Ovunque note di pace Ovunque note di pace

Ovunque note di pace
(Foto di Mariano Beltrame).
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VeneziaMusica e dintorni
Anno x – n. 50 – gennaio / febbraio 2013
Reg. Tribunale di Venezia n. 1496 del 19 / 10 / 2004
Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004
ISSN 1971-8241
Direttore editoriale: Giuliano Segre
Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano
Direttore responsabile: Leonardo Mello
Caporedattore: Ilaria Pellanda
Art director: Luca Colferai
Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano,
Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin,
Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti
Segreteria di redazione: Erica Molin e Antonietta Giorni
Redazione e uffici: Dorsoduro 3488/U – 30123 Venezia
tel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939
e-mail: [email protected]
[email protected]
web: www.euterpevenezia.it
VeneziaMusica e dintorni è stata fondata
da Luciano Pasotto nel 2004
In copertina:
50
arte grafica di Luca Colferai.
Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore),
Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis,
Ignazio Musu, Giampaolo Vianello
Editore: Euterpe Venezia s.r.l.
Euterpe Venezia è una società strumentale
della Fondazione di Venezia che si occupa dello studio, della
produzione e della gestione di processi e interventi formativi,
di ricerca e di presenza nel campo delle arti
e dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite
alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivo
e alle discipline a esse correlate
Presidente: Gianpaolo Fortunati
Amministratore delegato: Giovanni Dell’Olivo
Consiglieri: Mariano Beltrame, Eugenio Pino
La Fondazione di Venezia è presieduta da Giuliano Segre
Consiglio generale: Giorgio Baldo, Vasco Boatto,
Riccardo Calimani, Carlo Carraro, Renata Codello,
Antonio Foscari, Anna Laura Geschmay Mevorach,
Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza, Amerigo Restucci,
Paolo Rubini, Franco Reviglio,
Maria Luisa Semi, Giovanni Toniolo
Stampa: Tipografia Crivellari 1918
Via Trieste 1, Silea (Tv)
Questo numero è stato realizzato
grazie alla collaborazione
di Michele Girardi, Fernando Marchiori,
Massimo Tamalio, Adriana Vianello, Andrea De Marchi,
Livia Sartori, Elena Casadoro, Andrea Benesso
Raccolta pubblicitaria:
Luciana Cicogna
347 6176193 – [email protected]
Nicoletta Echer
348 3945295 – [email protected]
Tiratura: 3000 copie
Uscita bimestrale
Venezia, musica, dintorni…
di Giuliano Segre
7
Un traguardo importante
di Luciano Pasotto
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Editoriale 50
di Leonardo Mello
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Un Manifesto per VeneziaMusica e dintorni
sommario
6
3
focus on
12 La vocalità restituita
Gregory Kunde è Otello alla Fenice
di Riccardo Rocca
14 Intorno ai «Masnadieri»
di Fabrizio Della Seta
16 Libertà o morte
Schiller/Verdi secondo Gabriele Lavia
a cura di Leonardo Mello
18 Daniele Rustioni dirige «I masnadieri» alla Fenice
a cura di Mirko Schipilliti
20 Verdi versus Wagner: alla pari?
di Quirino Principe
22 Sul «Tristano»
di Paolo Petazzi
23 Le ambiguità di un antieroe
Il «Lohengrin» di Claus Guth alla Scala
di Mario Messinis
24 Il «Nabucco» di Verdi secondo Stefano Poda
di Mario Merigo
9
12-24
opera
25 Verdi e Wagner alla Fenice
(e non solo)
Interventi di Fabrizio Della
Seta, Quirino Principe, Paolo
Petazzi e Mario Messinis
Mozart e i bambini: ecco il pubblico di domani
di Mirko Schipilliti
classica
26 Giovani interpreti per future platee
La nuova iniziativa della Società Veneziana di Concerti
di Letizia Michielon
27 Diego Matheuz sul podio tra Čajkovskij e Mozart
di Chiara Squarcina
28 Un omaggio a Luciano Berio
di Vitale Fano
29 Luciano Berio, un ritratto
di Angela Ida De Benedictis
30 «Le salon romantique» di Palazzetto Bru Zane
di Andrea Oddone Martin
31 La «Trasfigurazione» di Cascioli per l’Orchestra di Padova e del Veneto
a cura di Maria Chiara Del Piccolo
27
28-29
29
4
sommario
l’altra musica
32 «Ecco» Niccolò Fabi, l’ostinato
a cura di John Vignola
34 La rinascita di Alice suona in «Samsara»
di Guido Michelone
35 Suoni, musiche e speranze: i Sigur Rós fanno tappa a Jesolo
di Tommaso Gastaldi
36 Da «Azzurro» a «Yellow Submarine», ecco il Carnevale dei colori
di Manuela Pivato
37 Al Candiani un 2013 di Jazz Groove
di Giovanni Greto
38 Franco Battiato
Nel bazar del venditore di tappeti sonori
di Giò Alajmo
39 La Venezia schietta e perduta di «Kociss»
di Fernando Marchiori
40 «… Cossa sarala ’sta Merica»
L’emigrazione italiana nei canti popolari
di Gualtiero Bertelli
42 Il ritorno di «The Wall»
Parla Roger Waters
di Giò Alajmo
32
42-44
Il ritorno di «The Wall»:
Giò Alajmo conversa con
Roger Waters
prosa
45 «Un tram che si chiama desiderio» secondo Antonio Latella
Al Goldoni grandi attori per uno spettacolo pluripremiato
di Carmelo Alberti
46 Ricordando Annibale
di Enrico Fiore
47 Il «Ferdinando» di Arturo Cirillo
a cura di Leonardo Mello
48 Alla ricerca di Riccardo III
di Shaul Bassi
50 Un Re fuori scala
Riccardo Terzo secondo Alessandro Gassmann
a cura di Ilaria Pellanda
52 Vitaliano Trevisan o l’arte di riscrivere
di Leonardo Mello
52 R III
Una scheda
di Vitaliano Trevisan
53 Riccardo III, atto primo, scena quarta
Due versioni a confronto
54 La cancellazione del narratore onniscente
«Aldo Morto / tragedia» di Daniele Timpano
di Massimo Marino
55 «Who’s Who?»: vanno in scena le identità plurali
di Alberto Massarotto
47
48-53
Dossier «Riccardo III»
Alessandro Gassmann
racconta
il suo primo Shakespeare
con l’adattamento
di Vitaliano Trevisan
5
56 Premi Ubu 2012: e poi?
Brevi considerazioni sparse
di Roberta Ferraresi
57 Una vita da mediano
La Fondazione di Venezia per il teatro
di Fabio Achilli
57 Fare lentamente qualcosa di necessario
di Cristina Palumbo
56
sommario
prosa – commenti
cinema
58 Roberta Ferraresi
sui Premi Ubu 2012
Un documentario su Wagner e Venezia
di Gianni Di Capua
arte
59 Il 2013 della Fondazione Giorgio Cini
di Ilaria Pellanda
in vetrina
60 Presentato il Nono Rapporto sulla Produzione Culturale
di Manuela Bertoldo
62 La Fondazione Levi compie 50 anni
di Giorgio Busetto
in vetrina – Mario Bortolotto
62-64
I cinquant’anni della
Fondazione Levi
65 Il provetto stregone
Mario Bortolotto e le vie della musicologia (5)
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini
66 La musica francese «moderna» secondo Mario Bortolotto
di Emilio Sala
70 Mario Bortolotto, «cavaliere errante senza dama certa»
di Francesco Zambon
72 Per Mario Bortolotto
di Iván Vándor
73 Le recensioni
di Giuseppina La Face Bianconi
75 Laura Barbiani racconta i vent’anni dello Stabile del Veneto
di Leonardo Mello
75 In volume un omaggio allo storico della danza José Sasportes
di Ilaria Pellanda
76 Il teatro del professore
Due nuove raccolte di Paolo Puppa
di Leonardo Mello
79 La nuova «Scorribanda» di Marco Castelli
di Ilaria Pellanda
79 La laguna provoca dipendenza: lo dicono i «Veneziani per scelta»
di Ilaria Pellanda
carta canta – libri / dischi
65-72
Il provetto stregone
Quinta puntata dello Speciale
dedicato a Mario Bortolotto
76
6
Venezia,
musica,
dintorni…
I
di Giuliano Segre
l traguardo dei 50 numeri – e dei cento mesi di lavoro, trattandosi di un bimestrale – è una scommessa
vinta per VeneziaMusica e dintorni. Nata in concomitanza con la riapertura (dopo l’incendio e la ricostruzione) del Teatro La Fenice,
la rivista ha saputo, in questo arco di tempo, tenere fede alle premesse che hanno
portato alla sua creazione e
rafforzare, in modo sorprendentemente prospettico, i
temi che sono contenuti nel
nome della testata.
Innanzitutto Venezia: nome (e marchio) universale,
meta di un flusso turistico
che non ha paragoni nel nostro Paese, ma soprattutto
culla – per la sua storia – di
cultura. Se oggi, grazie a studi condotti in modo sistematico e statisticamente valido anche dalla Fondazione di Venezia, anche attraverso la Fondazione Venezia 2000 e il sito Agenda Venezia, si riescono a enumerare e classificare gli appuntamenti culturali che si svolgono ogni anno nella nostra
città (oltre 2.500, secondo
l’ultima rilevazione), è pur
vero che mancava uno strumento capace di riordinarli
dal punto di vista scientifico, collegandoli alla sua immensa tradizione. Quello
che nelle pagine della rivista viene raccontato e analizzato
tiene sempre conto del contesto nel quale esso è nato.
Analogo discorso si può fare per il lemma musica: fin
dall’inizio sono stati trattati tutti i generi e gli stili musicali
– dalla lirica alla sinfonica, dal violino barocco al pianoforte jazz, dagli ultimi esiti della sperimentazione contemporanea alla migliore produzione cantautoriale – superando i rigidi steccati dottrinali e affrontando con eguale rigore il teatro, la prosa, allargando infine l’orizzonte a manifestazioni
non legate alle cosiddette arti dal vivo, come il cinema e la fotografia, sottolineando le sempre più fitte connessioni e commistioni tra un genere e l’altro.
Dintorni è però la parola che meglio identifica l’anima della rivista. Innanzitutto dal punto di vista geografico: Venezia
e dintorni sta dilatando il suo significato, le trasformazioni
che per legge coinvolgeranno la città, in prospettiva metropolitana, sono già effettive nella produzione e nella fruizione culturale, che si irradia ad un territorio sempre più vasto
ma non per questo meno coeso o omogeneo. Dintorni perché appunto i temi affrontati si sono ampliati e abbracciano le espressioni tipiche del Novecento. Dintorni perché alla
parte prettamente giornalistica ha saputo affiancare una vena formativa, rivolta agli esperti, ai cultori e anche ai giovani. VeneziaMusica e dintorni dunque ha rappresentato per
la Fondazione di Venezia un investimento culturale diretto, al quale possiamo riconoscere per molti versi carattere pedagogico e di utilità sociale, più di quanto sarebbe
potuto avvenire – non ce ne
voglia nessuno – con un’erogazione economica, tipica di
una modalità fondazionale
che presso quella di Venezia
ha avuto sempre meno domicilio. Dal «dare al fare»
è stato il motto della Fondazione di Venezia nel suo secondo decennio di vita operativa; «facendo» abbiamo
trovato compagni di strada
di alta qualità e di consolidata fama: VeneziaMusica e
dintorni darà conto dell’intesa che dal 2013 legherà sul
territorio metropolitano le
due fondazioni Fondazione
Teatro La Fenice e Fondazione di Venezia. In questa
nuova prospettiva importanti novità riguarderanno la rivista, nel tentativo di
rafforzarne l’identità veneziana e l’apertura verso nuovi dintorni, spaziali e tematici. Appuntamento al numero 100, per vedere dove saremo arrivati. ◼
Un traguardo
importante
L’
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di Luciano Pasotto
onda emotiva che si è diffusa per la ricostruzione della Fenice ha progressivamente contagiato tutti, pubblico privato e istituzioni, raggiungendo il suo apice nella seconda metà del 2004, all’annuncio dell’imminente riapertura. In quel periodo Euterpe Venezia aveva già deciso di dare vita a questa rivista, e si
stavano ultimando gli ultimi preparativi in vista
della prima uscita. Così,
al nostro già alto entusiasmo per il primo numero
si univa quello di dedicare
all’evento della riapertura qualcosa di speciale. La
nascitura redazione, composta da Leonardo Mello e
Ilaria Pellanda e coadiuvata da Manuela Pivato, creò
per l’occasione – sotto l’attenta supervisione di Emilio Melli – una speciale copertina, dal valore fortemente simbolico, in cui
era raffigurato il palcoscenico restaurato della Fenice, ma ancora chiuso e solitario. Mentre il doppio risvolto di copertina lo presentava invece aperto e affollato di membri dell’orchestra durante il primo
concerto dopo il lungo periodo di chiusura. In questo modo tutti noi volevamo, appunto simbolicamente, augurare al Teatro una nuova, lunghissima vita, facendo coincidere il suo ritorno all’attività operistica – con la celebre Traviata diretta da Lorin Maazel – e il primo tassello di una storia editoriale che oggi festeggia un traguardo importante, anche grazie
al sostegno di Giuliano Segre, presidente della Fondazione
di Venezia.
Nella mia presentazione di allora cercavo di definire quale
fosse la fisionomia di questo nuovo periodico, e come essa dovesse conciliarsi con le finalità di Euterpe Venezia, affermando che lo scopo prioritario della rivista doveva essere «informare, aprire nuove possibilità, fornire nuove direzioni, documentare quanto già esiste e raccontare quanto sta per accadere nel settore musicale». Ebbene, a distanza di quasi nove anni, sono estremamente soddisfatto dell’evoluzione di
VeneziaMusica e dintorni, che ha saputo mantenere vivi nel
tempo quei primi punti programmatici, ampliando allo stesso tempo il suo sguardo ad altri settori della creatività, che –
insieme alla musica – compongono il complesso e articolato
mondo dell’arte dal vivo. Un approfondimento competente
e di alto livello – che non è mai sfociato nella pubblicazione
di nicchia, appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori – è
andato di pari passo con quell’apertura che già invocavo agli
inizi: apertura a nuove fasce di lettori, anche anagraficamente più giovani, e a un bacino territoriale che non si risolvesse
in Venezia, ma ne ampliasse i confini facendo di questo bimestrale uno strumento utile e ambito per tutto il Triveneto (e
anche al di là delle mere e schematiche delimitazioni geografiche). E così è stato.
Mi sono riempito d’orgoglio quando mi è stato
chiesto di scrivere queste
poche righe per festeggiare il cinquantesimo numero, perché l’essere arrivati
fino a qui sta a significare
che nel 2004 avevamo visto giusto cercando di colmare una lacuna concreta nel panorama culturale veneto e veneziano. Alla rivista auguro di cuore di aggiungere a questi
primi cinquanta moltissimi altri numeri, continuando in questa direzione, migliorando sempre i
propri contenuti non solo
per raggiungere e appassionare sempre più lettori ma
anche per poter aspirare a
collaborare con importanti specifici enti. ◼
8
Editoriale 50
È
di Leonardo Mello
trascorso ormai molto tempo da quando (era
il maggio 2004) – su invito di Luciano Pasotto, allora presidente di Euterpe Venezia – ho cominciato a immaginarmi la struttura di quella che sarebbe poi diventata VeneziaMusica e dintorni. Il committente,
una società strumentale della Fondazione di Venezia, aveva come suo obiettivo prioritario la diffusione e la divulgazione, all’interno del vasto territorio veneziano, della musica «classica», o meglio «colta», in termini al tempo stesso
culturali e formativi. In quell’orizzonte, oltre alle rassegne,
agli appuntamenti concertistici e alla gestione della Scuola
di Musica «Santa Cecilia» di Portogruaro, Euterpe manifestava la volontà di dare vita a un’attività editoriale, che avesse un profilo informativo-formativo e fosse il luogo deputato all’approfondimento di tematiche strettamente connesse alle sette note.
Mi fu subito chiaro – cercando e rubando spunti in altre,
affermate testate nazionali – che la nascitura rivista avrebbe
dovuto coniugare il suo aspetto locale – dando voce alle molteplici realtà attive a Venezia e nel suo circondario – e una vocazione all’«apertura», al dialogo tra i diversi settori delle
cosiddette arti dal vivo, che invece conducevano, non solo in
laguna, vite parallele e impermeabili l’una all’altra.
Alcuni mesi dopo, il progetto è stato condiviso con Ilaria
Pellanda, che è stata sin dall’inizio insostituibile caporedattrice e con la quale si è formulato uno schema organico e si
sono formalizzate categorie funzionali in cui suddividere, in
modo convincente e accessibile a tutti, l’ampio flusso di informazioni che contraddistingueva (e tuttora contraddistingue) l’offerta cittadina (nonché, più estesamente, regionale e
triveneta).
Sul piano ideativo, ancor prima che il giornale divenisse realtà, fondamentale è stato l’apporto, oltre che del già citato
Pasotto, di altre due persone: Manuela Pivato, che si è assunta fino al 2007 la responsabilità direttiva e ha dato impulso alla definizione della rivista nelle sue linee essenziali (sua
l’idea, rivelatasi assai proficua, dei «dintorni»), ed Emilio
Melli, il quale, pur incarnando – come consigliere e in seguito amministratore delegato di Euterpe – il ruolo di editore, è
stato sempre al nostro fianco suggerendo, proponendo e stimolando riflessioni, in un rapporto pluriennale di fertile e
affettuosa quotidianità. Con questa «squadra» nel novembre 2004 siamo usciti con il primo numero, in simbolica ed
empatica coincidenza con l’agognata riapertura della Fenice, nostro naturale e imprescindibile punto di riferimento.
Nel riassunto, necessariamente sintetico, di otto anni e
mezzo di lavoro, va sottolineata la comunanza d’intenti con
l’editore anche nella successiva gestione di Euterpe, guidata da Gian Paolo Fortunati e Giovanni Dell’Olivo, e soprattutto l’arrivo alla direzione editoriale, nel 2010, di Giuliano Segre, che ha sin da subito istituito un Comitato dei Garanti composto da illustri personalità della cultura e dell’arte dal vivo (i nomi li potete leggere nel colophon). Questo
nuovo soggetto – cui ha partecipato attivamente e con grande passione Giovanni Morelli – ha aggiunto autorevolezza
a quella conquistata sul campo nel corso degli anni grazie
all’apporto, il più delle volte a titolo gratuito, di autorevoli
esponenti della comunità scientifica e della critica militante. Ma ogni periodico vive, oltre che di contenuti, anche della sua riconoscibilità grafica, e in questo senso cruciale è stato
il ruolo dell’art director Luca Colferai, che ne ha perfezionato sempre più il disegno e la fisionomia, in piena sintonia con
le esigenze che
di volta in volta
nascevano dalle stesse pagine.
E così siamo
arrivati al cinqua ntesi mo
numero. Per
fe steg g ia rlo,
quattro intellettuali «amici» di VeneziaMusica hanno
voluto regalarci
un breve «manifesto», non
futurista e certo non rivendicativo, ma che
definirei piuttosto «storicofotografico», e che è stato poi condiviso da molte altre personalità locali e nazionali. Con un po’ di civetteria, e appunto in occasione delle cinquanta candeline, lo pubblichiamo
nelle pagine successive. I promotori sono persone che hanno
creduto nel progetto sin dai suoi inizi, a cominciare da Mario Messinis, un po’ il «papà» della rivista, sempre prodigo
di consigli e disponibile a mettere a disposizione il suo (molto) sapere. E poi Giuseppina La Face Bianconi, che ci onora
di una rubrica fissa dal marzo del 2008, Lorenzo Bianconi e
Giorgio Pestelli. Firme che, per nostra fortuna, ricorrono nel
corso degli anni, insieme a quelle di molti altri collaboratori
(l’elenco completo si trova nel risvolto di copertina).
Negli ultimi anni, anche su spinta dei Garanti – e senza rinunciare mai a rivolgere uno sguardo vigile alle nostre istituzioni maggiori – abbiamo focalizzato ulteriormente la nostra attenzione sull’immaginario giovanile e contemporaneo, convinti che l’eterogeneicità (anagrafica e di gusti) dei
lettori sia una delle nostre risorse più preziose.
Ma giunto a questo punto dell’amarcord, per non incorrere ancora di più nel monito «chi si loda s’imbroda», taglio
corto e – brindando insieme a voi – auguro a tutti una buona lettura. ◼
Alcune prove di copertina.
N
ata nel 2004, in concomitanza simbolica con la riapertura del Teatro La Fenice,
VeneziaMusica e dintorni offre fin dai primi
numeri una panoramica delle migliori proposte
spettacolari prodotte nel territorio triveneto o in esso itineranti, pur senza rigidi steccati. A dispetto del suo stesso nome, la struttura del bimestrale, articolata in plurime sezioni,
intende favorire e sviluppare il dialogo e l’interconnessione
tra le diverse discipline che compongono il frastagliato mondo dell’arte dal vivo, trattando in modo approfondito le variegate forme di espressione musicale, ma anche teatrale e coreografica, e rivolgendo particolare attenzione alla contemporaneità e alle sue declinazioni sceniche. Nel panorama veneziano, veneto e spesso anche nazionale, VeneziaMusica e
dintorni amplifica l’offerta editoriale e culturale nel settore.
Nutrendosi dalle radici ben profonde che l’arte ha a Venezia,
ha saputo crescere, estendendo i rami della sua attività ben
oltre i confini lagunari, diventando punto di riferimento per
studiosi ed appassionati. Nel corso del tempo la rivista ha allargato i suoi interessi anche ad altre discipline artistiche, in
quel disegno di sintesi e superamento dei generi codificati
che da sempre la contraddistingue. In parallelo, ha accresciuto la propria vocazione formativa rivolgendosi direttamente
alle nuove generazioni di spettatori, e diventando luogo privilegiato del dibattito culturale, coinvolgendo negli anni artisti, studiosi e intellettuali da tutto il Paese, per molti dei
quali rappresenta una risorsa imprescindibile.
Sottoscrivono
Mario Messinis
Giuseppina La Face Bianconi
Lorenzo Bianconi
Giorgio Pestelli
Giò Alajmo – Critico musicale de «Il Gazzettino»
Carmelo Alberti – Associato di Storia del Teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Florence Alibert – Direttore generale del Palazzetto Bru
Zane (Venezia)
Roberto Alonge – Già Ordinario di Storia del teatro rinascimentale all’Università degli Studi di Torino
Claudio Ambrosini – Compositore – Fondatore dell’Ex
Novo Ensemble (Venezia)
Alberto Arbasino – Scrittore
Lorenzo Arruga – Critico musicale di «Panorama»
– Musicologo
Anna Bandettini – Critico teatrale de «la Repubblica»
Paolo Baratta – Presidente della Biennale di Venezia – Già
Ministro della Repubblica
Luca Massimo Barbero – Curatore associato della
Collezione Peggy Guggenheim
Laura Barbiani – Presidente del Teatro Stabile del Veneto
Guido Barbieri – Critico musicale de «la Repubblica»
– Musicologo
Marco Beghelli – Associato di Musicologia e Storia della
Musica all’Università di Bologna
Marco Bellocchio – Regista
Alessio Benedettelli – Presidente e Direttore artistico dell’Associazione Festival Galuppi di Venezia –
Presidente cormav (Comitato per la realizzazione di un
monumento ad Antonio Vivaldi a Venezia) – Docente al
Conservatorio «Cesare Pollini» di Padova
Leonetta Bentivoglio – Inviato speciale per Cultura e
Spettacoli de «la Repubblica»
Sonia Bergamasco – Attrice
Luigi Berlinguer – Presidente del Comitato nazionale per
l’apprendimento pratico della musica – Già Ministro della Repubblica
Eugenio Bernardi – Già Ordinario di Letteratura tedesca
all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Virgilio Bernardoni – Ordinario di Storia della musica
moderna e contemporanea all’Università degli Studi di
Bergamo
Enrico Bettinello – Direttore artistico del Teatro
Fondamenta Nuove (Venezia) – Critico musicale de «Il
Giornale della Musica» e di «Blow Up»
Alfredo Bianchini – Presidente della Fondazione Emilio e
Annabianca Vedova (Venezia)
Maria Ida Biggi – Ricercatore presso il Dipartimento di
Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di
Venezia – Direttore del Centro Studi per la Ricerca documentale sul Teatro e il Melodramma europeo della
Fondazione Giorgio Cini (Venezia)
Irene Bignardi – Giornalista
Carla Bino – Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze
della Comunicazione e dello Spettacolo dell’Università
Cattolica di Brescia
Alessandro Bonesso – Presidente degli Amici della Musica
di Mestre
Fabrizio Borin – Associato di Storia del Cinema all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Anno III - luglio/agosto 2007 - n. 17 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Un Manifesto per
VeneziaMusica e dintorni
Mario Bortolotto – Musicologo – Scrittore
Franco Branciaroli – Attore – Regista
César Brie – Regista – Fondatore del Teatro de los Andes
Enrico Bronzi – Direttore artistico dell’Estate Musicale di
Portogruaro – Fondatore del Trio di Parma
Giorgio Brunetti – Vicepresidente della Fondazione
9
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Oskar Kokoschka, ritratto di Arnold Schönberg, 1924.
Olio su tela, 99,5 X 75,8 cm
Collezione privata
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Anno V - settembre/ottobre 2008 - n. 24 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Teatro La Fenice – Professore Emerito di Strategia e politica aziendale all’Università Bocconi di Milano
Elena Bucci – Attrice
Giorgio Busetto – Direttore della Fondazione Ugo e Olga
Levi (Venezia) – Docente di Management
degli Istituti culturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Sylvano Bussotti – Compositore
Emanuela Caldirola – Responsabile Ufficio Stampa dei
settori Danza, Musica e Teatro della Biennale di Venezia
Roberto Canziani – Critico teatrale de «Il Piccolo» di
Trieste – Docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo
all’Università degli Studi di Udine
Anno V - luglio/agosto 2008 - n. 23 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
10
Anno VI - luglio / agosto 2009 - n. 29 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VI - maggio /giugno 2009 - n. 28 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VI - marzo/aprile 2009 - n. 27 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
cantiere regia
Abbado – Ambrosini – Arruga
Barberio Corsetti – Battistelli
Bellussi – Bentivoglio – Bianconi
Bino – Bortolotto
Carsen – Cappelletto
Dammacco – Dante – De Bosio
De Ana – Delbono – De Monticelli
Fabbri – Fedele – Ferrone – Fertonani
Gallarati – Gandini – Gasparon
Girardi – Guarnieri – Guccini
Krief – Le Moli – Lievi – Livermore
Mancuso – Manzoni
Minardi – Mosca
Pestelli – Pier’Alli – Pinamonti
Pizzi – Principe
Sala – Servillo – Solbiati – Squarzina
Tiezzi – Vacchi – Villatico – Zurletti
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Anno VI - gennaio/febbraio 2009 - n. 26 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Federico Capitoni – Critico musicale de «la Repubblica»
Gianfranco Capitta – Critico teatrale de «il manifesto»
Sandro Cappelletto – Critico musicale de «La Stampa»
– Docente di Economia e Gestione delle Arti e delle
Attività culturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Romeo Castellucci – Regista – Già Direttore artistico del
settore Teatro della Biennale di Venezia (2005)
Paolo Cattelan – Presidente degli Amici della Musica di
Venezia – Docente di Storia della Vocalità all’Università
Ca’ Foscari di Venezia – Docente di Musicologia e Storia
della musica all’Università degli Studi di Urbino «Carlo
Bo»
foto Monika Rittershaus
- Speciale anatolij VaSil’eV
- DoSSier licei muSicali
Anno VII - luglio / agosto 2010 - n. 35 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VII - maggio / giugno 2010 - n. 34 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VII - marzo / aprile 2010 - n. 33 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VII - gennaio / febbraio 2010 - n. 32 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VI - novembre / dicembre 2009 - n. 31 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Paolo Cecchi – Associato di Musicologia e Storia della
Musica all’Università di Bologna
Ascanio Celestini – Attore – Scrittore
Cristiano Chiarot – Sovrintendente del Teatro La Fenice
Ugo Chiti – Drammaturgo – Scrittore
Arturo Cirillo – Regista – Attore
Renata Codello – Sovrintendente ai Beni Architettonici e
Paesaggistici di Venezia e Laguna
Massimo Contiero – Direttore del Conservatorio
«Benedetto Marcello» – Critico musicale de «La Nuova
Venezia»
chance to change
le esperienze di giovani a teatro
2010
Franco Cordelli – Critico teatrale del «Corriere della
Sera»
Laura Curino – Attrice – Drammaturga
Gian Antonio Danieli – Presidente dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti (Venezia)
Elio De Capitani – Regista – Fondatore del Teatro dell’Elfo (Milano)
Pippo Delbono – Regista – Attore
Gianni De Luigi – Fondatore e Direttore dell’Istituto
Internazionale della Commedia dell’Arte (Venezia)
Fabrizio Della Seta – Ordinario di Musicologia all’Università di Pavia/Cremona
Barbara di Valmarana – Presidente degli Amici della
Fenice
Andrea Estero – Direttore responsabile di «Classic Voice»
Alexandre Dratwicki – Direttore scientifico del Palazzetto
Bru Zane (Venezia)
Paolo Fabbri – Ordinario di Storia della Musica Moderna e
Contemporanea all’Università di Ferrara
Umberto Fanni – Già Direttore artistico del Teatro Verdi
di Trieste e dell’Arena di Verona
Ivan Fedele – Compositore – Direttore artistico del settore
Musica della Biennale di Venezia
Siro Ferrone – Ordinario di Storia del Teatro e dello
Spettacolo all’Università degli Studi di Firenze
Cesare Fertonani – Associato di Storia della musica moderna e contemporanea all’Università Statale di Milano
Goffredo Fofi – Scrittore – Giornalista – Fondatore de
«Lo Straniero»
Angelo Foletto – Critico musicale de «la Repubblica» –
Presidente dell’Associazione Nazionale Critici Musicali
Luca Francesconi – Compositore – Già Direttore artistico
del settore Musica della Biennale di Venezia (2008-2011)
Sandro Franchini – Cancelliere dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti (Venezia)
Pasquale Gagliardi – Segretario generale della Fondazione
Giorgio Cini (Venezia)
Paolo Gallarati – Ordinario di Musicologia e Storia della
musica all’Università degli Studi di Torino
Alessandro Gassman – Direttore artistico del Teatro
Stabile del Veneto – Regista – Attore
Renato Gatto – Direttore didattico dell’Accademia
Teatrale Veneta (Venezia)
Fabrizio Gifuni – Attore
Enrico Girardi – Critico musicale del «Corriere della
Sera» – Docente di Storia della Musica all’Università
Cattolica di Brescia
Michele Girardi – Associato di Drammaturgia musicale
all’Università di Pavia/Cremona
Michele Gottardi – Presidente dell’Ateneo Veneto
Maria Grazia Gregori – Critico teatrale de «l’Unità»
Mariangela Gualtieri – Scrittrice – Drammaturga
Adriana Guarnieri – Ordinario di Storia della Musica
all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Marinella Guatterini – Critico di danza de «Il Sole
24ore»
Gerardo Guccini – Associato di Drammaturgia all’Università di Bologna
Elisa Guzzo Vaccarino – Critico di danza del «Quotidiano
Nazionale» e di «Classic Voice»
Gioacchino Lanza Tomasi – Musicologo – Già
Sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli
Paolo Legrenzi – Professore straordinario di psicologia cognitiva presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia
Walter Le Moli – Regista – Direttore del Corso di laurea
magistrale in Scienze e Tecniche del Teatro allo iuav di
Venezia
Olivier Lexa – Direttore artistico del Centro Veneziano per
la Musica Barocca
Luigi Lo Cascio – Attore – Regista
Claudio Longhi – Già Docente di Storia del Teatro allo
iuav di Venezia – Associato di Istituzioni di Regia all’Università di Bologna
Fausto Malcovati – Ordinario di Lingua e letteratura russa
all’Università Statale di Milano
Dove va il teatro pubblico? (parte seconDa)
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Abbado – Ambrosini – Angelini – Barbieri – Bettinello – Bevilacqua – Bino – Cagli – Capitta – Carlotto – Castellani/Raimondi
Cherubini – Chiarot – Colombo – Curino – Dall’Ongaro – De Capitani – De Ana – Dellbono – De Martino – Donati
Estero – Fedele – Fofi – Foletto – Gallarati – Gallina – Girardi – Girondini – Juvarra – Lanza Tomasi – Malaguti – Malosti
Mancuso – Mangolini – Marchiori – Martone – Menni – Messinis – Minardi – Munaro – Musu – Nanni – Orselli – Pacor
Paganelli – Pastore – Ponte di Pino – Ricci/Forte – Rizzardi – Saravo – Segre – Solbiati – Syxty – Vacchi – Vacis – Vallora – Vlad
Anno VIII - maggio / giugno 2011 - n. 40 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - marzo / aprile 2011 - n. 39 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - gennaio / febbraio 2011 - n. 38 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VII - novembre / dicembre 2010 - n. 37 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Dove va il teatro pubblico? (parte prima)
Alberti – Alonge – Augias – Barberio Corsetti – Barbiani – Battistelli – Beltrametti – Bentivoglio – Bentoglio – Bernardi
Bianconi – Bossini – Brunetti – Bussotti – Cacciari – Cappelletto – Castellucci – Cavalcoli – Celestini – Cirillo – Cognata – Cordelli
De Incontrera – De Luca – De Luigi – De Michelis – De Simone – Donin – Erba – Escobar – Ferrone – Francesconi – Gassman
Gleijeses – Gregori – Guccini – La Ruina – Latella – Lavia – Le Moli – Lievi – Lissner – Longhi – Marinelli – Martinelli/Montanari
Mazzonis – Merlo – Montecchi – Moreni –Morelli – Mosca – Napolitano – Nicolodi – Nieder – Ortombina – Palazzi – Palumbo
Pestelli – Petazzi – Pinamonti – Pizzi – Porcheddu – Punzo – Puppa – Purchia – Quaglia – Repetti – Restagno – Rossi – Russo
Sambin – Santanelli – Scabia – Servillo – Tiezzi – Trevisan – Tutino – Valenti – Ventrucci – Vergnano – Vianello – Villatico – Violante
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Anno VII - settembre / ottobre 2010 - n. 36 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Emilio Sala – Associato di Drammaturgia musicale, teatrale e cinematografica all’Università Statale di Milano
Michele Sambin – Regista – Musicista – Fondatore del
Tam Teatromusica (Padova)
Giuliano Scabia – Scrittore – Drammaturgo – Performer
Maurizio Scaparro – Regista – Già Direttore del settore Teatro della Biannela di Venezia (1979-1983 e
2006-2009)
Tiziano Scarpa – Scrittore – Drammaturgo
Nuria Schönberg Nono – Presidente della Fondazione
Archivio Luigi Nono (Venezia)
SPECIALE
la critica
e gli artisti
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FOCUS ON
la «lou salomé»
di giuseppe sinopoli
Anno IX - marzo / aprile 2012 - n. 45 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno IX - gennaio / febbraio 2012 - n. 44 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - luglio / agosto 2011 - n. 41 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - settembre / ottobre 2011 - n. 42 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Salvatore Sciarrino – Compositore
Claudio Scimone – Direttore d’orchestra – Fondatore dei
Solisti Veneti (Padova)
Toni Servillo – Attore – Regista
Alessandro Solbiati – Compositore
Massimo Tamalio – Teatro Stabile del Veneto
Marco Tamaro – Direttore della Fondazione Benetton
Studi Ricerche (Treviso)
Silvana Tamiozzo Goldmann – Associato di Letteratura
italiana contemporanea all’Università Ca’ Foscari di
Venezia
Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
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Eresia della felicità a Venezia
Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice
Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. 48 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Federico Tiezzi – Regista
Vitaliano Trevisan – Scrittore – Drammaturgo
Paolo Troncon – Direttore del Conservatorio «Agostino
Steffani» di Castelfranco Veneto – Presidente del
Consorzio dei Conservatori Veneti
Fabio Vacchi – Compositore
Marco Vallora – Critico cinematografico e musicale –
Storico dell’arte
Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Giovanni Mancuso – Compositore
Giacomo Manzoni – Compositore
Fernando Marchiori – Scrittore – Critico teatrale
Marco Martinelli – Regista
Mario Martone – Regista
Manuela Massimi – Presidente dell’Accademia Teatrale
Veneta (Venezia)
Elio Matassi – Ordinario di Filosofia della Storia e Docente
di Estetica della Musica all’Università Roma Tre
Gianluigi Melega – Giornalista
Gian Paolo Minardi – Critico musicale de «La Gazzetta
di Parma» – Già Docente di Storia della Musica moderna presso l’Università di Parma
Renata Molinari – Dramaturg – Docente di Drammaturgia
alla Civica Paolo Grassi (Milano)
Ermanna Montanari – Attrice – Drammaturga
Giordano Montecchi – Docente di Musicologia e Storia
della Musica al Conservatorio «Arrigo Boito» di Parma
– Critico musicale de «l’Unità»
Carla Moreni – Critico musicale de «Il Sole 24ore»
Luca Mosca – Compositore
Giuliana Musso – Attrice – Drammaturga
Ernesto Napolitano – Associato di Musicologia e Storia
della Musica all’Università degli Studi di Torino –
Critico musicale de «La Stampa» di Torino
Fortunato Ortombina – Direttore artistico del Teatro La
Fenice
Valeria Ottolenghi – Critico teatrale de «La Gazzetta di
Parma» – Vicepresidente dell’Associazione Nazionale
Critici di Teatro
Maria Paiato – Attrice
Renato Palazzi – Critico teatrale de «Il Sole 24ore»
Cristina Palumbo – Curatrice del Progetto Giovani a
Teatro della Fondazione di Venezia – Direttore artistico di Echidna/Paesaggio Culturale – Consulente di Tam
TeatroMusica (Padova)
Jacopo Pellegrini – Critico musicale
Paolo Petazzi – Critico musicale de «l’Unità»
Ottavia Piccolo – Attrice
Paolo Pinamonti – Ricercatore presso il Dipartimento di
Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di
Venezia – Già Direttore artistico del Teatro La Fenice
Pier Luigi Pizzi – Regista – Scenografo
Oliviero Ponte di Pino – Editor – Critico teatrale
Andrea Porcheddu – Critico teatrale
Quirino Principe – Musicologo – Scrittore – Critico musicale de «Il Sole 24ore»
Roberto Pugliese – Critico cinematografico de «Il
Gazzettino»
Armando Punzo – Regista – Fondatore della Compagnia
della Fortezza (Volterra)
Paolo Puppa – Ordinario di Storia del Teatro e dello
Spettacolo all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Renato Quaglia – Docente di Storia del Teatro all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli – Docente di
Economia dei Beni culturali all’Università Federico II di
Napoli – Già Direttore organizzativo dei settori Danza,
Musica e Teatro della Biennale di Venezia – Già Direttore
artistico e organizzativo del Napoli Teatro Festival Italia
Philip Rylands – Direttore della Collezione Peggy
Guggenheim (Venezia)
Enzo Restagno – Musicologo – Direttore artistico del
Festival MiTo Settembre Musica
David Riondino – Attore – Scrittore
Luca Ronconi – Regista
Mara Rumiz – Già Assessore ai Lavori pubblici e al
Patrimonio del Comune di Venezia
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Pier Mario Vescovo – Associato di Letteratura teatrale italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Angela Vettese – Presidente della Fondazione Bevilacqua
La Masa (Venezia) – Associato di Museologia e critica artistica e del restauro allo iuav di Venezia – Critico d’arte
de «il Sole 24ore»
Alvise Vidolin – Fondatore dell’Associazione di
Informatica Musicale Italiana – Regista del suono
Dino Villatico – Critico musicale de «la Repubblica»
Milena Vukotic – Attrice◼
focus on
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1813 - 2013
La vocalità restituita
a Fenice di Venezia ha pensato di omaggiare il doppio anniversario, verdiano e wagneriano,
con un dittico composto dal Tristan und Isolde e
dall’Otello. Nel caso del secondo non si è trattato
di una semplice scelta di titolo, ma di una vero e proprio atto di restituzione rispetto ad una vocalità, quella del personaggio di Otello appunto, per la quale da decenni si trascina
una tradizione esecutiva per molti aspetti interessante, e alla quale appartengono nomi storici ed illustri, ma in qualche
misura fuorviante rispetto alla scrittura che Verdi pensò per
Francesco Tamagno. Il tenore torinese era infatti l’erede di
una vocalità che, sviluppatasi a partire da Duprez fino a Del
definitivamente confutato da un Gregory Kunde in
gran forma, il cui merito principale consiste nel non
essere un tenore declamatore di scuola wagneriana o
assimilabile così come lo sono stati la maggior parte dei
suoi predecessori novecenteschi. È stato addirittura commovente, alla Fenice, poter riscoprire da un lato la cantabilità e la morbidezza di frasi il cui senso sembrava essere andato perduto e, dall’altro, addirittura l’esistenza di alcune
note da altri interpreti circumnavigate: mi riferisco al Do
del «cortigiana» nel terzo atto, così come a molti momenti del duetto con Iago. Il capolavoro della serata è stato però,
per Kunde, senz’altro il «Dio, mio potevi scagliar», brano
in cui, dopo la prima parte sillabata, per la prima volta con il
tenore americano abbiamo potuto assaporare la straordinaria finezza di una scrittura verdiana ai vertici massimi, nella
quale si rispecchia tutta la sfumata complessità di un personaggio dai tratti mitici. L’Otello di Verdi-Boito è infatti, diversamente da quello di Rossini-Berio, un condottiero la cui
sostanza non si esaurisce in un eroismo monodimensionale:
Monaco e Corelli, è quella del tenore argentino e squillante,
dalla vocalità luminosa e radiosa in acuto. Nessuno osa affermare che sommi artisti come Vinay, Vickers, Domingo
o Cura non abbiano avuto un ruolo importante, talora determinante, nel fissare la storia interpretativa del personaggio, ma non v’è dubbio che la fatica in una tessitura che costantemente si avventura in acuto, esigendo slancio e facilità ad alta quota, abbia inflitto loro per anni dure fatiche e suscitato nel pubblico eterne lamentele nonché sterili dibattiti
e dualismi sui concetti, in realtà coincidenti, di «canto» ed
«interpretazione».
Il mito di una parte impossibile da cantare è stato infatti
vi è attorno a lui un’aura di epicità che esala dai versi e dalla
musica del primo duetto con Desdemona e che per tutta l’opera si propaga. Soltanto su questo fronte, forse, per chi ha
in mente Otelli come quelli di Domingo, Cura o, in misura forse ancora maggiore, di Vickers, Kunde ha dimostrato
qualche limite dovuto ad una personalità d’interprete certamente più affine a quei «ruoli Nozzari» primottocenteschi
dei quali l’Otello rossiniano – ruolo d’elezione di Kunde – è
esempio tra i più celebri.
Myung-Whun Chung ha concertato l’opera con una bellezza d’intenti che dipende da un profonda conoscenza della
partitura, già incisa con Domingo nel 1994 con il comples-
Gregory Kunde
è Otello alla Fenice
L
di Riccardo Rocca
so dell’Opéra di Parigi, e da un’affinità con il mondo verdiano di cui ha già saputo dare prova in altre
occasioni anche veneziane. L’orchestra della Fenice si
è dimostrata di livello eccelso, dimostrando che le orchestre italiane, se guidate da direttori di livello, possono
raggiungere – almeno nel teatro d’opera – vette qualitative straordinarie: la morbidezza di suono degli archi, il nitore
della sezione dei fiati, la precisione di ogni passaggio virtuosistico hanno partecipato ad una lettura di Otello da annoverare tra quelle che, oltre ad offrire una serata di livello molto alto, contribuiscono ad illuminare le pieghe più profonde
dei massimi capolavori.
Molto interessante, soprattutto sul piano vocale, si è rivelata anche la Desdemona di Leah Crocetto, la cui vocalità
accontenta i difensori ad oltranza dei requisiti belcantistici: perfetto appoggio sul fiato, omogeneità dello strumento e capacità di modulare l’intensità dei suoni ad alta quota. Qualche suo eccesso di temperamento non ha impedito al pubblico di apprezzare, accanto ad alcune prodezze vo-
Michieletto, attualmente l’unico regista nostrano che pare potersi collocare al livello dei maggior registi d’opera del
panorama internazionale. Micheli cerca una via di rilettura contemporanea dell’Otello verdiano attraverso la messa
a fuoco di alcuni punti intorno ai quali costruisce la drammaturgia della scena: l’ossessione per il talamo d’amore, oggetto con il quale ogni momento cruciale dell’opera sembra confrontarsi, nonché una rilettura simbolica della morte, luogo virtuale, per Micheli, nel quale i protagonisti si ricongiungono alla fine del dramma come in una riconquistata serenità. Dal punto di vista tecnico l’artista bergamasco
è sembrato sapere il fatto suo: sono pressoché assenti i momenti di vuoto registico ed ogni suggerimento della musica
sembra trovare un corrispettivo sulla scena. Soltanto a volte
si ha l’impressione di uno scollamento arbitrario e stridente
con il dettato drammaturgico della partitura: un’entrata di
Otello, che è per natura della composizione un momento di
trionfo ed esultanza individuale, perde il suo effetto se soffocata da un telo trasparente che taglia il rapporto diretto tra la
calistiche, generose esplosioni del quarto atto come «Ah!
Emilia, Emilia, addio!» o, nel terzo, un magnifico «E son
io l’innocente cagion di tanto pianto!», proiettato sull’orchestra con trascinante ardore. In qualche modo più tradizionale, ma lodevole, lo Iago di Lucio Gallo e tutte di primo
livello le parti di fianco.
Il nuovo spettacolo di Francesco Micheli è sembrato seguire in una certa misura la via aperta in Italia da Damiano
scena ed il pubblico; allo stesso modo può suscitare qualche
perplessità un duetto del primo atto che, invece di svilupparsi in direzione di un’acmé di intensità ed intesa amorosa, così come suggerito dalla musica, vede sulla scena i protagonisti progressivamente dividersi ed allontanarsi. I dubbi, poi,
sull’effettiva necessità di una resa vagamente pleonastica e
volgare dei tormenti di Otello durante il «Dio, mi potevi
scagliar» mediante una sorta di tortura fisica del protagonista sulla scena da parte di alcuni uomini armati, aggiungono
qualche neo ad uno spettacolo di buone intenzioni e buon livello, ma che difficilmente assumerà un ruolo determinante
nella storia interpretativa del capolavoro verdiano. ◼
Scene da Otello alla Fenice, direttore Myung-Whun Chung,
regia di Francesco Micheli, scene di Edoardo Sanch,
costumi di Silvia Aymonino (foto Michele Crosera).
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focus on
1813 - 2013
focus on
14
1813 - 2013
Intorno
ai «Masnadieri»
A
di Fabrizio Della Seta
l giorno d’oggi l’allestimento di un’opera
quale I masnadieri non è un evento eccezionale.
Eppure non sono lontanissimi i tempi in cui la riapparizione di un’opera «minore» di Verdi suscitava discussioni appassionate e un po’ faziose tra i difensori del canone consacrato e gli entusiasti ad ogni costo, tra
chi rivendicava il diritto-dovere di distinguere il buono dal
men buono e dal cattivo – magari a costo di perdere di vista
la struttura complessiva – e chi era propenso ad esaltare acriticamente tutto quel che era uscito dalla penna del Maestro. Già a quei tempi I masnadieri godeva di una fama ambigua: al contrario di altre più o meno coeve, l’opera non ha mai trovato difensori veramente
convinti, anche dall’altra
critici esigenti quali Mila (che le ha dedicato
non poche attente pagine) e Budden l’hanno sempre trattata con un
occhio di riguardo, quasi fossero affascinati da un
lavoro che pur riconoscevano di qualità complessiva
inferiore ad altri; Gabriele Baldini, che passa, benché
a torto, per un rivalutatore di opere minori, la riconosceva come l’«opera di Verdi che offre una maggiore unità»
fino a quel momento (escluse Ernani e Macbeth), benché si
tratti di una unità che «è anche uniformità, in senso negativo: non monotonia, ma assenza di contrasti, appunto perché
alla violenza segue la violenza, senza pausa e respiro».
Era difficile liquidare I masnadieri con un’alzata di spalle, se non altro per le circostanze della sua genesi: concepita già prima del Macbeth, fu compiuta subito dopo di que-
sto e la prossimità si sente; è la prima opera di Verdi concepita espressamente per l’esordio in un importante teatro straniero e subito prima di presentarsi a Parigi con Jérusalem. Insomma, non si potevano attribuire i suoi difetti alle esigenza della «galera» teatrale, come era uso per Alzira e Il corsaro: al contrario che per queste ultime, non si poteva certo dire che il musicista avesse adempiuto l’impegno controvoglia
o che l’avesse preso sottogamba. Così, i difetti venivano in
parte addebitati alla necessità di soddisfare le esigenze della soprano designata, la celebre Jenny Lind, una diva tutt’altro che capricciosa, ma rappresentante di uno stile di canto
che già allora Emanuele Muzio, l’allievo di Verdi, giudicava superato; donde una parte, quella di Amalia, più del solito ricca di fioriture, passi di agilità e persino cadenze ad libitum. Ma il principale imputato della riuscita insoddisfacente è sempre stato il poeta, Andrea Maffei, accusato di aver sovraccaricato il libretto di preziosità letterarie e al tempo stesso di aver voluto aderire ancor più del solito alle convenzioni più fruste del teatro melodrammatico, per esempio nella
successione di cavatine che caratterizza il primo atto dell’opera; col codicillo che Verdi, intimidito dalla fama letteraria
dell’amico, al quale doveva anche gratitudine per il contributo da lui dato a migliorare il libretto del Macbeth, non avrebSopra e a fronte: scene dei Masnadieri di Schiller,
allestiti da Gabriele Lavia nel 2011
(foto di Serafino Amato).
