UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRENTO FACOLTA’ DI SOCIOLOGIA Anno accademico 2011-2012 Seminario di credito INTRODUZIONE AL RAGIONAMENTO SCIENTIFICO Settembre-novembre 2011 Prof. Claudio Tugnoli MATERIALI DI DISCUSSIONE E APPROFONDIMENTO: RECENSIONI Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2010; Paola Cantù, E qui casca l’asino. Errori di ragionamento nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Roberta De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina editore, Milano 2010; Umberto Eco, Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, Milano 2011; Pavel A. Florenskij, Dialektika (1918-1922), trad. it., Stupore e dialettica, di Claudia Zonghetti, a cura di Natalino Valentini, Quodlibet, Macerata 2011. Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 258. In qualsiasi dibattito si trovano a confronto sostenitori di tesi opposte o solo parzialmente diverse. Chiunque sostenga una determinata tesi ha il dovere (morale) di fornire una giustificazione (logica) della tesi che difende. Non si presenta una certa tesi per gioco o per provocazione: la si presenta per combattere un’opinione ritenuta falsa e dannosa, per quanto accreditata, oppure per dare un contributo all’affermarsi di una posizione teorica che si ritiene meritevole di essere conosciuta e condivisa da tutti coloro che amano la verità. Chi avanza una tesi comunica insieme la sua convinzione che la sua tesi sia vera. La percezione della verità di una tesi e la disponibilità di mezzi per dimostrare pubblicamente tale verità, non necessariamente coincidono. Ma il pensiero non può esimersi dalla comunicazione, che a sua volta ha come obiettivo quello di rendere pubblica una verità privata. Una verità privata è sterile e monca, dal momento che le manca il riconoscimento della sua universalità e oggettività da parte di un’ampia classe di soggetti. Ed essendo questi soggetti razionali, la comunicazione con cui si aspira a promuovere il riconoscimento e l’assenso a una certa proposizione che il sostenitore ritiene vera, dovrà avvalersi di mezzi razionali, ossia produrre argomenti validi e quindi soddisfacenti. Il ragionamento prodotto a sostegno di una certa tesi si compone di proposizioni di cui alcune sono premesse e una, la conclusione, deve derivare dalle premesse con necessità, se l’argomento è deduttivo, o con probabilità, se l’argomento è induttivo. Un dibattito è razionale quando le persone tra le quali si svolge rispettano alcune regole, tra cui una è fondamentale: essi si impegnano a contribuire affinché il dibattito si svolga al solo scopo di verificare la verità di una certa tesi (e la falsità della tesi opposta) e non degeneri in uno scontro tra contendenti condotto con armi improprie, al solo scopo di distruggere l’avversario e affermare la propria superiorità (intellettuale, morale o, in casi estremi, anche fisica). La conoscenza delle tecniche argomentative non è distribuita equamente tra le persone che partecipano a un dibattito, ma proprio per questo il rispetto di regole fondamentali dovrebbe impedire che la verità finisca sepolta dalle bordate retoriche del partecipante più abile. L’analisi delle condizioni alle quali dovrebbe svolgersi un dibattito si avvale della logica e della teoria dell’argomentazione. Le differenze tra la prima e la seconda (rispettivamente: monologica/dialogica, esplicito/implicito) non implicano che debba esserci antagonismo, quasi che la logica si occupi della verità, mentre la teoria dell’argomentazione affronta le condizioni di persuasività della comunicazione. Secondo D’Agostini la teoria dell’argomentazione allarga e completa il campo della logica, dal momento che la validità formale è un requisito necessario, ma non sufficiente di una buona argomentazione. Oltre alla verità di premesse e conclusione e alla validità della connessione o derivazione della conclusione dalle premesse – che insieme ci danno la correttezza di un argomento – un argomento ha bisogno della persuasività (pp. 35-36). Che la relazione tra logica e teoria dell’argomentazione non sia sempre pacifica si deve alla loro frequente dissociazione pragmatica: un argomento può essere perfettamente corretto, ma non persuasivo; e viceversa può essere estremamente efficace nel convincere l’uditorio, ma soffrire di una totale scorrettezza (premesse false, irrilevanza delle premesse rispetto alla conclusione). Le cose si complicano quando vediamo all’opera le fallacie, che assumono una surrettizia funzione retorica, spesso efficacemente persuasiva. Per quanto scorrette sul piano logico, le fallacie reclamano una valenza che ne fa necessariamente oggetto della teoria dell’argomentazione. L’etica della verità esige che le fallacie siano studiate dalla logica, per difenderci dall’imbroglio in cui mira a irretirci un interlocutore spregiudicato. Ma un dibattito ideale in cui le fallacie fossero del tutto assenti e trionfasse in modo assoluto la correttezza degli argomenti, segnerebbe anche la fine della teoria dell’argomentazione, che continuerebbe a sussistere come sezione della logica e non come disciplina a se stante, con un oggetto proprio. Di conseguenza l’accordo tra logica e teoria dell’argomentazione non è così scontato come sostiene Franca D’Agostini. Il punto fondamentale è la natura delle fallacie rispetto alla procedura argomentativa: concepirle come malattie dell’argomentazione significa fare terra bruciata sotto i piedi della teoria dell’argomentazione; e viceversa includerle tout court tra gli oggetti di studio specifici della teoria dell’argomentazione implica la loro legittimazione retorica. E se le fallacie sono trattate come espedienti retorici, la logica è esautorata dal controllo della loro validità. Ma se le fallacie sono sottratte alla competenza della logica, allora la logica stessa viene messa da parte, giacché perde di significato qualsiasi pretesa di controllo della correttezza (verità e validità) degli argomenti. Le figure retoriche sono per la maggior parte fallacie di vario genere, o strategie che per qualche aspetto rappresentano una violazione di qualche principio o precauzione della logica. Appare dunque affetta da irenismo ecumenico la tesi di Franca D’Agostini, secondo cui un buon argomento soddisfa i criteri e della logica e della retorica. L’intersezione di logica e retorica potrebbe essere vuota! L’autrice dà per scontato che un buon argomento possa essere oggetto di studio della filosofia (in rapporto alla verità), della logica (in rapporto alla validità) e della retorica (in rapporto alla persuasività). Ma la nozione di verità è intesa diversamente nei diversi contesti e per lo più la validità prettamente formale degli argomenti non è percepita e diventa spesso irrilevante, quando l’argomentazione adotta un’efficace strategia persuasiva – un contesto nel quale le fallacie prendono il sopravvento in quanto funzionali all’effetto di persuasione che deve prodursi. L’ideale convergenza di filosofia, logica e retorica che D’Agostini vede quale condizione di un buon argomento, urta con la realtà del processo comunicativo e la pragmatica della comunicazione. Il dissidio mi sembra insanabile, così che un certo tasso di scorrettezza degli argomenti si deve dare per scontato. Direi perciò che, invece di buoni o cattivi argomenti, si dovrebbe parlare di diversi gradi intermedi tra due estremi, la logica e la retorica. Un argomento logicamente corretto rischia di non risultare persuasivo, al contrario un argomento estremamente persuasivo è quasi certamente privo di qualche requisito formale. Il rapporto tra logica e retorica è sempre un qualche compromesso, con cui l’una e l’altra riescono a giustificare la relativa competenza e ragione di esistere. Compromesso a metà strada tra la sterile contemplazione solipsistica della verità senza comunicazione e il trionfo di una comunicazione efficace senza verità. Per individuare e analizzare gli argomenti in un discorso o in un testo scritto si dovrà identificare la conclusione o tesi da dimostrare, distinguendola dalle premesse, esplicite o implicite. La maggior parte degli argomenti del linguaggio comune presentano premesse o conclusione implicite, che è possibile esplicitare con l’analisi ricostruendo la forma normale del ragionamento. Ad esempio la frase “uno di noi due deve lavare i piatti e non sarò io”, si può facilmente ricondurre a un sillogismo disgiuntivo, del quale la frase precedente è espressione contratta: • Uno di noi due laverà i piatti • Io non laverò i piatti • Tu laverai i piatti Tra gli argomenti totalmente impliciti Franca D’Agostini include quelli esecutivi o ad lapidem. Esempi: Diogene di Sinope, per confutare la definizione dell’uomo data da Platone come “bipede implume”, portò in Accademia un pollo spennato; Antistene per confutare Zenone che negava il movimento, si alzò e si mise a camminare; un tizio chiese a un saggio taoista: Che cos’è la realtà e il saggio gli rispose sferrandogli un pugno. Il pollo spennato, la passeggiata di Antistene, il pugno del saggio taoista non sono argomenti, ma ne fanno le veci. Svolgono la stessa funzione di argomenti veri e propri, scrive D’Agostini, e possono essere esplicitati ricostruendo le componenti proposizionali e i passaggi dalla premessa alla conclusione. Ogni buon manuale di logica codifica le principali regole di validità degli argomenti. La nozione di verità è più sfuggente. Per sostenere la verità di una proposizione che riassuma in sé una tesi qualsiasi, devo individuare le premesse da cui essa discende, ma non posso applicare questo metodo indefinitamente per verificare anche la verità delle premesse, e poi delle loro premesse e così via. Quindi la verità di una conclusione non è sperimentata direttamente: l’argomento è valido quando essa discende dalle premesse, la cui verità è condivisa dal mio interlocutore. La stessa conclusione può discendere da premesse del tutto diverse e il mio interlocutore potrebbe accogliere come vere le une ma non le altre. La procedura argomentativa si rivela così essenzialmente uno stratagemma retorico al quale si affida il compito di stabilire, comunicare e convincere riguardo una verità che non può essere colta direttamente in se stessa (se lo fosse, qualsiasi argomento sarebbe superfluo). L’argomento rende plausibile una certa proposizione che ne è la conclusione, ma di per sé non attesta la verità della conclusione. La conclusione si fida di premesse con cui ha un legame naturale, per così dire, nel senso che ne discende senza sforzo, ma a loro volta quelle premesse dovrebbero essere giustificate, e via dicendo. La prova ultima non giunge mai. Si creano accordi su come stanno le cose nei vari settori della realtà, si costruisce il consenso e si smantella, a seconda del punto di vista. E tuttavia l’aspirazione alla verità è il movente dell’argomentazione. Non bisogna confondere la forma dell’argomento con il contenuto di cui è veicolo. La necessità di dimostrare e comunicare la verità di una proposizione impone il ricorso ad argomenti, la cui validità lascia tuttavia impregiudicata l’impossibilità di una prova diretta della verità, tale da rendere del tutto superfluo qualsiasi argomento. Naturalmente le proposizioni non sono tutte vere o tutte false; alcune sono dubbie; per sciogliere i dubbi è necessario ricorrere a qualche argomento. Chi argomenta deve dimostrare di rispettare i criteri di verità, ma questo non garantisce che la ricerca della verità sia il suo unico movente. Questo non significa che la verità sia introvabile e che ogni tesi possa trovare una giustificazione plausibile, purché siano individuati gli argomenti giusti. Lo scetticismo circa la verità è metodologico, non tematico; riguarda la possibilità di un controllo esaustivo e definitivo del contenuto di verità, non l’esistenza di tale contenuto. Che la verità sia una nozione assoluta e fuori discussione è dimostrato dal fatto che la sua negazione ne rappresenta la conferma, come dimostrano gli esempi di autocontraddizione illustrati da D’Agostini (p. 81). Proposizioni come “la verità non esiste”, “nessun enunciato è vero” e simili, non solo sono autocontraddittorie e quindi non vanno inserite in un argomento, ma dimostrano anche l’impossibilità di negare la verità. La nozione di vero è una condizione trascendentale dello stesso linguaggio. Se anche non ci fosse nulla di vero, se fosse tutto falso, sarebbe pur vero che nulla è vero. Perciò il falso non è opposto e simmetrico al vero. La complementarità di vero e falso è solo apparente, giacché anche per il falso vanno accertate le condizioni di verità. Una proposizione vera nega la sua negazione, nega la corrispondente proposizione falsa. “Cesare varcò il Rubicone” implica una credenza relativa all’attraversamento del Rubicone e la negazione della proposizione negativa “Cesare non varcò il Rubicone”. Così si può dire che qualsiasi proposizione vera attesta la propria verità e la falsità della proposizione contraria. La nozione di verità come condizione trascendentale rinvia alla nozione di vero come regola di corrispondenza con la realtà stessa: deve esserci uno stato di cose, tale per cui una proposizione è vera anziché falsa. Qualsiasi criterio che prescinde dal riferimento alla realtà quale metodo per stabilire il grado di verità di una proposizione deve fare i conti con la necessità di includere infine richiami espliciti a esperienze che possano convalidare l’enunciato prodotto. Nonostante possano esserci scarse ragioni in difesa della interpretazione realista della verità, D’Agostini richiama l’attenzione del lettore sul fatto che sono numerosi gli enunciati di cui sappiamo con certezza che sono veri. Ci sono enunciati la cui verità è contingente (“piove”, “la porta è aperta”, e simili) e sono anche incompleti dato che manca l’indicazione del luogo e della data. Vi sono poi enunciati che sono veri (“le mucche sono ruminanti”) o falsi (“Cavour fu primo ministro di Luigi XIV”) indipendentemente dal contesto spazio-temporale. Vi sono anche enunciati logicamente veri o tautologie (“piove o non piove”) o logicamente falsi o contraddizioni (“piove e non piove”). D’Agostini richiama infine l’attenzione su enunciati che è difficile classificare in base alle categorie precedenti (“Chi ha tempo non aspetti tempo”, “i neri hanno il senso del ritmo”, “a ciascuno va dato secondo il merito” e simili), la cui caratteristica più evidente sarebbe il fatto che sono discutibili. La verità di questi enunciati va quindi stabilita tramite la discussione, è di natura controversiale (p. 87). Quando prendiamo posizione in una controversia possiamo distinguere tra la realtà delle cose che percepiamo e la realtà che ci è riferita da altri o dal consenso di massa. La seconda è la realtà di cui ci fidiamo al punto che essa può influire sulla prima realtà, quella percepita direttamente e personalmente, fino al punto da cancellarla (p. 89). D’Agostini porta come esempio il romanzo di Ethel Lina White, The Wheel Spins, del 1934, da cui Hitchcock trasse il film The Lady Vanishes (1936), di cui Anthony Page nel 1979 fece un remake con lo stesso titolo. La storia in breve: una donna incontra un’anziana signora su un treno. Si parlano, prendono un tè insieme nella carrozza ristorante, poi ritornano nel loro scompartimento e la donna si addormenta. Al risveglio la signora è scomparsa. Dopo qualche tempo, la donna chiede ai passeggeri se sanno dove sia la vecchia signora, ma tutti negano concordemente che ci sia mai stata un’anziana signora. La donna dubiterà di essersi sbagliata? (pp. 88-89). La verità pubblica è quella cui diamo credito prestando il nostro consenso all’esistenza di una realtà, quale è quella che ci viene riferita, la quale potrebbe essere in contrasto con la realtà direttamente percepita. Il numero di persone che sostengono la verità di una proposizione determina un conflitto cognitivo con l’individuo che è intimamente convinto, per esperienza diretta, che le cose stanno diversamente; il conflitto viene risolto per lo più aderendo alla communis opinio. D’Agostini prende in considerazione la forza degli argomenti, riconducibile alla forza degli enunciati. In un argomento deduttivo