2014-03.04 II-C Giurisprudenza di cassazione

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C) Giurisprudenza della Corte di Cassazione
277. Sui presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare in caso di pluralità di promissari acquirenti.
Cass. civ., sez. II, sentenza 12 marzo 2014, n. 5776 - Pres. ODDO Rel. SCALISI
La remissione di uno dei creditori all’adempimento di un’obbligazione indivisibile non osta alla possibilità da parte degli altri creditori
in solido di chiedere, ex art. 2932 c.c., l’integrale esecuzione dell’obbligo
di concludere il contratto preliminare di vendita immobiliare a carico
dell’alienante 1.
FATTO
L.P.S. e L.P.C. con atto di citazione del 25 luglio 1995 convenivano davanti
al Tribunale di Modica D.M. I. e, premettendo che il padre L.P.R. deceduto in
data (omissis) aveva stipulato in data 16 giugno 1990 un contratto preliminare di compravendita con S.G. quale procuratore generale della D.M.I. avente
ad oggetto la cessione di uno stacco di terreno sito nel territorio di (omissis)
costituenti i lotti 40 e 136 della pianta generale del fondo; che per tale compravendita era stato stabilito il prezzo di L. 7.000 al mq per il terreno di cui
alla particella n. 40 e L. 5000 al metro quadrato per il terreno di cui alla particella n. 136, che tale compravendita sarebbe stata perfezionata con il contratto definitivo in seguito ad una puntuale misurazione dello stacco di terreno provvedendosi alla stipula del preliminare, al pagamento di L. 30.000.000;
che nonostante i ripetuti solleciti fino anche alla data del 3 marzo 1995 D.M.I.
si era resa inadempiente all’obbligo di alienazione da essa assunta; che gli altri eredi di L.P.R., L.P.F., A. e N. avevano rinunciato ad ogni diritto loro spettante in conseguenza della stipulazione del contratto preliminare. Tutto ciò
premesso, chiedevano che il Tribunale di Modica, riconosciuta la loro qualità
di unici titolari dei diritti e degli obblighi derivanti dal preliminare del 16 giugno 1990, emettesse una sentenza produttiva degli effetti del contratto non
concluso e la condanna della D. M. al risarcimento danni da inadempimento
contrattuale.
Si costituiva in giudizio D.M.I. eccependo in via preliminare l’inammissibilità della domanda posto che la stessa avrebbe dovuto essere posposta dagli eredi di L.P.R. e non solo di alcuni di essi, deduceva l’avvenuta risoluzione
del contratto per mutuo dissenso delle parti come desumibile dallo scambio
epistolare intercorso con gli eredi L.P.; e in, via subordinata, eccepiva
1
Massima non ufficiale di S. Quagliata (vedi nota a sentenza pag. 825).
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare
l’avvenuta risoluzione del contratto per inadempimento stante il frazionamento del fondo in data 15 gennaio 1992 e in mancanza da quella data di una
qualsiasi sollecitazione o invito da parte degli attori a dare esecuzione al contratto preliminare, specificamente condizionato temporalmente al frazionamento del fondo stesso, chiedeva il rigetto della domanda e la condanna degli
attori al pagamento delle spese di lite.
Nel corso del giudizio intervenivano volontariamente in giudizio L. P.F., A.
e N. deducendo di essere succeduti per legge al padre L.P.R. e di aver rinunciato ai loro diritti in forza del contratto preliminare, rinuncia che era stata
comunicata alla D.M.I.
Il Tribunale di Modica con sentenza n. 210 del 2001 accoglieva la domanda e per l’effetto trasferiva il bene oggetto della controversia a L.P.S. e
L.P.C., condannava la convenuta al pagamento delle spese giudiziali.
Avverso questa sentenza proponeva appello D.M.I., censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto ammissibile la domanda di esecuzione
specifica del preliminare, nonostante non fosse stata proposta da tutti gli
eredi di L.P., per non aver accolto l’eccezione secondo cui L.P.S. aveva rinunziato all’esecuzione del preliminare comportandosi come unico erede del padre per cui l’atto doveva ritenersi risolto per mutuo consenso di tutte le parti.
Si costituivano L.P.S. e L.P.C. chiedendo il rigetto dell’appello.
La Corte di Appello di Catania con sentenza n. 202 del 2008 accoglieva
l’appello e in riforma della sentenza impugnata rigettava le domande proposte da L.P.S. e L.P.C., condannava questi al pagamento delle spese del primo
e del secondo grado del giudizio. Secondo la Corte di merito il contratto preliminare oggetto della controversa doveva ritenersi risolto per mutuo consenso alla risoluzione espresso dalla D.M. e dalla P.S. e, pertanto, nei confronti
dello stesso la domanda di esecuzione del contratto preliminare non poteva
essere accolta. La stessa domanda di esecuzione del preliminare avanzata da
L.P. C. non poteva essere accolta perché la sentenza sostitutiva del consenso
delle parti doveva realizzare una situazione del tutto identica a quella a suo
tempo prevista nel contratto preliminare e nel caso in esame non poteva realizzarla perché il contratto preliminare in parte si era risolto.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da L.P. S., L.P.C., L.P.F.,
L.P. A., L.P.N. Con atto di ricorso affidato a quattro motivi. D.M.I. ha resistito
con controricorso. In prossimità dell’udienza di discussione i ricorrenti hanno
depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
DIRITTO
In via preliminare va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso
formulata dai controricorrenti perché, il ricorso, sarebbe stato notificato il 2
maggio 2008 a persona deceduta durante il giudizio di appello. Va qui considerato che i ricorrenti erano stati resi edotti della morte di D.M.I. avvenuta a
(omissis), con la notifica della sentenza.