A sinistra:Emanuele Muzio in un ritratto di Giovanni Boldini.
be saputo o voluto imporre le sue idee come era solito
fare col devoto Piave.
Con tali premesse, dell’opera è prevalsa una valutazione di tipo antologico: è unanime l’apprezzamento
del Preludio (con un intenso assolo di violoncello), del quartetto finale del primo atto, del duetto di Amalia e Carlo nel
terzo, del terzetto finale (che Muzio giudicava «il capo d’opera di tutti gli altri capi d’opera»); si riconosce l’originalità
di concezione, se non di realizzazione, del sogno di Francesco e del successivo duetto con Moser, la vena melodica non
banale, se non memorabile, delle arie solistiche, l’accuratezza dei recitativi. L’aspetto più criticato è la resa musicale del-
sarà al cuore dei Demoni (1871) di Dostoevskij, che infatti vi fa esplicito riferimento. L’opera di Verdi, che si colloca all’incirca a tre quarti della distanza di tempo che separa
i due testi letterari, non è neppur lontanamente paragonabile al complesso scavo psicologico del romanzo russo, ma viceversa è un’interpretazione musicale à la page (nel 1847) delle esagerazioni del giovane Schiller; per convincersene, basta
confrontare I masnadieri con la versione assai più edulcorata che nel 1836 ne aveva offerto Mercadante nei suoi Briganti. D’altra parte, è cosa nota l’influenza su Dostoevskij del
mélodrame, il popolare genere teatrale francese senza conoscere il quale non si capisce tutto il lato enfatico e la gestuali-
la «masnada», alla quale Verdi attribuì, senza dubbio con
consapevolezza, il carattere canagliesco già impiegato per i
cori di sicari dei Lombardi e del Macbeth (ma si avverte anche una parentela con le streghe e, in prospettiva, coi futuri cortigiani di Rigoletto).
Cosa si può aggiungere a un quadro critico così consolidato? Forse, si può dare più importanza di quanto non si soglia al fatto che si tratta del primo vero incontro di Verdi con Schiller (quello di Giovanna d’Arco era solo parziale),
con lo Schiller al picco di una fase Sturm
und Drang che egli stesso avrebbe rinnegato. In Die Räuber (1782) le tematiche del male e della violenza che scaturiscono da strutture sociali e famigliari inique erano trattate con
un’immediatezza e, se si vuole,
con una retorica e una gestualità paragonabili alla foga tipica del giovane Verdi. È
stato osservato che
in questo dramma Schiller anticipa la problematica che
tà del teatro verdiano. Di più: I masnadieri è un tassello non
trascurabile nel percorso di ricerca di Verdi sulle tematiche
del male e della distruttività, e la lezione shakespeariana, decisiva per il tedesco come per il russo, è non meno importante qui che nel capolavoro immediatamente precedente.
In questa prospettiva, l’allestimento che va in scena alla Fenice è particolarmente interessante in quanto Gabriele Lavia ha da poco presentato una sua versione
del dramma schilleriano (da lui già
diretto e interpretato molti anni
fa con una regia più tradizionale) proiettata nel presente. Benché gli spettacoli
siano ovviamente diversi, l’idea registica di fondo è comune. Per chi abbia avuto modo di assistere a entrambi, è un’occasione quasi unica per rendersi conto di come forme
espressive basate su principi formali così diversi siano capaci di dar forma a
inquietudini che sono
al cuore della coscienza culturale europea. ◼
Jenny Lind.
Andrea Maffei.
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Libertà o morte
un bel coro con queste tre parole. Può darsi semplicemente che lui e Maffei non ci abbiano pensato, ma
questo concetto fondamentale è certamente presente
nell’opera. Dobbiamo ricordarci che «libertà» all’epoca in cui il giovanissimo Schiller scrive è una parola vietata. Noi oggi possiamo pronunciarla senza problema, anzi
a cura di Leonardo Mello
spesso se ne abusa, ma fino al giorno prima della Rivoluzione francese era un vocabolo proibito, soprattutto in Germafirmare la regia dei Masnadieri, il nuovo allestinia. Perché non è vero che l’uomo era libero, anzi al contramento della Fenice che sarà in scena il prossimo febrio doveva sottostare e obbedire alle leggi del sovrano, che era
braio, è un artista celebre ed esperto come Gabrietale per volere divino. La libertà è un’idea piuttosto recente,
le Lavia, che ci racconta il suo intenso rapporto con
in realtà. In ogni caso nell’opera musicale questo anelito caquest’opera, affrontata più volratterizza indiscutibilmente i perte sia sul versante teatrale, con più
sonaggi, che proprio per una manversioni del dramma schilleriano,
canza di libertà vedono la loro visia su quello musicale. Iniziamo
ta rovinata, la loro felicità distrutquesta conversazione chiedendogli
ta. Ed è all’interno di questa manqual è il motivo – se ce n’è uno – di
canza che si sviluppa l’intrigo poquesti continui «ritorni».
litico, rappresentato da France«Non lo so. Può darsi che sia il
sco/Franz, il deforme, lo storpio,
destino, o una necessità del caso.
l’individuo che racchiude in sé
So che nella mia vita mi è capitatutti i mali del mondo ed è zoppo
to di mettere in scena I masnacome il demonio.
dieri, poi di recitarli, poi ancora
Un altro spettacolo del suo sterdi curarne la regia all’opera. Infiminato repertorio è il Riccarne li ho di nuovo affrontati a teado III, allestito al Teatro Antico
tro e ho predisposto quest’ediziodi Taormina nel 1989. Lì interne, andata in scena al San Carlo di
pretava il ruolo del protagonista,
Napoli in marzo e prossima al dementre nei Masnadieri dell’82 inbutto veneziano. Non c’è un mocarnava la parte di Franz. Ci sotivo particolare, ma certo è indino delle somiglianze tra questi due
scutibile che questa «materia»
«cattivi»?
mi ha accompagnato per lunDirei che si tratta di qualcogo tempo, sin dal lontano allestisa di più che semplici assonanze.
mento dell’82 all’Eliseo di RoPer scrivere I masnadieri Schiller
ma. Per quanto riguarda la versioprende i due personaggi shakespene verdiana posso dire solo che a
ariani per antonomasia, Amleto e
me quest’opera piace molto, anRiccardo, e su misura del primo
che se – dal punto di vista musidisegna il suo Karl, mentre il secale – non ho l’autorità per spiecondo (e in parte Macbeth) sergare perché. Mi piace perché amo
ve da modello per Franz. Sceglie
l’opera, e ancora di più, va da sé,
queste due figure e le mette viciVerdi».
ne per creare un lavoro straordiVenezia
Che tipo di personaggi propone
nario e dal valore fortemente poTeatro La Fenice
Schiller, e come si «trasformano»
litico. E Verdi, anch’egli autore
18, 22, 24 gennaio, ore 19.00
poi nell’opera di Verdi?
estremamente politico, trova in
20, 26 gennaio, ore 15.30
Prima di tutto bisogna dire che
Schiller materiale assai prezioso,
Verdi utilizza come librettista Annon soltanto per i suoi MasnadieI masnadieri
drea Maffei, che è il primo granri ma anche per Don Carlos e LuiMelodramma tragico in quattro parti
de traduttore di Schiller (secondo
sa Miller. In fondo tutte e tre quedi Giuseppe Verdi
me ancora oggi le sue traduzioni
ste opere altro non raccontano se
libretto di Andrea Maffei
dalla tragedia Die Räuber di Friedrich Schiller
sono le migliori, anche se hanno
non la storia delle vittime di una
personaggi e interpreti principali
un linguaggio che a noi risulta un
tirannia, di un sopruso. Per spieMassimiliano, conte di Moor Giacomo Prestia
po’ antiquato). Il poeta trentino
gare meglio questo aspetto conCarlo di Moor Andeka Gorrotxategui
– pur dovendo tenere conto delviene citare l’incipit del libretto,
Francesco di Moor Artur Rucinski
le diverse esigenze imposte dal tedove Carlo declama
Amalia Maria Agresta
atro in musica – resta abbastanza
Arminio Cristiano Olivieri
fedele allo spirito del dramma oriQuando io leggo in Plutarco, ho
Moser Cristian Saitta
ginale. E posso immaginare che a
noia, ho schifo
Rolla Antonio Feltracco
maestro concertatore e direttore Daniele Rustioni
Giuseppe Verdi andasse bene così,
di questa età d’imbelli!
regia Gabriele Lavia
perché se dovessimo sintetizzare
Oh, se nel freddo cenere de’ miei
scene Alessandro Camera
la ragione profonda per cui Schilpadri
costumi Andrea Viotti
ler scrive questo testo la troveremancor vivesse dello spirito d’ArmiOrchestra e Coro del Teatro La Fenice
mo in una frase che è nel testo tenio
una scintilla!
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
atrale e non nel libretto: «Libertà
Vorrei Lamagna tutta
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
o morte». Mi sono spesso chiesto in coproduzione con Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli
far libera così che Sparta e Atene
nel bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi
perché Verdi non abbia composto
sarieno al paragon serve in catene.
Schiller/Verdi
secondo Gabriele Lavia
A
La domanda, legittima, che sorge spontanea è: perché viene utilizzata la parola «Lamagna»? In fondo si poteva dire Germania, ma invece partendo con la
«L» il richiamo a «L’Italia» è immediato. Dentro questo
inizio folgorante dunque c’è anche un’abile provocazione.
A differenza di Schiller infatti Verdi fa cominciare l’opera
con Carlo, che arriva davanti al pubblico e pronuncia subito
il suo manifesto, dice la parola «libera», evoca la libertà. Io
non oso pensare a come dovessero suonare queste parole alle
orecchie di un popolo asservito, sottomesso, impossibilitato
a esprimere liberamente la propria cultura.
Lei è un grande uomo di teatro. Che cosa riversa della sua
esperienza nel lavoro registico per l’opera?
Nell’approccio non c’è alcuna differenza. L’unica cosa che
cambia è il tempo: in un tipo di spettacolo così complesso coA fronte: Gabriele Lavia nei panni di Riccardo III
al Teatro Antico di Taormina, 1989 (taormina-arte.com).
In questa pagina: scene da I masnadieri
al Teatro San Carlo di Napoli.
me l’opera lirica ci sarebbe bisogno di un tempo almeno dieci volte superiore a quello che nel migliore dei casi viene concesso a un regista. Per cui, alla fine, credo che il teatro musicale si accontenti troppo (giustificandosi con pensieri consolatori come «tanto poi cantano, la gente vuole che facciano l’acuto…»). Ma non funziona in questo modo. E il risultato, il più delle volte, è appunto accontentarsi di una scenografia e di qualche costume, cui accostare, magari, regie esa-
sperate, «alla tedesca», o – che forse è ancora peggio – alla «italotedesca». Ho visto per caso in televisione un don
Giovanni che a cena consumava un’orgia. Ma don Giovanni è un uomo disperatamente solo: in quella cena, dove ci sono solo camerieri e portate, portate, portate, non viene nessuno, tranne un morto. Un morto che sta all’inferno perché
non ha avuto tempo di confessarsi, e ora ritorna dall’abisso
per condurvi anche don Giovanni. Sono, lui e il povero Leporello, due personaggi disperatamente soli, non solo affatto dei goduriosi, almeno per quanto ci è dato di vedere. Non
so di chi fosse quella regia, come molte altre che ho intravisto girando di canale in canale. Ma mi è sembrata una baggianata, una lettura senza alcuna profondità. Però il pubblico è così vago ormai… ◼
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Daniele Rustioni
dirige i «Masnadieri»
alla Fenice
U
a cura di Mirko Schipilliti
n giovane Verdi per un giovane direttore, Daniele Rustioni, che dirigerà I Masnadieri di Verdi alla Fenice. Ventinove anni, è nel pieno di una
carriera in salita, uno dei pochi casi in cui il talento e lo studio si sono fatti valere insieme alle opportunità venute al momento giusto.
Quali sono state le tappe musicali più significative della sua
vita?
Ricordo di essere stato attratto fin da piccolo dalla figura
carismatica del direttore d’orchestra; in particolare ero rimasto folgorato dalle direzioni di Riccardo Muti, maestro di rigore e passione, nel periodo in cui facevo parte del Coro di voci bianche del Teatro alla
Scala. Intuivo il privilegio
di poter respirare insieme a
un’orchestra intera, la magia di poter «plasmare» la
musica col pensiero e trasmetterla col gesto. Ma ho
deciso intorno ai vent’anni, dopo le prime esperienze sul podio e i tre diplomi
conseguiti al Conservatorio a Milano, che sarebbe
stata la mia strada. C’è voluto tanto coraggio e dedizione soprattutto all’inizio, perchè l’orchestra non
è uno strumento sempre a
disposizione e le opportunità per un giovane direttore non sono molte. In alcuni casi i musicisti in orchestra possono mettere
a dura prova un direttore
alle prime armi! Il primo
importante concerto della mia carriera si è svolto a Torino
con l’Orchestra del Teatro Regio nel giugno del 2007: è stato molto emozionante dopo tanti anni di preparazione e studio arrivare finalmente a dirigere una grande compagine. Da
quel momento le tappe importanti sono state sempre più ravvicinate, con l’invito l’anno successivo a diventare Direttore
Principale del Teatro Mikhailovsky di San Pietroburgo, dove mi sono confrontato con la mia prima opera, Cavalleria
Rusticana di Mascagni; e poi ancora l’incontro con Antonio
Pappano al Covent Garden di Londra, dove sono diventato suo assistente e ho diretto Aida. Il calendario dei concerti
s’è fatto via via sempre più fitto: nel 2010 il debutto alla Scala, dove sono tornato con La bohème l’ottobre scorso e dove tornerò a luglio con Un ballo in maschera di Verdi. E dal
2011 occupo con grande gioia la posizione di Direttore Ospite Principale dell’Orchestra Regionale Toscana.
Ci sono stati quindi dei maestri di riferimento per la sua
carriera?
Nonostante mi sia trasferito a Londra nel 2006 per completare gli studi, i miei modelli direttoriali rimangono lega-
ti alla scuola italiana. Gilberto Serembe, allievo di
Mario Gusella e Franco Ferrara, è stato un didatta
formidabile e, fra le tante cose che mi ha insegnato, è
riuscito a trasmettermi una cultura tipicamente italiana del «peso» che l’orchestra ha nel respiro e nel braccio di
chi la dirige. Così come Gianluigi Gelmetti, uno dei pupilli
di Ferrara, all’Accademia Chigiana di Siena, che ha sempre
insistito affinché forgiassi il mio suono secondo una ferrea
volontà interiore, senza mai cadere nel pericolo di una direzione anonima per incidere invece consciamente sull’esecuzione. Negli ultimi anni mi sono legato molto a Gianandrea
Noseda e Antonio Pappano: personalità vulcaniche, con doti comunicative innate che vengono coniugate da un indefesso lavoro, disciplina, e rispetto del segno scritto sulla partitura: maestri che affrontano il ruolo direttoriale senza indossare «maschere», e privi di velleità «divistiche». Anche al di
fuori del lavoro sono persone squisite e genuine, qualità non
sempre facili da trovare nei grandi musicisti.
Ma com’è la vita del giovane direttore d’orchestra?
In continuo movimento fra alberghi, aeroporti, teatri e sale da concerto, con una partitura da studiare sempre fra le
mani e tanta musica in testa. È una vita abbastanza solitaria,
nonostante il contatto costante coi musicisti in orchestra, i
cantanti e i solisti; le cose che aiutano ad andare avanti sono
l’amore e la dedizione nei confronti della musica e lo scambio energetico che si crea con chi ascolta. Le note hanno bisogno dell’interprete come tramite tra l’opera d’arte e il pubblico, che altrimenti non avrebbe modo di entrare in contatto coi grandi capolavori (mentre per esempio nella letteratura o nell’arte visiva il rapporto tra autore e fruitore è diretto).
Mi sento carico di responsabilità nei confronti dell’autore
che eseguo e del pubblico che ascolta. Si ha sempre la sensazione di dover essere all’altezza del compito. Al tempo stesso mi rendo conto di essere un privilegiato: in questo periodo di crisi molti musicisti di talento non hanno la possibilità di realizzarsi artisticamente, soprattutto in Italia, dove
Daniele Rustioni (blog.amicidellascala.it).
i giovani talenti non vengono mai valorizzati abbastanza e rischiano di rimanere stagisti a vita… Io ho
delle grandi opportunità e devo dimostrare ogni volta di meritarle.
Autori preferiti?
Mozart, Beethoven, Brahms, Verdi, Puccini.
Quindi, in periodo di bicentenario…Verdi o Wagner?
Senz’altro Verdi! Riconosco ovviamente l’immensità della
musica di Wagner e non posso che augurarmi di dirigere numerose sue opere. Ma il mio cuore era destinato a Verdi ancor prima di venire al mondo: con la sua musica rappresenta
l’Italia, e io sono italiano.
E in Verdi quali sono gli ostacoli e le difficoltà maggiori da
affrontare?
A mio avviso bisogna prestare molta attenzione allo studio
e alla realizzazione precisa dei tempi; c’è un che di «meccanico» nella sua musica, in senso positivo: una costruzione perfetta che rimane in piedi solo se rispettata nei minimi
dettagli. In Puccini la musica di per sé potrebbe funzionare
persino stravolgendone i tempi, in Verdi no: è nudo, scoper-
to, netto, cristallino, non ammette compromessi. Poi ci sono
le considerazioni tecnico-esecutive: una nota fuori posto, un
accordo impreciso, un palcoscenico approssimativo, qualcuno fuori tempo… e tutto cade a pezzi. Si sente tutto. Mentre
per esempio in Wagner la densità di scrittura fa sì che quasi
nessuno si accorga dell’errore. Ma la chiave di lettura fondamentale in Verdi, forse l’ostacolo più grande in fase di concertazione, è il testo o, meglio, la comprensione e realizzazione da parte del cast del rapporto stretto e assolutamente geniale tra musica e libretto, che crea il senso di teatro totale in cui la partitura è parte integrante dell’azione scenica.
La difficoltà sta chiaramente nell’assecondare il grandissimo senso teatrale dell’autore senza che nessun elemento prevarichi, sostenere a livello musicale la «parola scenica», così innovativa nel teatro verdiano, mantenendo gli equilibri
stilistici e senza interrompere le lunghe e perfette linee del
canto. Ci sono anche difficoltà a livello fisico: spesso in VerUna scena della Bohème diretta da Daniele Rustioni
alla Scala lo scorso settembre, regia e scene di Franco Zeffirelli
(foto di Marco Brescia e Rudy Amisano – teatroallascala.org).
di le scene sono lunghe, non «spezzettate» da forme chiuse e devono mantenere la tensione espressiva e drammatica.
La concentrazione deve essere quindi maniacale ma consapevole, «fredda» abbastanza da essere in grado di dosare le
forze di tutti.
Cosa la colpisce maggiormente nei Masnadieri?
È un’opera molto forte, dai colori tetri, impregnata di una
desolazione e disperazione che incombe su tutti i personaggi. Nonostante il libretto non sia dei più riusciti, la musica di
Verdi ci catapulta nell’essenza del dramma di Schiller da cui
la vicenda è tratta: azioni e personaggi violenti, carichi di eccessi. Entrambi i fratelli Moor (Carlo e Francesco) sono la
personificazione di un gesto ribelle, di un disordine che cerca nella pura bellezza (Amalia) una via di fuga. I masnadieri vengono rappresentati in scena dal coro maschile e sono
una presenza costante, si ritagliano un ruolo da protagonisti. Non mancano delle pagine che possono essere annoverate fra i capolavori verdiani: il preludio iniziale (un breve
ma geniale pezzo concertato per violoncello solista), il quartetto che chiude il primo atto, la «gran scena» in apertura
del secondo atto di
Amelia, e la romanza di Carlo in
chiusura dell’atto;
ma soprattutto il
monologo di Francesco e il duetto col
padre Moser nel
quarto atto.
Cosa sig nif ica per lei «voce
verdiana»?
Si tratta di un
concetto tanto importante quanto
difficile da descrivere, anche per l’estrema varietà di
ruoli e vocalità che
l’intero catalogo
verdiano presenta.
Quello che cerco
personalmente in
un cantante verdiano è un timbro tagliente ma corposo,
di straordinaria potenza ed estensione, la capacità di alleggerire la voce in pianissimi eterei ed eseguire le agilità con scorrevolezza, senza mai perdere la profondità drammatica; l’intuito per la cantabilità italiana ma senza che diventi fine a se
stesso; ma soprattutto un innato senso del fraseggio concepito come profonda e reverenziale aderenza al testo; inoltre,
la forte presenza scenica, il senso della misura (l’esagerazione
in Verdi rischia di creare facilmente interpretazioni che sfiorano il ridicolo) e un grande temperamento drammatico. Insomma... un ideale utopico ma che rispecchia profondamente il viscerale amore (e rispetto) che provo per Verdi.
Di questi tempi non possiamo prescindere dalla storia recente, dall’enorme quantità di informazioni discografiche e da
tutto il materiale che si può trovare in rete. Ascolta dischi, video, si collega al sito Youtube? Cosa ne pensa?
Ascolto molti dischi, guardo video e faccio molte ricerche
su Youtube (specialmente ora che caricano anche opere complete). Penso sia molto utile utilizzare la tecnologia ai fini della conoscenza, non per uno studio fine a se stesso. Non assimilo le partiture basandomi su questi ascolti: il duro lavoro
va fatto con l’orecchio interno e/o al pianoforte. ◼
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Verdi versus Wagner:
alla pari?
D
di Quirino Principe
ue grandezze, due visioni dell’arte e del pensiero, due uomini; ci piace immaginarli simmetrici, paralleli. Questa nostra visione è insicura,
e dev’essere verificata continuamente, di generazione in generazione, almeno fino a quando esisteranno le
arti e, nel loro esistere, avranno significato nella società. Già
questa persistenza di significato non è certa. L’Occidente è
stato l’unica area planetaria nella cui tradizione e fisionomia
le arti non si siano limitate a generare bellezza anche mirabile
soltanto per decorare il potere o per rendere meno ripugnanti la credulità religiosa e il servilismo verso le caste sacerdotali. Soltanto in Occidente, le arti hanno legittimato la loro
propria esistenza empiendosi di pensiero, di λόγος, di energia eletta a governare il mondo. Soltanto in Occidente, le arti sono riuscite, in una fase storica non remota, a non essere
più mercimonio né potlatch né circenses; «in una fase non remota», poiché l’allegoria disegnata da Wagner nella fiaba
Wieland der Schmied per una musica mai scritta denunciava gli obbrobri del passato, di un lungo passato. Quel destino di «non essere più» qualcosa di marginale e d’inessenziale di cui il mondo potrebbe anche fare a meno, e di «essere altro e più rispetto a ciò che si è stato», ha assunto respiro più ampio e caratteri particolarmente vistosi nella musica
che definisco «forte», e che altri, in maniera impropria e insufficiente, si ostinano ancora a definire «classica». È quella
che io chiamo «musica» senza aggettivi. Nella cultura occidentale, la musica ha guadagnato il diritto a una metamorfosi axiologica: se ai tempi di Alcmane a Sparta, o di Orazio nella Roma di Augusto e di Mecenate, o di Hildegard von Bingen, e ancora,
sia pure a metamorfosi in
atto, ai tempi di Guillaume Dufay o di Bartolomeo Tromboncino, la
musica era soprattutto seducente ed emozionante creatrice
di stati d’animo, Jacopo Peri, Claudio
Monteverdi, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Tomás Luis de Victória sono già
all’opera per sollevarla
al rango che è la sua entelechia: quello di nodo di
significati, di linguaggio con
un proprio lessico, una propria
morfologia e sintassi, un proprio
tessuto cellulare interno in
cui significante e significato siano in rela-
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zione indissolubile. Questa fenomenologia per così
dire orizzontale e diacronica si associa a una fenomenologia verticale e sincronica, la quale accoglie in sé
una singolarità, una sorta di contro-metamorfosi: un
numero incalcolabile di musicisti, in ogni plaga d’Occidente, lascia coesistere l’antico e il nuovo, il passato e il futuro,
ciò che la musica era stata e ciò che tendeva a divenire, ma si
ravvisano due zone estreme in cui rari artisti di genio intendono la propria arte esclusivamente (o quasi) come linguaggio, pensiero, λόγος, verità, e altrettanto rari artisti di altissimo talento si appagano di connotati che certamente sono
connaturati nella musica ma gravitano verso una concezione
«naíve»: l’energia delle emozioni, la potente influenza sulla
psiche e sul temperamento. Esempi del primo tipo: Gesualdo, Bach, Wagner, Debussy, Stravinskij. Esempi del secondo
tipo: Händel, Telemann, Weber, Verdi, Saint-Saëns.
Ci domandiamo: i due coetanei, Richard Wagner poco fa
nominato e con un vantaggio d’anzianità di pochi mesi (Lipsia, sabato 22 maggio 1813 – Venezia, martedì 13 febbraio
1883), e Giuseppe Verdi (Le Roncole di Busseto, Parma, sabato 9 o domenica 10 ottobre 1813 – Milano, domenica 27
gennaio 1901), sono veramente due figure simmetriche, parallele? Si direbbe di no, se le mie precedenti considerazioni
sono accettabili almeno in parte. L’immagine di due sommi
custodi del pensiero, di due dioscuri dell’arte, è affascinante anche come ombra fuggevole, come immagine eidetica, e
comunque s’impone con la forza irresistibile di una «Gestalt». Talvolta accade che l’enfasi di un accostamento celebrativo e di una simbologia plaudente corrisponda davvero a due grandezze di pari misura, in equilibrio come il bianco giorno e la nera notte nella scacchiera di Borges, o come la
fresca notte e l’afoso giorno nella poesia Der Tod, das ist die
kühle Nacht di Heinrich Heine. Torna alla mente la Stanza
della Segnatura (la «segnatura di giustizia») in Vaticano:
là, su commissione del papa Giulio II, Raffaello Sanzio (Urbino, venerdì 28 marzo o demenica 6 aprile
1483 – Roma, venerdì 6 aprile 1530) affrescò nel
1509-1510 quattro grandi allegorie, una su ciascuna delle quattro pareti: la Teologia, la Filosofia,
la Giurisprudenza, la Poesia. L’allegoria filosofica è La Scuola di Atene: al centro della gloriosa architettura e della folla di teste pensanti in
drammatico movimento, campeggiano Platone e Aristotele, indicanti, il primo, il cielo
delle idee, il secondo, la terra delle cose reali.
Torna alla mente anche il monumento che
s’innalza nel Theaterplatz di Weimar, effigiante in bronzo i dioscuri della poesia tedesca, Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, giovedì 28 agosto 1849
– Weimar, giovedì 22 marzo 1832) e Friedrich Schiller (Marbach sul Neckar, nel
Richard Wagner
ritratto nel 1862
da Cäsar Willich
(1825–1886).
Württemberg, sabato 10 novembre 1759 – Weimar,
giovedì 9 maggio 1805). Si affacciano alla memoria storica di ogni intelligenza d’Occidente degna di questo
nome i dettagli storici che evocano intorno al «GoetheSchiller-Denkmal» un’aura di vera e grande passione nazionale, etica e civile: l’iniziativa di Karl Alexander August Johann von Sachsen-Weimar, granduca di Sassonia-WeimarEisenach; l’originaria assegnazione dell’impresa allo scultore Christian Daniel Rauch (Arolsen in Assia, allora principato di Waldeck, mercoledì 2 gennaio 1777 – Dresda, giovedì 3 dicembre 1857), che avrebbe voluto rivestire i due poeti con abiti di antichi eroi; la ragionevole decisione di rivolgersi a Ernst Friedrich August Rietschel (Pulsnitz in Sassonia, sabato 15 dicembre 1804 – Dresda, giovedì 21 febbraio 1861), che optò per abiti moderni, sì da «far vivere» i due
poeti fra i cittadini di Weimar; la divertente ma non frivola scelta di attribuire la medesima statura a Schiller, alto m.
1,90, e a Goethe, alto m. 1,69; l’opera perfetta del maestro
fonditore Ferdinand von Miller (Fürstenfeldbruck in Baviera, lunedì 18 ottobre 1813 – Monaco di Baviera, venerdì 11
febbraio 1887) che realizzò le due figure in bronzo; l’inaugurazione avvenuta venerdì 4 settembre 1857 per celebrare
il centenario della nascita di Karl August, il granduca di Sassonia-Weimar che aveva voluto la presenza di Goethe alla
propria Corte e alla guida del più che illustre e glorioso
Großherzögliches Theater dove Franz Liszt, con
ardimentosa scelta e sfidando le infamie del
potere di un re che aveva condannato Wagner alla fucilazione, diresse la prima «illecita» rappresentazione di Lohengrin; la
memorabile esecuzione a Weimar, al culmine di quei festeggiamenti, della Dante
Symphonie di Liszt (Hoftheater, sabato 7 novembre 1757).
Ho profuso questi dettagli
non per amore di inutili pleonasmi. Volevo sottolineare due casi di reale simmetria, di parità nella statura artistica e nella funzione storica. Ciò vale anche per Verdi
dinanzi a Wa-
gner? Non credo. L’unico elemento unificante ha certo molta visibilità ma non è decisivo: entrambi i compositori si dedicarono al teatro d’opera con impegno quasi esclusivo, aggiungendo al proprio rispettivo lascito pochi lavori non teatrali. Per ciascuno dei due, al di là della drammaturgia musicale soltanto una o due o al massino tre delle altre composizioni sono importanti e degne di essere riascoltate più volte:
di Wagner, i Wesendock-Lieder; di Verdi, il Requiem, i Quattro pezzi sacri, il Quartetto in Mi minore. Si pensi, a proposito di Wagner, alla differente distribuzione dei pregi tra le
opere teatrali di Weber e le bellissime partiture sinfoniche
e cameristiche di lui; a proposito di Verdi, alle composizioni
pianistiche e vocali di Rossini, nonché alla Petite Messe Solennelle. In ogni caso, un elemento che accosti Verdi e Wagner quasi parificandoli ma che sia pur sempre una considerazione di una comune mancanza e non di una comune acquisizione, mi pare l‘anello debole di un ragionamento.
La disparità tra Verdi e Wagner risulta invece, inequivocabile, nella diversa collocazione dei due compositori in merito
al processo di metamorfosi della musica occidentale. Lo sappiamo tutti che Verdi, anche il meno affinato, anche quello
dello «zúm-papa-zúm-papa», è capace di scatenare passioni,
e che riesce a sedurci e a portarci al delirio. Ma è Wagner colui che trasforma la musica occidentale in linguaggio, difficile ai neofiti, ma intelligibile ai fedeli. E più ancora: a partire
da Tristan und Isolde, a partire dal «Tristan-Akkord»,
egli compie una seconda metamorfosi, che è, a dire
il vero, una transustanziazione: la musica di Wagner non è più simbolo dell’universo condensato in suoni, ma universo creato dai suoni, anzi, rintracciato e identificato nei suoni dopo
una queste du Gral e dopo una consacrazione della fisicità connaturata nei suoni. Il
motivo iniziale di Tristan und Isolde non
è simbolo del filtro d’amore: è il filtro d’amore. Il pedale e l’arpeggio di Mi bemolle non
sono il nodo simbolico dell’origine dell’universo: sono l’origine dell’universo, e ogni volta
che gli udiamo, misteriosamente in una
parte inconoscibile di ciascuno di
noi, a quell’ascolto emergono dal Nulla come universo. Ciò significa, semplicemente, che nelle mani di Richard Wagner la
musica può essere Dio,
e che Dio, semplicemente, potrebbe essere null’altro se non la
musica. ◼
Giuseppe Verdi
ritratto nel 1866
da Giovanni Boldini
(1842 – 1931).
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Sul «Tristano»
A
di Paolo Petazzi
spetto decisivo della doppia inaugurazione con Tristan und Isolde e Otello era la presenza
sul podio in entrambe le opere di Myung-Whun
Chung, una scelta che valorizzava il rapporto privilegiato che il direttore coreano ha attualmente con Venezia e assicurava un decisivo punto di riferimento per i complessi del teatro, la cui bella prova è stata la miglior conferma
della validità e della capacità di stimolo dell’impegnativo progetto. Del Tristan ho potuto ascoltare la prima e la
quinta rappresentazione, che dal punto di vista musicale mi è parsa particolarmente felice: ogni aspetto dell’esecuzione era giunto a un grado di maturazione superiore al pur alto livello
della prima, ma soprattutto è stata ben
diversa la prova di Brigitte Pinter nella parte di Isolde. In entrambe le serate l’interpretazione di Chung si imponeva con raffinata cura del suono, chiarezza e sensibile intelligenza, in una
prospettiva in ultima analisi estranea
alle più alte tradizioni tedesche, ma capace di conferire intensa evidenza soprattutto a momenti di lirico intimismo e a forti accensioni drammatiche.
Punto di forza della compagnia di canto era Ian Storey nella parte di Tristan:
la sua ammirevole interpretazione culminava in un terzo atto di straordinaria intensità; ma proponeva anche molte finezze, soprattutto in certi sommessi «piano». Brigitte Pinter come Isolde alla prima rappresentazione rivelava problemi vocali che spesso la portavano a carenze di intonazione, soprattutto a partire dal secondo atto, mentre
nell’ultima ha retto l’impervia parte con continuità e
sicurezza maggiori, e sembrava aver trovato con Chung
un rapporto migliore. Attila Jun era un nobile Marke,
Tuija Knihtilä un’ottima Brangäne, mentre Richard Paul
Fink era un Kurwenal piuttosto esteriore e sopra le righe.
La qualità dello spettacolo non era allo stesso livello di
quella musicale, sebbene le scene di Robert Innes Hopkins
apparissero essenziali e suggestive. Evocavano l’interno di
una nave nel primo atto con gli stessi elementi che, spezzati
e diversamente disposti, si ritrovavano nel terzo: in entrambi gli atti si evitava l’apertura su paesaggi marini. Nel secon-
do un albero al centro evocava il
giardino di cui parlano le didascalie del libretto. Così le scene offrivano una ambientazione coerente al sobrio e pertinente minimalismo della regia di Paul Curran,
un regista che in Italia e a Venezia
aveva già ideato spettacoli di rilievo. Una impostazione di estrema
sobrietà nel Tristan appare sempre
opportuna; ma non dovrebbe comportare una certa povertà di idee.
Qualche residua traccia di naturalismo avrebbe forse fatto desiderare un minimalismo anche più radicale, però con una più netta individuazione dei momenti decisivi: quando, per esempio, i due protagonisti bevono il filtro nella convinzione di consegnarsi alla morte, il loro gettarsi a terra (da due lati opposti) non sembra la soluzione
più persuasiva e rischia di provocare un effetto di comicità involontaria. Un esempio di naturalismo cui
anche l’immobilità sarebbe stata
preferibile. ◼
Tristan und Isolde alla Fenice
(foto di Michele Crosera).
Le ambiguità
di un antieroe
Il «Lohengrin»
di Claus Guth alla Scala
L
di Mario Messinis
a regia di Claus Guth del Lohengrin alla Scala
continua ad essere motivo di discussione. Per una
valutazione dello spettacolo credo sia utile una premessa. Il Lohengrin è un’opera bivalente: da un lato guarda alla tradizione franco-italiana, con scene di popo-
lo, cortei, clangori e cori spettacolari; dall’altro anticipa le
pagine nere del Crepuscolo degli dei, nelle figure perverse di
Ortruda e Telramondo, e i luoghi eterei e disossati, ma anTre momenti del Lohengrin alla Scala
(foto di Monika Rittershaus / teatroallascala.org).
che sospesi nel vuoto del Parsifal: l’apparente trasfigurazione
celestiale è in realtà una perdita. Lohengrin e Parsifal sono a
mio parere personaggi di sofferente umanità.
Naturalmente i «Bidelli del Wahlhalla», come scrive ironicamente Beniamino Dal Fabbro, prendono alla lettera le
ipotesi drammaturgiche di Wagner: Lohengrin come messaggero messianico, l’olocausto di Brunilde come palingenesi, il finale del Parsifal come redenzione. In realtà Lohengrin è un vinto, votato all’annichilimento, Brunilde nel rogo celebra il cosmico sprofondamento pessimistico, Parsifal
vive tra luci ambigue e non si libera dall’ombra della ferita di
Amfortas.
Nell’attuale racconto scaligero di Lohengrin, con la voce
immacolata di Jonas Kaufmann, non c’è salvazione, ma rinuncia. Anche per questo motivo l’idea problematica della
magnifica regia di Guth mi pare rivelatrice, persino più della
versione storica di Strehler alla Scala: proprio perché rivela le
ambiguità di un antieroe tra le inquietudini della borghesia.
Un dramma recitato come nel teatro di parola. E il direttore
Daniel Barenboim recupera la tradizione romantica senza retorica, all’interno di una severa, e moderna, idea razionale. ◼
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focus on
1813 - 2013
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1813 - 2013
Il «Nabucco» di Verdi
secondo Stefano Poda
I
di Mario Merigo
l Nabucco di Giuseppe Verdi è uno dei titoli più
popolari del repertorio operistico, quello con cui il
grande compositore afferrò il successo che stava per
sfuggirgli dopo il fiasco del dramma giocoso Un giorno di Regno. Con Nabucco Verdi dimostra tutta la sua capacità di assimilatore di linguaggi, utilizzati con mirabile sintesi drammatica. Ma soprattutto si rivela già nel 1842 il grande maestro che sa esplorare l’animo umano e le sue devastanti passioni. Con Nabucco e la figliastra Abigaille abbiamo i
primi ritratti di quella lunga galleria di tiranni puniti negli
affetti e destinati alla solitudine. Il giovane Verdi lascia ancora spazio alla speranza e Nabucco riesce a ravvedersi e a ottenere il perdono di Dio; arriva invece troppo tardi il pentimento di Abigaille, che turbata si avvelena.
Nel nuovo allestimento del capolavoro verdiano andato in
scena nei mesi scorsi al PalaBassano e poi al Teatro Verdi di
Padova, il regista Stefano Poda evita ogni possibile tentazione risorgimentale così come ci risparmia quella paccottiglia
assiro-mesopotamica diffusa ancor oggi in molti teatri internazionali. Il suo spettacolo, basato su giochi di ombre e
luci soffuse, rinuncia al facile effetto anche quando il blasfemo Nabucco viene colpito da un fulmine che lo atterra. La
contrapposizione tra popolo di Israele e babilonesi, tra bene
e male viene annullata in nome di un dissidio interiore che
connota ciascun individuo. Sul palcoscenico, sopra
le teste di tutti, pendono le sagome dei personaggi,
quasi si trattasse dell’anima riflessa e silente di ognuno. Tutto è vissuto in una dimensione intima, di lacerante scissione. Un’altra via per esaltare comunque il messaggio universale di Verdi, che trent’anni più tardi si ricorderà di
Abigaille nel tratteggiare la figura di Amneris.
Nabucco è anche opera di grandi affreschi corali che esige
l’autorevole presenza delle masse. Accortamente, oltre a collaborare per questa nuova produzione con Padova e Rovigo,
il comune di Bassano ha coinvolto gli organici stabili del Teatro Verdi di Trieste. Pregevole è stato così l’apporto del coro preparato da Paolo Vero che ha intonato a fior di labbro il
celeberrimo «Va, pensiero», divenuto simbolo per eccellenza dell’epoca risorgimentale. Puntuale anche l’orchestra diretta da Antonello Allemandi.
Il nostro grande musicista, di cui sono già iniziate un po’
dappertutto le celebrazioni per il bicentenario della nascita – ma di fatto Verdi è ampiamente festeggiato ogni anno
–, dà grande rilievo anche al protagonista e soprattutto alla sua supposta figlia, Abigaille. Non è facile trovare un soprano drammatico d’agilità che possieda vigore, intensità e
un’ispirazione lirica quasi belliniana. A Bassano si è ascoltata l’audace Sorina Monteanu mentre come Nabucco c’era Carlos Almaguer, a suo agio nel medium della voce. Ricordiamo ancora nel ruolo «rossiniano» di Zaccaria il basso Ernesto Morillo, nonché Romina Tommasoni (Fenena) e
Armaldo Kllogjeri (Ismaele). Successo caloroso per tutti. ◼
Una scena del Nabucco secondo Stefano Poda
(foto di Giancarlo Ceccon).
sica classica con spettacoli semplici e divertenti».
Non c’è molto di organico su questo specifico tema, soprattutto a Venezia, che affronti la difficile missione del portare
la musica al pubblico di domani. Si tratta di un allestimento semplice, che include un piccolo ensemble con pianoforte, uno o più cantanti e un recitante. Nel cast la celebre atdi Mirko Schipilliti
trice Maria Pia Colonnello, che sarà la voce recitante, insieme al giovane attore che interpreta Mozart, Ivan Anoè; e poi
ozart sfiora, nelle apparenze delLara Matteini sarà la cantante, la violinista Pia Pulkinnen il
la più infantile semplicità, un presagio
Violino sognante.
inconscio di verità altissime», scrive
«“Amadeus a teatro in casa Mozart, spettacolo di TeatroMassimo Mila commentanMusica per bambini da sei a cento anni” – contido il Flauto Magico, la sua stessa vita è una finestra
nua la Paroletti – è una biografia romanzata che
non solo sull’epoca e i rapporti dell’artista con la
percorre i momenti salienti della vita del Genio di
Venezia
società, ma anche sulle relazioni misteriose con il
Salisburgo con gag divertenti, battute, una cantanTeatrino dei Frari
proprio percorso artistico. Dai cartoni animati di 13 gennaio, ore 16.30 te stonata, un compleanno finale con banchetto e
trent’anni fa sulle vite dei grandi personaggi delpanettone per tutti, lancio di palloncini e tante alla storia alla coproduzione televisiva internazionatre sorprese! Il cast è rappresentato da un attore che
le sulla vita di Mozart del 1982 di Marcel Bluwal trasmessa
interpreta Mozart, un soprano che interpreta la cantante di
dalla Rai e al film Amadeus di Milos Forman, la vita di Wolfcui lui si era realmente innamorato, Aloysia Weber, il Violigang Amadeus non ha mai smesso di suscitare stupore, tanto
no sognante, una voce recitante e la Dea della Musica, imche Roberta Paroletti, giovane musicista veneziana con una
personata da me».
grande esperienza nell’educazione musicale dei più piccoli,
La Paroletti, persona umile e preparatissima, si occupa di
M
«
ha finalmente pensato di creare uno spettacolo per ragazzi
(fascia elementari medie) in grado di avvicinarli alla musica
attraverso la vita di Mozart bambino, uno spettacolo ideato
e scritto interamente da lei.
«Da quasi vent’anni – spiega la Paroletti – mi dedico
all’insegnamento del pianoforte ai bambini, e da una decina
lavoro con La Fenice come maestro collaboratore e pianista
in orchestra. Questa vicinanza al mondo “giovanile” e al teatro ha fatto crescere in me il desiderio di realizzare spettacoli di teatro-musica rivolti principalmente ai più piccoli. Non
solo, vorrei che fossero accompagnati dalle famiglie e anche
da zii e nonni! Vorrei avvicinare i bambini al teatro e alla muTom Hulce è Mozart
in Amadeus di Miloš Forman (1984).
tutto: da ex-bambina prodigio al pianoforte passa ora dall’altra parte, offrendo a grandi e piccoli tutta la sua preziosa e
raffinata esperienza. Un «lavoraccio» ma realizzato davvero col cuore.
Quanto è importante continuare a credere nella formazione
dei più giovani?
«Mi interessa che l’attenzione sia sullo spettacolo, sulla
musica e la promozione di teatro-musica per bambini. Quando chiedo ai miei allievi se vanno a teatro mi guardano perplessi e a fatica ricordano l’ultima rappresentazione alla quale hanno partecipato. Ho parlato con molti genitori e tutti
sarebbero felici di altre iniziative di questo tipo. I bambini
di oggi saranno il pubblico di domani». Amadeus a teatro in
casa Mozart andrà in scena domenica 13 gennaio al Teatrino dei Frari alle 16.30 (ingresso libero). ◼
opera
Mozart e i bambini:
ecco il pubblico
di domani
25
classica
26
Giovani interpreti
per future platee
e in duo con la violinista Sofia Gelsomini. Il prossimo 9 gennaio sarà la volta della tedesca Camilla Köhnken, che rileggerà i Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Allieva a Colonia di Pierre-Laurent Aimard, ha proseguito gli studi con
Lev Natochenny a Francoforte. Attiva interprete di musica
contemporanea e antica, ha vinto il Lenzewski Competition
e partecipato a numerose trasmissioni televisive.
L’impressionismo francese sarà il tema dell’incontro che si
di Letizia Michielon
svolgerà invece il 17 gennaio, durante il quale Tommaso Lepore (1986) suonerà Estampes di Debussy e Le Tombeau de
opo il successo dei primi due appuntamenti,
Couperin di Ravel. Lepore, che ha studiato a Benevento e a
prosegue il progetto che la Società Veneziana di
Roma durante gli anni della propria formazione, ha ottenuto
Concerti (svc) dedica ai giovani interpreti. Ideil Premio Pianistico Regione Lazio, si è aggiudicato numeroata dal presidente dell’ente veneziano, Fausto
si concorsi ed è attivo come solista e come camerista.
Adami, la rassegna è resa possibile grazie al contributo delSeguirà il 30 gennaio la veneta Virginia Rossetti (1988),
la Cassa di Risparmio di Venezia, il sostegno
che proporrà un programma monografico dedel Teatro La Fenice e il patrocinio dell’Assesdicato a Schumann e comprendente le Walsorato alle Attività Culturali del Comune di
dszenen op. 82 e gli Studi sinfonici op.13. DiVenezia
Venezia. L’obiettivo è quello di avvicinare alplomatasi con Daniele Borgatti, ha suonato
Sale Apollinee
la musica classica gli studenti delle scuole suin prestigiose sale e si è imposta in importandel Teatro La Fenice
periori, in particolare quelli che frequentano 9, 17, 30 gennaio, ore 10.30 e 17.30 ti competizioni nazionali e internazionali (tra
le classi del penultimo e ultimo anno di corcui il Premio Venezia 2009 e il Premio Ma5 febbraio, ore 10.00 e 17.30
so, attraverso concerti che si svolgono graturizza di Trieste), vincendo numerose borse di
itamente al mattino nelle Sale Apollinee del
studio. Il ciclo si concluderà il 5 febbraio con il
Teatro La Fenice, con replica per il pubblico nelle ore pomerecital chopiniano di Francesco Carletti (1988), che eseguirà
ridiane (17.30).
la Polacca op. 26, n. 1 e la Sonata n. 3 op. 58. Dopo il diploma
La formazione dei fruitori di domani si coniuga così alla
al Conservatorio «Santa Cecilia» di Roma, ove ha vinto il
valorizzazione di nuovi interpreti, in questo caso tutti proPremio Via Vittoria, si è aggiudicato concorsi pianistici navenienti dalla Musik-Akademie di Basilea, prestigiosa istizionali (tra cui il Premio Nazionale delle Arti 2010 e il Pretuzione ove attualmente insegna uno dei migliori pianisti
mio Casella nella scorsa edizione del Premio Venezia). Ha
italiani, Filippo Gamba, docente dei sei giovani musicisti selezionati.
Il gemellaggio con la Svizzera si intreccia a un altro fil
rouge, quello che avvolge la
Scuola di Musica di Fiesole dove insegnava Maria Tipo, che ha formato, oltre allo stesso Gamba, anche Alessandro Zattarin, al quale è
affidata l’introduzione di
ognuno dei concerti. Pianista, scrittore, dottore di ricerca in Italianistica e cultore della materia in Letterature comparate all’Università di Padova, Zattarin fornisce una breve guida all’ascolto pensata per restituire,
insieme all’esattezza dei dati storici, la suggestione che
la storia della musica custodisce tra le righe, evocando
l’approfondimento di temi e
forme della modernità e incoraggiando la ricerca di percorsi alternativi e curiosità
personali. L’esordio, con Beethoven e Rachmaninov, è stato
inoltre partecipato al documentario Il suono della memoria
affidato lo scorso 2 ottobre a Joseph-Maurice Weder (1988),
diretto da Giovanni Sinopoli . Le intenzioni di Adami sono
vincitore in Svizzera di alcuni dei più significativi riconosciquelle di potere proseguire e ampliare questo progetto anche
menti e borse di studio. La trevigiana Fiore Favaro (1986) ha
nella prossima stagione della svc, considerando «un dovere
invece interpretato, il 15 novembre dell’anno da poco pasetico aiutare i giovani interpreti e provvedere alla formaziosato, alcuni capolavori di Chopin e Schumann. Formatasi
ne culturale del pubblico di domani». ◼
con Alessandro Commellato e Riccardo Zadra, Favaro si è
aggiudicata numerosi concorsi, coltivando contemporaneaFiore Favaro durante la conferenza/concerto
dello scorso 15 novembre.
mente l’attività cameristica con l’Hirzen Pavillon Ensemble
La nuova iniziativa
della Società Veneziana di Concerti
D
D
di Chiara Squarcina
proprio per questo, vicino alla dilatazione e alla lacerazione
degli elementi formali nonché alle grandi esperienze musicali europee che dovevano approdare agli sperimentalismi successivi. La Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64 è stata più volte eseguita alla Fenice; ma certamente Diego Matheuz, a differenza di altri direttori, saprà estrapolare con lucida enfasi
tutta la forza emotiva del tema centrale che Čajkovskij abilmente presenta in maniera sintetica, sviluppa, scompone e ricompone attraverso una decostruzione timbrica della compagine orchestrale.
