoglie articoli, programmi di sala e saggi in larghissima maggioranza risalenti ai due decenni precedenti. Per comodità dei lettori ho perciò deciso di citare i testi utili al mio discorso nella loro veste editoriale definitiva. 7. Id., Berlioz allo specchio delle lettere, ivi, pp. 170185: 185. Sull’«inattualità» di Berlioz ha insistito in più d’un’occasione anche Fedele d’Amico. Si vedano almeno Berlioz cent’anni dopo (1969), in Id., Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali, a cura di Franco to incontestabile, riconosciuto – come si è visto – anche da Bortolotto, e indagato nelle sue pieghe più riposte da Steven Huebner in un libro (The Operas of Charles Gounod)22 uscito quasi contemporaneamente a Dopo una battaglia, di cui finisce per rappresentare insieme una premessa e un complemento. Da questa ricerca di un’intonazione melodico-vocale fluida, modellata spesso in modo assai raffinato e sfumato sul ritmo del testo letterario, deriva in gran parte il percorso del lyrique. Un percorso valido sulla scena come in sala da concerto o in salotto (emblematica, in questo senso, la vicenda creativa, ossia «il silenzio di Duparc»: p. 161). È chiaro che dal punto di vista di un italiano come Verdi – secondo il quale «Gounod è un grandissimo musicista, […] ma non ha fibra drammatica» – una tale attenzione alla parola (alle forme dell’espressione) implica un disdicevole disinteresse per la situazione e la posizione (per le forme del contenuto). Di qui l’accusa di scarsa drammaticità. Il periodare simmetrico e regolare della tradizione italiana, con schemi accentuativi fissi e ben scanditi, è incompatibile con la ricerca tipicamente lyrique di un’intonazione intima e nuancée. Perfino la «e» muta, che per secoli era stata una terribile zavorra, diventa in questo quadro una risorsa preziosa. Per dirla con Verlaine, ma un po’ anche con Fauré e Debussy23: «Pas la couleur, rien que la nuance». ◼ Serpa, Einaudi, Torino 1991 («Saggi», 748), pp. 111138, e i programmi di sala su Roméo et Juliette (1969) e i Troyens (1960), ora raccolti in Id., Forma divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, 2 voll., a cura di Nicola Badolato e Lorenzo Bianconi, prefazione di Giorgio Pestelli, Olschki, Firenze 2012 («Historiae musicae cultores», CXXV), I, pp. 132-139 e 222-227. 8. Bortolotto, Senza causa, in Id., Corrispondenze, cit., pp. 192-197: 195-196. 9. Id., Wagner l’oscuro, Adelphi, Milano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42), p. 72. 10. Id., Senza causa, cit., pp. 192-197: 194-95. 11. Emilio Sala, Tra le rovine di Parigi, «Il giornale della musica», 82, aprile 1993, p. 23. 12. Siegfried Kracauer, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, trad. it. di Sergio Montecucco, Marietti, Casale Monferrato 1984 («Collana di saggistica», 13), rist. Garzanti, Milano 1991 («Gli elefanti. Saggi»); ed or. Jacques Offenbach und das Paris seiner Zeit, Allert de Lange, Amsterdam 1937. 13. Bortolotto, I «Contes», i casi e il caso, in Id., Corrispondenze, cit., pp. 222-237: 236-237. 14. L’ invenzione della tradizione, a cura di Eric Hobsbawm e Terence Ranger, trad. it. di Enrico Basaglia, Einaudi, Torino 1987 («Biblioteca di cultura storica», 164); ed. or. The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983 («Past and Present Publications»). 15. Bortolotto, Bibbia neoclassica, in Id., Corrispondenze, cit., pp. 238-247: 245 e 242. Ma si veda anche Id., Dopo una battaglia, cit., in particolare le pp. 82 e 87. 16. Per due studi assai innovativi sul pianismo di Alkan: Jacqueline Waeber, Du bon usage destitres: le cas Alkan, in La Note bleue. Mélanges offerts au Professeur JeanJacques Eigeldinger, éd. J. Waeber, Lang, Bern-BerlinBruxelles-Frankfurt am Main-New York-OxfordWien 2006 («Publications de la Societé suisse de musicologie», II, 45), pp. 241-265; Ead., Searching for the Plot: Charles-Valentin Alkan’s «Souvenirs»: «Trois morceaux dans le genre pathétique», op. 15, «Journal of the Royal Musical Association», 132, 1, November 2007, pp. 60-114. 17. Bortolotto, Dialoghetto del fascino e dell’impudenza, in Id., Corrispondenze, cit., pp. 257-262: 261-262. 18. Su storia e fortuna del concetto: Hans-Joachim Wagner, Lyrisches Drama und Drame lyrique. Eine Skizze der literar- und musikhistorischen Begriffsgeschichte, «Archiv für Musikwissenschaft», XLVII, 1990, pp. 73-84. 19. In un’amichevole disputa con Fedele d’Amico a proposito di due regìe firmate da Luca Ronconi (Sieg fried di Wagner alla Scala di Milano, Faust al Comunale di Bologna), Bortolotto espresse un giudizio lapidario sul lavoro più celebre di Gounod: «un’opera in cui di serio non c’è proprio nulla»: Sig frido e Faust li vedo così (1975), in d’Amico, Tutte le cronache musicali. «L’espresso» 1967-1989, 3 voll., a cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho, prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000, II (1973-1978), pp. 1154-1158: 1155. 20. Gli stessi concetti si ritrovano anche in Bortolotto, Due nature senza saldo, in Id., Corrispondenze, cit., pp. 216-221. 21. Si vedano almeno la sezione Wagner-Rezeption in der französischen Oper und Symphonik, in Von Wagner zum Wagnérisme. Musik, Literatur, Kunst, Politik, hrsg. von Annegret Fauser und Manuela Schwartz, Leipziger Universitätsverlag, Leipzig 1999 («DeutschFranzösische Kulturbibliothek», 12), pp. 229-431, e Steven Huebner, French Opera at the Fin de Siècle. Wagnerism, Nationalism, and Style, Oxford University Press, Oxford-New York et al. 1999. 22. Id., The Operas of Charles Gounod, Oxford University Press, Oxford et al. 1990. Il secondo libro di Huebner, il citato French Opera at the Fin de Siècle, in sostanza copre lo stesso periodo trattato da Bortolotto, ma più che gli approdi novecenteschi, indaga la «reconciliation of Wagner’s influence with French operatic tradition and national identity» (p. VII), ragione per cui questioni di natura politica, ideologica e sociologica vi occupano un peso determinante accanto alle «considerazioni di genere [musicale], drammaturgia e stile musicale» (p. IX), le sole – o quasi – che realmente interessano l’equivalente italiano. 23. Su Fauré, incarnazione della «liricità assoluta, raggiungibile attraverso lo scavo armonico», il capitolo «Confini dell’ebbrezza» in Bortolotto, Dopo una battaglia, cit., pp. 187-247; su Debussy, il saggio su Pelléas et Mélisande (L’alga, la passione e il tao), in Id., Consacrazione della casa, cit., pp. 65-91. Il provetto stregone “sinfonismo”], non nella Parola [cioè nell’enfasi declamatoria] è il Verbo del drame lyrique: esso è nel Canto». Ma un nuovo canto flessibile e interiorizzato. Si veda a questo proposito l’irritazione di Gounod di fronte alla trasformazione di «Salut, demeure chaste et pure» in «Salve, o casta e pia dimora», la cui accentuazione e scansione troppo chiare e nette, tipicamente italiane, distruggono, secondo lui, «tutto il mistero, tutto il pudore della mia armonia». Che Gounod, autore di quasi duecento mélodies, abbia introdotto nella musica francese una nuova sensibilità prosodica è un fat- 69 Mario Bortolotto e le vie della musicologia 70 Mario Bortolotto, «cavaliere errante senza dama certa» N di Francesco Zambon el settembre del 1996, avendo tenuto all’Università di Trento un corso sulla Canzone della Crociata albigese, ho organizzato per i miei studenti un viaggio di studio nel Languedoc occidentale con lo scopo di visitare i principali luoghi e monumenti che testimoniano la presenza dell’eresia catara in quella regione fra xii e xiii