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Parere n. 15
Atti emulativi e condominio
(Cass. 1209/2016)
Il condominio Alfa, con delibera adottata a maggioranza, disattiva l’impianto di riscaldamento centralizzato.
La delibera viene dichiarata nulla dal tribunale, su ricorso del condomino
Tizio, con sentenza passata in giudicato.
Nel frattempo tutti i condomini (ad eccezione di Tizio) si sono convertiti
all’impianto autonomo, non avendo l’attore chiesto la sospensione della
delibera.
Tizio si attiva per ottenere il ripristino dell’impianto centralizzato, sebbene
obsoleto, e vede accolta la propria domanda dal tribunale, poiché, secondo il giudice di primo grado: a) non può ritenersi emulativo l’atto rispondente a un apprezzabile interesse del proprietario; b) al giudice è preclusa
la valutazione comparativa fra gli interessi in gioco; c) è legittima la pretesa del condomino al ripristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato
soppresso dall’assemblea dei condomini con delibera dichiarata illegittima,
essendo irrilevanti sia l’onerosità per gli altri condomini (nel frattempo dotatisi di impianti autonomi unifamiliari) delle spese necessarie a tale ripristino (pari a circa 100 mila euro), sia l’eventuale possibilità, per il condomino che ha vittoriosamente impugnato la delibera, di ottenere, a titolo di
risarcimento del danno, il ristoro del costo necessario alla realizzazione di
un impianto di riscaldamento autonomo.
Il candidato, assunte le vesti del legale del condominio, rediga parere motivato in vista di un eventuale atto di appello.
L’azione di Tizio, contrariamente a quanto affermato dal giudice di
prime cure, ha carattere emulativo ex art. 833 c.c.
In proposito, la giurisprudenza (v. tra le altre, Cass. 5421/2001) ritiene che l’atto emulativo si inscriva nell’ambito dei limiti alle facoltà di
godimento da parte del proprietario e, dunque, al contenuto del diritto
di proprietà, sanzionando come comportamenti illeciti atti astrattamente conformi al diritto, in quanto esplicazioni delle suddette facoltà.
Si pone, quindi, il problema di individuare, nell’ottica legislativa, la
linea di discrimine che consenta di enucleare un criterio oggettivo per
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valutare o meno come atti emulativi quelli commessi dal proprietario
nell’esercizio del suo diritto.
L’elemento decisivo è costituito dalla mancanza di un apprezzabile vantaggio dell’atto per colui che lo compie, poiché l’assenza di
qualsiasi giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale rivela la mera ed esclusiva intenzione di nuocere o recare molestia ad altri e dunque lo scopo emulativo dell’atto stesso.
A diverse conclusioni deve invece giungersi allorché l’atto determini un’utilità per il suo autore, come nell’ipotesi della proposizione di
una domanda avente ad oggetto l’eliminazione di una veduta aperta
dal vicino a distanza illegale, che tende al riconoscimento della libertà
del fondo e alla rimozione di una situazione illegale e pregiudizievole
(Cass. 11852/1997), oppure di una domanda volta ad ottenere il rispetto delle distanze tra fondi o fabbricati vicini (Cass. 164/1981): in questi casi è prevalente, sull’eventuale intenzione di nuocere o di recare
molestia ad altri, il perseguimento di un interesse concreto e di un’utilità effettiva ricollegabili alle facoltà di godimento del diritto, cosicché
il suo esercizio è meritevole di tutela.
La valutazione in ordine all’utilità o meno dell’atto posto in essere
dal proprietario deve essere effettuata di volta in volta con riferimento
alle singole fattispecie esaminate. Significativa si rivela, ad esempio, la
distinzione cui è pervenuta la giurisprudenza che, pur escludendo di
poter configurare come atto emulativo da parte del proprietario l’esercizio della facoltà di chiusura del fondo, ha fatto salva l’ipotesi che le
specifiche modalità di essa (nella specie con un muro in sostituzione
della rete metallica) potessero in concreto integrare l’atto emulativo
(Cass. 5066/1986).
In definitiva, quindi, la sussistenza di un atto emulativo presuppone il concorso di due elementi, ovvero che sia privo di utilità per chi
lo compie e che abbia il solo scopo di nuocere o di recare molestia ad
altri (Cass. 3275/1999, 12258/1997).
L’art. 833 c.c. è stato utilizzato come referente normativo per dare
vita alla figura generale dell’abuso del diritto.
Il codice civile non contiene una previsione generale di divieto di
esercizio del diritto in modo abusivo, ma solo specifiche disposizioni
in cui viene sanzionato l’abuso.
La principale di queste è certamente l’art. 833 c.c., che la dottrina riferisce non solo alla proprietà ma anche a tutti i diritti reali di godimento.
Altri casi sono la minaccia di far valere un diritto (art. 1438 c.c.), il
divieto di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.), il divieto per il proprietario del suolo di impedire attività che si svolgano ad altezza o profondità tali per le quali non vi e interesse ad escluderle (art. 840 c.c.), l’ob-
Pareri di diritto civile
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bligo di accettare immissioni che non eccedano la normale tollerabilità (art. 844 c.c.), l’abuso dei poteri del genitore (art. 330 c.c.) e l’abuso
dell’usufruttuario e del creditore pignoratizio (artt. 1015 e 2793 c.c.).
Inoltre, vi sono situazioni che rappresentano indici normativi per
dimostrare la sensibilità del diritto al problema dell’abuso: l’art. 1447
c.c. sul contratto concluso in stato di pericolo, l’art. 1448 c.c. sulla rescissione per lesione, l’art. 1328 c.c. sulla revoca dell’accettazione nel
caso di inizio in buona fede dell’esecuzione del contratto, l’art. 81 c.c.
sul risarcimento del danno seguente alla rottura della promessa di matrimonio e l’art. 1341 c.c. sulle clausole vessatorie.
Ribadito, allora, che manca nell’ordinamento civilistico una generale previsione normativa di divieto di abuso del diritto, essendo disciplinate solo specifiche ipotesi di abuso, sorge il problema di comprendere se da tali singole ipotesi possa enuclearsi un divieto generale di
esercizio del diritto in modo abusivo, che preveda che il diritto soggettivo cessi di ricevere tutela laddove sia esercitato per una finalità che
ecceda i limiti stabiliti dalla legge.
In sostanza, ci si chiede se possano essere colpiti quei comportamenti che, pur integrando formalmente gli estremi dell’esercizio di un
diritto, debbano ritenersi privi di tutela, o addirittura illeciti.
La dottrina maggioritaria offre risposta positiva al quesito, poiché
nessun diritto può considerarsi illimitato, e occorre allora reprimere
quei comportamenti che sono abusivi pur non rientrando in precisi
schemi normativi esistenti.
Anche la giurisprudenza (Trib. Reggio Emilia 7-7-2015) si colloca sulla stessa linea interpretativa, affermando che, pur se il codice civile non
contiene una previsione generale di divieto di esercizio del diritto in
modo abusivo ma solo specifiche disposizioni in cui viene sanzionato
l’abuso con riferimento all’esercizio di determinate posizioni soggettive, da tali singole ipotesi può enuclearsi un principio generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo, ricorrente in tutti quei casi
in cui si verifica un’alterazione della funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere di autonomia che lo configura, o perché si registra
un’alterazione del fattore causale o perché si realizza una condotta
contraria alla buona fede o, comunque, lesiva della buona fede altrui;
gli elementi costitutivi dell’abuso sono la titolarità di un diritto soggettivo, con possibilità di un suo utilizzo secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; l’esercizio del diritto in modo rispettoso della cornice attributiva, ma censurabile rispetto a un criterio di valutazione giuridico o extragiuridico; la verificazione, a causa di
tale modalità di utilizzo, di una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare e il sacrificio cui è costretta la controparte.
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Quest’ultimo aspetto risulta particolarmente rilevane nel caso di specie, poiché, da un lato, il ripristino chiesto da Tizio è impossibile senza importanti e onerose opere di trasformazione e adeguamento (costi
stimati in centinaia di migliaia di euro) e, dall’altro, Tizio potrebbe trovare legittimo ristoro nella tutela risarcitoria. Insistere per la tutela ripristinatoria è un chiaro segno di abuso poiché c’è un’evidente sproporzione fra l’utile conseguibile dall’attore con il ripristino e l’onere imposto alla totalità dei condomini, poiché Tizio potrebbe dotarsi di impianto autonomo unifamiliare con adeguato ristoro per le spese occorrenti, mentre sarebbe particolarmente oneroso per gli altri condomini
ripristinare un impianto obsoleto e non in linea con le politiche di risparmio energetico.
Un bilanciamento tra gli interessi in gioco è invocato dalla dottrina
più sensibile e perseguito episodicamente dalla giurisprudenza di merito, in casi di vistosa sproporzione fra pregiudizio e vantaggio (App.
Napoli 23-10-1985, App. Torino 12-5-1971).

Parere n. 16
Immissioni intollerabili e danni risarcibili
(Cass. 20927/2015)
Dalle aree gestite dalla Alfa s.p.a., adibite a intrattenimento musicale, provengono nelle ore notturne immissioni intollerabili di rumore a carico
dell’abitazione di Tizio situata a breve distanza.
La zona dove si svolge l’attività è sempre stata a vocazione esclusivamente
industriale.
Tizio chiede al tribunale che alla Alfa venga inibito di continuare a svolgere l’attività di intrattenimento musicale o, in alternativa, che venga condannata a modificare i suoi impianti per ricondurre le immissioni di rumori nei
limiti della tollerabilità; chiede inoltre che la Alfa venga condannata a eseguire gli interventi necessari a ricondurre nell’ambito della normale tollerabilità le immissioni acustiche e a risarcire il danno esistenziale subito, pur
in assenza di un danno biologico medicalmente accertato.
Il tribunale rigetta le domande, sostenendo che: a) l’attività di intrattenimento musicale è in regola sotto il profilo amministrativo; b) le immissioni di
rumore che provengono dagli impianti di amplificazione della società non
superano la soglia indicata dalla normativa pubblicistica; c) l’art. 6ter L.
13/2009 prevede che nell’accertare la normale tollerabilità delle immissio-
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
Parere n. 32
Risoluzione del contratto di locazione
per inadempimento del conduttore
(Cass. 2865/2015)
Reagendo al ripetuto inadempimento nel pagamento dei canoni, Tizio, locatore di un immobile a uso commerciale, risolve il contratto intimando a
Caio lo sfratto per morosità.
Successivamente, Tizio e Caio stipulano una transazione con la quale definiscono i rapporti in lite nella parte riferita ai canoni non pagati fino al
momento del rilascio. Vengono invece lasciate insolute le questioni riguardanti l’esistenza di pretesi danni accertati all’atto della riconsegna e conseguenti alla risoluzione del contratto per inadempimento.
Tizio si rivolge a un legale per chiedere il risarcimento del danno da risoluzione costituito dal mancato introito dei canoni di locazione dal giorno
della riconsegna fino alla data della rilocazione, nonché dalle spese sostenute per il reperimento di nuovo conduttore e per la stipulazione di un
nuovo contratto di locazione.
Il candidato rediga parere motivato.
In giurisprudenza si è recentemente affermato che il locatore che abbia chiesto e ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ha diritto anche al risarcimento del danno per la anticipata cessazione del rapporto di locazione, da individuare nella mancata percezione dei canoni di locazione
concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore (Cass. 2865/2015).
In realtà, la fattispecie di rilascio dell’immobile locato a seguito di
risoluzione per inadempimento del conduttore, tanto nell’ipotesi in cui
fino alla scadenza che avrebbe dovuto avere il contratto l’immobile non
venga rilocato, quanto nell’ipotesi in cui una rilocazione dell’immobile da parte del locatore avvenga in una data che si collochi entro il periodo di durata residua che avrebbe dovuto avere la locazione se non
si fosse risolta, non è di per sé tale da integrare un danno da perdita (danno emergente) né un danno da «mancato guadagno» (lucro
cessante) derivanti dall’inadempimento.