Nel programma del concerto il compositore russo, geniale
nel coniugare trasposizioni armoniche con variazioni tematiche, è correlato al fenomeno unico e in un certo qual modo
iego Matheuz e l’Orchestra della Fenice da una
parte, Pëtr Il’ič Čajkovskij e Wolfgang Amadeus Mozart dall’altra. Questo il connubio irresistibile che potranno godersi gli spettatori del
concerto di febbraio inserito nella stagione sinfonica del Teatro veneziano. Il direttore sudamericano (classe 1984) non
ha bisogno di particolari presentazioni,
essendo ormai, a soli ventotto anni, una
vera celebrità. Va però almeno ricordato
il suo percorso artistico, iniziato sotto l’ala protettiva di José Antonio Abreu e continuato all’interno dell’Orchestra Giovanile del Venezuela Simón Bolívar, per poi
collaborare assiduamente con Claudio
Abbado e con la sua Orchestra Mozart, di
cui nel 2009 è stato nominato direttore
ospite principale. Dopo un 2010 di lavoro
frenetico (tra le compagini che dirige si ricordano almeno, per restare al solo ambito italiano, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino, l’Orchestra Filarmonica della Scala e l’Orchestra Verdi
di Milano), dal 2011 è direttore principale della Fenice.
Qualche parola sui due mostri sacri riuniti in un’unica semiracoloso di Wolfgang Amadeus Mozart, colui che scrisse
rata e sui brani prescelti.
l’epilogo della grande epoca illuministica. Non fu un innoČajkovskij ha portato lo stile a quell’estrema maturità e
vatore, né avviò rivoluzioni estetiche, ma praticando un linperfezione dove la forza creativa deforma, attraverso enfasi
guaggio comune a tutti i compositori del suo tempo, accete tensioni, le labili barriere dei tempi introducendovi all’intandone cioè i modelli formali e gli stilemi linguistici, septerno quei sommovimenti sismici che insidiano perfino l’upe tuttavia innalzarli a un’ineffabile classicità per la quale
nità e la continuità del ritmo, inscindibili dalla rigorosa colo stesso Goethe non trovò altro termine di paragone se non
erenza della modulazione. Più di altri ha rivelato la capaciquello con il periodo aureo dell’arte greca. La sintesi davvetà di approfondire quel riconosciuto varo irrepetibile che realizzò nel breve spalore dogmatico alla trasposizione oggetzio di un trentennio di frenetica attività
tiva della tavolozza emotiva, basata sulla
racchiude l’esperienza di un intero secoVenezia
chiarezza di una scansione di granitica rolo, esaurendo e sublimando in essa tutta
Teatro La Fenice
bustezza per via di blocchi saldamente inuna civiltà musicale e percorrendo spes22 febbraio, ore 20.00
nervati sovrapponendo, e non sostituenso l’inquieta sensibilità che andava matu23 febbraio, ore 17.00
do, un fraseggio supremamente poetico.
rando e che avrebbe preso forma solo con
Wolfgang Amadeus Mozart
Indubbio, quindi, come Čajkovskij abla generazione successiva. La mozartiaSinfonia n. 29 in la maggiore KV 201
bia impostato le sue opere attraverso la rina Sinfonia n. 29 in la maggiore kv201,
Sinfonia concertante per oboe,
meditazione concettuale della libertà credell’aprile
1774, ha un carattere personaclarinetto, corno, fagotto e orchestra
ativa, che non era mai arbitrio ma ricerle
e
molto
individuale nel suo combinain mi bemolle maggiore KV Anh. I, 9
ca timbrica, con ciò demolendo una delre uno stile intimo e cameristico con mole principali accuse che da sempre si sono
di focosi e impulsivi. La frase con una garPëtr Il’ič Čajkovskij
appuntate su di lui, ovvero quella di esseSinfonia n. 5 in mi minore op. 64
bata appoggiatura e l’ottava discendente
re portavoce di un decadentismo latente.
dell’inizio sono drammatizzate e rese più
Ritagliata su di lui, già nel primo quarto del Novecento, taintense dalla ripresa in forte con i bassi in imitazione; l’Anle definizione comportava allora implicazioni negative che
dante, che prescrive gli archi con sordina, nello stile melodisolo un’ulteriore distanziazione prospettica ha permesso di
co non si differenzia da numerosi altri esempi precedenti ma
far cadere: Čajkovskij fu senz’altro un decadente romantico
si rileva molto più espressivo. Anche qui l’elaborazione della
quando la stagione del romanticismo era esaurita, di intenripresa rende la musica più intensa. Il finale presenta poi una
zioni cosmopolite quando la scuola russa cercava una sua masezione di sviluppo insolitamente estesa, di tono incalzante,
nifesta espressione nazionalista, sinfonista quando la sinfocon molto tremolo degli archi e con bassi e violini primi in
nia era in declino. Dunque apertamente decadente ma, forse
imitazione. A seguire, ancora di Mozart, la splendida Sinfonia concertante per oboe, clarinetto, corno, fagotto e orchestra in mi bemolle maggiore KV Anh. I, 9. ◼
Diego Matheuz (teatrolafenice.it).
classica
Diego Matheuz
sul podio
tra Mozart e Čajkovskij
27
classica
28
Un omaggio
a Luciano Berio
Gallois. Qui Berio esplora le caratteristiche opposte che lo
strumento a fiato presenta nei registri estremi della sua estensione, e sperimenta glissandi, ribattuti, suoni multipli ottenuti con l’ancia e con la voce e il rapido alternarsi di registri
di Vitale Fano
molto lontani per dar vita a timbri nuovi e articolati.
La seconda parte ha come protagonista la voce e iniell’ambito della stagione della Società
zia con le Beatles Songs, quattro arrangiamenti cameristiVeneziana di Concerti, si terrà il 24 febbraio, in
ci di «Michelle», «Ticket to Ride» e «Yesterday» scritti
collaborazione con il Teatro La Fenice, un conda Berio nel 1967 dopo aver incontrato a Londra Paul Mc
certo dedicato a Luciano Berio nel decimo anniCartney e aver subìto il fascino delle canzoni del gruppo inversario della scomparsa. Per ricordare il grande compositore
glese. Sono deliziose miniature barocche (che richiamano
ligure, che fu una delle figure più importanti del Novecento
ora Haendel, ora Bach) in cui Berio correda le celebri memusicale italiano, sarà eseguito un programma
lodie dei Fab Four di un’aura di contrappunti e
bipartito che toccherà due punti significativi delsonorità che le proiettano, a tratti, «verso il suola sua produzione musicale: la ricerca sul suono e
no cameristico, pudico e insinuante, dell’eterno
Venezia
sulle possibilità tecniche degli strumenti e l’amoRavel» (Bortolotto).
Teatro La Fenice
re per la musica pop e tradizionale.
La raccolta delle undici Folk Songs per mez24 febbraio, ore 20.00
Il primo aspetto sarà rappresentato dalle
zo-soprano e sette strumenti (flauto, clarinetto,
Sequenze per arpa e per fagotto, tratte dalle didue percussioni, arpa o chitarra, viola, violoncelciotto Sequenze per strumento solista nate fra il 1958 e il
lo) rappresenta un punto di incontro fra due universi mu2004, il cui titolo deriva dalla costruzione basata su «sesicali distinti: quello popolare e quello dello sperimentaliquenze e sovrapposizioni di caratteri armonici e di tipi di
smo. La scelta delle canzoni spazia dal melos mediterraneo
alle song americane: quattro sono italiane, tre francesi, due statunitensi, una
armena e una dell’Azerbaigian. Confluiscono in queste riscritture (pensate per
Cathy Berberian, moglie
di Berio dal 1950 al 1966)
la sensibilità strumentale
del compositore, che trova soluzioni timbriche originali, ricercando similitudini con strumenti popolari o arcaici (la viola che in
«Black Is The Colour»
evoca l’antica fidula) e la
maestria nel coniugare elementi disparati in tessiture
eterofoniche: ad esempio la
sonorità mediterranea della siciliana «A la femminisca», che rilegge in chiave novecentesca la preghiera di una giovane per il suo
uomo, o le sonorità frenetiche che accompagnano
il «Ballo», o il malinconiazioni strumentali» (Berio). Elementi comuni a tutti i braco contrappunto della melodia popolare sarda «Motettu de
ni sono il virtuosismo (inteso come ricerca di soluzioni tecniTristura», animato dalle percussioni.
che inedite richieste dalla novità e dalla complessità del penInterprete dei brani vocali sarà il soprano inglese Lorna
siero musicale) e la ricerca di trasformazione delle prassi eseWindsor, musicista eclettica e raffinata che abbraccia un
cutive nel rispetto della natura e della specificità di ciascuvasto repertorio comprendente l’opera lirica, il barocco, la
no strumento.
musica da camera, la musica contemporanea, il jazz, l’opeLa Sequenza ii per arpa è del 1963 ed è dedicata all’arpista
retta e il musical. Al suo fianco il pianista e direttore d’orfrancese Francis Pierre: una sorta di «polifonia di azioni»
chestra Antonio Ballista, la cui carriera in duo con Bruno
dove stilemi dell’Impressionismo francese e iberico conviCanino lo ha fatto conoscere ovunque per più di mezzo sevono con sollecitazioni attualissime e tecniche di esecuzione
colo. Dedicatario di composizioni di Berio, Stockhausen,
percussiva sulle corde (come il pizzicato con l’unghia, il pizLigeti, Bussotti, Donatoni e molti altri, è stato un punto di
zicato «alla Bartók», lo sfregamento di due corde una conriferimento per le avanguardie nazionali e internazionali.
tro l’altra, ecc.). Un corpo in movimento che dalla nota sinL’ensemble sarà formato dagli strumentisti del Teatro La
gola ribattuta iniziale va verso una crescente complessità arFenice, fra cui l’arpista Nabila Chajai e il fagottista Roberto
monica, fino a sfociare nei blocchi accordali dell’ultima parGiaccaglia, che eseguiranno le Sequenze. ◼
te del brano.
La Sequenza xii per fagotto è di un trentennio successiLuciano Berio (circa 1975,
foto Archivio eredi Berio – lucianoberio.org).
va: risale al 1995 ed è dedicata al fagottista francese Pascal
N
di Angela Ida De Benedictis
Luciano Berio è nato ad Oneglia, in Liguria, il 24 ottobre
del 1925 da una famiglia di solida tradizione musicale. Nel
1945 si trasferisce a Milano, dove studia composizione presso il Conservatorio «Giuseppe Verdi»: nel 1952 segue i corsi di Luigi Dallapiccola a Tanglewood, negli Stati Uniti. Fin
dai primi anni cinquanta si afferma come una voce autorevole tra i giovani dell’avanguardia musicale. A questo periodo risalgono Cinque Variazioni (1952-1953), Chamber
Music (1953), Nones (1954), Serenata (1957). Nel 1954 frequenta per la prima volta i Ferienkurse für Neue Musik di
Darmstadt. Nel dicembre dello stesso anno, insieme a Bruno Maderna, costituisce inoltre presso la rai di Milano il
primo studio di musica elettronica italiana, inaugurato l’anno successivo con il nome di Studio di Fonologia Musicale. È
in questa sede che ha modo
di sperimentare nuove interazioni tra strumenti acustici e suoni prodotti elettronicamente (Momenti, 1957;
Différences, 1958-1959) ed
esplorare soluzioni inedite
nel rapporto suono-parola (Thema. Omaggio a Joyce, 1958; Visage, 1961). Tra
la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta il
suo interesse si focalizza ulteriormente sulla ricerca di
nuove e complesse combinazioni timbriche (Tempi
concertati per 4 solisti e 4 orchestre, 1959; Sincronie per
quartetto d’archi, 1964). La
ricerca sulle risorse espressive della vocalità femminile – sollecitata dalla voce di
Cathy Berberian – procede con Epifanie (1959-1960,
poi confluito in Epiphanies del 1991-1992), Circles
(1960) e Sequenza III per
voce (1965). La concezione drammaturgica implicita in queste opere vocali si
precisa e affina nei primi lavori realizzati per il teatro, quali Allez-Hop (1959, da Calvino), Passaggio (1962) e Laborintus II (1965), entrambi su testo di Sanguineti.
L’indagine sulle potenzialità idiomatiche dei singoli strumenti dà avvio nel 1958, con Sequenza I per flauto, alla serie delle quattordici Sequenze per strumenti solisti (l’ultima,
del 2002-2003, è per violoncello). L’insieme di questi brani solistici e dei relativi Chemins – elaborazioni per insieme
strumentale di alcune Sequenze – evidenzia il peculiare carattere di «work in progress» del comporre di Berio, inteso
potenzialmente come un incessante processo di commento e
di elaborazione che prosegue e prolifera da un pezzo all’altro.
Luciano Berio nello studio di Via della Mendola,
Roma, inizio maggio 1972
(foto di Frans van Rossum – lucianoberio.org).
Nell’ambito delle compagini per grande orchestra il compositore esplora nuove disposizioni spaziali (già sperimentate
negli anni cinquanta in Allelujah I e II) e nuove formazioni
strumentali: Eindrücke (1973-1974), Bewegung (1971-1983),
Formazioni (1985-1987), Continuo (1989-1991), Ekphrasis
(Continuo II, 1996). Il rapporto dialettico tra strumento solista e orchestra è al centro di lavori quali Concerto per due
pianoforti (1973); «Points on the Curve to Find…» per pianoforte e orchestra da camera (1974), confluito in Concerto II (Echoing Curves) per pianoforte e due gruppi strumentali (1988-1989); Voci (Folk Songs II) per viola e due gruppi strumentali (1984), Alternatim per clarinetto, viola e orchestra (1994). Oltre al Concerto, Berio rilegge altri generi
storici quale il quartetto d’archi (Quartetto, 1956; Sincronie,
1964; Notturno, 1993; Glosse, 1997) e uno strumento carico di connotazioni tradizionali come il pianoforte, indagato con criteri sonori, formali ed espressivi inediti in una serie di lavori che dalla Sequenza IV (1966) portano all’acme
della Sonata (2000).
La ricerca musicale di Berio si caratterizza per l’equilibrio
raggiunto tra una forte consapevolezza della tradizione e una propensione alla sperimentazione di nuove forme della comunicazione musicale. Nelle sue varie fasi creative il compositore ha sempre cercato di mettere in relazione la musica con vari campi del
sapere umanistico: la poesia, il teatro, la linguistica, l’antropologia, l’architettura. L’interesse per le diverse espressioni della musicalità umana ha condotto a una rivisitazione costante di diversi repertori di tradizione orale (Folk Songs, 1964; Questo vuol dire
che…, 1968; Cries of London, 1974-76; Voci, 1984). Il grande patrimonio della musica
occidentale è esplorato nelle rivisitazioni di
Monteverdi (Il Combattimento di Tancredi e Clorinda), Bach (Contrapunctus XIX),
Boccherini (Ritirata notturna di Madrid),
Mozart (Vor, während, nach Zaide), Schubert (Rendering), Brahms (Op. 120 N. 1),
Mahler (i due cicli di Frühe Lieder), Puccini (il Finale di Turandot), e altri ancora. L’ideale di far convivere le diverse dimensioni
e tradizioni delle nostre civiltà si manifesta
inoltre in lavori quali Sinfonia (1968), Coro (1975-1976), e Ofanìm (1988-1992), lavoro quest’ultimo che prepara il terreno ai
suoi due ultimi lavori teatrali. Proprio il teatro musicale costituisce un nodo fondamentale della ricerca e della poetica di Berio. Dopo i primi lavori scenici degli anni
cinquanta e sessanta (Allez-Hop, Passaggio), egli approda nel
decennio successivo alla sua prima azione musicale in più atti su testi propri: Opera (1969-1970/1977). Seguono La vera storia (1977-1979) su testo di Calvino; Un re in ascolto
(1979-1983) su testi di Calvino, Gotter, Auden e Berio; Outis (1992-1996) su testi di Dario Del Corno; e Cronaca del
Luogo (1997-1999) su testo di Talia Pecker Berio. Menzione
a sé merita A-ronne (1974-1975), documentario radiofonico
per cinque attori (elaborato nel 1975 per otto voci) su testo di
Sanguineti, punto di approdo delle sperimentazioni radiofoniche condotte da Berio fin dagli anni cinquanta.
Luciano Berio si è spento a Roma il 27 maggio del 2003.
Nella sua ultima opera, Stanze (2003, per baritono, tre cori maschili e orchestra, su testi di Celan, Caproni, Sanguineti, Brendel e Pagis) l’autore dà voce a un’ultima intima sintesi della propria poetica. ◼
classica
Luciano Berio,
un ritratto
29
classica
30
«Le salon romantique»
di Palazzetto Bru Zane
comune nell’Ottocento: le trascrizioni e parafrasi di opere celebri; strumento privilegiato di questa prassi ottocentesca: il pianoforte. Il concerto sarà dedicato all’opera di
Wagner trascritta da due compositori: Alfred Jaëll – Deux
Improvisations d’après Rienzi, Paraphrase sur Lohengrin et
di Andrea Oddone Martin
Tannhaüser, Paraphrase de Tristan und Isolde in prima esecuzione moderna – e Franz Liszt – Transcription du Vaisseau
i tiene a febbraio la rassegna centrale delle tre
fantôme, Transcription de Isolde Liebestod. A chiudere il conproposte dal Palazzetto Bru Zane per l’anno 2012certo, un estratto dall’esiguo catalogo di composizioni esclu2013, rassegna di inattese rarità e possibili incontri.
sivamente musicali di Richard Wagner: la Sonata per pianoIncontri senz’altro musicali per «Le salon
forte in la bemolle maggiore del 1853. Sabato 16
romantique», un festival dove la proposta non è
febbraio alle 20.00 al Bru Zane un altro concerdefinita rigidamente dai confini tematici di rifeto che si distingue per la rarità delle proposte: il
Venezia
rimento ma, rifacendosi all’usanza ottocentesca
Quartetto Manfred eseguirà i quartetti di Louis
Palazzetto Bru Zane
(purtroppo non più in voga) dei comuni cenacoVierne e di Albéric Magnard. Il concerto, che è
dal 2 al 28 febbraio
li letterari, musicali e artistici, amplia il ventaglio
in tour europeo dal 29 agosto scorso, sarà riprodelle possibilità di genere e d’autore. Certo, la preposto il giorno successivo, domenica 17 febbradilezione è cameristica, data la preziosa disponibilità della
io, a Palazzo Leoni Montanari di Vicenza. Giovedì 21 febsala da concerto del Palazzetto veneziano, dalle dimensioni
braio alle 20.00 si torna in Palazzetto con il Trio Paul Klee,
corrispondenti a quelle dei salotti ottocenteschi, destinatari
che eseguirà il concerto «Moderni o romantici?» con muideali di molte opere
da camera composte
nel Romanticismo.
Il programma del
festival, forte dei
partenariati creati dall’impegno internazionale dell’equipe del Bru Zane,
si dirama in tutta
Europa oltre che in
Veneto, principalmente a Venezia. Il
primo concerto veneziano si svolgerà sabato 2 febbraio alle ore 20.00 al
Palazzetto, dove il
violinista Nicolas
Dautricourt, accompagnato dal pianoforte di Dominique
Plancade, eseguirà (prima esecuzione moderna) la
Sonata per violino di
Fernand de la Tombelle, eclettico e colto artista romantico,
siche di Alphonse Douvernoy e Maurice Ravel. Ultima daseguita dal Poème élégiaque per violino e pianoforte del belta veneziana della rassegna, giovedì 28 febbraio, stesso luogo
ga Eugène Ysaÿe. A chiudere il concerto, la Sonata per vioe stessa ora per il recital pianistico di Geoffroy Couteau inlino del più celebre César Frank. Il giorno seguente, dometeramente dedicato alla musica del prolifico Camille Saintnica 3 febbraio alle 17.00 sempre al Bru Zane, un’altra priSaëns. «Scoprire Saint-Saëns» è il titolo attribuito a questo
ma esecuzione moderna: la Fantaisie romantique di Eugène
concerto, dove si ascolteranno le Bagatelles, la riduzione piaAnthiome, vincitore del Prix de Rome nel 1861. Geneviève
nistica del poema sinfonico Danse Macabre, gli Studi n. 1, 2,
Laurenceau al violino e David Bismuth al pianoforte ese3 per mano sinistra op. 135, Menuet et valse op. 56 e gli Studi
guiranno poi la celebre Sonata per violino di Camille Saintn. 2 e 6 op. 52. Un’offerta di opere di compositori celebri e
Saëns. Il mercoledì successivo, il 6 febbraio alle 20.00 presautentiche rarità, «Le salon romantique» permette ascolso la medesima sede, saranno eseguiti dalla soprano Chantal
ti certamente non frequenti e la scoperta di autori non celeSanton e dalla mezzosoprano Clémentine Margaine, acbrati nel secolo ma non minori nell’opera. Straordinaria sarà,
compagnate dal pianoforte di Emmanuel Olivier, duetdunque, la possibilità di confrontarsi con la musica di De la
ti e arie estratti da opere di vari compositori ottocenteschi
Tombelle, dello sfortunato Louis Vierne o dell’appartatissiquali Léo Delibes, Emmanuel Chabrier e l’italiano Nicola
mo Albéric Magnard, come anche di Eugène Ysaÿe, compoVaccaj di cui sarà proposto in prima moderna il duetto tratsitore ma soprattutto importante virtuoso del violino e deto da Roméo et Juliette; e ancora George Bizet e Charles
stinatario di opere scritte tra gli altri da Claude Debussy e
Gounod. Il mercoledì successivo, il 13 febbraio sempre alCésar Franck. ◼
le 20.00 e sempre al Palazzetto, sarà la volta del recital pianistico di Dana Ciocarlie. In programma, esecuzioni di alNicolas Dautricourt, che aprirà il festival il 2 febbraio
cune di quelle particolari composizioni la cui pratica era
(nicolasdautricourt.com).
S
struito su un unico tema molto semplice, presentato dai corni nelle battute iniziali. Nell’ambito di una fluida e continua variazione del materiale, il tema viene sottoposto a svariate trasformazioni che ne modificano continuamente le caratteristiche: eterofonia da canoni, sviluppo degli intervalli
in forma melodica e armonica, aumentazioni e diminuzioni
progressive di ritmi e intervalli, aumentazioni e diminuzioni contemporanee di incisi in maniera puntillistica, polistilismo, quadrati magici esacordali, tecnica dell’armonia orbia cura di Maria Chiara Del Piccolo
tale gravitazionale di Roberto Lupi anche unita a un denso
contrappunto dodecafonico. Al culmine di tali metamorfosi
l 22 febbraio l’Orchestra di Padova e del Veneto toril tema perde il suo nobile carattere iniziale e si ripresenta alla
nerà di scena all’Auditorium Cesare Pollini insieme al
fine del brano in maniera misteriosa e trasfigurata, eseguito
direttore Johannes Wildner. Il concerto, inserito nel xlda un glockenspiel in lontananza: è da questo procedimento
vii cartellone dell’opv, prevede, oltre alstrutturale che deriva il titolo del brano.
le musiche di Mendelssohn, Schubert e Dvořák
Una recentissima indagine britannica mo(il raro Concerto per pianoforte op. 33, solista
stra che circa il trenta per cento di un campioPadova
Gabriele Carcano), anche Trasfigurazione di
ne di duemila «under 25» è incuriosito dalla
Auditorium Cesare Pollini
Gianluca Cascioli, opera vincitrice del Primo
musica «classica» e vorrebbe saperne di più. A
22 febbraio,
Concorso Nazionale di Composizione Fran- ore 10.30 (prove generali) e 20.45 dispetto di tale curiosità, la scarsa presenza di
cesco Agnello, promosso dal cidim (Comitato
giovani ai concerti resta uno dei problemi della
Nazionale Italiano Musica). Abbiamo inconvita concertistica, non solo italiana.
trato Gianluca Cascioli, al quale abbiamo chiesto qual è il suo
Sono appena tornato da una tournée in Giappone: laggiù
rapporto con la tradizione e quali i compositori che rappresenho trovato un interesse enorme, sale (acusticamente perfettano un riferimento nella sua attività di compositore.
te) sempre colme di pubblico (di ogni età), religioso silenzio
e grande attenzione. Anche il mercato discografico non sem«Credo che gli uomini siano il risultato della storia che li
bra in crisi. Perché? Da giovane musicista non mi permetto
ha preceduti. Allo stesso modo i musicisti di oggi hanno un
di suggerire o dare consigli su un argomento tanto compleslegame forte con i grandi del passato. Scrivere musica ignoso quanto spinoso. A mio avviso la musica è in grado di risverando completamente la tradizione è estremamente rischiogliare il mondo spirituale interiore degli uomini ed è portaso. Detto questo, è ovviamente giusto e normale cercare vie
trice di un messaggio elevato e nobile. Questo aspetto quadi espressione sempre nuove. Sono molti i
compositori che amo e ascolto spesso: più volte Alfred Schnittke si è rivelato essere per me
un riferimento, lo trovo sempre geniale e imprevedibile. Amo anche György Sándor Ligeti. Tra gli italiani ho moltissima ammirazione per Carlo Mosso e Alberto Colla, mentre
considero Aaron Jay Kernis uno dei compositori viventi americani più interessanti».
Qual è stato l’incontro che ha avuto maggiore
influenza sul suo modo di comporre?
Conoscere il geniale compositore Alberto
Colla è stato per me decisivo. Le sue lezioni
mi hanno spalancato universi nuovi e vastissimi. Non esito a definire l’incontro con Colla come uno dei più importanti della mia vita,
anche a livello umano.
Cosa significa essere un compositore al giorno
d’oggi? E in che rapporto si pone con il pubblico?
Non è possibile generalizzare, giacché la situazione contemporanea è estremamente variegata. Comporre significa riuscire a intuire quale possa eslitativo è estremamente importante: la musica non dovrebsere il giusto cammino di una cellula germinativa di partenbe essere ridotta a mero intrattenimento o sottofondo di uno
za. Questo cammino è la «verità» che si cerca, un concetto
spot commerciale. Se non stiamo attenti perderemo la capatutt’altro che statico, e per afferrarlo è necessario percorrere
cità di cogliere l’aspetto sublime e più profondo delle note.
vie sempre nuove, sempre diverse. Nel Novecento il rapporForse modelli alternativi al concerto tradizionale possono
to compositori-pubblico è peggiorato notevolmente. La siessere interessanti quando vi è una necessità artistica valida
tuazione al momento attuale è grave e i compositori hanno
che li giustifichi, ma inventarsi idee strampalate con l’unico
il dovere di valutare questo stato di cose molto seriamente. È
intento di portare pubblico in sala (o chissà dove) e riempire
urgente una rivalutazione critica che porti a capire cosa abpoltrone non è a mio avviso una soluzione valida. Ormai se
bia creato questa rottura e perché: solo sulla base di una nuone vedono di tutti i colori: si fanno concerti di musica classiva consapevolezza si potrà procedere oltre.
ca nelle stazioni ferroviarie, per strada, nelle metropolitane,
Ci può illustrare brevemente il suo brano Trasfigurazione?
e poi si invitano comici o cantanti rock nelle sale da concerto.
È stato composto nell’estate del 2011 ed è interamente coQualcosa non funziona: tutto questo non fa altro che sottolineare l’aspetto circense dell’esibizione pubblica e svilisce la
Gianluca Cascioli (foto di Silvia Lelli).
verità spirituale che è insita nella grande Musica. ◼
I
classica
La «Trasfigurazione»
di Cascioli per
l’Orchestra di Padova
e del Veneto
31
l’altra musica
32
«Ecco» Niccolò Fabi,
l’ostinato
sa fare con la musica – per poi divagare sui momenti così strani e difficili che stiamo attraversando.
Di Ecco colpisce subito il grande entusiasmo, percepibile nella sua progettazione, nella freschezza dei brani, nel coinvolgia cura di John Vignola
mento di tanti altri artisti.
È tutto in sintonia con il titolo del disco: una presentazione
lle spalle di Niccolò Fabi c’è tantissimo: alcuni
non solo o non tanto del sottoscritto ma di quello che abbiabrani entrati nell’immaginario adolescenziale di
mo fra le mani, noi e voi: forse la musica, sicuramente parecqualche anno fa, («Capelli», per
chia disperazione ma pure il senso del riscatesempio), il Festival di Sanremo,
to, la voglia di connetterci fra di noi, per davuna musica cortesemente pop, che da qualche
vero. Vorrebbe essere un’opera resistente, che
Trento
anno è diventata più aperta, non complicata
non scade nelle paternali o nelle didascalie. È
Auditorium Santa Chiara
ma disposta a mettersi in relazione con eletcome seguire un’onda, lasciarsi sommergere e
19 gennaio, ore 21.00
tronica, folk, canzone d’autore. L’ideazione
poi riemergere, un po’ più forti.
del progetto Violenza 124 aperta a molti amiCome le prove della vita.
Mestre
ci, musicisti che poi lo hanno accompagnato
Quelle segnano, belle o brutte che siano. A
Teatro Toniolo
in un disco convincente come Solo un uomo,
me è capitato di perdere una figlia, a qualcu24 gennaio, ore 21.00
nel 2009. Un lutto familiare tremendo, menno capita di perdere la vita sul lavoro o di non
tre Fabi è in tour: la scomparsa della figlia di
trovare più un senso in quello che fa. Esistere
nemmeno due anni, Olivia, il pensiero fugace di lasciar perè fare i conti con un senso di mancanza, di perdita perenne.
dere la musica per sempre.
Però Ecco è essenzialmente propositivo. Non è una rinascita,
è il senso della
lotta e della mia
fragilità.
Nella copertina scocca una
freccia.
È una specie
di rappresentazione della forza: quando si
punta a qualcosa si è forti,
o almeno ci si
fa coraggio. Si
rimanda verso altro, si rimane tesi, attenti. Ecco significa anche
«sono pronto,
andiamo».
Dove?
Nel gorgo della vita, facendosi un po’ di
domande.
Per esempio,
quella di «Indipendente».
Una canzone
cruciale.
Per me di siEcco, uscito verso la fine del 2012, testimonia soprattutto
curo. Cosa può voler dire, oggi, essere indipendente? Ed è
una tenacia artistica importante, al di là di ogni considerauna considerazione a cui aspirare?
zione retorica. La scelta di non farsi trafiggere dal dolore si
Lei cosa pensa?
accompagna a una forte curiosità, alle numeNon ho risposte facili e i miei pezzi sono
rose collaborazioni (con i compagni di semspesso problematici, non risolvono le dopre, come Roberto Angelini, ma anche con
mande. Credo che si debba puntare verso la
nuovi amici, per esempio il polistrumenticoralità: nell’album ho scelto, se non la dista Enrico Gabrielli, oppure Roy Paci, nei cui
pendenza da altri, almeno la connessione,
studi è stato registrato il cd), a un canto meuna relazione che mi ha riportato ai miei seno sottile di un tempo e più attento alle incredici anni.
spature. Come dice il suo artefice, «è firmato
Un sedicenne che la ascolta potrebbe avere i
da me solo per comodità artistica, ma si tratsuoi entusiasmi dell’epoca?
ta quasi di un’opera collettiva», che ci spiega
nell’intervista che segue – per quanto si posNiccolò Fabi (foto di Simone Cecchetti).
A
siero. I mezzi di comunicazione dovrebbero essere neutri: la
tv non mi interessa, oggi, perché è utilizzata male. Spero che
non duri per sempre.
E il cinema?
Il cinema mi piace, da appassionato, ma vedo poche novità. Anche in questo ambito ci sono tantissimi spot mascherati da film, che finiscono per deprimermi. Quello che manca al mondo di oggi è l’artigianato: troppo è nelle mani di
grandi filiere produttive, mentre si dovrebbe ritornare a curare le produzioni, per esempio discografiche, una a una, senza grandi staff ma con grande passione.
Il futuro…
Il futuro è un viaggio, letteralmente. Ho avuto la fortuna
di crescere in un mondo pieno di suoni, mio padre produceva dischi, ho sentito tantissimo e ho imparato parecchio dai
miei compagni di strada. Ho zone della mia esistenza che ritengo fortunate. Fra queste, la sorte di condividere ciò che
faccio con persone splendide. Ho imparato ad aspettarmi di
tutto ma non lo farò mai passivamente.
E la musica?
Quella degli altri o la mia?
Entrambe.
Quella degli altri mi interessa sempre. Sono calato nel cantautorato americano, oramai da una vita, e non mi delude
mai. Per esempio, Sufijan Stevens mi piace moltissimo e trovo che sia geniale, qualsiasi cosa faccia. Per quel che mi riguarda direttamente, dopo l’uscita di Ecco ho rallentato ancora un po’ i ritmi per capire bene dove andare. Dopo l’esperienza quasi solitaria degli scorsi mesi, ho invece intrapreso
un percorso corale. I concerti saranno vasti, responsabili, divertenti, a tratti dolorosi, sempre in movimento. Si tratta di
rimanere all’altezza, non della stima che ho di me ma della
via che sto seguendo: ce la metterò tutta, con la famosa ostinazione di cui si diceva. ◼
l’altra musica
Mi auguro che siano diversi, ma che ci siano. Sono convinto che chi fa musica continua ad avere passione, anche se magari non compra più dischi o la sente in maniera diversa dalla mia. È essenziale pensare il rock o il pop come dei veicoli di socializzazione, di divertimento, di riscatto: di bellezza, insomma.
La situazione non è rosea, però.
Non vorrei fare l’ottimista a ogni costo ma credo che la nostra crisi, economica, morale, non sia necessariamente artistica. Non confondiamo l’incrinarsi delle discografiche con
la fine della musica: ce n’è ancora tantissima, che gira intorno e si diffonde sui palchi e magari in Rete.
Come scovarla?
Accendendo la radio, andando a un concerto, navigando
nel web: è tutto attorno a noi.
Mi sta dicendo che quasi tutto è bello.
No, per niente. Le sto dicendo che non bisogna smettere di
cercare, che uno dei problemi più importanti di questi anni
è la pigrizia, la mancanza di curiosità. Ogni cosa ci sembra a
portata di mano, così non cerchiamo più nulla.
Lei cosa sta cercando?
Mi piacerebbe
viaggiare meglio, incontrare
persone diverse e scoprire diversi modi di vita. Il mio impegno sociale va
in una direzione del genere.
«Sedici modi
di dire verde»
è un brano molto importante
nell’economia
di Ecco, secondo me. Racconta di come altrove, nelle comunità tribali dell’Amazzonia, avere sedici modi diversi di chiamare il
colore verde sia
più importante di avere molti
sinonimi della
parola «malinconia». Punti di vista, priorità differenti, con una caratteristica comune: quella di approfondire, di
andare dentro alle cose che vediamo o che proviamo.
A proposito di parole, si riconosce in un vocabolo come
«ostinazione»?
È un vocabolo chiave, più della ricerca del vero, che secondo
me non è essenziale. Bisogna ostinarsi a trovare una via, senza ansie di definizione ma percorrendola con molta convinzione. Così tento di vivere.
Da qualche parte ho letto che non guarda più la televisione.
La guardo poco. Non mi interessa quello che trasmettono i
canali principali, la politica è soltanto compravendita, la musica è pochissima. Sembra quasi un binario morto.
Meglio Internet?
Meglio un libro, innanzi tutto, e un po’ di libertà di pen-
33
l’altra musica
34
La rinascita di Alice
suona in «Samsara»
berto Tafuri, Michele Canova Iorfida. E per quanto riguarda i contenuti, molti brani risultano densi di riferimenti storico-letterari, si pensi a «Morire d’amore», che racconta la
vita di Giovanna D’Arco, e a «Come il mare» e «Autunno
già», ispirati alle liriche di Arthur Rimbaud e Paul Verlaine.
di Guido Michelone
In genere i temi delle canzoni del «Samsara Tour» affrontano problemi esistenziali o vicende spirituali – come avviene
amsara Tour» al Geox di Padova il 12
in «Eri con me» – o più semplicemente trattano l’amore, la
gennaio è la ghiotta occasione per assaporaquotidianità, le relazioni umane, tutto quanto insomma dà
re, dal vivo, il nuovo album di inediti di Alice
luogo all’eterno scorrere della vita. Le canzoni del tour par– Samsara, appunto – disco che arriva a quatlano quindi di ciò che senza sosta continua ad agire, accadetordici anni dal precedente Exit (1998): per l’interprete e
re, fluire, scorrere, come se il nuovo lavoro di Alice somigliascompositrice forlinese si tratta di un momento di rilancio
se appunto al compiersi di un giro di ruota che va a contenenell’ambito della pop song, da lei frequentata soprattutto tra
re in sé gioie e sofferenze, a loro volta catturate dallo scorrere
gli anni settanta e novanta, per incamminarsi sucintenso di questo flusso continuo.
cessivamente lungo percorsi musicali impegnatiSamsara racchiude in sé voci e suoni, lascia canvi, a loro volta ricchi di classici otto-novecenteschi
tare
le parole e narra quei momenti in cui vivere siPadova
(soprattutto nell’album Mélodie passagère). Per la
gnifica
aspirare a un’unità superiore, benché spesGran Teatro Geox
Bissi Carla dei timidi esordi o l’Alice Visconti
so si finisca per restare prigionieri di un imperfet12 gennaio, ore 21.15
trionfatrice a Sanremo con Per Elisa (1981) moto
to paradiso terrestre che si chiama vita. E al protempo è trascorso, soprattutto nel senso di un’eposito calzano a pennello le frasi che Alice stesvoluzione stilistica che la conduce a smarcarsi dallo show
sa pronuncia in un’intervista di tre anni fa: «Io lo chiamebusiness per diventare quasi subito l’interprete prediletta di
rei percorso esistenziale, perché in fondo siamo qua per imFranco Battiato (cfr. ???): un’icona della canzone d’autore
parare a dare un senso alla nostra vita, per cercare di comin un periodo transitorio per l’intera musica leggera italiaprenderne il significato. Certo le cose sono molto cambiate
na. Insomma, per Alice quelli tra il 1981 e il 1998 sono anni
e dal 1981 a oggi ho visto tutto modificarsi. Adesso, tra l’aldi grandi dischi – Alice, Azimut, Gioielli rubati, Park Hotel,
tro, stiamo vivendo un momento talmente difficile – da ogni
Elisir, Il sole nella pioggia, Mezzogiorno sulle Alpi, Charade,
punto di vista – che, insomma, non è che si possa far finta di
Alice canta Battiato – con tanti brani ancor oggi in scaletta.
niente». ◼
Ma se Exit pare un titolo che, riletto a posteriori, sembra
quasi anticipare il desiderio di Alice di uscire di scena dal
mondo della discografia ufficiale (con progetti dedicati spesso a riletture di materiali sonori altrui), ora con Samsara il
discorso quasi si capovolge: la parola d’origine sanscrita
(letteralmente «scorrere insieme») connota, nelle religioni indiane dall’Induismo al Buddhismo, una dottrina che riguarda un ciclo di vita, morte e rinascita (non a caso sovente raffigurato come rotante). E
questa rinascita per Alice passa attraverso dodici
nuove canzoni scritte da alcuni «illuminati»
degli anni sessanta, settanta, ottanta negli ambiti pop, rock, prog.
C’è anzitutto Battiato con la melodia «Eri
con me», quindi Mino Di Martino, già cantante/tastierista della rock band I Giganti,
che firma ben quattro titoli («Morire d’amore», «Un mondo a parte», «Autunno
già», «Come il mare»). A loro due si affianca una giovane conoscenza del pop
contemporaneo, Tiziano Ferro, che le
dedica «Nata ieri» e «Cambio casa»,
mentre la stessa Alice scrive «Orientamento» e «Sui giardini del mondo», insieme al primo chitarrista dei
Bluvertigo, Marco Pancaldi. Importanti sono anche tre cover, forse i picchi del disco a livello di interpretazione vocale: «Il cielo», una delle prime ballad del Lucio Dalla cantautore; «Al mattino» un successo del complesso beat I Califfi; «’A cchiù bella» di Giuni Russo, versione-studio di una rilettura sonora dell’omonima poesia di Totò.
In Samsara anche il team produttivo è vincente, a cominciare dall’ex-Japan Steve Jansen, per passare a Francesco Messina, storico
alter ego artistico, fino a Marco Guarnerio, AlAlice.
S
«
fica rosa della vittoria. L’inizio fu subito incoraggiante, visto che fu la ben più celebre conterranea Björk a scegliere il
loro primo singolo per una compilation celebrativa dei cinquant’anni d’indipendenza del Paese dalla Danimarca. Passano invece quasi tre anni per vedere pubblicato il loro primo album Von, che in islandese significa speranza: a fronte di un’ottima reazione della critica specializzata, le vendidi Tommaso Gastaldi
te risultano poco convincenti e la fama della band rimane relegata ai confini islandesi. Von è un disco giovane, che pecca
n approfondito studio di etnomusicolodella poca esperienza dei membri del gruppo ma che contiegia e antropologia musicale potrebbe certamenne molti elementi che caratterizzeranno in futuro il sound
te definire quanto la geografia di un luogo, ove
dei Sigur Rós. Il passo successivo avviene all’inizio del nuosia nato un certo tipo di musica, possa aver influvo secolo, una nuova partenza e «un buon inizio», come reito sullo sviluppo della stessa. Ad esempio la nascita del blues
cita il titolo del loro secondo disco Agætis Byrjum uscito nel
è geograficamente connotata in una certa parte
loro paese nel 1999 e successivamente in Europa
d’America in un periodo storico ben preciso, e lo
all’inizio del 2000. I Radiohead li scelgono come
stesso può valere per la musica barocca, per il rap
loro gruppo spalla per il tour di Kid A e finalmenJesolo
o per la musica dodecafonica. Ma oltre ai persote cominciano a farsi conoscere anche nel vecchio
Pala Arrex
naggi, ai momenti storici e alle invenzioni tecnocontinente. Il successivo lavoro ( ), minimalista
18 febbraio, ore 21.00
logiche c’è un contesto territoriale che non può
nel titolo e nelle sonorità, segna la loro ascesa al
non essere preso in considerazione quando si anasuccesso, consacrato da una fortunata tournée e
lizza la nascita di qualsiasi genere. La musica dei Sigur Rós è
dalla firma di un contratto con una major. Takk… (grazie)
esce nel 2005: rispetto ai
lavori precedenti segna
una svolta più positivista
e luminosa, segnata da
singoli come «Glòsoli»
e «Hoppipolla», usata (a loro insaputa) come jingle durante una recente edizione del Festival di Sanremo. Il doppio
cd Hvarf / Heim è invece
una compilation mista
tra rielaborazioni di pezzi precedenti e brani inediti, uscita in contemporanea con il dvd Heima
in cui omaggiano la loro
terra natia filmando una
serie di concerti tenuti in luoghi caratteristici dell’Islanda. Se finora avevano fatto tutto da
soli, per il disco successivo, Með suð í eyrum við
spilum endalaus, decidono di affidarsi al produttore Flood (che aveva già
indissolubilmente legata al luogo della sua nascita, l’Islanlavorato con Depeche Mode, U2 e Smashing Pumpkins, soda. Una terra dominata dai contrasti della natura, dall’estrelo per citarne alcuni): il risultato è un disco con canzoni più
mizzazione dei suoi elementi, siano essi l’acqua sputata da un
definite, con un suono volutamente più pop accostato a brageiser, il fuoco di un vulcano o le verdi distese di terra. Chi
ni maggiormente vicini ai lavori precedenti. Nel 2011 alla
questa nazione la vive, aldilà di tutto ciò che può normalMostra del Cinema di Venezia viene proiettato Inni, documente caratterizzare la vita di una paese, può contare come
mentario in bianco e nero che raccoglie diverse esibizioni lifonte di ispirazione sulla bellezza di spettacoli naturali unive del gruppo: naturalmente sul red carpet non si sono fatci al mondo. I Sigur Rós hanno musicato questa bellezza inti vedere, anche perché impegnati nella lavorazione del loro
contaminata del paesaggio islandese esportandolo nel monultimo disco, Valtari, che segna un ritorno alle origini mudo e diventando la colonna sonora del proprio Paese. La nasicali dei lavori iniziali. I Sigur Rós raccolgono al loro interscita della band ha una data ben precisa, il 4 dicembre 1994,
no un mondo di suoni e musiche che parte da un certo gusto
giorno in cui nacque la sorella di uno dei membri fondatori
psichedelico di derivazioni floydiane, per aprirsi a influen(Jònsi Birgisson) alla quale presero in prestito il nome Sigur
ze rock, elettroniche ma anche sinfonico-orchestrali. MusiRós, abbastanza comune da quelle parti e che tradotto signica aperta ed emozionale, cantata dall’eterea e femminile voce di Jònsi Birgisson in islandese e in vonlenska, o hopelandic, lingua totalmente inventata, con parole senza significaSigur Rós in concerto
to, che tradotta in italiano suonerebbe più o meno come…
(Ásbyrgi, 2006, foto di Anton Brink
«speranzese». ◼
per www.myspace.com/sigurros).
U
l’altra musica
Suoni, musiche
e speranze: i Sigur Rós
fanno tappa a Jesolo
35
l’altra musica
36
Da «Azzurro»
a «Yellow Submarine»,
ecco il Carnevale
dei colori
coglierà le serate musicali d’ispirazione cromatica, da «Azzurro» a «Yellow Submarine», da «Black in Black» a
«Purple Rain» fino ad «Abba Gold», con costumi e coreografie degli Abba all’oro puro. Oltre naturalmente a ospitare la sfilata di maschere, il corteo delle Marie (sabato 2 febbraio) per la prima volta senza il regista Bruno Tosi e a essere la postazione migliore per assistere ai tre voli dal campanile. Il primo, domenica 3 febbraio, vedrà la tradizionale discesa da ottanta metri d’altezza dell’Angelo del Carnevale,
di Manuela Pivato
che quest’anno avrà il sorriso e la grazia di Marta Finotto, la
arà il Carnevale dei colori che, crisi o non
Maria 2012. Il secondo, quello di domenica 10, coinvolgerà
crisi, brillerà su maschere e coriandoli nei palazzi, nei
invece un artista il cui nome sarà svelato solo all’ultimo. Per
martedì grasso, invece, è in programma lo «svolo» del Leon:
teatri, al cinema, nei musei e ovunque ci sarà spazio
un gigantesco gonfalone di San Marco planee voglia di far festa. Si comincia il 26
gennaio e si finisce il 12 febbraio: in mezzo,
rà su migliaia di nasi all’insù per salutare la ficompatibilmente con i tempi e le risorse, la
ne della festa.
manifestazione che per tre settimane trasforDi tonalità in tonalità, il Carnevale «Vivi i
Venezia
merà la laguna in un palcoscenico che avrà cocolori-Live in Colour» offrirà anche una modal 26 gennaio al 12 febbraio
me fulcro una Piazza San Marco variopinta,
stra di libri antichi sul colore nelle Sale Mocome prologo una colossale scorpacciata in
numentali della Marciana, con letture tefondamenta di Cannaregio e come cerimonia di congedo la
atrali musicate in tema e commentate da un straordinario
Vogata del silenzio in Canal Grande tra le due ali dei palazzi
teorico del colore come il professor Manlio Brusatin. Una
illuminati da candele.
mostra sull’utilizzo storico dei colori sarà invece presentata all’Archivio di
Stato, dove saranno esposti documenti che racconteranno l’utilizzo
delle tinte nei diversi ambiti sociali, dalla politica alla decorazione, attraverso i secoli.
L’Istituto Veneto
di Scienze, Lettere
e Arti e la Casa del
Cinema omaggeranno invece i dieci giorni più pazzi
dell’anno con una
rassegna cinematografica sui colori nel cinema. I titoli? Cromaticamente a tema, ovvio: Il pirata nero,
La carrozza d’oro, Scarpette rosse.
E ancora: la pista
di pattinaggio in
campo San Polo,
le fiabe per bambini a Palazzo Grimani, i suoni e colori del Barocco a
Ca’ Rezzonico.
I colori, dunque, saranno il filo conduttore dell’edizione
Tocchi d’arcobaleno anche nel programma teatrale che en2013 del Carnevale, così come ha deciso il direttore artistico
trerà a Ca’ Pesaro con «Tutti i colori del mondo» di GioDavide Rampello che cita John Ruskin («Le menti più pure
vanni Montanaro, al Museo di Storia Naturale con «Erboe più pensose sono quelle che amano i colori») per compenlato ovvero arzigogoli di un ciarlatano su natura e scienza»
sare il budget ridotto rispetto a quello dell’anno scorso. Con
e a Casa Goldoni con uno spettacolo itinerante. Avrà invece
poco più di un milione di euro non si potranno fare miracoli
tutte le tinte del mistero lo spettacolo curato da Alberto Toma, come spiega il presidente di Venezia Marketing & Eventi
so Fei, che condurrà passo dopo passo in una Venezia insolita
Piero Rosa Salva, il Carnevale di Venezia resta tra i più amati
e segreta e, per una volta, più in bianco e nero che a colori. ◼
del mondo e i turisti in arrivo troveranno comunque una girandola di iniziative per tutti i gusti.