o le premesse sono sufficienti rispetto alla conclusione che ne deriva, oppure non lo sono. In un argomento induttivo invece si presenta un grado di maggiore o minore probabilità della conclusione rispetto a determinate premesse; e quindi l’aggiunta di nuove premesse può modificare la conclusione. La forza di un enunciato è data dal suo contenuto informativo, sia esso vero o presunto. Più un enunciato è preciso nei dettagli, maggiore è il suo potere informativo e maggiore sarà la sua forza, anche se è falso. Viceversa un enunciato può essere vero, ma generico e quindi debole. «La forza di un ragionamento o di un argomento, spiega D’Agostini, si stabilisce valutando la relazione tra la forza degli enunciati-premesse e la forza dell’enunciato-conclusione. Vale cioè la seguente regola generale di massima: un ragionamento induttivo è tanto più forte quanto più ha premesse forti o conclusioni deboli. Per esempio: Il 90% delle famiglie italiane ha la televisione I Rossi sono una famiglia italiana Dunque è probabile che i Rossi abbiano la televisione è un ragionamento induttivamente valido e molto forte» (p. 96). La formula attenuante “è probabile che” rende forte l’argomento. La rilevanza è fondamentale nella teoria dell’argomentazione, ma non nella logica verofunzionale. La prova di rilevanza funziona così: «Di fronte a un argomento “p, q, dunque r” per stabilire la rilevanza mi chiedo: posso credere che p e q siano vere, senza credere che r lo sia? Se posso farlo, le premesse non sono rilevanti» (p. 98). La domanda è facile in apparenza, se è vero che in molti casi, come dimostrano le fallacie e la difficoltà di percepirle, la risposta non è facile. Infine la regola della fecondità impone che la conclusione di un argomento non sia la mera ripetizione delle premesse in altra forma o con le stesse parole. La conclusione di un argomento dovrebbe produrre qualche nuova informazione rispetto alle premesse. La regola della fecondità vale per la teoria dell’argomentazione, ma non per la logica, che si limita a stabilire la coerenza formale e la deducibilità della conclusione dalle premesse. D’Agostini contesta la linea di pensiero che vede nelle nuove forme di comunicazione di massa un contesto inedito nel quale il ruolo dell’argomentazione (determinazione di verità e validità) è stato affossato, reso obsoleto da pratiche comunicative che sono giustificate esclusivamente dal successo comunicativo, che a sua volta è assicurato da fattori irrazionali ed emotivi sostanzialmente imprevedibili. L’autrice sostiene che ancora oggi, nonostante il moltiplicarsi delle modalità di comunicazione e di scambio dell’informazione, valgono gli stessi criteri di ieri e lo stesso metodo di valutazione di determinate tesi. Il meccanismo della comunicazione pubblica nasconde molte insidie, ma le strategie di pianificazione dell’inganno e la metodologia di individuazione delle fallacie argomentative sono rimaste le stesse. Si deve riconoscere che oggi l’informatizzazione mette a disposizione degli individui una quantità impressionante di elementi utili per capire e valutare l’attendibilità di un argomento. La riflessione dell’autrice è ottimista: «Il nuovo cittadino che emerge dal nuovo sistema comunicativo è dotato di strumenti di valutazione per lo meno pari a quelli dei sistematici manipolatori, e non è escluso che possa fronteggiare abbastanza bene il sistema generale della manipolazione» (p. 106). D’Agostini classifica le fallacie in base ai requisiti di un buon argomento che sono: la validità formale, la forza o validità induttiva, la verità delle premesse, la rilevanza delle premesse per la conclusione, la fecondità della conclusione. Ciascuno di questi requisiti può essere soddisfatto solo in apparenza e quindi si avranno cinque famiglie di fallacie: formali, induttive, di falsa premessa, di rilevanza, di circolarità. A queste si aggiungono le due famiglie di fallacie, trasversali, classificate come pragmatiche ed ermeneutiche. Sono preziose le osservazioni preliminari dell’autrice, laddove segnala due difficoltà. La prima consiste nel fatto che a volte la distinzione tra un argomento buono e uno cattivo dipende dal contesto o dall’intonazione, senza contare che spesso il migliore argomento può essere riformulato in modo da farlo risultare fallace, circostanza ben nota agli antichi sofisti. Tutto questo non autorizza però a dichiarare falsi tutti i discorsi. La dialettica filosofica esiste per risolvere la difficoltà e compensare la fragilità della verità. La seconda difficoltà consiste nel fatto che le fallacie di rado si presentano in modo puro; nella pratica dell’argomentazione si trovano per lo più combinazioni di più fallacie. Aggiungerei che molti argomenti ingannevoli possono prestarsi a diverse interpretazioni, non sempre convergenti. Le due difficoltà rilevate da D’Agostini spiegano forse perché il nostro codice prevede il carcere per chi commette un’azione fallace, ma non per chi fa un discorso fallace. La violazione delle regole del discorso non comporta alcuna riprovazione, ma solo un’ovazione quando segna una vittoria sull’avversario? Vediamo dunque sinteticamente il quadro generale delle fallacie proposto e illustrato da Franca D’Agostini: Fallacie di rilevanza ad hominem tu quoque (variante dell’ad hominem) (Berlusconi dice: “Prodi si è salvato grazie all’amnistia e alla modifica dell’abuso d’ufficio. Quelle sì che furono leggi ad personam!”) all’interesse (variante dell’ad hominem (esempio: “Berlusconi è proprietario di televisioni, dunque quel che dice in materia di legislazione televisiva è falso”) per associazione (esempio: “Smith sostiene l’antiproibizionismo, ma Smith è amico di criminali e barboni”: si nega quel che sostiene X servendosi di argomenti ad hominem non contro X ma contro qualcun altro che sostiene la stessa cosa) ad personam e avvelenamento del pozzo; si distingue tra l’ad hominem circostanziale e l’ad hominem generalizzato, detto a volte ad personam, perché consiste in un attacco preventivo, esaustivo e definitivo per delegittimare qualcuno in misura tale che nessuno gli dia più il minimo credito da quel momento in poi. Si può aggiungere che in un pubblico dibattito il discredito prodotto dall’avvelenamento del pozzo si ritorce anche su chi vi ha fatto ricorso, proprio in virtù del carattere grossolanamente scoperto della fallacia dell’ad personam ad verecundiam o ad auctoritatem; fallacia di non facile individuazione, consiste nell’appellarsi alla coerenza tra la propria affermazione e le dichiarazioni di qualche fonte potente o influente, la cui autorità viene fatta passare come incontestabile (papa, presidente della repubblica, scienziato, ecc.). La decisione se si tratti di una fallacia o meno dipende dal grado di attendibilità e competenza della fonte rispetto all’argomento in discussione. Si tratta di una fallacia di varia interpretazione. Strategie diversive Non sequitur (“Non bisogna criticare la qualità scadente dei programmi televisivi perché la televisione dà lavoro a molte persone”) Falsa pista (“X dice: questa guerra è ingiusta; Y ribatte: Ma i nemici hanno ucciso molti dei nostri”) Distrazioni (tutti i discorsi evidentemente pronunciati al solo scopo di sviare l’attenzione dal tema in discussione) Ignoratio elenchi (letteralmente: ignoranza della confutazione; è la diversione in funzione di confutazione, con cui si sposta l’attenzione dal centro del discorso, per smentire la tesi di un avversario. Esempio: “X: Berlusconi ha invitato a cena ripetutamente Tarantini, già noto per i suoi affari poco puliti: è difficile pensare che non sapesse chi era. Y: Ma anche D’Alema ha cenato con Tarantini” Ad ignorantiam: fa appello all’ignoranza della tesi contraria per dimostrare la tesi propriamente difesa. “Non conosco il mio vicino, quindi non so se è una brava persona, dunque non è una brava persona”. Molte varianti dell’ad ignorantiam sono simili all’insinuazione. Puntuale l’osservazione di D’Agostini: «La fallacia ad ignorantiam è così diffusa perché alle sue basi c’è una combinazione di due impostazioni caratteristiche del pensiero razionale: l’epistemicismo, ossia la tesi (ragionevole) secondo cui posso dire che una proposizione è vera se e solo se è giustificata, e il realismo, ossia la tesi (altrettanto ragionevole) secondo cui una proposizione che non è vera è falsa, ossia: è vera la sua negazione. Combinando le due tesi, abbiamo che se non ho giustificati motivi per sostenere che p, allora p non è vero (per l’equivalenza di vero e giustificato); ma se p non è vero, allora è falso (per l’equivalenza di non vero e falso). Dunque: se non ho giustificati motivi per sostenere che p, posso sostenere che non-p. E naturalmente lo stesso vale anche per non-p» (pp. 120-121). Il dogmatismo ad ignorantiam si presenta quando l’argomento ha bisogno di essere delucidato da premesse aggiuntive, come nell’esempio della stessa D’Agostini: «Non abbiamo prove del fatto che un organismo della specie umana al quattordicesimo giorno del suo sviluppo non abbia una coscienza; dunque non si può interrompere lo sviluppo di un protoembrione umano per prelevare cellule staminali» e in quello opposto e simmetrico: «Non c’è alcuna prova del fatto che un organismo della specie umana al quattordicesimo giorno del suo sviluppo abbia una coscienza; dunque un protoembrione umano al quattordicesimo giorno non è considerabile come un essere umano» (p. 121) Alle emozioni, di cui sono varianti: ad baculum, ad populum, ad misericordiam, ad metum (“Se non paghi il pizzo, non ti assicuro che il tuo negozio non sia dato alle fiamme”; “tutti mi amano, dunque io sono amabile”; “Ho famiglia da mantenere, non può licenziarmi”; “Se la sinistra andasse al governo, il risultato sarebbe questo: miseria, terrore, morte”) Circolarità Negli argomenti circolari si dà per presupposto ciò che si deve dimostrare Petitio principii (“Dio ha creato il mondo, dunque Dio esiste”; circolarità procedurale: D’Agostini classifica come fallacie di presupposizione le estrapolazioni dal contesto, che il Copi include tra le fallacie di accento. L’autrice riproduce lo stesso esempio dell’Introduzione alla logica di Copi-Cohen (Il Mulino, Bologna 1999), che riferisce l’estrapolazione di un discorso di Al Gore, da cui si evinceva, falsamente, che Al Gore negasse l’esistenza di un legame tra fumo e cancro ai polmoni, mentre nel discorso intero Al Gore sosteneva esattamente il contrario (p. 125-126); tra le fallacie di presupposizione si colloca la domanda multipla o plurium interrogationum (“Perché lo sviluppo privato delle risorse è tanto più efficiente dell’iniziativa pubblica?”); la fallacia dell’uomo di paglia: si costruisce una tesi facile da confutare e la si attribuisce all’interlocutore (esempio: “X sostiene che la pena di morte è ingiusta; il suo oppositore dice che X sostiene che non bisogna punire gli assassini, oppure che X sostiene che tutti gli uomini sono buoni”) Non-verità Le premesse di un ragionamento o argomento possono essere false; come è noto in tal caso l’argomento potrebbe essere valido, ma non sarebbe corretto o fondato. Le fallacie che nascondono la non-verità delle premesse possono essere verbali o concettuali, a seconda che dipendano dall’uso delle parole o da errori riguardo le qualità attribuite a un oggetto Fallacie verbali: di ambiguità o equivocità (esempio aristotelico dalle Confutazioni sofistiche: “il male deve esistere, ciò che deve esistere è bene, dunque il male è bene”. “Dovere” ha qui due significati diversi: essere inevitabile e essere giusto. Altro esempio: “Combattere sulle parole è insensato, la discriminazione è una parola, dunque è insensato combattere sulla discriminazione”) (p. 129). L’esempio aristotelico illustra egregiamente anche la quaternio terminorum del sillogismo. Le fallacie verbali che nascondono la non-verità con ambiguità sintattiche sono dette anche anfibolie (“Tutti i ragazzi amano qualche ragazza”; “l’invidia dei vicini”; “ero sbalordito nel vedere come picchiavano quei ragazzi”, dove ragazzi può essere soggetto o complemento oggetto). Le fallacie di accento consistono nelle diverse interpretazioni alle quali si presta la stessa frase, se pronunciata ponendo l’enfasi su termini di volta in volta diversi. L’equivocazione di accento sfruttata per fini particolari dà luogo alla fallacia. Fallacie concettuali: Le fallacie concettuali si basano su equivocazioni delle relazioni tra un oggetto e le sue proprietà. Esempio: “L’elefante è grigio ed è un animale, dunque l’elefante è un animale grigio” è un buon argomento; ma “L’elefante è un animale, un piccolo elefante è dunque un animale piccolo” (p. 131). Gli stessi esempi ricorrono nell’Introduzione alla logica di Copi-Cohen, che illustra così le conseguenze della confusione tra significato assoluto e relativo dei termini. Fallacia come errore categoriale. Esempio: “Gli angoli ottusi sono rossi”; “questo tavolo è triste”. Espressioni non vere ma neppure false (p. 132). Fallacie di vaghezza. La vaghezza è un problema che riguarda il linguaggio comune e scientifico. Deriva dal fatto che la maggior parte dei termini comprende tra i suoi significati dei casi limite, ai quali non è certo se si possa applicare un certo termine. Ad esempio a quale altezza un edificio dovrà essere classificato come grattacielo? Fino a quale età si applica il termine “giovane” e da quale età si è “vecchi”? Non sempre si possono stabilire dei parametri (mobilissimi, come nell’ultimo caso). A quali condizioni un essere umano inizia ad essere tale? La vaghezza del significato dei termini è di importanza cruciale in ambiti quali la politica, l’etica, la teologia. Tra le fallacie concettuali D’Agostini include le fallacie di composizione, quando si inferisce senza fondamento che una cosa possiede una certa proprietà in base al fatto che una o più parti di quella cosa hanno quella stessa proprietà. Ad esempio se i componenti di una giuria sono determinati, non è detto che la giuria sia determinata a produrre un verdetto contrario (p. 134). La fallacia di divisione si commette invece quando si estende alle singole parti di una cosa la proprietà che la cosa possiede in se stessa. La falsa dicotomia può essere classificata tra le fallacie di presupposizione, come osserva D’Agostini. Es.: O sei con me o sei contro di me. L’argomento presuppone che ci siano solo due alternative, creando una specie di oscuramento cognitivo su altre possibilità e alternative; nelle discussioni su qualsiasi argomento la falsa dicotomia suscita un’impressione di esaustività che favorisce l’efficacia dell’argomento e ne determina in gran parte l’effetto persuasivo. La falsa dicotomia presenta la struttura logica del dilemma. Una vera dicotomia, scrive D’Agostini, si ha quando due eventi o stati di cose sono in rapporto mutuamente esclusivo e congiuntamente esaustivo (p. 136): il verificarsi dell’uno esclude il verificarsi dell’altro e viceversa; inoltre uno dei due deve verificarsi o sussistere. «Per esempio: una porta deve essere aperta o chiusa, e non c’è una terza possibilità. Notiamo però che ci può essere esclusività senza esaustività, per esempio: se dico “questa rosa è rossa” e tu dici “questa rosa è gialla”, le nostre asserzioni si escludono reciprocamente, ossia possiamo aver ragione entrambi; ma non c’è esaustività: potremmo aver torto entrambi, se per esempio la rosa in questione fosse bianca. Invece se dico: “questa rosa è rossa” e tu dici “questa rosa non è rossa”, i casi sono solo due: ho ragione io o hai ragione tu, e uno dei due deve aver ragione(la negazione infatti è l’artificio che nel nostro linguaggio serve a esprimere la relazione di mutua esclusione e congiunta esaustione, anche detta relazione di contraddizione). L’artificio della falsa dicotomia consiste nel presupporre che una relazione di questo tipo sussista tra eventi che potrebbero essere reciprocamente esclusivi ma non congiuntamente esaustivi, oppure non reciprocamente esclusivi» (pp. 136-137). La fallacia detta slippery slope, o “argomento a domino” o “a catena”, possiede una struttura del tipo: se p, allora accadrà che q e se q, allora avverrà r e se r allora si avrà s. Dato che s è