Occorre considerare che la concessione in godimento di un bene si
risolve, da parte del locatore, in una particolare forma di esercizio del
Pareri di diritto civile
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godimento del bene nelle sue utilità, cioè nel conferimento al conduttore della facoltà di esercitare in via diretta su di esso il godimento materiale, che altrimenti sarebbe esercitabile dal locatore.
A fronte di tale conferimento il conduttore versa al locatore il canone, che rappresenta una modalità di fruizione sostitutiva del godimento diretto.
Una volta rilasciato l’immobile in conseguenza della risoluzione, viene ripristinata la posizione del locatore in ordine al godimento del bene
nei termini in cui essa si poteva manifestare prima della scelta dell’esercizio del godimento nella suddetta forma indiretta: il locatore viene posto, cioè, nella condizione di esercitare il godimento sul bene in via materiale oppure con un atteggiamento di mera inerzia o, nuovamente,
in forma indiretta, conferendolo in godimento a un terzo a titolo oneroso o gratuito.
Poiché il canone locativo lo compensa della privazione del godimento diretto, la mancata percezione del canone fino alla scadenza o fino
alla rilocazione non può essere considerata di per sé una «perdita», per
il suo carattere corrispettivo rispetto alla privazione del godimento. La
mancata percezione potrebbe automaticamente essere considerata una
«perdita» per il locatore solo se il canone come utilitas non fosse stato
conseguibile come compenso per la privazione della facoltà di godimento in altro modo. Invece, cessata quella privazione e ripristinato il
godimento, la mancata percezione del canone non può essere considerata perdita.
Dunque, deve escludersi che, nell’ipotesi di risoluzione del contratto locativo per inadempimento del conduttore, una volta intervenuto
il rilascio del bene locato, la mancata percezione dei canoni che sarebbero stati esigibili fino alla scadenza della locazione o la loro mancata
percezione fino al momento in cui il locatore conceda ad altri il godimento con una nuova locazione, possano configurarsi di per sé come
danno da «perdita subita» dal creditore-locatore.
In tal caso, infatti, non si ravvede in tale mancata percezione una
perdita, cioè una diminuzione del patrimonio del locatore rispetto alla
situazione nella quale egli si sarebbe trovato se l’inadempimento che
ha giustificato la risoluzione del contratto locativo non si fosse verificato e, quindi, lo svolgimento del rapporto fosse continuato fino alla
scadenza.
Un danno da perdita correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio si può configurare solo se in concreto, cioè per le
condizioni in cui si trova l’immobile, il rilascio del bene non ha posto il locatore nella condizione di poter esercitare il godimento, di
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cui si era privato concedendo l’immobile in locazione, secondo tutte le
sue naturali modalità, cioè o direttamente, o per mera detenzione o attraverso il conferimento a terzi a titolo oneroso del godimento attraverso una nuova locazione.
Perché questa ipotesi si verifichi è necessario che il ripristino di tutte tali possibilità di godimento alternativo a seguito del rilascio non si
possa dire avvenuto, nel senso che il locatore, una volta conseguito il
rilascio, non sia stato posto nella condizione di esercitare in alcun modo
il godimento. Questo può accadere se l’immobile, ad esempio, venga
restituito dal conduttore in condizioni tali che il locatore non sia
stato posto nella condizione di godere del bene, fermo restando che
dette condizioni non devono essere riconducibili al deterioramento derivante dall’uso della cosa, cui allude l’art. 1590 c.c. e a quello da vetustà, cui allude il comma 3 di detta norma e, dunque, che di esse debba
rispondere il conduttore.
Infatti, lo stato dell’immobile incide sia sulla possibilità di goderlo
direttamente, cioè in via materiale, in tutte le utilità che esso dovrebbe assicurare sub specie di tale godimento diretto, sia di goderlo indirettamente, cioè locandolo a terzi, posto che il terzo non accetterebbe
di prendere in locazione un bene in siffatte condizioni oppure potrebbe accettare di prenderlo impegnandosi a ripristinarne lo stato ma pretendendo di defalcare l’esborso dal corrispettivo.
Si può aggiungere che anche qualora sia stato convenuto che l’immobile debba restituirsi in un certo preciso stato, il rilascio in uno stato non
conforme assume il medesimo rilievo, perché è stato convenzionalmente stabilito che il godimento del locatore dovesse essere ripristinato in
un certo modo e non lo è stato, onde il tempo di privazione del detto
godimento che è necessario per l’attività diretta a ripristinarlo, essendo un periodo nel quale il godimento non è stato ripristinato come
doveva esserlo in conseguenza dell’inadempimento, dà luogo a una «perdita» del godimento ed equivale un rilascio non avvenuto.
Il locatore è posto, in tali casi, in una situazione di ripristino del suo
godimento che non è integrale, perché si vede negata la possibilità di
utilizzazione materiale diretta e indiretta tramite la stipula di nuova locazione. Per effetto dell’inadempimento egli subisce così una perdita e
la subisce in via immediata e diretta come conseguenza dell’inadempimento, che ha giustificato la risoluzione del contratto o, se si vuole, come
conseguenza dell’inadempimento inesatto dell’obbligazione di rilascio.
La perdita si commisura al tempo occorrente per il ripristino dell’immobile in condizioni tali da poter essere goduto direttamente o da poter essere goduto indirettamente a titolo locativo. Se dunque sono necessari lavori di ripristino e la loro durata esige un certo tempo, si con-
Pareri di diritto civile
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figura un danno da perdita del corrispettivo della locazione dal momento del rilascio fino al momento entro il quale il ripristino delle condizioni dell’immobile sia avvenuto secondo l’ordinaria diligenza.
Ma la ragione giustificativa di tale conclusione si può rinvenire non
tanto nell’esistenza di un danno conseguente all’inadempimento che
ha giustificato la risoluzione del contratto, bensì nell’esistenza di un
inesatto adempimento dell’obbligazione di rilascio.
Tale inadempimento non è riconducibile all’art. 1591 c.c., che non
allude all’adempimento dell’obbligazione di restituzione, ma alla mera
circostanza della sua riconsegna, cioè alla mera determinazione della
ripresa della detenzione del bene.
La norma prevede il pagamento dei canoni, pur non essendo esso
più giustificato dal contratto, che, per essere il conduttore in mora nella restituzione, è cessato, cosa che accade anche allorquando il locatore agisce per la risoluzione per inadempimento e la ottenga, e lo fa con
una sorta di liquidazione ex lege del danno di mancato ripristino del
godimento del locatore, lasciando al locatore l’onere di provare il maggior danno verificatosi fino alla riconsegna.
Il danno da inadempimento inesatto dell’obbligazione di restituzione dell’immobile nei sensi di cui all’art. 1590 c.c., o in quelli concordati è invece un danno che si giustifica in quanto non risulta adempiuta
detta obbligazione, che non è rappresentata solo dalla riconsegna ma
dalla restituzione dell’immobile nello stato indicato dal primo e dal terzo comma della norma.
Tale danno da mancato ripristino del godimento del locatore nelle
condizioni in cui avrebbe dovuto esserlo, se è tale da impedire il godimento diretto o indiretto tramite una nuova locazione e, dunque, consente solo il godimento mediante mera detenzione, poiché per essere
eliminato postula lo svolgimento di un’attività sul bene di ripristino
delle condizioni in cui doveva essere restituito, può giustificare il riconoscimento al locatore di una somma a titolo di perdita, cioè di danno
emergente, commisurata al canone che egli avrebbe riscosso come corrispettivo della privazione del godimento se la locazione fosse continuata, ma ciò fino al momento, da accertarsi in concreto nel quale l’attività di ripristino si sarebbe potuta completare.
Ove, peraltro, durante il tempo occorrente per il ripristino il locatore riceva offerta per la locazione dell’immobile e non concluda una nuova locazione per lo stato in cui trova l’immobile, qualora il canone offerto risulti maggiore di quello che corrispondeva il precedente conduttore, la differenza rappresenta danno da «mancato guadagno», cioè
da lucro cessante e patimenti può essergli riconosciuta come danno ulteriore rispetto al canone.
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Ove invece il locatore trovi un terzo che prenda in locazione l’immobile impegnandosi a ripristinare lo stato dell’immobile a fronte del defalco della spesa dal canone, oltre che un danno emergente per l’importo della spesa, si può configurare un danno da lucro cessante se il canone sia pattuito comunque in misura minore, commisurato alla differenza fra esso e la misura del canone della locazione risolta fino al momento in cui essa sarebbe scaduta naturaliter o secondo convenzione.
Pertanto, conclusivamente, in caso di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, intervenuto il rilascio del
bene locato, la mancata percezione, da parte del locatore, dei canoni
che sarebbero stati esigibili fino alla scadenza convenzionale o legale
del rapporto, ovvero fino al momento in cui il locatore stesso conceda
ad altri il godimento del bene con una nuova locazione, non configura di per sé un danno da «perdita subita» né un danno da «mancato guadagno», non ravvisandosi in tale mancata percezione una diminuzione del patrimonio del creditore-locatore rispetto alla situazione nella quale egli si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’inadempimento del conduttore, stante il carattere corrispettivo del canone rispetto alla privazione del godimento; un danno correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio può configurarsi se, per le
concrete condizioni in cui si trova l’immobile, la restituzione del
bene non abbia consentito al locatore di poter esercitare, né in via
diretta né in via indiretta, il godimento di cui si era privato concedendo il bene in locazione, commisurandosi in tal caso la perdita
al tempo occorrente per il relativo ripristino quale conseguenza dell’inesatto adempimento dell’obbligazione di rilascio nei sensi dell’art. 1590
c.c. (Cass. 27614/2013).

Parere n. 33
Accordi simulati sul canone di locazione
(Cass. S.U. 18213/2015)
Tizio, proprietario di un villino locato a Caio, intima al conduttore lo sfratto
per morosità per l’omesso pagamento di tre mensilità, per complessivi 3.000
euro.
Caio si rifiuta di pagare, facendo presente che l’importo del canone mensile, risultante dal contratto registrato, è di 500 euro, mentre la scrittura
Pareri di diritto penale
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quello di cui all’art. 570 c.p., nella parte in cui fa riferimento al comportamento contrario all’ordine delle famiglie con sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale (è pacifico
che la violazione dei doveri di assistenza da parte del genitore integra
l’autonomo reato previsto dall’art. 570, co. 1, c.p.: Cass. S.U. 31-1-2013).
vuv
Parere n. 16
Presunzione di pericolosità e associazione a delinquere
di stampo mafioso
(Cass. 23012/2016)
Nei confronti di Tizio, indagato per associazione a delinquere di stampo
mafioso, il tribunale dispone la misura della custodia cautelare in carcere,
considerando del tutto irrilevante, ai fini cautelari, il definitivo allontanamento di Tizio dal gruppo criminale e la collaborazione di Tizio e di altri
membri della cosca (ormai disciolta) con la giustizia.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga parere motivato in
vista di un eventuale ricorso in sede di riesame.
Deve ritenersi che il tribunale abbia errato nell’affermare che la presunzione di pericolosità delineata dall’art. 275, co. 3, c.p.p., in relazione agli indagati del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa,
abbia natura assoluta e non possa essere superata quando emergano
elementi dimostrativi del significativo indebolimento dei rapporti del
singolo con l’associazione d’appartenenza.
A tale proposito occorre rilevare che, fin dai primi anni dall’entrata
in vigore del nuovo codice di rito, il comma 3 dell’art. 275 c.p.p. ha subito diverse trasformazioni, con un’evoluzione, per così dire, a fisarmonica, laddove ha visto ora delimitare gli spazi valutativi del giudice
e ampliare l’ambito dei casi di applicazione obbligatoria della misura
carceraria, ora irrigidire i presupposti applicativi della misura di maggior rigore, in funzione del periodico oscillare delle scelte di politica
criminale fra repressione e garantismo. Un fondamentale impulso alla
ridefinizione dei confini della disposizione è inoltre venuto sia dalle indicazioni della Cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, sia dai reiterati interventi demolitori del giudice delle leggi, portando il legislatore a riscrivere nuovamente la norma con la L. 47/2015.