Principe Maurice Agosti in Piazza San Marco
Di colore in colore, il Gran Teatro di Piazza San Marco ac(foto www.carnevale.venezia.it).
S
cussiva, legata forse al fatto di aver cominciato la carriera come maestro di percussioni. L’incontro di sei anni fa con Fresu ha poi portato alla recente incisione di Alma, un disco nel
quale ai due si unisce il violoncellista brasiliano Jaques Morelenbaum, dando vita a composizioni sognanti, poetiche, indi Giovanni Greto
dirizzate verso una moderna «musica d’ambiente». Ma è al
pianoforte che emerge la bellezza cristallina del suo tocco,
nizia il 20 gennaio una nuova puntata di «Jazz
l’agilità tecnica e una spiritualità di fondo.
Groove», la rassegna che da otto anni, grazie al circolo
Sia per chi non lo conosce, sia per chi lo abbia già visto, meculturale Caligola, riesce a portare un po’ di buona murita un ascolto non superficiale il chitarrista e compositosica, spesso felicemente di ricerca, nell’amre americano, nato a Newark, nel New Jersey,
biente veneziano. Dopo una convincente esibiMarc Ribot, classe 1954. In un panorama musizione il 26 maggio 2009 nella basilica dei Fracale troppo spesso piatto, accanto a una serie di
Mestre
ri, ritorna Omar Sosa, musicista e compositointerpreti che durano il tempo di un disco, proCandiani mossi in maniera massiccia dalle case discografire cubano (nato il 10 aprile 1965 a Camaguey) Centro culturale
Omar Sosa
che sceglie di cimentarsi con il pianoforte solo.
che (che spesso puntano tutto sull’aspetto esteti20 gennaio, ore 18.00
È sempre una sfida, quando un artista decide di Marc Ribot – Ceramic Dog co, cercando di renderlo trasgressivo, una parola
farsi ascoltare in solitudine. Non c’è scampo, né
che giorno dopo giorno si allontana dai confini
17 febbraio, ore 18.00
si può bleffare per mascherare eventuali lacune
etimologici al punto che quasi niente ormai è in
tecniche o espressive, quando si è da soli sul palco. Ci si spogrado di stupire) Ribot ha il coraggio di osare. Può essere un
glia di ogni protezione e ci si offre non solo all’ascolto, ma
bravo chitarrista jazz, mainstream magari. E lo vediamo in
anche a un giudizio sul proprio modo di essere. Non tutti i
duo con un monumento del piano-jazz come McCoy Tyner.
progetti del musicista cubano hanno però incontrato il conOppure cerca di riscoprire personaggi dimenticati, ma fonsenso di pubblico e critica. Pensiamo a una noiosa, del tutdamentali per l’affermazione della musica cubana moderna,
to fuori traccia, celebrazione dei cinquant’anni dall’uscita di
andando a documentarsi sulla figura di Arsenio Rodriguez
Kind of Blue, uno dei massimi capolavori discografici di Mi(classe 1911), rendendogli omaggio nell’album Los cubanos
les Davis. In un teatro La Fenice rivelatosi inadatto a ospitapostizos (1998). Non ha certo paura di perdere la faccia. Se
re certe proposte, assistemmo a un’esibizione imbarazzanne infischia di apparire o suonare sempre in maniera dignite, preceduta da una orribile Jam session con il percussionitosa, impeccabile, ed è capace di esibirsi anarchicamente, in
un set costellato
di sonorità noise, che possono
anche infastidire
un orecchio non
aperto o accostumato, ma riescono a far breccia nell’immobilità di un ascolto
banale, regalando emozionanti improvvisazioni. È ciò che capitò alcuni anni
or sono, al tempo
della lira, nell’aula Magna ai Tolentini, sede dello iuav. È forsta indiano Trilok Gurtu. In quell’occasione, Sosa sembrase per questo che Ribot piace tanto ai musicisti? Ha suonava un imbonitore, il quale, attraverso scenografie etnico-relito a lungo con Tom Waits e compare accanto a Marianne
giose, cercasse di dare un senso a una musica buttata là. ViceFaithfull, Arto Lindsay, Caetano Veloso, Laurie Anderson,
versa, nell’album Promise, registrato con il suo quintetto ad
la grande cantante peruana Susana Baca, l’instabile MadeAmburgo nel maggio 2006 e con il trombettista Paolo Freleine Peyroux, la brasiliana Marisa Monte, Elton John, Lesu nella veste di ospite illustre, tutte le influenze del pianista
on Russell, l’ex Led Zeppelin Robert Plant, fino al nostro
– le radici latine, l’improvvisazione jazz, le espressioni meestroso Vinicio Capossela. Oltre a rispondere sempre presentropolitane contemporanee come l’hip hop, gli elementi ette, quando il sassofonista e compositore John Zorn lo convonici che rimandano alla trance music Gnawa del Marocco e
ca per un nuovo progetto. Al Candiani ci sarà da soffrire. Lo
alle tradizioni spirituali Yoruba – avevano prodotto un lavoascolteremo nel trio «Ceramic Dog», letteralmente «cane
ro godibile e convincente, in cui anche l’utilizzo dell’elettrodi ceramica», un’espressione che sta a significare il gelo sotto
nica, al giorno d’oggi diventato troppo spesso un abuso, era
il quale si cela l’emozione, il cane fotografato nel momento
stato pensato con intelligenza. Al piano solo Sosa dimostra
in cui gli si rizza il pelo prima di un combattimento, gli innala propria iniziale preparazione classica e un’istintività permorati che si guardano fissi nel volto, assumendo un’espressione catatonica. Anche se al leader non piace che la sua musica venga inserita in un genere predefinito, Ceramic Dog è
A sinistra Omar Sosa.
un avant-garage trio – basso, chitarra e batteria – impegnato
A destra Marc Ribot (il primo da sinistra)
sulle elettrosperimentazioni ad alto volume. ◼
con i Ceramic Dog.
I
l’altra musica
Al Candiani un 2013
di Jazz Groove
37
l’altra musica
38
Franco Battiato
in tutto in tredici, artisti compresi: Francesco Messina, Dimitri Golowaskin, e Battiato che si esprimeva nella posizione del loto con sonorità gutturali e vocalizzi zen. Rimpiansi
per anni ogni secondo della partita perduta e ricordo divertito quella sera ogni volta che penso al suo successo repentino
di Giò Alajmo
un anno dopo, affiancato da Giusto Pio, con cui creò un sodalizio strepitoso, e il ritorno alle canzoni.
ranco Battiato non si può dire sia una persoNel giro di tre album diventò artista da oltre un milione
na simpatica, ma forse è anche questo che lo rende
di copie di dischi venduti («Bandiera bianca», presentato a
simpatico. Gioca alla perfezione il suo ruolo di artiVenezia) e da lì in poi poté permettersi quasi ogni cosa, dissta diverso, che insegue la cultura, l’asacrazioni dei generi di successo, dei miscetismo, la spiritualità nei luoghi più lontani
ti rock, incursioni nell’opera, nella musiPadova
della storia, senza che si capisca mai bene doca classica, lirica, fusioni strumentali eletGran Teatro Geox
ve vuole andare a parare, cosa gli passa davvetroniche acustiche regie di (spesso noio20 gennaio e 7 marzo, ore 21.15
ro per la testa, cosa sa o cosa ha orecchiato, se
sissimi) film, passando con noncuranza
il suo circondarsi di filosofi, maghi, teoreti, sada un documentario su Gesualdo BufaliUdine
pienti sia verità o posa.
Teatro Nuovo Giovanni da Udine no a un’apparizione al festival di Sanremo,
Con lui mi sono incontrato e scontrato più
da autore per Milva e Alice a traduttore in
24 gennaio, ore 21.00
volte negli anni, sorridendo alle sue battute
musica del pensiero del filosofo Sgalambro.
sarcastiche, ascoltando i suoi giudizi sferzanti,
La sua casa è in effetti un piccolo borgo
le prese di posizioni spesso arroganti, immediatamente doalle pendici dell’Etna, a Milo. Il salotto pieno dei suoi inpo aperte e disponibili, e condividendo il terreno comune, la
quietanti quadri in stile arabo, un viottolo che si inerpica vermusica e la curiosità per la vita.
so la cappella e la cantina trasformata in luogo di preghiera ed esercizio spirituale, lo
studio dove un tempo elaborava le sue composizioni
con un piccolo Atari St beandosi del poter riascoltare
subito le proprie idee senza la mediazione del musicista come era toccato invece a Mozart.
Il suo percorso artistico
a scale di Escher (l’artista
che disegnava per illusioni
ottiche) ha, a leggerlo con
attenzione, un’assoluta coerenza nel tempo. Battiato
è riuscito a fare ciò che voleva, portando la gente dove voleva, dominando alla
perfezione il mondo pop e
penetrando mirabilmente
quello colto giocando con
ironia e non senza presunzione con le arti, i pensieri, le banalità e i luoghi comuni come nei collage di
nastri del primo periodo.
Franco era in origine il tipico immigrato al nord con la speSempre sul filo del rasoio nel suo rapporto con il pubblico ha
ranza di diventare cantante. Il naso oblungo, i capelli ricci,
l’accortezza di non tirare mai troppo la corda, pur consapela voce palatale, la voglia di stupire. In lui credette solo Giorvole che fra ciò che lui intende e ciò che la gente capisce da ciò
gio Gaber, ma fu sufficiente. Dalle canzoni di protesta pasche lui propina c’è spesso un gap consistente, ma il gioco ha
sò a quelle d’amore e poi sfidò la sorte con dischi troppo aliecomunque per entrambi motivo di soddisfazione. E così ecni per il tempo, «Fetus», «Pollution», incrociando territocolo di nuovo in tour, con l’orchestra, e un nuovo album cori affini a quelli di Frank Zappa senza sufficiente credibilità.
me Apriti sesamo, che cita Gluck e Rimskij-Korsakov, Ulisse
Di lui si parlava come di uno strano tipo piombato nell’uniin Dante e Santa Teresa d’Avila, e perfino un autore del priverso pop che portava crocifissi giganti in scena (ben prima
mo barocco, Stefano Landi.
di Madonna), parlava di inquinamento (ben prima del riIl tutto prenderà il via il 19 gennaio a Bergamo per toccascaldamento globale) e di genetica usando musicisti d’avanre subito il 20 Padova, teatro Geox (con replica il 7 marzo),
guardia, strumenti elettronici e srotolando preservativi gie Udine il 24. Il venditore di tappeti sonori riapre il suo baganti sulla testa del pubblico.
zar un’altra volta. Consapevole che qualcuno dei suoi tessuMentre il rock entrava nella sua fase critica lui era già olti è un falso, qualcuno vola davvero per magia, e che tu non
tre. Tony Pagliuca, tastierista delle Orme, mi trascinò a forsaprai distinguere a prima vista l’uno dall’altro, finché non
za a un suo concerto del 1978, contemporaneo alla finale dei
avrai sviluppato il terzo occhio. ◼
mondiali fra Argentina e Olanda (che non vidi) in una notte di tregenda allo stadio Allende di Spinea. Credo fossimo
Franco Battiato (francobattiato.it)
Nel bazar del venditore
di tappeti sonori
F
1
di Fernando Marchiori
3 marzo 1978. Dalla chiesa di San Isepo a Castello un corteo di ottocento persone accompagna il feretro di Silvano Maistrello, il bandito Kociss, ucciso il giorno precedente mentre fuggiva in barca lungo un rio cittadino dopo l’ennesima rapina in banca. Ci sono i compagni in abito bianco, i familiari, i boss della mala
veneziana e quelli della Riviera del Brenta che presto si scontreranno per il controllo del territorio. La gente lancia fiori
dalle finestre. La gondola che porta la bara al cimitero di San
Michele viene affiancata da un’improvvisata scorta di barche
di contrabbandieri. Basterebbe questo scorcio su una Venezia quasi completamente perduta – quella, nel bene e nel male, più popolare e schietta – per cogliere la dimensione anche storica e sociologica dello spettacolo Kociss di
Giovanni Dell’Olivo (la replica più recente è stata
quella del 18 novembre al Teatro Goldoni, in occasione del Festival dei Matti). Ma la plebe stracciona, la santa canaglia della città lagunare fa da sfondo a molti quadri di un teatro-canzone che prova a
tenere insieme la storia del ladro diventato famoso
per la destrezza dei colpi e per le fughe rocambolesche con quella di una Venezia che, «segnata dalla
miseria, tentava di rifarsi un volto». Il soggetto di
Gianni De Luigi, le canzoni di Dell’Olivo e i disegni di Mauro Moretti – proiettati sul fondale e
in parte eseguiti dal vivo su tavola grafica – ci raccontano la miseria del dopoguerra, i soldati alleati che sbarcano dalle navi ancorate in Riva dei Sette Martiri, in cerca di bettole e prostitute. Come la
madre di Silvano, arrivata un giorno, dalle Puglie
«incinta, a bussare alle porte di chissà quale avvenire. Un’altra puttana in concorrenza con le veneziane. Terrona per di più». Il piccolo cresce fra
la strada e il rancore, reagisce presto alle offese di
chi lo vorrebbe inchiodato a una subalternità umiliante e comincia a mettere a segno i primi piccoli
furti nei negozi del centro, nelle gioiellerie del Lido. Diventa in breve un delinquente spietato e un
attaccabrighe pericoloso, un ribelle orgoglioso che
tiene più al rispetto che all’oro rubato e che sembra rappresentare il risvolto sottoproletario e disperato della rabbia che
in quegli stessi anni dilaga nelle fabbriche e nelle scuole occupate. I giornali lo raffigurano come un eroe del cinema, tutti in città ne conoscono le imprese, che fino a un certo punto
suscitano persino simpatia. Lo arrestano in una soffitta del
Teatro Malibran, in un magazzino di vecchie scenografie dove si nascondeva con la giovanissima compagna; evade e riprende le sue scorribande. Quando lo mettono dentro, i detenuti lo acclamano; quando scappa stupisce per il suo coraggio. Lo stanno interrogando e si butta da una finestra del tribunale scivolando sul tendone di un negozio, per poi sparire
tra le calli affollate. Lo stanno trasferendo al carcere di un’altra città e mentre il treno attraversa il ponte translagunare lui
salta in acqua, dove un barchino spuntato dal nulla lo preleva
facendolo sparire. Ma è anche capace di tornare indietro per
aiutare un compagno di fuga da Santa Maria Maggiore facendosi prendere piuttosto che scappare da solo. Accanto ai
musicisti del collettivo Lagunaria (Alvise Seggi, Stefano OtGiovanni Dell’Olivo (giovannidellolivo.com).
togalli, Walter Lucherini, Jimmy Weinstein, Serena Catullo) le voci di Ilaria Pasqualetto e Giacomo Trevisan tracciano i contorni di una vicenda umana che sembra uscita da un
romanzo. Alla prima è affidata la prospettiva affettiva sulla
storia, che passa attraverso lo sguardo della madre di Kociss;
al secondo il referto oggettivo dei fatti, che riproduce cronache e misfatti. Ma in dialogo con questi due piani narrativi,
a loro volta intrecciati con i disegni che prendono forma sullo schermo, ce ne sono altri due: quello cui dà voce lo stesso
Dell’Olivo, che diventa il respiro del ladro-acrobata anche
quando le canzoni non gli danno la parola in prima persona;
e quello appunto del coro cittadino che fa capolino tra colpi e inseguimenti, canali e calli, arresti e progetti di nuova vita, trovando concreta pronuncia in una lingua che impasta le
colorite forme dialettali e il gergo della mala (la pula, la madama, i ghèbi, i sgòbi, ecc.). Il rischio di presentare un malvivente come un eroe, una sorta di improbabile Robin Hood
nostrano, è sventato dalla crudezza dei fatti narrati e dalla
messa a fuoco storico-antropologica del personaggio: «Kociss – dichiarano infatti gli autori – incarna le aspirazioni di
una “non-classe” che, sognando i miti del riscatto individuale, è stata progressivamente marginalizzata e quindi dispersa
nell’esodo inarrestabile che ha colpito Venezia negli ultimi
cinquant’anni». Quanto all’altro rischio sempre incombente in operazioni del genere, quello cioè di scadere nel folklore musicale e nell’equivoco di una cultura popolare artefatta,
Dell’Olivo non dimentica mai, da raffinato musicista e compositore qual è, i reciproci scambi verticali e le contaminazioni orizzontali che caratterizzano ogni tradizione. Se dunque
nelle composizioni originali dello spettacolo non mancano
echi dal Canzoniere Popolare Veneto, e se la citazione di un
celebre canto della mala veneziana (Il primo furto) trova perfetta incastonatura nella filigrana drammaturgica, le sonorità del Collettivo Lagunaria (già apprezzate nel disco omonimo del 2009) si aprono a un ventaglio di influenze (melodie
mediterranee, blues, flamenco, canzone popolare italiana e
francese, ballate latinoamericane, ecc.) che proprio attraverso la contaminazione rendono viva e presente, fatta presente
nella ricerca di un «popolare aldilà del popolare», la grande tradizione del canto veneto e veneziano senza fossilizzarla in un canone. ◼
l’altra musica
La Venezia schietta
e perduta di «Kociss»
39
l’altra musica
40
«…Cossa sarala
’sta Merica»
L’emigrazione italiana
nei canti popolari
G
di Gualtiero Bertelli
li emigranti italiani, partiti tra Ottocento
e Novecento a centinaia di migliaia verso le mete più diverse e lontane, hanno portato con sé pochi bagagli, grande paura, verdi speranze e canti,
tanti canti della loro terra che hanno gelosamente conservato per decenni, infoltendo le rotte del mondo di vilote e tarantelle, stornellate e canti epico-lirici.
Superato il momento del distacco e temporaneamente soffocata l’angoscia per l’ignoto, sul ponte delle navi riservato
alla terza classe comparivano chitarre, organetti, fisarmoniche «...e da bordo cantar si sentivano / tutti allegri del suo
destin».
Il punto di partenza per affrontare il tema del vastissimo repertorio dell’emigrazione è questo: il patrimonio di canti e
di musiche che i nostri emigranti hanno trattenuto come il
più prezioso e vivo dei ricordi.
Là dove c’è stata un’alta concentrazione di emigranti italiani il repertorio si è consolidato e permane ancora oggi indelebile, specialmente nelle aree rurali, come succede ancor oggi anche nel nostro Paese.
Nelle nostre campagne, nelle montagne e spesso anche in
città, tra l’Otto e il Novecento si muore di fame, di pellagra,
delle mille ragioni della miseria e dell’ignoranza; andarsene
sembra l’unica soluzione, lasciare tutto e andare “a catar fortuna”. A centinaia gli imbonitori prezzolati, e i venditori di
carne umana girano le piazze del nord e del sud promettendo
terre meravigliose, paesi di sogno. «...Di tanti che sono andati nel Brasile a travagliar / Nessuno senz’oro non s’ha visto a ritornar / L’America, l’America si sente cantar / Andiamo nel Brasile la fortuna a ritrovar» e la conclusione non lascia scampo: «Finisco sta canzone per chi la vol ben capire /
Chi vuole far fortuna el vada nel Brasile / E ora ho terminato questa mia canzon / Queste sono le notizie buone, vendi il
letto e anche il pajon».
Vendi il letto e anche il materasso e scappa via!
E non solo dal Veneto o dal nord: «Chi scumpigli chi c’è ni
li paisi, / ntra li famigli, ntra tutti li casi: / di po’ ca di L’America si ‘ntisi / pi la partenza ognunu fa li basi».
In «Merica» troveremo non solo fortuna, ma anche, finalmente, giustizia sociale: «Quando saremo in Merica / la terra ritrovata / noi ghe darem la zapa / ai siori del Trentin», e
in un altro canto: «...Vu altri siori cavé i guanti / e andé te i
campi a laorar!».
Non sapevano neanche cosa fosse il mare, i nostri montanari trentini o abruzzesi, i contadini della Lombardia e quelli della Puglia che mai si erano staccati dalla loro terra, mai
nella vita. Non l’avevano mai visto, mai sarebbero riusciti
a immaginarlo così; e non un qualsiasi mare, ma l’oceano,
«l’immenso» di cui non si riesce a ridurre la paura, neppure
affogandola in una canzone nel tentativo di sdrammatizzare.
Quando arriva il momento del distacco e l’ignoto ti prende
alla gola, il canto si fa vero, si fa emozione, si fa angoscia: «...
Parto per l’Australia / parto diman matina / Non aspetarmi
invano / non aspetare il mio ritorno / cercati un altro amore / sarai felice un giorno». Gli occhi si riempiono di lacrime amare come il fiele e ci si affida alla buona sorte, alla fortuna: « ...Tante funtane faru l’uocchie mie. / Nun so’ funtane, no, ma fele e tassu, / tassu che m’entassau la vita mia. /
Io partu pe’ l’America luntana, / nun sacciu adduje me porta la fortuna».
Il momento del distacco è stato cantato mille volte, in tutte le lingue e i dialetti della nostra penisola. A volte con malinconica dolcezza: «Al ciante il gial / al criche il dì / Mandi, ninine mê / mi tocie partì», a volte con sfrontata sicurezza e malcelata preoccupazione: «E mi parto vago via / con la
musica in alegria,/ Budapeste in Ungheria, / la me vita se finirà». Partivano in allegria paesi interi con il prete, la maestra, la banda in testa sperando, sognando un’altra vita, poiché peggio di così non poteva andare.
Ma la partenza diventa dolore vero quando si rompe un
amore ancora vivo e senza futuro: «Quando sarai via nell’America / tu sposerai un’americana / non penserai più di me
italiana...», quando si spezzano le famiglie: «Cara Rita ti devo lasciare / me ne vado a cercare i confini. / Ti raccomando i
miei cari bambini / che mi distruggo doverli lasciar».
Chissà quante Catinete si sono sentite avanzare promesse
come queste: «No sta piandar Catineta / se in America ho
d’andar: / che se po la me va dreta / se se podaremo sposar
// Ne la casa dei me veci / andarem le nozze a far; / ghe sarà
del vin a seci / e polastri da strazhar». Ancora una volta un
sogno piccolo, ma concreto: vivere nella propria terra senza
l’incubo della fame!
Comunque si partiva, il viaggio più faticoso, lungo, talvolta tragico era quello sul mare.
«Trenta giorni di nave a Vapore / che nell’America noi siamo arrivati / e nell’America che siamo arrivati / abbiam trovato né paglia e né fieno / Abbiam dormito sul piano terreno
/ e come bestie abbiamo riposà».
Ma non sempre si arrivava.
«...Va te pure o figlia mia / in mezo al mare te sfonderà /
Quand l’è stata in mezo al mare / el bastimento se gà sfondà
/...Bastimento l’è andato al fondo / e in questo mondo ritorna più».
È certo il triste presagio di una madre, ma anche il dato di
fatto che naufragi e disastri accadevano con una certa frequenza. In realtà attraversare gli oceani, di quei tempi, con
quelle navi, con quel carico di vite umane era davvero una sfida alla buona sorte e spesso è accaduto che si perdesse la sfida. Il naufragio più noto, perché cantato da una drammatica e bellissima canzone, è quello del vapore Sirio. Era il vanto della marina italiana e quel 4 agosto 1906, alle cinque del
pomeriggio, la giornata era stupenda, la visibilità assoluta. Il
vapore, tra lo stupore dei comandanti di tutte le navi che stavano in zona, andò a impiantarsi sugli scogli davanti a Capo
Palos, vicino a Cartagena. Scogli segnati su tutte le carte nautiche. Solo che i nostri ufficiali erano partiti senza le carte ed
erano andati ad incagliarsi proprio lì, dove nessuno avrebAngelo Tommasi, Gli Emigranti,
1896, Galleria Nazionale d’Arte Moderna (Roma).
Emigranti italiani in attesa dell’imbarco.
mente raccontata dalle canzoni anche in tempi recenti.
Il cantastorie ce la ricorda così: «Il 22 di agosto a Boston in
America / Sacco e Vanzetti van sulla sedia elettrica / e con un
colpo di elettricità / all’altro mondo li voller mandar. // ...E
tutto il mondo intero reclama la loro innocenza / ma il presidente Fuller non ebbe più clemenza / “Siano essi di qualunque nazion / noi li uccidiamo con grande ragion».
Il 23 agosto 1977, esattamente cinquant’anni dopo, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis emanò un
proclama che assolveva i due uomini dal crimine, dicendo: «Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per
sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo
Vanzetti».
L’emigrazione riprese con drammatico vigore nel secondo
dopoguerra. Ancora oceani: Canada, Venezuela, Australia,
ma anche tanta Europa.
«Partono gli emigranti / partono per l’Europa, i deportati della borghesia» cantava Alfredo Bandelli, interpretando
così l’angoscia degli «uomini-carbone» caduti nelle miniere del Belgio e della Francia; Marcinelle è certamente l’episodio più noto e drammatico, cantato in modo straordinario
dal cantastorie siciliano Cicciu Busacca, su testo del poeta
Ignazio Butitta, con la ballata «Lu trenu di lu suli». Adriano Callegari, cantastorie pavese, ci ricorda la spaventosa vicenda del ghiacciaio di Mattmark, in Svizzera :«Ancor oggi una coltre ricopre / operai ch’eran pieni di vita / e una bara di neve indurita / ma salvarli nessuno riuscì». Schiacciati da un enorme blocco di ghiaccio, perirono 108 operai, tutti immigrati, 56 dei quali italiani. Era il 30 agosto del 1965;
morti annunciate poiché il ghiacciaio da tempo dava segnali inequivocabili. Due anni prima un’analoga criminale sordità aveva strappato all’Italia un intero paese con i suoi 1918
abitanti: il disastro del Vajont e la distruzione di Longarone.
Non sono ancora passati cinquant’anni. Le lapidi, i lutti ancora vivi, le canzoni sono lì a ricordarlo anche agli occhi che
non vogliono vedere, alle orecchie che non vogliono sentire.
Quello dell’emigrazione è stato ed è ancor oggi un tema
molto evocato anche nelle canzoni d’autore e nella musica
leggera, a volte come pretesto, ma molto spesso con grande
realismo e affetto. È impossibile affrontare con sufficiente attenzione anche questa parte di repertorio. Voglio ricordare
però una canzone, di cui resta solo il testo in quanto si è perso
traccia della musica e che testimonia di quanto fosse presente il problema nei nostri musicisti: «Qui fa tanto freddo, /
piove sempre, / parlami del sole, / qui non c’è» recita «Con
tanta nostalgia» di Cajati-Vaime-Casini, Premio della critica discografica 1972, interpretata da Nilla Pizzi. E continua:
«Sto in una baracca / come fossi in guerra, / forse c’è la guerra / ma solo per me».
Possibile che ci siamo dimenticati di tutto ciò? Accadeva
appena ieri! ◼
l’altra musica
be mai potuto immaginare che potesse succedere. Sciatteria umana questa volta, colpevole scelta altre; come nel caso
della nave Principessa Mafalda, un tempo ammiraglia della
flotta italiana, che nel 1927 era ormai un rudere da disarmo.
Infatti quello doveva essere il suo ultimo viaggio e per otto
volte i motori si fermarono nel Mediterraneo, quasi ammonendo di non proseguire. Così non fu, si puntò la prua verso l’America del sud e a qualche centinaio di miglia dalla costa argentina si staccò una delle due eliche provocando il rapido affondamento dell’imbarcazione con buona parte del
suo carico umano.
Sono storie che mettono in evidenza il dramma ancora presente di chi attraversa il mare affidandosi a mani irresponsabili, a mezzi inadeguati o a coscienze infami: talvolta per
una vacanza, il più delle volte per sfuggire alla fame ed alla guerra.
Giunti finalmente alla meta i nostri nonni si son dovuti
scontrare con le realtà più dure: foreste immense da disboscare in zone desolate, lavori pesanti e umili, condizioni di
vita terribili in catapecchie o in block in cui si viveva in dieci per stanza, ma soprattutto le attese di guadagno vengono
ovunque deluse. «Cara moglie di nuovo ti scrivo / che mi
trovo ai confin de la Francia / anche quest’ano c’è poca speranza / di poterti mandar dei dané // La cucina l’è molto asai
cara / e di paga si piglia asai poco / e i bresiani se ne vano al
galopo / questa vita la poso più far».
E non importa che si fosse nelle «Meriche» della fine Ottocento o nell’Europa del secondo dopoguerra: le condizioni di vita erano comunque segnate dalla precarietà, dall’emarginazione, dalla miseria. Nel 1962 a New York Roberto Leydi raccoglie questo grido di un venditore di fiori immigrato italiano: «Flowers! Flowers! / Cheap ti cheap today! / Chi me l’à fatto ffà / vennì sta terra cà/ in cerca di
speranza/e nun l’aggia truvà./ Crysanthem, pink, roses ,/
cheap to cheap today! / Flowers! Flowers!».
A condizioni di vita inaccettabili si aggiungono la discriminazione razziale, la xenofobia antitaliana, un vero e proprio odio diffuso che, specialmente negli Stati Uniti, sfocia
in atti di grande violenza: siamo stati, dopo i neri, il popolo
più linciato d’America, in triste compagnia con i cinesi, e la
lirica popolare ci consegna una dolente traccia di tanta tragedia. «Canto per quei linciati, / che laboriosi e onesti, / perché italian nomati / non fu pietà per questi; / In tanta strage,
perfidia, orror! / uccisi, appesi qual malfattor ,// ...Tradotti
alla foresta / son tutti e cinque appesi, / di colpi una tempesta,/ atrocità palesi. / Grida di gioia? Infamia, orror! / Aimè!
che sento mancarmi il cuor». Questa citazione è tratta dal
foglio volante «I cinque poveri italiani linciati a Tallulah in
America» scritto da Corso Antonio, ex sottufficiale di finanza; Tipografia M. Artale, Torino 1899.
Cinque siciliani furono linciati nel 1899 a Tallulah, in
Louisiana, a causa di un banale alterco con un vicino di casa,
giudice della contea. Benché arrestati e chiusi in prigione, furono aggrediti, trascinati fuori dalle celle e impiccati.
I giornali dell’epoca condannano l’accaduto, anche se c’è
chi non manca di sottolineare come gli italiani siano «una
colonia di viziosi omicidi e assassini» per i quali «omicidio
e sangue sono quello che rose, luna piena e musica sono per
poeti ed amanti», e indica per i cittadini di Tallulah come
unica soluzione «estirpare la colonia». («The New Orleans
Daily State», 27 settembre1899).
Tanto odio, che aveva anche connotazioni politiche, si rappresenta agli occhi del mondo con l’assassinio consapevole dei due incolpevoli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo
Vanzetti il 22 agosto 1927, una vicenda che è stata ripetuta-
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l’altra musica
42
Il ritorno
di «The Wall»
Parla Roger Waters
I
di Giò Alajmo
l Muro sta per crollare su Padova. Roger Waters realizza quello che da oltre trent’anni era solo un sogno, portare in tour negli stadi The Wall, l’opera rock
che incise con i Pink Floyd nel 1979 e che all’epoca ebbe solo poche possibilità di essere messa in scena per la
sua complessità tecnica. Appena 29 repliche in sole quattro città: Los Angeles, New York, Dortmund, Londra.
La vidi a Dortmund nel 1981, l’ultimo degli show tedeschi in
una Westfalenhalle trasformata da velodromo smontabile in
teatro gigante per undicimila spettatori tutti seduti in posti
numerati. Fu un’esperienza sconvolgente trovarsi di fronte a
questo immenso muro di mattoni di cartone, decine di teli neri col simbolo dei martelli incrociati appesi al soffitto a fare da
trappole acustiche, il suono quadrifonico che ti aggrediva dai
lati e per la prima volta l’amplificazione sospesa per aria, al centro, per non disturbare la visuale e il movimento.
L’idea dell’impresario veneto Francesco Sanavio era di portare The Wall in Italia all’Arena di Verona, ma non se ne fece
nulla. Non c’era una tecnologia adatta all’epoca per sospendere in uno spazio aperto tanto materiale, le luci, le casse di amplificazione, per non parlare delle marionette giganti (il maestro, la madre, la moglie) – oltre al maiale volante – previste
dallo spettacolo, e il modello di aereo Sptifire che
all’inizio si schianta contro il muro dopo aver sorvolato le teste del pubblico in platea.
«Sono estremamente contento di eseguire The
Wall nuovamente in Europa – ha annunciato Roger Waters –. Sarà motivo di grande divertimento
per tutti noi. Ho rielaborato lo spettacolo per eseguirlo all’aperto in grandi stadi. È davvero buono.
Ancora più commovente, coinvolgente, drammatico ed emozionante degli spettacoli nelle arene.
Ho dovuto ripensare il tutto per gli stadi. Non si
sarebbe potuto fare quarant’anni fa. Non avremmo potuto riempire lo spazio in un modo emotivamente, musicalmente e teatralmente soddisfacente. La tecnologia è cambiata. Ora si può».
È cambiata la tecnologia di allestimento dei palchi, più solida, snella e affidabile di una volta, che
consente quindi tempi di montaggio e smontaggio più celeri. È cambiata la tecnologia audio, con il
controllo dei suoni facilmente realizzabile al computer, invece che con la quantità di nastri analogici e registratori a bobine multitraccia che andavano sincronizzati a mano. È cambiata la tecnologia di proiezione, che nel 1980 utilizzava tre proiettori cinemascope puntati sul «muro» e oggi
consente di soncronizzare quarantanove proiettori digitali trasformando l’intero muro in uno schermo gigante, ed è cambiata la videografica, con effetti straordinari, che fanno letteralmente «vivere» la parete bianca in tre dimensioni.
L’allestimento di The Wall 2012 prevede la costruzione di un
vero muro di 150/180 metri alto 12 che taglia da parte a parte
lo stadio collegando le tribune opposte e che sarà completato
durante lo show secondo i tempi narrativi. A differenza dello
spettacolo nelle arene, che ha girato il mondo negli ultimi tre
anni, le parti più esterne rimanderanno a distanza le immagini dei musicisti al pubblico più lontano, fino al completo innalzamento della barriera bianca, destinata poi a crollare al suolo
letteralmente nell’ultima scena.
Si tratterà con ogni probabilità del concerto itinerante più grande mai allestito nella storia. Basti pensare che come palco posteriore di supporto sarà utilizzata la stessa colossale struttura alta 18 metri utilizzata come palco principale nell’ultimo tour di Madonna.
The Wall ebbe solo una replica all’aperto, appositamente allestita da Roger Waters a Berlino nel 1990, l’anno dopo la«
caduta» dell’altro famoso Muro, quello che aveva diviso per
vent’anni una città e due mondi. Ebbi la fortuna di assistere non solo allo spettacolo ma anche, del tutto casualmente,
alle prove generali la sera prima, arrivando per un sopralluo-
go nella Postdamer Platz prima che si accendessero le luci e
partisse lo show per poche centinaia di fortunati. Fu un’esperienza traumatica. Eravamo nella terra di nessuno, sminata da
poco, sopra il bunker di Hitler, con il muro ancora in piedi
con le sue recenti ferite, che si poteva attraversare da Ovest a
Est guardati dall’altra parte del filo spinato da sorridenti Vopos armati, con al guinzaglio dentuti cani lupo che sorridevano essi stessi, e la gente si divertiva ancora incredula a passeggiare da una parte all’altra della barriera di cemento armato
mentre ogni tanto un taxi dell’est arrivava a ovest fermandosi per chiedere informazioni sulle vie di una città sconosciuta.
In quest’area il giorno dopo si radunarono quasi cinquecentoLa regia audio «analogica» dei Pink Floyd
e il burattino gigante di Teacher sul palco
in The Wall a Dortmund, 1981.
me un dirigibile teleguidato. Le marionette giganti sono statiche e non vagano per il palco come il maestro 1980. Ma le
proiezioni sul muro, che conservano i cartoons originali di
Gerard Scarfe ampliati e corretti, sono di straordinaria efficacia dando vita alla storia e al muro stesso, film nel concerto, meglio di come rese l’opera la versione cinematografica
ideata da Alan Parker con l’ancora sconosciuto Bob Geldof.
Nonostante il suo gigantismo The Wall era un’opera molto cupa e introspettiva. E, come capita alle opere d’arte, con diversi piani di lettura.
Nei fatti l’opera riprende e sviluppa diversi temi cari a Waters e già affrontati in passato, l’isolamento, l’alienazione, la
scrutati dai fari che controllavano la zona, vedendo poi l’arrivo
dei soldati, della banda e del coro dell’Armata Rossa di stanza
a Berlino, sulle camionette e i blindati e poi con banda fanfare
e bandiere, coinvolti per le scene di massa dello show.
Per l’edizione del Terzo Millennio Roger Waters ha puntato sulla grafica computerizzata più che sul movimento delle masse, ma l’effetto è comunque clamoroso. Tutti gli elementi dell’allestimento 1980 sono stati conservati, lo Spitfire, la quadrifonia, la stanza che si apre nel muro, la costruzione mattone per mattone, le marionette giganti e il maiale volante, con qualche aggiustamento. Il maiale è diventato
un cinghiale zannuto per motivi di copyright e si muove co-
morte del padre in guerra durante lo sbarco di Anzio, il potere della macchina da spettacolo, il controllo del pensiero e delle masse, l’educazione, i rapporti familiari, la droga, il totalitarismo politico.
La decisione di scrivere The Wall nasce durante il precedente tour di Animals, il lavoro ispirato alla Fattoria degli animali di Orwell, quando Waters, irritato dalle urla di un fan esagitato gli sputò in faccia dal palco.
Quel gesto, di cui si pentì subito dopo, gli ispirò la storia basata sul rapporto di sudditanza del pubblico e sul potere delle rockstar chiuse nel loro mondo dorato, capaci di creare con
i fan un rapporto di tipo quasi nazista.
E così i Pink Floyd diedero vita alla storia di Pink, rockstar
che troviamo subito sul palco di un concerto, e che analizza il
suo passato, la perdita del padre, la madre iperprotettiva, una
educazione autoritaria, un matrimonio infelice, la scoper-
Scene da Roger Waters’ The Wall 2011
(in alto a sinistra, The Teacher,
sopra, il maiale volante).
l’altra musica
mila persone provenienti da ogni parte di Berlino, della Germania, del mondo, per una celebrazione straordinaria di un
isolamento che aveva avuto finalmente termine, di un altro
muro che era finalmente crollato. Fu uno straordinario evento, malamente raccontato in tv e ridicolmente reso dalla versione su piccolo schermo. Invece lì, più che la presenza di una così
incredibile serie di artisti ad aggiungersi a Waters e rendere vivo lo show, dagli Scorpions a Cindy Lauper, da Joni Mitchell a
Van Morrison, da Ute Lemper ai Chieftains a cui era stato affidato l’intrattenimento della folla, la presenza dell’orchestra
sinfonica Rundfunk diretta da Michael Kamen, fu il trovarsi avvolti dall’inquietante rumore delle pale degli elicotteri,
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l’altra musica
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ta del tradimento, l’allontanamento dalla realtà, la paranoia,
la costruzione di un alto muro fra sé e il mondo fino all’isolamento totale, rotto solo dalle necessità del business con un medico che lo droga e un manager che lo riporta in scena perché lo
show deve continuare. Ma la mente di Pink è ormai sconvolta
ed entra nel gioco come un dittatore, che maltratta i fan, va a
caccia dei diversi, trasforma l’esibizione in una specie di raduno di Norimberga, fino a esplodere, svestire i panni della star e
cercare espiazione in un processo in cui la società, la famiglia,
madre, moglie, maestro e giudici gli impongono di abbattere
il muro che lo divide dal mondo reale.
E il muro crolla letteralmente sul palco con un effetto scenico
I dissidi personali si appianarono soltanto dopo anni di carriere parallele, quando Bob Geldof convinse i quattro musicisti, Waters, Gilmour, Mason e Wright
a tornare insieme per un giorno in occasione della replica dell’evento benefico Live Aid nel 2005, il Live Eight, e
i quattro accettarono dicendo che i loro dissidi personali erano meno importanti della buona causa del concerto. Intanto The Wall è andato ben oltre le intenzioni dell’autore trasformandosi da realizzazione di un incubo personale nel
simbolo pacifista di totalitarismi e diffidenze da abbattere.
«In realtà – spiega Waters – noi siamo divisi gli uni dagli altri solo dal caso e dalla geografia. Chi cresce in un piccolo paesello dell’Iran ha più facilità di sviluppare viosioni politiche
estreme di chi cresce nel Kansas. Sono divisioni del tutto casuali. Ma oggi per fortuna c’è la tecnologia, c’è facebook, twitter, e si può capire meglio come vivono persone molto distanti.
Su youtube, per esempio, c’è il video di una band iraniana che
ha preso alcuni brani di The Wall e ha cambiato i testi raccontando come si vive sotto il regime di Teheran, e il video ha fatto il giro del mondo. Comunicare è più facile».
Ateo, cresciuto da una madre trotzkista, Waters, sessantanove anni, non si meraviglia quando nel suo lavoro c’è chi trova tracce di Sartre, e riferimenti all’antipsichiatria. «Sono
cresciuto con quella cultura, erano le cose che sentivo e di cui
si parlava, non c’è da meravigliarsi che si ritrovino in ciò che
scrivo».
L’ultimo muro che vorrebbe abbattere è quello che divide i
palestinesi di Gaza da Israele, e a fine novembre Waters si è recato all’Onu a parlare di Palestina alla commissione per i diritti umani. Ha anche sostenuto la rielezione di Barack Obama,
«e sono felice che sia stato rieletto. Ma non vuol dire che ap-
senza pari. In origine mezzo spettacolo era realmente suonato dai musicisti nascosti alla vista del pubblico, confuso anche
dalla comparsa improvvisa di una band di cloni. Nella versione attuale Waters si porta più spesso dalla parte del pubblico,
quasi come un narratore, giocando anche con la sua stessa immagine ripresa nel 1981, in un duetto tra due epoche.
Per i Pink Floyd, The Wall fu il culmine della carriera e l’inizio della fine. I contrasti personali già affiorati in Wish You
Were Here e acuiti in Animals, dove Waters era diventato predominante nelle scelte compositive raggiunsero qui l’apice, al
punto che il tastierista Rick Wright fu licenziato dal gruppo
e assunto solo come turnista. Alcune idee di The Wall furono
poi sviluppate nel successivo The Final Cut che apparve piuttosto come un album solista di Waters che non un progetto collettivo e segnò la fine del sodalizio, con i rapporti affidati ad avvocati e la spartizione di diritti e perfino di materiale scenico.
provi tutto. Per esempio non il fatto che ci siano persone chiuse in una stanza che possono decidere senza sottostare ad alcun
controllo legale di uccidere qualcuno con un drone da un’altra parte del mondo».
Intanto il suo nome è comparso nella lista di Forbes come
quello del secondo musicista più ricco del mondo per gli incassi tra il maggio 2011 e il corrispondente mese del 2012. Merito del tour in spazi chiusi di The Wall che gli avrebbe fruttato
88 milioni di dollari per 192 spettacoli davanti a quasi tre milioni e mezzo di spettatori. Non male per uno che si lamentava
oltre trent’anni fa di vedere gli spettatori avanti a sé come fossero tanti impersonali sacchetti di denaro... ◼
Scene da Roger Waters’ The Wall 2011
(in alto a sinistra: Big Mother; a destra: Roger Water tra i suoi
musicisti fra le rovine del Muro). Tutte le foto sono di Giò Alajmo.
Al Goldoni grandi attori
per uno spettacolo pluripremiato
L
di Carmelo Alberti
a luce abbagliante dei fari rivolti verso la platea, puntati contro gli occhi dello spettatore, non basta ad attenuare il lungo viaggio dentro la notte che
Antonio Latella fa compiere alla protagonista di Un
tram che si chiama desiderio, il capolavoro di Tennessee Williams rappresentato al Teatro Goldoni di Venezia, pochi giorni dopo aver ottenuto importanti riconoscimenti, fra i quali il Premio Ubu 2012 per la regia, il Premio Hystrio per l’interpretazione a Laura Marinoni come miglior attrice, l’Ubu
2012 a Elisabetta Valgoi come miglior attrice non protagonista. Scritto nel 1947, nello stesso anno il dramma A Streetcar
Named Desire è consacrato al successo dalla realizzazione teatrale newyorkese e, nel 1951, dalla versione cinematografica
di Elia Kazan, interpretate entrambe da Marlon Brando. In
Italia la prima esecuzione è curata da Luchino Visconti, nel
1949 all’Eliseo di Roma, interpretata da Rina Morelli, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni.
Per la sua messinscena, prodotta da Emilia Romagna Teatro e dal Teatro Stabile di Catania, Latella ha pensato a una
scena rovesciata, ideata da Annelisa Zaccheria, che, entro lo
spaccato di un interno familiare in costruzione, assembla un
letto, un tavolo, un frigo, una vasca da bagno e altre suppellettili, utilizzati come piano d’appoggio per riflettori e amplificatori. È uno spazio che altera la visione teatrale, fino a inglobare la sala e il pubblico, con l’aiuto delle luci dinamiche e colorate di Robert John Resteghini e i suoni dilatati e ritmati di
Franco Visioli. Vi abitano sei personaggi, avvolti da un gioco
estremo di bagliori e oscurità, colorazioni e segni liquidi; vestite da Fabio Sonnino anche con le magliette stampate con i
volti dei divi del film, le sei figure paiono manovrate come le
marionette d’una storia già accaduta: tranne uno che, da suDue momenti di Un tram che si chiama desiderio
(foto di Brunella Giolivo – emiliaromagnateatro.com).
bito, si comporta alla stregua di un narratore che incalza lo
sviluppo dell’azione, di un regista impegnato a dare particolare rilievo alle battute, imponendo un andamento enunciativo alle didascalie.
Gradualmente la rappresentazione si rivela una proiezione
onirica della mente di Blanche, nel corso di una seduta d’analisi governata dal Dottore, il vero artefice dello psicodramma che materializza le fantasie caotiche della mente di un’infelice, incapace di scindere le proprie ossessioni dalla realtà.
Rileggendo con attenzione il testo di Williams, Latella assorbe una molteplicità di segnali che evidenziano la distanza
che intercorre fra la disperazione di una bugiarda per necessità, che mente per contrastare la sua disperante solitudine, e
l’instabilità dei sentimenti di coloro ai quali chiede soccorso.
Blanche piomba nel piccolo appartamento di Stella, la sorella sposata con l’operaio polacco Stanley e in attesa di un bambino: la casa si trova nella povera periferia di New Orleans,
in un luogo chiamato Campi Elisi, dove per arrivare occorre
prendere un tram che si chiama «Desiderio». Dal momento in cui l’aristocratica vagabonda entra nella villetta dipinta
di bianco, ha inizio l’ultima sfida contro la propria emargina-
zione sociale, sperando ancora d’incontrare qualcuno con cui
condividere un’esistenza senza amore: per un attimo sembra
averlo trovato in Mitch, un giovane solitario e incerto, suggestionato dall’amicizia di Stanley. Ma ben presto la presenza dell’ex-insegnante d’inglese, bollata dal marchio di essersi prostituita, sia pure per la disperazione cagionata da una
lacerante delusione amorosa, non può essere ammessa nelle
stanze in cui sta per nascere una vita. L’attrazione-scontro con
il violento Stanley, intriso dal comune istinto animalesco, si
conclude con l’internamento di Blanche in una clinica, in cui
prende le mosse il procedimento catartico voluto dal Dottore.
Il merito di avere risolto la complessità dello spettacolo acre
e antirealistico di Antonio Latella appartiene agli interpreti:
la straordinaria Laura Marinoni elabora il ruolo di Blanche
lungo il filo sottile che separa l’esaltante pulsione di una donna verso la libertà delle passioni dall’eterno sacrificio a cui è
destinata l’esistenza femminile; la splendida Elisabetta Valgoi
sprigiona l’energia necessaria a difendere la certezza delle scelte di Stella, fino a ergersi a simbolo della potenza creatrice della maternità. A Vinicio Marchioni spetta il merito di aver disegnato uno Stanley tenero e violento; altrettanto efficace risulta l’impegno di Giuseppe Lanino per Mitch. Il bravo Rosario Tedesco è, invece, il medico impegnato a sciogliere le ossessioni di Blanche; infine, Annibale Pavone assume il compito di dare voce a una coralità d’ambiente. ◼
prosa
«Un tram che
si chiama desiderio»
secondo Antonio Latella
45
prosa
46
Ricordando Annibale
S
di Enrico Fiore
ono vicini, nella Villa Comunale di Castellammare di Stabia, i monumenti a Raffaele Viviani e ad Annibale Ruccello, che di Viviani si considerava figlio.
Ed entrambi quei monumenti recano la firma di Antonio Gargiulo, un pittore e scultore, anche lui stabiese, che come
me vide crescere (in tutti i sensi)
Annibale.
Il monumento a Ruccello fu
inaugurato la mattina del 31 maggio 2000, e nella circostanza dovetti venire da Napoli – dov’ero
nato e dov’ero tornato, dopo quarant’anni vissuti a Castellammare
– per dire qualche parola di commento. E non seppi (giacché, evidentemente, non avrei potuto fare altro) che riassumere le sensazioni che avevo provato vedendo
in anteprima, nello studio dell’artista, il busto scolpito da Antonio
Gargiulo.