secolo. Saputo del mio programma, Mario Bortolotto si è aggregato prontamente e con entusiasmo alla piccola spedizione: provenendo da Roma ha raggiunto il mio gruppo a Carcassonne, dove avevo fissato la base per le nostre escursioni. Grande viaggiatore in ogni parte del mondo, Mario non conosceva anco- tieri sassosi o insidiose rovine, sempre pronto e disposto a salire a quelle che Michel Roquebert ha definito le «cittadelle della vertigine». Come gli studenti, che hanno imparato presto ad amarlo, era sempre attentissimo alle mie sommarie spiegazioni storiche; ma credo sia stato colpito molto più profondamente dalla spettacolarità dei luoghi e dalle infinite suggestioni letterarie e artistiche che ne promanano. La tappa più rivelatrice in questo senso – un poco eccentrica rispetto ai temi del viaggio, ma obbligatoria dopo il mirabolante libro di Baigent, Lincoln e Leigh (The Holy Blood and the Holy Grail)1, che Mario aveva letto avidamente – è stata Rennes-le-Château, il villaggio in cui l’abate Saunière avrebbe scoperto nei primi anni del Novecento il «tesoro dei catari» (il Graal?). Di per sé, si tratta di un misero paesino appollaiato sulle prime pendici dei Pirenei; ma possiede senza dubbio un fascino inquietante e perfino sinistro con quella 2. 1. ra il Pays cathare, come ormai lo denominano, con qualche esagerazione, pannelli stradali e guide turistiche. Del resto non è territorio facile da visitare, essendo necessario percorrerlo in auto o in pullman lungo strade e stradine tortuose, che attraversano le valli e le montagne dell’Aude e dell’Ariège. Quella doveva perciò essergli parsa una ghiotta occasione per conoscere non solo i luoghi storici in cui si era sviluppato il catarismo, ma anche quelli nei quali una mitografia moderna di ispirazione essenzialmente wagneriana aveva situato il castello del Graal. Il viaggio, assistito da un tempo favorevole, è durato una settimana circa. Dopo aver naturalmente visitato la cité di Carcassonne, ricostruita nell’Ottocento da Viollet-le-Duc con qualche eccesso di teatralità, ma non per questo meno evocativa, abbiamo toccato molti degli hauts lieux catari nelle antiche contee di Tolosa e di Foix e della viscontea Trencavel: i castra di Fanjaux e di Montréal, grandi centri al tempo stesso della poesia trobadorica e dell’eresia, gli impressionanti resti dei castelli di Quéribus e di Peyrepertuse, fra le ultime roccheforti dei faidits, di quelli di Lastours e Arques, fino all’incontournable castello di Montségur, che le cerchie occultiste del Midi identificarono agli albori del secolo scorso con il Munsalvaesche di Wolfram von Eschenbach e il Monsalvat di Wagner. Si partiva ogni mattina alle otto in punto dal nostro albergo di Carcassonne con un pullman appositamente noleggiato e si rientrava nel tardo pomeriggio alla base dopo aver raggiunto le mete previste. Mario era puntualissimo e, malgrado un abbigliamento talvolta più adatto alla visita di un museo o a un concerto che a scarpinate per sen- 3. sua chiesetta gremita di strani oggetti e iscrizioni, e soprattutto con la misteriosa torre Magdala fatta costruire da Saunière. Malgrado i miei tentativi – forse troppo timidi – di demistificazione, non sono riuscito a convincere Mario: «Qui sotto c’è qualcosa», mi ripeteva camminando per la sala sotto la quale la leggenda vorrebbe sepolto il misterioso tesoro. Naturalmente Mario Bortolotto sapeva già tutto del catarismo e del mito del Graal. Ricordo che all’epoca in cui uscì un mio libro sui testi catari2 mi mostrò a casa sua le edizioni critiche del Liber de duobus principiis e del Rituale cataro di Lione pubblicate nelle «Sources Chrétiennes»3: opere da specialisti della materia. Ma è soprattutto del Graal, via Wagner, che Mario si è interessato in maniera approfondita. Nel suo magistrale – quanto avvincente – Wagner l’oscuro, due capitoli sono dedicati rispettivamente al Lohengrin e al Parsifal4 . Tutta la prima parte di quest’ultimo era stata redatta in origine per un programma di sala ed era intitolata Sul testo del «Parsifal»5: me la fornì in fotocopia – piena di sottolineature e di annotazioni – il nostro grande amico comune Enzo Turolla, che voleva sentire il mio parere, ma consegnando1. Il castello di Montségur; 2. L’abate Saunière; 3. Parsifal; 4. La torre Magdala a Rennes-le-Château; 5. Miniatura da Perceval o il racconto del Graal di Chrétien de Troyes. della musica – il valore poetico e, il termine è suo, la natura di «gnosi»6. Ma non solo. Facendo un passo decisivo oltre la gran parte delle ricerche specialistiche, egli mette largamente a profitto anche i più importanti studi di carattere storico-religioso e antropologico sul Graal: quelli di Guénon, Eliade, Corbin, Ponsoye7. E arriva a conclusioni sorprendenti, come quando addita l’essenziale del messaggio del Parsifal in quello che Pierre Ponsoye, citato testualmente, riconosce come il messaggio essenziale del Parzival di Wolfram von Eschenbach: che l’Ordine del Graal esista attraverso il tempo oltre la decadenza progressiva del mondo umano, universale e permanente come la Verità essenziale ed unica, presente e nascosta che esso profetizza; che dovesse attuarsi effettivamente nella storia con l’accesso delle élites responsabili d’Oriente e Occidente a quella Verità e alla loro propria unità in essa; che l’Islām fosse l’agente predestinato di quel riconoscimento e di quell’opera8. Il fatto è che Mario Bortolotto lettore e ascoltatore di Wagner è a sua volta alla ricerca di un suo Graal; per questo egli tende qualche volta a dare per acquisite, nel suo personale 5. ni italiane di testi stranieri senza 4. l’originale a fronte, conosce e cita tutte queste opere in lingua d’oil o in alto tedesco medio, non sempre elargendone al lettore una versione italiana. La sua ricostruzione delle linee portanti del mito medioevale è impeccabile sotto il profilo storico e filologico e gli consente poi un serrato confronto con la rielaborazione wagneriana, di cui mostra le intime connessioni simboliche e perfino esoteriche con i modelli (per esempio riguardo ai temi della ferita magica, della domanda salvatrice e del silenzio) e rivendica – indipendentemente dalla grandezza 1. Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, The Holy Blood and the Holy Grail, Cape, London 1982, trad. it. di Roberta Rambelli Pollini, Il santo Graal, Mondadori, Milano 1982 («Ingrandimenti») e successive ristampe (per lo più col titolo Il santo Graal. Una catena di misteri lunga duemila anni) in altre collane o presso altre case editrici (CDE, Fabbri). 2. La cena segreta. Trattati e rituali catari, a cura di Francesco Zambon, Adelphi, Milano 1997 («Biblioteca Adelphi», 332). 3. Rituel cathare, introduction, texte critique, traduction et notes par Christine Thouzellier, Les éditions du Cerf, Paris 1977 («Sources chrétiennes», 236). 4. Mario Bortolotto, «Barrage du cygne» e «Pallore rituale», in Id., Wagner l’oscuro, Adelphi, Mi- «manoscritto di Kyot», ipotesi anche un poco ardite e certificate da una autorevole «tradizione gnostica» piuttosto che da una dimostrazione scientifica. In fondo il suo atteggiamento verso il grande mito è simile a quello dei romantici e ancor più dei Décadents: alla insaziabile curiosità erudita – che fu propria anche di Wagner, lettore di testi medievali allora ignoti anche ai più colti – si sposa una ricerca della Verità nascosta e inesprimibile, fosse pure soltanto quella del bello e dell’arte. La sua ricerca del Graal assomiglia a quella degli amanti della Parola Perduta descritta da Fernando Pessoa in un frammento del suo progettato scritto sull’iniziazione, Atrio: «Cavalieri erranti senza dama certa, lungo vie e foreste di sogno ed errore, nell’eterna selva oscura del conseguimento imperfetto»9. ◼ lano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42), pp. 107-139 e 371-435. 