una sciagura, allora ammettere p è una sciagura. Esempio: «Se le truppe abbandonano il Vietnam, si affermerà il governo comunista; se il governo comunista si afferma in Vietnam, i Paesi confinanti diventeranno presto comunisti e tutta l’Asia presto sarà rossa; se l’Asia diventa comunista, presto non si potrà fermare l’avanzata del comunismo in Europa; se l’Europa diventa comunista, l’America sarà sopraffatta; dunque se le truppe abbandonano il Vietnam, l’America verrà sopraffatta» (pp. 137138). L’argomento a domino «è di natura concettuale, perché fa riferimento a una struttura di pensiero tale per cui si vede una specie di piano inclinato» (p. 137): una decisione apparentemente buona è posta all’inizio di una catena causale che si conclude con un disastro. Si può facilmente osservare che passaggi logici dell’argomento precedente corrispondono alla valida regola d’inferenza, il sillogismo ipotetico. Nel ragionamento scientifico il ragionamento a domino o a catena è molto frequente e non suscita particolari obiezioni, se i singoli passaggi causali sono verificati. Nel linguaggio comune e negli usi propagandistici invece la consecutio di più passaggi causali non verificati impedisce al destinatario dell’argomento di verificare i singoli nessi, asseriti a priori. Quindi se l’ultimo anello della catena è un fatto negativo, l’argomento diventerà discutibile, dato che assume una valenza ad metum. Se al contrario è positivo, l’intero argomento sarà accolto come valido, poiché risulta gratificante. Diffondere una notizia falsa su di una persona o un fatto è molto facile, dal momento che spesso una notizia falsa e tendenziosa è accolta come vera da una maggioranza che non ne sa nulla, mentre la minoranza che se ne rende conto non riesce o non vuole intervenire pubblicamente per fare la rettifica. Le smentite e le dimostrazioni in contrario non annullano l’effetto persuasivo della menzogna sciorinata. La generalizzazione indebita parte dall’osservazione di alcuni casi particolari e la estende a tutto l’insieme. Si commette questa fallacia quando si fa d’ogni erba un fascio. Nella scienza la generalizzazione funziona come sillogismo induttivo se viene sottoposta a controllo. Nella comunicazione pubblica e comune può diventare facilmente uno strumento di manipolazione della verità, se prevalgono la fretta e l’interesse di dimostrare a tutti i costi una certa conclusione. Un altro errore è quello commesso dal sillogismo statistico, del tipo: ”La maggior parte degli F è G, X è F, dunque X è G”. Una variante del precedente è la generalizzazione statistica, ragionamento induttivo che si basa sulla campionatura e ha una conclusone generale: “Su un campione di P l’n% sono Q, dunque: l’n% de P sono Q”. Esempio: “Su cinquecento teenager italiani l’80% guarda la televisione per più di tre ore al giorno, dunque l’80% dei teenager italiani guarda la televisione per più di tre ore al giorno” (p. 144). Qui la base dell’errore è rappresentata dalla cattiva campionatura. Perché una generalizzazione statistica sia accettabile il campione deve essere abbastanza ampio rispetto alla totalità degli individui di quel tipo ed essere casuale, nel senso che ciascun individuo di quel tipo deve avere la stessa probabilità di entrare nel campione. La scelta del campione deve seguire criteri rigorosi; un errore molto comune è quello di selezionare gli intervistati all’interno di un indirizzario di abbonati a una rivista o anche dell’elenco telefonico, che escluderebbe i cittadini privi di telefonia fissa. Le fallacie di accidente sono le generalizzazioni di un aspetto accidentale di un fenomeno, come scrive D’Agostini. In ogni caso l’accidente pretende di passare dall’osservazione di uno o più casi a una regola generale per la quale quei casi non sono premesse attendibili. La distinzione tra generalizzazione indebita e accidente risulta quindi sfumata. L’accidente converso consiste nell’applicare ingiustificatamente a un caso particolare una regola generale che non è appropriata: oggi dovrei saltare il pranzo come mi prescrive il medico, ma dato che questa sera non potrò cenare, allora faccio un pranzo regolare. D’Agostini classifica l’accidente e l’accidente converso come violazioni dell’esempio e dell’analogia, due procedure basilari dell’induzione. 1. Esempio: “Le donne hanno avuto vita difficile in ogni epoca della storia, prima del Novecento: pensate a Ipazia, lapidata dai cristiani; oppure alle presunte streghe bruciate sul rogo”. Questa esemplificazione, scrive D’Agostini, è sbagliata, essendo lacunoso e vago l’ambito da cui sono presi gli esempi. Maggior forza e valore ha il controesempio o exemplum in contrarium, noto nell’antichità: La regola generale “Tutti i ruminanti hanno le corna” era falsificata dal controesempio dei cammelli. In sostanza «un solo esempio contrario confuta una tesi generale, ma un solo esempio non conferma nulla. L’errore di esemplificazione coincide con la generalizzazione indebita (e con la fallacia naturalistica), nel caso in cui un solo esempio venga usato per trarre conclusioni generali» (p.147). 2. Analogia: Consiste nell’affermare che i P sono Q notando che gli R, che assomigliano ai P, sono anche tutti Q. L’argomento analogico è sempre discutibile, si può però proporre un controesempio. L’analogia è una procedura difettosa, ma validissima sul piano euristico. La sua sostenibilità può essere invalidata da un controesempio, allo stesso modo in cui si può discutere l’esempio. Altre fallacie induttive: La fallacia dello scommettitore consiste nel credere che dopo una serie di esiti sfavorevoli le giocate debbano avere esito positivo. Ad esempio, il fatto che un certo numero non sia ancora uscito non modifica in nulla le probabilità che esca nella puntata successiva. L’uscita del rosso e del nero alla roulette sono eventi indipendenti, la cui probabilità in questo caso è sempre ogni volta del 50%. Un errore di probabilità un po’ comico è quello del viaggiatore prudente. “Il signor X sa che le probabilità che su di un aereo si trovi un terrorista con una bomba sono una su mille; prima di partire dunque si munisce di una bomba, perché le probabilità che su un aereo ci siano due terroristi con una bomba sono una su un milione (1/1000 x 1/1000 = 1/1.000.000)” (p.149). La fallacia di falsa causa indica una grande quantità di errori che si commettono quando si scambia per causa qualcosa che non lo è (o comunque non si hanno ragioni precise per ritenere che lo sia). Una delle varietà più diffuse di falsa causa è nota come post hoc ergo propter hoc. Ad esempio: l’epidemia è scoppiata dopo l’arrivo di X in paese; dunque X ha portato l’epidemia. La fallacia dell’evidenza soppressa è tipica degli argomenti induttivi, essa consiste nella possibilità di modificare la conclusione con l’aggiunta di nuove premesse. «La fallacia consiste nell’ignorare o tacere dati che potrebbero essere in contrasto con quel che si vuol sostenere» (p. 150). Anche la fallacia naturalistica si può classificare tra le fallacie induttive, che come è noto pretende di derivare le norme dai fatti, cioè nel pensare che, poiché le cose stanno così, così dev’essere. Una variante della fallacia naturalistica è l’ideologia del successo, assumere quindi l’esito positivo come criterio della bontà di una certa iniziativa. Essa non fa che giustificare i fatti, assegnando loro un valore e una razionalità di tipo hegeliano. Assomiglia alla teoria della provvidenza, secondo cui Dio fa emergere e premia il meglio in ogni caso. La stessa fallacia, ma di segno opposto, vediamo nel pensiero apocalittico, che si presenta nei pessimisti sistematici, come nel seguente ragionamento: “Le procedure argomentative non hanno alcun valore in ambito pubblico, e la verità è irrilevante nel confronto umano, dunque è inutile perseguire la verità e la razionalità”. Qui si può osservare che «la fallacia naturalistica è un errore tipico dei ragionamenti induttivi, infatti riguarda le nostre riflessioni sulla realtà; ma è anche una fallacia di rilevanza: dal fatto che le procedure argomentative non abbiano valore non consegue che non debbano averne, e che dunque cercare di promuoverne il corretto uso sia sbagliato» (p. 151). Molti argomenti dei tradizionalisti si basano sulla confusione e l’appiattimento di essere e dover essere, per cui le cose dovrebbero andare come già vanno. Molti argomenti di bioeticisti identificano “naturale” e “morale”, “innaturale” e “immorale”. Non solo. Le accezioni di “naturale” sono le più diverse e contrastanti. Errori formali Le fallacie formali sono errori deduttivi, aventi come schema argomentativo un uso errato del condizionale, come gli schemi speculari a modus ponens e a modus tollens. Esempio: “se il rapinatore è entrato dalla finestra ci sono delle impronte nell’aiuola; ma il rapinatore non è entrato dalla finestra, dunque non ci sono impronte nell’aiuola” oppure: “Ogni profeta è leader carismatico, dunque per essere un leader carismatico devi essere religioso”, dove la fallacia è, rispettivamente, del falso antecedente e del vero conseguente (p. 153). “Se sei incinta, il test è positivo; il test è positivo, dunque sei incinta” non è sbagliato nel caso specifico, per il fatto che ci troviamo davanti una doppia implicazione. Le fallacie pragmatiche sono errori nascosti che dipendono dalle circostanze o dal contesto in cui si svolge l’argomentazione. Le fallacie pragmatiche in senso stretto possono consistere in ciò che si fa intendere con le parole senza esplicitarlo, oppure in ciò che si fa con i gesti e i comportamenti. Le prime sono fallacie per implicatura, le seconde fallacie esecutive. Per implicatura: termine introdotto da Paul Grice. L’implicatura dell’asserto “ho poco tempo” o “mi spiace ma devo andare” in un appuntamento potrebbe essere: “non mi piaci, non se ne fa nulla”. È facile interpretare in modo errato le implicature. E facile è anche usare le implicature per produrre fallacie di qualsiasi tipo; si può ricorrere all’implicatura per allusione (un tipo pragmatico di vaghezza), come nell’esempio: “Su alcuni esponenti dell’opposizione abbiamo un certo numero di dossier che ci dicono che la loro moralità è altamente discutibile” (p. 158). Quali dossier? Chi ne è l’autore? Interessante il commento di D’Agostini, che osserva come le fallacie per implicatura «spostano la responsabilità dell’errore: chi sbaglia non è chi parla o scrive, ma chi recepisce le parole» (p. 158). Tuttavia va detto che tutte le fallacie, in qualche modo, fanno sì che colpevole dell’inganno appaia la vittima e non il vero autore: si pensi solo alle anfibolie o alle fallacie di equivocazione. Le fallacie sono anzi essenziali nei procedimenti di vittimizzazione, in cui si deve convincere la vittima di essere lei stessa responsabile della persecuzione di cui è oggetto. Smascherare gli inganni dei persecutori è dunque un’operazione “sovversiva”, che scardina la persuasione che si insinua nelle vittime riguardo la loro colpevolezza. Lasciare intendere il falso dicendo il vero. Se dico “oggi sono andato in chiesa” posso voler dire che abitualmente non vado in chiesa ma oggi, sì, oppure che oggi, come sempre, sono andato in chiesa. Al termine di un colloquio con il presidente della repubblica, Berlusconi dichiara che “sulla legge Gasparri non c’è stata alcuna perplessità da parte del presidente della repubblica”; ma subito dopo il Quirinale precisa che “nel corso degli incontri con il presidente del consiglio Berlusconi il disegno di legge Gasparri non ha formato oggetto di colloquio” (p. 159). Immoralità contestuale. «Un caso insidioso di implicatura immorale è il paradosso del ricatto. Maria viene a sapere che Giacomo ha rubato un bel po’ di denaro e gli dice: “so che hai rubato e ti denuncerò”. Poco dopo aggiunge: “ho bisogno di soldi”. Giacomo dà a Maria 2.000 euro e Maria li accetta. Subito dopo però denuncia Giacomo. Evidentemente Giacomo (indotto da Maria) ha fatto un’inferenza dall’implicito: ha interpretato “ho bisogno di soldi” come “se mi dai dei soldi non ti denuncio”» (p. 160). L’inferenza di Giacomo era giustificata dalla sequenza delle frasi di Maria, che suggeriva implicature di un certo tipo, subito smentite dai fatti. Quale dei due è moralmente peggiore? Elogi distruttivi. L’implicatura ad personam si può ottenere per associazione o per contrasto. Un esempio ci è dato dal ripetuto elogio “…e Bruto è un uomo d’onore” nel Giulio Cesare di Shakespeare, dove si assiste alla distruzione ironica di una persona a colpi di elogi. Formule definitorie. Sono espressioni tipiche, come quelle foggiate in linguaggio politico, il cui uso attiva implicature positive o negative, come “democratico”, “diritto di essere informati”, “comunista”, ecc. Molte fallacie condividono una caratteristica significativa: la semplificazione riduttiva. «Le strategie di semplificazione hanno lo scopo di far passare contenuti non veri rendendoli credibili perché facilmente comprensibili: è molto più facile credere vere tesi uniformanti, che trascurano la varietà e le differenze, piuttosto che perdersi nei dettagli» (p. 163). L’osservazione di D’Agostini corrobora l’interpretazione generale delle fallacie come strumenti di vittimizzazione. L’identificazione di una vittima e la sua espulsione non sopportano dubbi o sfumature, hanno bisogno della massima semplificazione, quella dicotomica: bene-male, colpevole-innocente, causa-effetto. Nell’universo mitico della persecuzione vittimaria il male è tutto dalla parte del colpevole destinato all’espulsione, mentre il bene è tutto dalla parte dei persecutori, che si muovono nella convinzione – di cui cercano di rendere partecipe anche la vittima – di aver individuato la sola causa del male e di dovere quindi procedere alla sua eliminazione allo scopo di purificare la comunità avvelenata dal conflitto e ristabilire la pace interna. Esecutive. Le fallacie esecutive sono comportamenti più o meno visibili (gesti, intonazioni, ecc.) che rappresentano violazioni di regole che sono condizioni inderogabili di un dibattito razionale. Le fallacie esecutive non riguardano le parole, ma il contegno di chi le usa. Ad baculum esecutivo. Un capo, invece di dire a un sottoposto che lo licenzierà se non la smette di fare opposizione, può trasmettergli lo stesso messaggio e zittirlo fulminandolo con lo sguardo o andando su tutte le furie o con altre modalità in grado di suggerire realisticamente la sua intenzione di agire in un certo modo. Come esempio di ad baculum esecutivo D’Agostini riporta il paradosso della deterrenza noto anche come dilemma nucleare. La minaccia di ritorsione funziona solo se chi minaccia di reagire a un attacco nucleare con un attacco che distruggerà l’intero pianeta, viene a trovarsi nella situazione «di dover essere creduto irrazionale per essere razionale» (p. 164). Fingersi irrazionali e senza scrupoli può produrre un sicuro effetto in certi casi (come dimostrano certe esternazioni di Vittorio Sgarbi in dibattiti pubblici). Se la deterrenza spinta all’estremo non funziona, allora la soluzione può consistere nel sottrarre le condizioni all’arbitrio dei singoli con la deterrenza automatica. L’avvertimento di ritorsione del capo di stato sarà allora il seguente: “Se attaccherete, partirà automaticamente, e senza che io possa fermarlo, un attacco nucleare che distruggerà il pianeta” (p. 164). Una fallacia esecutiva è il riso sofistico. L’inversione di tono è un espediente retorico già fissato da Gorgia, che suggeriva di “combattere la serietà con il riso e il riso con la serietà”. Berlusconi chiama Obama “abbronzato” (settembre 2009) per dare sfogo al proprio imbarazzo razzista. L’espressione è così ambigua che si può interpretare anche come apprezzamento del tutto positivo, essendo l’abbronzatura un valore per i bianchi. La provocazione è la più ovvia tra le fallacie esecutive: spingere l’avversario a perdere il controllo, ad alzare la voce e ad insultare, utilizzando varie tecniche (interruzioni frequenti, accenni ad personam, disprezzo per cose e persone che l’avversario apprezza, ecc.). La provocazione ha come obiettivo quello di provocare l’ira nell’avversario, inducendolo ad assumere atteggiamenti