Introduzione “Così dunque tu dici che è la concordanza fra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è falso!” – Vero e falso è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 241 Parlare per persuadere (gli altri, ma anche noi stessi) è un’attività naturale e spontanea. Cercare di modificare desideri, pensieri, comportamenti per mezzo delle parole è un’esperienza comune, un’abilità che sviluppiamo insieme all’acquisizione del linguaggio. Imparare a parlare significa ad un tempo imparare che le parole hanno un potere, che è possibile, grazie ad esse, fare (e ottenere) delle cose. Una tradizione plurisecolare ci ha invece abituati a pensare al linguaggio come ad un veicolo per trasmettere pensieri da una mente all’altra e a considerare la comunicazione (intesa come trasferimento di informazioni) l’obiettivo primario, se non l’unico, dell’attività verbale. Un’idea come questa conduce inevitabilmente ad una concezione riduttiva della persuasione. Se parlare significa trasferire informazioni, la persuasione diventa un fenomeno marginale, un uso secondario, se non deviato, del linguaggio. In una prospettiva di questo tipo, usare le parole con scopi persuasivi vuol dire allontanarsi da quella che dovrebbe essere la funzione normale del linguaggio, quella strettamente informativa. Anche quando non è considerata come una deviazione, la persuasione è vista in ogni caso come uno dei tanti possibili usi del linguaggio, derivati (e separati) da quello primario. È così che l’interesse per questo fenomeno si è progressivamente trasformato in un interesse specialistico, quasi che esso riguardi unicamente coloro che, per ragioni professionali, sono tenuti a saper usare le parole per persuadere gli altri. La separazione tra gli scopi informativi e quelli persuasivi del linguaggio è anche all’origine di una pericolosa opposizione – solo raramente esplicitata ma spesso tenuta sullo sfondo – tra persuasione e verità. Il discorso informativo, descrittivo, è l’unico deputato a dire la verità, quello persuasivo, invece, è indifferente ad essa ed ha come unico scopo quello di vincere, sottomettere il suo interlocutore. Di conseguenza, il primo è un discorso neutro, oggettivo, razionale e im9 LINGUAGGIO , PERSUASIONE E VERITÀ personale, mentre il secondo sarebbe un discorso fazioso, soggettivo, irrazionale ed emotivo. Questo libro intende mettere in discussione tali opposizioni, per mostrare che la persuasione è un tratto interno al parlare e non un suo effetto collaterale. Non è possibile comprendere l’agire linguistico umano se non si tiene conto del ruolo svolto dalla persuasione. Sono gli usi strettamente informativi del linguaggio (seppure esistono) a rappresentare un fenomeno marginale, quasi un caso limite dell’interazione tra parlanti. Salvo che in casi eccezionali, quando parliamo cerchiamo sempre di ottenere l’adesione dei nostri ascoltatori, speriamo sempre che parlando accada qualcosa. Se ciò è vero, la persuasione non è una delle tante possibilità che il linguaggio ci offre, ma una sorta di sfondo – che come tale rimane spesso implicito – dell’agire linguistico nel suo complesso. Perché ciò risulti più chiaro occorrono però alcune precisazioni su cosa si intende qui per persuadere. Quando parliamo di usi del linguaggio con finalità persuasiva non intendiamo riferirci esclusivamente ai casi in cui tale finalità è evidente ed esplicita, come nella comunicazione pubblicitaria o in quella politica. Casi come questi sono interessanti in quanto situazioni paradigmatiche, facili da isolare, nelle quali le caratteristiche del linguaggio persuasivo possono essere messe in luce più agevolmente. Ma non si tratta certo degli unici casi e neppure dei più diffusi. La persuasione è in primo luogo un fenomeno del linguaggio ordinario. Sono usi persuasivi del linguaggio tutti quelli il cui obiettivo finale è il cambiamento dei desideri, degli atteggiamenti, delle opinioni o anche dei comportamenti dei nostri interlocutori (o di noi stessi). Perché si tratti realmente di persuasione, e non di