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Il comma 3 dell’art. 275 c.p.p. ribadisce il principio-cardine del nostro ordinamento, secondo il quale la custodia in carcere costituisce
l’extrema ratio, cioè una misura residuale, riservata ai casi di maggiore allarme (sociale ma anche processuale), nei quali le esigenze cautelari non sono altrimenti fronteggiabili.
Inoltre, con l’intervento riformatore del 2015 il legislatore ha reimpostato il baricentro delle misure custodiali e, nel dichiarato intento di
arginare l’eccessivo ricorso alla custodia in carcere e di porre rimedio
all’emergenza del sovraffollamento carcerario, denunciato anche dalla Corte EDU (nella sentenza dell’8 gennaio 2013, nel caso Torreggiani
e altri c. Italia), nonché di scongiurare ulteriori interventi demolitori
della Corte costituzionale rispetto alle varie ipotesi di presunzione assoluta di idoneità della sola custodia cautelare in carcere, ha fortemente ridimensionato l’ambito di operatività delle presunzioni disciplinate dall’art. 275, co. 3, c.p.p.
Secondo il testo riscritto con la recente novella, la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere di cui al comma 3
dell’art. 275 c.p.p. continua a essere operante con limitato riguardo ai
delitti di associazione sovversiva (art. 270 c.p.), di associazione terroristica, anche internazionale (art. 270bis c.p.), e di associazione mafiosa ex art. 416bis c.p., salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, detti pericoli possano essere soddisfatti con altre misure.
Entrambe le previsioni contenute nel secondo e terzo periodo del
comma 3 dell’art. 275 disciplinano una duplice presunzione di pericolosità e di adeguatezza della misura carceraria. Le accomuna la presunzione di pericolosità, in quanto dipendente oggettivamente dal delitto di cui alla imputazione provvisoria, che si atteggia in termini solo
relativi.
Sul piano pratico tale disciplina si traduce, da un lato, in un’inversione dell’onere probatorio in favore della pubblica accusa, che è
sollevata dal dovere di dimostrare l’esistenza dei pericula libertatis e
l’idoneità della sola custodia in carcere, aspetti presupposti dalla valutazione «bloccata» del legislatore; dall’altro, in una semplificazione
dell’impianto argomentativo dei provvedimenti de libertate e in una
marcata attenuazione dell’onere di motivazione. Come è stato efficacemente rilevato, la presunzione relativa di pericolosità sociale prevista dall’art. 275, co. 3, c.p.p. inverte gli ordinari poli del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrare la ricorrenza dei pericula libertatis, ma deve soltanto apprezzare le ragioni di esclusione,
eventualmente evidenziate dalla parte o direttamente evincibili dagli
Pareri di diritto penale
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atti, tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto della presunzione
(Cass. 45657/2015).
L’obbligo di motivazione può ritenersi compiutamente assolto quando il giudice abbia dato atto dei gravi indizi in merito alle ipotesi di reato sopra delineate e dell’assenza delle condizioni per ritenere del tutto assenti detti pericula, così da vincere la presunzione, con il corollario che spetta all’indagato confutare i presupposti e dunque dimostrare l’inesistenza in radice delle esigenze cautelari. Soltanto nel caso in
cui l’indagato o la sua difesa abbiano allegato elementi di segno contrario, il giudice sarà tenuto a giustificare la ritenuta inidoneità degli
stessi a superare la presunzione.
Sulla scorta delle considerazioni sopra svolte risulta di tutta evidenza l’erroneità della premessa da cui ha mosso il ragionamento svolto
dal giudice, laddove ha dato atto della natura assoluta — anziché relativa — della presunzione di pericolosità sociale prevista dall’art. 275,
co. 3, c.p.p. in relazione alla fattispecie di cui all’art. 416bis c.p.
La giurisprudenza non è univoca nel definire i presupposti in presenza dei quali sia possibile ritenere superata la presunzione (relativa)
di pericolosità in caso di soggetto gravemente indiziato di partecipare
a un’associazione ex art. 416bis c.p.
Secondo la tesi prevalente, in tema di custodia cautelare in carcere
applicata nei confronti dell’indagato del delitto d’associazione di tipo
mafioso, l’art. 275, co. 3, c.p.p. prevede una presunzione di pericolosità sociale che può essere superata solo quando sia dimostrato che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione
criminosa, con la conseguenza che al giudice incombe l’esclusivo onere di dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere tale presunzione (Cass. 38119/2015).
Secondo un altro orientamento, l’art. 275, co. 3, c.p.p. non può essere interpretato in termini così rigidi da ritenere che la presunzione
possa essere vinta solo in presenza della prova positiva dell’avvenuta
recisione del vincolo associativo, potendo assumere rilievo specifici
elementi che facciano ragionevolmente escludere la pericolosità
dell’indagato (ad esempio, il conseguimento della laurea e l’avvio della collaborazione con la giustizia con dichiarazioni utili alla ricostruzione accusatoria) (Cass. 1848/2004, 43572/2002).
Su questa linea si è di recente affermato che, nel caso in cui sia contestata la fattispecie di partecipazione all’associazione di tipo mafioso,
la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari è superata quando siano acquisiti elementi tali da dimostrare in concreto un consistente ed effettivo allontanamento del soggetto rispetto all’associazione
(Cass. 9748/2014, 32412/2013).
70
Corso completo per la prova scritta dell’Esame di Avvocato
Quest’ultimo orientamento è maggiormente aderente alla lettera della norma processuale e conforme ai principi generali in tema di misure cautelari.
La misura cautelare carceraria è giustificabile se risulta indispensabile per neutralizzare la pericolosità del soggetto, non essendo le misure minori sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza (Corte cost. 265/2010). Come ha ribadito
anche la Corte europea per i diritti dell’uomo, la presunzione di pericolosità ha ragion d’essere alla luce della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso, e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione
provvisoria delle persone accusate del delitto in questione tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e
possano commettere nel frattempo delitti (Corte europea dir. uomo
6-11-2003, Pantano c. Italia).
L’orientamento secondo il quale la presunzione può essere superata
soltanto in caso di dimostrata rescissione del vincolo associativosconta un’eccessiva rigidità e, soprattutto, si pone in controtendenza rispetto alle chiare indicazioni delineate nel recente intervento riformatore.
Giova difatti rammentare come, con la L. 47/2015, il legislatore abbia ancorato la restrizione ante iudicium a esigenze cautelari necessariamente connotate da concretezza e attualità, abbia consentito l’applicazione cumulativa di più misure (coercitive e interdittive), abbia
circoscritto gli automatismi ex lege (non solo nell’art. 275, comma 3,
ma anche negli artt. 276, comma 1bis, e 284, comma 5bis, c.p.p.) e, correlativamente, ampliato gli spazi valutativi del giudice, al fine di garantire l’individualizzazione della coercizione ai pericula effettivamente sussistenti e il «minimo sacrificio necessario», in ossequio
al dettato costituzionale degli artt. 3, 13 e 27 Cost. e ai principi espressi dalla Consulta e dalla Corte di Strasburgo (ex plurimis, Corte cost.
299/2005, Corte europea dir. uomo 2-7-2009, Vafiadis c. Grecia).
D’altronde, l’art. 275, co. 3, c.p.p., ai fini del superamento della presunzione di pericolosità per gli indiziati di appartenere a un’associazione di stampo mafioso, richiede non che vi sia la prova positiva dell’avvenuta definitiva rescissione del vincolo associativo, ma soltanto «che
siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari», espressione che spetta al giudice riempire di contenuto, valutando, nell’ambito del proprio prudente apprezzamento, quegli eventuali dati sintomatici, se non di una formale recisione del pactum sce-
Pareri di diritto penale
71
leris, di un serio, oggettivo ed irreversibile distacco dal gruppo di appartenenza.
Tirando le fila delle considerazioni che precedono, in tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto
d’associazione di tipo mafioso, l’art. 275, co. 3, c.p.p. pone una duplice
presunzione, di pericolosità sociale, di carattere relativo, e di adeguatezza della sola custodia in carcere, di carattere assoluto; la presunzione di pericolosità sociale può essere superata non solo qualora sia dimostrato che l’associato abbia stabilmente rescisso i suoi legami con
l’organizzazione criminosa, ma anche quando dagli elementi a disposizione del giudice, prodotti o evidenziati dalla parte o direttamente evincibili dagli atti, emerga una situazione che dimostri in modo obiettivo
e concreto, e che sia comprovata da circostanze di elevate spessore, l’effettivo allontanamento dell’indagato/imputato dal gruppo criminale, cosicché, pur in mancanza di una rescissione — formale o per facta concludentia — del vincolo associativo, si possa affermare che — come previsto dalla stessa disposizione — «non sussistono esigenze cautelari».
È ovvio che, proprio tenuto conto della specifica struttura e delle
connotazioni criminologiche di tale figura criminosa nonché delle logiche stringenti di accesso e di appartenenza alla consorteria, siffatta
presunzione potrà ritenersi superata soltanto qualora gli elementi emergenti dagli atti processuali o dedotti dalla parte consentano di ritenere serio, effettivo e irreversibile l’allontanamento dal gruppo così da
poter affermare — pur in mancanza di una rescissione del pactum sceleris — la radicale mancanza dell’attualità di esigenze cautelari. Si pensi, ad esempio, al caso della persona che dimostri di essersi allontanata da anni dal territorio sottoposto all’egemonia del gruppo criminale
e di avere ormai radicalmente cambiato vita o, ancora, al soggetto che
abbia avviato un percorso di collaborazione serio e così rilevante da
farsi «terra bruciata» attorno, di tal che un suo rientro nell’organizzazione si appalesi irrealizzabile.
Nel caso in esame siamo in presenza di un significativo indebolimento dei legami di Tizio con la cosca di riferimento e dunque del suo
irreversibile allontanamento dal gruppo, avendo tra l’altro avviato una
collaborazione con gli organi inquirenti.
In assenza di evidenze quanto alla permanenza di rapporti con altri
associati e in presenza di emergenze nel senso della disgregazione
dell’organizzazione criminosa — stante la condizione di detenzione di
molti affiliati e, soprattutto, il percorso di collaborazione con la giustizia da molti di essi avviato —, le esigenze cautelari non possono ritenersi più sussistenti.
72
Corso completo per la prova scritta dell’Esame di Avvocato
Venuta meno la presunzione — relativa — di pericolosità, devono
ritenersi venuti meno i presupposti per l’operatività della presunzione
assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere.
L’ordinanza del tribunale potrà, pertanto, essere impugnata.
vuv
Parere n. 17
Lo scambio elettorale politico-mafioso
(Cass. 25302/2015)
Tizio, candidato a sindaco, si incontra con Caio, capo di un’associazione
criminale, il quale offre a Tizio di reperire il consenso elettorale chiedendo,
in cambio, la copertura amministrativa rispetto ad alcune iniziative imprenditoriali.
Tizio, anziché prendere le distanze da tali prospettazioni, ribadisce genericamente l’esigenza del reperimento di un ampio consenso elettorale in
funzione di un interesse comune e di un investimento reciproco.
L’accordo riguardante lo scambio tra il voto e le utilità a favore di Caio non
prevede l’attuazione, o l’esplicita programmazione, di una campagna attuata mediante intimidazioni.
Preoccupato per i risvolti penali della propria condotta, Tizio si rivolge a un
legale.
Il candidato rediga parere motivato.
L’art. 416ter c.p., novellato dalla L. 62/2014, dà luogo a un reatocontratto che si consuma immediatamente al momento dello scambio
delle promesse oggetto del programma negoziale senza che sia necessario, poi, che i due poli del negozio illecito abbiano di fatto portato ad
esecuzione l’impegno assunto.