di persona collerica e irrazionale. Quando si ricorre alla provocazione, si è a corto di argomenti. Agire sulle condizioni. La più infantile tra le fallacie esecutive è quella di fare rumore, parlare o ridacchiare mentre qualcuno sta esponendo le proprie tesi. Frequente in parlamento, ma anche nei congressi scientifici o nelle sedute di laurea. Si tratta di una fallacia di uso controversiale: «lo scopo non è quello di agire sull’avversario, ma sul convincimento del “terzo” che ascolta, impedendo o disturbando le stesse condizioni dell’ascolto». (p. 167). La slealtà della fallacia esecutiva consiste nella distruzione delle condizioni indispensabili a un confronto pubblico. In generale, le fallacie esecutive segnano il passaggio della strategia di vittimizzazione dal piano retorico argomentativo a quello dell’azione diretta sul piano della comunicazione non verbale. I passi successivi sono l’emarginazione, la persecuzione e la lapidazione della vittima. Fallacie ermeneutiche Sono le violazioni delle regole fissate dalla tradizione ermeneutica. D’Agostini riprende esplicitamente le principali fallacie ermeneutiche da Verità e metodo di Hans Georg Gadamer. - Anacronismo. Viola la regola della Zeitenabstand (distanza temporale), stabilisce il dovere di contestualizzare il - - - - contenuto dei discorsi o dei testi (possiamo rimproverare Aristotele di non avere intuito i principi della relatività?) La fallacia di sottovalutazione viola la regola detta presupposto della perfezione, che stabilisce che, valutando un testo, si deve presupporre che l’autore conosca alla perfezione l’argomento di cui sta parlando: impossibile comprendere a fondo un autore se si parte dal presupposto che non sia autorevole in quello che dice. Si giustifica così il principio di carità, che mi impone di rimuovere tutto ciò che può compromettere la corretta comprensione di un testo, come ad esempio una formulazione difettosa, favorendo la valutazione critica corretta. L’interpretazione è un processo circolare in cui l’interpretante usa le proprie conoscenze per comprendere ciò che viene detto. La precomprensione nel senso di Heidegger (Essere e tempo, § 32) determina un circolo tra il dato che si deve comprendere e le conoscenze preliminari di chi lo comprende. Impossibile dunque eliminare i pregiudizi di cui ci serviamo per giudicare: senza conoscenze preliminari non capiremmo nulla di nulla. Bisogna distinguere tra i pregiudizi che illuminano e quelli che accecano, onde evitare che si producano errori causati dai secondi (p. 170). La fallacia di prevaricazione consiste nel far prevalere il proprio linguaggio, violando la regola della fusione di orizzonti, per la quale il risultato dell’interpretazione deve consistere in una combinazione armonica dell’orizzonte cognitivo dell’interprete e dell’interpretante. Non deve prevalere, nel dialogo, uno dei due punti di vista e quindi ogni sua violazione della regola della fusione di orizzonti viola i principi dialogici ai quali dovrebbero ispirarsi i dibattiti pubblici. La fallacia dell’ultima parola consiste nell’ignorare che il processo interpretativo è virtualmente infinito e quindi nessun interprete può pretendere di avere l’ultima parola, pretesa che dà corpo al dogmatismo, e nega una regola primaria del confronto tra esseri razionali: l’idea che qualsiasi opinione o proposizione deve poter essere discussa. La fallacia dell’ultima parola è simile alla fallacia ad verecundiam, «solo che l’autorità che si pretende indiscutibile è lo stesso proponente» (p. 172). Perché le fallacie hanno successo? Alla domanda D’Agostini dà tre risposte: la prima risposta è il principio di ignoranza: le fallacie ingannano perché i partecipanti al dibattito ignorano le regole di cui esse sono violazioni. In secondo luogo, le fallacie funzionano perché nella maggior parte dei casi sono un’applicazione impropria di una regola. Ad verecundiam e ad baculum sono buoni esempi di questa tesi, sostenuta da Douglas N. Walton ed Erik C.W. Krabbe. Il ragionamento ad verecundiam sarebbe perfettamente legittimo quando l’autorità è un esperto; l’ad baculum è autorizzato quando la posta in gioco è un bene irrinunciabile (la vita, la salute, la salvezza da un pericolo grave, ecc.). Le fallacie di generalizzazione non escludono la generalizzazione corretta. La terza ragione di successo delle fallacie è la fragilità delle regole argomentative e logiche. La scienza in che misura è autorevole? In quali casi l’appello all’autorità è legittimo e in quali altri casi è invece una fallacia ad verecundiam? La fallacia ad ignorantiam deve la sua frequenza ai limiti della nostra conoscenza, che è elusiva: «ci sono molte cose che non sappiamo, e che dovremmo sapere per essere davvero certi di quel che sappiamo. Questo significa che l’argomento all’ignoranza è una insidia racchiusa in qualsiasi inferenza da premesse non matematicamente certe» (p. 174). Possiamo avere buone regole usate in modo improprio oppure regole strutturalmente fragili: «È come appoggiare una buona scala su un terreno fangoso e incerto, o appoggiare una scala pericolante e mezza rotta su un terreno solido», commenta D’Agostini, riportando una metafora di Adelino Cattani. Questo però non significa che sia inevitabile arrendersi all’argomentazione fallace, perché non c’è un ordine incontrovertibile e una sicura razionalità nell’argomentazione. D’Agostini indica la via d’uscita: «Il terreno incerto e fangoso è precisamente lo spazio di azione del discorso fallace, quello in cui anche la scala migliore si rivela inutile, e le regole razionali (la ragione) risultano disarmate di fronte alla peggiore retorica. Ma il terreno fangoso è il risultato dell’ignoranza pubblica delle regole, è cioè esattamente determinato dalla prima causa di errore: il principio di ignoranza» (p. 174-175). Paola Cantù, E qui casca l’asino. Errori di ragionamento nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 178. È possibile mettere d’accordo la logica con la politica? Nell’articolo di Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, pubblicato il 29 settembre 2001 sul Corriere della sera, Cantù trova molte fallace, tra cui spicca quella ad metum, che consiste nella drammatizzazione di un pericolo allo scopo di persuadere l’uditorio a prendere posizione nel senso voluto da chi parla o scrive. Le fallacie sono errori involontari di ragionamento oppure infrazioni volontarie e quindi fraudolente di regole procedurali universalmente condivise. Nel caso della Fallaci l’invito a combattere l’islam subito e con la massima determinazione viene giustificato evocando la distruzione certa della nostra cultura quale conseguenza di un atteggiamento passivo e rinunciatario, ammantato di umanitarismo, dinanzi alla minacciosa avanzata dell’islam. Un ragionamento ad metum non è necessariamente fallace, dipende dal contesto di riferimento, ma nell’articolo della Fallaci esso si combina con la fallacia della brutta china, che si caratterizza per l’omissione di dati rilevanti, asserendo l’ineluttabilità di un esito che non è dimostrato nei passi intermedi. L’articolo della Fallaci contiene anche la fallacia del falso dilemma: «Poiché sottrarsi alla tragedia è avere paura della guerra, l’alternativa che si pone è: o ci si fa del male o si muove guerra al terrorismo» (p. 12).Il ricorso alla fallacia del falso dilemma è di solito un espediente molto efficace, in quanto insinua come inconfutabile ed esaustiva la bipartizione in due alternative, in questo caso negative, una delle quali presentata come male minore. «La fallacia dell’argomento risiede nella semplificazione eccessiva delle alternative possibili, nella riduzione di un problema alla contrapposizione tra due soluzioni opposte, senza tener conto di sfumature, ipotesi intermedie, fattori contestuali» (p. 13). L’argomento che attacca una persona per screditarla mettendola in cattiva luce, invece di confutare propriamente la tesi sostenuta da quella persona, è una tipica fallacia ad hominem. L’offensiva può colpire una persona sul piano cognitivo, morale, professionale, sessuale e persino fisico; può denunciare il presunto movente di chi sostiene una certa tesi, insinuando che questi abbia interesse personale alla sua accettazione. Una versione molto diffusa di argomento ad hominem consiste nel denunciare una presunta incoerenza tra la tesi sostenuta in quel momento e altre idee o tesi espresse dall’interlocutore in altre occasioni. Persino difetti fisici (balbuzie, salivazione palesemente abbondante, sovrappeso e altre caratteristiche giudicate indecorose dal codice implicito) possono servire per attaccare una persona evitando di confutare la sua tesi. L’argomentare tipico ad hominem sfrutta slealmente ogni circostanza che si possa prestare alla distruzione della figura dell’interlocutore. Una variante del ragionamento ad hominem, il tu quoque sostiene l’inconsistenza di una tesi mostrando che essa è in contraddizione con le idee e i comportamenti di chi la propugna. A chi sostiene che il Corano predica la pace, la fratellanza e la giustizia, si potrebbe obiettare che esso contiene anche la legge del taglione e una considerazione della donna come entità che conta meno di un cammello. Il tu quoque è un ragionamento del tutto basato su elementi cognitivi; la sua efficacia pratica è considerevole, consistendo nell’insinuare l’esistenza di una contraddizione logica tra la tesi dell’interlocutore e altre sue idee. Eppure queste idee sono attribuite all’interlocutore senza una verifica: si presuppone che le abbia e le sostenga. Sul piano logico l’argomento del tu quoque introduce contenuti non pertinenti, per evitare di affrontare direttamente la tesi che si vuole confutare. L’incoerenza presupposta nell’interlocutore è abilmente sfruttata nel tentativo di una confutazione deviata della tesi sostenuta. L’argomento ad verecundiam cerca di gettare il ridicolo sulla persona che sostiene una certa tesi o adotta un certo comportamento. Il biasimo si fonda sul fatto che rifiutare una certa tesi equivale a perdere considerazione sociale. Implicito è l’appello all’autorità della tradizione. L’onere della prova è scaricato sull’interlocutore: «Non è Oriana Fallaci a dover argomentare contro l’uso del chador, contro la poligamia, a favore dell’istruzione femminile e della libertà nelle cure sanitarie e nel consumo di alcolici, bensì chi non condivide la sua posizione. Il ridicolo in questo caso è espresso tramite attacchi generici alla persona, condensati negli aggettivi spregiativi volgari “stupido”, “scimunito”, “minchione”, “grullo”. Come nel caso della fallacia ad hominem, l’errore del ragionamento consiste nell’introduzione di dati non rilevanti, oltre che, in questo caso, offensivi e non rispettosi» (p. 17). Una regola fondamentale che deve valere in ogni discussione razionale, tesa alla ricerca della verità e non al trionfo di un protagonista del dibattito, è quella per cui non deve valere alcun divieto di mettere in dubbio una tesi, un presupposto, un’idea qualsiasi sostenuta da chicchessia nel corso del dibattito. Le invettive sarcastiche, ma anche molti discorsi che fanno leva su forze irrazionali, danno per scontato l’assurdità di ammettere che si possa discutere con l’interlocutore. In un articolo pubblicato il 28 febbraio 2005 sul Corriere della sera, Giovanni Sartori definisce assurda la pretesa di riconoscere agli embrioni dei diritti equivalenti a quelli delle persone già nate, sviluppando un argomento per analogia: come la soppressione di un embrione o larva animale è totalmente differente rispetto all’eliminazione di un adulto della stessa specie, allo stesso modo l’uccisione di un embrione umano non si può paragonare alla soppressione di un esemplare adulto. Sartori vorrebbe così dimostrare che i diritti degli embrioni non coincidono con quelli degli individui sviluppati. La fallacia di Sartori, secondo Cantù, non consiste nell’argomentazione induttiva per analogia, di per sé accettabile e corretta, ma nella pretesa di travestire un ragionamento induttivo, la cui conclusione è quindi solo probabile, con l’abito della necessità dimostrativa. Si tratterebbe quindi di una fallacia di ambiguità, giacché «alla logica si fa appello ora come logica induttiva (usando l’argomento per analogia) ora come logica deduttiva formale (affermando che tutto ciò che ne contraddice le conclusioni è assurdo)» (pp. 21-22). La negazione di una conclusione è assurda solo quando la conclusione discende con necessità dalle premesse, ma non è questo il caso. In generale le argomentazioni adottate da chi si prepara a sostenere o a confutare una tesi sono spesso invalidate dalla presenza implicita di premesse la cui verità è data per scontata o è abilmente sottratta alla discussione e al confronto. Nella risposta di Roberto Colombo a Sartori (Corriere della sera, 3 marzo 2005) Cantù rileva due fallacie: una fallacia linguistica di ambiguità riguardo al principio di identità, che è usato come principio logico e insieme come principio dell’identità personale nel tempo; e una seconda fallacia di petitio principi nascosta, che consiste nel dare per scontato ciò che invece si dovrebbe dimostrare. Gli argomenti induttivi e causali si fondano sull’esperienza e perciò sono inclusi nella categoria degli argomenti a posteriori. In generale si tratta di argomenti in cui il nesso tra premesse e conclusione è solo probabile (con diversi gradi di probabilità), ma possono essere usati in modo fallace quando il nesso è apparente o non sussiste. Gli stessi argomenti possono essere invalidi perché le premesse non sono vere né condivise. «Le liberaldemocrazie (…) oggi si trovano alle prese con un indebolimento o una perdita della propria identità culturale, soffocata dall’opulenza materiale oltre che minacciata dal fondamentalismo islamico» (Marcello Pera, Democrazia e libertà? In difesa dell’Occidente, discorso pronunciato in apertura del Meeting dell’Amicizia, Rimini, 11 agosto 2005). Nel discorso di Pera la perdita dell’identità culturale è correlata all’opulenza materiale e al fondamentalismo islamico. La coesistenza dei tre fenomeni tuttavia non dimostra che opulenza materiale e fondamentalismo islamico siano all’origine della disgregazione dell’identità culturale. «Si tratta, osserva Cantù, di un tipico esempio di fallacia di non causa pro causa o della causa errata, perché non è provato che l’evento presentato come causa di un certo effetto ne sia veramente la causa» (p. 29). Tuttavia anche in questo caso si può osservare come non sia chiaro che cosa si intende con identità culturale (molti argomenti omettono di chiarire il significato dei termini impiegati, commettendo fallacie di definizione, quando un termine è definito in maniera troppo ampia o troppo stretta, oppure in modo circolare, ambivalente o contraddittorio). In questo caso e in molti altri si insinua inoltre una premessa tacita: che sia esistito ciò di cui si lamenta il degrado o la scomparsa – l’identità culturale, alla quale è attribuita una natura tale da dover temere la dissoluzione ad opera di fattori “esterni”. E se l’identità fosse necessariamente qualcosa di mutevole, multiplo, ibrido e non fosse mai esistita un’identità monolitica, intesa come sostanza originariamente pura? Coloro che sostengono la tesi del relativismo culturale, per cui ogni cultura merita uguale rispetto e va riconosciuta e accettata nelle forme che le sono proprie, per il fatto che non possono esserci criteri metaculturali di valutazione, dovranno tuttavia ammettere che tale tesi è sostanzialmente metaculturale, dal momento che produce un asserto universale, che deve valere per tutte le culture. La tesi per cui non esistono valore morali assoluti, e buono e cattivo valgono solo volta per volta nelle diverse circostanze o finalità, è essa stessa un richiamo all’autorità indiscussa della storia e ne deriva un atteggiamento che è rimasto lo stesso da secoli. La tesi che professa il relativismo è sostenuta con richiami alla massima evidenza, è asserita con argomenti logici e ideologici e soprattutto implica il divieto (tacito) di metterla in discussione, ad esempio mostrando che anch’essa è soggetta alla condizione