5. Id., Sul testo del «Parsifal», in Parsifal, programma di sala, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 1991/1992, Edizioni del Teatro alla Scala, RCS-Rizzoli libri, Milano 1991, pp. 81-105. 6. Id., Wagner l’oscuro, cit., p. 371 e passim. 7. René Guenon, Simboli della scienza sacra, trad. it. di Francesco Zambon, Adelphi, Milano 1975 («Il ramo d’oro», 6) e successive ristampe; Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it. di Virginia Vacca, Einaudi, Torino 1954 («Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici», 23) e successive ristampe, ed. or. Traité d˘istoire des religions, préface de Georges Dumézil, Payot, Paris 1949 («Bibliothèque scientifique»); Henry Corbin, L’immagine del Tempio (1950-1974), trad. it. di Barbara Fiore, Boringhieri, Torino 1983 («Saggi»), rist. SE, Milano 2010 («Testi e documenti», 200), ed. or. Temple et contemplation, Flammarion, Paris 1980 («Idées et recherches»); Pierre Ponsoye, L’Islam et le Graal. Étude sur l’ésotérisme du Parzival de Wolfram von Eschenbach, Arché, Milano 1976 (« Bibliothèque de l’Unicorne. Série française», 9), trad. it. di Maurizio Murelli, All’insegna del veltro, Parma 1980, rist. SE, Milano 1989 («Saggi e documenti del Novecento», 14). 8. Bortolotto, Wagner l’oscuro, cit., p. 389. 9. Fernando Pessoa, Pagine esoteriche, a cura di Silvano Peloso, Adelphi, Milano 1997 («Piccola Biblioteca», 391), p. 63, e successive ristampe. Il provetto stregone mi lo scritto ne elogiò subito la «straordinaria orchestrazione». Esso è stato poi completato con alcune pagine dedicate prevalentemente all’analisi musicale e inserito nel volume wagneriano con il titolo «Pallore rituale». La parte riguardante il testo del Parsifal non è solo mirabilmente concertata – come tutti i saggi di Mario Bortolotto – ma è anche uno degli studi più informati e illuminanti sul mito del Graal che siano usciti in Italia. Per analizzare il poema wagneriano, infatti, egli parte da una disamina accurata e di primissima mano – cosa assai rara in questo campo di studi, che stranamente i più non sembrano considerare materia squisitamente filologica – delle origini e degli sviluppi del mito nei testi fondatori del medioevo, dal Conte del Graal di Chrétien de Troyes fino al Parzival di Wolfram von Eschenbach e alle altre riscritture germaniche (fonti dirette, ma non uniche di Wagner), senza trascurare nemmeno il celtico Peredur. Mario, che non ama in generale le t r a du z io - 71 Mario Bortolotto e le vie della musicologia 72 Per Mario Bortolotto C di Iván Vándor onosco Mario Bortolotto dal 1960, quando col comune amico Roberto Calasso venne a sentire un mio pezzo al saggio di composizione della classe di Petrassi nei corsi superiori dell’Accademia di Santa Cecilia. Dopo di allora, e dopo che l’anno successivo vinsi il concorso della Società italiana di musica contemporanea, prendemmo l’abitudine di incontrarci per passeggiare nella vecchia Roma e conversare, oltre che di musica naturalmente, di surrealismo e di Oriente, di René Daumal e del «Grand Jeu», di cultura mitteleuropea. Ci vedevamo anche per delle cene con amici e conoscenti o per riunirci la sera da me a far musica (ricordo ancora un Così fan tutte con Guido Turchi al pianoforte, io – un Don Alfonso temo non sempre intonato – e Mario, che cantava Ferrando magnificamente, quale un tenore mozartiano nato). Poi per me ci furono gli Stati Uniti, una ricerca sulla mu- sica del buddismo tibetano nelle regioni himalayane, parecchi anni a Berlino a dirigere l’Istituto internazionale di studi musicali comparati quale successore di Alain Daniélou, e Mario e io ci incontravamo solo in occasione delle mie puntate romane o veneziane per il Festival di musica contemporanea o per un pezzo che mi aveva chiesto per l’Orchestra Scarlatti della rai a Napoli, di cui, in quel periodo intorno al 1978, era direttore artistico. Dopo il mio ritorno in Italia, Mario, se a Roma, mi ha sempre onorato della sua presenza in occasione dell’esecuzione di un mio pezzo e fino a qualche anno fa si sobbarcava la fatica di fare quattro piani di scale a piedi per salire da me ad ascoltare la registrazione di un mio nuovo lavoro. Ultimamente ha scritto delle deliziose righe di presentazione per un disco di musiche mie, righe di cui gli sono molto grato. Dei suoi libri non parlo. Altri lo faranno con molta più competenza di quanto non possa fare io. Ma li ho naturalmente letti tutti, dal primo sul Lied romantico a quest’ultima vera e propria leccornia che sono le sue Corrispon- denze (in cui, detto per inciso, ho appreso che l’ultimo medico di Brahms aveva lo stesso cognome di mia nonna paterna, Grünberger – una scoperta in più che debbo a Bortolotto). Ho, quindi, letto tutti i suoi libri e li ho amati tutti – alcuni ovviamente più di altri, – anche se a volte io, che non ho fatto le scuole italiane, ho dovuto rileggere alcuni passaggi molto lunghi perché avevo perduto per strada il soggetto. Vorrei concludere queste poche righe semplicemente ringraziando Mario Bortolotto, oltre che per quello che da lui ho appreso – ed è molto – e per la sua talvolta burbera ma autentica gentilezza, anche per ciò che rappresenta nella cultura italiana non solo musicale, contribuendo così tanto a sprovincializzarla. ◼ In senso orario: Roberto Calasso, Goffredo Petrassi, Iván Vándor, René Daumal nel 1944. F di Giuseppina La Face Bianconi ederico Maria Sardelli, flautista, musicologo, direttore, conosce la produzione di Antonio Vivaldi (strumentale e vocale) come se l’avesse composta lui. Non è un’iperbole. Solo un’immedesimazione profonda nel modus operandi del compositore veneziano può generare un lavoro geniale come questo Catalogo delle concordanze musicali vivaldiane. Tutti sanno che il Prete Rosso «si ripeteva» con abbondanza e nonchalance: e il riciclo patente di spunti, temi e motivi non è certo l’ultimo tra i fattori che sul suo stile imprimono un marchio inconfondibile. Ebbene, Sardelli ha registrato qualcosa come ottomila rimandi tra un’opera e l’altra di Vivaldi, e ci ha aggiunto il dare e l’avere con una trentina di musicisti coevi, Bach e Händel in testa. Per farlo non si è valso di un calcolatore, bensì della sua memoria di musicista: infatti nel catalogo di Sardelli i loci communes riscontrati sono raramente preceduti dal segno «eguale», e ben più spesso dai segni «circa» e «più o meno». In altre parole, Vivaldi non si ripete quasi mai alla lettera, bensì adatta, elabora, sviluppa, modifica, cesella: operazioni che il computer non saprebbe riconoscere né descrivere, il cervello del musicista invece sì. E qui si innesca l’altro côté del libro: le centoquaranta pagine introduttive, che illustrano le tecniche compositive del Prete Rosso, sono forse il miglior trattato oggi disponibile sul suo stile. Un lavoro d’alta classe. La serie delle «Tesi» di musicologia promossa dall’Associazione De Sono di Torino su impulso di Francesca Gentile Camerana prosegue ora sotto i nitidi torchi dell’editore Albisani di Bologna. Inaugura la serie la dissertazione torinese di Marco Targa su Puccini e la Giovane Scuola; il sottotitolo precisa l’ambizioso tema: «drammaturgia musicale dell’opera italiana di fine Ottocento». L’autore ha passato al