Tuttavia, la sentenza era stata notificata, come risulta dalla sentenza depositata unitamente al ricorso, alla parte personalmente, contestualmente al
precetto, e, pertanto, quella notifica era affetta da nullità, e come tale, inidonea a far decorrere il termine breve di impugnazione e, avendo, i resistenti,
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notificato il controricorso prima della scadenza del termine annuale, per la
proposizione del ricorso, hanno sanato la nullità.
L.P.S., C., F., A. e N. lamentano:
Con il primo motivo la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione
agli artt. 1321 e 1362 c.c. Insufficiente e contraddittoria motivazione circa il
contenuto della nota a firma l.
P.S. del 23 dicembre 1993. Secondo i ricorrenti, la Corte di Catania, senza
soffermarsi sul significato letterale delle parole, né sul contesto complessivo
della nota, avrebbe acclarato, dalla missiva di L.P. diretta alla sig.ra D.M. del
23 dicembre 1993, l’apodittica affermazione, non suffragata da alcuna argomentazione, che questa valesse quale consenso alla proposta di risoluzione.
Piuttosto, specificano i ricorrenti, posto che l’accordo simulatorio di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam è soggetto alla
medesima forma stabilita per la conclusione di esso l’anzidetto requisito può
ritenersi soddisfatto solo in presenza di un documento che contenga in modo
diretto la dichiarazione della volontà e venga redatto alla specifico fine di manifestare tale volontà. Per altro, la presa d’atto delle determinazioni della
D.M. e l’invito rivolto alla stessa all’immediata restituzione dell’importo versato in conto prezzo con salvezza di ogni altro diritto non possono essere, secondo sempre i ricorrenti equiparate tout court ad una adesione risolutoria.
Pertanto concludono i ricorrenti dica la Corte Suprema: a) È viziata o meno la motivazione dell’impugnata sentenza in ordine al corretto significato da
attribuire alla nota 23.12.1993 nonché alla omessa indagine circa la reale intenzione di L.P.S., anche in relazione al successivo comportamento delle parti
segnatamente alla mancata restituzione dell’acconto prezzo di L. 3.000.000.
b) È viziata o meno la sentenza impugnata laddove essa non ha motivato
circa la sussistenza o no nella nota del 23 dicembre 1003 a firma di L.P.S.
della dichiarazione della volontà negoziale finalizzata alla risoluzione del
preliminare?
Con il secondo motivo, la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 1321 e 1453 c.c. Secondo i ricorrenti la Corte di Catania
avrebbe ritenuto che le parti (L.P. S. e D.M.I.) avessero concordato la risoluzione per mutuo consenso, anche se la parte venditrice non solo non è stata
in condizione di produrre un documento che contenesse in modo diretto una
dichiarazione di volontà solutoria ma non ha neppure dimostrato di aver dato
esecuzione alla risoluzione mediante restituzione del prezzo.
Pertanto, concludono i ricorrenti dica la Corte Suprema: è viziata o meno
l’impugnata sentenza laddove la Corte territoriale e omettendo di valutare in
ordine alla mancata restituzione dell’importo versato in acconto prezzo, non
ha dichiarato non essersi perfezionato per mutuo consenso il contratto di
scioglimento del preliminare?
Con il terzo motivo la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione
all’art. 1362 c.c. Secondo i ricorrenti la Corte territoriale nell’individuare la
comune intenzione delle parti non avrebbe tenuto conto del comportamento
successivo delle parti con riferimento, in particolare, alla riserva di salvezza di
ogni diritto da parte di L.P. e alla mancata restituzione dell’importo pagato in
conto prezzo. Se avesse compiuto tale indagine il Giudice del merito, secondo
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare
i ricorrenti avrebbe potuto trarre la convinzione che il contratto avente ad
oggetto l’asserita risoluzione del contratto preliminare vertendo in fattispecie
a formazione graduale, non era stato mai concluso per la mancata restituzione del prezzo.
Dica, pertanto, la Corte suprema, concludono i ricorrenti. È viziata o meno
l’impugnata sentenza laddove il giudice a quo ha omesso ogni indagine in ordine al comportamento tenuto dalle parti anche, successivamente, all’asserito
effetto solutorio con riferimento, in particolare, alla mancata restituzione del
prezzo e alle riserve formulate da L.P.S.
Con il quarto motivo, la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione all’art. 1372 c.c. e art. 102 c.p.c. Violazione e falsa applicazione di
norme di diritto.