Il tempo è strano, crudele e tenero insieme. A volte, con il trascorrere degli anni, la memoria di certi fatti e di certe persone sbiadisce
progressivamente, fino al punto
che quei fatti e quelle persone vengono completamente cancellati;
altre volte, invece, proprio il precipitare degli anni determina intorno a un fatto (e ancor più a una
persona) come un alone di risonanze arcane, di modo che la persona medesima – soprattutto se è
scomparsa – diventa, così sfocata dal consumarsi del ricordo, più
vera di quanto fosse nella realtà: e
giusto perché, «ricreata» quasi in
sogno, si fa intangibile e, quindi,
incorruttibile.
A questo m’aveva indotto a pensare il busto di Annibale scolpito
da Antonio. A mano a mano che
gli giravo intorno, mi sembrava
che ritraesse, a seconda del punto da cui lo guardavo, sempre una
persona diversa. E non si trattava,
naturalmente, che delle diverse
facce della multiforme personalità di Ruccello.
Antonio Gargiulo quelle diverse facce le aveva afferrate (e fuse,
pur senza confonderle) proprio
perché, passati quasi quindici anni dalla morte di Annibale, e non
avendo a disposizione che poche
foto di lui, aveva dovuto farne rivivere l’immagine per virtù d’immaginazione. E non è, s’intende, un gioco di parole: ogni artista vero, e certamente Antonio lo è, in fondo fa sempre questo, «reinventa» il mondo. Ce lo ricordò il grande Calderón: la vita, per l’appunto, è
sogno; e ce lo ricordarono, in maniera addirittura lancinante, i bozzetti di avvicinamento all’opera finale che Gargiulo
espose nella mostra intitolata «Ricordando Annibale» e allestita a margine dell’inaugurazione del monumento. Quei
bozzetti somigliavano, a parte il valore artistico in sé, proprio
alle fasi successive di un’avventura onirica. E dunque, sottolineavano per contrasto quella drammaturgica di Ruccello,
dal canto suo radicata nella storia.
Una volta – nel 1980, prima del terremoto – Jennifer abitava in una casa dei Quartieri Spagnoli, indossava
una vestaglia fatta con le
tende di merletto e ascoltava Radio Cuore Libero, con le canzoni di Patty Pravo, di Milva e persino di Orietta Berti.
Poi – nel 1986, dopo il
terremoto – abitò in una
casa di un quartiere residenziale, indossò una vestaglia di raso bianco e
ascoltò Radio Enola Gay,
con le canzoni di Raffaella Carrà e della Minastrenna natalizia.
Non a caso, quindi, Annibale Ruccello volle riscrivere «Le cinque rose
di Jennifer», il testo che
lo aveva imposto all’attenzione della critica e
del pubblico nazionali.
In breve, il travestito
protagonista di quell’atto unico diventava, tout
court, un simbolo di Napoli: e, di conseguenza,
accadeva che il testo medesimo non descriveva
Napoli, ma, puramente
e semplicemente, era Napoli. Una Napoli, si capisce, considerata – giusto
– in quanto corpo storico, colta, cioè, nel suo divenire e nel
magma delle sue contraddizioni sociali e culturali, al di là
di qualsiasi preclusione ideologica.
In altri termini, il travestito Jennifer costituiva il sacerdote e, ad un tempo, la vittima di un’autorappresentazione che celebrava unicamente un valore d’oggetto e di merce di scambio. E chi può dire che questo non fosse (e, per
molti versi, non sia ancora) lo stesso destino di Napoli?
In un simile quadro, allora, deflagra la verità umana dei
personaggi di Annibale, figli, palesemente, delle mutazioni antropologiche indotte dalla civiltà postindustriale: figure – accanto a Jennifer, la Adriana di Notturno di
donna con ospiti, la Ida di Week-end, la Clotilde di Ferdinando, le lacere eroine di Mamma, la delirante impiegata
di «Anna Cappelli» – figure «deportate», come le definiva lui. Deportate, è ovvio, dalla loro cultura e dai loro
valori originari e genuini. Ma riscattate e rivitalizzate, al
fondo, da un sentimento che, innervato d’ironia, rappresenta il segno certo di un grande teatro. ◼
Il busto di Annibale Ruccello
alla Villa Comunale di Castellammare di Stabia,
opera di Antonio Gargiulo (foto di Giuseppe Plaitano).
terprete partenopea, quasi a voler uguagliare Isa, e optai per
affidare le parti femminili a Sabrina Scuccimarra e Monica
Piseddu, due attrici della mia compagnia nessuna delle quali napoletana. Questo per affrontare da un’altra angolatura
il discorso linguistico, che in Ferdinando è centrale. La Baa cura di Leonardo Mello
ronessa infatti si identifica con il dialetto napoletano in opposizione a un italiano sentito come la lingua dei conquistalla fine di febbraio approderà al Goldoni Fertori Savoia. Scegliere Monica e Sabrina ha dato luogo a una
dinando, da molti considerato il capolavoro di Ancerta contaminazione, che mi riguarda da vicino, avendo io
nibale Ruccello, grande drammaturgo napoletano
per primo con la lingua napoletana un rapporto molto teaprecocemente scomparso nel 1986. Ne parliamo con
trale e poco naturalistico, cioè legato alla vita. Lavorare con
Arturo Cirillo, regista dello spettacolo nonché interprete del
la mia compagnia (il quarto attore è Nino Bruno) mi ha inolruolo di Don Catellino.
tre permesso di riequilibrare le forze all’interno dello spettaCon quest’ultimo allestimento è la terza volcolo. È indubbio che Clotilde sia un personaggio
ta che porti in scena Ruccello. Come mai hai scelfondamentale, ma gli altri tre non sono da meno.
to Ferdinando?
Il testo per me è veramente un quartetto, creato
Venezia
Prima di tutto devo confessare che, prima di afdall’autore con uno schema geometrico, che preTeatro Goldoni
frontarlo, non ero affatto convinto che questo tevede quattro scene e appunto quattro personaggi.
23 febbraio, ore 20.30
sto fosse il capolavoro di Ruccello. Dopo averlo
Un’altra operazione che mi è venuta spontanea è
24 febbraio, ore 16.00
realizzato invece ho cambiato idea, l’ho molto ristata quella di riprendere in mano il testo originavalutato. Rispetto agli altri due che ho messo in
le, contenente anche le parti tagliate nella versioscena, Ferdinando presentava però alcune differenze. Dedine «canone». Studiatolo, ho fatto delle scelte un po’ diverse,
candomi all’Ereditiera, mi confrontavo con una scrittura e
prima fra tutte quella di non centrare tutta l’azione sulla cicon uno spettacolo senza passato e senza modelli (l’aveva altata nobildonna. Non vorrei però essere frainteso: ho molto
lestito solo Annibale tanti anni prima, in una piccola proamato Isa nei panni di Clotilde e più in generale quel granduzione). Nella preparazione delle Cinque rose di Jennifer il
de allestimento, ma io cercavo la mia strada, e in questa ricerprincipale riferimento invece era proprio Ruccello, perché
ca ho fatto delle scoperte interessanti, come rivalutare – requello era il suo vero cavallo di battaglia: l’ho sempre inteso
cuperando alcuni brani esplicitamente erotici che erano stacome una sua strana confessione per interposta persona, coti cassati – la seconda parte dell’opera, che ritenevo erroneame se Jennifer fosse un po’ un alibi per parlare di sé. E io mi
mente inferiore alla prima.
sono posto in un atteggiamento molto simile, nel senso che ho per così dire fatto diventare lo spettacolo la mia personale autobiografia, sempre per interposta persona. Ferdinando invece ha dietro di sé un modello molto forte, l’edizione curata da Annibale stesso con Isa Danieli protagonista, edizione che
è poi stata replicata per molti anni, cambiando tutto il cast attorno a Isa. Altre letture non
mi pare ce ne siano state, se si eccettua quella
del ’92 di Mario Missiroli, con Ida Di Benedetto nei panni di Donna Clotilde, che però
ha girato pochissimo. È dunque ovvio che la
versione con la Danieli ha assunto, nel corso
del tempo, un’importanza tale da farla diventare una sorta di canone. Per evitare di ripetere lo stesso tipo di impostazione, che ruotava
intorno all’arte di una grande attrice, all’inizio avevo avuto l’idea di interpretare io stesso
la parte di Clotilde, per «spostare» la chiave
di lettura, allontanarmi da quel modello così importante elaborando uno spettacolo con
solo uomini in scena. Proposi quest’idea a
Carlo De Nonno, che detiene i diritti di Ruccello, e lui, dopo un confronto molto affettuoso, mi disse che non gli sembrava ancora il momento per
Si potrebbe definire Ferdinando un dramma storico?
un’operazione di questo tipo. Avevo quasi deciso di rinunLa storia è certamente presente. Tuttavia la mia impressiociare, ma poi mi sono detto che forse aveva ragione lui, e la
ne sin dall’inizio è stata che l’Ottocento fosse un po’ un trasoluzione che avevo in mente si collocava in una linea un po’
vestimento. Ruccello è un autore di travestimenti, e non soltroppo genetiana. In più il testo continuava ad attrarmi moltanto perché ha messo in scena dei travestiti. Mi sembra che
to. Così ho deciso di metterlo in scena con una distribuziosi muova sempre in un ambiente iperrealista, che proponga
ne più canonica, anche se fino a un certo punto: mi sembracioè sempre una realtà tanto esasperata da diventare quasi irva infatti inutile e anzi dannoso cercare un’altra grande inreale. Per rendersene conto basta pensare a Notturno di donna con ospiti. Ferdinando parte come se fosse Il Gattopardo e
poi diviene sempre più puro Ruccello, con i suoi personaggi
Ferdinando di Annibale Ruccello, regia di Arturo Cirillo,
sempre disperatamente, violentemente desiderosi di amare
produzione Fondazione Salerno Contemporanea
ed essere amati. ◼
(foto di Marco Ghidelli).
A
prosa
Il «Ferdinando»
di Arturo Cirillo
47
prosa
48
Alla ricerca
di Riccardo III
di Shaul Bassi
U
n aneddoto registrato già all’epoca di
Shakespeare (e ripreso gustosamente nel film
Shakespeare in Love) vuole che il popolare attore
Richard Burbage, omonimo del re che stava portando con successo sulla scena, avesse fatto così colpo su una
spettatrice; costei gli fece sapere che avrebbe molto gradito
una visita notturna di Riccardo III. Pare che l’autore avesse origliato la conversazione e deciso di accedere alle grazie
di questa ammiratrice giocando d’anticipo. Quando Burbage fece annunciare che Riccardo III era alle porte, Shakespeare diede ordine di rispondere che Guglielmo (=William) il
Conquistatore era arrivato prima. Oltre a dimostrare un antico rapporto tra pettegolezzo sessuale e mondo dello spettacolo, il salace episodio (probabilmente spurio) ci interessa perché ricapitola in forma più leggera alcuni aspetti chiave di uno dei personaggi più affascinanti e controversi dell’universo shakespeariano. Così come il malcapitato Burbage,
Riccardo III è un uomo partito da una posizione di svantaggio che usa il potere senza alcun scrupolo come arma di seduzione per guadagnarsi un posto al vertice ma alla fine viene
travolto e sconfitto, incapace di superare i limiti che la natura
gli ha crudelmente imposto e il suo destino di soccombente.
Dramma lunghissimo (battuto per estensione solo dal verbosissimo Amleto…) e popolato da non meno di cinquanta
personaggi, Riccardo III si è col tempo trasformato in un one
man show, un’opera in cui si stenta a ricordare il nome dei
comprimari, siano essi principi, principesse, duchi o conti,
fantasmi o assassini, attratti irresistibilmente dall’energia
negativa, da quel buco nero esistenziale che è il suo protagonista eponimo. Composto all’inizio della carriera di Shakespeare, intorno al 1592, il dramma completa idealmente la
prima delle tetralogie storiche, preceduto dalle tre parti di
Enrico VI, le cui fortune teatrali impallidiscono rispetto al
duraturo impatto di Riccardo III. Sebbene i primi curatori
dell’opera omnia di Shakespeare lo avessero postumamente
catalogato come dramma storico e capitolo
finale del citato quartetto, alla sua prima
pubblicazione apparve col titolo La Tragedia del Re Riccardo III. Tragedia, quindi: per definizione incentrata sull’ascesa e
caduta di un individuo formidabile e sovrumano, non semplice attore nella vicenda collettiva di una nazione e di una
casata reale. Sin dalla prima scena Riccardo si presenta con
un celebre monologo in cui la sua menomazione fisica (che
ogni attore reinterpreta a modo suo) è causa della sua emarginazione, e quindi del suo risentimento che gli impedisce di
festeggiare il trionfo della casata di York contro i rivali Lan-
caster al termine della sanguinosa Guerra delle due rose. Al
contrario, questo cadetto cova in silenzio la sua ambizione di
diventare re, spazzando via ogni ostacolo si frapponga tra lui
e il trono. In una delle sue folgoranti meditazioni sul corpo,
Guido Ceronetti ricordava che la poetica di Leopardi, scaturita da una infelicissima condizione esistenziale di isolamento e di sfortuna sentimentale, forse dipendeva anche da una
prosaicissima puzza corporea. Vittima della sua pelle maleodorante, Leopardi denuncia la natura ma svetta verso l’infinito. Intrappolato nella sua malformazione, Riccardo rivolta invece sul mondo la sua infelicità, scatenando una violenza spietata il cui esito finale non può che essere una altrettanto cruenta morte in battaglia. Il dramma racconta appunto
del ciclo implacabile di efferati delitti che il deforme Gloucester, fratello minore del re Edoardo IV York, compie per
usurpare e poi mantenere la corona di Inghilterra. Per questo non esita a far uccidere l’altro fratello Clarence, i suoi figli piccoli, e a corteggiare la vedova del principe Edward, appartenente alla dinastia nemica. Per Richard ogni mezzo è
lecito per perseguire il suo fine e non a caso lo si è spesso definito personaggio machiavellico, associandolo alla stereotipata rappresentazione tipicamente inglese del segretario fiorentino. Alla fine la sua uccisione spianerà la strada all’avvento della dinastia Tudor, quella di Elisabetta I, che sedeva
sul trono ai tempi in cui Shakespeare compose l’opera: l’efferatezza del tiranno ucciso si contrapporrà quindi simbolicamente all’illuminato governo della Regina Vergine. Ma se
Elisabetta rimane tuttora la più famosa dei regnanti ingleAl Pacino in Looking for Richard.
riccardo Suvvia, cugino, sei capace di tremare
[e cambiar colore,
rimanere senza fiato nel mezzo d’una parola
e poi ricominciare e di nuovo interromperti,
come se fossi uscito di senno e pazzo dal terrore?
buckingham Altro che, so imitare il provetto attore tragico,
parlare e guardarmi alle spalle e scrutare da ogni parte,
tremare e trasalire al movere d’una festuca,
fingendo profondi sospetti. Ho al mio servizio una
espressione spettrale,
non meno che sorrisi forzati,
e l’una e gli altri son pronti a entrare in gioco
in qualsiasi momento, per secondare i miei stratagemmi.
(Atto 3, scena 5)
Con un’ironia probabilmente deliberata, Shakespeare fa di
Riccardo III un ideale capocomico e attore, echeggiando gli
argomenti che nella sua epoca severi predicatori puritani sollevavano contro l’immoralità e mendacità del teatro. E così
la strategia del tiranno pluriomicida viene a coincidere con
l’autore che lo sta mettendo in scena...
A chi non abbia mai visto un Riccardo III in scena e voglia avvicinarsi alla nuova versione di Trevisan e Gassman
con una maggiore consapevolezza dell’opera, si può senz’altro consigliare una coppia di film degli anni novanta che in
forma complementare dimostrano la sua grande attualità e
traducibilità nel presente. Film che consentono di ammirare
due attori straordinari cimentarsi con un personaggio eccezionale già portato sullo schermo nel 1955 da Laurence Olivier. Nel 1995 il regista Richard Loncraine, adattando una
versione teatrale di successo di qualche anno prima, proietta
Ian McKellen nel Riccardo III secondo Richard Loncraine.
la vicenda negli anni trenta del Novecento, in un’Inghilterra immaginaria caduta in mano di un regime fascista in cui
Riccardo, un dolente Ian McKellen, appare come il nuovo
dittatore, la cui proverbiale malformazione fisica prende la
suggestiva forma della menomazione del reduce di guerra. Le
atmosfere di questo raffinatissimo film, in cui una delle immortali battute dell’opera «un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo…» viene pronunciata da McKellen mentre cerca di impossessarsi di una jeep tra le sventagliate delle
mitragliatrici sul campo di battaglia, è forse l’argomento migliore per convincere quei puristi che non amano vedere Shakespeare in abiti moderni (atteggiamento che Shakespeare
stesso avrebbe faticato a comprendere…). L’anno successivo
Al Pacino firma un film-documentario intitolato significativamente Looking for Richard (letteralmente «Alla ricerca
di Riccardo», ma nella versione italiana Riccardo III, un uomo, un re) in cui si alternano scene dalla tragedia con l’istrione americano nei panni del re a momenti di prove, sguardi
sul «dietro le quinte» e interviste in cui si raccontano le ricerche e i preparativi per il film stesso, rendendo la pellicola
una sorta di indagine postmoderna sulla rilevanza e attualità di Shakespeare e del suo monarca claudicante.
Il perdurante effetto del ritratto shakespeariano di Riccardo III è stato tale da convincere alcuni ammiratori del re a
fondare varie associazioni in sua difesa, tra cui The Richard
III Society, dedicate a riscattarne la reputazione. Nel settembre del 2012, sotto un parcheggio della città di Leicester corrispondente alle notizie sulla sepoltura di Riccardo III, un’equipe di archeologi ha annunciato il ritrovamento di resti
di un uomo morto in battaglia e affetto da una grave forma
di scoliosi. Sono in corso verifiche che passano anche da un
confronto del dna con quello di un cittadino canadese, riconosciuto come l’ultimo discendente in vita del re. Una campagna è stata promossa per garantire al corpo, qualora l’identificazione fosse confermata, funerali di stato e la sepoltura
dovuta a un monarca inglese. Ma qualsiasi sia l’esito, a noi resta la convinzione che sia più importante la lezione del Riccardo III immaginato da Shakespeare, che ci ha consegnato
una lezione impagabile sui rapporti intimi che esistono tra il
linguaggio e la seduzione, tra l’individuo, il male e la sofferenza, tra il potere e i suoi terribili abusi. ◼
prosa
si, Riccardo vince dal punto di vista drammatico e narrativo. Maestro della seduzione il cui erede ideale sarà Iago, Riccardo è
ben consapevole dell’insidioso potere avvolgente della parola, come dimostra questo fulminante scambio di battute, in cui egli, tipicamente,
incita alla dissimulazione uno dei suoi estemporanei alleati:
49
prosa
50
Un Re fuori scala
suo essere anche attore, nel senso che, pur
rispettosi del linguaggio, rendono il testo,
come dicevo poc’anzi, «parlabile».
Come si articola la tua regia?
Dal punto di vista della scenografia e dei
costumi – di cui si stanno occupando rispettivamente Giana cura di Ilaria Pellanda
luca Amodio e Mariano Tufano – ci si trova calati tra il Medioevo e la fine dell’Ottocento; la scena avrà un aspetto goebutterà al Teatro Verdi di Padova in febtico, che io stesso mi sono azzardato a suggerire disegnando
braio, per poi approdare al Goldoni di Venezia nel
qualche bozzetto, che poi Gianluca ha abilmente rielaboramese di aprile, R III – Riccardo Terzo, la nuova
to. Così come ho scelto di fare in altre mie regie teatrali, utiregia di Alessandro Gassmann,
lizzerò un sistema di proiezioni e retroproche ci racconta come e quando è nata l’idea
iezioni grazie al quale gli accadimenti sadi affrontare questo testo e di vestire i panni
ranno vissuti con un impatto più immediadel malvagio sovrano shakespeariano.
to: utilizzerò tali filmati con un montaggio
Padova
di tipo cinematografico, che mi consentiTeatro Verdi
19, 20, 21, 22, 23 febbraio, ore 20.45
«Da anni desideravo mettere in scena
rà di andare direttamente al cuore del rac21 e 24 febbraio, ore 16.00
questa pièce di Shakespeare, che però mi
conto. Vorrei realizzare uno spettacolo che,
spaventava un po’ dal punto di vista del linsenza tralasciare alcunché, riesca a rimaneVenezia
guaggio, così complesso e articolato e anre entro le due ore, due ore e un quarto al
Teatro Goldoni
che, in molte traduzioni, arcaico e oscuro.
massimo. In scena con me ci saranno die24, 26, 27 aprile, ore 20.30
Mi sarebbe dunque piaciuto poter lavoraci attori, che vestiranno però i panni di più
25 e 28 aprile, ore 16.00
re con un adattamento che mi avesse perpersonaggi, incarnando due o addirittura
messo, assieme agli altri attori del cast, di
tre ruoli; grazie all’utilizzo delle proiezioni,
“parlare Shakespeare” in un idioma rispettoso certamente
inoltre, avremo la possibilità di poter contare su molte comdella lingua meravigliosa del Bardo ma scevro di tutti quei
parse – anche se non in carne e ossa – e situazioni: popolo,
cliché recitativi che solitamente gli vengono attribuiti. Da
cavalli, soldati, battaglie, esplosioni, fiamme, e tutto quello
questo punto di vista l’incontro con Vitaliano Trevisan (cfr.
che Shakespeare ci racconta e che, nel caso di questo mio Ricp. 54) è stato fondamentale: con la sua traduzione, Vitaliacardo, in maniera più o meno realistica accadrà sulla scena.
no mi ha offerto la possibilità di affrontare con
molta naturalezza un testo e un autore di simile
portata, alla ricerca della verità e della semplicità dell’esecuzione. Ora il
desiderio è quello di farne uno spettacolo popolare, comprensibile per
chiunque. Credo che i limiti di alcune messinscene di Shakespeare, per
quel che concerne il nostro Paese, siano dovuti a
due problemi: il primo riguarda ciò che io chiamo
il “famolo strano”, cioè lo
stravolgere Shakespeare
per farne una rilettura in
chiave moderna, che solitamente viene giustificata appellandosi a un’idea di ricerca intellettuale o artistica, e che invece
– a mio modo di vedere le cose – nasconde una fondamentale
Il tuo sarà un Re «fuori scala», un gigante al cospetto di un
incapacità di mettere in scena il Bardo “normalmente”, che è
mondo molto più piccolo.
molto più difficile; l’altro problema è rappresentato dagli alGrazie a uno stratagemma – che si sposa con il mio gusto
lestimenti aulici ed eccessivamente classici, i quali tediano il
per l’«effetto speciale» – sarò più alto, all’incirca poco più
pubblico e soprattutto allontanano quello più giovane, che
di due metri, e gli altri attori, rispetto a me, risulteranno tutvorrebbe invece ritrovare sul palcoscenico – così come Wilti decisamente più bassi. Anche la scena sarà leggermente più
liam Shakespeare immagino avrebbe desiderato – l’immepiccola rispetto alla scala normale, cosicché se nella vita una
diatezza propria dei drammaturghi contemporanei».
porta è alta due metri, sul palco sarà di un metro e ottanta. E
Dal punto di vista comunicativo qual è il registro che hai sceldi conseguenza tutto il resto. Mi interessava molto ampliato? Come vengono a sposarsi la componente poetica ed emoziore, oltre alle questioni legate alla bramosia di potere e alla
nale con un’asprezza, appunto, più contemporanea?
violenza, anche il tema della diversità; anche in questo caso
Tutto avviene nel pieno rispetto della lingua: la traduzione
e l’adattamento che Vitaliano ha realizzato «tradiscono» il
Alessandro Gassmann.
Riccardo Terzo
secondo Alessandro Gassmann
D
rentemente è solo cervello e niente cuore. In realtà Riccardo mostrerà anche un momento di tentennamento e avverrà quando sul campo di battaglia incontrerà sua madre, che
gli vomiterà in faccia tutto il disgusto e il pentimento di aver
messo al mondo un essere così orribile e nauseabondo. Siamo già però molto vicini al finale: la guerra è alle porte e Riccardo sarà punito dalla sua smania di potere, dalla sua sensazione di invincibilità. Dal momento in cui diventa Re, infatti, Riccardo cambia in maniera netta, orribilmente trasformato dall’avvenuta presa del potere; viene a smarrire anche
Quali caratteristiche emergono da questo tuo Re e da che punto di vista può essere – se può esserlo – un personaggio attuale?
Credo che di figure che per bramosia di potere camminerebbero sulla propria madre l’Italia ne abbia a non finire. Ne
leggiamo tutti i giorni nei giornali. È quindi quasi inutile
che ripeta quanto sia attuale Shakespeare. Riccardo è un personaggio molto affascinante e altrettanto ambito dagli attori: è un cattivo senza possibilità di perdono ed è però anche un uomo di raffinata e sublime intelligenza, nonostante la usi male e per fini negativi. Come lui, anche altri personaggi rispecchiano questa tipologia: sicuramente la madre,
la Duchessa di York; e poi Buckingham, consigliere luciferino, e di certo un personaggio che abbiamo molto ampliato
con Vitaliano: si tratta di Tyrrel, carnefice e braccio armato
di Riccardo che sarà interpretato da Manrico Gammarota.
Nello spettacolo conto di riuscire anche a far ridere il pubblico, senza forzature, in maniera naturale e proprio grazie alla
scrittura di Shakespeare.
Questo personaggio negativo, senza possibilità alcuna di pentimento e di perdono, mi fa venire in mente la tua Oscura immensità (cfr. vmed n. 49, p. 47), dove era ravvisabile il dilaniarsi tra il perdono, la colpa e la condanna. Anche in Riccardo Terzo si affronterà un viaggio nelle pieghe più oscure dell’animo umano?
Certo, e vi sarà la possibilità di realizzarlo in maniera più
approfondita non solo perché il testo è molto più lungo ma
anche perché parla di falsità umana, di ritorsione, di mancanza di pentimento e di determinazione alla conquista del
potere, tutti caratteri raccolti in un personaggio che appa-
alcune delle sue luciferine capacità di conquista e diviene più
tronfio: perde forza, in qualche maniera, e smette non tanto
di pensare quanto di organizzare, e proprio per questo diviene più vulnerabile.
Uscirà nelle sale in marzo Razzabastarda, l’adattamento cinematografico del tuo Roman e il suo cucciolo (cfr. vmed n.
34, pp. 66-67, p. 68 e p. 69), trasposizione che ha ottenuto la
menzione speciale nella sezione Opera Prima del vii Festival
Internazionale del Film di Roma. Come ti sei trovato a passare dalla regia teatrale a quella su pellicola?
Bene, non solo perché quella che andavo ad affrontare era
una storia che conoscevo a menadito ma anche perché ho lavorato proprio come faccio in teatro: seguendo una visione,
cercando di condividerla con le persone con le quali mi confronto e realizzando un film senza freni. Non ho voluto pensare all’impatto violento che avrebbe potuto avere e che forse avrà sul pubblico, nella convinzione che – così com’è accaduto in scena – riuscirà ad arrivare soprattutto la drammatica complessità del rapporto irrisolto tra un padre semianalfabeta, che sbaglia molto nella vita, e un figlio che tenta disperatamente di uscire dal ghetto nel quale è stato allevato.
Forse il mezzo filmico, ai fini della storia narrata, si è rivelato
più efficace rispetto alla messinscena, perché mi ha permesso
di descrivere e di far vivere tutti quei luoghi, quei personaggi e quelle situazioni che sul palcoscenico – per i limiti che il
teatro ha di non poter essere realistico in maniera completa
– erano stati invece sottointesi. Nella trasposizione su pellicola i protagonisti da sette diventano circa quaranta: un racconto a più voci che credo sia il lavoro più delicato che ho realizzato grazie anche a Vittorio Moroni, che mi ha aiutato a
scrivere l’adattamento. ◼
Alessandro Gassmann e Giovanni Anzaldo
in un frame di Razzabastarda.
prosa
mi sono trovato molto in sintonia con Vitaliano, sul fatto cioè di descrivere un mondo che rientra in una certa scala e un personaggio che invece la supera. Starà a noi
decidere se è il primo a essere troppo piccolo o il secondo a essere troppo grande. Sono sempre stato
affascinato e attratto da caratteri decisamente distanti dal
mio, e Riccardo, da un punto di vista psicologico, lo è totalmente e il fatto di poter aumentare la sua diversità mi stimolava molto.
51
prosa
52
Vitaliano Trevisan
o l’arte di riscrivere
V
di Leonardo Mello
italiano Trevisan è scrittore, drammaturgo,
attore, e in ciascuna di queste vesti è stato più volte presente nella nostra rivista. Qualche tempo fa
però (cfr. vmed n. 41, p. 52) abbiamo dato spazio a
un’operazione per lui inedita, quella della riscrittura dai classici, e in particolare da Carlo Goldoni, con la sua pregevole
Bancarotta, esempio riuscitissimo di fusione tra le atmosfere
antiche e il contesto contemporaneo, attraverso lo stile ellittico, sferzante e asciutto tipico dell’autore vicentino. E proprio questo ultimo testo ha dato origine a una nuova operazione di traduzione/adattamento/riscrittura sul Riccardo
iii shakespeariano, in vista – come racconta lo stesso Trevisan nella presentazione che pubblichiamo qui a fianco –
del prossimo spettacolo diretto e interpretato da Alessandro
Gassmann. «Gassmann era in giuria al Premio Riccione –
ci spiega – dove io ero in finale con La bancarotta. Essendogli piaciuta molto, mi ha proposto di “arrangiare” il Riccardo. Nel copione che ho poi messo a punto non c’è una delimitazione netta tra la traduzione dall’inglese, l’adattamento, e
quindi un intervento più libero, e la vera e propria riscrittura,
dove le modifiche sono molto più sostanziali. Diciamo che
i tre concetti (e le tre operazioni) sono compresenti». Ecco
dunque che dalla commedia (per quanto piuttosto fosca) si
è passati alla tragedia per antonomasia, dove il protagonista
è un cattivo senza redenzione ma dalla psicologia estremamente complessa e ricca di spunti drammaturgici. Ma quello
che emerge con maggiore evidenza è, ancora una volta, il linguaggio, così personale e allo stesso tempo potente, che accorcia i lunghi periodi delle versioni in prosa italiana, offrendo un respiro e «incidendo» in profondità la materia indagata, sulla quale Trevisan agisce senza complessi, modificando e talvolta eliminando battute, personaggi, intere scene.
Un saggio di questa libertà, e allo stesso tempo del rigoroso
rispetto verso il dramma shakespeariano, si può godere poche pagine più avanti, grazie a un lungo estratto dalla quarta
scena del primo atto. ◼
R III
Una scheda
P
di Vitaliano Trevisan
rima di tutto un’equazione molto complicata,
piena di variabili, ovvero ritradurre e adattare Riccardo III per dieci attori (a fronte di un originale che
conta più di quaranta personaggi, e tenendo conto
del fatto che almeno sei degli attori non potranno avere doppie parti) fratto due atti (durata massima due ore e mezza,
ma due ore sarebbe meglio; e il primo atto più lungo del secondo). Niente di strano, la drammaturgia è matematica applicata. L’incognita, ovvero il testo, deve sempre fare i conti con la contingenza della scena, altrimenti, anziché andare a teatro, dovremmo accontentarci di leggere. Così è sempre stato, e così era anche al tempo in cui Shakespeare scrisse il suo Riccardo iii. Dare qui la storia del testo sarebbe cosa
troppo lunga, oltre che superiore alle competenze di chi scrive. Ci basti dire che la sua composizione viene datata intorno al 1592-1593, ed è quindi opera giovanile di Shakespeare, che aveva allora trent’anni – debuttò a ventotto con Enri-
co vi – e che il testo riconosciuto come canone è il risultato della collazione di cinque diverse edizioni. C’è sempre una sorta di sublime incertezza, in tutto ciò che
riguarda Shakespeare, biografia compresa;
e nei suoi testi qualcosa di non finito, nel senso di organico,
di vivo, che tiene perciò la fantasia in costante movimento,
sia rispetto al senso che alla drammaturgia. E quelle didascalie, dove c’è tutto e non c’è niente, che intrigano da secoli la
gente di teatro di tutto il mondo! Suonerà strano, ma molto, in un testo teatrale, passa per le didascalie. In fondo, anche il nostro incontro, intendo tra Alessandro Gassmann e
chi scrive, è in un certo senso una didascalia, e al tempo stesso la variabile decisiva dell’equazione. Una lingua asciutta,
secca, dice ag nel corso di quel primo incontro, che arrivi dritta, rendendo la trama
chiara e coinvolgente.
E un Riccardo gigantesco, aggiunge, fuori
scala rispetto agli altri
attori e alla scena, costretto a chinarsi per
potersi specchiare, per
passare da una porta,
o per guardare qualcuno negli occhi. Ho già
le scarpe adatte, dice
sorridendo.
L’idea mi intriga da
subito. In fondo, la
statura scenica di Riccardo, a cui Shakespeare affida la parte più
estesa che abbia mai
scritto per un attore,
superata solo da quella di Amleto, è decisamente gigantesca, fuori scala. Egli è insieme
eroe e antieroe, manipolatore del destino
altrui e del proprio;
cattivo assoluto, senza
attenuanti, ma dotato
di fascino e humour irresistibili; autore, regista e attore dell’evento teatrale, e insieme sintesi ed emblema di tale evento cioè, in una parola, del Teatro. E quelle gigantesche ombre familiari, evocate da Gassmann, sono anche
ombre teatrali assolute, per così dire, nel senso che riguardano una tradizione – non solo italiana – con cui chiunque,
trattandosi di Riccardo III, si trova a fare i conti.
E poi, naturalmente, il testo per sé, quella materia viva e instabile con cui avremo l’occasione di confrontarci. Il potere,
e la responsabilità, di tagliare, di contrarre, di modellare, di
riscrivere Shakespeare! La prospettiva ci esalta e ci sgomenta insieme. Dovremo fare affidamento su tutta la nostra incoscienza, questo è certo. E infatti: Sì, dico ad ag accettando l’incarico, credo che la cosa sia possibile. Ed è qui, dalla
condivisione immediata di un’idea e di un atteggiamento,
che nasce il «nostro» Riccardo. Ora, dopo altri incontri, e
scambi di idee e opinioni, il lavoro del drammaturgo è finito.
È tempo di andare in scena. Tutto torna in gioco. ◼
Vitaliano Trevisan.
P
Due versioni a confronto
er dare un’idea del lavoro di traduzione- adattamento-riscrittura operato da Vitaliano Trevisan sull’originale shakespeariano abbiamo scelto una porzione
della scena quarta del primo atto di Riccardo iii, dove risaltano le differenze tra la versione dello scrittore vicentino (nella colonna di sinistra) e quella (a destra) elaborata da
Rodolfo Wilkock e Giorgio Melchiori per i Meridiani Mondadori (Teatro completo di William Shakespeare, volume
viii, pp. 925-929).
tyrrel E se lo pugnalassi ora
mentre dorme
(esita)
Così quando si sveglia dirà che sono un vigliacco
(risoluto)
Ma se lo pugnalo
non si sveglierà fino al giorno del giudizio
(di nuovo esita)
Quella parola
«giudizio»
Solo a sentirla
mi fa venire i brividi
(un tempo)
Possibile che io abbia
paura
Non di ucciderlo
no
per quello abbiamo l’autorizzazione
Anche se
non sono sicuro che mi servirà a qualcosa
il giorno del
giudizio
(un tempo)
Meglio se lo lascio vivere
Torno dal Duca di Gloucester e glielo dico
(un tempo)
Calma
conta due volte fino a dieci
(pausa)
Ecco
come al solito
ogni scrupolo prende il volo prima che arrivi a venti
E appena il duca aprirà la borsa
volerà via anche la mia coscienza
(un tempo)
E se poi tornasse
No
non ne voglio sapere
La coscienza rende gli uomini vigliacchi
Uno vuol rubare
e lei lo accusa
vuole bestemmiare
e lei lo trattiene
vuole sbattersi la moglie del vicino
e lei lo scopre
Sempre no
sempre no
Se uno la ascolta
finisce che non fa più niente
Una volta ho trovato per caso una borsa piena d’oro e mi ha
indotto a restituirla
La coscienza riduce la gente in miseria
per questo è bandita da città e paesi come cosa dannosa e
pericolosissima
e se un uomo vuol vivere decentemente
non deve assolutamente fidarsi di lei
(un tempo)
E se gli dessi un colpo in testa
e poi lo buttassi in una botte di malvasia
Sono certo che il Duca apprezzerebbe
secondo assassino Lo pugnaliamo ora che dorme?
primo assassino No, poi dirà che siamo due vigliacchi, quando
si sveglierà.
secondo assassino Stupido, quello non si sveglierà fino al
giorno del Giudizio.
primo assassino Appunto: e allora dirà che lo abbiamo ucciso
mentre dormiva.
secondo assassino Quella parola, “giudizio”, mi ha fatto
provare una specie di rimorso.
primo assassino Che, hai paura?
secondo assassino Non di ucciderlo: ne abbiamo
l’autorizzazione; ma di dannarmi uccidendolo, e da questo
pericolo nessuna autorizzazione mi può salvare.
primo assassino Ti credevo deciso.
secondo assassino Sì: deciso a lasciarlo vivere.
primo assassino Torno dal duca di Gloucester e glielo dico.
secondo assassino Aspetta, ti prego. Questa mia pia
inclinazione passerà, spero; di solito scompare prima che possa
contare fino a venti.
primo assassino E adesso a che punto sei?
secondo assassino A dire il vero, ancora mi rimane dentro
qualche fondo di coscienza.
primo assassino Ricorda la ricompensa promessa.
secondo assassino Per Dio, allora è un uomo morto. Mi ero
dimenticato della ricompensa.
primo assassino E dov’è adesso la tua coscienza?
secondo assassino Nella borsa del duca di Gloucester.
primo assassino Vuol dire che quando quello apre la borsa per
pagarci, la tua coscienza vola via.
secondo assassino Non importa, lasciala volare: pochi o
nessuno vorranno darle alloggio.
primo assassino E se torna da te?
secondo assassino Non ne voglio sapere: la coscienza ti fa
vigliacco. Non appena rubi, ti accusa; vuoi bestemmiare, e ti
trattiene; vuoi andare a letto con la moglie del vicino, e ti scopre.
È uno spiritello vergognoso e pudico che si ribella nel nostro
petto: sa frapporre soltanto ostacoli. Una volta mi ha indotto a
restituire una borsa d’oro che avevo trovato per caso. Riduce in
miseria chiunque la tenga cara. Viene cacciata via da ogni città
e capoluogo come cosa pericolosissima: chiunque voglia vivere
decentemente deve fidarsi solo di se stesso e fare a meno della
coscienza.
primo assassino Per Dio, proprio adesso ce l’ho qui accanto:
insiste, mi prega di non uccidere il duca.
secondo assassino Pensa al diavolo,
e non dar retta a quella lì. che vuole
convincerti soltanto per farti
sospirare.
primo assassino Macché, sono
forte io, non me la dà a bere.
secondo assassino Ben detto:
sei un bravo e sai difendere la
tua reputazione. Vogliamo
metterci al lavoro?
primo assassino Dagli un colpo
in testa col pomo della spada, poi
lo buttiamo nella botte di malvasia,
qui nella stanza accanto.
secondo assassino Eccellente
idea! Lo mettiamo a bagno. ◼
Incisione di Benjamin Holl (1808-1884, wikipedia.org)
prosa
Riccardo III,
atto primo,
scena quarta
53
prosa
54
La cancellazione del
narratore onnisciente
«Aldo Morto / tragedia»
di Daniele Timpano
C
di Massimo Marino
on Aldo morto, spettacolo vincitore del premio «Rete critica» 2012 (cfr. VMeD n. 49, p.
67), Daniele Timpano innerva l’ormai agonizzante teatro di narrazione cancellando sia il narratore onnisciente che la narrazione in prima persona in
un cortocircuito tra storia, visione personale e immedesimazione ossia pseudobiografia immaginaria, simulata, alla
Thomas Bernhard. Si mette in scena come personaggio, come cittadino, come artista, assumendo come punto di vista
quello dello smarrimento di una generazione senza certezze e il disgusto per i troppi
silenzi, per i misteri irrisolti, per gli errori e
le colpe che rendono precario e invivibile il
nostro Paese.
La vera imputata è la storia: anzi la nostra
incapacità, impossibilità di raccontare la
storia, di dipanarne i fili più oscuri. L’autore-attore romano sembra partire dalla domanda: il teatro, l’arte, può interpretare i
tempi che abbiamo vissuto? E la risposta, al
contrario di tutto il teatro politico e di narrazione, che spiega ogni cosa, è: decisamente no. Timpano ci dice: io nel 1978, quando
Moro fu ucciso dopo quasi due mesi di prigionia, avevo quattro anni. Se qualcuno gli
obiettasse che noi comunque discutiamo di
fatti e di epoche in cui neppure eravamo nati, la risposta, con un sorrisetto impacciato, sarebbe: già, ma quale verità sta nei nostri discorsi?
Il bellissimo, dolorosissimo spettacolo
presentato in prima nazionale in aprile al
teatro Palladium di Roma, apre più di una
questione. Perché Timpano sembra essersi assunto il compito di fare una controversa antistoria d’Italia attraverso alcuni cadaveri eccellenti. In Dux in scatola ha narrato il fascismo storico e quello postbellico rievocando le vicende della scomparsa della salma di Mussolini (ma ha raccontato, con tale espediente, anche la nostra
Italia democratica e antifascista). In Risorgimento pop, intorno alla mummia di Mazzini ha ripercorso non tanto l’epopea dell’Unità quanto i buchi di un Paese mai veramente compiuto, e tutta le retorica che esso sa ritrovare intorno
agli anniversari.
In Aldo Morto si identifica, anche fisicamente, in Moro, si
trasforma in un suo figlio che si chiama Daniele, ripercorre le
vicende di quei giorni, di quegli anni di lotte e contrasti, come se fossero puntate dell’infinito talk show nazionale, del
continuo spettacolo televisivo zeppo di pubblicità che siamo
capaci di allestire su morti, conflitti, idee, con evidenti sconfinamenti nel tifo calcistico più truculento, che ricorda il nostro scarso distacco dalle radici di clan, campanile, fazione.
Interpreta, con la sua aria dinoccolata apparentemente ingenua e inetta, pasticciona, l’uomo politico democristiano, e
ne nota una somiglianza con un eroe dei fumetti come Nathan Never, con quella pinna bianca nei capelli. Evoca, con
toni beffardi, brigatiste che hanno fatto libri più o meno di
successo del loro pentimento e altri non pentiti che si sono
spostati «sul sociale», brutti film e attori vati da strapazzo.
Irrompe sulle note di Viva la pappa col pomodoro e, con la
maschera di Mazinga, evoca slogan e canzoncine sanguinarie che si cantavano nei cortei in quegli anni promettendo di
spaccare teste a poliziotti. Non mancano gli inviati televisivi
sul luogo della strage di via Fani, grotteschi, cinici, di fronte
alla «marmellata di sangue» che imbratta l’asfalto. E neppure i riferimenti al fatto che, con cinque processi, non sia
stata accertata una verità credibile.
Lo spettacolo corre, con toni da cabaret impietoso, tra Renato Curcio e Eros Ramazzotti. Ma ha qualcosa in più, che
ne fa un lavoro da vedere, rivedere, ripensare. Vi si coglie il
senso di impotenza generazionale di chi percepisce che la
storia è impossibile farla: che rimangono gli eventi, le ferite, il sangue, le divisioni, le conseguenze, e mai un’interpretazione appena coerente. Dappertutto? Sicuramente in questa bella Italia di menzogne. Allora non resta che rifugiarsi
negli umori, nell’indignazione, nello sberleffo, nella pietas,
nell’orrore inconsolabile per la morte. Nel teatro, come veicolo di emozioni personali, come lingua dello smarrimento,
come ricerca di (insidiata) presenza.
Nella storia di misteri e ipocrisie risalta la figura tragica di
Moro, un provinciale tecnocrate che porta le mozzarelle del
paese ai figli e parla con un linguaggio forbito e arzigogolato d’altri tempi. Spiccano il dolore umano e la ripugnanza
per anni che invocavano la violenza come palingenesi, come
se il sangue versato non fosse sangue vero. Timpano guarda con piglio da moralista la capacità di ridurre tutto a spettacolo degli italiani e di lucrarvi sopra. Ma soprattutto mette davanti allo specchio un Paese, il nostro, che non sa guardare dietro le proprie immagini, dentro le proprie tragedie.
I testi di Dux in scatola, Risorgimento pop e Aldo Morto, insieme a vari contributi critici sul lavoro di Timpano, si possono leggere nel volume Storia cadaverica d’Italia a cura di
Graziano Graziani (Titivillus edizioni). ◼
Una scena di Aldo Morto (foto di Andrea Chesi).
S
di Alberto Massarotto
e, antropologicamente parlando, è vero che
tutti i comportamenti sociali racchiudono in sé un alto potenziale teatrale, allora ciò a cui si è assistito in
questi giorni a Venezia è riuscito a sottolineare particolari ed entusiasmanti sfaccettature della società in cui
viviamo.
Tre appuntamenti all’insegna della sperimentazione teatrale hanno dato letteralmente corpo al programma di «Who’s
Who? Identità plurali e cose del genere...». Il percorso, sviluppatosi in tre appuntamenti (29 novembre, 4 e 11 dicembre), è
stato pensato dall’Assessorato alla Cultura delle Differenze
del Comune di Venezia in collaborazione con Vortice/Teatro Fondamenta Nuove, che, anche grazie a quest’occasione, si
conferma nel tempo sempre sensibile nel proporre un’attenta
diversificazione dell’offerta culturale nel territorio veneziano.
La rassegna si è aperta con Never Never Neverland del Teatro delle Moire che si è presentata come una vera e propria isola che non c’è, ricreata sul palcoscenico del Fondamenta Nuove attraverso una serie infinita di indumenti raccolti, persi e
ritrovati, grazie ai quali i quattro protagonisti hanno potuto
recuperare l’essenza della propria infanzia e avviare un intrigante gioco di travestimenti. Una piattaforma ricreativa nella
quale riversare ironia, spirito d’iniziativa e divertimento, dove potersi nascondere e rivelare secondo un gusto e un estro
istantaneo. E attraverso il gioco, in quanto azione libera e liberatoria, la compagnia teatrale ha saputo avvertire lo spettatore del bisogno di riflettere sul proprio corpo in quanto autentica immagine rappresentativa di una identità.
Al Teatro Momo di Mestre ha avuto invece luogo il secondo appuntamento di «Who’s Who?»: L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi. La commedia di Copi è stata rappresentata in quest’occasione attraverso la rilettura di Andrea Adriatico e la compagnia Teatri di Vita, nella quale il nome di Eva
Robin’s ha sicuramente aggiunto non poca curiosità all’evento in programmazione.
Lo spettacolo, vincitore dell’edizione 2012 del Premio FaSopra, Pater Familias, Kronoteatro.
In alto, a destra: Eva Robin’s in L’omosessuale o la difficoltà di
esprimersi di Copi secondo Andrea Adriatico (Teatri di Vita).
cebook/Short Theatre, prende vita sin da subito grazie a una
frizzante e spregiudicata scrittura che scardina instancabilmente le connessioni interne della vicenda, attraverso un ritmato susseguirsi di colpi di scena. L’atmosfera beffarda e pungente della commedia, degnamente ricreata dagli attori in scena, ha riportato alla memoria del pubblico lo spirito del vecchio teatro di varietà, dove l’essenza dell’essere, racchiusa nelle tematiche violentemente scosse all’interno dello spettacolo, ha offerto un’accurata panoramica degli elementi che concorrono alla formazione dell’idea di diversità in quanto parte costitutiva della società. Proprio su questo concetto si sfal-
da l’eco lontano del vaudeville, che svanisce davanti alla spiazzante contemporaneità delle molteplici questioni irrisolte, che
dal testo teatrale si riflettono nella quotidianità.
Il cerchio s’è chiuso, ancora una volta nel teatro veneziano,
con Pater Familias della compagnia ligure Kronoteatro. Una
feroce successione di azioni ha visto protagonista la nuda fisicità degli attori mentre scandiva in maniera ottimale, in un’inarrestabile sequenza di acrobazie evidenziata attraverso un
gioco di luce e ombra, la rabbia suscitata da un incolmabile
vuoto interiore.