vaglio le tecniche musicali e le procedure drammatico-narrative in trentacinque opere tra il 1890 (Cavalleria rusticana) e il 1907 (Gloria): accanto a Mascagni e Cilea, primeggiano Leoncavallo, Giordano e l’eponimo Puccini. Targa ha fatto bene a non restringere il campo alla corrente rigorosamente verista: l’assortimento dei soggetti drammatici è infatti in quest’epoca quanto mai vario. E se si punta a individuare le «leggi» non scritte che, dal livello della singola melodia all’organizzazione d’un intero atto, governano la drammaturgia musicale in questa fin de siècle così rigogliosa di talenti e smaniosa di sperimentazioni pur entro l’alveo Federico MAria Sardelli, Catalogo delle concordanze musicali vivaldiane, Firenze, Leo S. Olschki, 2012 («Studi di musica veneta - Quaderni vivaldiani»; 16), cxlvii-240 pp., isbn 978-88-222-5869-4, euro 42. Marco Targa, Puccini e la Giovane Scuola. Drammaturgia musicale dell’opera italiana di fine Ottocento, Torino-Bologna, De Sono Associazione per la musica Albisani Editore, 2012, 320 pp., isbn 978-88-95803-15-9, euro 22. Il Canto dei Poeti. Versi celebri da Dante al Novecento nelle romanze e liriche dei compositori italiani, a cura di Sabine Frantellizzi, Lugano-Milano, CFS – Casagrande Fidia Sapiens, 2012, 384 pp. con due cd audio (40 romanze e liriche di C. Pinsuti, A. Rotoli, S. Gastaldon, M. Pilati, M. Castelnuovo-Tedesco, T. Mabellini, I. Pizzetti, A. Gasco, O. Respighi, M. Persico, G. F. Ghedini, S. Noli, E. De Leva, G. A. Pastore, M. E. Marangoni, F. P. Frontini, S. Mercadante, A. Marchetti, R. Brogi, F. P. Tosti, A. Morelli, L. Caracciolo, S. Falchi, R. Leoncavallo, L. Denza, R. Zandonai, G. Sgambati e P. A. Tirindelli su versi da Dante Alighieri ad Ada Negri; Fausto Tenzi tenore, Maurizio Carnelli pianoforte), isbn 978-88-7795-212-7, euro 65. di una tradizione cogente, giova tenere ampio il raggio della comparazione. Il libro, ben articolato e ben scritto, mantiene le promesse: ogni indagine futura sulle strutture formali di queste opere «a tessuto continuo» dovrà misurarsi con questo lavoro. La storia del Canton Ticino è legata a filo doppio col Risorgimento italiano: basti pensare alla lunga e feconda presenza dell’esiliato Carlo Cattaneo, e al ruolo svolto dalle tipografie di Lugano e Capolago nella diffusione degli ideali indipendentisti. Alle recenti celebrazioni per l’Unità d’Italia un editore luganese, Giampiero Casagrande, ha inteso offrire un singolare omaggio che confermasse «l’appartenenza culturale della Svizzera italiana alla vicina Repubblica»: con la collaborazione di musicologi di nome, tra cui Guido Salvetti, Cesare Orselli, Philip Gossett, e di un tenore ticinese, Fausto Tenzi (accompagnato nei due cd audio dal pianista Maurizio Carnelli), ha imbastito un ponderoso ed erudito album di studi, Il Canto dei Poeti, copiosa antologia di romanze otto-novecentesche composte sui versi dei «poeti che hanno fatto l’Italia», da Dante Alighieri ad Ada Negri. Nel volume spicca il saggio del musicologo Carlo Piccardi, Correnti d’aria: storie di confine tra Svizzera e Italia, che ripercorre le vicende dell’ospitalità offerta a tanti e tanti musicisti dalle valli della Svizzera italiana, di volta in volta come riparo alle persecuzioni vuoi confessionali (nel sec. xviii) vuoi politiche (nel xix) o per l’attrattiva climatica dei luoghi. ◼ carta canta — libri Le recensioni 73 Gianni Berengo Gardin Storie di un fotografo Un progetto di / A project of In collaborazione con / In association with Un progetto di / A project of In collaborazione con / In association with Con il contributo di / With the contribution of Con la partecipazione di / With the participation of Tre Oci Giudecca 43, Venezia fermata / stop Zitelle Con la partecipazione di / With the participation of Tre Oci Giudecca 43, Venezia fermata / stop Zitelle Gianni Berengo Gardin Storie di un fotografo Con il contributo di / With the contribution of Orari / Hours tutti i giorni / everyday 10.00 - 19.00 chiuso martedì / closed Tuesday Orari / Hours tutti i giorni / everyday 10.00 - 19.00 chiuso martedì / closed Tuesday Info tel.+39 041 24 12 332 [email protected] www.treoci.org Prenotazioni / Bookings tel.+39 041 86 20 761 www.ticket.it/ GianniBerengoGardin Info tel.+39 041 24 12 332 [email protected] www.treoci.org Prenotazioni / Bookings tel.+39 041 86 20 761 www.ticket.it/ GianniBerengoGardin Gardin / Contrasto Berengo Gardin / Contrasto Design CamuffoDesign Lab / Stampa Camuffo Grafiche Lab / Stampa Veneziane Grafiche Veneziane©Gianni Berengo ©Gianni GIANNI BERENGO GARDIN GIANNI BERENGO GARDIN STORIE DI UN FOTOGRAFO STORIE DI UN FOTOGRAFO VENEzIA / TRE OcI VENEzIA / TRE OcI 01.02.>12.05.2013 01.02.>12.05.2013 A di Ilaria Pellanda utenticità, personalità e stile, brani originali che si sposano a temi noti proposti e «trattati» con freschezza e intelligenza, melodie che si mescolano, si sovrappongono, ritornano, rimandano, ricordano… Tutto questo, e molto altro ancora, lo si può trovare nella Scorribanda di Marco Castelli (sassofonista, compositore e produttore, artista eclettico che si muove anche nell’ambito del teatro, della danza e nel vasto territorio della performance intermediale) e della sua BandOrkestra.55. Uscito lo scorso settembre e prodotto dallo stesso Castelli, da Gabriele Centis, Fulvio Zafret (guest alle percussioni) e dalla Casa della Musica di Trieste (dov’è stato registrato), il nuovo disco propone un mix di generi diversi, un impasto sonoro che è poi il marchio di Scorribanda, fabbrica della BandOrkestra. BandOrkestra.55 Le nove tracce del cd propondiretta da Marco Castelli, prodotto da Marco Castelli, gono un viaggio in musica che va Gabriele Centis, Fulvio Zafret idealmente a completare il perproduttore esecutivo corso iniziato con BandalarCasa della Musica di Trieste ga (Extra Urbania / Blue Serge, registrato, mixato 2005) e proseguito poi con Banmasterizzato da Fulvio Zafret dando (cni 2009): più che il co(Urban Recording Studio ronamento di una trilogia, però, Casa della Musica-Trieste) si tratta invece di un ulteriore tascni 2012 sello nella carriera dell’Orkestra, che ondeggia tra aspetti popolari e altri di maggiore modernità. «L’intenzione è quella di traghettare la Banda verso il terzo millennio», ha detto Marco Castelli, «e questo disco segna un’inedita tappa in questa direzione». Le sonorità dell’album non sono legate a doppio filo con la tradizione jazzistica, pur rispecchiandone molti dei connotati, e vanno piuttosto a lambire varie parti del mondo per attingervi ritmi e atmosfere: l’elemento balcanico (notevole la prima traccia, che dà il nome al disco) si sposa a quello africano, e quello più strettamente popolare a un’elettronica più spiccatamente moderna. Composta da quattordici elementi, la BandOrkestra.55 non è infatti una Big Band in senso classico ma piuttosto una sorta di Banda Moderna, appunto, che utilizza una miscela di swing, ska, boogie-woogie, afro, latin, reggae e che mescola aspetti colti a momenti più scanzonati. Da «Scorribanda» a «Vertical Dance», «Acqua» e alla «Battaglia di Zama» – tutte a firma di Castelli –, da «Baby Elephant Walk» a «Lullaby of Birdland», «Jacksong», «Quizas Quizas Quizas» e «Day Tripper», Scorribanda si muove a braccetto – fra gli altri e in maniera del tutto originale – con Mancini, Gershwin, Lennon, McCartney, Jackson, in un gioco di note in continuo divenire. Tra gennaio e febbraio, per chi volesse più che un assaggio dal vivo, l’Orkestra di Castelli sarà al Vapore di Marghera e al Q-Bar di Padova