prevista per tutti valori, che valgono diversamente volta per volta, in base alle circostanze. Se anche la tesi del relativismo è un prodotto della nostra civiltà occidentale in questo momento storico, perderà ogni carattere di assolutezza; se invece la tesi relativista è fatta valere come assoluta, allora è inevitabile l’autocontraddizione. In ambito politico, etico e sociale spesso si usa l’argomento del piano inclinato per ostacolare un progetto o impedirne la realizzazione: si precorrono gli eventi illustrando una presunta situazione catastrofica, inaccettabile per tutti, partendo dalla quale, come nel ragionamento per assurdo, si retroagisce sulla premessa per respingerla in quanto non degna di essere presa in considerazione. La fallacia del piano inclinato è molto diffusa; è singolare che sia usata consapevolmente come se fosse un buon argomento, esprimendo una tendenza oggettiva, intrinseca alle cose stesse e quindi irrefutabile. Più che di un errore si tratta dell’esibizione di una procedura ritenuta infallibile da chi la propone, spesso dichiarandola apertamente (la china scivolosa!). Naturalmente, obietta Cantù, non c’è alcuna necessità che, una volta adottata una certa misura o aperta la strada a un certo trattamento, si scivoli inesorabilmente verso la catastrofe che si trova alla fine di molti passaggi. Non è affatto scontato, comunque, come vuole l’argomento (detto anche del pendio sdrucciolevole o dell’argine che si rompe o della direzione o della brutta china) che, una volta fatto il primo passo, non si possa evitare di compiere i successivi fino al disastro finale. Programmi e discorsi politici abbondano di fallacie di ambiguità e di linguaggio pregiudizievole, utilizzate con spregiudicata abilità allo scopo di creare il consenso attorno al programma esposto. L’appello alle emozioni è sempre presente: che cosa meglio di un timore profondo o di una speranza diffusa può svegliare l’attenzione dell’uditorio e renderlo disponibile ad agire nella direzione voluta? Il linguaggio della propaganda non tollera le mezze misure, i semitoni, le sfumature: procede per dicotomie e contrapposizioni, falsi dilemmi e rappresentazioni dell’avversario come nemico. La propaganda costruisce un nemico da battere, rappresentandolo come l’incarnazione del male che dilaga come contagio mortifero. L’appello a unire le forze, a schierarsi apertamente contro il male per sconfiggerlo espellendone la causa, non è che l’inizio di una procedura assai nota, consistente nell’individuare un capro espiatorio, una vittima da espellere per risanare l’intera comunità, finalmente aggregata attorno alla vittima uccisa. Ogni discorso di propaganda suona in effetti come il primo passo verso il tutti contro uno della teoria vittimaria. La tanto declamata dialettica democratica è una tecnica che riproduce i passaggi iniziali dell’escalation vittimaria, laddove si limita a individuare il nemico da linciare, la causa del male che si deve rimuovere, mediante attacchi violenti alla sua persona, alla sua dignità, al suo onore. Si potrebbe obiettare che manca la scena finale, dove i linciatori si scagliano contro la vittima innocente e la fanno a pezzi. In realtà di tanto in tanto la scena finale si presenta in tutta la sua agghiacciante cruda bestialità (ad esempio l’assassinio di Matteotti, di Moro, ecc.). Tutte le cosiddette fallacie dell’argomentazione vanno considerate come tecniche per eludere il compito di stabilire la verità di una certa tesi. Esse pretendono di far valere una conclusione basandole su premesse inconsistenti o irrilevanti: aprono la via all’affermazione non della verità, ma di un rapporto di forza favorevole al protagonista. Le fallacie sono tutte in qualche modo fallacie di rilevanza con cui si voltano le spalle alla verità per dirigersi contro qualcuno da piegare, convincere e infine, se necessario, da eliminare fisicamente. Senza il contesto del processo di vittimizzazione le fallacie rischiano di rimanere pratiche puramente retoriche o errori involontari di chi parla o scrive. Le fallacie risultano immediatamente intellegibili solo come strumenti di individuazione della causa che sta al fondo del malessere diffuso. Nelle società arcaiche le tecniche di vittimizzazione sono molto rudimentali e consistono essenzialmente nel ricorso ai segni vittimari (difetti fisici, provenienza ignota, carattere eccentrico, anticonformismo, ecc. della vittima designata, alla quale sono presto attribuiti i peggiori crimini, quali assassinio, incesto, ecc.). Nelle società moderne i segni vittimari sono sostituiti dalle fallacie opportunamente inserite nelle procedure argomentative. Cantù non affronta queste implicazioni e rimane sul piano della teoria dell’argomentazione. La lettura della stampa presenta spesso esempi di fallacia di non causa pro causa, quando l’evento presentato come causa di un certo effetto di fatto non è la causa oppure è discutibile che lo sia. Tale fallacia è spesso associata alla fallacia di causa complessa (causa irrilevante), quando un evento è presentato come causa principale di un certo effetto mentre in realtà esso è solo concausa. Errore frequente perché, come spiegano gli psicologi, gli uomini sono soggetti a biases di attribuzione causale. Le attribuzioni sono di due tipi: esterne, quando la causa dell’evento è individuata nella situazione esterna o in fattori diversi dalla volontà degli individui e interne o disposizionali, quando la causa dell’evento è individuata nella qualità di una persona, sia questa la volontà o l’intelligenza (p. 75). Si può essere indotti a far credere che un incendio non sia scoppiato per cause fortuite, ma che sia doloso; o che un certo evento catastrofico sia il risultato di un complotto, di un piano segreto ordito da poteri occulti – teoria del complotto che è soggetta all’autoconferma, dal momento che la segretezza dell’operazione pregiudica di per sé la possibilità di ottenere prove evidenti della verità della teoria stessa. L’attacco dell’11 settembre 2001 è stato il risultato di un complotto? E chi erano i componenti del gruppo che in gran segreto ha preparato ed eseguito il piano, terroristi islamici o agenti dei servizi segreti americani? In genere eventi che suscitano emozioni fortissime si ricordano più facilmente. L’errore di base spesso si fonda sul meccanismo psicologico noto come euristica della disponibilità, per cui prevale la tendenza a valutare un evento come più probabile quando è facile richiamare alla memoria numerosi ricordi di eventi simili (pp. 78-79). La maggior parte degli incendi di vaste proporzioni sono ricondotti a complotti, al dolo, con maggiore probabilità degli incendi di piccole dimensioni. Molti giornalisti contribuiscono a diffondere errori cognitivi riguardo la vera causa di eventi distruttivi, errori che si possono ricondurre alla tendenza a semplificare la rappresentazione della realtà in persone sprovvedute, ma non in professionisti della comunicazione. A sostegno della nostra tesi, giunge l’osservazione di Cantù sulla satira di Beppe Grillo, i cui argomenti attaccano in forma comica il bersaglio di turno nella sua persona, anziché affrontare le sue idee e discuterle direttamente. E siamo d’accordo nel rilevare che la retorica politica e il giornalismo d’assalto commettono a piene mani fallacie ad hominem, palesi attacchi alla persona, insulti veri e propri espressi in forma di battuta spiritosa. Non si può essere del tutto d’accordo con Cantù, quando respinge l’argomento di chi sostiene che gli insulti possono istigare attacchi più violenti, fino ad arrivare all’assassinio, classificandolo come esempio della fallacia della brutta china (p. 89). L’obiezione che, ricorrendo alla fallacia della china scivolosa, non si indichi la catena causale che conduce dall’insulto all’assassinio, non è sostenibile senza una ricognizione del contesto: nel caso in cui l’insultato sia un magistrato o un politico, si dà inizio a un processo di selezione, isolamento e vittimizzazione che evoca il linciaggio terminale e spesso vi conduce. Perché negare l’evidenza schiacciante che gli attacchi rivolti a chiunque (anche mediante il pettegolezzo, l’insinuazione o l’ingiuria privata) favoriscono l’isolamento progressivo e la ripetizione di attacchi simili, sempre più violenti, fino a concludersi nell’assassinio in casi estremi? La mano assassina che fa il lavoro finale non è chi ha dato inizio alla catena. Il contagio mimetico rispecchia una tendenza dilagante che porta irresistibilmente al tutti contro uno secondo modalità che rispecchiano la china scivolosa: vi sono casi in cui la fallacia vera consiste nel negare l’evidenza della progressione scivolosa con l’accusa che chi la sostiene cade nella fallacia, appunto, della brutta china. Certamente, che ci fosse davvero una pessima china e che fosse prudente fermarsi molto prima, veniamo a saperlo post factum, quando ormai la violenza estrema si è consumata. La differenza tra accusa fondata, accusa ingiustificata, calunnia, insulto e confronto fisico è reale, ma riguarda per lo più il modo e le circostanze in cui si consuma l’assalto ad hominem. L’attacco alla persona, che a fondamento del valore delle idee pone la forza di chi le sostiene, è una prova del dominante disprezzo per la verità e della barbarie diffusa. Nei dibattiti in Italia prevale, osserva Cantù, la tendenza a sviluppare argomenti dilemmatici, fondati su dicotomie rigide, con discussioni in cui la demonizzazione dell’avversario è la procedura dominante (p. 90). Una cosa è certa: questo metodo distorto uccide a poco a poco la democrazia, perché affievolisce la fiducia delle persone nella possibilità di far valere la verità e ingenera la micidiale persuasione che l’uso o la minaccia dell’uso della forza sia l’argomento migliore per intimidire e sottomettere l’interlocutore. Probabilmente il successo che incontra la retorica dell’insulto e dell’attacco alla persona si deve al fatto che il dibattito pubblico è una specie di surrogato del linciaggio della vittima; e il fatto che si ripeta spesso genera un appagamento perverso negli spettatori, che sono come pacificati e rasserenati dallo sfogo che l’esaltato di turno, con la sua pubblica esibizione di sgarbo licenzioso, assicura a tutti coloro che attendono di godere comodamente sdraiati sul divano di casa. La battuta di spirito è l’esibizione di numerose fallacie, ma la ragione profonda consiste nel fatto che la comicità è una forma elegante e diversiva di persecuzione vittimaria. L’abilità del comico al servizio della critica anche corrosiva di idee, situazioni e personalità politiche, è ben illustrata da Cantù nella sua analisi delle battute di spirito di Maurizio Crozza nella copertina di Ballarò. Merita una certa attenzione l’uso del paradosso e della falsa analogia da parte del popolare comico. L’8 gennaio 2008 Crozza fa la satira di Walter Veltroni denunciando ironicamente la contraddizione tra diverse idee e posizioni sostenute dalla stessa persona: «Stiamo con i giovani precari ma anche con gli imprenditori che li sfruttano. Stiamo con le donne che stentano a tenere insieme il lavoro e la cura dei figli ma anche con i loro mariti che se ne fregano e vanno a puttane. Perché tutti hanno diritto a un futuro luminoso ma anche buio, a una vita serena ma anche alla disperazione. Perché le giovani coppie che sono il futuro del nostro paese devono avere davanti una prospettiva positiva ma anche negativa» (p. 93). Molti argomenti utilizzati da Crozza sono volutamente fallaci, il che li rende legittimi, in qualche modo, dato che si smascherano da sé immediatamente, producendo tuttavia un irresistibile effetto comico, come nella satira seguente che, nella puntata di Ballarò del 22 gennaio 2008, dipinge Mastella con una falsa analogia impiegata a scopo ironico, intendendo apertamente il contrario di ciò che viene detto. Il risultato è fortemente comico: «Mastella lei per me è un grande statista. Uno statista lo si riconosce dalle sue gesta, non so per esempio: Gandhi con la forza del suo pensiero ha liberato il suo popolo dal giogo coloniale. De Gaulle con la forza del suo coraggio ha liberato la Francia dai nazisti. Mastella con la forza dell’indulto ha liberato 27.000 delinquenti dalle carceri» (pp. 9394). Molto frequenti sono le generalizzazioni, le petizioni di principio, le fallacie ad metum, combinate con la fallacia non causa pro causa. Frequente è il ricorso all’argomento per cui si deve limitare l’ingresso di stranieri in Italia in ragione del fatto che chi si oppone al controllo dell’immigrazione in realtà promuove la xenofobia, perché nasconde o criminalizza la percezione sempre più diffusa di insicurezza, rendendola sempre più esplosiva. Difendendo l’autore di un articolo razzista apparso su Libero il 16 maggio 2008, in cui si lamentava lo scarso impegno dei politici in Veneto «a disinfestare il Veneto dalla monnezza rom e assimilati», il direttore Vittorio Feltri, a un lettore indignato da espressioni così violentemente razziste, chiariva che l’autore dell’articolo aveva auspicato un maggiore impegno nel disinfestare la spazzatura dei rom, che nei loro campi sarebbero poco rispettosi delle norme igieniche. «La mossa argomentativa di Feltri, commenta Cantù, consiste nel correre ai ripari appellandosi a una figura retorica nota come anfibolia e basata sull’ambiguità del testo, che egli si premura di eliminare a favore dell’interpretazione più caritatevole» (p. 104). Il ricorso allo stereotipo denigratorio ottenuto attraverso generalizzazioni ad hoc rappresenta una formidabile semplificazione della realtà di gruppi umani, con cui si mira a giustificare interventi anche brutali, con parole d’ordine semplici e chiare. La formazione dello stereotipo, tuttavia, non sarebbe possibile senza l’intervento delle condizioni che aprono la strada all’espulsione vittimaria. Allo stereotipo non si giunge solo per via logica (fin troppo facile risulta individuare la fallacia formale che vi conduce). Ma «analizzare in maniera più approfondita le specificità del contesto in cui compare» (p. 108), come scrive Cantù, obbliga a misurarsi con il processo vittimario. La diffusa attività di killeraggio politico che emerge dai mezzi di informazione è di tale gravità da indurre le persone oneste e in buona fede a desistere dalla lettura della stampa. La credibilità giornalistica è quasi azzerata. L’accusa che si rivolge ai giornalisti è quella di spargere fango sugli avversari politici del partito cui il giornale si ispira allo scopo di delegittimarli e metterli fuori gioco. Il killeraggio politico non è una fallacia argomentativa, osserva Cantù, perché non è effettuato nel corso di una discussione, è invece «una strategia retorica di propaganda negativa, che può essere usata da un candidato per mettere in cattiva luce il suo avversario» (p. 149). Nel libro La verità avvelenata di Franca D’Agostini, citato da Cantù, l’autrice definisce avvelenamento del pozzo la fallacia con cui «si mira a screditare o delegittimare in anticipo qualunque cosa un avversario possa dire, insinuando che sia in cattiva fede o che sia scientificamente, moralmente o politicamente inadeguato» (p. 146). La differenza rispetto alla fallacia ad hominem, di cui la fallacia dell’avvelenamento del pozzo è stata tradizionalmente considerata un caso particolare, dal momento che in essa si attacca la persona e non la tesi sostenuta, consisterebbe nel fatto che l’attacco alla persona è pervasivo e anticipato: esso si verifica prima e fuori della discussione vera e propria; è una mossa preventiva, una strategia che mira a demolire i presunti rivali prima che possano muovere all’attacco, o per giustificare il rifiuto di entrare in discussione con l’interlocutore. La fallacia di avvelenamento del pozzo, che non è una fallacia in senso stretto, rivela pienamente la natura violenta e intimidatoria posseduta anche dalle altre più comuni fallacie, per quanto in una forma più attenuata o mascherata. La calunnia ottiene lo stesso effetto: proiettare nell’immaginario collettivo una rappresentazione del tutto negativa di una persona, in modo tale che il giudizio su ogni sua parola o azione sarà inesorabilmente di