È un reato catalogabile tra quelli di pericolo. La soglia di punibilità
è infatti anticipata anche alla fase del mero scambio delle promesse
mentre la concretizzazione dell’impegno (il reperimento dei voti con le
modalità mafiose e il pagamento del corrispettivo) assume piuttosto il
tenore del postfatto, al più destinato a rilevare penalmente se tale da integrare altre ipotesi di reato, eventualmente concorrenti o assorbenti.
L’oggetto dell’accordo deve necessariamente riguardare le modalità di acquisizione del consenso elettorale tramite il metodo mafioso. È
stata infatti recepita normativamente l’interpretazione maggioritaria of-
106
Corso completo per la prova scritta dell’Esame di Avvocato
vuv
Parere n. 25
La sorte delle statuizioni civilistiche dopo il D.Lgs. 7/2016
(Cass. 7125/2016)
Con sentenza del gennaio 2016 il tribunale condanna Tizio e Caio, anche
agli effetti civili, per i reati di violenza privata, lesioni volontarie, ingiurie e
occupazione abusiva di immobili commessi ai danni di Mevio e Sempronio
al fine di costringerli a vendere l’appartamento di loro proprietà sito nello
stabile di comune residenza.
Il 7 febbraio 2016 Tizio e Caio si rivolgono a un legale.
Il candidato rediga parere motivato in vista di un eventuale atto d’appello.
Preliminarmente è necessario rilevare che tra i reati contestati agli
imputati per cui è intervenuta condanna vi è anche quello di cui all’art.
594 c.p., disposizione abrogata dall’art. 1 D.Lgs. 7/2016 (entrato in vigore lo scorso 6 febbraio) con conseguente abolitio del reato di ingiuria come fatto tipico di rilevanza penale. Se dunque la sentenza impugnata dovrà essere certamente riformata agli effetti penali, perché il
fatto non è più previsto come reato, si pone il problema delle statuizioni civili conseguentemente all’accertamento del fatto contestato e alla
sua attribuibilità agli imputati.
La questione dell’impatto sulle statuizioni civili dell’abrogazione della norma incriminatrice è stata ripetutamente affrontata dalla giurisprudenza con specifico riguardo all’ipotesi della revoca della sentenza di condanna divenuta definitiva.
In proposito è consolidato l’insegnamento per cui l’eventuale revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis ai sensi dell’art. 2,
co. 2, c.p., conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del
fatto, non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le
quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata (Cass. 20-12-2005, Colacito; 24-5-2005, Romiti).
A fondamento dell’illustrato principio (condiviso anche da Corte
cost. 273/2002) viene osservato che l’abrogazione della norma penale
in presenza di una condanna irrevocabile comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione, ma limitatamente ai capi pe-
Pareri di diritto penale
107
nali e non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha comunque luogo
secondo le norme del codice di procedura civile: sicché, se vi è stata costituzione di parte civile, con conseguente condanna al risarcimento
dei danni a carico dell’imputato o del responsabile civile, questa statuizione resta ferma. Infatti, se l’art. 2 c.p. disciplina espressamente la
sola cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna, ne
deriva, attraverso un’argomentazione a contrario, che le obbligazioni
civili derivanti dal reato abrogato non cessano, in quanto per il diritto
del danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principî generali sulla successione delle leggi stabiliti dall’art. 11 preleggi,
non quelli contenuti nel citato art. 2 c.p.
Sulla scorta degli illustrati principi si è altresì affermato che, quando un fatto costituisce illecito civile nel momento in cui è stato commesso, su di esso non influiscono le successive vicende riguardanti la
punibilità del reato ovvero la rilevanza penale di quel fatto, e ciò per
una sorta di «indifferenza» dei capi civili della sentenza rispetto
alla sorte della regiudicanda penale (Cass. 25-1-2013, C.).
I ricordati principi non sembrano poter valere anche nel caso in cui
l’abolitio criminis sia intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, ostandovi il combinato disposto di cui agli
artt. 185 c.p. e 74 e 538 c.p.p. Infatti, anche nel giudizio di impugnazione, venendo meno la possibilità di una pronuncia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge
come reato, viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione
restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in quelli
di merito.
Quanto poi alla compatibilità con i principi della Costituzione (e
segnatamente quelli di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.) delle rassegnate
conclusioni, va ricordato che la Corte costituzionale ha ripetutamente
sottolineato come l’inserimento dell’azione civile nel processo penale
pone in essere una situazione diversa rispetto a quella determinata
dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile, in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle
esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e
alla rapida definizione dei processi (Corte cost. 353/1994). Di conseguenza, una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa
dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessa, scelga di
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Corso completo per la prova scritta dell’Esame di Avvocato
esercitare l’azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, non sfugge agli effetti che da tale inserimento conseguono (Corte cost. 94/1996).
In secondo luogo, è reiterato, nella giurisprudenza costituzionale, il
rilievo per cui l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione del giudizio penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo
(Corte cost. 168/2006).
Sulla scorta di tali consolidate affermazioni il giudice delle leggi ha
avuto di recente modo di ribadire (Corte cost. 12/2016) la legittimità
della scelta di non mantenere la competenza del giudice penale a
pronunciare sulle pretese civilistiche anche quando l’affermazione della responsabilità non abbia luogo, poiché tale esito è ben noto
al danneggiato nel momento in cui sceglie se esercitare l’azione di danno nella sede sua propria o inserirla nel processo penale. Pertanto, l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento
per qualunque causa, costituisce uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei
vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte.
Se dunque appare proponibile anche nel caso di specie una soluzione per cui, nonostante la condanna degli imputati, l’intervenuta
abrogazione dell’art. 594 c.p. ponga nel nulla anche le statuizioni
civili, gli stessi contenuti del D.Lgs. 7/2016, così come quelli del parallelo D.Lgs. 8/2016 (entrambi emanati in attuazione della delega contenuta nell’art. 2 L. 67/2014), rivelano anche la praticabilità di altre ipotesi, profilandosi così la concreta possibilità di contrasti interpretativi
in grado di generare disparità applicative.
Va anzitutto evidenziato che il citato D.Lgs. 7/2016 non si è limitato all’abolizione di alcuni titoli di reato ma ha contestualmente provveduto a creare l’inedita figura sanzionatoria delle «sanzioni pecuniarie civili», cui ha contestualmente assoggettato una serie di fatti specificamente tipizzati e che corrispondono a quelli già previsti dalle norme incriminatrici abrogate. L’irrogazione delle suddette sanzioni consegue, ai sensi dell’art. 8 del decreto, all’accoglimento della domanda
risarcitoria proposta da colui che è stato danneggiato dalle condotte tipizzate dal precedente art. 4, e dunque è inevitabilmente subordinata
all’iniziativa di quest’ultimo, ma, soprattutto, è evidente che il fatto illecito punito con la sanzione è il medesimo che genera l’obbligazione
Pareri di diritto penale
109
risarcitoria (peraltro non più ai sensi dell’art. 2043 c.c. bensì delle speciali disposizioni di nuovo conio), salva la precisazione — contenuta
nell’art. 3 — che la reazione «punitiva» è ammessa esclusivamente
nell’ipotesi in cui l’autore abbia commesso le condotte tipizzate con
dolo. I proventi delle menzionate sanzioni non sono però destinati al
danneggiato, essendo previsto dall’art. 10 del decreto che vengano devoluti alla cassa delle ammende.
Dalla sommaria esposizione dei contenuti della novella emerge la
problematica classificazione della «nuova» figura sanzionatoria configurata nonché dell’effettiva natura di quello che la stessa rubrica legis
qualifica come intervento abrogativo. La configurazione, nel D.Lgs.
7/2016, di fattispecie sanzionatorie specificamente tipizzate ricalcando il contenuto delle norme penali abrogate, l’autonomia delle sanzioni rispetto al risarcimento del danno e la destinazione erariale dei loro
proventi, sono tutti elementi che apparentemente concorrono a definire un’ipotesi di depenalizzazione, non diversamente da quanto
previsto dal D.Lgs. 8/2016, con il quale altre figure di reato sono state
contestualmente trasformate in illeciti amministrativi.
In particolare, proprio la destinazione dei proventi delle sanzioni ne
accentua il carattere esclusivamente afflittivo e la venatura pubblicistica, risultando apparentemente irrilevante ai fini qualificatori che la loro
applicazione rimanga inscindibilmente connessa all’iniziativa del danneggiato, atteso che anche le abrogate figure di reato erano comunque
procedibili esclusivamente a querela della persona offesa.
Il fatto, infine, che le suddette sanzioni siano state classificate dal legislatore come «civili», non sembra in grado di assumere un significato decisivo ai fini qui di interesse. Infatti, l’operazione legislativa ha carattere inedito e la questione non è tanto quella dell’esistenza di spazi
sistematici in grado di legittimare l’etichetta normativa, quanto piuttosto quella di stabilire se l’inedita figura sanzionatoria abbia o meno
carattere punitivo e abbia sostanzialmente sostituito la sanzione penale in relazione ai fatti che in precedenza integravano un reato. Interrogativo cui sembra potersi dare, per l’appunto, risposta affermativa alla
luce degli indici normativi evidenziati in precedenza.
È a questo punto doveroso rilevare come entrambi i decreti contengano una disciplina transitoria (rispettivamente contenuta nell’art.
12 D.Lgs. 7/2016 e nell’art. 8 D.Lgs. 8/2016).
Tratto comune è costituito dall’applicabilità tanto delle sanzioni amministrative relative agli illeciti depenalizzati, quanto di quelle pecuniarie civili, anche ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore dei due decreti, salvo che in relazione ai medesimi non sia già inter-
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Corso completo per la prova scritta dell’Esame di Avvocato
venuta una pronunzia definitiva all’esito del procedimento penale, della quale in entrambi i testi normativi è prevista la revoca a cura del giudice dell’esecuzione attraverso la procedura semplificata di cui al 4°
comma dell’art. 667 c.p.p.
L’art. 9 D.Lgs. 8/2016 contiene, però, ulteriori disposizioni transitorie al fine di disciplinare, nell’ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale, la trasmissione degli
atti all’autorità amministrativa competente per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e la sorte delle statuizioni civili già adottate. In
tal senso il comma 3 dell’articolo citato prevede espressamente che se
l’azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell’art.
129 c.p.p., sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla
legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del 1°
comma. Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice
dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
Tale ultima disposizione non sembra trovare riscontro nei precedenti interventi di depenalizzazione e riecheggia i contenuti dell’art. 578
c.p.p., che autorizza il giudice dell’impugnazione a decidere il gravame
agli effetti civili qualora il reato debba essere dichiarato estinto per amnistia o prescrizione. Con riguardo ai reati depenalizzati, dunque, non
vi è dubbio che il giudizio penale prosegua per decidere sulla conferma
delle statuizioni civili eventualmente adottate in primo grado, con la
conseguente applicazione dei principî elaborati per l’appunto in riferimento alla fattispecie disciplinata dal citato art. 578 del codice di rito.
Il legislatore delegato non ha riprodotto la disposizione di cui si tratta anche nel D.Lgs. 7/2016.
Il significato di tale scelta può essere determinato alla luce del canone interpretativo dell’ubi voluit dixit, ma è praticabile anche una soluzione diversa alla luce di dati normativi, nel loro complesso, non del
tutto lineari e coerenti.
Innanzi tutto, qualora dovesse convenirsi che anche il citato decreto configuri, in realtà, un intervento di depenalizzazione, potrebbe apparire irragionevole la selettività della scelta legislativa, a fronte di situazioni omologhe, tanto più nella misura in cui sono i procedimenti
aventi ad oggetto i reati «abrogati» (tutti procedibili a querela di parte, salvo quello previsto dall’art. 486 c.p.) quelli in cui è più elevata la
probabilità che sia stata esercitata l’azione civile.
Potrebbe allora ritenersi che la mancata riproduzione di una disposizione analoga a quella contenuta nel comma 3 dell’art. 9 D.Lgs. 8/2016
Pareri di diritto penale
111
costituisca una lacuna involontaria o che il legislatore abbia addirittura ritenuto superfluo provvedervi.