È soddisfatto, a conclusione della rassegna, il direttore del
Fondamenta Nuove, Enrico Bettinello: «Credo che la riflessione sulle identità sia una caratteristica centrale di gran parte
del teatro di ricerca di oggi e l’aver unito in una piccola rassegna tre lavori così differenti è una modalità di lettura che spero possa stimolare ulteriori riflessioni. Questa prima edizione di “Who’s Who?” è stata pensata come un progetto pilota,
ma mi auguro di poter proseguire il lavoro anche nel 2013, allargando la progettualità soprattutto a quegli aspetti formativi e laboratoriali che ne costituiscono il naturale complemento culturale». ◼
prosa
«Who’s Who?»:
vanno in scena
le identità plurali
55
prosa - commenti
56
Premi Ubu 2012: e poi?
sembra essere quello delle categorie che li compongono, un insieme di scansioni che spesso rischiano di privilegiare «chi se
le può permettere»; ovvero, ancora una volta, le produzioni più
tradizionali. Ma, a fronte di qualche effettiva mancanza (pensiamo alla composizione musicale, ad esempio), l’elasticità di
di Roberta Ferraresi
tali divisioni è stabilita innanzitutto dai referendari che le voono passati più di trent’anni dal primo anno di
tano: un indizio, per quanto riguarda la categoria «attore», è la
Premi Ubu, gli «Oscar del teatro italiano». E, a scorpresenza (per altro non inedita) di uno dei più affermati protorerne gli esiti, è facile ripercorrere e ricostruire le stratipi dell’attore-autore italiano, Saverio La Ruina. Oppure, bade di quelle forme di teatralità che hanno, negli ultisti pensare al recente predominio di una generazione tutta nuomi tempi, popolato il nostro Paese; così come rispecchiato e
va di registi che – proprio in questi anni in cui la categoria semassorbito, interrogato, raccontato e rilanciato quel che, anno
bra in crisi, guadagnando un proprio prefisso «post-», e proper anno, accadeva dentro e fuori dai teatri. I Premi Ubu voprio in un Paese dove, a differenza della scena internazionaluti da Franco Quadri sembrano, di volta in volta, la cartina
le, non l’ha mai fatta veramente da padrona – da qualche temdi tornasole dell’Italia di quegli anni.
po sta scuotendo i palcoscenici nostrani: quest’anno preSono passati più di trent’anni e c’è chi potrebbe pensente con Antonio Latella e Marco Tullio Giordana, ma
sare che il Premio possa essere un po’ invecchiato. Ananche, negli anni scorsi, con il coreografo Virgilio Sieni.
che perché, confrontarsi, come si propone di fare l’AsDefinizioni più precise – come è stato proposto – volte
sociazione Ubu, con l’eredità di una figura attenta così
a introdurre la cosiddetta «ricerca», la danza o la perfortanto al presente, ma anche alla progettazione del futumance, oltre a contraddire in parte il piglio transdiscipliro, significa certo salvaguardarne l’opera – ad esempio
nare che distingue i Premi fin dall’origine, rischierebbecon la convenzione stipulata con la Fondazione Mondaro forse di valorizzare ulteriormente divisioni e promuodori per l’archivio – ma anche saperne rilanciare gli stivere addirittura ghettizzazioni; non considerando, ad
moli, muovendosi fra la lettura dell’oggi e la costruzione
esempio, ugualmente «registica» l’azione di un colletdel domani. Sotto il segno di quella vivacità di pensiero e
tivo rispetto a quella di un singolo, o al pari «drammaazione che ha condotto il critico, ad esempio, a una parturgica» l’attività di un’autrice come Lucia Calamaro –
ticolare attenzione drammaturgica in anni in cui i palla cui Origine del mondo è forse il vero fenomeno di quecoscenici erano segnati da un’affermata vocazione persta edizione del Premio – rispetto a quella compositiva
formativa – tendenza poi confermadi un coreografo o di un autore-attota dallo sviluppo di esperienze come
re. Piuttosto, per quanto riguarda la
quella della Postavanguardia.
definizione delle sezioni, uno spunI vincitori
Scomparso l’eti e sempre più rito potrebbe arrivare dalla lettura in
dotto il fus, naturalmente, qual- Spettacolo dell’anno: The Coast of Utopia di Tom Stoppard, regia filigrana di quelle che sembrano esMarco Tullio Giordana; Miglior regia: Antonio Latella per Un
cosa è cambiato nel teatro italiano: di
tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams; Miglior sce- sere ormai, non ufficialmente, delnon è certo una stagione di grande nografia: Lino Fiorito per Giù; Miglior attore: Saverio La Ruina le «categorie di fatto»: basti pensaslancio e nemmeno la critica sem- per Italianesi; Miglior attrice: Daria Deflorian per Reality e L’o- re alla consistente presenza di alcubra passarsela tanto meglio – per rigine del mondo; Miglior attore non protagonista: Fausto Russo ne strutture che si distinguono per
per Santa Giovanna dei macelli; Miglior attrice non protadirla con Massimo Marino, «i cri- Alesi
gonista ex aequo in ordine alfabetico: Federica Santoro per L’ori- particolari slanci produttivi (l’ert,
tici girano poco, gli spettacoli anco- gine del mondo) ed Elisabetta Valgoi per Un tram che si chiama de- gli Stabili di Roma e Torino), così
ra di meno». Così, a scorrere le ter- siderio; Nuovo attore o attrice (under 30): Lucrezia Guidone; gli come, riuniti nelle menzioni speciane dei finalisti, è difficile – si potreb- attori e le attrici di Punta Corsara (Mirko Calemme Giuseppina li, da un lato realtà che propongono
Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollibe dire impossibile – aver visto tut- Cervizzi,
ce, Antonio Stornaiuolo, Giovanni Vastarella); Nuovo testo ita- progettualità culturali di ampio reto; e in questo modo vengono privi- liano: L’origine del mondo di Lucia Calamaro; Nuovo testo stra- spiro (nel 2012 Il Funaro di Pistoia e
legiati gli spettacoli che hanno gira- niero: The Coast of Utopia di Tom Stoppard; Miglior spettaco- Dom di Bologna) e, dall’altro, il verto di più, come le produzioni degli lo straniero presentato in Italia: Richard III da William Shake- sante pedagogico-formativo, che vespeare, regia di Sam Mendes. Premi speciali: • Eresia della feliciStabili, cui è garantita un’ampiezza tà di Marco Martinelli/Teatro delle Albe (Santarcangelo e Vene- de nel 2012 la premiazione di Claudi tournée che nessuna compagnia zia), una straordinaria alchimia di poesia majakovskijana ed ener- dio Morganti, di Marco Martinelli
indipendente potrebbe permettersi. gia adolescente, afflato pedagogico e domande teatrali, innervata per Eresia della felicità a Santarcanvocazione «asinina» e «dionisiaca» di un maestro-bam- gelo e Venezia, il progetto Pedagogia
E, allora, qual è la soluzione? Andrea nella
bino intento, con l’intero percorso della non-scuola, a «salvare il
Pocosgnich, dalla webzine «Teatro mondo coi ragazzini»; • Anatolij Vasil’ev per il triennale proget- della scena legato ad Anatolj Vasil’ev.
e Critica», propone «una festa del to Pedagogia della scena (Fondazione di Venezia – Euterpe Vene- Ecco quello che ci raccontano, oggi,
teatro», in cui tutti i votanti possa- zia, Scuola Paolo Grassi – Fondazione Scuole Civiche di Milano), i Premi Ubu, alla loro prima edidi formazione dove gli allievi sono futuri pedagoghi con i zione interamente organizzata dalno prendere visione dei lavori in fi- corso
quali il regista ha costruito, attraverso il metodo degli etjud, un’enale, riaggiornando inoltre alcune sperienza di forte relazione personale e artistica, ponendo le basi la neonata Associazione: del nostro
categorie obsolete come quella di per istituire una vera e propria scuola internazionale nella corni- teatro e della società in cui viviamo,
«regia» o «attore» (protagonista e ce unica della città di Venezia; • Claudio Morganti per la coeren- ci parlano, fra le altre cose, attravere l’ostinazione di un percorso artistico, laboratoriale e intellet- so i termini di una partecipazione cinon). Ma, senza valutarne la realiz- za
tuale che attraverso la fondamentale distinzione tra teatro e spetzabilità in senso economico ed orga- tacolo, elaborata anche nel Serissimo metodo Morg’hantieff, riaf- vile che non si limita al livello estenizzativo – posto che, nel momento ferma l’autonomia poetica della scena; • Il Funaro – centro cul- tico, lasciando emergere le pressioni
in cui l’iniziativa passasse di mano turale di Pistoia fondato e condotto da Massimiliano Barbini, Li- produttive e il lavoro dei tanti spazi
Cantini, Antonella Carrara, Mirella Corso, Francesca Giaco- che costellano la penisola, così come
alle strutture produttive, si concre- sa
ni di Teatro Studio Blu – per l’attività di residenza e formazione
tizzerebbe un orizzonte di conflitto artistica, per il proficuo dialogo con la critica e per l’apertura alla il lavoro dei numerosi maestri che si
difficilmente gestibile –, questa sti- scena internazionale nonostante l’assenza di finanziamenti pub- muovono oggi dentro e – soprattutmolante idea sul modello del tedesco blici; • Dom la cupola del Pilastro di Laminarie, spazio che lavora to – fuori il teatro. ◼
confini tra produzione in residenza e ospitalità, tra città e peTheatertreffen rischia di restare una sui
riferia, tra migrazione e memoria, tra infanzia e età adulta, tra riinteressante utopia.
Saverio La Ruina in Italianesi
cerca teatrale e ascolto dell’ambiente circostante al quartiere PiAltro punto-limite dei Premi Ubu lastro di Bologna.
(foto di Angelo Maggio).
Brevi considerazioni sparse
S
La Fondazione di Venezia
per il teatro
di Fabio Achilli
D
a sempre il Veneto è patria del teatro e sin dai
suoi primi passi la Fondazione di Venezia al teatro è stata vicina, compagna di strada della Fenice nella fase di ricostruzione e ancora oggi primo
socio privato, oltre a gestire congiuntamente la società di servizi teatrali Fest.
Nei primi anni la Fondazione, attraverso il modello dei bandi, contribuiva economicamente al sostegno delle produzioni teatrali locali. Nel frattempo gli organi della stessa Fondazione, nell’ambito del settore attività culturali, individuavano
tra gli obiettivi quello di sensibilizzare e avvicinare i giovani al
mondo della scena.
Nell’autunno del 2002 siamo entrati in gioco direttamente,
e partendo in sordina abbiamo iniziato a gettare le basi di quello che sarebbe diventato uno dei nostri progetti di punta, Giovani a Teatro.
«Chi siete?» «Cosa volete?» «Fate fare a noi!»: questi i primi approcci con gli operatori del settore.
Ciò nonostante, muovendoci in un terreno molto fertile, abbiamo ascoltato tutti, lavorato con tutti e tutti insieme abbiamo fatto di Giovani a Teatro un modello di collaborazione, anche internazionale, e – sfruttando appieno il potenziale formativo e didattico che lo strumento teatrale offre – abbiamo creato una tribù di giovani attenti e disponibili a partecipare alla
vita del teatro.
Intorno a questo percorso è poi nata l’idea di offrire opportunità di formazione anche a chi il teatro lo aveva scelto come
professione, e con Jurij Alschitz, César Brie e molti altri abbiamo avviato il primo corso per «formare i formatori», Methodika. Questa prima esperienza si è poi evoluta nell’Isola della
Pedagogia, progettata e gestita in collaborazione con la prestigiosa scuola «Paolo Grassi» di Milano. L’Isola della Pedagogia ha da poco concluso il triennio formativo diretto da uno dei
più importanti maestri delle scene mondiali, Anatolij Vasil’ev.
Questo, in estrema sintesi, il lungo percorso intrapreso dalla Fondazione, che in questi ultimi due anni è stato riconosciuto da due prestigiosi premi, quello dell’Associazione nazionale Critici teatrali e, fiore all’occhiello, il mitico premio Ubu.
Rivedremo i nostri modelli? Cambieremo i progetti? Forse.
Valuteremo. Ma il dna del teatro è ben radicato in Fondazione
e di certo non abbandoneremo la strada intrapresa.
Per parafrasare una canzone di Ligabue, la nostra è stata una
vita da mediano, abbiamo lanciato l’azione e siamo stati a coordinare il gioco. Diversi i giocatori e gli allenatori che si sono succeduti in campo, ma il team Fondazione Theatre Club è sempre lì a tenere la barra dritta. ◼
Fare lentamente
qualcosa di necessario
I
di Cristina Palumbo
l 10 dicembre scorso il comparto delle arti sceniche
cresciuto all’interno della Fondazione di Venezia (anche
grazie all’impegno e alla convinzione della sua società
strumentale Euterpe Venezia), ha visto ben due progettualità – «Giovani a Teatro» e «Pedagogia della scena» – riconosciute dal massimo premio italiano, l’Ubu inventato da
Franco Quadri e continuato ora dall’Associazione a lui intitolata, che – tramite i propri cinquantaquattro referendari –
ha premiato con trentasei voti Eresia della Felicità a Venezia, il
percorso pedagogico realizzato all’interno di gat per cinque
mesi da Marco Martinelli tra Venezia, Asseggiano e Marghera, in uno splendido affresco teatrale scritto e interpretato da
sessanta adolescenti. Sul fronte di «Pedagogia della scena» un
altro Ubu speciale è andato poi ad Anatolij Vasil’ev, il grande
maestro che ha diretto per tre anni il corso di formazione per
formatori, ideato coraggiosamente da Maurizio Schmidt per
rispondere alla cruciale domanda: cosa si può fare per contribuire alla qualificazione del teatro in Italia?
Questi importanti riconoscimenti nazionali – uniti al Premio speciale della Critica 2011, conferito in febbraio a gat
dall’Associazione nazionale Critici teatrali – oltre che rendermi orgogliosa, mi hanno spinta a riallacciare i fili di dieci anni
di impegno sul versante delle performing arts.
Quello reso possibile in questo lungo periodo dalla Fondazione di Venezia è stato un viaggio che ha sviluppato e reinventato «Giovani a Teatro», l’iniziale format di incentivo economico a frequentare i teatri in città, trasformandolo in piattaforma di progetti culturali ed educativi rivolti alla sensibilizzazione dei cittadini under 30 del territorio veneziano verso le
forme d’arte dal vivo. Altro obiettivo prioritario è stato quello
di offrire opportunità di contatto concreto attraverso percorsi
di permanenza artistico-creativa condivisi tra artisti e ragazzi,
studiosi e docenti. Con il «Teatro in tasca» l’offerta di 6000
posti per singola stagione ha di fatto creato una comunicazione di rete della qualità delle diverse sale e rassegne di teatro musica e danza dell’intero territorio, dando vita a un unico «cartellone» in progress che, attraverso il web e i social network,
informa segnala valorizza. La piattaforma gat resta un prodotto-processo di formazione culturale unico in Italia, che ha
nel tempo investito anche sui soggetti media tra ragazzi e adulti, gli insegnanti e gli educatori, permettendo loro di accedere all’offerta teatrale con le stesse facilitazioni riservate ai giovani. È della scorsa edizione poi l’introduzione della Tandem
Card, destinata a quegli adulti – genitori, parenti o amici – che
cercano di condividere l’esperienza del teatro con un minore.
Per quattro anni la piattaforma è stata il frutto del lavoro
competente di un formidabile gruppo di operatori anche giovani, che ho coordinato con entusiasmo, e con i quali abbiamo
congegnato progettualità in molti ambiti delle arti sceniche,
dalla drammaturgia alla danza, dalla musica contemporanea
alla scrittura critica, chiamando a Venezia e provincia artisti
del calibro di César Brie, Juan Mayorga, Armando Punzo, Babilonia Teatri, Mariangela Gualtieri e Vitaliano Trevisan, per
citarne solo alcuni.
Alla vigilia della pausa natalizia abbiamo già circa tremila
iscritti a gat, e i posti a loro assegnati vanno sempre esauriti, ma i teatri mostrano comunque molte sedie vuote, e questo deve far pensare. Come possono ragazzi e giovani conoscere la meraviglia dello spettacolo d’arte dal vivo se non si lavora
all’accompagnamento, all’inclusione, al contatto tra la loro vita e la chimica dei processi creativi? A partire dalla formazione
delle loro capacità percettive, che tra fiction pixel e azione dal
vivo già molto spesso si confondono. Ritengo che, pur in
epoche di crisi, e al di là dei personalismi, quanto è stato costruito grazie allo sforzo della Fondazione di Venezia e di tutti coloro che ci hanno variamente lavorato – dai dirigenti ai consulenti ai dipendenti – non
possa essere cancellato, pena il ritorno all’analfabetismo scenico da cui siamo partiti. Credo sia anzi
fondamentale, soprattutto in un contesto generale così complicato, investire tutto il possibile in
istruzione, educazione, pedagogia, inclusione
di qualità. Cioè, come mi ha detto una volta
Vasil’ev, «fare lentamente qualcosa di veramente necessario». Continuare a farlo. ◼
Anatolij Vasil’ev.
prosa - commenti
Una vita da mediano
57
cinema
58
Un documentario
su Wagner e Venezia
V
di Gianni Di Capua
enezia, palazzo Malipiero-Barnabò, 17
dicembre scorso. Si allestisce il set per la ripresa
della Sonata op.121 di Robert Schumann. La signora Barnabò, la nostra ospite, consente di girare la scena nel grande salone della propria abitazione, consapevole di potere così restituire alla memoria della città una
pagina ancora nascosta della sua cospicua storia musidella sinfonia ritrovata
cale. La scena, pur Wagner, diario
Un documentario
essendo collocata a
diretto da Gianni Di Capua
metà della scenegProduzione Kublai film
giatura, chiude cinin associazione con Tunastudio
que settimane di riin uscita a febbraio
prese del documentario Richard Wagner, diario veneziano della sinfonia ritrovata. La sinfonia del titolo è un lavoro giovanile di cui Wagner era inaspettatamente tornato in possesso, dopo che alcune parti strumentali erano state rinvenute in una soffitta di
Dresda e ricomposte in una nuova partitura da Anton Seidl,
al tempo fidato e stretto collaboratore del Maestro. Della sua
esecuzione veneziana, Wagner ne fornisce un dettagliato resoconto pubblicato nel gennaio del 1883: «La sera della scorsa vigilia di Natale ho festeggiato con la famiglia, qui a Venezia, l’anniversario della prima esecuzione, avvenuta esattamente cinquant’anni fa, di una sinfonia composta di mio pugno nel mio diciannovesimo anno di vita, facendola eseguire per il compleanno di mia moglie all’orchestra dei professori e degli allievi del locale Liceo San Marcello sotto la mia
direzione». Per l’allestimento della sinfonia, Wagner aveva incaricato la figliastra Daniela Von Bulow di interloquire con Raffaele Frontali, un giovane professore di violino del
Liceo Musicale: «Signore, vogliate avere la bontà di fare copiare la musica che vi ho inviato (…). ecco l’orchestra di cui
mio padre avrebbe bisogno». Qualche giorno dopo Daniela scrive ancora a Frontali: «Signore, mio padre desidererebbe ascoltare qualche strumento separatamente e vi domanda di indicargli l’ora in cui domani o dopo domani, potrebbe venire al Liceo».Wagner invece scriveva ad Anton Seidl:
«Venga il più presto possibile da me. Deve nuovamente aiutarmi: il 25 dicembre voglio fare eseguire alla mia Signora la
mia sinfonia di cinquant’anni fa; mi hanno promesso di allestire un’orchestra accettabile, formata degli allievi del locale
conservatorio». Seidl, tuttavia, non potrà assecondare l’invito del Maestro.
A Palazzo Malipiero-Barnabò i preparativi della ripresa video proseguono con il posizionamento su rotaia di un lungo
braccio mobile alla cui estremità viene collocata la cinepresa.
Il movimento della ripresa sarà un unico e articolato piano
sequenza lungo quanto la durata del quarto movimento della Sonata op. 121.
Palazzo Malipiero, all’epoca dei nostri fatti, era la dimora
della principessa Hatzfeld, madre di Marie Von Schleinizt,
intima amica e confidente di Cosima Wagner. La sua presenza in Laguna s’inquadra in un periodo in cui a Venezia risiedevano importanti esponenti dell’aristocrazia e dell’imprenditoria europea. Nei loro palazzi fiorivano i «salotti» che
presto diventano il punto di riferimento per i connazionali
residenti in città, luoghi d’incontro e occasioni di eccellenti accademie musicale di cui Raffaele Frontali è la contesa ve-
dette. Il salotto di Malipiero ha luogo il giovedì e Ada
Pinelli, la dama di compagnia della principessa, ne
è la brillante animatrice. È
lei che, approfittando della presenza di Franz Liszt
a Venezia, scrive a Frontali:
«Caro e illustris.mo Professore! Che bella festa avremo Giovedì sera! Che magnifica accademia! Stradivarius e Liszt. Dunque: Orfeo = Liszt vi accompagnerà lui-stesso, ha scelto dal
vostro quaderno di musica
tre brani. Il Maestro vi attende alle 8 1/2; gli ho molto parlato del vostro violino
incantatore ed è impaziente di farne ampia conoscenza». Uno dei brani prescelti
da Liszt è la Sonata op.121
di Schumann. Poi, nella
stessa lettera Ada aggiunge:
«la Principessa spera anche
di vedervi domenica, 10 del
mese, quando reciteremo
una piccola commedia del
nostro immortale Goethe.
M.lle Daniela ed io vi racconteremo il contenuto del
dramma affinché possiate
seguirla, poiché è in tedesco. Mille amabili messaggi da Ada Pinelli, nata B.ssa
de Treskow». A quella serata del 10 dicembre interverrà anche Richard Wagner
con Cosima. Il giorno dopo Frontali assieme al fondatore e presidente del Liceo Musicale conte Giuseppe Contin invitati da Wagner, si recano a Ca’ Vendramin. Il 12 sarà Wagner
a ricambiare la visita recandosi al Liceo Musicale. Il 14
l’orchestra viene convocata
nella più grande delle sale
Apollinee per l’audizione.
Il 15 hanno inizio le prove e infine il concerto, il 25
dicembre.
Palazzo Malipiero-Barnabò. 17 dicembre, fuori si
è fatto buio. Dalla riva opposta del canale si scorgono
alcune luminarie natalizie
che si specchiano sulle acque mosse dal passaggio dei
vaporetti. Il set per la ripresa
è pronto. Igor Cognolato al
pianoforte e Ivan Rabaglia
al Guadagnini sono in posizione. S’impone il silenzio.
Motore! Ciak! Azione! ◼
L
di Ilaria Pellanda
a Fondazione Giorgio Cini entra in questo neonato 2013 con un programma di iniziative culturali articolate in un susseguirsi di mostre, convegni,
giornate di studio e seminari.
Sul versante espositivo, proseguono le attività che fanno
capo al progetto «Le Stanze del Vetro» (cfr. vmed n. 47,
p. 63), disegno pluriennale volto allo studio e alla valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento, nato dalla
collaborazione tra Fondazione Cini e Pentagram Stiftung, e
inaugurato lo scorso anno con la mostra «Carlo Scarpa. Venini 1932–1947» (prorogata fino al 6 gennaio).
In aprile verrà inaugurata «Fragile?», esposizione a cura
di Mario Codognato che tratterà l’utilizzo del vetro nelle arti visive del secolo scorso e di quello appena iniziato, proponendo, fra gli altri, i lavori di Michelangelo Pistoletto, Mario
Merz, Gerhard Richter, Ai Weiwei, Rachel Whiteread, Yayoi Kusama. Sul finire della prossima estate, nel mese di settembre, è invece in programma una mostra monografica curata da Marino Barovier e dedicata alle creazioni di Napoleone Martinuzzi – tra gli artisti prediletti da Gabriele D’Annunzio – per la vetreria Venini.
Accanto alle iniziative che fanno capo alle «Stanze del Vetro», l’isola di San Giorgio Maggiore ospiterà altri due allestimenti, che prenderanno vita in concomitanza con la lv
Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia
(dall’1 giugno al 24 novembre 2013): il primo racconterà una
selezione antologica di sculture, dipinti, disegni e altri oggetti d’arte di Marc Quinn, uno dei più noti e longevi esponenti della cosiddetta generazione degli Young British Artists; il
secondo, dal titolo «Le mythe d’Arachnée. Figures de la modernité et de la postmodernité» – realizzato dalla Fondazione Cini in collaborazione con il Mobilier National de France, con la curatela di Françoise Ducros –, proporrà una serie
di arazzi prodotti dalle manifatture nazionali francesi su disegno di artisti – quali, tra gli altri, Picasso, Braque e Mirò –
Gli spazi espositivi delle «Stanze del Vetro»
(foto di Fabio Zanta).
dalla seconda metà dell’Ottocento ai nostri giorni.
Per quel che concerne il versante della ricerca, la Cini andrà a consolidare la propria reputazione scientifica attraverso l’organizzazione di convegni, giornate di studio e seminari, come si accennava all’inizio di questo articolo. Tra tali iniziative ricordiamo il xviii seminario internazionale di
etnomusicologia dal titolo «Prospettive di una musicologia comparata nel xxi secolo: etnomusicologia o musicologia transculturale?» – organizzato dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati (iismc) dal 24 al 26 gennaio –, nel quale si rifletterà sull’opportunità e sulle modalità con cui liberare l’etnomusicologia dal peso dei suoi miti
di fondazione e affrancarla da un ritardo nei canoni ideologici della rivoluzione antropologica compiutasi nel secolo oramai trascorso, ampiamente superati dalla realtà attuale, ferma restando la possibilità di uno studio storico delle diverse
culture musicali. Di tali questioni saranno invitati a discutere Timothy Rice (ucla University), il filosofo Wolfgang
Welsch, Svanibor Pettan (Ljubljana University), Lars Christian Kock (Berliner Phonogramm-Archiv), Giorgio Battistelli (compositore).
Dal 22 al 24 marzo, con il convegno internazionale «L’ascolto musicale nell’epoca della riproducibilità tecnica», l’I-
stituto per la Musica diretto da Gianmario Borio inaugurerà le proprie attività, che nel corso dell’anno vedranno una
serie di manifestazioni dedicate alla memoria di Giovanni
Morelli. Negli stessi giorni aprirà i battenti una mostra di alcune delle fonti più interessanti tra quelle conservate dall’Istituto veneziano. Sono previsti inoltre tre momenti musicali: un concerto dell’Ex Novo Ensemble, l’inaugurazione di
una scultura sonora en plain air di Mario Bertoncini (Vele,
la cui prima versione fu installata nell’atrio della Nationalgalerie di Berlino nel 1973) e l’esecuzione di An Index of Metals di Fausto Romitelli.
Dal 15 al 20 aprile, sempre sull’isola veneziana, si terrà la
seconda edizione dei seminari di musica ottomana Bîrûn.
Il 7 e l’8 maggio si svolgerà tra Padova e Venezia un convegno internazionale di studi dedicato a Vittore Branca.
E poi ancora: il seminario di musica antica «Egida Sartori e Laura Alvini» a cura di Pedro Memelsdorff, il convegno
internazionale «Il linguaggio di Roncalli: diplomazia, teologia, spiritualità», e quello dedicato alle opere di Giuseppe
Verdi nel bicentenario della nascita, nel quale interverranno
anche Emilio Sala, Robert Carsen, Mario Martone, Damiano Michieletto e Francesco Micheli. ◼
arte
Il 2013
della Fondazione
Giorgio Cini
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in vetrina
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Presentato
il Nono Rapporto sulla
Produzione Culturale
L
di Manuela Bertoldo
a nona edizione del Rapporto individua nella sezione monitor come sua caratteristica peculiare la
dimensione e la consistenza della produzione culturale a Venezia. Nel 2011 l’offerta si è articolata in
2.503 eventi culturali, estesi in 27.176 giornate evento, per
un totale di 225 organizzatori e 275 luoghi deputati a ospitare le varie iniziative.
I Rapporti costruiti attraverso il data base del sito Agenda
Venezia1, che presenta quotidianamente gli eventi temporanei che si svolgono in città e in alcuni luoghi significativi della provincia di Venezia, hanno permesso negli anni di fotografare e analizzare la consistenza e le caratteristiche di questa ricca e vivace offerta culturale.
I dati elaborati da Agenda Venezia nel 2011 registrano,
anche per quest’anno, un significativo aumento delle manifestazioni culturali, quantità che si esprime in prevalenza nel settore arti visive, mentre musica e conferenze e convegni, mantenendo comunque il primato, denotano una leggera flessione. A tal proposito l’ambito delle arti visive richiede, in quest’occasione, una particolare considerazione poiché, come si osserva anche a livello internazionale, a oggi la
produzione culturale si esplica per lo più in un gran numero di mostre ed esposizioni, disseminate in sedi istituzionali o private del centro storico, o in nuovi luoghi periferici recuperati al degrado o semplicemente al disuso, a cui associazioni no profit e fondazioni restituiscono, con eventi spesso
di breve durata, un’identità pubblica.
La rete della produzione culturale si estende e si infittisce e
il processo di collaborazione tra gli organizzatori sembra avviare processi di stabilizzazione e di esperienze nelle quali
più professionalità possano riconoscersi ed esprimersi e concorrere al contempo alla valorizzazione di un capitale culturale nel quale convivono non solo eccellenze storiche ma anche realtà dinamiche e innovative.
Nel 2011 si è svolta la liv Esposizione Internazionale d’Arte, che ha concentrato nella tipologia arti visive 370 esposizioni per un totale di 24.044 giornate evento, pari al 14,8%
degli eventi e l’88,5% delle giornate. Le altre tipologie censite e archiviate dal sito Agenda Venezia sono così distribuite: Musica 18%, Teatro e Danza 12,1%, Rassegne Cinematografiche 12,9% e Conferenze e Convegni 38,6% .
Un’analisi per settore
Arti Visive - Nel 2011 il settore arti visive conta 370 eventi
organizzati, per i quali sono stati coinvolti complessivamente
445 organizzatori. Ovviamente la presenza dell’Esposizione Internazionale d’Arte moltiplica soggetti e luoghi coinvolti. Si confermano per numero di iniziative legate al settore arti visive oltre alla Biennale, la Fondazione Musei Civici,
lo iuav con mostre di architettura e fotografia, il Colleggio
Armeno Moorat Raphael, la Fondazione Bevilaqua La Masa, la Galleria a+a mentre a Mestre il Centro Culturale Candiani e la libreria Feltrinelli ospitano numerose esposizioni
temporanee anche se di brevi periodi. Moltissimi i luoghi sede degli eventi (Tabella 9 e Tabella 10).
Musica - Il settore della musica ha coinvolto 540 soggetti
sia pubblici che privati, che insieme hanno organizzato 451
concerti. Tra i più attivi organizzatori di spettacoli musicali si confermano in centro storico: l’Associazione Italo Tedesca, il Teatro La Fenice con la tradizionale programmazione,
la Fondazione Musei Civici con i concerti di Ca’ Rezzonico, Palazzetto Bru Zane con un intenso programma di musica classica e barocca, ma anche il Conservatorio «Benedetto Marcello». Numerose le associazioni culturali che organizzano concerti di musica classica, moderna e jazz, tra i più
attivi l’Associazione musicale Dino Ciani, l’archivio Musicale Fano e il Circolo Culturale Caligola. Tra i luoghi, i teatri, alcune chiese e inoltre il Conservatorio, Palazzo Albrizzi e Ca’ Rezzonico.
Teatro e Danza - Nel settore del teatro l’area Produzioni
Culturali e Spettacolo del Comune di Venezia risulta il primo organizzatore anche in partnership con il Circuito Regionale Teatrale. Nel 2011 nel Comune di Venezia si contano complessivamente 303 spettacoli di teatro e danza, organizzati o prodotti in collaborazione da 388 soggetti. Ovviamente tra i più attivi il Teatro di Ca’ Foscari, il Teatro Stabile
del Veneto, il Teatro l’Avogaria e il Teatro Fondamenta Nuove in centro storico e le associazioni culturali teatrali della
Terraferma. In Terraferma il Teatro Toniolo e l’Aurora sono
i luoghi dove si svolgono il maggior numero di spettacoli teatrali, mentre in centro storico sono: il Teatro Fondamenta
Nuove, il Goldoni e il Teatrino di Ca’ Foscari.
Rassegne Cinematografiche - Le rassegne cinematografiche rappresentano un settore molto importante. Nonostante la ridotta presenza di sale cinematografiche, questo settore occupa il quarto posto per numero di eventi organizzati sul totale di tutti gli eventi (12,9%). Primo fra tutti i
promotori si conferma il Circuito Cinema, che da anni articola la sua offerta culturale con rassegne tematiche che vanno oltre il singolo film, promuovendo circa il 70% di tutte le
proiezioni. Da segnalare l’offerta di film organizzata dalle
Il profilo dei cittadini «virtuali» di Agenda Venezia
Agenda Venezia si è posta, fin dalla sua nascita, come un sito multi target, indirizzato contemporaneamente ai cittadini
residenti, agli operatori culturali, ai city user, ai turisti e agli
stessi promotori di eventi culturali. Un luogo di informazione esperto, punto di incontro per quanti vogliano conoscere le opportunità e le proposte offerte da una città che intende essere un riferimento per la cultura internazionale, ambito di confronto tra gli operatori e i promotori di eventi. Un
progetto che non voleva e non vuole essere solo un punto informativo ma un vero e proprio strumento operativo: un’agenda di condivisione e programmazione.
A dieci anni di distanza è oggi possibile, attraverso i dati derivanti dal sito di Agenda Venezia, ricostruire un profilo, digitale, forse un po’ «asettico» ma sicuramente veritiero del
cittadino virtuale di www.agendavenezia.org.
Gli accessi al sito riferiti al 2012 raggiungono quasi i 9 milioni di contatti, pari a una media mensile di 740 mila accessi
e una media giornaliera di oltre 24 mila. I collegamenti sono
stati effettuati da circa 700 mila visitatori unici, che significa che ogni utente si è collegato circa 13 volte in un anno per
cercare informazioni e notizie. Agenda Venezia si caratterizza come un sito con una presenza alta di utenti fidelizzati,
che lo conoscono e lo consultano più volte.
Riguardo alla provenienza geografica, emerge una netta
maggioranza di visitatori residenti in Italia, ma una quota
consistente proviene anche dall’Europa (7,1%), mentre i visitatori che accedono dagli Stati Uniti sono solo l’1,5%. Tra
i fruitori europei al primo posto si trovano i francesi, pari al
16,3%, da sempre assidui frequentatori dell’offerta culturale
veneziana e di Agenda Venezia, anche se questa è editata solo in italiano e inglese; a questi seguono i tedeschi (12,3%);
un quarto degli accessi europei comprende svizzeri, inglesi e
spagnoli; seguono austriaci (5,3%), olandesi e belgi.
Il 53,2% dei visitatori italiani risiede nel Nordest, un’area che si caratterizza anche per la sua integrazione e per gli
scambi culturali (vedi la candidatura di Venezia e del Nordest a capitale europea della cultura del 2019), oltre che per
la forte e consolidata presenza di relazioni, interessi economici, connessioni. L’altra metà dei visitatori italiani è distribuita tra Nordovest e il resto d’Italia, rispettivamente 22,5%
e 24,3%. ◼
1. Il sito www.agendavenezia.org, è prodotto dalla Fondazione di Venezia,
l'ideazione e redazione è della società Sistema snc di Venezia. AgendaVenezia.org,
configurata come una vera e propria agenda, consente di rintracciare gli eventi
suddivisi per settore di interesse, data, orari, modalità di accesso. Fornisce inoltre
il link per collegarsi con i promotori dei singoli eventi e la mappa per rintracciare i
luoghi delle manifestazioni.
in vetrina
Università e i film in lingua proposti da Alliance Française.
I luoghi delle proiezioni sono il Centro Culturale Candiani
a Mestre e, in centro storico, la Sala Pasinetti, l’Auditorium
Santa Margherita e il Teatro ai Frari.
Conferenze e Convegni - Il settore delle conferenze e
convegni continua a essere il più attivo nel panorama culturale veneziano: nel 2011 si sono organizzati 966 incontri e seminari, pari al 38,6% di tutti gli eventi che si svolgono a Venezia. Si tratta di un settore molto eterogeneo, che si articola
in incontri e convegni di carattere locale, nazionale e internazionale Tra i maggiori organizzatori di convegni e conferenze: le Università, l’Ateneo Veneto, il Telecom Italia Future Centre a Venezia e la libreria Feltrinelli a Mestre. Sono
moltissimi i luoghi dove si svolgono gli incontri distribuiti
nelle sedi universitarie, nelle fondazioni e palazzi del centro
storico; in Terraferma le conferenze si svolgono prevalentemente presso il Centro Culturale Candiani.
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in vetrina
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La Fondazione Levi
compie 50 anni
L
di Giorgio Busetto*
a Fondazione Ugo e Olga Levi per gli studi musicali è una onlus veneziana giunta ormai al mezzo
secolo di vita, nota in tutto il mondo fra i musicologi per la propria attività di ricerca ed editoriale e per
pochi concerti, sempre di alta caratura filologica, il più noto
dei quali da dieci anni vien dato il giorno delle Ceneri, anche
quale contributo al prolungamento dell’offerta culturale cittadina dopo il Carnevale. Scelta di campo necessaria, al di là
delle aspirazioni generose dei fondatori, per la modestia dei
mezzi finanziari a disposizione, data la grande differenza di
costo esistente fra ricerca musicologica ed esecuzione musicale. Senza togliere che proprio l’adesione a speciali ragioni
della musica consente poi di ritrovare occasioni in connessione stretta con tali itinerari, capaci di generare a loro volta ricerca musicale, in particolare in direzione della formazione
dei repertori e delle prassi esecutive.
Va notato che in ragione della propria organizzazione e capacità realizzativa la Fondazione utilizza al meglio i contributi finanziari che riesce a reperire, facendone un valore aggiunto che consente ogni volta l’acquisizione di risultati significativi sotto il profilo del rapporto costo/beneficio.
Giulio Cattin, decano della musicologia italiana e tuttora
presidente onorario della Fondazione Levi, dopo esser stato la guida scientifica dell’istituto dal 1988 al 2006, ha proposto e ottenuto la successione nel proprio ruolo di Antonio Lovato, anch’egli incardinato nell’Università di Padova.
Così, negli ultimi anni, si è potuto assistere al progressivo dilatarsi delle attività, con convegni e seminari, ricerche individuali e gruppi di lavoro internazionali, pubblicazioni e presentazioni di libri e dischi, creazione di basi di dati e iniziative di divulgazione, corsi universitari e corsi musicali (in particolare di canto gregoriano), premi e borse di studio, mostre
e concerti, trasmissioni televisive e frequente disseminazione delle attività in ambito veneto e oltre, compresi vari Paesi
esteri, con un raggio d’azione che spazia dal medioevo al contemporaneo, privilegiando linee di lavoro come la policoralità, la musica per film, l’organologia, l’iconografia, la catalografia, l’etnomusicologia.
Parallelamente con Davide Croff, presidente dal 2003, si è
venuta svolgendo un’importante attività amministrativa, il
cui più evidente risultato, oltre alla intensificazione delle iniziative scientifiche e culturali, è certamente il restauro di Palazzo Giustinian Lolin sul Canal Grande, opera giovanile di
Baldassarre Longhena, acquistato dal nonno paterno di Ugo
nel 1877, in occasione delle nozze del figlio Angelo, restaurato da Guido Sullam nel 1912 per le nozze di Ugo, che vi era
nato nel 1878 e vi morì nel 1971, con la bella e colta triestina
Olga Brunner (1885-1961), lei pure appartenente ad una dinastia di finanzieri ebrei.
Ecco dunque il segno più forte di una storia che affonda le
proprie radici nel secondo Ottocento, allorché l’altro nonno
di Ugo, Giacomo Levi, aveva iniziato a costituire una biblioteca musicale, che Ugo ereditò, arricchì e curò per tutta la vita, facendone una entità ragguardevole per numero di opere e per pregio speciale di alcuni cimeli bibliografici. I coniugi Levi non ebbero figli. Appassionati cultori di musica, il loro salotto si apriva almeno una volta alla settimana ad iniziative musicali. Ricco erede di una banca d’affari familiare, generosissimo di carattere, Ugo sosteneva molteplici iniziative musicali, partecipandovi a volte direttamente come pianista o con incarichi amministrativi o onorari. Suonava an-
che a quattro mani con la moglie, oppure la accompagnava
al pianoforte nel canto. Era noto per la capacità di esecuzione a prima lettura, sicché la sua casa signorile ed accogliente
si riempiva spesso anche dopo i concerti, e si animava di discussioni e improvvisazioni, facendosi punto di riferimento per progetti importanti, come ad esempio quello di trasformare il Liceo musicale «Benedetto Marcello» in Accademia di musica, o quello di creare una società di sostenitori
atta a consentire la rinascita e il rilancio della Fenice, a quello di creare l’Autunno Musicale e poi di inserirlo tra le attività della Biennale.
Negli ultimi anni della loro vita i coniugi decisero di mantenere oltre la loro esistenza in vita la biblioteca e le attività
musicali che tanto amavano, destinando per testamento i loro beni alla creazione di una fondazione per gli studi musicali. Olga fu grande sostenitrice dell’iniziativa, proteggendola
con fermezza dai parenti e possibili eredi che ne osteggiavano
la nascita. Inaspettatamente lei morì prima di Ugo, e toccò
dunque a lui organizzare la Fondazione, il cui statuto fu rogato il 14 febbraio 1962, e vederne muovere i primi passi, con
attività sulla biblioteca e borse di studio. Persa però l’attenta protettrice, mite e ormai vecchissimo, Ugo, circonvenuto, non seppe sottrarsi a rapaci richieste, sicché, ormai ultranovantenne, fu interdetto
e le iniziative della Fondazione, di cui era presidente
a vita, si interruppero.
Dopo la sua morte la Fondazione, presieduta dal sindaco Giorgio Longo, conobbe un lungo periodo
dedicato a laboriosi adempimenti amministrativi e
di ristrutturazione del patrimonio. Significativo fu
nel 1975 l’acquisto di quattro grandi tele di Jean Raoux, dipinte nei primi anni del Settecento per Palazzo Giustinian Lolin, divenuto sede della Fondazione. A questa data può dirsi concluso il lavoro di impianto e avviata una nuova fase, con la presidenza
di Giancarlo Tomasin, dal
1975 al 1984.
Gianni Milner (19262005), figlio del legale dei Levi e avvocato egli stesso, assistette col padre e col notaio Gino Voltolina i coniugi Levi per
l’elaborazione dell’idea della Fondazione. Fu scelto da Olga
come esecutore testamentario per la delicata questione delle
lettere d’amore che le aveva inviato D’Annunzio, soprattutto dal 1916 al 1918. Assistette successivamente a tutte le attività della Fondazione, sin dal suo sorgere, entrando poi a far
parte del Consiglio di Amministrazione dal 1971, vicepresidente dal 1978, presidente dal 1984 al 2003, quindi presidente onorario sino alla morte.
Nel 1976, sulla base di un’ampia e articolata proposta di
Milner, il Consiglio discusse lungamente sul ruolo della
Fondazione. Sono anni fervidi di grandi entusiasmi collettivi, sull’onda del rinnovamento postulato dai movimenti del
’68 e sancito dalle elezioni amministrative del 1975 che a Venezia vedono insediarsi una giunta di sinistra. Nel 1977, richiesto di proposte operative, si affaccia sulla scena dell’istiUgo Levi.
Olga Brunner Levi.
al 1987, pubblicando ogni anno anche un Supplemento monografico, primo dei quali i preziosi Indici della rivista Note
d’archivio per la storia musicale 1924-1943, con una premessa del Mischiati.
Frattanto nel 1984 Tomasin lasciava la presidenza, pur rimanendo nel Consiglio di Amministrazione. Milner divenne presidente e Musu vicepresidente. Si entrò così in una
nuova fase della vita della Fondazione, con la nomina di un
direttore, Angelo Montanaro, che aveva seguito le attività della Levi sin dall’inizio in quanto assistente del sindaco Longo, e di un comitato scientifico, con Giovanni Morelli, Ugo Amendola e Italo Gomez.
Il 1985 è caratterizzato dall’importante convegno internazionale su restauro e riuso degli strumenti musicali antichi che qualifica la Fondazione nel mondo musicologico e in
quello musicale, grazie ad un argomento appartenente a entrambi gli ambiti, quasi sanzione in corpore vili dell’unità
degli studi a dispetto delle divisioni degli studiosi.
Nel 1986 compaiono due volumi assai significativi delle attività in corso in quegli anni. Uno è La maschera e la favola
nell’opera italiana del primo Novecento di Virgilio Bernardoni, che è la pubblicazione premiale del concorso fra le tesi di laurea in musicologia, all’epoca molto importante per
aiutare la disciplina ad affermarsi in ambito universitario. Il
secondo è il risultato di una prima fase dell’imponente lavoro di riordino della biblioteca affrontato da Franco Rossi, La
Fondazione Levi di Venezia. Catalogo del fondo musicale: lavoro che conduce all’apertura al pubblico della biblioteca riallestita nel secondo piano del palazzo sede nel 1985.
Rossi, con l’aiuto di Francesco Passadore, coordina anche
la pubblicazione di numerosi cataloghi di fondi musicali antichi veneti, che escono progressivamente facendo della Levi,
con l’importante contributo finanziario della Regione, un
punto di riferimento capitale della catalogazione musicale.
Questo lavoro prosegue nell’ambito della conduzione scientifica di Antonio Lovato, assunta a partire dal 2006, integrandosi anche con appositi seminari su tematiche di catalogazione, con la collaborazione della Regione Veneto, dell’Associazione Italiana Biblioteche e dell’Istituto centrale per il
Catalogo Unico.
Nel 1988 fu riformato il Comitato scientifico, con l’introduzione della figura del Presidente, cui venne affidata la responsabilità culturale della Fondazione. Fu nominato Giulio Cattin, che iniziò una importante opera di recupero della musica sacra soprattutto marciana, impostò una assai lunga serie di seminari e convegni e diede corpo a monumentali pubblicazioni, proprie, come il capitale Musica e liturgia a
San Marco, e di altri, come Itinerari e stratificazioni dei tropi, che vide la luce dopo incontri seminariali, studi e ricerche
durati nell’insieme diciassette anni.
Cattin rappresenta l’elemento di svolta nell’attività della
Fondazione Levi, saldando felicemente la propria attività di
studioso con quella di amministratore di Milner, che ebbe a
definirlo addirittura «colui che riuscì a realizzare in un originale progetto organico il desiderio dei fondatori; è stato
cioè l’inventore della Fondazione Levi quale è oggi e a lui va
il merito del prestigio che la Fondazione gode in Italia e all’estero». Alle ricerche Cattin accompagna una rigorosa attività seminariale cui farà da supporto dal 1993 la rivista «Musica e Storia», in cui son fissati col primo annuale del 1993
in una paginetta di editoriale secca secca i principi metodologici di un più avvertito fare storia, con un’apertura interdisciplinare che «intende appunto tematizzare i nessi che legano alla storia la musica e viceversa». Cattin chiama accanto a se Lorenzo Bianconi, F. Alberto Gallo e Morelli alla direzione del periodico, che diviene semestrale dal 1998 e quadrimestrale dal 2003, onorando sempre la mole di circa
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tuto un ancor giovane musicologo, Giovanni Morelli (19422011), peraltro studioso già affermato e destinato a divenire uno dei più qualificati protagonisti della vita musicale veneziana e a seguire anch’egli per tutta la vita le attività della Fondazione con incarichi diversi, con indicazioni sempre
acute e motivate cui seguiva il personale lavoro per l’individuazione delle singole attività, per l’aiuto alla loro conduzione, sempre collaborativo coi presidenti del Comitato Scientifico, prima Giulio Cattin poi Antonio Lovato.
Ferve dunque la vita della Fondazione, con passi e passaggi
amministrativi e iniziative culturali, in evidente processo di
crescita, di stabilizzazione organizzativa, di più determinati
disegni e più ampi orizzonti.
Così nel 1978 si lancia un concorso per la composizione
pianistica, si approva un regolamento e si nomina un Comitato Direttivo; nel 1979 Pietro Verardo viene incaricato
del settore Biblioteca e didattica e Francesco Luisi del settore Editoria; si decide inoltre di creare un laboratorio fotografico, in relazione a grandi campagne di ripresa di manoscritti e stampe antiche, avviate su suggerimento di Morelli e che
finiranno per dotare la Fondazione di oltre un milione di riprese di fogli musicali. Una dotazione che colpirà la fantasia
di un musicista romanziere, Igal Shamir, che nel suo thriller
Il violino di Hitler (2008)
ambienta in immaginari
sotterranei della Fondazione, adibiti alla conservazione in microfilm, una delle
sue più rocambolesche scene d’azione. Nel 1980 fu
presentato il progetto di
restauro di Palazzo Giustinian Lolin, redatto dagli ingegneri Gianfranco
Geron e Walter Gobbetto, chiamati a realizzarvi
tra l’altro una moderna foresteria per gli studiosi; fu
acquistato un impianto di
fotocomposizione, con l’idea di sviluppare un’attività editoriale anche in conto terzi; fu predisposto un
programma di pubblicazioni di libri; e fu avviata la
microfilmatura del Fondo
Torrefranca del Conservatorio «Benedetto Marcello». La collaborazione col Conservatorio si allargava in quegli anni ad iniziative editoriali, che vennero poi progressivamente sviluppandosi pur tra diverse difficoltà gestionali.
Nel 1982 Ignazio Musu, economista di Ca’ Foscari allora presidente del Conservatorio, entrò in Consiglio per rimanervi quasi ininterrottamente sino al 2003: una presenza
che, unita a quelle di Tomasin e Milner, dette molta stabilità
agli organi di governo della Fondazione, superando la difficoltà derivante dalla rotazione delle cariche pubbliche da cui
dipende la composizione del Consiglio di Amministrazione.
Nel 1983 si dovette prender atto della realtà e rinunciare
all’idea di far da casa editrice per gli istituti culturali, senza
per questo interrompere le pubblicazioni, in proprio o presso altri editori, e dando anche corso a una nuova serie della
gloriosa rivista «Note d’archivio per la storia musicale», alla cui direzione Luisi fu affiancato da Alberto Basso, Oscar
Mischiati e Giancarlo Rostirolla: durò per cinque anni, sino
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250 corpose pagine, e anzi estendendosi più volte anche al di
là di numeri monografici in separati volumi supplementari (i
«Quaderni di Musica e Storia»), ma finendo per accumulare gravi ritardi nei tempi dell’uscita.