condanna. L’intenzione ostile, il carattere di strategia di costruzione del nemico di tutti e di demolizione della sua figura è presente in tutte le fallacie. L’obiettivo non è la verità, ma la vittoria ottenuta a qualsiasi prezzo. Le capriole della retorica e gli abusi dell’argomentazione servono allo stesso scopo: far passare come un mostro la vittima di turno agli occhi di tutti. Il giudizio preventivo negativo deve essere unanime, definitivo, indiscutibile. L’attacco mira a far credere che l’attaccato sia depositario di una colpa inespiabile e che debba quindi essere isolato, espulso e, se necessario, ucciso. Tra l’avvelenamento del pozzo, il killeraggio preventivo, la macchina del fango che è diventata gran parte della stampa, e l’attacco con l’arma bianca o all’arma da fuoco, la differenza è nella forma, non nella sostanza, nei tempi e nei modi, non nel risultato. L’avvelenamento del pozzo è anche il qualunquismo etico con cui si mettono tutti sullo stesso piano, facendo di ogni erba un fascio. Se tutti hanno torto, se sono tutti furfanti, allora non c’è scampo per nessuno e la verità è introvabile. Cantù cita un intervento di Roberto Saviano sul tema, che illustra come nichilismo etico il qualunquismo assolutorio professato da certa stampa collusa con la mafia: «Sostenere che niente è pulito, scrive Saviano, tutto è sporco, tutti si è uguali nei vizi e negli interessi. Dunque nessuno può fare la morale. La macchina del fango vive di questo desiderio di mettere tutti sullo stesso piano: tutti corrotti, tutti viziosi. Un meccanismo che si riesce a bloccare quando non si contrappongono più santi a demoni, ma piuttosto quando si dimostra che pur nella contraddizione che è degli esseri umani, gli interessi sono diversi, le azioni sono diverse. E anche le debolezze sono diverse» (p. 154). Esercitarsi a individuare le fallacie è indispensabile se si respinge il nichilismo morale, se si è convinti che la posta in gioco non è la demolizione dell’avversario, ma il riconoscimento della verità. L’individuazione di una fallacia, a sua volta, non avrà come obiettivo quello di togliere la parola all’interlocutore o di delegittimarlo, ma solo quello di pretendere una spiegazione più soddisfacente: qui sta «la differenza tra attaccare il valore di una persona e attaccare il valore di un suo argomento» (p. 157). Roberta De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina editore, Milano 2010. All’origine di questo audace saggio di Roberta De Monticelli c’è l’esigenza di misurarsi con il dato di fatto incontestabile di un’illegalità diffusa nel nostro paese, di una «pratica endemica degli scambi di favori, a tutti i livelli: cariche pubbliche a figli e amanti, lo scambio di carriere politiche contro favori privati, i concorsi pubblici (quelli universitari, per esempio) decisi sulla base di accordi fra gruppi di pressione o cordate – quando non addirittura di parentele – e non su quella del merito, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, il familismo, il clientelismo, le caste, la diffusa mafiosità dei comportamenti, la vera e propria penetrazione delle mafie in tutto il tessuto economico e nelle istituzioni, la perdita stessa del senso delle istituzioni da parte dei governanti» (pp. 11-12). Coraggiosamente impietosa è la diagnosi che l’autrice, docente universitario, fa del mondo delle istituzioni e della politica, dove da anni la legislazione è una macchina per produrre decreti a favore di interessi di singoli politici o allo scopo di assicurare l’impunità dei prepotenti. E che dire di una maggioranza di italiani che sostiene questa permanente negazione di ogni senso di giustizia, del bene collettivo, del senso dello stato, del valore dell’onestà e del merito? Non possiamo credere, tuttavia, che la carriera di Roberta de Monticelli in ambito accademico sia progredita con le modalità e le strategie mafiose che lei stessa lamenta, quindi abbiamo almeno un’eccezione della regola perversa da lei denunciata. Si sa che la generalizzazione è un artificio retorico per rendere più incisiva la protesta nei confronti dell’indegnità. All’origine della disinvolta e sistematica illegalità presente nella società italiana De Monticelli vede il generale scetticismo etico diffuso nel pensiero filosofico del Novecento: la convinzione che non esista verità alcuna, che vi siano solo interpretazioni e non fatti, che il giudizio di valore non sia né vero né falso, a differenza del giudizio fattuale. Aggiungiamo una certa psicologia morale preoccupata più di spiegare i comportamenti che di rafforzare il senso di responsabilità dell’agente morale. L’indifferenza per i valori morali avrebbe le sue radici nella stessa filosofia, che con le ermeneutiche di vario conio rifugge da ogni nozione di verità oggettiva e di presupposto comune e ineludibile. L’indulgenza di ciascuno verso tutti è ricambiata e sostenuta da una complicità così spudorata e insensata, che fa perdere il senso della vita collettiva, inabissando il paese in uno sfrenato, cinico e beffardo individualismo. L’arroganza estrema si manifesta nell’esibizione dell’immoralità e il disgusto estremo è provocato da manigoldi istituzionali che si vantano pubblicamente dei loro crimini, soprusi e indecenze, nel circuito perverso e suicida di una demagogica chiamata di correità in ogni settore della vita civile. De Monticelli vede nei Ricordi del Guicciardini il paradigma del giustificazionismo e dell’immoralismo programmatico che da secoli regnano nel nostro paese. In una prosa leggiadra e posata, nitida e imperturbabile, Guicciardini snocciola precetti di immoralità come fossero perle di suprema saggezza, mentre «sono la feccia precettistica della meschinità, del servilismo, della doppiezza, del familismo, della diffidenza e della furbizia, belle virtù ostentate con un piacere che sta fra il sarcasmo e la superiore albagia dell’esprit fort, del disincantato conoscitore dell’umano e del politico» (p. 34). Lo scetticismo metafisico, logico e pratico è volto a giustificare la divinizzazione del tornaconto e del disprezzo del prossimo: sospetto, paura e vendetta sono i soli moventi dell’azione individuale? Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana aveva definito i Ricordi «la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita» (p. 35). Giacomo Leopardi nel suo famoso Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824) aveva individuato nel disincanto, nel “disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita” l’origine della corruzione dei costumi degli italiani. Dalla disperazione e dall’indifferenza morale deriva la disposizione di «un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni […dove] il più savio partito è quello di ridere indistintamente d’ogni cosa e di ognuno, incominciando da se medesimo» (p. 40). Da tale disposizione non deriva che denigrazione e derisione per il prossimo, unite alla disistima di se stessi? Infatti, scrive Leopardi, «un uomo senza amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’azioni» (p. 41). Un abisso separa l’analisi di Leopardi dalla precettistica di Guicciardini. Lapidariamente De Monticelli osserva che l’interesse egoistico convive benissimo col servilismo e la sudditanza, non l’autonomia individuale e il senso di dignità personale: «Il “particulare” è l’individuo senza amor proprio» (p. 43). Leopardi vede il nesso oggettivo tra amor proprio e coscienza morale; senza rispetto di se stessi non può esservi rispetto del prossimo, della comunità di appartenenza, dell’intera umanità. In Italia manca una classe dirigente responsabile e capace di progetti ambiziosi, in grado di alimentare negli individui l’emulazione e il giusto orgoglio di appartenere alla nazione italiana; e manca in generale un’etica pubblica. Nulla possono eroici martiri isolati, affogati nella melma dell’opportunistica rassegnazione al malcostume, a riscattare o compensare la totale mancanza di mores nazionali. Fabrizio Corona, il fotografo ricattatore, è l’esemplare paradigmatico dell’immoralismo diffuso e approvato dalla grande massa di italici. La parola d’ordine assunta a norma del cinismo trionfante e autocompiaciuto è una dichiarazione dello stesso fotografo: «Vedo l’affare, non la persona…prendo al popolo per dare a me stesso….una nuova forma di Robin Hood» (pp. 45-46). Indifferenza al crimine e ostentazione del crimine, senza più neppure l’ipocrisia che raccomanda il Guicciardini: c’è qualcosa di più osceno? La prassi consolidata di impiegare risorse pubbliche a vantaggio di interessi particolari non ha bisogno di nascondersi, ma può tranquillamente apparire alla luce del sole, può divenire del tutto trasparente, ma «oggi, avverte l’autrice, non è il nascondersi ma proprio l’apparire, come la lettera rubata di Poe, che non si vede perché si vede troppo», così che «la manifestazione universale è il modo nuovo della non-trasparenza» (p. 50). A forza di apparire, con la ripetizione, matura l’indifferenza a ogni prova del contrario. «Se basta apparire, tutto appare invano: l’apparire non ha niente a che vedere con l’essere, non lo vela né lo svela, non lo manifesta né lo cela. Non c’è alcun essere dietro l’apparire, alcuna realtà, alcun modo in cui le cose stanno in verità» (p. 51). Quale prova del cinismo istituzionale della classe politica italiana l’autrice cita l’affermazione sprezzante con cui Giulio Andreotti liquidò l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, ad opera della mafia, del bancarottiere Michele Sindona: «Se l’è andata cercando» (p. 52), le stesse parole usate dal mafioso che per telefono aveva minacciato Ambrosoli. Il dovere morale, ciò che ciascuno deve a tutti, è espressione di una personalità matura e adulta. Ma come sottrarsi alla diffusa tendenza ad assecondare il privilegio, ad avvalersi dell’eccezione e del favoritismo, da una parte e dall’altra? Non v’è regola o criterio di giustezza morale dell’azione individuale, tranne l’interesse privato o della propria parentela. Il cantante Vasco Rossi, dimettendosi con furbizia da star per allungare una carriera ormai pluridecennale, si è rivolto ai fan con una regola di vita: “Fate quel che volete, ma fatelo bene” (intervista televisiva, agosto 2011). Come dire: non importa che cosa fate e come, l’importante è che vi giovi sul piano del vostro piacere, interesse, inclinazione, carriera. Vasco Rossi: il guru immoralista, che consiglia gli italiani di fare quel che già fanno, di credere in ciò in cui credono già da secoli. Il dilagare delle mafie è solo la conseguenza della mancanza di etica pubblica; infatti, se il merito non può essere fatto valere come argomento sufficiente, le persone che non accettano di buttare al vento anni di formazione e di sacrifici per raggiungere una certa meta professionale dovranno cercarsi una consorteria, se escludono l’ipotesi di emigrare. Se il merito non ha peso decisivo, contano l’appartenenza e la fedeltà a un uomo o a un’associazione di potere. Per questo la pretesa di coloro che ostentano il loro “essersi fatti da sé” suona sempre insincera, provocatoria, depistante. L’autrice porta come esempio di mafiosità congenita le corporazioni accademiche. Non è l’autocefalia dell’Università – la sua autonomia assoluta di istituzione cha fa capo solo a se stessa − che giustifica queste pratiche con i conseguenti conflitti di interesse, giacché l’autocefalia ha senso solo se i comportamenti dell’istituzione sono rigorosamente ispirati a norme inderogabili la cui applicazione riflette la volontà di prescindere dall’interesse privato per dare al merito la dignità di unico argomento e valore decisivo nei risultati concorsuali. Tuttavia, chi si richiama al merito, alla giustizia, all’interesse collettivo, è tacciato di moralismo e di giustizialismo. Si getta fango su tutti, con la pretesa che la chiamata universale di correità giustifichi e assolva il reo. Omertà, servilismo, viltà e prepotenza vanno a braccetto nel sudiciume imbellettato della società italiana. Nessuno vuole la verità, nessuno chiede di dimostrare una qualsiasi asserzione; secondo l’immoralismo dominante, si pretende solo che giovi a qualcuno: a chi giova?, è la domanda espressione inequivocabile di una «mancata relazione alla verità» (p. 62). Alcuni esponenti di spicco della Chiesa cattolica si dimostrano tolleranti verso l’immoralismo corallifero, la diffusa convinzione che ciascun individuo è responsabile da ultimo per ciò che fa. Le parole del cardinale Angelo Scola, riportate da De Monticelli, espressione della crociata di CL contro i moralisti – «diventa allora necessario liberare la categoria della testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime, riducendola, per lo più, alla coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale» – sono un chiaro segno dell’appiattimento e adeguazione alla generale richiesta di impunità per i crimini che accompagnano l’esercizio del potere politico. “Moralismo” e “individualismo” sono divenuti, anche per certi esponenti del clero, insulti che nascondono il sostanziale «rifiuto di onorare la solitudine della coscienza personale e la responsabilità ultima che ciascuno porta di se stesso» (p. 66). Che cos’è il “soggetto ultimamente autoreferenziale” se non l’individuo dotato di libero arbitrio? Del resto, la tesi della creaturalità dell’uomo e il peccato originale non vanno felicemente d’accordo con le nozioni di coscienza critica e di coerenza morale. La libertà di coscienza peraltro è stata riconosciuta dal Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae), ricorda l’autrice, ma l’affermazione della maturità morale dell’uomo, della sua capacità di autodeterminazione non può certamente spingersi troppo oltre, senza rendere l’uomo così autosufficiente da non aver più bisogno della salvezza ad opera del Cristo. L’opposizione tra una scelta fondata sull’autorità e una maturata nell’intimità della propria coscienza – avanzata come argomento da De Monticelli – rischia di risultare schematica e di non tenere conto della posizione intermedia degli esseri umani, che sono capaci di libertà non originariamente e a priori, ma solo a certe condizioni e in seguito a un processo di maturazione che, dal punto di vista teologico della Chiesa, non può prescindere dal percorso sacramentale, dalla grazia e dalla continua rinascita sul piano morale. La libertà insomma non può essere né si può concepire come una condizione perfetta e originaria, come un presupposto assoluto. Tuttavia non può essere messa in discussione o negata da quanti potrebbero trarre vantaggi di potere dal suo misconoscimento. Quindi la presunzione di libertà, come la presunzione di innocenza, è un postulato indispensabile a difesa della fragilità delle persone e a contenimento della cupidigia di asservimento. Si dovrà consentire con De Monticelli su questo punto: la capacità di autodeterminazione degli individui è fuori discussione, giacché potrebbe essere negata solo da quanti hanno qualche interesse a contestarla. Chi nega l’autonomia morale degli esseri umani la nega anche a se stesso e delegittima quindi la propria posizione, togliendo ogni giustificazione al privilegio istituzionale di cui eventualmente gode. Il cardinale Ratzinger in un discorso del 2005 suggerisce di capovolgere l’assioma degli illuministi e riconoscere che «anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita “veluti si deus daretur”». È un passo che, secondo De Monticelli, illustra il nichilismo morale che ha infettato anche la Chiesa. La Chiesa proclama i non credenti incompetenti morali e chiede allo stato di istituire norme che tutelino questa incompetenza. Norme dettate dalla Chiesa, perché se Dio non c’è, Dio è la stessa Chiesa. Di qui il nichilismo metafisico: «Quella stessa auto-deificazione che veniva imputata all’uomo moderno (per via dell’autodeterminazione morale) ora la si rivendica sottobanco, tentando di subordinare lo Stato e le sue leggi a una confessione religiosa» (p. 77). Questo è il senso dell’invito, raccolto da certi devoti sostanzialmente atei: bisogna fare come se Dio ci fosse. La dignità e la libertà degli esseri umani sono possibili solo in virtù dell’autodeterminazione, che consiste essenzialmente