coercizione, bisogna però che tale cambiamento sia solo possibile e non necessario. La persona che intendiamo persuadere deve essere libera di accettare o meno le nostre ragioni, deve poter dire di sì o di no, altrimenti ci troveremmo di fronte ad un caso di costrizione. Se riusciamo a far fare qualcosa a qualcuno puntandogli una pistola alla testa non possiamo certo dire di averlo persuaso. Persuadere qualcuno implica sempre lasciare a costui la libertà – e dunque anche la responsabilità – di darci ascolto oppure no. Certo, non è sempre facile tracciare un confine netto tra le situazioni in cui l’interlocutore è davvero libero di agire e quelle in cui invece egli è soltanto obbligato a farlo. Se il caso della pistola puntata è di quelli che non lasciano dubbi, numerose sono le situazioni nelle quali è più difficile stabilire il grado di libertà delle persone coinvolte. Che dire, per esempio, dell’uso di minacce, promesse, preghiere, suppliche, lusinghe nell’ambito di strategie per10 INTRODUZIONE suasive? In altre parole, dove finisce la persuasione e dove inizia la violenza? Per questa ragione, il potere persuasivo del linguaggio è stato sempre guardato con un misto di ammirazione e paura e le persone abili ad usare le parole sono state ad un tempo molto onorate e molto temute. Tale ambiguità ha inevitabilmente condizionato anche la fortuna della disciplina che si è tradizionalmente occupata di questo potere: la retorica. Nata nella Sicilia greca del V secolo a.C. come riflessione sulle potenzialità persuasive del linguaggio, nel corso dei secoli essa ha subito alterne vicende. Dopo i fasti dell’epoca classica, ha visto progressivamente ridotto il proprio prestigio fino al punto che, alla fine del XIX secolo, sembrava scomparsa dal novero delle discipline rispettabili e relegata nell’ambito delle curiosità storiche. Ma si trattava di una morte soltanto apparente. Intorno alla metà del secolo scorso si assiste, infatti, ad una vera e propria rinascita della retorica in ambiti culturali anche molto diversi tra loro. Questo libro si occupa di tale rinascita e delle sue ragioni, con l’obiettivo di mostrare che la retorica è un luogo di riflessione filosofica. Nonostante il processo di rivalutazione di questa disciplina sia in corso ormai da più di mezzo secolo, si ha ancora l’impressione che chiunque voglia scrivere oggi di retorica debba, come prima cosa, giustificare questa intenzione, precisando che la retorica di cui intende occuparsi non è l’arte della manipolazione fraudolenta dei discorsi. Secoli di discredito e di diffidenza hanno lasciato, infatti, una traccia evidente nell’accezione negativa con cui sono ancora usati il sostantivo retorica e l’aggettivo retorico. Espressioni quali “non fare retorica”, “il tuo è un discorso retorico” suonano ancora come critiche dalle quali è difficile difendersi. Questo libro muove invece dalla convinzione che, se si parla, non è possibile non fare retorica e che non ci sono discorsi che non siano discorsi retorici. Perché tale affermazione non resti soltanto uno slogan bisogna però impegnarsi a spiegare che cosa si intende per retorica. È questa la meta del viaggio che stiamo per compiere tra le retoriche contemporanee. Contrariamente a quanto potrebbe far pensare l’uso dell’espressione “rinascita della retorica”, la rivalutazione e il recupero di quest’antica disciplina è un fenomeno complesso e tutt’altro che lineare. La vastità e relativa eterogeneità degli ambiti nei quali la retorica è stata ripresa (dall’epistemologia alla filosofia del linguaggio, alla sociologia, all’antropologia, all’etica, all’ermeneutica, alla teoria della letteratura, fino ai più recenti studi di comunicazione, economia e psicologia sociale) ha fatto sì che tale operazione assumesse, volta per volta, significati diversi e in qualche caso opposti tra loro. Se si pren11 LINGUAGGIO , PERSUASIONE E VERITÀ de in considerazione la letteratura degli ultimi cinquanta anni sull’argomento, si ha l’impressione che a rinascere siano non una ma molte retoriche diverse. Cercare di