Sotto un altro profilo potrebbe invece ritenersi applicabile il principio di insensibilità delle statuizioni civili alle vicende della regiudicanda penale qualora il fatto già costituente reato continui ad
integrare un illecito per cui è prevista l’irrogazione di una sanzione punitiva, con conseguente applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p. e
della disposizione di cui all’art. 9 D.Lgs. 8/2016 in quanto ritenuti espressione del suddetto principio generale, prospettandosi in tal senso un limite al principio di accessorietà dell’azione civile nel giudizio di impugnazione.
vuv
Parere n. 26
Diffamazione a mezzo stampa
(Cass. 6911/2016)
Nel corso di un’intervista rilasciata al giornalista Tizio, Caia dichiara che,
dalla perizia depositata nel corso del dibattimento a carico di un medico
ospedaliero incolpato per la morte di Caio (fratello di Caia), è emerso che
lo stesso aveva subito lesioni ad opera dei Carabinieri durante il suo trattenimento in caserma prima di essere trasferito in ospedale. Denuncia
quindi la necessità di approfondimenti per accertare i fatti e i responsabili.
La vicenda aveva avuto, già prima dell’intervista, una vasta eco presso
l’opinione pubblica.
Nell’intervista vengono riportati anche stralci della perizia.
Tizio viene indagato per diffamazione.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga parere motivato.
Va evidenziato che, in materia di diffamazione (art. 595 c.p.), la Cassazione può conoscere e valutare l’offensività delle frasi che si assumono lesive della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno
della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (Cass. 48698/2014, 41869/2013).
Nel caso in esame non vi sono dubbi sulla portata offensiva di alcune affermazioni fatte nel servizio televisivo, che peraltro costituisce presupposto anche per l’operatività della scriminante di cui all’art. 51 c.p.
Atti giudiziari
vuv
17
Atto di citazione davanti al Giudice di pace
(Formula generale)
(Artt. 163 e 316 c.p.c.)
GIUDICE DI PACE DI …
ATTO DI CITAZIONE (1)
Tizio, residente in … via … n. …, c.f. … [in caso di persona giuridica:
Tizio, nato a … il …, residente in … via … n. …, c.f. …, non in proprio
ma in qualità di legale rappresentante pro-tempore della soc. … con sede
in … via … n. …], elettivamente domiciliato in … via … presso lo studio dell’avv. …, c.f. … (2), fax …, dal quale è rappresentato e difeso in
virtù di procura in calce al presente atto, espone quanto segue.
PREMESSA (3)
1)…
2)…
3)…
Tutto ciò premesso, Tizio, rappresentato e difeso come in atti,
CITA
il sig. …, residente in … via … n. … [in caso di persona giuridica: la
soc. …, con sede in … via … n. …, in persona del legale rappresentante pro-tempore], c.f. … (4) a comparire (5) davanti al Giudice di pace di
…, all’udienza del …, ore di rito (6) (7), con l’invito a costituirsi mediante il deposito in cancelleria della comparsa di risposta o del solo
atto di citazione e dell’eventuale procura, oppure presentando questi
documenti direttamente in udienza, e con l’avviso che al convenuto non
costituito alla prima udienza e costituito tardivamente all’udienza successiva, fissata per richieste istruttorie ed eventuale precisazione delle
conclusioni, è preclusa la facoltà di proporre domande o eccezioni (da
Atti Civile
Atto n. 3
18
Corso completo per la prova scritta dell’Esame di Avvocato
considerarsi nuove) e di produrre documenti, per sentire accogliere le
seguenti
CONCLUSIONI
Voglia il Giudice di pace adito, contrariis reiectis, accogliere la presente domanda e, per l’effetto, condannare il sig. … al pagamento, in favore del sig. …, della somma di euro … o della somma diversa, anche
minore, ritenuta di giustizia, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Con vittoria di spese e compensi.
Con sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege.
In via istruttoria (8) si chiede ammettersi prova testimoniale sui seguenti capitoli di prova e per i testi a fianco di ciascuno indicati:
1)«Vero che …» ‑ sig. …, nato a … il …, residente in … via … n. …
2)«Vero che …» ‑ sig. …, nato a … il …, residente in … via … n. …
Inoltre, si depositano i seguenti documenti:
1)informativa mediazione e negoziazione assistita
2) [in caso di mediazione obbligatoria: verbale negativo di mediazione];
3)preventivo di massima;
4)……….
Ai sensi dell’art. 14 D.P.R. 115/2002 si dichiara che il valore del presente procedimento è pari a euro … (9).
…, …
Avv. …
PROCURA
Vedi Atto n. 1.
(1) L’atto di citazione davanti al giudice di pace è decisamente semplificato rispetto all’atto di
citazione davanti al tribunale disciplinato dall’art. 163 c.p.c.
Infatti, l’art. 318 c.p.c. prevede che tale atto debba contenere solamente l’indicazione del
giudice, delle parti, dei fatti costitutivi e dell’oggetto della domanda.
Inoltre, non sono previste le preclusioni che caratterizzano il processo davanti al tribunale.
(2) L’art. 125, co. 1, c.p.c., prevede l’obbligo di indicare negli atti di parte, il codice fiscale del
difensore.
(3) L’atto di citazione deve contenere l’esposizione dei fatti posti dall’attore a fondamento
della sua pretesa (fatti costitutivi) e l’indicazione degli elementi di diritto della domanda, almeno quando siano necessari per l’individuazione dell’oggetto.
(4) L’art. 163, co. 3, n. 2, c.p.c., stabilisce che nell’atto di citazione devono essere indicati il
nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell’attore, il nome, il cognome, il codice fiscale, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono.
19
(5) I termini di comparizione sono dimezzati rispetto a quelli previsti per la citazione davanti al tribunale (art. 318, co. 2, c.p.c.): 45 giorni se il luogo della notifica si trova in Italia e 75
giorni se si trova all’estero.
I termini di comparizione:
— possono essere abbreviati su istanza dell’attore;
— sono termini liberi, per cui non si calcola né il giorno iniziale né il giorno finale.
Nel procedimento davanti al giudice di pace l’assegnazione al convenuto di un termine a
comparire inferiore a quello previsto dall’art. 318, co. 2, c.p.c. produce la nullità dell’atto
di citazione, ai sensi dell’art. 164 stesso codice. Tale nullità, ove il convenuto non si sia costituito, non è sanata per effetto dell’integrazione del termine conseguente al rinvio d’ufficio della comparizione all’udienza immediatamente successiva, previsto dal terzo comma del citato art. 318 e
dall’art. 57, co. 1, disp. att., nel caso in cui la citazione indichi un giorno nel quale il giudice di
pace non tiene udienza, giacché l’art. 70bis disp. att., costituente norma avente carattere generale, stabilisce che i termini di comparizione devono essere osservati in relazione all’udienza fissata nell’atto di citazione, anche se la causa è rinviata ad altra udienza (Cass. 8523/2006).
(6) Nonostante l’art. 318 c.p.c. non preveda l’indicazione della data dell’udienza, tale requisito deve necessariamente essere inserito nell’atto di citazione, come si ricava dall’art. 316
c.p.c., che prevede la citazione a udienza fissa.
(7) Il legislatore, nel delineare il procedimento davanti al giudice di pace, ha dettato una disciplina autonoma e del tutto peculiare rispetto a quella prevista per il processo davanti al tribunale. Le disposizioni speciali contenute negli artt. 311 ss. c.p.c. dimostrano come si sia voluto nettamente differenziare il procedimento davanti al giudice di pace, attribuendo ad esso una particolare connotazione, rappresentata dalla massima semplificazione delle forme.
Caratteristiche proprie del procedimento in esame sono, infatti:
— la proposizione della domanda introduttiva in forma verbale;
— la mancata previsione di termini per la costituzione delle parti, che non trovano riscontro nelle regole processuali dettate per il procedimento davanti al tribunale.
Del tutto particolari sono poi le modalità di costituzione in giudizio del convenuto, che
non ha l’onere della preventiva redazione della comparsa di risposta né del suo deposito, essendogli attribuita la facoltà di costituirsi in udienza mediante la proposizione anche orale delle proprie difese e di eventuali domande riconvenzionali.
In proposito deve rilevarsi che:
— la centralità della prima udienza, caratterizzante il processo civile ordinario delineato nel
nuovo sistema normativo, non può che trovare ulteriore conferma nella disciplina del giudizio innanzi al Giudice di Pace, che per semplicità di forme e modalità procedurali configura
l’unico modello vigente di processo minore;
— il regime delle preclusioni imposte alle parti è ulteriormente rafforzato nel processo davanti
al Giudice di Pace;
— la parte (soprattutto il convenuto) non costituitasi antecedentemente o simultaneamente alla
prima udienza non può, in seguito, costituendosi tardivamente, proporre domande, eccezioni (da considerare nuove) e produrre documenti. Ciò è facilmente desumibile dal comma 4
del richiamato art. 320 c.p.c., che eccezionalmente prevede che «quando sia reso necessario
dalle attività svolte dalle parti in prima udienza il giudice di pace fissa per una sola volta un’ulteriore udienza» (Cass. 5626/1999).
(8) Per quanto riguarda i mezzi di prova, l’art. 318 c.p.c. non richiede l’indicazione degli stessi. In particolare, per quanto riguarda i documenti, mentre l’art. 163 c.p.c. prevede, nel processo
davanti al tribunale, che l’atto di citazione debba contenere l’indicazione specifica dei documenti che l’attore offre in comunicazione, l’art. 318 tace sul punto. Tale disposizione però è stata dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte cost. 110/1997) nella parte in cui non prevede che
l’atto introduttivo del giudizio davanti al giudice di pace debba contenere l’indicazione della scrittura privata che l’attore offre in comunicazione, poiché altrimenti non viene garantita alla controparte la conoscibilità della scrittura privata che l’attore deposita al momento della sua costituzione in giudizio, in contrasto con l’art. 24 Cost.
(9) V. nota (17) sub Atto n. 2.
Atti Civile
Atti giudiziari
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
Atto n. 14
Comparsa di costituzione e risposta
(Formula generale)
(Art. 166 c.p.c.)
TRIBUNALE DI …/Giudice di pace di …
COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA (1)
Il sig. …, residente in … via … n. …, c.f. … (2), [in caso di persona
giuridica: il sig. …, residente in … via … n. …, c.f. …, non in proprio
ma in qualità di legale rappresentante pro-tempore della soc. … con
sede in … via … n. …], elettivamente domiciliato in … via … n. … presso lo studio dell’avv. …, c.f. … (3), fax …, dal quale è rappresentato e
difeso in virtù di procura in calce al presente atto, espone quanto segue.