nell’esercizio della ragione, di una facoltà razionale che è appannaggio universale di tutti gli esseri umani. L’etica razionale si fonda su valori condivisi. Senza logica non può esserci etica, per questo è riprovevole chi fa asserzioni senza renderne conto o fa affermazioni prive di fondamento o riscontro. De Monticelli illustra efficacemente la circolarità di logica ed etica. L’esercizio della filosofia non è che un rendere ragione, socraticamente, di ogni cosa, prescindendo completamente e inesorabilmente da ogni principio di autorità e da qualsiasi soggezione a fattori extra-logici o extra-cognitivi. La ricerca socratica della verità non risparmia nulla e nessuno. La filosofia è pedagogia, educazione della persona a rendere conto delle proprie asserzioni con l’esercizio rigoroso del pensiero. Violento e antisociale è sia chi agisce ingiustamente violando le leggi, sia chi fa asserzioni eludendo ogni dovere di chiarezza e giustificazione di quanto è asserito. Si sa, il nichilismo etico è stato anche la conseguenza del rifiuto di riconoscere l’esistenza di una verità oggettiva: quanta ermeneutica nella seconda metà del Novecento ha sottilmente disquisito per convincere (senza realmente dimostrare) che la verità non esiste, che non ci sono fatti o evidenze di sorta, ma solo interpretazioni e punti di vista, aprendo così la strada al più rassegnato e passivo scetticismo, alla giustificazione perfetta di ogni manifestazione di immoralità, al sociologismo giustificazionista? Chi identifica la verità con un insieme di credenze pecca di idolatria; all’opposto chi nega l’esistenza della verità spiana la strada a una pratica sofistica della filosofia, toglie ogni legittimità al giudizio di valore e apre il varco al relativismo qualunquista. «Chi usa senza spiegazioni parole che hanno mille significati o nessuno, chi afferma: “la verità non esiste” (e non si accorge di fare un’asserzione che pretende di essere vera)» manca all’impegno inderogabile di onorare la verità, «cercando e offrendo evidenza per quello che si afferma» (p. 99). L’impegno a rendere conto delle nostre convinzioni e azioni è un dovere che discende dalla stessa ragione. La conoscenza di ciò che è giusto non è sufficiente per attuarlo, ma è certamente necessaria. Rimane aperto il problema della fondazione dei giudizi di valore. Non sempre è possibile articolare una giustificazione completa e inappuntabile dei giudizi formulati nelle più diverse circostanze. La distinzione apparentemente razionale fatta valere dalla filosofia del linguaggio del Novecento tra giudizi di valore e giudizi di fatto può essere interpretata come una manifestazione della deriva relativista subita dalla teoria della conoscenza e dall’etica. Eppure è stata contestata da Putnam, che De Monticelli cita opportunamente riportando l’esempio di giudizio “Nerone era crudele”: è questo un giudizio di fatto o di valore? De Monticelli prende posizione contro quella che lei chiama “coscienza sprezzante”, una figura della filosofia del Novecento fondata sulla prassi del sospetto per ciò che appare e del disprezzo per ciò che è, quasi che l’atteggiamento scientifico implicasse la negazione dei valori e la realtà in se stessa fosse priva di valore. L’avalutatività della scienza come garanzia di oggettività ha messo al bando i valori relegandoli nella sfera soggettiva. «L’idea che la realtà in sé è priva di valori, che i valori li proiettiamo noi nelle cose, è diventata una specie di ovvietà: ma è una falsa ovvietà» (p. 113). La prevalenza del più forte, che gli antichi avvertivano come ingiusta sostenendo la verità di quel giudizio, è messa fuori questione dai moderni i quali, avendo escluso che i giudizi di valore possano essere veri o falsi, si illudono di poter formulare giudizi realistici avalutativi come se fossero asettici e oggettivi, mentre al contrario riflettono il deprezzamento e il disprezzo per la realtà sottoposta a giudizio. Il relativismo ermeneutico, a differenza del positivismo scientista, nega l’esistenza di una verità in se stessa, si mostra pluralista e tollerante, nell’intento di misurarsi in modo indolore con il pluralismo culturale e valoriale delle società occidentali. La dottrina della verità che la Chiesa visibile rappresenta, condivide con questo relativismo pluralista l’idea che «in materia di valore non ci sia un modo in cui le cose stanno, indipendentemente da quello che noi crediamo o sappiamo» (p. 119). Il vero e il certo sono fatti coincidere e si nega che possa esistere una verità che ancora nessuno conosce. Il papa negherà che ci siano ragioni cui l’individuo razionale può accedere, a prescindere dalla sua fede. Negando che esista una verità in sé, il relativista giustifica l’affermazione violenta e spregiudicata del più forte e ne proclama la vittoria. A sua volta il fondamentalista, non riconoscendo alcuna competenza morale al non credente, attribuirà a se stesso la facoltà di valutare e decidere per conto di tutti. L’esercizio autonomo della ragione non conduce al relativismo e allo scetticismo, ma preserva da queste derive; e la soggezione all’autorità in materia di valore nega la dignità degli esseri umani, senza offrire loro alcuna garanzia di possedere la verità. Negare a vario titolo che sia possibile una ragion pratica in un mondo plurale, significa in ogni caso estromettere l’ambito dei valori dalla sfera della ricerca razionale e della scienza, riducendolo a un campo di battaglia dove si fronteggiano volontà contrapposte e divergenti. La domanda non è più: che cosa vale in se stesso?, bensì: quale volontà prevarrà? È dunque una mera questione di forza, “in uno qualunque dei suoi modi – la violenza, l’astuzia, l’opportunismo, le consorterie, le clientele, la menzogna, oppure invece il tatticismo politicante, il piccolo machiavellismo endemico e servile della politica italiana” (p. 120). La necessità di un accordo tra il pluralismo degli orientamenti in una società democratica e aperta, e il presupposto razionale dell’esistenza di una verità che bisogna cercare con un percorso argomentativo, evitando sia il relativismo disfattista sia il fondamentalismo autoritario (entrambi propensi ad accettare soluzioni decisioniste dei problemi), impone il riconoscimento dell’esistenza oggettiva dei valori e della loro gerarchizzazione interna. De Monticelli chiama valori «una varietà infinita di qualità caratterizzate da due tratti: la polarità (positiva o negativa) e il grado comparativo (inferiore-superiore)» (p. 137). Senza valori non ci chiederemmo ragione di cose vere, reali, che non sono il risultato della distorsione proiettiva del soggetto: l’ingiustizia, l’ignoranza, l’errore. Se il male non fosse una realtà indubitabile, etica e diritto avrebbero ragion d’essere? I valori sono qualcosa di oggettivo, tali che essi costituiscono la persona, non il contrario. L’idea che i valori siano gusti personali, che ciascuno è libero di preferire nella massima libertà, non assicura alcuna civile convivenza, alcun rispetto della dignità umana; dietro un’apparente tolleranza benevola, il relativismo nasconde la negazione di ogni valore che non sia sostenuto da una forza sufficiente e prepara l’irruzione dell’arbitrio assoluto nei rapporti umani e tra stati, insinua una generalizzazione della logica della guerra, si lascia facilmente ricondurre «all’idea già sofistica che giusta è per definizione la volontà del più forte» (p. 150). Una ragion pratica in un mondo plurale deve essere possibile. Secondo De Monticelli se per etica non si intende la disciplina del dovuto da ciascuno a tutti, non è possibile sfuggire alle due derive del fondamentalismo e dello scetticismo. La prima formula stabilisce che ciò che è dovuto da ciascuno a tutti «è lo stesso diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» (p. 153). Tale formula contiene il riconoscimento della libertà e della pari dignità di tutti gli esseri umani. Ma il principio universalistico dell’etica è stato concepito e si è affermato all’interno di un ethos, quello occidentale, lo stesso in cui la filosofia compara i diversi ethe del pianeta. L’universalità, il riferimento a tutti gli individui umani, sconta il paradosso di provenire da un ethos particolare che si propone quale punto di vista esterno e superiore a tutti gli ethe reali e possibili. Si può (e forse si deve) presupporre un criterio trascendentale per giustificare il principio universalistico, ma in linea di principio è sempre possibile contestare il riferimento a tutti gli uomini come a soggetti “eguali in dignità e diritti”. Un principio è universale dovrebbe essere accettato da ciascuno e da tutti in virtù di un argomento fattuale o logico, ma nel nostro caso non sembra esservi alcuna via, né logica, né fattuale, che possa condurre all’accettazione incondizionata di tale principio, talché è possibile sostenere, sulla base della realtà concretamente visibile, che gli esseri umani non sono e non possono essere soggetti “eguali in dignità e diritti”. Se dobbiamo fare esercizio di ragione in misura radicale, allora anche il principio universalistico ha bisogno di essere fondato. E su che cosa si fonda la concezione degli esseri umani come soggetti “eguali in dignità e diritti”? Se, ad esempio, si fondasse tale universalità sull’aspirazione di ogni ethos a valere universalmente, si coglierebbe alla radice il conflitto che oppone gli ethe del nostro pianeta. Si dovrà distinguere tra prescrizioni specifiche che sono compatibili con il principio universalistico e direttive che non lo sono: che cosa si farà delle seconde? Si potrà persuadere a revocarle semplicemente in base ad argomenti razionali? Infatti riconoscere a ciascuno “il diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé”, dovrebbe impegnare al rispetto integrale dell’ethos altrui, con le molte riserve del caso. Qui De Monticelli avverte che ciò che si riconosce a ciascuno, l’ethos di ciascuno, il suum, ciò che si deve a ciascuno, va inteso entro i limiti di un altro principio universalistico, quello della pari dignità e dunque dei pari diritti. Devo a ciascuno ciò che chiedo per me, ma con limiti precisi: ad esempio, non posso pretendere che un altro diventi mio complice in un crimine promettendogli di restituirgli il favore, dal momento che in tal modo nego il principio di parità di diritti di tutti coloro che il crimine calpesta direttamente o indirettamente (p. 155). Politica ed etica ritornano così a ricongiungersi. La ragion pratica è un antidoto al servilismo, alla passività, all’autoritarismo, al dilagare della prepotenza e prevaricazione di ogni principio, compreso quello della libertà e pari dignità degli esseri umani, che devono essere riconosciuti eguali perché liberi e liberi perché eguali. Il riconoscimento dell’eguaglianza non limita, ma esalta la libertà di ciascuno. Se togliamo il valore della persona umana come tale, togliamo la ragion d’essere delle democrazie, che potrebbero prestare il fianco ad accuse di inefficienza, conflittualità permanente, immobilismo. Ma le giustifica la protezione di spazi di argomentazione e discussione, in cui ciascuno è chiamato a rendere conto delle proprie azioni e asserzioni. L’autonomia morale consiste nel fatto che l’individuo ha la competenza morale ultima ed è quindi autorizzato a decidere «riguardo all’uso della libertà che lo costituisce (quella libertà riconosciuta come caratteristica della nostra specie ben prima che fosse riconosciuto e giuridicamente protetto il diritto di usarla)» (p. 175). Alcuni polemicamente mescolano l’autonomia con l’arbitrio, ma sbagliando grossolanamente, perché l’autonomia non è l’invenzione arbitraria delle proprie leggi, ma la capacità di esercitare la ragione per riconoscerne la giustezza. La Chiesa è così ostile all’individualismo etico da revocare il principio di libertà di coscienza e negare il diritto di autodeterminazione degli individui riguardo alla chiusura della vita, ma al tempo stesso ribadisce senza sosta il principio della dignità della persona. Quale dignità della persona, si chiede De Monticelli, che non implichi il riconoscimento che l’individuo esiste prima dello stato e di ogni altra comunità, mentre deve la propria dignità esattamente alla capacità di autodeterminazione razionale, che consiste nel non obbedire a nessuna legge esterna tranne che a quelle alle quali si è dato il proprio assenso? Riconoscendo senza equivoci il valore auto-sussistente della persona, lo stesso Antonio Rosmini non insegnava che alle persone deve essere garantita la libertà di vivere secondo il loro proprio principio eudemologico, realizzando la felicità e la perfezione cui ciascuno aspira? Umberto Eco, Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, Milano 2011 Il relativismo culturale rappresenta l’estremizzazione della necessità di riconoscere la diversità delle altre culture. Al tempo stesso però noi occidentali siamo fieri della nostra indiscussa superiorità sul piano politico, per l’organizzazione democratica, la separazione tra stato e chiesa, ecc. Eco cita un libro di Giovanni Jervis, Contro il relativismo, (2005), in cui il noto psichiatra, deceduto nel 2009, denunciava le conseguenze nefaste del relativismo: se ogni forma di società va rispettata e giustificata, si assicurano l’immobilismo e la ghettizzazione dei popoli (p. 56). Eco riconosce quindi la deriva inaccettabile rappresentata dalla difesa a oltranza del relativismo culturale, ma poi non condivide l’allarme destato in papa Ratzinger dal pluralismo etico, allarme che sarebbe determinato dalla necessità di riconoscere una verità assoluta. Al tempo stesso però Eco rigetta la concezione strumentale e convenzionalistica della verità contenuta nella tesi di origine nietzscheana per cui non vi sono fatti ma solo interpretazioni. A suo modo Eco è un antirelativista se obietta al relativismo: 1) se ci fossero solo interpretazioni, allora di che cosa sarebbero interpretazioni le interpretazioni? 