per le prime due tappe di un tour che nel corso del 2013 proseguirà in altre località del Veneto e dei suoi dintorni. (Per ulteriori informazioni: bandorkestra. marcocastelli.org). ◼ La laguna provoca dipendenza: lo dicono i «Veneziani per scelta» È stato presentato lo scorso 22 novembre alla Fondazione Querini Stampalia il libro Veneziani per scelta, curato da Caterina Falomo e Manuela Pivato per i tipi di Studio LT2 . Si tratta della terza fase di un progetto iniziato un paio di anni fa, che ha visto la pubblicazione di Quando c’erano i veneziani (Studio LT2 , 2010) e di I nuovi veneziani (Studio LT2 , 2011), un progetto che, come scrive la stessa Falomo nella prefazione della nuova pubblicazione, «è stato e continua a essere una ricerca appassionata e curiosa tra le pieghe della città e di chi la vive». Ecco allora che i Racconti di chi ha deciso di vivere in laguna – è questo il sottotitolo del volume che in copertina disegna una laguna, appunto, dai toni rosa shocking (la foto rielaborata è di Fulvio Roiter) – prendono vita dalle testimonianze di chi, per lavoro, amore, destino, ha eletto Venezia come propria dimora; di chi, mentre la città continua a registrare un inesorabile calo dei residenti, di lei proprio non può fare a meno. In diciotto interviste a professionisti ed esponenti della cultura, intervallate dalle illustrazioni in bianco e nero di Sergio Staino, Falomo e Pivato svelano i motivi di queste smisurate passioni. Paolo Baratta (presidente della Biennale) ha «corteggiato Venezia come si fa con le belle donne»; per Irene Bignardi (critico cinematografico) la laguna è «come un piccolo love affair extraconiugale. Rende migliore la mia vita romana»; secondo Pierre Cardin (stilista) «Venezia non sta morendo, è la sua morfologia a essere cambiata. Accogliere i turisti fa parte della sua cultura»; per Giorgia Fiorio (fotografa) si tratta di «una città piena di doppi e tripli fondi. Per questo più la abiti e più la apprezzi»; Ottavia Piccolo (attrice) ha capito di «essere diventata compiutamente veneziana il giorno in cui ho iniziato a lamentarmi»; secondo Philippe Starck (designer) «a Venezia non si può scappare né consumare l’altro. Per questo il rispetto reciproco è fortiscaterina falomo simo»; e poi ancora: Jennifer e manuela pivato Cabrera Fernàndez (ballerina), (a cura di), Frances Clarke (presidente di Veneziani per scelta. Venice in Peril Fund), Andrea I racconti di chi ha deciso di Robilant (scrittore), Vittodi vivere in laguna, rio Gregotti (architetto), GeofStudio LT2, Venezia, 2012, 124 pp., euro 16. frey Humphries (pittore), Danilo Mainardi (etologo), Moulaye Niang (maestro vetraio), Salomon Resnik (psicanalista), Cesare Rimini (avvocato), Gaston Salvatore (drammaturgo), Luigi Strada (medico chirurgo fondatore di Emergency), Michel Thoulouze (produttore di vini). Tutti «laguna-dipendenti». Perché, come disse Peggy Guggenheim, «vivere a Venezia, o semplicemente visitarla, significa innamorarsene e nel cuore non resta più posto per altro». (i.p.) ◼ carta canta — dischi - libri La nuova «Scorribanda» di Marco Castelli 75 carta canta — libri 76 Il teatro del professore Due nuove raccolte di Paolo Puppa P di Leonardo Mello emerge con maggior forza è la potenza della scrittura, che ribollisce nelle battute incalzanti, e non sembra avere – almeno scopertamente – alcun modello di riferimento, nutrendosi invece di un’originalità stilistica raramente rintracciabile nel teatro odierno. La sempre montante nevrosi, spesso sessuale, come cifra della contemporaneità, e lo sguardo consapevole (e discreto) dell’intellettuale che sta dietro le sapienti costruzioni drammaturgiche sono tra gli elementi che fanno da fil rouge, venati qua e là da un sarcasmo della ragione e da momenti invece più lirici ed elegiaci. Anche la lingua ha una tavolozza aolo Puppa, ordinario di Storia del Teatro a Ca’ Foscari, è autore drammatico da tempo pubblicato, tradotto e studiato (recentemente alla sua drammaturgia, insieme a quella, altrettanto densa, di Vittorio Franceschi è stata dedicata una due giorni all’Università di Bologna). E al già fitto catalogo di testi editi si aggiunge ora un nuovo dittico, composto da Le commedie del professore, raccolta che riunisce quattro pièce inedite – Intervista alla Marchesa, Selvaggia, la notte, L’Ateneo delle Meduse e Girolamo) e Cronache venete, collage di dodici, mirabili «assoli». Il primo volume presenta due composizioni a struttura dialogica: la Marchesa – cui ha dato vita scenica Milena Vukotic – è Luisa Casati, una delle tante amanti di D’Annunzio, che viene «torchiata» da un giornalista affamato di pettegolezzi sulla vita del Vate, mentre Selvaggia, la notte descrive un rapporto sofferto e impossibile tra Emily Dickinson e un suo appassionato, fervente ammiratore di oggi: a questa conversazione rarefatta e ora struggente ora inquietante hanno dato voce alle Sale Apollinee lo stesso autore (che continua nell’inesausta e applaudita attività di performer, in patria e all’estero) e un’altra grande attrice delle nostre scene come Elena Bucci (cfr. vmed n. 44, p. 35). A seguire un ironico affresco a cinque personaggi, realizzato nel 2011 all’interno delle Esperienze di Giovani a Teatro, in occasione del laboratorio di scrittura paolo puppa, teatrale «Parole in forma sceniCronache venete ca», dove la vanità inconcluden(Menippo a Montebelluna, te e vaniloquente degli accademiIn via Paolo Caliari, a Verona, ci è messa alla berlina prendendo Caco di Asiago, spunto da un convegno pseudoSaturno in Via Fapanni, Mestre, scientifico sulla figura mitologica Abramo a Prato della Valle, Padova, di Medusa. Chiude un’altra figuUn confessionale. Chiesa dei Carmini, Salomè a Pordenone, ra di studioso frustrato, incarnaTersite a Piazzale Roma, ta in Girolamo, che cova un’irriOnan ad Auronzo, ducibile invidia per il più celebre Fedra a Treviso, collega Agostino. Filemone al cimitero di Cortina, Ma al di là delle necessaria- Sarah a Vicenza, vicino al Teatro Olimpico), mente sintetiche parole di spie- introduzione di Gerardo Guccini, Titivillus, gazione, rintracciabili in qualsiCorazzano (pi) 2012, asi quarta di copertina, ciò che euro 11. assai variegata, passando dall’inglobazione degli slang a improvvise impennate nelle zone alte della nostra tradizione. Il tutto sfuggendo sempre il pericolo di un eccesso di letterarietà e restando invece intrinsecamente, essenzialmente teatrale. A mo’ di suggestione, senza i nessi necessari per contestualizzare le due battute, si fornisce qui un piccolo assaggio, preso in prestito alla Dickinson e al suo immaginario innamorato: lei Niente cortei per la Main Street, ma via, via, quasi di corsa, tra i campi incolti verso il cimitero. Il granoturco mi salutava per l’ultima volta. Nei campi, i carri affondavano a caricar zucche. A tavola avrebbero tolto il mio piatto? Mi avviavo lungo grandi strade di silenzio che portavano lontano, a paesi di pausa, dove il tempo non aveva più fondamento. Sono scesa allora nella tomba, mentre un asse del mio cervello si spezzava e precipitavo giù, giùùùùù, attraverso nuovi mondi ad ogni successiva caduta in basso. Poi, ho finito di capire. Nella mia stanza, avevano disposto mazzetti di margherite e mughetti, quelli che inserivo nelle lettere agli amici. Ero persino diventata bella, hanno scritto. Scomparse le rughe e il bianco dai capelli, spalancata la fronte alla pace. Penetrare nell’eternità è solo una notte selvaggia e una nuova strada. lui Selvaggia come la tua notte potente, eh, come le tue passioni