PREMESSA
1)[Breve descrizione dei fatti] ………
Quindi, con atto di citazione del …, l’attore conveniva in giudizio il
sig. … davanti all’intestato tribunale/giudice di pace per sentirlo condannare a …
Con il presente atto si costituisce in giudizio …, contestando integralmente la domanda attorea per i seguenti motivi (4)
2)Esposizione delle difese in fatto e in diritto al fine di contestare i
fatti e le disposizioni di legge richiamate dall’attore a fondamento
della domanda (5)
3)Esposizione delle ragioni che possono fondare la responsabilità
dell’attore ai fini della proposizione di domande riconvenzionali
(6) [nel procedimento davanti al Giudice di pace le domande riconvenzionali possono essere proposte direttamente all’udienza]
4)Esposizioni delle ragioni che possono fondare la proposizione di eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio (7) [nel
procedimento davanti al Giudice di pace le eccezioni processuali e di
merito non rilevabili d’ufficio possono essere sollevate direttamente
all’udienza]
5)Esposizione delle ragioni che possono fondare la responsabilità di
un terzo ai fini della sua chiamata in causa (8) [nel procedimento
67
davanti al Giudice di pace la chiamata in causa del terzo può essere
effettuata direttamente all’udienza]
Pertanto, il convenuto contesta la domanda dell’attore in quanto inammissibile e/o infondata in fatto e in diritto, rassegnando le seguenti
[In caso di domanda riconvenzionale: Pertanto, il convenuto, mentre
contesta la pretesa dell’attore in quanto inammissibile/infondata in fatto e in diritto, con il presente atto agisce in riconvenzionale ex art. 36
c.p.c. per ottenere la condanna dell’attore a… e rassegna le seguenti]
[In caso di chiamata in causa del terzo: Pertanto, il convenuto, mentre contesta la domanda dell’attore in quanto inammissibile/infondata
in fatto e in diritto, dichiara di voler chiamare in causa …, terzo responsabile, ai sensi dell’art. 269, co. 2, c.p.c., rassegnando le seguenti]
CONCLUSIONI (9)
Voglia il tribunale/giudice di pace adito, contrariis reiectis:
—in via preliminare, accertare … [indicare le eccezioni preliminari di
rito o di merito] e, per l’effetto, rigettare la domanda di parte attrice;
—nel merito, accertare … [indicare i fatti ostativi all’accoglimento della pretesa dell’attore] e, per l’effetto, rigettare la domanda di parte attrice in quanto infondata;
—[in caso di domanda riconvenzionale] in via riconvenzionale, accertare l’esistenza dei fatti posti a fondamento del presente atto e, per
l’effetto, condannare l’attore al pagamento della somma di euro …;
—[in caso di chiamata in causa di terzo] differire, ai sensi dell’art. 269
c.p.c., la data della prima udienza al fine di consentire all’odierno
convenuto la citazione del terzo … nel rispetto dei termini di cui
all’art. 163bis c.p.c. affinché, nella denegata ipotesi di accoglimento
della domanda attrice, il terzo chiamato … garantisca e tenga indenne il convenuto dall’eventuale condanna.
Con vittoria di spese e compensi.
Con sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege.
In via istruttoria (10) parte convenuta si oppone all’ammissione delle istanze istruttorie formulate dall’attore in quanto …
Si chiede, inoltre, ammettersi interrogatorio formale dell’attore sui
seguenti capitoli di prova:
«Vero che …»
«Vero che …»
In caso di risposta negativa, indica a teste il sig. … sulle medesime
circostanze.
Si producono i seguenti documenti:
—atto di citazione notificato;
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—informativa mediazione e negoziazione assistita;
—preventivo di massima.
Con riserva di precisare il thema probandum e il thema decidendum
ai sensi dell’art. 183, co. 5 e 6, c.p.c.
[In caso di domanda riconvenzionale: Ai sensi dell’art. 14, co. 2, T.U.
115/2002, si dichiara che il valore del presente procedimento è pari a
euro …].
…, …
Avv. …
PROCURA
Vedi Atto n. 1.
(1) La comparsa di costituzione e risposta è l’atto difensivo con il quale il convenuto illustra la propria posizione di fronte alla pretesa avanzata nei suoi confronti dall’attore con l’atto
di citazione.
Come tutti gli atti processuali di parte, deve contenere (art. 125 c.p.c.) l’indicazione dell’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio risulta pendente (si ricorda che il giudizio si incardina con la notificazione dell’atto di citazione), delle parti, delle difese, delle conclusioni e della sottoscrizione del difensore (o della parte, qualora stia in giudizio personalmente).
Per ciò che riguarda l’intestazione dell’atto, se il convenuto intende formulare una domanda riconvenzionale non occorre precisarlo nell’intestazione («Comparsa di costituzione e risposta con domanda riconvenzionale»). Invece, se intende chiamare in causa un terzo, è bene farlo
risultare già dall’intestazione («Comparsa di costituzione e risposta con istanza di fissazione
di udienza ex art. 269, co. 2, c.p.c.»), affinché l’esistenza dell’istanza sia avvertita dall’ufficio.
(2) L’art. 167, co. 1, c.p.c., come modificato dalla L. 24/2010, dispone che nella comparsa di
risposta il convenuto deve, tra l’altro, indicare le proprie generalità e il codice fiscale.
(3) L’art. 125, co. 1, c.p.c., come modificato dalla L. 24/2010, prevede l’obbligo di indicare, negli atti di parte, il codice fiscale del difensore.
(4) Nella comparsa di risposta il convenuto deve (art. 167 c.p.c.):
— proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda;
— indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione;
— formulare le conclusioni;
— proporre, a pena di decadenza, le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio;
— chiamare in causa un terzo, a pena di decadenza.
Nel giudizio davanti al giudice di pace, peraltro, abbiamo visto che non vigono le rigide
preclusioni previste dall’art. 167 c.p.c. poiché gli artt. 320 e 321 c.p.c. non prevedono alcun termine perentorio, in linea peraltro con le caratteristiche di minore complessità e tecnicismo che
contraddistinguono il procedimento davanti al giudice onorario.
Tuttavia, le parti non sono libere di svolgere qualunque tipo di attività istruttoria in qualunque momento: l’art. 320, co. 3, c.p.c. prevede, infatti, che nella prima udienza le parti devono
precisare definitivamente i fatti posti a base delle domande, difese ed eccezioni, produrre
i documenti e richiedere i mezzi di prova da assumere; tale disposizione contiene un sistema
di preclusioni che non è disponibile neppure da parte del giudice con il differimento della prima
udienza ad altra udienza; tuttavia, ove ne ravvisi la necessità, il giudice può rinviare per una sola
69
volta a una nuova udienza, per consentire alle parti di produrre documenti o richiedere prove, su
domanda di parte o d’ufficio; oltre tale nuova udienza, è preclusa alle parti la produzione di documenti, con la conseguenza che il giudice non può tenere conto dei documenti prodotti tardivamente e, ove ne tenga conto, la sentenza è viziata (Cass. 26066/2006).
(5) L’art. 167 c.p.c. prevede l’onere, per il convenuto, di proporre tutte le difese prendendo
posizione sui fatti affermati dall’attore, contestando:
a) i fatti posti dall’attore a fondamento della sua domanda (difese in fatto);
b) la stessa pretesa o le disposizioni di legge invocate dall’attore, nel senso che queste manchino o prevedano effetti diversi da quelli invocati dall’attore (difese in diritto). Le mere difese
si differenziano dalle eccezioni le quali comportano, invece, la deduzione di fatti impeditivi,
estintivi o modificativi del diritto fatto valere dall’attore.
Pertanto, l’art. 167, co. 1, c.p.c., imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione sui
fatti posti dall’attore a fondamento del diritto fatto valere (c.d. fatti costitutivi), rende la non contestazione un comportamento rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con
effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto
non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo
delle parti, valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale, esclude il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti.
L’onere di specifica contestazione deve essere inteso nel senso che i fatti costitutivi del diritto azionato devono essere contestati dal convenuto specificamente e non genericamente con una
clausola di stile, per evitare che gli stessi siano ritenuti incontestati; solo in presenza di tale condizione l’attore ha l’onere di provarli, restando così assicurato il principio del contradditorio (Cass.
10860/2011).
In altri termini, la mancata contestazione rappresenta di per sé una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto e, quindi, rende inutile provarlo, perché non controverso.
Invece, per i fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria (c.d. fatti secondari) non è formulabile un’identica conclusione. Essi hanno rilevanza soltanto sul piano istruttorio, nel senso che,
ove provati, il giudice può, in base ad essi, formare il suo convincimento circa l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto.
Per questa stessa ragione, la non contestazione di questi fatti non è vincolante per il giudice,
che può comunque apprezzare liberamente la non contestazione come semplice argomento di
prova ai fini della sussistenza del fatto di cui trattasi.
(6) Come accennato alla nota 3, nella comparsa di risposta (depositata nei termini previsti
dall’art. 166 c.p.c.) il convenuto deve proporre, a pena di decadenza, le eventuali domande riconvenzionali, con le quali non mira semplicemente a contestare i fatti addotti dall’attore (questa funzione è assolta normalmente dalle difese ex art. 167, co. 1, c.p.c.) ai fini del rigetto della
domanda ma persegue un fine ulteriore consistente nell’ottenimento di una pronuncia (di accertamento, costitutiva o di condanna) nei confronti dell’attore. Pertanto, la domanda riconvenzionale amplia il thema decidendum. Esempio classico di domanda riconvenzionale si ha quando
l’attore chiede che il convenuto venga condannato al pagamento dei danni cagionati da un sinistro stradale. Il convenuto, ritenendo che l’attore sia l’unico responsabile del fatto, agisce in via
riconvenzionale chiedendone la condanna al risarcimento dei danni.
La domanda riconvenzionale si distingue dall’eccezione in quanto quest’ultima è diretta non
ad ottenere un provvedimento sfavorevole all’attore ma soltanto ad escludere l’efficacia giuridica dei fatti o dei titoli dedotti dall’attore ai fini del rigetto della domanda.
(7) Nella comparsa di risposta (depositata nei termini previsti dall’art. 166 c.p.c.) il convenuto ha l’onere di proporre, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio (c.d. eccezioni in senso stretto). Eccezioni processuali proponibili solo dalle parti
sono, ad es., le eccezioni di incompetenza territoriale derogabile ex art. 38, co. 2, c.p.c. Le eccezioni di merito proponibili solo dalle parti sono, invece, l’eccezione di prescrizione, di decadenza, di inadempimento ecc.
Per quanto riguarda, in particolare, l’eccezione di incompetenza territoriale derogabile, l’art.
38, co. 2, c.p.c. prevede attualmente che, fuori dei casi previsti dall’articolo 28, quando le parti
costituite aderiscono all’indicazione del giudice competente per territorio, la competenza del giu-
Atti Civile
Atti giudiziari
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dice indicato rimane ferma se la causa è riassunta entro tre mesi dalla cancellazione della stessa
dal ruolo.
(8) Ai sensi dell’art. 269, co. 3, c.p.c, il convenuto che intende chiamare in causa un terzo
deve farne dichiarazione, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (depositata nei termini previsti dall’art. 166 c.p.c.) e chiedere contestualmente al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza, per consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini ex art. 163bis c.p.c.
L’omessa dichiarazione di voler chiamare in causa un terzo o l’omessa richiesta di slittamento della prima udienza comportano la decadenza dalla facoltà di chiamare in causa un terzo, insanabile e non rilevabile d’ufficio.
La chiamata in causa può essere effettuata in due casi:
— il convenuto propone una vera e propria domanda nei confronti del terzo, facendo valere un
proprio diritto nei suoi confronti;
— il convenuto si limita a una litis denuntiatio, cioè chiama in causa il terzo al solo scopo di potergli opporre la sentenza che verrà pronunciata sull’originario oggetto del processo.
(9) Le conclusioni, pur non essendo espressamente previste a pena di decadenza, rappresentano un elemento essenziale della comparsa di risposta, per cui la loro totale mancanza comporta l’inammissibilità della comparsa stessa. Le conclusioni devono esprimere una correlazione con
quelle dell’attore, potendo anche consistere nella semplice espressione delle pretese senza la ripetizione delle ragioni e delle cause dedotte a loro fondamento.
(10) Ai sensi dell’art. 167, co. 1, c.p.c., nella comparsa di risposta il convenuto deve indicare
i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione. Mentre
nell’udienza di cui all’art. 183 può chiedere di essere rimesso in termini (indicati dal co. 6 del citato articolo) per indicare i mezzi di prova e le produzioni documentali per replicare alle domande ed eccezioni nuove e per le indicazioni di prova contraria.

Atto n. 15
Interessi corrispettivi, interessi moratori
e superamento del tasso usurario
Tizio stipula un contratto di mutuo ipotecario con la Banca Alfa per l’importo di euro 200.000 da restituire in 300 rate mensili, con tasso corrispettivo
del 4,07% per la prima rata e applicazione, per le rate successive, di un
tasso di interesse variabile pari al tasso Euribor trimestrale, più uno spread
dell’1,1% e tasso di mora di 2 punti in più del tasso applicato al momento
della morosità.
Da una perizia tecnica di parte emerge che il contratto risulta viziato per
usura, derivante dalla sommatoria degli interessi moratori e degli interessi
corrispettivi.