comprendere questo fenomeno significa pertanto chiedersi in primo luogo quale retorica rinasce e su quale sfondo teorico. Più che un’analisi per singolo ambito disciplinare, che andrebbe oltre gli spazi e gli obiettivi di questo libro, ciò che si intende proporre qui è una visione d’insieme che, da un lato, metta in luce quali aspetti della retorica classica sono stati ripresi e in quali contesti, e, dall’altro, sia in grado di individuare le ragioni teoriche di tale recupero. Non si tratta, dunque, di una ricostruzione storica completa ed esaustiva ma di un percorso, un viaggio – come mi piace considerarlo – tra alcuni casi esemplari di retorica contemporanea. Prima di iniziare questo viaggio, sarà però necessario soffermarsi brevemente sulle ragioni che hanno condotto al declino della retorica, in modo che risulti più chiaro il senso della sua rinascita. Vedremo così che la progressiva riduzione della retorica classica ad uno sterile sistema di classificazione di figure, insieme al radicato pregiudizio contro gli usi persuasivi del linguaggio, ha condotto la retorica dinanzi ad una poco allettante alternativa: o accettare di occuparsi soltanto degli aspetti “ornamentali” del discorso, lasciando a discipline più “serie” la riflessione teorica, o rassegnarsi ad essere bollata come il luogo dell’inganno e della seduzione. Il tentativo del pensiero contemporaneo è stato quello di sottrarre la retorica a questa alternativa, anche se – è proprio ciò che intendo mostrare – non sempre tale tentativo è stato condotto con successo. Per cercare di orientarci nel variegato panorama delle retoriche del Novecento, abbiamo selezionato tre differenti vie attraverso le quali la retorica si è ripresentata come disciplina teoricamente interessante: la via dialettica, la via poetica e la via ermeneutica, le tre “arti del discorso” che si sono nei secoli contese il primato con la retorica. Per quanto discutibile (e in parte arbitrario) come ogni selezione, questo triplice percorso è costruito a partire dalla convinzione secondo cui, se confrontata con quella antica, la retorica del XX secolo appare visibilmente frammentata. In linea generale, si può dire che a rinascere non è l’intero sistema retorico dell’antichità, ma solo alcune sue parti. Alla base di questa frammentazione sta la scissione – fatale per il destino della retorica – tra gli aspetti strettamente espressivi (stilistici), quelli logico-argomentativi e quelli psicologicoemotivi. Semplificando al massimo, possiamo dire che la via dialettica è quella che ha privilegiato la dimensione logico-argomentativa, la 12 INTRODUZIONE via poetica quella che ha messo l’accento sugli aspetti stilistici e la via ermeneutica quella che ha guardato al discorso retorico come ad un discorso essenzialmente emotivo e patetico. In questo modo, però, si corre il rischio di schiacciare la retorica di volta in volta su ciascuna delle sue “sorelle sermocinali”, come erano chiamate le altre arti del discorso. È per questa ragione che il viaggio si conclude con l’indicazione di una quarta via, una via specificamente retorica, che rifiuti le opposizioni che hanno condotto alla sua frammentazione. Percorrere questa via significa volgere indietro lo sguardo per tornare all’inizio, alle origini greche della retorica e, più esattamente, al punto di vista aristotelico. Anche in questo caso, però, il mio intento non è di natura storica. Il senso dell’ultima tappa del percorso qui disegnato è piuttosto quello di una proposta teorica: suggerire, a partire da Aristotele, un’idea di retorica come luogo nel quale emerge l’intreccio, cruciale per la riflessione sulla natura umana, tra linguaggio, cognizione, desiderio azione e responsabilità. Così intesa, la retorica può entrare a pieno titolo nel dibattito filosofico contemporaneo, portandovi un punto di vista originale e teoricamente fecondo sull’uomo. In questo modo, la rinascita della retorica può essere guardata come un fenomeno davvero interessante e non solo come un tentativo di riportare in vita un cimelio del passato. 13