nascoste? Quando le tue labbra invocavano e gemevano per un Eden sconosciuto, e volevi aspirarne i gelsomini, perdendoti nei suoi profumi. Ma a chi ti riferivi? Emily, a chi? A chi? Quel Tu sempre imprecisato, Dio, uomo, donna, il Master delle lettere misteriose? Quel Tu mai nominato è stato all’inizio il pastore presbiteriano Charles Wadsworth dalla voce profonda, il gran predicatore, a cui riservavi i tuoi sorrisi quando ormai non c’era più? Oppure il giudiPaolo Puppa. ce Lord? A lui confessavi uno strano sogno, quello di perdere la tua guancia nella sua mano. Gli confidavi anche di meravigliarti quanto ti mancasse di notte, dal momento che non eri mai stata con lui. Ti svegliavi calda dal trasporto che il sonno aveva in qualche modo appagato. E poi gli mandavi allusioni eloquenti, dove giacevi vicino al suo desiderio. E gli chiedevi di stare tra le sue braccia dentro la notte felice. Il secondo libro, Cronache venete, è composto esclusivamente di monologhi. Ma anche in questa struttura «solitaria» il dialogo con i personaggi evocati dal parlante di turno è continuo e costante. Talvolta si tratta di figure prese dal mondo antico, come ad esempio il filosofo Menippo, e spesso appartenenti al mito – Fedra, Filemone, ecc. ecc. – che però sono calate nel cosiddetto «territorio», vale a dire nel famoso Nordest, a contatto con la realtà disincantata del mondo attuale (qualche titolo esemplificativo: Caco ad Asiago, Saturno in Via Fapanni – Mestre, Abramo a Prato della Valle – Padova…). Alfredo Sgroi, del resto, dedicando un breve saggio al teatro di Puppa parlava di «rinascita del mito e degradazione borghese» (cfr. (cfr. vmed n. 40, p. 13). Anche qui il linguaggio è estremamente diversificato, e, come sempre, dominante è la varietà dei toni, che vanno dal corrosivo all’intimistico, dal grottesco al quotidiano, dal sublime al colloquiale. Anche in questo caso, per offrire un semplice saggio di queste dodici «cronache» si sceglie quella forse più dolente, Filemone al cimitero di Cortina, dove un vecchio ordinario di storia dell’arte dialoga giornalmente con la moglie morta (chiamandola Bauci, ma anche affettuosamente «ranocchia» e «vecchia mia»), almeno fino a quando un giovane dai denti bianchissimi, che è la sua antitesi esistenziale (ignorante, divo della televisione, ricco e disinibito) non giunge a turbare, almeno un po’, l’ordinato flusso della sua vita: In alto: Milena Vukotic e Marco Gambino in Intervista alla marchesa, regia di Terry D’Alfonso. Sopra: Elena Bucci. […] Qualche pomeriggio mi spingo sino alla biblioteca e protesto perché acquistano pochi libri ormai. Sanno che tutti i miei li lascerò a loro, e specie per quelli di arte sono un bel lascito, ma devono darsi da fare, crisi o non crisi. Più spesso, me ne sto appisolato il pomeriggio ad ascoltare buona musica da camera. Ma tu sei o non sei là, dietro a qualche nuvola? Non giudicarmi male. Non ho avuto il coraggio di farla finita. Perché a me le grandi scene non sono mai piaciute. E uscire in anticipo, magari sbattendo la porta, sarebbe costruire una scena. Anche per i commenti. Il vecchio, o anziano come dicono oggi, l’orso solitario che vive nella casa lasciatagli dalla moglie infelice, perché sterile, non ha resistito ai rimorsi. […] Certe sere, quando ci sono le stelle e fa caldo mi verrebbe voglia di uscire, ma con chi? Mi sembrerebbe di tradirti con una qualche inautentica socialità. Nei bambini, ripetevi, c’è Dio, come nei gatti. Era il tuo pensiero fisso, quello di un figlio. E in effetti, i bambini, quasi tutti, hanno un Dio dentro. Ma poi crescono, ranocchia, mettono su baffi e petto, e vogliono fare quello che piace loro. In realtà mandano avanti la macchina nauseante della vita. Altre nascite, altri gemiti, altre digestioni. E spendere soldi, e rubarli o farseli rubare. E intanto il tempo avanza, e a noi resta solo il ricordo che è sempre bugiardo. In conclusione, tornando al doppio ruolo di professore e drammaturgo che contraddistinguono Paolo Puppa (lui stesso, nel prologo alle Commedie del professore, si definisce «anfibio»), si vuole citare un brano della bella introduzione di Gerardo Guccini alle Cronache venete, dove viene fatto il punto proprio su questa fruttuosa dualità: paolo puppa, Le commedie del professore (Intervista alla Marchesa, Selvaggia, la notte, L’Ateneo delle Meduse e Girolamo), Editoria & Spettacolo, Roma 2012, 156 pagine, euro 13. «Il ritratto, l’estrazione meticolosa e paziente dei contenuti visionari della scrittura, le implicazioni psichiche dei gesti estetici e di quelli biografici, la ricomposizione della storia teatrale a partire dalle traiettorie umane dei teatranti, sono i principali strumenti metodologici e, al contempo, espressivi, che consentono a Paolo Puppa di attraversare indenne ideologismi e problematiche teoriche, traendone, anzi, conoscenze riferibili al turbinoso coacervo pulsionale e intellettivo che determina l’agire umano e persiste poi nelle opere realizzate. Per queste ragioni, la dimensione accademica e scientifica di Puppa storico del teatro non si contrappone alla molteplice creatività di Puppa dramaturg e performer. Tutto all’opposto, la prepara, la alimenta, le offre di scorcio soluzioni, idee, materiali e prospettive». ◼ carta canta — libri 77 Stagione 2012-2013 Fondazione Teatro La Fenice Concerti al Teatro La Fenice Concerti al Teatro Malibran Concerto Thielemann Concerto Chung a Palazzo Ducale Dove acquistare i biglietti platea settore A settore B (file E-M) € 60,00 € 70,00 platea € 60,00 settore A (centrale) settore B (semicentrale) settore C (laterale) € 70,00 € 50,00 € 60,00 € 50,00 € 120,00 € 140,00 palco centrale posti di parapetto posti non di parapetto balconata I settore II settore platea settore A settore B (file E-M) palco centrale posti di parapetto posti non di parapetto € 60,00 € 45,00 palco centrale posti di parapetto posti non di parapetto € 120,00 € 100,00 Venezia Teatro La Fenice, Campo San Fantin, San Marco 1965: aperta tutti i giorni dalle 10.00 alle 17.00 Piazzale Roma: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30 Tronchetto: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30 Lido, Piazzale Santa Maria Elisabetta: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30 (solo per acquisto biglietti) palco laterale posti di parapetto posti non di parapetto € 45,00 € 30,00 palco laterale posti di parapetto posti a scarsa visibilità posti di solo ascolto € 90,00 € 45,00 € 15,00 galleria loggione € 28,00 € 20,00 galleria e loggione posti a scarsa visibilità posti di solo ascolto € 70,00 € 40,00 € 15,00 Prezzi singoli concerti palco laterale posti di parapetto posti a scarsa visibilità posti di solo ascolto € 55,00 € 20,00 € 15,00 galleria e loggione posti a scarsa visibilità posti di solo ascolto € 35,00 € 20,00 € 15,00 Prezzi singoli concerti Prezzi singoli concerti Prezzi singoli concerti I biglietti sono acquistabili presso i seguenti punti vendita della rete Hellovenezia: € 120,00 € 140,00 € 140,00 Mestre Via Verdi 14/D: dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 18.30 - sabato dalle 8.30 alle 13.30 Dolo Via Mazzini 108: dal lunedì al sabato dalle 8.30 alle 18.30 (solo per acquisto biglietti) Sottomarina Viale Padova 22: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30 (solo per acquisto biglietti) Un’ora prima dell’inizio presso la sede dello spettacolo (solo per acquisto biglietti della serata) Biglietteria telefonica: (+39) 041 2424 (commissione telefonica del 10%, solo per acquisto biglietti): tutti i