Tizio cita in giudizio la Banca Alfa, chiedendo l’accertamento degli addebiti illeciti effettuati da quest’ultima e la restituzione degli importi corrispondenti.
Il candidato, assunte le vesti del legale della Banca, rediga l’atto più opportuno.
Atti giudiziari

123
Ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
(Formula generale)
(Art. 700 c.p.c.)
TRIBUNALE DI … (1)
Ricorso ex artt. 669TER e 700 c.p.c. (2) (3)
Per il sig. …, residente in … via … n. …, c.f. …, elettivamente domiciliato in … via … n. … presso lo studio dell’avv. …, c.f. … (4), fax …,
il quale lo rappresenta e difende in virtù di procura in calce al presente atto.
Contro …
PREMESSA
1) [Esposizione dei fatti]
2) A sostegno della fondatezza della propria pretesa (5) il ricorrente fa presente che …
2) Il ricorrente ha fondato motivo di ritenere che il proprio diritto
sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile in quanto
… (6).
3) Da quanto sopra esposto emerge chiaramente l’azione di merito
che il ricorrente intende esercitare per tutelare il suo diritto, consistente … [descrivere l’azione di merito in tutti i suoi elementi costitutivi] (7).
Tutto ciò premesso, il sig. …
RICORRE
al tribunale adìto affinché, ai sensi degli artt. 669bis ss. e 700 c.p.c., con
decreto inaudita altera parte o, in subordine, fissata l’udienza per la
comparizione delle parti, voglia disporre … (8) (9) e, in ogni caso, ogni
altra misura ritenuta idonea a dare concreta attuazione agli interessi e
ai diritti esercitati dal ricorrente (10).
Con vittoria di spese e compensi (11).
In via istruttoria (12), si producono i seguenti documenti:
1)preventivo di massima;
Atti Civile
Atto n. 29
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2)informativa mediazione e negoziazione assistita;
3)…
Ai sensi dell’art. 14, co. 2, T.U. 115/2002, si dichiara che il valore del
presente procedimento è pari a euro …
…, …
Avv. …
PROCURA (13)
Vedi Atto n. 1.
(1) La competenza a pronunciarsi sul ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. è del giudice che sarebbe competente a decidere la causa di merito. Tuttavia, per le materie rientranti nella competenza del giudice di pace il potere cautelare è attribuito al tribunale.
(2) La domanda si propone mediante ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente.
Il contenuto del ricorso deve essere ricavato dall’art. 125 c.p.c., norma di carattere generale
applicabile anche in sede cautelare. Pertanto, il ricorrente deve indicare l’ufficio giudiziario, le
parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni.
È esclusa la proponibilità dell’istanza cautelare mediante dichiarazione resa a verbale
d’udienza.
Secondo alcuni deve escludersi la proponibilità della domanda cautelare insieme all’atto di citazione.
(3) I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. possono essere adottati solamente qualora
non sia previsto uno strumento di tutela tipico a difesa del diritto fatto valere dall’interessato. A tal fine, occorre verificare se, in astratto (indipendentemente dalle ragioni che impediscano in concreto l’esercizio dell’azione o la rendano infondata nel merito), l’ordinamento preveda
una forma di tutela tipica tale da consentire l’ottenimento, in via d’urgenza, della tutela atipica
prevista dall’art. 700 c.p.c.
Si tratta, pertanto, di uno strumento avente funzione sussidiaria rispetto ai provvedimenti
cautelari tipici, come risulta dallo stesso art. 700 c.p.c. che consente l’utilizzabilità del rimedio
d’urgenza soltanto «al di fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo», e quindi
in tutti quei casi in cui il soggetto possa invocare un’altra misura cautelare tipica, disciplinata da
altra sezione del capo terzo del codice di procedura civile o prevista da altre disposizioni di legge.
(4) L’art. 125, co. 1, c.p.c. prevede l’obbligo di indicare, negli atti di parte, il codice fiscale del
difensore.
(5) Ai fini dell’ammissibilità della domanda cautelare occorre l’enunciazione — anche sommaria — del diritto da tutelare. Il provvedimento d’urgenza, infatti, è uno strumento la cui concessione richiede che la pretesa vantata dal ricorrente presenti, in primo luogo, la probabile esistenza del diritto fatto valere, requisito che si qualifica come fumus boni iuris. La dimostrazione di tale diritto non esige una prova piena, ma deve far ritenere prima facie la domanda non infondata.
L’ambito operativo dell’art. 700 c.p.c. ricomprende i diritti soggettivi e, in primo luogo, i diritti costituzionalmente garantiti (diritto alla riservatezza, diritto alla salute ecc.).
Sono escluse, invece, le situazioni insuscettibili di tutela giurisdizionale (ad es., le obbligazioni naturali) e gli interessi di fatto.
Per quanto riguarda i diritti di credito, la tutela cautelare è generalmente esclusa, poiché il
creditore può utilizzare gli strumenti tipici previsti dagli artt. 183ter e quater c.p.c., il procedimento di ingiunzione e i sequestri (Trib. Firenze 23-10-1996). Soltanto in via eccezionale può am-
125
mettersi la tutela cautelare dei diritti di credito, laddove il creditore versi in grave stato di insolvenza palesemente determinata dall’inadempimento del debitore (Trib. Roma 18-6-1997), ovvero si tratti di un pregiudizio che la semplice, futura riparazione pecuniaria non è in grado di «risarcire» (Trib. Roma 25-3-2000).
(6) Accanto al fumus boni iuris (v. supra), deve sussistere l’ulteriore requisito del periculum
in mora, e cioè il pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile per il diritto vantato.
A questo proposito, occorre distinguere a seconda che il provvedimento cautelare intervenga
prima, durante o dopo il verificarsi del pregiudizio.
Se l’iter produttivo della lesione non si è ancora avviato, l’imminenza del pregiudizio deve essere valutata attraverso un’attenta misurazione delle circostanze di fatto idonee ad evidenziare il
prodursi del pregiudizio stesso, secondo un criterio di tipo probabilistico.
Se, invece, il predetto iter è già iniziato, l’imminenza del pregiudizio assume contorni ancora più definiti, e il giudice dispone di elementi più pregnanti per poter decidere.
Infine, se la misura cautelare interviene in un momento successivo al verificarsi del danno, lo
strumento cautelare potrà assolvere alla funzione preventiva che gli è propria, impedendo il reiterarsi del pregiudizio. Ad esempio, in giurisprudenza si è affacciata più volte la problematica
dello sviamento di clientela, che può dipanarsi in più azioni successive ed essere, perciò, inibita
in parte con lo strumento cautelare. Anche in questo caso il giudice dovrà procedere ad un’attenta disamina del caso concreto, al fine di accertare la sussistenza del pregiudizio imminente, da
intendersi come imminenti effetti dannosi ulteriori.
Accanto all’imminenza si pone il requisito dell’irreparabilità del pregiudizio, che segna un
ulteriore limite operativo della tutela d’urgenza. Secondo alcuni autori (SATTA) tale presupposto
può sussistere in base al mero decorso del tempo necessario per ottenere la tutela di merito (peraltro solo eventuale). Invece, l’orientamento dominante afferma che l’irreparabilità deve essere
valutata con riferimento a ogni atto o fatto idoneo a ledere il diritto nelle more del giudizio di
merito.
Inoltre, l’irreparabilità può incidere direttamente sul diritto fatto valere in sede cautelare oppure riguardare situazioni soggettive indissolubilmente legate al diritto stesso.
In ogni caso, richiamando le argomentazioni di ARIETA (in VACCARELLA-VERDE, a cura
di, Cod. proc. civ. comm. Torino, 1997, sub art. 700, 442), deve escludersi l’esistenza di una nozione unitaria di irreparabilità, occorrendo tener conto «della diversa tipologia dei diritti lesi
o sottoposti a pericolo di lesione, nonché del momento nel quale è richiesto l’intervento del giudice della cautela atipica e precisamente:
a) irreparabilità come irreversibilità degli effetti del pregiudizio al diritto. È il primo e più
intenso livello di irreparabilità del pregiudizio, quello in grado di produrre effetti irreversibili tali da determinare la perdita integrale del diritto ovvero di poteri e/o facoltà connessi con
la titolarità dello stesso o della quale costituiscono diretta espressione. Producono lesioni o
pericolo di lesioni irreversibili tutti gli eventi pregiudizievoli diretti a colpire diritti a contenuto e funzione non patrimoniale;
b) irreparabilità come possibilità o grave difficoltà alla piena restitutio in integrum del diritto leso. Questo tipo di irreparabilità si realizza quando, in presenza di lesioni non irreversibili o ad effetti non reversibili, gli strumenti risarcitori esistenti…non siano in grado,
nel successivo giudizio di merito, di dare completa tutela al diritto: a causa della durata del
processo si determina uno scarto tra gli effetti della decisione di merito e la soddisfazione
integrale…che, quando sia tale da superare il limite della normale tollerabilità, provoca la
lesione irreparabile del diritto … è questa, di norma, l’irreparabilità che si verifica in presenza di lesioni a diritti a contenuto non patrimoniale (si pensi ai diritti della personalità)
i quali, per definizione, non sono in grado di ricevere, in via ordinaria, adeguata tutela risarcitoria;
c) irreparabilità come lesione…irreparabile di beni e/o interessi del titolare del diritto, funzionalmente collegati all’attuazione dello stesso. Il pregiudizio colpisce, in questo caso,
con carattere di irreparabilità, beni e/o interessi prevalentemente a funzione non patrimoniale o diretti a realizzare bisogni primari del titolare del diritto, che ricevono diretta e immediata lesione per effetto della lesione del diritto. Si pensi al diritto del lavoratore alla retri-
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buzione, il cui stato di insoddisfazione impedisca al titolare di far fronte al sostentamento
proprio e della propria famiglia: in questo caso e, più in generale, per tutti i diritti a contenuto patrimoniale destinati ad assolvere ad una funzione non patrimoniale, si ritiene da alcuni
che il pregiudizio sia per definizione irreparabile…, mentre a nostro avviso anche in tali ipotesi il giudice della cautela è chiamato ad accertare, in relazione alla specifica situazione dedotta, la sussistenza del pregiudizio irreparabile nel significato sopra chiarito».
(7) Secondo un orientamento, nel procedimento cautelare modificato dalla L. 80/2005, il ricorso ex art. 700 c.p.c. o il ricorso contenente una domanda cautelare c.d. «anticipatoria», ovvero suscettibile di anticipare gli effetti della sentenza di merito, non deve più necessariamente contenere l’esatta indicazione dell’azione di merito nei suoi elementi costitutivi, in quanto il provvedimento eventualmente di accoglimento potrebbe sopravvivere, in mancanza di una diversa
volontà delle parti, anche senza l’inizio della causa di merito.
In realtà, deve ritenersi tuttora sussistente la necessità dell’allegazione, nel ricorso, della causa di merito che si intende proporre, poiché il provvedimento cautelare non ha perso la
sua natura di rimedio strumentale alla tutela di un diritto di cui la parte deve dare compiuta indicazione; la causa di merito va dedotta, dunque, affinché il giudice possa apprezzare la propria
competenza nonché la sussistenza del fumus boni iuris.
Inoltre, l’anticipatorietà del provvedimento cautelare concesso può definirsi solo in relazione a una causa di merito, per cui essa va necessariamente dedotta al fine di stabilire la disciplina cui è soggetto il provvedimento (se applicare l’art. 669octies, co. 1 o co. 6 c.p.c.).
(8) Occorre chiedersi quale contenuto può avere il provvedimento d’urgenza (di mero accertamento, costitutivo o di condanna).