2) se le interpretazioni s’interpretassero tra loro, dovrà pur esserci stato un oggetto o un fatto che in esordio ha indotto all’interpretazione; 3) anche se l’essere non fosse definibile, il problema della verità si sposterebbe dall’oggetto al soggetto della conoscenza: anche ammettendo che la verità sia un discorso metaforico, non ha un’esistenza metaforica colui che pronuncia quel discorso. In realtà, ci sono fatti e forze che sono fuori di noi e non sono riconducibili a interpretazioni: di questo Eco non dubita. L’assoluto in sé è inverificabile, dal momento che non è pensabile, se consiste nell’identità di soggetto e oggetto. La dualità di soggetto e oggetto è insuperabile, quindi l’assoluto inteso come unità di soggetto e oggetto non può essere pensato: se lo fosse, l’assoluto sarebbe solo oggetto. Quindi possiamo dubitare dell’esistenza dell’assoluto o quanto meno della sua attingibilità, ma esistono pur sempre forze naturali e fatti di assoluta evidenza che contraddicono certe nostre interpretazioni. L’esistenza di una realtà indipendente dal soggetto è un postulato necessario, ma può essere asserita solo da un soggetto. La sola oggettività che possiamo verificare è quella di proposizioni sulla cui verità tutti sono d’accordo. Ma la verità assoluta trascende i soggetti che ne presuppongono l’esistenza senza poterla attingere. L’assoluto inteso come totalità di soggetto/oggetto include il soggetto che si sforza di concepirlo senza riuscirvi. L’assoluto in senso ontologico è inoggettivabile, ma è il fondamento dell’assoluto in senso semantico, che invece è oggettivabile, giacché il significato di “assoluto” si rende comprensibile unicamente in rapporto a “relativo”. Assoluto e relativo sono termini relativi, come sopra e sotto, nel senso che rinviano l’uno all’altro. Ma al tempo stesso il rapporto semantico assoluto/relativo è antisimmetrico, talché possiamo concepire la possibilità dell’esistenza dell’assoluto indipendentemente dal relativo, ma non viceversa. E qui ci poniamo sul piano ontologico. Perciò non possiamo dire, come fa Eco, che l’assoluto non è pensabile, dovremmo anzi ammettere che non possiamo non pensarlo, perché lo impone la necessità di pensare il relativo in quanto relativo. Esseri pensanti che fanno parte del tutto non possono evidentemente conoscere direttamente il tutto in quanto tutto, ma devono poterlo concepire, devono presupporne il concetto. Essi quindi lo concepiscono, anche se non possono conoscerlo direttamente; devono ammettere che c’è un assoluto, pur non avendo la possibilità di raggiungerlo. Il paradosso ontologico dell’assoluto è nella doppia necessità che ci sia e che non sia attingibile. Il risultato del paradosso è un compromesso: la possibilità di concepire l’assoluto e l’impossibilità di farne esperienza. Il tipo di esistenza che si deve riconoscere all’assoluto non è solo noetica, altrimenti sarebbe come dire che l’assoluto esiste in quanto è pensato, mentre ontologicamente l’assoluto è per definizione ciò che sussiste indipendentemente da ogni rapporto con il soggetto che lo pensa. Il carattere antisimmetrico della relazione assoluto/relativo si giustifica solo con la distinzione tra un assoluto semantico (per cui assoluto e relativo devono essere pensati come correlati) e un assoluto ontologico (per cui l’assoluto deve potere esistere ed essere pensato come indipendente dalla relazione con il non assoluto). Dobbiamo prendere atto che ogni scetticismo/relativismo assoluto è auto-contraddittorio, giacché asserisce pur sempre l’esistenza di un assoluto, nel momento stesso in cui nega ogni assoluto. “Nulla è vero”, o “la verità non esiste” hanno senso solo se si presuppone l’esistenza della verità. La verità vince su tutto, come già aveva osservato Agostino d’Ippona. Se nulla è vero, è vero che nulla è vero; se non è vero che nulla è vero, qualcosa è vero: sembra così confermata in entrambi i casi l’esistenza di una verità in se stessa. Questo impone la coesistenza armonica dei relativi in rapporto al medesimo assoluto. Quando un sistema culturale rinnega il proprio carattere relativo e si erge quindi ad assoluto, fa torto alla verità oltre che violenza agli altri sistemi. Quando ciò che è parziale cerca di prevalere come totalità genera una competizione distruttiva e una distorsione del rapporto con l’assoluto. L’assoluto si individualizza in un soggetto particolare nell’oblio del vero assoluto, che viene così estromesso dalla Storia. La storia hegelianamente intesa non è il processo di autorivelazione dell’assoluto, bensì la sequela dei tradimenti dell’assoluto, di cui è protagonista di volta in volta chi esce momentaneamente vittorioso da uno scontro. L’assolutizzazione della vittoria particolare in una lotta che rimane comunque aperta a future sconfitte, come la storia di fatto dimostra, è in sostanza una negazione dell’autentico assoluto il quale, per definizione, è ontologicamente indipendente da qualsiasi rapporto con il relativo – un relativo che tuttavia è tale solo in quanto fa riferimento all’assoluto. La guerra di conquista è la manifestazione più evidente della confusione tra l’assoluto semantico e l’assoluto ontologico. Il riconoscimento dell’altro come relativo e di tutti i relativi in rapporto all’assoluto in sé presuppone una coscienza di tipo superiore, verso la quale l’umanità ha il dovere di incamminarsi con la massima sollecitudine possibile. Pavel A. Florenskij, Dialektika (1918-1922), trad. it., Stupore e dialettica, di Claudia Zonghetti, a cura di Natalino Valentini, Quodlibet, Macerata 2011. Il pensiero è linguaggio e il linguaggio è pensiero: Florenskij riconosce la loro inscindibile unità. Il compito del linguaggio in generale è descrivere; la spiegazione è a suo avviso solo una modalità descrittiva, spiegare significa descrivere in un determinato modo, come fa la scienza, che si assume il compito di spiegare i fatti che descrive. La scienza non potrebbe spiegare qualcosa senza una descrizione di fondo, così che ogni spiegazione è anche descrizione, anche se «una descrizione particolare, di particolare densità, di profonda concentrazione, una descrizione amorevolmente riflessiva» (p. 36). Tutto questo è possibile attraverso il linguaggio, che è pensiero. La scienza è un tipo particolare di linguaggio, caratterizzato da una particolare densità. Se compito della scienza è quello di spiegare, nel senso di fornire una descrizione simbolica o teoria molto più ampia e profonda di qualsiasi descrizione del senso comune, la filosofia non si pone al di sotto della scienza, ma sopra di essa; infatti la filosofia è la sola in grado di aspirare a spiegare la realtà nel vero senso della parola. La filosofia interpreta il significato più alto della spiegazione, giacché «tende a una conoscenza totalmente coerente e unitotale della realtà» (p. 37). La comprensione che della vita ha il senso comune è priva di metodo, di coerenza, di unità, di oggetto preciso. Il senso comune mescola tutti i punti di vista, senza ordine, in modo arbitrario e volubile, offrendo un risultato che si caratterizza per la sua indeterminatezza. La scienza reagisce a questa assenza di ordine, a questa incoerenza, delimitando una ben definita cerchia di oggetti, imbrigliando l’attività dello scienziato, concentrando la sua attenzione e proibendogli traslazioni da un campo all’altro. Tutto questo comporta una scissione invalicabile tra i vari campi della scienza, l’assenza di legame tra le scienze, sempre più specializzate. Non esiste una scienza, ma molte scienze, che hanno in comune solo la reciproca negazione, infatti ciascuna si presenta e si dichiara incompatibile con gli oggetti di ogni altro campo disciplinare. Ma la vita stessa a un certo punto manda in frantumi la teoria che pretende di immobilizzarla costringendola entro l’artificio di un costrutto teorico ritenuto immodificabile. Una scienza che vuole sopravvivere dovrà allora aggiornarsi, modificarsi per tenere conto dei nuovi eventi. Ma una volta eseguite le correzioni necessarie, la scienza si chiude di nuovo nella pretesa di poter comprendere l’intera vita. In realtà però la vita continua a mutare la scienza, costretta a mutare anche radicalmente pur di seguire la vita stessa. La storia della scienza diventa quindi una “rivoluzione permanente”. Della scienza non rimane quasi nulla, tranne «la sua esigenza di metodo, il suo esigere l’immutabilità e la limitatezza» (p. 41). La scienza pretende di essere sempre uguale a se stessa, anche se vediamo che la vita continua a scorrere come una corrente inarrestabile che trascina con sé le costruzioni appena terminate. Considerando il caos della vita, la sua ricchezza disordinata, si deve concludere che né le concezioni del senso comune, né le scienze possono vantare una vera spiegazione della realtà, dal momento che nella riflessione di Florenskij “spiegare” equivale a fornire una descrizione esaustiva. Eppure l’esistenza della filosofia dimostra che la vita può essere descritta. La filosofia va oltre la rigidità mortifera della scienza e permette di conciliare la coerenza con la completezza. Il Tempo, scrive, Florenskij, smaschera la non verità della scienza; la filosofia dice di sì alla vita e al tempo stesso elabora un pensiero vivo e vitale. Riprendendo la leggenda riferita da Socrate nell’Eutifrone, per cui Dedalo sarebbe stato il primo a scolpire statue con gli occhi aperti e le gambe staccate – statue che quindi venivano legate perché non fuggissero – Florenskij mostra come la dialettica alle sue origini illustri la negazione della scienza da parte della filosofia: la filosofia mette in questione qualsiasi proposizione, concetto, presupposto, proprio perché essa consiste nella negazione inesausta delle forme immobili, delle categorie immutabili, dei dogmi presunti. Lo sforzo della filosofia protesa allo scioglimento e superamento di ciò che sta fisso e immobile non ha altro nome che Eros. «Nella contrapposizione del pensiero che “sta” fermo e “immobile” col pensiero che “scappa e non vuol restare fermo dove lo si pone”, c’è tutta l’ostilità tra Scienza e Filosofia» (p. 45). L’opposizione di scienza e filosofia è la stessa che tra schiavitù e libertà, morte e vita. La scienza, nemica della vita, pretende di irrigidire, mummificare la vita stessa in schemi senza accorgersi che la vita li travolge e li oltrepassa continuamente. La filosofia nega questa negazione della vita rappresentata dalla scienza stessa. La filosofia, il pensiero che cerca di inseguire la vita della natura e ama entrare nei meandri delle passioni umane, non può quindi sentirsi in una posizione di inferiorità rispetto alla scienza, al contrario considera proprio compito quello di infrangere ogni posizione teorica acquisita, ogni dogma consolidato tipico della scienza. Florenskij non dice che l’opposizione tra filosofia e scienza coincida con quella tra filosofi e scienziati; essa consiste nell’opposizione originaria tra due metodi, come se la filosofia avesse da sempre la funzione di mandare in frantumi le certezze e gli schemi immobili della scienza, man mano che questi si formano nel corso del tempo. A differenza della scienza, opera di una élite, la filosofia è per natura popolare e non si accontenta della descrizione effettuata, essa mira a una compiutezza sempre maggiore, e sceglie liberamente di volta in volta diversi punti di vista proprio perché mobile come la vita. La filosofia si fa meditazione della vita attraverso il linguaggio; essa non coincide con una sola descrizione, ma consiste in una pluralità di descrizioni in movimento. La filosofia è dramma; essa è la stessa dialettica, se con questo termine intendiamo il movimento del pensiero che cerca di raggiungere una concezione sempre più profonda. Solo la filosofia dunque spiega veramente e autenticamente la realtà, poiché solo il movimento della dialettica rappresenta la vera coerenza rispetto alla mutevole e sterminata ricchezza della vita in divenire. Solo la filosofia si conforma incessantemente all’oggetto della conoscenza, perché solo la dialettica è «relazione viva con la realtà» (p. 49). Il pensiero filosofico non è astratto, ma concreto e sperimentale, giacché non si ferma ai simboli e non lavora su di essi come la scienza, ma si serve dei simboli per penetrare la realtà stessa. La scienza, sulla base di uno o pochi esperimenti, costruisce uno schema e lo utilizza applicandolo meccanicamente ai fenomeni; la filosofia non si accontenta di questo costrutto, consapevole del fatto che nessuna risposta a una domanda può mai essere la risposta ultima. La filosofia non nega, né respinge il movimento della vita, al contrario vive in esso. La filosofia è meraviglia che si rinnova con la vita stessa, il suo metodo è stupore inesausto, mentre la scienza «pensa solo a consolidare schemi e immagini che già più non turbano, ormai scontati, ormai spenti» (p. 52). Gli iniziatori della filosofia sono stati sempre consapevoli che la dialettica è “stupore organizzato”, secondo l’espressione di Florenskij, per questo l’educazione filosofica non mirava alla trasmissione di teorie o schemi dogmatici, quanto invece alla comprensione della vita nella sua mutevole varietà, nelle novità che essa presenta a ogni istante. La filosofia ha sempre avuto, secondo Florenskij, in quanto filosofia autentica, la capacità di stupirsi e commuoversi dinanzi alla continua e inquieta creazione della vita stessa. Rievocando la parole di Socrate nel Teeteto, laddove sostiene che il filosofo in quanto tale è pieno di meraviglia, Florenskij vede in Socrate il filosofo capostipite che, con rinnovata ironia, si dichiara ignorante, giacché il vero sapere, nel movimento dialettico, è ancora sempre da venire. Di qui la tensione di un eros dialogico con cui «Socrate punta al cervello per schiudere le sorgenti dello stupore affinché la realtà più profonda possa presentarsi all’intelletto come una muta di serpente, con una sensibilità rinnovata verso l’esistenza» (p. 55). E tutti i filosofi successivi hanno visto nello stupore l’origine della filosofia: «la sorgente della filosofia è un’uscita mistica da se stessi, è l’estasi dell’aver raggiunto il prodigio, è esperienza metapsicologica» (p. 57). Da Goethe a Schopenhauer, da Cartesio a Kant, insomma presso tutti i pensatori è presente l’idea che ogni grande pensiero nasce dal brivido della meraviglia. Anzi, Florenskij avverte come il concetto di stupore sia presente tra i filosofi indipendentemente dal loro orientamento. Cartesio, analizzando le passioni dell’anima, avrebbe considerato sei stati dell’anima come originari: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza. Ma la passione primigenia rimane l’ammirazione, la prima di tutte le passioni secondo Cartesio. Stima e disprezzo, ad esempio, sono forme di ammirazione, a seconda che ammiriamo la grandezza o la piccolezza dell’oggetto stimato o disprezzato. Dal disprezzo di se stessi può derivare l’umiltà; e così via. Florenskij trova in Kant la considerazione più profonda sullo stupore, che lo fa derivare dalla contemplazione di una finalità oggettiva. L’impossibilità di conciliare una rappresentazione e la regola da essa fornita con i principi già acquisiti, genera uno stupore che si alterna al dubbio. Ma lo stupore si rinnova anche quando il dubbio è superato. Florenskij riporta una citazione della Critica del giudizio: «Ne consegue che l’ammirazione è un effetto del tutto naturale delle finalità che osserviamo nell’essenza delle cose (in quanto fenomeni) e che non può essere biasimata» (p. 66). Sulle orme di Kant Florenskij individua un nesso fondamentale tra stupore, bellezza e perfezione. La finalità delle cose in Kant non è che la bellezza, posta alla base di un giudizio oggettivo e quindi rivelatrice di una certa perfezione della cosa stessa. L’apostolo Tommaso appare a Florenskij la figura simbolo della filosofia. Tommaso non è scettico, ma pieno di stupore. Tommaso, ricercatore di Verità, non chiede per negare o mettere in dubbio, ma per rafforzare. A Tommaso si deve l’attestazione della verità della resurrezione corporale del Cristo e l’attestazione della verità dell’ascensione corporale di Maria, Madre di Dio. Con la sua esigenza di attestare, certificare, verificare, Tommaso diventa un campione della contemplazione spirituale, lasciando la sua fede quale grande eredità. Giovanni evangelista ha visto in Tommaso, scrive Florenskij, un principio a sé affine: «La contemplazione dello Spirito si fonda sulla prova, la prova nasce dallo stupore» (p. 69). E dallo stupore di Tommaso nasce anche la sua fede. Lo stupore quindi genera la prova e consolida la fede. Infatti la fede esiste in Tommaso prima della prova, ma vuole essere verificata. Tommaso che esige di toccare le piaghe di Cristo sarebbe così una metafora del procedimento filosofico, che tutto mette in discussione e nulla accetta per acclarato definitivamente, ovvio, indiscutibile. (Florenskij vede una certa assonanza tra lo stupore, thauma, e thomas, che appare ancora più rilevante se si considera che nel dialetto ionico thauma si pronuncia come thoma. Tommaso però è un nome aramaico; l’antica interpretazione ricordata da Florenskij gli conferisce il significato di burrone, profondità imperscrutabile e anche gemello.). Il linguaggio, se usato in modo autentico, si rivela dialettico per natura; la parola viva non è che il ritmico alternarsi del domandare e del rispondere, dell’uscire da sé e del ritornare a se stessi. La dialettica insegna ad argomentare con formule che non hanno valore in se stesse, ma solo in rapporto contestuale alla realtà diveniente che di volta in volta è presa in esame. Il ricorso a formule assolute, a giudizi validi per qualsiasi contesto, è il modo di procedere della scienza e del dogma, ed è agli antipodi della filosofia e della dialettica. L’obiettivo del pensiero deve essere quello di comprendete la realtà viva nella sua attualità, non quello di sovrapporre schemi rigidi, astratti, impersonali, alla realtà in se stessa. Florenski considera la dialettica il solo metodo autenticamente cristiano, che mira alla verità e non ad altro (alla menzogna per amore del potere, ad esempio). «L’unica via cristiana, scrive Florenskij, via umile del ragionamento, è la dialettica: io affermo ciò che ora, nella data combinazione di giudizi, nel dato contesto del discorso e di rapporti, è vero, senza avere altre mire» (p. 93). Claudio Tugnoli 02.01.2012