giorni, fino al giorno precedente allo spettacolo, dalle 9.00 alle 18.00 Al Teatro La Fenice i possessori dell’intero palco (4 posti) possono acquistare altri posti fino alla massima capienza consentita, al prezzo ciascuno di € 10,00. Biglietteria on-line: www.teatrolafenice.it (solo per acquisto biglietti) Biglietteria via fax: (+39) 041 2722673 (solo per acquisto biglietti e conferma prelazioni abbonamenti) Stagione SINFONICA Nel segno di Mahler Teatro La Fenice Teatro La Fenice Teatro Malibran 2012-2013 Teatro Malibran venerdì 5 ottobre 2012 ore 20.00 turno S domenica 7 ottobre 2012 ore 17.00 turno U venerdì 22 febbraio 2013 ore 20.00 turno S sabato 23 febbraio 2013 ore 17.00 turno U mercoledì 8 maggio 2013 ore 20.00 turno S giovedì 9 maggio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento venerdì 7 giugno 2013 ore 20.00 turno S sabato 8 giugno 2013 ore 20.00 fuori abbonamento direttore Diego Matheuz direttore Stefano Montanari direttore direttore Sergej Prokof'ev Diego Matheuz Maurice Ravel Wolfgang Amadeus Mozart Autore da definire Wolfgang Amadeus Mozart Sinfonia concertante per oboe, clarinetto, corno, fagotto e orchestra in mi bemolle maggiore KV Anh. I, 9 Wolfgang Amadeus Mozart Pëtr Il’ič Čajkovskij Sinfonia n. 40 in sol minore KV 550 Pavane pour une infante défunte per piccola orchestra Concerto per pianoforte e orchestra n.20 in re minore KV 466 pianoforte Leonardo Pierdomenico vincitore del Premio Venezia 2011 Pëtr Il’ič Čajkovskij Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 Patetica Orchestra del Teatro La Fenice Sinfonia n. 29 in la maggiore KV 201 Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64 Orchestra del Teatro La Fenice Teatro Malibran venerdì 1 marzo 2013 ore 20.00 turno S sabato 2 marzo 2013 ore 17.00 turno U direttore Teatro La Fenice lunedì 22 ottobre 2012 ore 20.00 turno S direttore Diego Matheuz Gianluca Cascioli Yuri Termirkanov composizione vincitrice del Concorso Francesco Agnello 2012 Suite dal balletto Lo schiaccianoci op. 71a Variazioni su un tema Rococò per violoncello e orchestra in la maggiore op. 33 Trasfigurazione Pëtr Il’ič Čajkovskij Pëtr Il’ič Čajkovskij Modest Musorgskij Sinfonia n. 3 in re maggiore op. 29 Quadri di un’esposizione trascrizione per orchestra di Maurice Ravel Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala Orchestra del Teatro La Fenice Teatro La Fenice Teatro La Fenice venerdì 22 marzo 2013 ore 20.00 turno S domenica 24 marzo 2013 ore 17.00 turno U direttore Gabriele Ferro venerdì 7 dicembre 2012 ore 20.00 turno S domenica 9 dicembre 2012 ore 17.00 turno U Diego Matheuz Pëtr Il’ič Čajkovskij Sinfonia n. 2 in do minore op. 17 Piccola Russia Sinfonia n. 1 in sol minore op. 13 Sogni d’inverno direttore Igor Stravinskij Pulcinella, suite per orchestra da camera Sergej Prokof’ev Sinfonia n. 1 in re maggiore op. 25 Classica Orchestra del Teatro La Fenice Orchestra del Teatro La Fenice Basilica di San Marco Teatro Malibran giovedì 13 dicembre 2012 ore 20.00 solo per invito venerdì 14 dicembre 2012 ore 20.00 turno S venerdì 26 aprile 2013 ore 20.00 turno S domenica 28 aprile 2013 ore 17.00 turno U direttore Claudio Scimone Stefano Montanari programma da definire Orchestra del Teatro La Fenice in collaborazione con la Procuratoria di San Marco direttore Wolfgang Amadeus Mozart Sinfonia n. 1 in mi bemolle maggiore KV 16 Concerto per fagotto e orchestra in si bemolle maggiore KV 191 Sinfonia n. 38 in re maggiore KV 504 Praga Orchestra del Teatro La Fenice Per informazioni, prenotazioni e acquisto biglietti Information and ticket booking call center Hellovenezia (+39) 041.2424 www.teatrolafenice.it Nuova commissione Progetto contemporaneo Concerto per flauto, arpa e orchestra in do maggiore KV 299 Orchestra del Teatro La Fenice Teatro Malibran giovedì 16 maggio 2013 ore 20.00 turno S venerdì 17 maggio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento direttore Rinaldo Alessandrini Autore da definire Nuova commissione Progetto contemporaneo Wolfgang Amadeus Mozart Concerto per corno e orchestra n. 3 in mi bemolle maggiore KV 447 Sinfonia n. 39 in mi bemolle maggiore KV 543 Orchestra del Teatro La Fenice Diego Matheuz Marcia in si bemolle maggiore op. 99 Pëtr Il’ič Čajkovskij Serenata per archi in do maggiore op. 48 Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36 Orchestra del Teatro La Fenice Cortile di Palazzo Ducale venerdì 19 luglio 2013 ore 20.00 turno S domenica 21 luglio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento direttore Myung-Whun Chung Giuseppe Verdi Messa da Requiem per soli, coro e orchestra Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti FUORI ABBONAMENTO Teatro La Fenice giovedì 30 maggio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento Teatro Malibran venerdì 24 maggio 2013 ore 20.00 turno S domenica 26 maggio 2013 ore 17.00 turno U direttore Rinaldo Alessandrini Wolfgang Amadeus Mozart Divertimento per archi n. 1 in re maggiore KV 136 Concerto per pianoforte e orchestra pianoforte Vincitore del Premio Venezia 2012 Sinfonia n.41 in do maggiore KV 551 Jupiter direttore Christian Thielemann Richard Wagner Der fliegende Holländer: Ouverture Eine Faust-Ouvertüre WWV 59 Rienzi: «Allmächtiger Vater» Rienzi: Ouverture Lohengrin: Preludio Lohengrin: «In fernem Land» Hans Werner Henze Isoldes Tod per orchestra Orchestra del Teatro La Fenice commissione del Festival di Pasqua di Salisburgo e della Staatskapelle di Dresda per i 200 anni dalla nascita di Richard Wagner (22 maggio 1813) Teatro La Fenice Richard Wagner sabato 1 giugno 2013 ore 20.00 turno S direttore Dmitrij Kitajenko Pëtr Il’ič Čajkovskij Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35 prima esecuzione italiana Tannhäuser: «Inbrunst im Herzen» Tannhäuser: Ouverture tenore Johan Botha Sächsische Staatskapelle Dresden Igor Stravinskij Le sacre du printemps Orchestra del Teatro La Fenice F ONDAZIONE T EATR O L A F ENICE D di Leonardo Mello opo aver ideato la grande festa del teatro, che nel giugno scorso ha coinvolto con molto successo tantissime scuole del nostro territorio, ora Laura Barbiani, presidente del Teatro Stabile del Veneto, per celebrare i vent’anni di attività dell’istituzione da lei guidata si fa autrice curando Il Teatro Stabile del Veneto. Vent’anni di produzioni 1992-2012. Il volume si presenta accattivante e di immediata e avvincente lettura, forse perché rifugge la retorica degli anniversari concentrandosi invece sul racconto degli ottantuno spettacoli prodotti dal 1992 a oggi. Ma quello che colpisce maggiormente è il taglio dato alla narLaura Barbiani (a cura di), Il Teatro Stabile del Veneto. razione, come esplicita il titolo del lungo te- Vent’anni di produzioni 1992-2012, interventi di Marino Zorzato, sto, Un sogno, restare Orsoni, Andrea Colasio, nella memoria del pub- Giorgio Alessandro Gassmann, blico. E quest’impostacatalogo delle produzioni zione è confermata sin a cura di Sara Perletti, dalla pagina di apertuMarsilio, Venezia 2012, 144 pagine. ra: «Una carrellata, e un’esposizione di foto e manifesti di cui è difficile scrivere perché il teatro vive solo nel presente, e anzi solo “del” presente di ogni singola rappresentazione condivisa da quella singola comunità di pubblico. Quando si smonta uno spettacolo, infatti, quel pezzo di teatro muore perché senza pubblico il teatro non esiste. […] Ma allora che senso ha questo catalogo? A mio parere uno soprattutto, importantissimo: parlare alla memoria di chi era in sala quando i nostri spettacoli erano in scena, richiamare