L’ammissibilità di una tutela urgente di mero accertamento è ampiamente dibattuta. Secondo un primo orientamento, non è ammissibile un provvedimento d’urgenza di natura dichiarativa o di accertamento, poiché la caratteristica del provvedimento ex art. 700 c.p.c. è la sua coercibilità, ossia l’idoneità ad essere eseguito coattivamente, anche contro la volontà del destinatario, e tale caratteristica mancherebbe in caso di pronuncia dichiarativa. Inoltre, se la tutela d’urgenza può essere conservativa (garantire l’utilità della futura sentenza di merito) o anticipatoria
(rimuovere lo stato di insoddisfazione del diritto anticipando, in tutto o in parte, gli effetti della
futura sentenza), una pronuncia dichiarativa è inidonea ad assolvere l’una e l’altra delle suddette funzioni. Si tratta, infatti, di una pronuncia insuscettibile di esecuzione poiché può produrre
unicamente l’effetto di coazione psicologica a tenere una condotta rispettosa del diritto provvisoriamente accertato, e nulla di più. Pertanto, il provvedimento d’urgenza che si limiti ad accertare l’esistenza o meno del diritto sarebbe nient’altro che un parere pro veritate, e assolverebbe
quindi ad una funzione del tutto diversa da quella propria del provvedimento ex art. 700 c.p.c.
(Pret. Milano 15-2-1990).
Un diverso orientamento, invece, afferma che, laddove si tratti di tutelare diritti particolarmente vulnerabili, la cui violazione sia destinata a produrre un pregiudizio irreparabile (ad es., i
diritti a carattere non patrimoniale), è senz’altro ammissibile la tutela cautelare dichiarativa, che
in tali ipotesi rappresenta il mezzo più idoneo di tutela di tali posizioni giuridiche. Infatti, in caso
di contestazione di tali diritti, anche una pronuncia meramente dichiarativa, che valuti la liceità
o meno di tale contestazione, può soddisfare l’interesse della parte ricorrente in sede cautelare,
specie quando esista una situazione di obiettiva incertezza fonte di gravi e irreparabili danni per
l’istante e la pronuncia cautelare possa utilmente anticipare un accertamento idoneo a eliminare tale stato di incertezza.
Invece, sono pacificamente ammissibili pronunce cautelari di condanna, anche con riferimento ad un facere infungibile. Infatti, come affermato da Cass. 4212/1979: «non incide sull’ammissibilità del provvedimento d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c. il fatto che lo stesso non possa
essere seguito senza la cooperazione volontaria dei soggetti intimati (facere infungibile, appunto), poiché esso ha pur sempre natura di atto giurisdizionale concretante la volontà di legge indicata dallo stesso art. 700 c.p.c. e perciò suscettibile di trovare attuazione anche attraverso una
conseguente azione di risarcimento dei danni per l’inosservanza del provvedimento stesso e per
la dipendente lesione da essa derivata al bene o alla situazione protetta dalla norma sostanziale
alla cui salvaguardia era appunto diretto».
127
Infine, si registrano opinioni contrastanti per quanto riguarda l’ammissibilità di pronunce
cautelari d’urgenza di natura costitutiva (ad es., costituzione di una servitù). Una parte della
dottrina (Satta) ne esclude l’ammissibilità perché non potrebbe ravvisarsi, nelle more del giudizio di merito, la minaccia ad un diritto che non esiste fino alla pronuncia del giudice. La giurisprudenza prevalente, invece, ammette le azioni cautelari costitutive, poiché attraverso la provvisoria assicurazione degli effetti della decisione di merito la pronuncia cautelare incide su una
situazione giuridica sostanziale preesistente al processo (Pret. Verona 31-8-1990).
(9) Nelle cause proposte dopo l’entrata in vigore della novella apportata dalla L. 80/2005 all’art.
669octies c.p.c. con l’introduzione del co. 6, deve tenersi conto del nuovo tenore letterale della
norma in parola che prevede come le disposizioni relative alla prosecuzione nel merito del procedimento cautelare definito con ordinanza «non si applicano ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile e da leggi speciali, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di nuova opera e di danno temuto ai sensi dell’art. 688, ma ciascuna parte può iniziare il
giudizio di merito».
In base alla riforma, quindi, è stato attenuato il c.d. vincolo di strumentalità necessaria
tra fase della cautela e fase del merito, che prevedeva necessariamente la prosecuzione nella
fase di merito a seguito dell’accoglimento della domanda cautelare, a pena di perdita di efficacia
del provvedimento cautelare stesso ex art. 669novies c.p.c. A seguito della riforma, invece, tale
necessaria prosecuzione nel merito viene confermata solo per alcuni provvedimenti cautelari,
mentre per la rimanente parte si esclude il necessario passaggio alla fase di merito, che diviene
solo eventuale ed è quindi lasciato alla libera scelta della parte laddove essa intende richiedere la
riforma del provvedimento cautelare.
L’attenuazione della strumentalità necessaria, e la conseguente mancata automatica prosecuzione della causa nel merito, riguarda tutti i provvedimenti ex art. 700 c.p.c. e tutti i provvedimenti di denunzia di nuova opera e di danno tenuto; solo invece in relazione ai rimanenti provvedimenti cautelari, id est sequestri e procedimenti previsti da leggi speciali, occorre procedere
alla distinzione tra natura anticipatoria o conservativa della decisione, e conseguentemente alla
distinzione tra prosecuzione solo eventuale o prosecuzione necessaria nel merito.
(10) A seguito delle modifiche apportate all’art. 669octies c.p.c. dalla L. 80/2005, per i provvedimenti d’urgenza e per gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della
successiva ed eventuale decisione di merito, la mancata instaurazione del giudizio di merito
o la sua estinzione non comportano l’inefficacia della misura cautelare. Si è attenuato, così,
il nesso di strumentalità tra tutela cautelare e giudizio di merito, essendo quest’ultimo attivabile
soltanto in via eventuale, su richiesta di una delle parti. Ciò significa, secondo alcuni, che il ricorso non deve necessariamente contenere l’indicazione della domanda di merito, cioè del tipo di
provvedimento che il ricorrente si appresta a richiedere al giudice di merito, essendo tale provvedimento soltanto eventuale.
Un diverso orientamento, invece, ritiene che, nonostante la natura eventuale del giudizio di
merito, che può anche non essere mai attivato attribuendo così stabilità agli effetti del provvedimento cautelare, ai fini della procedibilità della domanda cautelare occorre che dalla domanda
cautelare emerga la successiva (e soltanto eventuale) domanda di merito, e ciò al fine di individuare il giudice competente.
Tra coloro che ritengono indispensabile l’indicazione, nel ricorso cautelare, della successiva
domanda di merito, non vi è concordia sugli effetti derivanti dall’omissione di detta indicazione.
In giurisprudenza prevale l’idea che tale omissione comporti l’immediata chiusura del procedimento previa dichiarazione di nullità del ricorso o di inammissibilità.
In dottrina, invece, si tende a salvare la domanda cautelare priva dell’indicazione della domanda di merito tramite l’applicazione analogica della sanatoria ex art. 164 c.p.c., per cui il giudice dovrebbe disporre la rinnovazione o l’integrazione del ricorso entro un determinato termine, pena la chiusura in rito del procedimento.
(11) Poiché i provvedimenti d’urgenza sono astrattamente idonei a definire il giudizio, laddove una delle parti non inizi l’oramai solo eventuale fase di merito, il giudice, alla stregua dei principi generali, deve pronunciarsi anche sulle spese di lite.
Atti Civile
Atti giudiziari
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(12) L’art. 669sexies c.p.c. si limita a stabilire che «il giudice, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili». La noma sancisce la piena apertura alle prove atipiche nel senso, tra l’altro, della
possibilità di acquisire al processo dichiarazioni delle parti e di terzi e di effettuare ispezioni senza il rispetto delle modalità e dei limiti previsti dal codice civile o di procedura civile (Proto Pisani).
(13) Poiché la fase cautelare è strumentale (sebbene si tratti di strumentalità attenuata, come
sopra evidenziato) alla successiva, eventuale fase di merito, la parte che rilascia una procura per
il procedimento d’urgenza manifesta implicitamente anche la volontà di estendere il mandato al
successivo (ed eventuale) giudizio di cognizione per cui non occorre, per quest’ultimo, il rilascio
di una successiva procura. Pertanto, la procura speciale conferita al difensore per ottenere provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. con la formula «per il presente giudizio» o «nel giudizio di
cui al presente atto» deve ritenersi estesa anche al successivo processo di merito, in considerazione dell’interdipendenza tra fra questo e il procedente procedimento cautelare.

Atto n. 30
Ricorso d’urgenza
(barriere architettoniche)
(Art. 700 c.p.c.)
Tizio lamenta, nei confronti del Comune di …, una condotta discriminatoria
dovuta alla presenza di barriere architettoniche che impediscono l’accesso
ai mezzi di trasporto pubblico. In particolare, Tizio, per la sua condizione
di disabile, è costretto su una sedia a rotelle e ha difficoltà di accedere al
trasporto pubblico in quanto il Comune di … non ha mai realizzato le pedane necessarie per superare l’altezza del marciapiede in corrispondenza
delle fermate dell’autobus … e …, quelle più frequentemente utilizzate da
Tizio.
Il candidato, assunte le vesti del legale dell’associazione …, che agisce su
procura speciale di Tizio rediga l’atto più opportuno per tutelare le ragioni
di quest’ultimo.
TRIBUNALE DI …
RICORSO EX ART. 700 C.P.C.
L’associazione …, con sede in …, via …, n. …, p. iva. …, in persona
del legale rappresentante pro-tempore …, la quale agisce in nome e per
conto del sig. Tizio, residente in …, via …, n. …, c.f. … su procura spe-
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
Atto n. 30
Incidente di esecuzione contro l’ordine di esecuzione
della pena emesso dal p.m.
(Artt. 655-656 c.p.p.)
TRIBUNALE DI …
GIUDICE …
N. … R.G.
N. … R. Es.
L’avv. …, difensore del sig. … nato a … il …, residente in …, via …,
n. …, c.f. …, domiciliato in …, via …, n. …, nel processo penale in epigrafe, espone quanto segue.
PREMESSA
1) Il giorno … il sig. … è stato condannato con sentenza irrevocabile emessa il … da … alla pena detentiva di …, per essersi reso responsabile del reato previsto e punito dall’art. …
In data … il P.M. ... presso il tribunale di … ha emesso a suo carico
un ordine di esecuzione della pena, disponendone la carcerazione presso …
2) Il provvedimento non può essere eseguito poiché è stato emesso
da un P.M. territorialmente incompetente (Cass. 10126/2013)/non vi è
la prova dell’avvenuta notifica dell’atto al difensore, ex art. 655, co. 5,
c.p.p./ecc.
Ciò premesso, l’avv. …
CHIEDE
l’annullamento dell’ordine di esecuzione della pena suindicato a carico di …, con ogni conseguenza di legge.
…, …
Avv. …
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Atti giudiziari
NOMINA DEL DIFENSORE
Il sottoscritto …, nato a … il …, residente in …, via …, n. …, c.f. …,
residente in …, via …, n. …, in relazione al procedimento di esecuzione n. … R.G. e n. … R.Es. nomina quale proprio difensore di fiducia
l’avv. …, conferendogli ogni potere e facoltà di legge, e nel suo studio
in …, via …, n. …, elegge domicilio.
…, …
……..
È autentica
Avv. …
Atto n. 31
Ricorso immediato della persona offesa al giudice di pace
(Formula generale)
(Art. 21 D.Lgs. 274/2000)
GIUDICE DI PACE DI … (1)
Ricorso immediato ex art. 21, D.Lgs. 274/2000 (2)
Tizio (3), residente in … via … (oppure: La società …, con sede in …,
via …, in persona del legale rappresentante pro-tempore sig…, nato a…
il …, residente in … via …), elettivamente domiciliato in … via …, presso lo studio dell’avv. …, c.f. …, il quale lo rappresenta e difende in virtù di procura in calce al presente atto e dichiara di voler ricevere le comunicazioni al n. di fax … o all’indirizzo di posta elettronica certificata … comunicato al proprio ordine, quanto segue.
PREMESSA
In data … alle ore … Caio, residente in … via … (4), mentre si trova
in …, comunicando con Mevio e Sempronio ha riferito le seguenti
espressioni: «…».
Atti Penale
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