Nell’équipe del comitato scientifico un ruolo particolare
rivestì Tullia Magrini (1950-2005), fondatrice nel 1996 della rivista on line «Music & Anthropology» e guida degli
studi di antropologia musicale; lavoratrice infaticabile, portò avanti con energia il proprio ambito di lavoro, inducendo anche con l’appoggio di Cattin la Fondazione a sostenere
nell’ateneo patavino l’insegnamento di etnomusicologia affidato a Paola Barzan.
Accanto allo sviluppo che vien dato all’attività di ricerca,
ai seminari, ai convegni, alle pubblicazioni, nel 2003 si avvia anche la fortunata serie dei Concerti per le sacre Ceneri.
Nel 1992 il sottoscritto succedeva a Montanaro nella direzione della Fondazione. Si trattava allora di superare una
condizione di disavanzo strutturale, anche seguendo le indicazioni di Giorgio Brunetti, revisore dei conti. Per portare il bilancio in pareggio fu rigettata l’idea di ridurre le spese
e vennero invece operate progressivamente una serie di operazioni: completamento di alcune attività di restauro per
mettere a reddito degli immobili, con affitti alla Fondazione Guggenheim e all’Università Ca’ Foscari; adeguamento
del palazzo sede alle norme per affittarlo per le mostre collaterali della Biennale o per i padiglioni nazionali privi di sede; dismissione di proprietà non interessanti e del pacchetto
azionario per finanziare gli interventi; accesso a sia pur modesti contributi di legge speciale per Venezia; esternalizzazione della Foresteria con miglioramento del servizio e delle entrate e dimezzamento della pletorica struttura di personale, ampiamente riqualificata. Fu così possibile riassorbire
i disavanzi pregressi e assestare su un diverso livello la parità,
con maggiore sicurezza per le attività scientifiche, culturali, editoriali. Il processo conobbe ulteriore razionalizzazione
con la presidenza Croff (dal 2003), ciò che ha consentito anche nuovi importanti restauri della sede, la cui facciata è stata messa in sicurezza e riportata all’originario splendore nel
2011, su progetto di Celio Fullin e Mario Gemin.
Come detto, nel 2006 Lovato assunse la presidenza del
Comitato scientifico. Allievo di Cattin, intese continuarne e svilupparne le linee di lavoro, adeguandole a più sentite
necessità di divulgazione. Guidata dal binomio Croff-Lovato la Fondazione Levi è apparsa presente e attiva sia in Italia
che all’estero su più fronti. Nel campo dell’attività scientifica, suo tratto distintivo e qualificante, le scelte operative di
continuità delle linee di ricerca prefissate hanno privilegiato
l’ambito interdisciplinare e la dimensione internazionale, la
collaborazione con le istituzioni accademiche e scientifiche
presenti nel territorio, la diffusione dei risultati a vari livelli.
Si sono attivati gruppi di studio internazionali e si sono organizzati convegni in Italia e all’estero. Si sono avviate ricerche di lungo respiro, capaci dove possibile di attrarre risorse
intellettuali, tecniche e finanziarie sia moltiplicando le collaborazioni, sia formulando progetti in funzione della richiesta di contributi pubblici e privati.
Per quanto riguarda l’attività didattica, è stata fatta la scelta prioritaria di sostenere insegnamenti e ricerche relativi
alla musica medievale e rinascimentale e all’etnomusicologia presso l’Università di Padova, per difendere una specifica tradizione di studi creata da Cattin (unica ormai in Italia) e ritenuta coerente con le scelte della Fondazione intese
a supportare un ambito disciplinare penalizzato dalle attuali politiche culturali e garantire la continuità alla trasmissione di specifiche competenze. Si è riguardato alla relazione fra
ricerca e didattica, sia dunque finanziando corsi universitari frontali, del resto sostenuti sin dal 2003, sia varandone di
nuovi a carattere maggiormente seminariale e laboratoriale,
in modo da unire alla musica scritta quella eseguita, vocale e
strumentale, col contatto diretto fra discenti e operatori di
vario ambito, con visite a luoghi e strumenti.
Complemento di tale attività la creazione di una nuova rivista annuale nel 2011, «Musica e Figura», in collaborazione con il Dipartimento dei Beni culturali dell’Università di
Padova, destinata ad accogliere saggi soprattutto di giovani
studiosi. Altro elemento innovativo nel panorama dell’attività editoriale della Fondazione è rappresentato dall’unione ai volumi di ricerca delle registrazioni di esecuzioni delle
musiche che vi sono studiate, per meglio accompagnare la ricezione del lavoro. Dove possibile di tali registrazioni discografiche viene realizzata anche una differente versione commerciale, atta a garantire la maggior diffusione possibile delle risultanze musicali della ricerca musicologica.
Si sono anche moltiplicate le iniziative sul territorio regionale, toccando tutte le province. Inoltre si è definito e applicato un processo che prevede ricerche musicologiche, conseguenti definizioni di repertori e ricerche musicali, specie di
prassi esecutive, esecuzioni, registrazioni audio e video, trasmissioni televisive e web, con la prospettiva di rendere tutto liberamente scaricabile da un database destinato a raccogliere e rendere disponibile tutta la produzione della Fondazione, anche passata, di ogni genere di documento e relativi metadati. Analogamente si procede con le esposizioni, mettendo anche in relazione
le occasioni di studio con
i possessi dei fondi bibliografici e documentari della Fondazione; anche in relazione a ciò si è provveduto al riordino dell’archivio
della Fondazione, affidato
a Martina Buran, e si è dato
avvio all’implementazione
sistematica della biblioteca
e in prospettiva del database: e qui si attendono lavori di ristrutturazione atti a consentire ampliamenti dei locali in uso
e ad accogliere le biblioteche specialistiche di Giulio Cattin,
che ne ha annunciato la donazione, e del compianto Ennio
Simeon.
Nell’insieme lo sguardo sul dipanarsi dei cinquant’anni di
vita della Fondazione e sui prodromi familiari della sua nascita diviene invito ad approfondire la conoscenza della storia otto e novecentesca della città di Venezia. La sua ricchissima cultura dà certezza delle grandi possibilità che con tali tradizioni e risorse essa ha di riqualificare il proprio ruolo
in senso produttivo, in modo da trarre dal valore dell’immagine le linfe finanziarie e ideative per riproporsi con successo
nella competizione globale. La sfida della contemporaneità è
stata raccolta dalla Fondazione Ugo e Olga Levi nella chiave
dell’antico: se il fluire progressivo che pur con naturali difficoltà e incertezze ne ha contrassegnato sin qui lo sviluppo
riuscirà a superare gli ostacoli di contesto di un periodo così
difficile come quello che stiamo attraversando, questo istituto potrà dare un contributo molto importante, in rapporto
alle sue dimensioni contenute, allo sviluppo dei suoi territori di appartenenza, geografici e virtuali. ◼
*Direttore Fondazione Ugo e Olga Levi
Palazzo Giustinian Lolin.
Mario Bortolotto
e le vie della musicologia (5)
T
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini
ra Fase seconda, l’immersione nella Nuova musica, che rese celebre il nome (e lo stile letterario) di
Bortolotto, e la monografia successiva – Dopo una battaglia, il volume sulla musica francese tra
l’ultimo trentennio dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo (esclusi, beninteso, Debussy
e Ravel) – corrono ben ventitré
anni: 1969-1992. Non che nel
frattempo il Nostro sia rimasto
con le mani in mano, anzi: tra
relazioni a congressi, contributi per periodici, testi di presentazione per allestimenti operistici, assistiamo a uno svariare
di epoche e tradizioni musicali. Parte di quel raccolto si trova in Consacrazione della casa:
«Non […] brevi articoli occasionali, ma studi assai estesi, anche
se prendono le mosse da eventi
della vita musicale recente. Forse utopistici programmi di sala,
forse saggi per riviste da happy
few», com’ebbe a scrivere Massimo Mila in una recensione, irresistibile per verve, uscita sulla
«Stampa» del 5 dicembre 1982
(Veleno sull’opera, p. 3).
Ora, Emilio Sala (docente di Drammaturgia musicale alla Statale di Milano, assiduo indagatore – tra le altre cose –
del teatro in e con musica francese del xix sec.), spiega, dati alla mano, quali e quanti legami corrano tra le due monografie concepite intorno a un fuoco unico, con la mediazione
di vari scritti confluiti nella silloge. Dopo una battaglia è innanzitutto un libro tempestivo, pressappoco coevo ai primi
veri e seri tentativi di studiare la musica francese subito prima o subito dopo Sedan. A puro titolo esemplificativo e senza la pretesa di stilare graduatorie (non è detto, insomma, che
si tratti sempre di pubblicazioni imprescindibili), ricordiamo i testi di Manfred Kelkel e Steven Huebner1. E «la trovata del […] libro […] l’assunto, desumibile giù dal […] sottotitolo: […] Origini francesi del Novecento musicale»2 , trova un
suo corrispettivo nella fioritura di ricerche sul cosiddetto neoclassicismo: è dell’88 la versione definitiva, a stampa, della tesi dottorale preparata da Scott Messing3, nel primo capitolo della quale s’incontra qualche accenno al Renouveau
francese e a Saint-Saëns (niente a che vedere, comunque, con
«lo specillo […] non meno puntuto che deciso»4 impugnato da Bortolotto).
Ma vi è dell’altro; ed è Francesco Zambon – filologo romanzo cresciuto alla scuola di Folena, ordinario all’Università di Trento, e nostro esperto maggiore di questioni graaliche5 – con la sua testimonianza sul viaggio in Linguadoca del
19966 e sulle specifiche competenze «iniziatiche», gnostiMario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo).
che vantate da Bortolotto, a svelarcelo. Tutta la sua produzione scientifica tende irresistibilmente a un unico sbocco, l’esame del pensiero e della musica di Wagner7, in cui confluiscono pagine risalenti a epoche diverse e a cui vanno ricondotti i volumi che lo precedono e lo seguono (La serpe in seno, su
Strauss, certo, ma anche gran parte delle Corrispondenze)8.
Per restare a Dopo una battaglia, il nome o le partiture del
compositore tedesco vi s’incontrano di continuo, «ombra
di Banquo della musica francese»; ma il discorso, rovesciato,
vale anche per le panoramiche wagneriane. Penso a vari luoghi della voce «Wagner», l’unica da lui redatta per il Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti diretto
da Alberto Basso (utet, Torino, Le biografie, VIII, 1988, pp.
344-357):
Vi sono intere zone in cui l’interpretazione, in termini di armonia scolastica, si fa incerta, o meglio
polivoca […]. È la decisiva premessa di Wagner a Franck, da un lato,
dall’altro alla sensibilità armonica
dell’Impressionismo. (p. 352)
Ma intanto proprio quell’orchestra [di Wagner] dilaga sulla musica francese, toccando con il Parsifal la stessa orchestra debussiana
(tacendosi dei wagneriani di stretta osservanza […]). (p. 354)
In sostanza, il «rapporto con
Wagner resta, nell’adesione o
nella rivolta, l’essenza del pensiero musicale del Novecento»
(p. 348), e pure della seconda
metà dell’Ottocento.
Per concludere, un’ulteriore attestazione di amicizia e di
stima (e la rivelazione di trascurate doti tenorili), nel garbatissimo eloquio di Iván Vandór, compositore ungherese naturalizzato italiano, anzi, romano di Trastevere. ( j.p.) ◼
1. Manfred Kelkel, Naturalisme, verisme et realisme dans l’opera de
1890 à 1930, preface de Serge Gut, Librairie philosophique J. Vrin,
Paris 1984; Steven Huebner, The Operas of Charles Gounod, Oxford
University Press, Oxford et al. 1990.
2. Sergio Sablich, Echi di una battaglia, «Il Giornale», 14 marzo 1993,
p. 3.
3. Scott Messing, Neoclassicism in Music. From the Genesis of the Concept Through the Schoenberg-Stravinsky Polemic, University of Rochester Press, Rochester 1988 («Studies in Musicology», 101).
4. Aldo Nicastro, Mario Bortolotto Dopo una battaglia […], «Pianotime», luglio-agosto 1993, pp. 65-66: 65.
5. Recentissimo, e dedicato giustappunto a Bortolotto: Francesco
Zambon, Metamorfosi del Graal, Carocci, Roma 2012, («Frecce»,141).
6. A coronamento di un corso universitario, più tardi trasferito in libro: I trovatori e la crociata contro gli albigesi, introduzione, traduzione
e note di Francesco Zambon, Luni, Milano et al. 1999 («Biblioteca
medievale», 74); rist Carocci, Roma 2009.
7. Mario Bortolotto, Wagner l’oscuro, Adelphi, Milano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42). Oltretutto, è questo l’unico libro di Bortolotto
tradotto (coraggiosamente) in una lingua straniera: Id., Wagner, das
dunkle, aus dem ital. von Nikolaus de Palézieux, Matthes & Seitz, Berlin 2007 («Traversen», 1).
8. Id., La serpe in seno. Sulla musica di Richard Strauss, Adelphi, Milano 2007 («Saggi. Nuova serie», 54); Id., Corrispondenze, ivi 2010
(«Saggi. Nuova serie», 65).
Il provetto stregone
Il provetto stregone
65
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
66
La musica francese
«moderna» secondo
Mario Bortolotto
I
di Emilio Sala
ncomincio questo mio intervento con una
tendenza pericolosamente regressiva: uno dei libri di
Bortolotto è stato infatti in assoluto il primo saggio
musicologico che ho comprato poco dopo l’esame di
maturità, nel 1977. In realtà lo comprai insieme a un altro libro: Filosofia della musica moderna di Adorno. Questi due
volumi rossi, quello di Adorno e Fase seconda di Bortolotto1, sono oggi affiancati nella mia memoria come lo erano allora sullo scaffale della mia libreria – e non solo per
la comune veste editoriale. A dire il
vero, è da un pezzo che non li rileggo più, ma credo che abbiano agito su
di me e su molti miei coetanei musicofili come una sorta di marca generazionale e di percorso iniziatico. Poi
vennero gli anni ottanta e ci allontanammo un po’ tutti (anche Bortolotto) dalla Nuova Musica, ma le prime pagine di Fase seconda, quelle dedicate a Debussy, pongono già il problema delle «origini francesi» della modernità musicale sottolineando
appunto la funzione fondativa svolta in essa dall’ultima produzione debussyana, quella (tanto amata da Boulez) a dominante «sonorielle» – per
usare un’espressione di Stefan Jarocinski che nel suo noto libro pubblicato in Polonia nel 1966 (e in traduzione francese nel 1970)2 arrivava a conclusioni abbastanza simili a quelle cui
era pervenuto Bortolotto.
Non è mia intenzione rivoltare la
frittata: la ricerca delle origini del moderno musicale ha in Bortolotto come punto di riferimento privilegiato la Romantik tedesca e le sue conseguenze, ma già in Fase seconda e soprattutto nella strada che va da Consacrazione della casa (1982) a Dopo una
battaglia (1992) è evidente il bisogno
da parte sua di fare i conti anche con
la musica francese. D’altronde non
è forse Parigi il terreno di coltura da
cui germogliò la nuova idea di «moderno» così come venne ridefinita soprattutto da Baudelaire? È chiaro che
in questo quadro ci si spinge più dalle
parti di Benjamin che non da quelle di
Adorno (il quale aveva trattato davvero un po’ troppo sbrigativamente il moderno baudelairiano in uno degli ultimi
aforismi di Minima moralia: «Nel culto del nuovo, e quindi nell’idea del moderno, ci si ribella contro il fatto che non
c’è più nulla di nuovo. […] Lo strato di ciò che non è già stato
pensato in anticipo […] sembra consumato. È di esso che sogna l’idea del nuovo»). Così credo che nell’opzione parigina non sia assente presso Bortolotto una certa dose di ambi-
valenza nei confronti del pur venerato Adorno. Dunque, se
il suo rapporto con la musica francese passa attraverso il problema delle radici della modernità musicale in una prospettiva che superi Adorno, è evidente che sarebbe abbastanza
inutile indicare in modo troppo rigido il corpus degli scritti
bortolottiani dedicati a tale tema. Certo, Dopo una battaglia
(sottotitolo: Origini francesi del Novecento musicale)3 funge
da stella fissa di questo gruppo di testi, ma il problema della
musica francese fa capolino anche là dove meno te lo aspetti.
Per esempio, Consacrazione della casa4 (titolo tedeschissimo
se altri mai) si apre con un denso saggio su Lohengrin (Barrage du cygne, pp. 11-43), ma in esso filtra più volte un parallelo
con Les troyens di Berlioz alla cui posizione storica sarà dedicato, guarda caso, l’ultimo capitolo del libro. Eccone una sola citazione – cruciale, però, per il nostro discorso: «L’età del
Lohengrin, in quell’indagine parallela sulla musica, il teatro
e i loro fondamenti ideali, comprende un momento di massima ideazione progressiva. Il suo Vormärz non è certo un ancien régime estetico: Wagner può essere persino antiquato,
non è mai neoclassico, a differenza di Berlioz» (p. 27).
La questione è già posta non si potrebbe più chiaramente: al moderno postromantico tedesco si oppone il moderno neoclassico francese. Non è forse il flâneur baudelairiano, assetato di nouveau metropolitano, quasi la negazione
del Wanderer tedesco, perso
nella Natura e nell’Ideale? Le conseguenze ermeneutiche e storiografiche di questa opposizione saranno appunto sviluppate da Bortolotto in Dopo una
battaglia. Non può non
sorprendere, tuttavia, il
ruolo di apripista assegnato a Berlioz nel brano citato e più in generale nel libro Consacrazione della casa. Nonostante che Monsieur Croche detestasse in fondo in fondo Berlioz (la
cui influenza sulla musica moderna sarebbe secondo lui da considerarsi «quasi nulla»)5, quest’ultimo è per Bortolotto il primo compositore «sonoriel». Nella sua musica assistiamo «ad un esito di spazialità,
certo la più intransigente fino a Nuages […]. La nuova concezione armonica di Berlioz è la condizione materiale dell’oggetto sonoro: sempre più determinante ai fini della spazializzazione è l’uso adialettico degli aggregati più consueti» (Tunisie française, pp. 303-334: 329). A questo proposito Bortolotto arriva a parlare di «suono liberato […] che apre alla cultura francese un’area che, per la prima volta, non sarà né di
provincia né marginale né precaria, ma diverrà, per un periodo breve ma dalle decisive conseguenze, il cuore pulsante
della musica moderna» (p. 325). Allo stesso modo, quando
nel Cellini si rilevi la giustapposizione di caratteri stilisticomusicali riferibili ora al repertorio italiano, ora a quello comique, al grand opéra e persino al lyrique prossimo venturo,
la conclusione non potrà essere che una: «Se il Novecento
è la commistione dei generi, Berlioz lo anticipa, ancora una
volta»6, in ciò svelando «una rabbiosa inattualità» rispetto
al proprio tempo7. Nella medesima categoria, in quanto proCharles Gounod.
Charles Baudelaire.
trovata, si reggono sul ritmo narrativo, sono eminentemente
favola didascalica: un Bildungsroman affidato alla continuità tensiva […]. È questo impegno di conservare l’unità d’una
fantasmagoria continua, il fondamento dell’inafferrabile, a
manifestare l’essenza dell’opera»13. Ed è ancora nel nome di
Baudelaire, il Baudelaire del «comique absolu», che mi pare
vada letta la singolare chiusa dettata da Bortolotto per il suo
programma di sala sui Contes: «Si immaginino, sotto questa esposizione dell’opera, canonici pertichini, a riecheggiare i complimenti profusi dagli invitati di Spalanzani: “charmante, charmante!”»).
Questo vuoto, già imbarazzante dopo il fiasco del
Tannhäuser, diventa addirittura traumatico dopo la sconfitta di Sedan. Fin dagli anni sessanta del secondo impero,
Saint-Saëns e gli altri introducono il concetto di «dislivello
stilistico» su cui si fonderà la musica «al quadrato» di ogni
futuro neoclassicismo. Di quegli anni è la riscoperta della
tradizione clavicembalistica francese, ma non bisogna dimenticare che anche la Petite messe solennelle di Rossini è del
1863 – lo stesso anno in cui Baudelaire pubblica Le peintre
de la vie moderne. I grandi slanci verso il passato del romanticismo incominciano a essere guardati con sospetto. Il nuovo classicismo parnassiano si pasce della fine di ogni possibile classicismo. Il passato è filtrato attraverso la consapevolezza di una frattura storica irrimediabile, che produce un senso di distacco nostalgico, ironico-onirico. In questo quadro
è soprattutto il Settecento delle fêtes galantes, ultima spiaggia del passato preromantico e preborghese, a proporsi come
un punto di riferimento obbligato. L’omonima raccolta di
Verlaine viene pubblicata nel 1869 e sappiamo quale sarebbe
stato il suo impatto presso i nuovi cultori della mélodie francese come Fauré e Debussy. A tutto ciò, come si diceva, si associa un drammatico bisogno di identità dopo la sconfitta di
Sedan nel 1870. L’anno dopo nasce la Société nationale de
musique, il cui ruolo in tale contesto è ben noto. È evidente che da questo momento la musica francese moderna diviene anche una «costruzione culturale», nel senso del costruzionismo storico contemporaneo, e una «tradizione inventata» nel senso dell’Invenzione della tradizione di Eric
Hobsbawm14.
Naturalmente si tratta di una costruzione complessa e contraddittoria le cui componenti si trovano un po’ tutte nel lavoro storiografico di Bortolotto. Forse vale la pena ribadirle cercando di sviscerarne alcune ulteriori implicazioni: innanzitutto la dimensione «sonorielle» ovvero la poetica del
«suono liberato», che porta all’ipersensibilità acustico-coloristica e all’interdipendenza tra armonia e timbro, tipicamente francesi, i cui esiti novecenteschi sono fin troppo evidenti; in secondo luogo il già ricordato «comique absolu»
nella musica di Offenbach, che apre la strada a un certo Chabrier, all’Ubu roi di Alfred Jarry e Claude Terrasse, se non
al «fumismo» e all’humour noir di
Erik Satie (a dispetto dell’antipatia ch’egli ha sempre suscitato in Bortolotto), con
tutto ciò che ne segue; infine la grande questione del
neoclassicismo che porterà a Strawinsky, certo, ma
che nel trattamento del
Nostro si carica a sua volta di valenze diverse. Il modo bortolottiano di ripensare la nozione di neoclassicismo,
allargandone sorprendentemente i
Hector Berlioz.
Il provetto stregone
pugnatore del kitsch («un altro, e non ultimo, degli elementi
intellettuali in cui la cultura, e la musica francese, precorre il
Novecento») e dell’«ampliamento dello spettro sonoro come parametro compositivo»8, rientra anche Meyerbeer, con
però una correzione decisiva: «la mescolanza di toni e modi diversi affatto […] in un sapientissimo amalgama» ha in
questo caso lo scopo di «creare contrasti, fossero di cartapesta» (si riprendono, non sempre per smentirli, i ben noti capi d’accusa formulati da Schumann e Wagner), d’innescare
effetti-sorpresa9; è proprio in grazia di essi che gli Ugonotti
possiedono una «funzionalità teatrale» tale da renderli «sicuri come un moschettiere, e talvolta financo irresistibili»10.
Eccoci dunque al libro in cui Bortolotto indaga le vicende
della musica francese moderna – il più volte citato Dopo una
battaglia. Recensii questo lavoro nel «Giornale della musica», aprile 199311, e mi pare che molte considerazioni fatte
allora siano ancor oggi sottoscrivibili. Ma più che ribadirle
qui in modo più o meno aggiornato, mi preme aggiungerne
di nuove: mi preme fare i conti con gli anni che sono passati.
Vorrei anche tentare di dare uno sguardo unitario a un libro
che, come già Consacrazione della casa, potrebbe essere preso
per una raccolta di medaglioni indipendenti, ma che è in realtà strutturato in un unico discorso – complesso e magmatico da una parte, fortemente integrato dall’altra. È necessario perciò individuare le idee-guida o i nuclei tematici strutturanti il discorso critico di Bortolotto, che sono tanto più
sfuggenti in quanto non risultano quasi mai esplicitati o affrontati direttamente nel corso della trattazione. In primis
la questione della modernità musicale che si lega a doppio filo, oggi mi pare più chiaro di allora, al problema dell’origine
della poetica neoclassica. La musica francese si pone infatti
come un vuoto per i primi adepti della modernità. Essa pare aver perso, dopo il crollo dell’ancien régime, il suo codice
identitario. Cosmopolitismo e disincanto sembrano essere i
suoi elementi dominanti. Il romanticismo si realizza davvero solo nella forma «bassa» del mélodrame. Nei salotti regna
la romance. Quello di Berlioz è un caso che resta anomalo e
che non fa testo. Ecco allora che Baudelaire da un lato teorizza il «moderno» come presa di coscienza di una frattura
insanabile tra passato e presente, il cui esito è quello di un’attualità che consuma se stessa, dall’altro deve rivolgersi a Wagner, subito dopo lo scandalo del Tannhäuser, per celebrare
l’epifania del nouveau musicale. Ma se si parte dall’idea famosa che «la modernité,
c’est le transitoire, le fugitif, le contingent», ecc., allora il compositore
più «moderno» a Parigi negli anni di Baudelaire è senza dubbio Offenbach, come aveva capito Siegfried
Kracauer12 (questo spiega, tra l’altro,
la forza d’attrazione che l’operetta ha esercitato su Bortolotto sin da prima di Consacrazione della casa: è chiaro infatti, per parafrasare
ancora Baudelaire, che nella musica di Offenbach
riconosciamo il marchio che il tempo imprime alle nostre sensazioni; tant’è vero che i Contes
d’Hoffmann,
«al di là d’ogni singola
67
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
68
confini e facendone esplodere tutte le contraddizioni, mostra infatti una notevole dose di insofferenza per i luoghi comuni anche più consolidati: «La musicologia non sembra
aver trovato nulla di meglio che la formula ormai faticosa,
musica al quadrato: erronea per la più parte dei casi, in quanto s’avrebbe semmai a considerarla come una radice quadrata, qualcosa di assai più riducente, e non sempre per accrescere, con l’esiguità struttiva, la concentrazione essenziale»
(p. 55). Ecco allora il formalismo ludico, il frammentismo,
il gusto per il montaggio e l’odio per lo «sviluppo». Atteggiamenti già presenti nei pariginissimi Péchés de vieillesse di
Rossini, che sembrano potersi ricollegare ex post alle paradossali miniature di Satie (ancora lui), passando per il Carnaval des animaux di Saint-Saëns, dove tra i Fossiles si cita
appunto il Pesarese (ma in una folta compagnia, ivi compreso l’autore stesso): un collage parodistico che annuncia per
molti versi il Jeu de cartes stravinskijano. Ma accanto a questo procedimento deformante, vi è in Saint-Saëns un altro tipo di neoclassicismo, quell’«attitudine che fu a momenti vigorosa a ripensare, come invenzione propria, qualsiasi procedimento», di modo che «stilemi specifici» tornino a essere
«morfemi anonimi, e pertanto rivalutabili a piacere, ricomponibili entro una sintesi formale affatto nuova: autre»15.
«Altra», si capisce, dalla lezione tedesca, la recente soprattutto («le piaghe parsifaliane del moderno in musica», p.
74): «la proposta di musica francese […] è quella di una musica perennis, anteriore in ogni caso […] all’irruzione della
Romantik: sua divisa è comporre come se non vi fosse stata
alcuna cesura, secondo l’antica saggezza e probità d’artigiano slegato dalle vicissitudini del tempo» (p. 73).
In questo contesto, quello della «genealogia» del neoclassicismo, appare assai preziosa la presenza di Charles-Valentin Alkan, il cui misterioso pianismo (virtuosistico e intimissimo) è oggi in piena riscoperta16, ma che nel 1992 era –
almeno in Italia – negletto o frainteso. In Dopo una battaglia Bortolotto dedica pagine di rara intelligenza critica ad
Alkan. Egli parla spesso della «prospettiva neoclassica» insita nella «memoria d’oltretomba» (p. 30) di un artista che
«costituisce il collegamento esclusivo, che fu insostituibile,
fra la Romantik […] e il Parnasse» (p. 36), e chiosa mirabilmente alcune delle sue bellissime Esquisses (op. 63), come il
Duettino (n. 14) che presenta «una annotazione di consapevolezza illuminata: “alla D. Scarlatti”»; oppure La poursuite
(n. 25), «che rivolge un inchino ai mani di Fragonard»; oppure gli hommages à Rameau, «che vengono susseguendosi,
con fedeltà di ex voto: Les enharmoniques (n. 41), […] Petit
air à cinq voix (n. 42), […] il Rigaudon (n. 27)», ecc. (p. 31).
Se nella musica di Alkan convivono ironia («costante parodica di ogni neoclassicismo», p. 34), un
«teso impegno emotivo» romantico, e «ricadute» nel «sorpassato, il comune, e persino lo spurio» (pp. 36-37), a quella di
Poulenc – siamo all’incirca
un secolo dopo – l’etichetta
«di neoclassico […] si addirebbe meno d’ogni altra. La
distanza, anzitutto emotiva,
da Strawinsky, è qui incalcolabile. Nel grande alfiere, il giuoco è, sempre, fondato sul dislivello storico […]. Poulenc può rigurgitare di riferimenti: […] ma quanto egli ne deduce ne annulla il riferimento cronologico, il daCharles-Valentin Alkan.
to è assunto come mera locuzione. L’espressione […] è tutta e
sempre diretta»17.
Proprio questa caratteristica di Poulenc (per dirla in altro
modo, la sua «inaudita capacità di inventare melodie», di
«cantare») serve d’introduzione a un quarto elemento nella «costruzione» e «tradizione» della musica francese moderna – quello del drame lyrique o meglio, e più in generale,
del fattore lyrique18 . Delle quattro componenti che ho cercato di enucleare è questa la meno indagata in Dopo una battaglia, forse anche perché considerata dall’autore troppo scontata (e poi, è innegabile il suo penchant per il comique: oltre al
capitolo su Offenbach, «Empire d’outre-tombe», pp. 287294, si leggano le pagine dedicate a Chabrier e Delibes, «L’emozione e le spezie», pp. 249-285). Nel capitolo su Bizet,
Bortolotto parla comunque di «rivelazione del lyrique» (p.
91), tirando in ballo naturalmente il Faust di Gounod19. La
cui persona occupa poche pagine del capitolo introduttivo,
«Passage de Sedan», nelle quali sono identificate le premesse di poetica e di linguaggio che «il più anziano» compositore, «affascinante natura doppia» (la devota e la sensuale, la tradizionale e l’innovativa, la squisita e la volgare: tutte fondamentali per una drammaturgia come la sua, imperniata sul «tema del contrasto»: p. 52)20, lasciò in eredità alle
generazioni successive: il culto di Mozart (trasmesso a SaintSaëns, Chabrier, Debussy, Ravel, Poulenc…), il «contemplare, come strada unica allegramente percorsa, la distanza dai
padri» (p. 44), «l’abbandono delle forme consuete, e la proposta di una nuova melodia, anticipo della petite phrase: di
interesse estremo, infine, la ricerca del suono» (p. 23). D’altronde, è indubbio che Bortolotto, nell’ambito della «poetica […] tutta teatrale e francese», al «progenitore» anteponga i discendenti in linea diretta, Bizet (l’uomo che «ha scoperto una ricetta segreta: il motif […] qualcosa di immediato, […] evidente insieme ed incisivo»: p. 91) e, pur con tutti
i limiti addebitatigli, Massenet («sul piano vocale, gli stampi gounodiani assai ripetuti cedono il passo […] a quel declamato melodico cui Massenet affida la sua inventiva migliore […]: Massenet può accogliere la strofa, ma tende ad aprirla in frasi libere, secondo equilibri metrici assai più sottili»:
pp. 169 e 171).
Del lyrique come segno identitario bisogna dire che da una parte esso è la risposta
francese (ambivalentissima!) al diffondersi degli ideali estetici wagneriani: ecco allora l’arricchimento del vocabolario armonico, l’irrobustimento «leitmotivico» e l’importanza data alla
dimensione orchestrale (al côté «sinfonico»): pensiamo ai lavori
per il teatro o per la sala da
concerto dei vari Franck,
d’Indy, Magnard, Messager, Chabrier, Chauss o n , D u k a s … 21,
dall’altra, lo spazio
del lyrique si definisce in opposizione al canto
italiano. Come
scrisse SaintSaëns nei Portraits et souvenirs, «non
nell’Orchestra [cioè nel
Jacques Offenbach.
Erik Satie.
1. Theodor Wiesengrund Adorno, Filosofia della
musica moderna, trad. it. di Giacomo Manzoni, saggio
introduttivo di Luigi Rognoni, Einaudi, Torino 1959
(«Saggi», 245), rist. ivi 1975 («Reprints Einaudi», 30);
ed. or. Philosophie der neuen Musik, Mohr, Tubingen
1949. Mario Bortolotto, Fase seconda. Studi sulla Nuova
Musica, Einaudi, Torino 1969 («Saggi», 445); rist.
ivi, 1976 («Reprints Einaudi», 89), e Adelphi, Milano
2008 («Saggi. Nuova serie», 58).
2. Stefan Jarocinski, Debussy. A impresjonizm i
symbolizm, Polskie Wydawnictwo Muzyczne, s.l.
s.d. [1966]; trad. franc. di Thérèse Douchy, Debussy.
Impressionisme et symbolisme, préface de Vladimir
Jankélévitch, Éd. du Seuil, Paris 1970 («Musiques»);
trad. it. di Maria Grazia D’Alessandro, Debussy.
Impressionismo e simbolismo, prefazione di Vladimir
Jankélévitch, Discanto, Fiesole 1980, rist. La nuova
Italia, Firenze 1999 («Discanto/contrappunti», 6).
3. Bortolotto, Dopo una battaglia. Origini francesi del
Novecento musicale, Adelphi, Milano 1992 («Saggi.
Nuova serie», 9).
4. Id., Consacrazione della casa, Adelphi, Milano 1982
(«Saggi», 22).
5. «On peut même dire sans ironie que Berlioz fut
toujours le musicien préféré de ceux qui ne connaissaient
pas très bien la musique… les gens du métier s’effarent
encore de ses libertés harmoniques […]. Sont-ce les
raisons qui rendent presque nulle son influence sur
la musique moderne et qui resta, en quelque sorte,
unique?»: Claude Debussy, Berlioz et M. Gunsbourg
(1903), in Id., Monsieur Croche et autres écrits,
introduction et notes de François Lesure, Gallimard,
Paris 19872 («Imaginaire», 187), pp. 168-171: 169.
6. Bortolotto, Utopia d’un insuccesso, in Id.,
Corrispondenze, Adelphi, Milano 2010 («Saggi.
Nuova serie», 65), pp. 166-169: 167. Benché uscito
dopo il convegno tenutosi nel 2007 a Ninfa (Latina),
in occasione del quale ho preparato questo intervento,
il libro raccoglie articoli, programmi di sala e saggi
in larghissima maggioranza risalenti ai due decenni
precedenti. Per comodità dei lettori ho perciò deciso
di citare i testi utili al mio discorso nella loro veste
editoriale definitiva.
7. Id., Berlioz allo specchio delle lettere, ivi, pp. 170185: 185. Sull’«inattualità» di Berlioz ha insistito in
più d’un’occasione anche Fedele d’Amico. Si vedano
almeno Berlioz cent’anni dopo (1969), in Id., Un
ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali, a cura di Franco
to incontestabile, riconosciuto – come si è visto – anche da
Bortolotto, e indagato nelle sue pieghe più riposte da Steven
Huebner in un libro (The Operas of Charles Gounod)22 uscito
quasi contemporaneamente a Dopo una battaglia, di cui finisce per rappresentare insieme una premessa e un complemento. Da questa ricerca di un’intonazione melodico-vocale fluida, modellata spesso in modo assai raffinato e sfumato sul ritmo del testo letterario, deriva in gran parte il percorso del lyrique. Un percorso valido sulla scena come in sala da
concerto o in salotto (emblematica, in questo senso, la vicenda creativa, ossia «il silenzio di Duparc»: p. 161). È chiaro
che dal punto di vista di un italiano come Verdi – secondo il
quale «Gounod è un grandissimo musicista, […] ma non ha
fibra drammatica» – una tale attenzione alla parola (alle forme dell’espressione) implica un disdicevole disinteresse per
la situazione e la posizione (per le forme del contenuto). Di
qui l’accusa di scarsa drammaticità. Il periodare simmetrico
e regolare della tradizione italiana, con schemi accentuativi
fissi e ben scanditi, è incompatibile con la ricerca tipicamente
lyrique di un’intonazione intima e nuancée. Perfino la «e»
muta, che per secoli era stata una terribile zavorra, diventa in
questo quadro una risorsa preziosa. Per dirla con Verlaine,
ma un po’ anche con Fauré e Debussy23: «Pas la couleur, rien que la nuance». ◼
Serpa, Einaudi, Torino 1991 («Saggi», 748), pp. 111138, e i programmi di sala su Roméo et Juliette (1969) e
i Troyens (1960), ora raccolti in Id., Forma divina. Saggi
sull’opera lirica e sul balletto, 2 voll., a cura di Nicola
Badolato e Lorenzo Bianconi, prefazione di Giorgio
Pestelli, Olschki, Firenze 2012 («Historiae musicae
cultores», CXXV), I, pp. 132-139 e 222-227.
8. Bortolotto, Senza causa, in Id., Corrispondenze, cit.,
pp. 192-197: 195-196.
9. Id., Wagner l’oscuro, Adelphi, Milano 2003 («Saggi.
Nuova serie», 42), p. 72.
10. Id., Senza causa, cit., pp. 192-197: 194-95.
11. Emilio Sala, Tra le rovine di Parigi, «Il giornale della
musica», 82, aprile 1993, p. 23.
12. Siegfried Kracauer, Jacques Offenbach e la Parigi
del suo tempo, trad. it. di Sergio Montecucco, Marietti,
Casale Monferrato 1984 («Collana di saggistica», 13),
rist. Garzanti, Milano 1991 («Gli elefanti. Saggi»); ed
or. Jacques Offenbach und das Paris seiner Zeit, Allert de
Lange, Amsterdam 1937.
13. Bortolotto, I «Contes», i casi e il caso, in Id.,
Corrispondenze, cit., pp. 222-237: 236-237.
14. L’ invenzione della tradizione, a cura di Eric
Hobsbawm e Terence Ranger, trad. it. di Enrico
Basaglia, Einaudi, Torino 1987 («Biblioteca di cultura
storica», 164); ed. or. The Invention of Tradition,
Cambridge University Press, Cambridge 1983 («Past
and Present Publications»).
15. Bortolotto, Bibbia neoclassica, in Id., Corrispondenze,
cit., pp. 238-247: 245 e 242. Ma si veda anche Id., Dopo
una battaglia, cit., in particolare le pp. 82 e 87.
16. Per due studi assai innovativi sul pianismo di Alkan:
Jacqueline Waeber, Du bon usage destitres: le cas Alkan,
in La Note bleue. Mélanges offerts au Professeur JeanJacques Eigeldinger, éd. J. Waeber, Lang, Bern-BerlinBruxelles-Frankfurt am Main-New York-OxfordWien 2006 («Publications de la Societé suisse de
musicologie», II, 45), pp. 241-265; Ead., Searching for
the Plot: Charles-Valentin Alkan’s «Souvenirs»: «Trois
morceaux dans le genre pathétique», op. 15, «Journal
of the Royal Musical Association», 132, 1, November
2007, pp. 60-114.
17. Bortolotto, Dialoghetto del fascino e dell’impudenza,
in Id., Corrispondenze, cit., pp. 257-262: 261-262.
18. Su storia e fortuna del concetto: Hans-Joachim
Wagner, Lyrisches Drama und Drame lyrique.
Eine Skizze der literar- und musikhistorischen
Begriffsgeschichte, «Archiv für Musikwissenschaft»,
XLVII, 1990, pp. 73-84.
19. In un’amichevole disputa con Fedele d’Amico
a proposito di due regìe firmate da Luca Ronconi
(Sieg fried di Wagner alla Scala di Milano, Faust al
Comunale di Bologna), Bortolotto espresse un giudizio
lapidario sul lavoro più celebre di Gounod: «un’opera
in cui di serio non c’è proprio nulla»: Sig frido e Faust
li vedo così (1975), in d’Amico, Tutte le cronache
musicali. «L’espresso» 1967-1989, 3 voll., a cura di
Luigi Bellingardi, con la collaborazione di Suso Cecchi
d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho, prefazione di
Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000, II (1973-1978),
pp. 1154-1158: 1155.
20. Gli stessi concetti si ritrovano anche in Bortolotto,
Due nature senza saldo, in Id., Corrispondenze, cit., pp.
216-221.
21. Si vedano almeno la sezione Wagner-Rezeption in
der französischen Oper und Symphonik, in Von Wagner
zum Wagnérisme. Musik, Literatur, Kunst, Politik,
hrsg. von Annegret Fauser und Manuela Schwartz,
Leipziger Universitätsverlag, Leipzig 1999 («DeutschFranzösische Kulturbibliothek», 12), pp. 229-431,
e Steven Huebner, French Opera at the Fin de Siècle.
Wagnerism, Nationalism, and Style, Oxford University
Press, Oxford-New York et al. 1999.
22. Id., The Operas of Charles Gounod, Oxford University
Press, Oxford et al. 1990. Il secondo libro di Huebner, il
citato French Opera at the Fin de Siècle, in sostanza copre
lo stesso periodo trattato da Bortolotto, ma più che gli
approdi novecenteschi, indaga la «reconciliation of
Wagner’s influence with French operatic tradition and
national identity» (p. VII), ragione per cui questioni
di natura politica, ideologica e sociologica vi occupano
un peso determinante accanto alle «considerazioni
di genere [musicale], drammaturgia e stile musicale»
(p. IX), le sole – o quasi – che realmente interessano
l’equivalente italiano.
23. Su Fauré, incarnazione della «liricità assoluta,
raggiungibile attraverso lo scavo armonico», il capitolo
«Confini dell’ebbrezza» in Bortolotto, Dopo una
battaglia, cit., pp. 187-247; su Debussy, il saggio su
Pelléas et Mélisande (L’alga, la passione e il tao), in Id.,
Consacrazione della casa, cit., pp. 65-91.
Il provetto stregone
“sinfonismo”], non nella Parola [cioè nell’enfasi declamatoria] è il Verbo del drame lyrique: esso è nel Canto». Ma
un nuovo canto flessibile e interiorizzato. Si veda a questo proposito l’irritazione di Gounod di fronte alla trasformazione di «Salut, demeure chaste et pure»
in «Salve, o casta e pia dimora», la cui accentuazione e scansione troppo chiare e nette, tipicamente italiane, distruggono, secondo lui, «tutto il mistero, tutto il pudore
della mia armonia».
Che Gounod, autore di quasi duecento mélodies, abbia
introdotto nella musica francese una nuova sensibilità
prosodica
è un fat-
69
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
70
Mario Bortolotto,
«cavaliere errante
senza dama certa»
N
di Francesco Zambon
el settembre del 1996, avendo tenuto all’Università di Trento un corso sulla Canzone della
Crociata albigese, ho organizzato per i miei studenti un viaggio di studio nel Languedoc occidentale con lo scopo di visitare i principali luoghi e monumenti che testimoniano la presenza dell’eresia catara in quella regione fra xii e xiii secolo. Saputo del mio programma,
Mario Bortolotto si è aggregato prontamente e con entusiasmo alla piccola spedizione: provenendo da Roma
ha raggiunto il mio gruppo a Carcassonne, dove avevo
fissato la base per le nostre escursioni. Grande viaggiatore in ogni parte del mondo, Mario non conosceva anco-
tieri sassosi o insidiose rovine, sempre pronto e disposto a salire a quelle che Michel Roquebert ha definito le «cittadelle della vertigine». Come gli studenti, che hanno imparato
presto ad amarlo, era sempre attentissimo alle mie sommarie spiegazioni storiche; ma credo sia stato colpito molto più
profondamente dalla spettacolarità dei luoghi e dalle infinite suggestioni letterarie e artistiche che ne promanano. La
tappa più rivelatrice in questo senso – un poco eccentrica rispetto ai temi del viaggio, ma obbligatoria dopo il mirabolante libro di Baigent, Lincoln e Leigh (The Holy Blood and
the Holy Grail)1, che Mario aveva letto avidamente – è stata
Rennes-le-Château, il villaggio in cui l’abate Saunière avrebbe scoperto nei primi anni del Novecento il «tesoro dei catari» (il Graal?). Di per sé, si tratta di un misero paesino appollaiato sulle prime pendici dei Pirenei; ma possiede senza
dubbio un fascino inquietante e perfino sinistro con quella
2.
1.
ra il Pays cathare, come ormai lo denominano, con qualche esagerazione, pannelli stradali e guide turistiche.
Del resto non è territorio facile da visitare, essendo necessario percorrerlo in auto o in pullman lungo strade e
stradine tortuose, che attraversano le valli e le montagne
dell’Aude e dell’Ariège. Quella doveva perciò essergli parsa
una ghiotta occasione per conoscere non solo i luoghi storici
in cui si era sviluppato il catarismo, ma anche quelli nei quali una mitografia moderna di ispirazione essenzialmente wagneriana aveva situato il castello del Graal.
Il viaggio, assistito da un tempo favorevole, è durato una
settimana circa. Dopo aver naturalmente visitato la cité di
Carcassonne, ricostruita nell’Ottocento da Viollet-le-Duc
con qualche eccesso di teatralità, ma non per questo meno
evocativa, abbiamo toccato molti degli hauts lieux catari nelle antiche contee di Tolosa e di Foix e della viscontea Trencavel: i castra di Fanjaux e di Montréal, grandi centri al tempo
stesso della poesia trobadorica e dell’eresia, gli impressionanti resti dei castelli di Quéribus e di Peyrepertuse, fra le ultime roccheforti dei faidits, di quelli di Lastours e Arques, fino
all’incontournable castello di Montségur, che le cerchie occultiste del Midi identificarono agli albori del secolo scorso
con il Munsalvaesche di Wolfram von Eschenbach e il Monsalvat di Wagner. Si partiva ogni mattina alle otto in punto
dal nostro albergo di Carcassonne con un pullman appositamente noleggiato e si rientrava nel tardo pomeriggio alla base dopo aver raggiunto le mete previste. Mario era puntualissimo e, malgrado un abbigliamento talvolta più adatto alla
visita di un museo o a un concerto che a scarpinate per sen-
3.
sua chiesetta gremita di strani oggetti e iscrizioni, e soprattutto con la misteriosa torre Magdala fatta costruire da Saunière. Malgrado i miei tentativi – forse troppo timidi – di demistificazione, non sono riuscito a convincere Mario: «Qui
sotto c’è qualcosa», mi ripeteva camminando per la sala sotto la quale la leggenda vorrebbe sepolto il misterioso tesoro.
Naturalmente Mario Bortolotto sapeva già tutto del catarismo e del mito del Graal. Ricordo che all’epoca in cui uscì
un mio libro sui testi catari2 mi mostrò a casa sua le edizioni critiche del Liber de duobus principiis e del Rituale cataro
di Lione pubblicate nelle «Sources Chrétiennes»3: opere da
specialisti della materia. Ma è soprattutto del Graal, via Wagner, che Mario si è interessato in maniera approfondita. Nel
suo magistrale – quanto avvincente – Wagner l’oscuro, due
capitoli sono dedicati rispettivamente al Lohengrin e al Parsifal4 . Tutta la prima parte di quest’ultimo era stata redatta
in origine per un programma di sala ed era intitolata Sul testo
del «Parsifal»5: me la fornì in fotocopia – piena di sottolineature e di annotazioni – il nostro grande amico comune Enzo Turolla, che voleva sentire il mio parere, ma consegnando1. Il castello di Montségur; 2. L’abate Saunière; 3. Parsifal;
4. La torre Magdala a Rennes-le-Château; 5. Miniatura da
Perceval o il racconto del Graal di Chrétien de Troyes.
della musica – il valore poetico e, il termine è suo, la natura di «gnosi»6. Ma non solo. Facendo un passo decisivo oltre la gran parte delle ricerche specialistiche, egli mette largamente a profitto anche i più importanti studi di carattere storico-religioso e antropologico sul Graal: quelli di Guénon,
Eliade, Corbin, Ponsoye7. E arriva a conclusioni sorprendenti, come quando addita l’essenziale del messaggio del Parsifal in quello che Pierre Ponsoye, citato testualmente, riconosce come il messaggio essenziale del Parzival di Wolfram von
Eschenbach: che l’Ordine del Graal
esista attraverso il tempo oltre la decadenza progressiva del mondo umano, universale e permanente come la Verità essenziale ed
unica, presente e nascosta che esso profetizza; che dovesse attuarsi effettivamente nella storia con l’accesso delle élites responsabili d’Oriente e Occidente a quella Verità e alla loro propria unità in
essa; che l’Islām fosse l’agente predestinato di quel riconoscimento e di quell’opera8.