le emozioni che il teatro regala da millenni, dialogare insomma con ciò che non muore soffocato sotto il peso dell’ultima calata di sipario; e non importa se poi si tratta solo di tracce sommerse d’esperienza o invece di ricordi in piena luce, perché saranno comunque elementi di quella cultura condivisa che è a sua volta parte necessaria del teatro che verrà». In questo contesto compaiono i protagonisti di questi primi vent’anni dello Stabile, a cominciare da Giulio Bosetti, che ne fu primo direttore artistico, per arrivare, attraverso illustratissime tappe, all’attuale conduzione di Alessandro Gassmann, con il quale il teatro si è aperto maggiormente alla contemporaneità. Il percorso scivola via agevole, mantenendo l’impegno – come da premessa programmatica – di restituire scene, volti, grandi interpreti rimasti impressi nella memoria degli spettatori. Un’opera pregevole e da tenere a portata di mano, sia per consultarla che per gustarsela seduti in poltrona. ◼ In volume un omaggio allo storico della danza José Sasportes P di Ilaria Pellanda ubblicato per i tipi di aracne, è uscito sul finire del 2012 Passi, tracce, percorsi. Scritti sulla danza italiana in omaggio a José Sasportes. Curato da Alessandro Pontremoli e Patrizia Veroli – che scrive anche il saggio su «Boris Romanoff in Italia» – il volume rende omaggio a una delle personalità che maggiormente hanno operato per la valorizzazione della cultura coreografica nel nostro Paese. Portoghese di nascita, scrittore e storico della danza e già ministro della Cultura del Portogallo, José Sasportes – che lo scorso dicembre ha compiuto settantacinque anni, festeggiati presso la Sala Borromini della Biblioteca Vallicelliana di Roma, dove, per l’occasione, è stato presentato il suddetto volume (realizzato con il contributo di airdanza) – giunge in Italia nel 1976, e nel 1984 fonda la rivista «La Danza Italiana», che va a marcare uno spartiacque nella cultura coreutica del nostro Paese. «Affiancandosi come impostazione a riviste affermatesi per lo più in ambito anglosassone e poco tempo prima anche in Francia (da “Dance Index” a “Dance Perspectives”, da “Dance Chronicle” a “Dance Research” e a “La Recherche en Danse”)», scrive Patrizia Veroli nelle prime righe della sua premessa, «il periodico condivideva con esse un obiettivo di studio legato alla danza d’arte e teatrale, rimanendone escluse dunque la danza popolare e quella di sala. La rivista nasceva, come Sasportes dichiarava nel primo numero, “da una carenza e da una convinzione. La carenza sta nella mancanza di una storia della danza in Italia […]. La convinzione deriva dalla certezza che la storia della danza in Europa, così come oggi risulta dai testi, è incompleta e distorta proprio a causa di una imperfetta conoscenza di ciò che è stata la danza italiana”». Il volume è composto da venticinque testi che, tra ricerca, memorie e riflessioni, ripercorrono alcuni dei nodi che hanno caratterizzato la storia del ballo e i rapporti che esso ha intrattenuto con la società nei suoi vari aspetti, dal Seicento ai giorni nostri. All’omaggio hanno preso parte Michele Abbondanza, Laura Aimo, Alessandro Arcangeli, Leonetta Bentivoglio, Carolyn Carlson (suo anche Gratitude, l’Inchiostro del 2012 pubblicato in copertina), Sybilalessandro pontremoli le Dahms, Ornella Di Tone Patrizia veroli (a cura di), do, Rita Maria Fabris, FranPassi, tracce, percorsi. cesca Falcone, Lynn GaraScritti sulla danza fola, Gloria Giordano, Elisa in omaggio a José Sasportes, Guzzo Vaccarino, Concetaracne editrice, Roma, 2012, 349 pp., euro 18. ta Lo Iacono, Sylvie Mamy, Sarakìh McCleave, Valeria Morselli, Cevilia Nocilli, Marina Nordera, Maurizio Padovan, Francesca Pedroni, Silvia Poletti, Barbara Sparti, Alberto Testa, Lorenzo Tozzi. ◼ carta canta — libri Laura Barbiani racconta i vent’anni dello Stabile del Veneto 79 VeneziaMusica e dintorni 80 Bimestrale di musica e spettacolo Come abbonarsi: tramite versamento sul conto corrente postale n. 62330287 oppure con bonifico bancario anche via internet iban IT 44 J 07601 02000 000062330287 indicando la causale del versamento Prezzo unitario: 5 euro Abbonamento ordinario a sei numeri: 25 euro Abbonamento sostenitori a sei numeri: 40 euro Per informazioni: tel. 041 2201932 fax 041 2201939 e-mail [email protected] web www.euterpevenezia.it Le collaborazioni di questo numero • Fabio Achilli (p. 57) Direttore della Fondazione di Venezia • Enrico Fiore (p. 46) Critico teatrale • Giò Alajmo (p. 38 e pp. 42- 44) Critico musicale • Tommaso Gastaldi (p. 35) Giornalista freelance • Carmelo Alberti (p. 45) Critico teatrale Università Ca’ Foscari di Venezia • Giovanni Greto (p. 37) Critico musicale Musicista • Shaul Bassi (pp. 48-49) Università Ca’ Foscari di Venezia • Giuseppina La Face Bianconi (p. 73) Università di Bologna • Gualtiero Bertelli (pp. 40-41) Cantautore • Fernando Marchiori (p. 39) Scrittore Critico teatrale • Manuela Bertoldo (pp. 60-61) Urbanista Redazione Agenda Venezia • Giorgio Busetto (pp. 62-64) Direttore della Fondazione Ugo e Olga Levi Università Ca’ Foscari di Venezia • Angela Ida De Benedictis (p. 29) Musicologa Direttore scientifico del Centro Studi Luciano Berio • Fabrizio Della Seta (pp. 14-15) Musicologo Università di Pavia • Maria Chiara Del Piccolo (p. 31) Studiosa di musica • Gianni Di Capua (p. 58) Regista e filmmaker • Vitale Fano (p. 28) Musicologo (Università di Padova) • Roberta Ferraresi (p. 56) Critico teatrale • Cristina Palumbo (p. 57) Consulente Giovani a Teatro Fondazione di Venezia • Jacopo Pellegrini (p. 65) Critico musicale • Paolo Petazzi (p. 22) Critico musicale Conservatorio di Musica «Giuseppe Verdi» di Milano • Manuela Pivato (p. 36) Giornalista • Massimo Marino (p. 54) Critico teatrale • Quirino Principe (pp. 20-21) Musicologo Critico musicale Scrittore • Andrea Oddone Martin (p. 30) Critico musicale • Riccardo Rocca (pp. 12-13) Musicologo • Alberto Massarotto (p. 55) Critico musicale • Emilio Sala (pp. 66-69) Università Statale di Milano • Mario Merigo (p. 24) Critico musicale Direttore d’orchestra • Mirko Schipilliti (pp. 18-19 e p. 25) Musicista Critico musicale • Mario Messinis (p. 23) Critico musicale • Chiara Squarcina (p. 27) Musicologa • Guido Michelone (p. 34) Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Conservatorio di Musica «Antonio Vivaldi» di Alessandria Critico musicale • Vitaliano Trevisan (p. 52) Scrittore Drammaturgo • Letizia Michielon (p. 26) Musicista Critico musicale • Iván Vándor (p. 72) Compositore Etnomusicologo • John Vignola (pp. 32-33) Critico musicale • Francesco Zambon (pp. 70-71) Università di Trento la (p cr ar it te ic se a co o nd g a) gi Eresia della felicità a Venezia Anno IX - marzo / aprile 2012 - n. 45 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice la c (p rit ar te ic te a o rz g a) g i Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 la c (p r ar it te ic qu a ar og ta g ) i Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. 48 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 VeneziaMusica e dintorni è acquistabile presso la redazione (Dorsoduro 3488/u, Venezia) e nei seguenti punti distributivi: Libreria Al Capitello, Cannaregio 3762, Venezia; Libreria Cafoscarina, Dorsoduro 3259, Venezia; Libreria Goldoni, San Marco 4742, Venezia; Bookshop del Teatro La Fenice, San Marco 1965, Venezia; Bookshop della Scuola Grande di San Rocco, San Polo, Venezia; Libreria Ub!k, Corso del Popolo 40, Treviso; Bookshop del Teatro Olimpico, Stradella del Teatro 8, Vicenza.