Il fatto è che Mario Bortolotto lettore e ascoltatore di Wagner è a sua volta alla ricerca di un suo Graal; per questo egli
tende qualche volta a dare per acquisite, nel suo personale
5.
ni italiane
di testi stranieri senza
4.
l’originale
a fronte, conosce e cita tutte queste opere in lingua d’oil o in alto tedesco medio, non sempre elargendone al lettore una versione
italiana. La sua ricostruzione delle linee portanti del mito
medioevale è impeccabile sotto il profilo storico e filologico
e gli consente poi un serrato confronto con la rielaborazione wagneriana, di cui mostra le intime connessioni simboliche e perfino esoteriche con i modelli (per esempio riguardo ai temi della ferita magica, della domanda salvatrice e del
silenzio) e rivendica – indipendentemente dalla grandezza
1. Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, The Holy Blood and the Holy Grail, Cape,
London 1982, trad. it. di Roberta Rambelli Pollini, Il santo Graal, Mondadori, Milano 1982 («Ingrandimenti») e successive ristampe (per lo più col
titolo Il santo Graal. Una catena di misteri lunga
duemila anni) in altre collane o presso altre case
editrici (CDE, Fabbri).
2. La cena segreta. Trattati e rituali catari, a cura di
Francesco Zambon, Adelphi, Milano 1997 («Biblioteca Adelphi», 332).
3. Rituel cathare, introduction, texte critique, traduction et notes par Christine Thouzellier, Les
éditions du Cerf, Paris 1977 («Sources chrétiennes», 236).
4. Mario Bortolotto, «Barrage du cygne» e «Pallore rituale», in Id., Wagner l’oscuro, Adelphi, Mi-
«manoscritto di Kyot», ipotesi anche un poco ardite e certificate da una autorevole «tradizione gnostica» piuttosto
che da una dimostrazione scientifica. In fondo il suo atteggiamento verso il grande mito è simile a quello dei romantici
e ancor più dei Décadents: alla insaziabile curiosità erudita –
che fu propria anche di Wagner, lettore di testi medievali allora ignoti anche ai più colti – si sposa una ricerca della Verità nascosta e inesprimibile, fosse pure soltanto quella del bello e dell’arte. La sua ricerca del Graal assomiglia a quella degli amanti della Parola Perduta descritta da Fernando Pessoa
in un frammento del suo progettato scritto sull’iniziazione,
Atrio: «Cavalieri erranti senza dama certa, lungo vie e foreste di sogno ed errore, nell’eterna selva oscura del conseguimento imperfetto»9. ◼
lano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42), pp. 107-139
e 371-435.
5. Id., Sul testo del «Parsifal», in Parsifal, programma di sala, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 1991/1992, Edizioni del Teatro alla
Scala, RCS-Rizzoli libri, Milano 1991, pp. 81-105.
6. Id., Wagner l’oscuro, cit., p. 371 e passim.
7. René Guenon, Simboli della scienza sacra, trad.
it. di Francesco Zambon, Adelphi, Milano 1975
(«Il ramo d’oro», 6) e successive ristampe; Mircea
Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it. di
Virginia Vacca, Einaudi, Torino 1954 («Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici», 23)
e successive ristampe, ed. or. Traité d˘istoire des religions, préface de Georges Dumézil, Payot, Paris
1949 («Bibliothèque scientifique»); Henry Corbin, L’immagine del Tempio (1950-1974), trad. it.
di Barbara Fiore, Boringhieri, Torino 1983 («Saggi»), rist. SE, Milano 2010 («Testi e documenti»,
200), ed. or. Temple et contemplation, Flammarion, Paris 1980 («Idées et recherches»); Pierre
Ponsoye, L’Islam et le Graal. Étude sur l’ésotérisme du Parzival de Wolfram von Eschenbach, Arché, Milano 1976 (« Bibliothèque de l’Unicorne. Série française», 9), trad. it. di Maurizio Murelli, All’insegna del veltro, Parma 1980, rist. SE,
Milano 1989 («Saggi e documenti del Novecento», 14).
8. Bortolotto, Wagner l’oscuro, cit., p. 389.
9. Fernando Pessoa, Pagine esoteriche, a cura di Silvano Peloso, Adelphi, Milano 1997 («Piccola Biblioteca», 391), p. 63, e successive ristampe.
Il provetto stregone
mi lo scritto ne elogiò subito la «straordinaria orchestrazione». Esso è stato poi completato con alcune pagine dedicate prevalentemente all’analisi musicale e inserito nel volume
wagneriano con il titolo «Pallore rituale».
La parte riguardante il testo del Parsifal non è solo mirabilmente concertata – come tutti i saggi di Mario Bortolotto – ma è anche uno degli studi più informati e illuminanti sul mito del Graal che siano usciti in Italia. Per analizzare
il poema wagneriano, infatti, egli parte da una disamina accurata e di primissima mano – cosa assai rara in questo campo di studi, che stranamente i più non sembrano considerare materia squisitamente filologica – delle origini e degli sviluppi del mito nei testi fondatori del medioevo, dal Conte
del Graal di Chrétien de Troyes fino al Parzival di Wolfram
von Eschenbach e alle altre riscritture germaniche (fonti dirette, ma non uniche di Wagner), senza trascurare nemmeno il celtico Peredur.
Mario, che
non ama in
generale le
t r a du z io -
71
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
72
Per Mario Bortolotto
C
di Iván Vándor
onosco Mario Bortolotto dal 1960,
quando col comune amico Roberto Calasso venne a sentire un mio pezzo al saggio di composizione della classe di Petrassi nei corsi superiori
dell’Accademia di Santa Cecilia. Dopo di allora, e dopo che
l’anno successivo vinsi il concorso della Società italiana di
musica contemporanea, prendemmo l’abitudine di incontrarci per passeggiare nella vecchia Roma e conversare, oltre
che di musica naturalmente, di surrealismo e di Oriente, di
René Daumal e del «Grand Jeu», di cultura mitteleuropea.
Ci vedevamo anche per delle cene con amici e conoscenti o
per riunirci la sera da me a far musica (ricordo ancora un Così fan tutte con Guido Turchi al pianoforte, io – un Don Alfonso temo non sempre intonato – e Mario, che cantava Ferrando magnificamente, quale un tenore mozartiano nato).
Poi per me ci furono gli Stati Uniti, una ricerca sulla mu-
sica del buddismo tibetano nelle regioni himalayane, parecchi anni a Berlino a dirigere l’Istituto internazionale di studi musicali comparati quale successore di Alain Daniélou, e
Mario e io ci incontravamo solo in occasione delle mie puntate romane o veneziane per il Festival di musica contemporanea o per un pezzo che mi aveva chiesto per l’Orchestra
Scarlatti della rai a Napoli, di cui, in quel periodo intorno
al 1978, era direttore artistico.
Dopo il mio ritorno in Italia, Mario, se a Roma, mi ha sempre onorato della sua presenza in occasione dell’esecuzione
di un mio pezzo e fino a qualche anno fa si sobbarcava la fatica di fare quattro piani di scale a
piedi per salire da me ad ascoltare la registrazione di un mio nuovo lavoro. Ultimamente ha scritto
delle deliziose righe di presentazione per un disco di musiche mie,
righe di cui gli sono molto grato.
Dei suoi libri non parlo. Altri
lo faranno con molta più competenza di quanto non possa fare io.
Ma li ho naturalmente letti tutti, dal primo sul Lied romantico
a quest’ultima vera e propria leccornia che sono le sue Corrispon-
denze (in cui, detto per inciso, ho
appreso che l’ultimo medico di
Brahms aveva lo stesso cognome
di mia nonna paterna, Grünberger – una scoperta in più che debbo a Bortolotto). Ho, quindi, letto
tutti i suoi libri e li ho amati tutti
– alcuni ovviamente più di altri, –
anche se a volte io, che non ho fatto le scuole italiane, ho dovuto rileggere alcuni passaggi molto lunghi perché avevo perduto per strada il soggetto.
Vorrei concludere queste poche righe semplicemente ringraziando Mario Bortolotto, oltre che per quello che da lui
ho appreso – ed è molto – e per la sua talvolta burbera ma autentica gentilezza, anche per ciò che rappresenta nella cultura italiana non solo musicale, contribuendo così tanto a sprovincializzarla. ◼
In senso orario: Roberto Calasso, Goffredo Petrassi,
Iván Vándor, René Daumal nel 1944.
F
di Giuseppina La Face Bianconi
ederico Maria Sardelli, flautista, musicologo,
direttore, conosce la produzione di Antonio Vivaldi (strumentale e vocale) come se l’avesse composta
lui. Non è un’iperbole. Solo un’immedesimazione
profonda nel modus operandi del compositore veneziano può
generare un lavoro geniale come questo Catalogo delle concordanze musicali vivaldiane. Tutti sanno che il Prete Rosso
«si ripeteva» con abbondanza e nonchalance: e il riciclo patente di spunti, temi e motivi non è certo l’ultimo tra i fattori che sul suo stile imprimono un marchio inconfondibile. Ebbene, Sardelli ha registrato qualcosa come ottomila rimandi tra un’opera e l’altra di Vivaldi, e ci ha aggiunto il dare
e l’avere con una trentina di musicisti coevi, Bach e Händel
in testa. Per farlo non si è valso di un calcolatore, bensì della
sua memoria di musicista: infatti nel catalogo di Sardelli i loci communes riscontrati sono raramente preceduti dal segno
«eguale», e ben più spesso dai segni «circa» e «più o meno». In altre parole, Vivaldi non si ripete quasi mai alla lettera, bensì adatta, elabora, sviluppa, modifica, cesella: operazioni che il computer non saprebbe riconoscere né descrivere, il cervello del musicista invece sì. E qui si innesca l’altro côté del libro: le centoquaranta pagine introduttive, che
illustrano le tecniche compositive del Prete Rosso, sono forse il miglior trattato oggi disponibile sul suo stile. Un lavoro d’alta classe.
La serie delle «Tesi» di musicologia promossa
dall’Associazione De Sono di Torino su impulso di Francesca Gentile Camerana prosegue ora sotto i nitidi torchi
dell’editore Albisani di Bologna. Inaugura la serie la dissertazione torinese di Marco Targa su Puccini e la Giovane Scuola; il sottotitolo precisa l’ambizioso tema: «drammaturgia
musicale dell’opera italiana di fine Ottocento». L’autore ha
passato al vaglio le tecniche musicali e le procedure drammatico-narrative in trentacinque opere tra il 1890 (Cavalleria
rusticana) e il 1907 (Gloria): accanto a Mascagni e Cilea, primeggiano Leoncavallo, Giordano e l’eponimo Puccini. Targa ha fatto bene a non restringere il campo alla corrente rigorosamente verista: l’assortimento dei soggetti drammatici è infatti in quest’epoca quanto mai vario. E se si punta a individuare le «leggi» non scritte che, dal livello della singola melodia all’organizzazione d’un intero atto, governano la
drammaturgia musicale in questa fin de siècle così rigogliosa di talenti e smaniosa di sperimentazioni pur entro l’alveo
Federico MAria Sardelli,
Catalogo delle concordanze musicali vivaldiane,
Firenze, Leo S. Olschki, 2012
(«Studi di musica veneta - Quaderni vivaldiani»; 16),
cxlvii-240 pp., isbn 978-88-222-5869-4, euro 42.
Marco Targa,
Puccini e la Giovane Scuola.
Drammaturgia musicale dell’opera italiana di fine Ottocento,
Torino-Bologna, De Sono Associazione per la musica
Albisani Editore, 2012,
320 pp., isbn 978-88-95803-15-9, euro 22.
Il Canto dei Poeti.
Versi celebri da Dante al Novecento
nelle romanze e liriche dei compositori italiani,
a cura di Sabine Frantellizzi,
Lugano-Milano, CFS – Casagrande Fidia Sapiens, 2012,
384 pp. con due cd audio
(40 romanze e liriche di C. Pinsuti, A. Rotoli, S. Gastaldon,
M. Pilati, M. Castelnuovo-Tedesco, T. Mabellini, I. Pizzetti,
A. Gasco, O. Respighi, M. Persico, G. F. Ghedini, S. Noli, E.
De Leva, G. A. Pastore, M. E. Marangoni, F. P. Frontini, S.
Mercadante, A. Marchetti, R. Brogi, F. P. Tosti, A. Morelli, L.
Caracciolo, S. Falchi, R. Leoncavallo, L. Denza, R. Zandonai,
G. Sgambati e P. A. Tirindelli su versi da Dante Alighieri ad
Ada Negri; Fausto Tenzi tenore, Maurizio Carnelli pianoforte),
isbn 978-88-7795-212-7, euro 65.
di una tradizione cogente, giova tenere ampio il raggio della
comparazione. Il libro, ben articolato e ben scritto, mantiene le promesse: ogni indagine futura sulle strutture formali di queste opere «a tessuto continuo» dovrà misurarsi con
questo lavoro.
La storia del Canton Ticino è legata a filo doppio
col Risorgimento italiano: basti pensare alla lunga e feconda
presenza dell’esiliato Carlo Cattaneo, e al ruolo svolto dalle tipografie di Lugano e Capolago nella
diffusione degli ideali indipendentisti.
Alle recenti celebrazioni per l’Unità d’Italia un editore luganese, Giampiero Casagrande, ha inteso offrire un singolare omaggio che confermasse «l’appartenenza culturale della
Svizzera italiana alla
vicina Repubblica»:
con la collaborazione
di musicologi di nome, tra cui Guido Salvetti, Cesare Orselli, Philip Gossett, e di un tenore ticinese, Fausto Tenzi (accompagnato nei due cd audio dal pianista Maurizio Carnelli), ha imbastito un ponderoso ed erudito album di studi, Il Canto dei Poeti, copiosa antologia di romanze otto-novecentesche composte sui versi dei «poeti che
hanno fatto l’Italia», da Dante Alighieri ad Ada Negri. Nel
volume spicca il saggio del musicologo Carlo Piccardi, Correnti d’aria: storie di confine tra Svizzera e Italia, che ripercorre le vicende dell’ospitalità offerta a tanti e tanti musicisti
dalle valli della Svizzera italiana, di volta in volta come riparo alle persecuzioni vuoi confessionali (nel sec. xviii) vuoi
politiche (nel xix) o per l’attrattiva climatica dei luoghi. ◼
carta canta — libri
Le recensioni
73
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01.02.>12.05.2013
01.02.>12.05.2013
A
di Ilaria Pellanda
utenticità, personalità e stile, brani originali che si sposano a temi noti proposti e «trattati» con freschezza e intelligenza, melodie che si
mescolano, si sovrappongono, ritornano, rimandano, ricordano… Tutto questo, e molto altro ancora, lo si
può trovare nella Scorribanda di Marco Castelli (sassofonista, compositore e produttore, artista eclettico che si muove anche
nell’ambito del teatro, della danza e nel vasto territorio della performance intermediale) e della
sua BandOrkestra.55.
Uscito lo scorso settembre e prodotto dallo stesso Castelli, da Gabriele Centis, Fulvio Zafret (guest
alle percussioni) e dalla Casa della
Musica di Trieste (dov’è stato registrato), il nuovo disco propone
un mix di generi diversi, un impasto sonoro che è poi il marchio di
Scorribanda,
fabbrica della BandOrkestra.
BandOrkestra.55
Le nove tracce del cd propondiretta da Marco Castelli,
prodotto da Marco Castelli,
gono un viaggio in musica che va
Gabriele Centis, Fulvio Zafret
idealmente a completare il perproduttore esecutivo
corso iniziato con BandalarCasa della Musica di Trieste
ga (Extra Urbania / Blue Serge,
registrato, mixato
2005) e proseguito poi con Banmasterizzato da Fulvio Zafret
dando (cni 2009): più che il co(Urban Recording Studio
ronamento di una trilogia, però,
Casa della Musica-Trieste)
si tratta invece di un ulteriore tascni 2012
sello nella carriera dell’Orkestra,
che ondeggia tra aspetti popolari e altri di maggiore modernità. «L’intenzione è quella di traghettare la Banda verso il
terzo millennio», ha detto Marco Castelli, «e questo disco
segna un’inedita tappa in questa direzione».
Le sonorità dell’album non sono legate a doppio filo con la
tradizione jazzistica, pur rispecchiandone molti dei connotati, e vanno piuttosto a lambire varie parti del mondo per
attingervi ritmi e atmosfere: l’elemento balcanico (notevole la prima traccia, che dà il nome al disco) si sposa a quello africano, e quello più strettamente popolare a un’elettronica più spiccatamente moderna. Composta da quattordici
elementi, la BandOrkestra.55 non è infatti una Big Band in
senso classico ma piuttosto una sorta di Banda Moderna, appunto, che utilizza una miscela di swing, ska, boogie-woogie,
afro, latin, reggae e che mescola aspetti colti a momenti più
scanzonati. Da «Scorribanda» a «Vertical Dance», «Acqua» e alla «Battaglia di Zama» – tutte a firma di Castelli –, da «Baby Elephant Walk» a «Lullaby of Birdland»,
«Jacksong», «Quizas Quizas Quizas» e «Day Tripper»,
Scorribanda si muove a braccetto – fra gli altri e in maniera
del tutto originale – con Mancini, Gershwin, Lennon, McCartney, Jackson, in un gioco di note in continuo divenire.
Tra gennaio e febbraio, per chi volesse più che un assaggio
dal vivo, l’Orkestra di Castelli sarà al Vapore di Marghera
e al Q-Bar di Padova per le prime due tappe di un tour che
nel corso del 2013 proseguirà in altre località del Veneto e
dei suoi dintorni. (Per ulteriori informazioni: bandorkestra.
marcocastelli.org). ◼
La laguna provoca
dipendenza:
lo dicono
i «Veneziani per scelta»
È
stato presentato lo scorso 22 novembre alla Fondazione Querini Stampalia il libro Veneziani per scelta, curato da Caterina Falomo e Manuela Pivato per i tipi di Studio LT2 . Si tratta della terza fase di un progetto iniziato un paio di anni fa, che ha visto
la pubblicazione di Quando c’erano i veneziani (Studio LT2 ,
2010) e di I nuovi veneziani (Studio LT2 , 2011), un progetto
che, come scrive la stessa Falomo nella prefazione della nuova pubblicazione, «è stato e continua a essere una ricerca appassionata e curiosa tra le pieghe della città e di chi la vive».
Ecco allora che i Racconti di chi ha deciso di vivere in laguna
– è questo il sottotitolo del volume che in copertina disegna
una laguna, appunto, dai toni rosa shocking (la foto rielaborata è di Fulvio Roiter) – prendono vita dalle testimonianze di chi, per lavoro, amore, destino, ha eletto Venezia come
propria dimora; di chi, mentre la città continua a registrare
un inesorabile calo dei residenti, di lei proprio non può fare
a meno. In diciotto interviste a professionisti ed esponenti
della cultura, intervallate dalle illustrazioni in bianco e nero di Sergio Staino, Falomo e Pivato svelano i motivi di queste smisurate passioni.
Paolo Baratta (presidente della Biennale) ha «corteggiato
Venezia come si fa con le belle donne»; per Irene Bignardi
(critico cinematografico) la laguna è «come un piccolo love affair extraconiugale. Rende
migliore la mia vita romana»;
secondo Pierre Cardin (stilista)
«Venezia non sta morendo, è la
sua morfologia a essere cambiata. Accogliere i turisti fa parte
della sua cultura»; per Giorgia Fiorio (fotografa) si tratta di
«una città piena di doppi e tripli fondi. Per questo più la abiti
e più la apprezzi»; Ottavia Piccolo (attrice) ha capito di «essere diventata compiutamente veneziana il giorno in cui ho
iniziato a lamentarmi»; secondo Philippe Starck (designer)
«a Venezia non si può scappare
né consumare l’altro. Per questo il rispetto reciproco è fortiscaterina falomo
simo»; e poi ancora: Jennifer
e manuela pivato
Cabrera Fernàndez (ballerina),
(a cura di),
Frances Clarke (presidente di
Veneziani per scelta.
Venice in Peril Fund), Andrea
I racconti di chi ha deciso
di Robilant (scrittore), Vittodi vivere in laguna,
rio Gregotti (architetto), GeofStudio LT2, Venezia, 2012,
124 pp., euro 16.
frey Humphries (pittore), Danilo Mainardi (etologo), Moulaye Niang (maestro vetraio), Salomon Resnik (psicanalista), Cesare Rimini (avvocato), Gaston Salvatore (drammaturgo), Luigi Strada (medico chirurgo fondatore di Emergency), Michel Thoulouze (produttore di vini). Tutti «laguna-dipendenti». Perché, come disse Peggy Guggenheim,
«vivere a Venezia, o semplicemente visitarla, significa innamorarsene e nel cuore non resta più posto per altro». (i.p.) ◼
carta canta — dischi - libri
La nuova
«Scorribanda»
di Marco Castelli
75
carta canta — libri
76
Il teatro del professore
Due nuove raccolte
di Paolo Puppa
P
di Leonardo Mello
emerge con maggior forza è la potenza della scrittura, che ribollisce nelle battute incalzanti, e non sembra avere – almeno scopertamente – alcun modello di riferimento, nutrendosi
invece di un’originalità stilistica raramente rintracciabile nel
teatro odierno. La sempre montante nevrosi, spesso sessuale,
come cifra della contemporaneità, e lo sguardo consapevole (e
discreto) dell’intellettuale che sta dietro le sapienti costruzioni drammaturgiche sono tra gli elementi che fanno da fil rouge, venati qua e là da un sarcasmo della ragione e da momenti
invece più lirici ed elegiaci. Anche la lingua ha una tavolozza
aolo Puppa, ordinario di Storia del Teatro a Ca’ Foscari, è autore drammatico da tempo pubblicato, tradotto e studiato (recentemente alla sua drammaturgia, insieme a quella, altrettanto densa, di Vittorio Franceschi è stata dedicata una due
giorni all’Università di Bologna). E al già fitto catalogo di testi editi si aggiunge ora un nuovo
dittico, composto da Le commedie del professore, raccolta che riunisce quattro pièce inedite – Intervista alla Marchesa, Selvaggia,
la notte, L’Ateneo delle Meduse e
Girolamo) e Cronache venete, collage di dodici, mirabili «assoli».
Il primo volume presenta due
composizioni a struttura dialogica: la Marchesa – cui ha dato vita scenica Milena Vukotic
– è Luisa Casati, una delle tante
amanti di D’Annunzio, che viene «torchiata» da un giornalista affamato di pettegolezzi sulla vita del Vate, mentre Selvaggia, la notte descrive un rapporto
sofferto e impossibile tra Emily
Dickinson e un suo appassionato, fervente ammiratore di oggi:
a questa conversazione rarefatta
e ora struggente ora inquietante
hanno dato voce alle Sale Apollinee lo stesso autore (che continua nell’inesausta e applaudita
attività di performer, in patria e
all’estero) e un’altra grande attrice delle nostre scene come Elena
Bucci (cfr. vmed n. 44, p. 35). A
seguire un ironico affresco a cinque personaggi, realizzato nel
2011 all’interno delle Esperienze di Giovani a Teatro, in occasione del laboratorio di scrittura
paolo puppa,
teatrale «Parole in forma sceniCronache venete
ca», dove la vanità inconcluden(Menippo a Montebelluna,
te e vaniloquente degli accademiIn via Paolo Caliari, a Verona,
ci è messa alla berlina prendendo
Caco di Asiago,
spunto da un convegno pseudoSaturno in Via Fapanni, Mestre,
scientifico sulla figura mitologica
Abramo a Prato della Valle, Padova,
di Medusa. Chiude un’altra figuUn confessionale. Chiesa dei Carmini,
Salomè a Pordenone,
ra di studioso frustrato, incarnaTersite a Piazzale Roma,
ta in Girolamo, che cova un’irriOnan ad Auronzo,
ducibile invidia per il più celebre
Fedra a Treviso,
collega Agostino.
Filemone al cimitero di Cortina,
Ma al di là delle necessaria- Sarah a Vicenza, vicino al Teatro Olimpico),
mente sintetiche parole di spie- introduzione di Gerardo Guccini, Titivillus,
gazione, rintracciabili in qualsiCorazzano (pi) 2012,
asi quarta di copertina, ciò che
euro 11.
assai variegata, passando dall’inglobazione degli
slang a improvvise impennate nelle zone alte della nostra tradizione. Il tutto sfuggendo sempre il
pericolo di un eccesso di letterarietà e restando
invece intrinsecamente, essenzialmente teatrale.
A mo’ di suggestione, senza i nessi necessari per
contestualizzare le due battute, si fornisce qui un
piccolo assaggio, preso in prestito alla Dickinson
e al suo immaginario innamorato:
lei Niente cortei per la Main Street, ma via, via,
quasi di corsa, tra i campi incolti verso il cimitero. Il
granoturco mi salutava per l’ultima volta. Nei campi,
i carri affondavano a caricar zucche. A tavola avrebbero tolto il mio piatto? Mi avviavo lungo grandi strade di silenzio che portavano lontano, a paesi di pausa,
dove il tempo non aveva più fondamento. Sono scesa
allora nella tomba, mentre un asse del mio cervello si
spezzava e precipitavo giù, giùùùùù, attraverso nuovi mondi ad ogni successiva caduta in basso. Poi, ho
finito di capire. Nella mia stanza, avevano disposto
mazzetti di margherite e mughetti, quelli che inserivo nelle lettere agli amici. Ero persino diventata bella,
hanno scritto. Scomparse le rughe e il bianco dai capelli, spalancata la fronte alla pace. Penetrare nell’eternità è solo una notte selvaggia e una nuova strada.
lui Selvaggia come la tua notte potente, eh, come le
tue passioni nascoste? Quando le tue labbra invocavano e gemevano per un Eden sconosciuto, e volevi aspirarne i gelsomini, perdendoti nei suoi profumi. Ma a
chi ti riferivi? Emily, a chi? A chi? Quel Tu sempre imprecisato, Dio, uomo, donna, il Master delle lettere
misteriose? Quel Tu mai nominato è stato all’inizio
il pastore presbiteriano Charles Wadsworth dalla voce profonda, il gran predicatore, a cui riservavi i tuoi
sorrisi quando ormai non c’era più? Oppure il giudiPaolo Puppa.
ce Lord? A lui confessavi uno strano sogno, quello di perdere la tua
guancia nella sua mano. Gli confidavi anche di meravigliarti quanto ti mancasse di notte, dal momento che non eri mai stata con lui.
Ti svegliavi calda dal trasporto che il sonno aveva
in qualche modo appagato. E poi gli mandavi allusioni eloquenti, dove giacevi vicino al suo desiderio. E gli chiedevi di stare tra le sue braccia dentro la notte felice.
Il secondo libro, Cronache venete, è composto esclusivamente di monologhi. Ma anche
in questa struttura «solitaria» il dialogo con
i personaggi evocati dal parlante di turno è
continuo e costante. Talvolta si tratta di figure prese dal mondo antico, come ad esempio
il filosofo Menippo, e spesso appartenenti al
mito – Fedra, Filemone, ecc. ecc. – che però
sono calate nel cosiddetto «territorio», vale a
dire nel famoso Nordest, a contatto con la realtà disincantata del mondo attuale (qualche
titolo esemplificativo: Caco ad Asiago, Saturno in Via Fapanni – Mestre, Abramo a Prato della Valle – Padova…). Alfredo Sgroi, del
resto, dedicando un breve saggio al teatro di
Puppa parlava di «rinascita del mito e degradazione borghese» (cfr. (cfr. vmed n. 40, p.
13). Anche qui il linguaggio è estremamente diversificato, e, come sempre, dominante
è la varietà dei toni, che vanno dal corrosivo
all’intimistico, dal grottesco al quotidiano,
dal sublime al colloquiale. Anche in questo
caso, per offrire un semplice saggio di queste
dodici «cronache» si sceglie quella forse più
dolente, Filemone al cimitero di Cortina, dove un vecchio ordinario di storia dell’arte dialoga giornalmente con la moglie morta (chiamandola Bauci, ma anche affettuosamente
«ranocchia» e «vecchia mia»), almeno fino a quando un giovane dai denti bianchissimi, che è la sua antitesi esistenziale (ignorante, divo della televisione, ricco e disinibito) non giunge a turbare, almeno un po’, l’ordinato flusso della sua vita:
In alto: Milena Vukotic e Marco Gambino
in Intervista alla marchesa,
regia di Terry D’Alfonso.
Sopra: Elena Bucci.
[…] Qualche pomeriggio mi spingo sino alla biblioteca e protesto
perché acquistano pochi libri ormai. Sanno che tutti i miei li lascerò a loro, e specie per quelli di arte sono un bel lascito, ma devono
darsi da fare, crisi o non crisi. Più spesso, me ne sto appisolato il pomeriggio
ad ascoltare buona musica da camera.
Ma tu sei o non sei là, dietro a qualche
nuvola? Non giudicarmi male. Non ho
avuto il coraggio di farla finita. Perché a
me le grandi scene non sono mai piaciute. E uscire in anticipo, magari sbattendo la porta, sarebbe costruire una scena.
Anche per i commenti. Il vecchio, o anziano come dicono oggi, l’orso solitario
che vive nella casa lasciatagli dalla moglie infelice, perché sterile, non ha resistito ai rimorsi. […] Certe sere, quando ci sono le stelle e fa caldo mi verrebbe
voglia di uscire, ma con chi? Mi sembrerebbe di tradirti con una qualche inautentica socialità. Nei bambini, ripetevi,
c’è Dio, come nei gatti. Era il tuo pensiero fisso, quello di un figlio. E in effetti, i
bambini, quasi tutti, hanno un Dio dentro. Ma poi crescono, ranocchia, mettono su baffi e petto, e vogliono fare quello
che piace loro. In realtà mandano avanti la macchina nauseante della vita. Altre nascite, altri gemiti, altre digestioni.
E spendere soldi, e rubarli o farseli rubare. E intanto il tempo avanza, e a noi resta solo il ricordo che è sempre bugiardo.
In conclusione, tornando al doppio
ruolo di professore e drammaturgo
che contraddistinguono Paolo Puppa (lui stesso, nel prologo alle Commedie del professore, si definisce «anfibio»), si vuole citare un brano della
bella introduzione di Gerardo Guccini alle Cronache venete, dove viene
fatto il punto proprio su questa fruttuosa dualità:
paolo puppa,
Le commedie del professore
(Intervista alla Marchesa, Selvaggia, la notte,
L’Ateneo delle Meduse e Girolamo),
Editoria & Spettacolo,
Roma 2012, 156 pagine, euro 13.
«Il ritratto, l’estrazione meticolosa
e paziente dei contenuti visionari della scrittura, le implicazioni psichiche
dei gesti estetici e di quelli biografici,
la ricomposizione della storia teatrale a
partire dalle traiettorie umane dei teatranti, sono i principali strumenti metodologici e, al contempo, espressivi,
che consentono a Paolo Puppa di attraversare indenne ideologismi e problematiche teoriche, traendone, anzi, conoscenze riferibili al turbinoso coacervo pulsionale e intellettivo che determina l’agire umano e persiste poi nelle
opere realizzate. Per queste ragioni, la
dimensione accademica e scientifica di
Puppa storico del teatro non si contrappone alla molteplice creatività di Puppa
dramaturg e performer. Tutto all’opposto, la prepara, la alimenta, le offre di
scorcio soluzioni, idee, materiali e prospettive». ◼
carta canta — libri
77
Stagione 2012-2013
Fondazione Teatro La Fenice
Concerti al Teatro La Fenice
Concerti al Teatro Malibran
Concerto Thielemann
Concerto Chung a Palazzo Ducale
Dove acquistare i biglietti
platea
settore A
settore B (file E-M)
€ 60,00
€ 70,00
platea
€ 60,00
settore A (centrale)
settore B (semicentrale)
settore C (laterale)
€ 70,00
€ 50,00
€ 60,00
€ 50,00
€ 120,00
€ 140,00
palco centrale
posti di parapetto
posti non di parapetto
balconata
I settore
II settore
platea
settore A
settore B (file E-M)
palco centrale
posti di parapetto
posti non di parapetto
€ 60,00
€ 45,00
palco centrale
posti di parapetto
posti non di parapetto
€ 120,00
€ 100,00
Venezia
Teatro La Fenice, Campo San Fantin, San Marco 1965: aperta tutti i giorni dalle 10.00 alle 17.00
Piazzale Roma: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30
Tronchetto: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30
Lido, Piazzale Santa Maria Elisabetta: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30 (solo per acquisto biglietti)
palco laterale
posti di parapetto
posti non di parapetto
€ 45,00
€ 30,00
palco laterale
posti di parapetto
posti a scarsa visibilità
posti di solo ascolto
€ 90,00
€ 45,00
€ 15,00
galleria
loggione
€ 28,00
€ 20,00
galleria e loggione
posti a scarsa visibilità
posti di solo ascolto
€ 70,00
€ 40,00
€ 15,00
Prezzi singoli concerti
palco laterale
posti di parapetto
posti a scarsa visibilità
posti di solo ascolto
€ 55,00
€ 20,00
€ 15,00
galleria e loggione
posti a scarsa visibilità
posti di solo ascolto
€ 35,00
€ 20,00
€ 15,00
Prezzi singoli concerti
Prezzi singoli concerti
Prezzi singoli concerti
I biglietti sono acquistabili presso i seguenti punti vendita della rete Hellovenezia:
€ 120,00
€ 140,00
€ 140,00
Mestre
Via Verdi 14/D: dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 18.30 - sabato dalle 8.30 alle 13.30
Dolo
Via Mazzini 108: dal lunedì al sabato dalle 8.30 alle 18.30 (solo per acquisto biglietti)
Sottomarina
Viale Padova 22: tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.30 (solo per acquisto biglietti)
Un’ora prima dell’inizio presso la sede dello spettacolo (solo per acquisto biglietti della serata)
Biglietteria telefonica: (+39) 041 2424 (commissione telefonica del 10%, solo per acquisto biglietti):
tutti i giorni, fino al giorno precedente allo spettacolo, dalle 9.00 alle 18.00
Al Teatro La Fenice i possessori dell’intero palco (4 posti) possono acquistare altri posti fino alla massima capienza consentita, al prezzo ciascuno di € 10,00.
Biglietteria on-line: www.teatrolafenice.it (solo per acquisto biglietti)
Biglietteria via fax: (+39) 041 2722673 (solo per acquisto biglietti e conferma prelazioni abbonamenti)
Stagione
SINFONICA
Nel segno di Mahler
Teatro La Fenice
Teatro La Fenice
Teatro Malibran
2012-2013
Teatro Malibran
venerdì 5 ottobre 2012 ore 20.00 turno S
domenica 7 ottobre 2012 ore 17.00 turno U
venerdì 22 febbraio 2013 ore 20.00 turno S
sabato 23 febbraio 2013 ore 17.00 turno U
mercoledì 8 maggio 2013 ore 20.00 turno S
giovedì 9 maggio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento
venerdì 7 giugno 2013 ore 20.00 turno S
sabato 8 giugno 2013 ore 20.00 fuori abbonamento
direttore
Diego Matheuz
direttore
Stefano Montanari
direttore
direttore
Sergej Prokof'ev
Diego Matheuz
Maurice Ravel
Wolfgang Amadeus Mozart
Autore da definire
Wolfgang Amadeus Mozart
Sinfonia concertante per oboe, clarinetto, corno,
fagotto e orchestra
in mi bemolle maggiore KV Anh. I, 9
Wolfgang Amadeus Mozart
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Sinfonia n. 40 in sol minore KV 550
Pavane pour une infante défunte
per piccola orchestra
Concerto per pianoforte e orchestra n.20
in re minore KV 466
pianoforte Leonardo Pierdomenico
vincitore del Premio Venezia 2011
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 Patetica
Orchestra del Teatro La Fenice
Sinfonia n. 29 in la maggiore KV 201
Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64
Orchestra del Teatro La Fenice
Teatro Malibran
venerdì 1 marzo 2013 ore 20.00 turno S
sabato 2 marzo 2013 ore 17.00 turno U
direttore
Teatro La Fenice
lunedì 22 ottobre 2012 ore 20.00 turno S
direttore
Diego Matheuz
Gianluca Cascioli
Yuri Termirkanov
composizione vincitrice del Concorso Francesco Agnello 2012
Suite dal balletto Lo schiaccianoci op. 71a
Variazioni su un tema Rococò per violoncello e
orchestra in la maggiore op. 33
Trasfigurazione
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Modest Musorgskij
Sinfonia n. 3 in re maggiore op. 29
Quadri di un’esposizione
trascrizione per orchestra di Maurice Ravel
Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala
Orchestra del Teatro La Fenice
Teatro La Fenice
Teatro La Fenice
venerdì 22 marzo 2013 ore 20.00 turno S
domenica 24 marzo 2013 ore 17.00 turno U
direttore
Gabriele Ferro
venerdì 7 dicembre 2012 ore 20.00 turno S
domenica 9 dicembre 2012 ore 17.00 turno U
Diego Matheuz
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Sinfonia n. 2 in do minore op. 17 Piccola Russia
Sinfonia n. 1 in sol minore op. 13 Sogni d’inverno
direttore
Igor Stravinskij
Pulcinella, suite per orchestra da camera
Sergej Prokof’ev
Sinfonia n. 1 in re maggiore op. 25 Classica
Orchestra del Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
Basilica di San Marco
Teatro Malibran
giovedì 13 dicembre 2012 ore 20.00 solo per invito
venerdì 14 dicembre 2012 ore 20.00 turno S
venerdì 26 aprile 2013 ore 20.00 turno S
domenica 28 aprile 2013 ore 17.00 turno U
direttore
Claudio Scimone
Stefano Montanari
programma da definire
Orchestra del Teatro La Fenice
in collaborazione con la Procuratoria di San Marco
direttore
Wolfgang Amadeus Mozart
Sinfonia n. 1 in mi bemolle maggiore KV 16
Concerto per fagotto e orchestra in si bemolle maggiore KV 191
Sinfonia n. 38 in re maggiore KV 504 Praga
Orchestra del Teatro La Fenice
Per informazioni, prenotazioni e acquisto biglietti
Information and ticket booking
call center Hellovenezia (+39) 041.2424
www.teatrolafenice.it
Nuova commissione Progetto contemporaneo
Concerto per flauto, arpa e orchestra
in do maggiore KV 299
Orchestra del Teatro La Fenice
Teatro Malibran
giovedì 16 maggio 2013 ore 20.00 turno S
venerdì 17 maggio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento
direttore
Rinaldo Alessandrini
Autore da definire
Nuova commissione Progetto contemporaneo
Wolfgang Amadeus Mozart
Concerto per corno e orchestra n. 3
in mi bemolle maggiore KV 447
Sinfonia n. 39 in mi bemolle maggiore KV 543
Orchestra del Teatro La Fenice
Diego Matheuz
Marcia in si bemolle maggiore op. 99
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Serenata per archi in do maggiore op. 48
Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36
Orchestra del Teatro La Fenice
Cortile di Palazzo Ducale
venerdì 19 luglio 2013 ore 20.00 turno S
domenica 21 luglio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento
direttore
Myung-Whun Chung
Giuseppe Verdi
Messa da Requiem per soli, coro e orchestra
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
FUORI ABBONAMENTO
Teatro La Fenice
giovedì 30 maggio 2013 ore 20.00 fuori abbonamento
Teatro Malibran
venerdì 24 maggio 2013 ore 20.00 turno S
domenica 26 maggio 2013 ore 17.00 turno U
direttore
Rinaldo Alessandrini
Wolfgang Amadeus Mozart
Divertimento per archi n. 1 in re maggiore KV 136
Concerto per pianoforte e orchestra
pianoforte Vincitore del Premio Venezia 2012
Sinfonia n.41 in do maggiore KV 551 Jupiter
direttore
Christian Thielemann
Richard Wagner
Der fliegende Holländer: Ouverture
Eine Faust-Ouvertüre WWV 59
Rienzi: «Allmächtiger Vater»
Rienzi: Ouverture
Lohengrin: Preludio
Lohengrin: «In fernem Land»
Hans Werner Henze
Isoldes Tod per orchestra
Orchestra del Teatro La Fenice
commissione del Festival di Pasqua di Salisburgo e della Staatskapelle di Dresda
per i 200 anni dalla nascita di Richard Wagner (22 maggio 1813)
Teatro La Fenice
Richard Wagner
sabato 1 giugno 2013 ore 20.00 turno S
direttore
Dmitrij Kitajenko
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35
prima esecuzione italiana
Tannhäuser: «Inbrunst im Herzen»
Tannhäuser: Ouverture
tenore Johan Botha
Sächsische Staatskapelle Dresden
Igor Stravinskij
Le sacre du printemps
Orchestra del Teatro La Fenice
F ONDAZIONE T EATR O L A F ENICE
D
di Leonardo Mello
opo aver ideato la grande festa del teatro,
che nel giugno scorso ha coinvolto con molto
successo tantissime scuole del nostro territorio,
ora Laura Barbiani, presidente del Teatro Stabile del Veneto, per celebrare i vent’anni di attività dell’istituzione
da lei guidata si fa autrice curando Il Teatro Stabile del Veneto.
Vent’anni di produzioni 1992-2012. Il volume si presenta accattivante e di immediata e
avvincente lettura, forse perché rifugge la retorica degli anniversari concentrandosi invece sul racconto degli
ottantuno spettacoli
prodotti dal 1992 a oggi. Ma quello che colpisce maggiormente è
il taglio dato alla narLaura Barbiani (a cura di),
Il Teatro Stabile del Veneto.
razione, come esplicita il titolo del lungo te- Vent’anni di produzioni 1992-2012,
interventi di Marino Zorzato,
sto, Un sogno, restare
Orsoni, Andrea Colasio,
nella memoria del pub- Giorgio
Alessandro Gassmann,
blico. E quest’impostacatalogo delle produzioni
zione è confermata sin
a cura di Sara Perletti,
dalla pagina di apertuMarsilio, Venezia 2012,
144 pagine.
ra: «Una carrellata, e
un’esposizione di foto
e manifesti di cui è difficile scrivere perché il teatro vive solo nel presente, e anzi solo “del” presente di ogni singola rappresentazione condivisa da quella singola comunità di pubblico. Quando si smonta uno spettacolo, infatti, quel pezzo di teatro muore perché senza pubblico il teatro non esiste. […] Ma allora che senso ha questo catalogo? A mio parere uno soprattutto, importantissimo: parlare alla memoria
di chi era in sala quando i nostri spettacoli erano in scena, richiamare le emozioni che il teatro regala da millenni, dialogare insomma con ciò che non muore soffocato sotto il peso
dell’ultima calata di sipario; e non importa se poi si tratta solo di tracce sommerse d’esperienza o invece di ricordi in piena luce, perché saranno comunque elementi di quella cultura condivisa che è a sua volta parte necessaria del teatro che
verrà». In questo contesto compaiono i protagonisti di questi primi vent’anni dello Stabile, a cominciare da Giulio Bosetti, che ne fu primo direttore artistico, per arrivare, attraverso illustratissime tappe, all’attuale conduzione di Alessandro Gassmann, con il quale il teatro si è aperto maggiormente alla contemporaneità. Il percorso scivola via agevole,
mantenendo l’impegno – come da premessa programmatica
– di restituire scene, volti, grandi interpreti rimasti impressi nella memoria degli spettatori. Un’opera pregevole e da tenere a portata di mano, sia per consultarla che per gustarsela seduti in poltrona. ◼
In volume un omaggio
allo storico della danza
José Sasportes
P
di Ilaria Pellanda
ubblicato per i tipi di aracne, è uscito sul finire del 2012 Passi, tracce, percorsi. Scritti sulla danza
italiana in omaggio a José Sasportes. Curato da Alessandro Pontremoli e Patrizia Veroli – che scrive anche il saggio su «Boris Romanoff in Italia» – il volume rende omaggio a una delle personalità che maggiormente hanno operato per la valorizzazione della cultura coreografica
nel nostro Paese.
Portoghese di nascita, scrittore e storico della danza e già
ministro della Cultura del Portogallo, José Sasportes – che
lo scorso dicembre ha compiuto settantacinque anni, festeggiati presso la Sala Borromini della Biblioteca Vallicelliana
di Roma, dove, per l’occasione, è stato presentato il suddetto
volume (realizzato con il contributo di airdanza) – giunge
in Italia nel 1976, e nel 1984 fonda la rivista «La Danza Italiana», che va a marcare uno spartiacque nella cultura coreutica del nostro Paese. «Affiancandosi come impostazione a
riviste affermatesi per lo più in ambito anglosassone e poco
tempo prima anche in Francia (da “Dance Index” a “Dance
Perspectives”, da “Dance Chronicle” a “Dance Research” e a
“La Recherche en Danse”)», scrive Patrizia Veroli nelle prime righe della sua premessa, «il periodico condivideva con
esse un obiettivo di studio legato alla danza d’arte e teatrale,
rimanendone escluse dunque la danza popolare e quella di
sala. La rivista nasceva, come Sasportes dichiarava nel primo
numero, “da una carenza e da una convinzione. La carenza
sta nella mancanza di una storia della danza in Italia […]. La
convinzione deriva dalla certezza che la storia della danza in
Europa, così come oggi risulta dai testi, è incompleta e distorta proprio a causa di una imperfetta conoscenza di ciò che è
stata la danza italiana”».
Il volume è composto da
venticinque testi che, tra ricerca, memorie e riflessioni,
ripercorrono alcuni dei nodi che hanno caratterizzato la storia del ballo e i rapporti che esso ha intrattenuto con la società nei suoi vari
aspetti, dal Seicento ai giorni nostri.
All’omaggio hanno preso parte Michele Abbondanza, Laura Aimo, Alessandro Arcangeli, Leonetta
Bentivoglio, Carolyn Carlson (suo anche Gratitude,
l’Inchiostro del 2012 pubblicato in copertina), Sybilalessandro pontremoli
le Dahms, Ornella Di Tone Patrizia veroli (a cura di),
do, Rita Maria Fabris, FranPassi, tracce, percorsi.
cesca Falcone, Lynn GaraScritti sulla danza
fola, Gloria Giordano, Elisa
in omaggio a José Sasportes,
Guzzo Vaccarino, Concetaracne editrice, Roma, 2012,
349 pp., euro 18.
ta Lo Iacono, Sylvie Mamy,
Sarakìh McCleave, Valeria
Morselli, Cevilia Nocilli, Marina Nordera, Maurizio Padovan, Francesca Pedroni, Silvia Poletti, Barbara Sparti, Alberto Testa, Lorenzo Tozzi. ◼
carta canta — libri
Laura Barbiani
racconta i vent’anni
dello Stabile del Veneto
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VeneziaMusica e dintorni
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Bimestrale di musica e spettacolo
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Le collaborazioni di questo numero
• Fabio Achilli (p. 57)
Direttore della Fondazione di Venezia
• Enrico Fiore (p. 46)
Critico teatrale
• Giò Alajmo (p. 38 e pp. 42- 44)
Critico musicale
• Tommaso Gastaldi (p. 35)
Giornalista freelance
• Carmelo Alberti (p. 45)
Critico teatrale
Università Ca’ Foscari di Venezia
• Giovanni Greto (p. 37)
Critico musicale
Musicista
• Shaul Bassi (pp. 48-49)
Università Ca’ Foscari di Venezia
• Giuseppina La Face Bianconi (p. 73)
Università di Bologna
• Gualtiero Bertelli (pp. 40-41)
Cantautore
• Fernando Marchiori (p. 39)
Scrittore
Critico teatrale
• Manuela Bertoldo (pp. 60-61)
Urbanista
Redazione Agenda Venezia
• Giorgio Busetto (pp. 62-64)
Direttore della Fondazione
Ugo e Olga Levi
Università Ca’ Foscari di Venezia
• Angela Ida De Benedictis (p. 29)
Musicologa
Direttore scientifico
del Centro Studi Luciano Berio
• Fabrizio Della Seta (pp. 14-15)
Musicologo
Università di Pavia
• Maria Chiara Del Piccolo (p. 31)
Studiosa di musica
• Gianni Di Capua (p. 58)
Regista e filmmaker
• Vitale Fano (p. 28)
Musicologo (Università di Padova)
• Roberta Ferraresi (p. 56)
Critico teatrale
• Cristina Palumbo (p. 57)
Consulente Giovani a Teatro
Fondazione di Venezia
• Jacopo Pellegrini (p. 65)
Critico musicale
• Paolo Petazzi (p. 22)
Critico musicale
Conservatorio di Musica
«Giuseppe Verdi» di Milano
• Manuela Pivato (p. 36)
Giornalista
• Massimo Marino (p. 54)
Critico teatrale
• Quirino Principe (pp. 20-21)
Musicologo
Critico musicale
Scrittore
• Andrea Oddone Martin (p. 30)
Critico musicale
• Riccardo Rocca (pp. 12-13)
Musicologo
• Alberto Massarotto (p. 55)
Critico musicale
• Emilio Sala (pp. 66-69)
Università Statale di Milano
• Mario Merigo (p. 24)
Critico musicale
Direttore d’orchestra
• Mirko Schipilliti (pp. 18-19 e p. 25)
Musicista
Critico musicale
• Mario Messinis (p. 23)
Critico musicale
• Chiara Squarcina (p. 27)
Musicologa
• Guido Michelone (p. 34)
Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano
Conservatorio di Musica
«Antonio Vivaldi» di Alessandria
Critico musicale
• Vitaliano Trevisan (p. 52)
Scrittore
Drammaturgo
• Letizia Michielon (p. 26)
Musicista
Critico musicale
• Iván Vándor (p. 72)
Compositore
Etnomusicologo
• John Vignola (pp. 32-33)
Critico musicale
• Francesco Zambon (pp. 70-71)
Università di Trento
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Eresia della felicità a Venezia
Anno IX - marzo / aprile 2012 - n. 45 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice
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Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
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Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. 48 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
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