Avrebbe errato la Corte di merito, secondo i ricorrenti, nell’aver ritenuto
che la lettera di L.P.S., avendo determinato la risoluzione del preliminare,
avesse precluso all’altro erede L.P. C. di ottenere pro quota l’effetto ex art.
2932 c.c., perché non avrebbe tenuto conto che secondo l’art. 1372, ai fini
dell’efficacia del mutuo consenso alla risoluzione venga effettuato dalle stesse
parti che avevano concluso il contratto escludendo che l’effetto possa discendere da manifestazioni di volontà parziali provenienti da una parte o
dall’altra. In particolare, la Corte di merito, secondo i ricorrenti non avrebbe
tenuto conto che le parti del preliminare erano da una parte i fratelli L.P. (C.
e S.) e dall’altra la D.M.I., pertanto era irrilevante la lettera del 23.12.1990 di
L.P.S. perché non proveniva dalla parte tecnicamente intesa. Nel caso di contratto preliminare con pluralità di promesse di un unico fondo considerato
nella sua interezza la relativa obbligazione è indivisibile per cui tanto
l’adempimento quanto l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre
ai sensi dell’art. 2932 c.c., devono essere richiesti congiuntamente da tutti i
promissari, configurando tra i medesimi un litisconsorzio necessario.
Dica la Corte di Cassazione, concludono i ricorrenti: è viziata o meno la
motivazione della impugnata sentenza laddove è stato omesso di valutare
l’indivisibilità delle obbligazioni assunte delle parti ragion per cui tanto
l’adempimento quanto l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre
si sarebbero dovuto richiedere congiuntamente e non, avuto riguardo alla
parte promissaria acquirente sola da una sua componente?
Ragioni di ordine logico e di opportunità inducono ad esaminare per primo
il quarto motivo del ricorso ed è fondato.
Non è revocabile in dubbio che la nozione di “parte negoziale”, quale entità soggettiva di imputazione di posizioni attive o passive nascenti dal contratto, sia insensibile alle sue mutazioni soggettive interne e che di riflesso lo
siano quelle posizioni a questa imputabili. A questa esatta premessa è coerente l’ulteriore proposizione della conservazione degli effetti del contratto
preliminare di vendita - e che la richiesta pronunzia ex art. 2932 c.c., necessariamente postula - a seguito del “recesso” di uno dei soggetti costituenti la
parte promissaria acquirente. In siffatta evenienza, la successiva stipula del
contratto definitivo di vendita immobiliare fra la D.M., nella veste di alienante
ed il solo L.P.C. in quella di acquirente, così come la pronunzia costitutiva degli effetti di quel contratto non concluso, non avrebbe comportato una diver-
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sità delle parti, né inciso sulle rispettive “uniche ed indivisibili” prestazioni del
consenso, dal quale sarebbe derivato il trasferimento della proprietà di quel
determinato unico immobile (artt. 1376 e 1470 c.c.), di consegnarlo (art.
1476 c.c.), ove in previsione della vendita non se ne fosse anticipato l’effetto
traslativo del possesso, di corrispondere l’intero prezzo convenuto (art. 1498
c.c.). Per altro, ai sensi dell’art. 1320 c.c., l’indivisibilità caratterizza entrambe le prestazioni riferite ad entrambe le “parti”, il consenso al trasferimento
dell’immobile unitariamente considerato ed il pagamento dell’(intero) prezzo
convenuto. Pertanto, avendo uno dei creditori dell’unica prestazione della
D.M., il L.P.S., a questa rinunziato a mezzo del recesso e/o risoluzione, l’altro
creditore poteva esigerla, essendosi fatto carico della prestazione considerata
indivisibile del prezzo.
E, comunque, in via ancor più generale, va qui ribadito quanto già affermato da questa Corte in altra occasione (Cass. n. 7287 del 2005) e, cioè, che
in tema di obbligazioni indivisibili, fra le quali rientra la promessa di più soggetti di acquistare in comune un immobile considerato nella sua interezza,
l’impossibilità che gli effetti del contratto si producano (o non si producano)
pro quota o nei confronti soltanto di alcuni dei promissari comporta che il diritto di ciascuno dei creditori di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione, comune alla disciplina delle obbligazioni solidali, richiamata in materia
dall’art. 1317 cod. civ., non sia oggettivamente suscettibile dell’effetto liberatorio parziale nei confronti degli altri creditori previsto dall’art. 1301 cod. civ.,
nell’ipotesi di remissione di uno dei creditori; ciò, peraltro, non comporta la
risolubilità del contratto per l’impossibilità di richiedere una prestazione pro
quota dell’obbligazione indivisibile, attesa l’espressa previsione nell’art. 1320
cod. civ., secondo la quale la remissione di uno dei creditori non determina
la liberazione del debitore nei confronti degli altri creditori e il loro diritto
di domandare la prestazione indivisibile è condizionato, in tal caso, unicamente all’addebito o al rimborso del valore della parte di colui che ha fatto la
remissione.
Pertanto, la Corte di merito, non ha considerato che a seguito del “recesso” e/o risoluzione di L.P.S. ed alla riduzione unisoggettiva della parte promissaria acquirente si sarebbe conservato, sia in sede di stipulazione della
vendita definitiva sia in sede di pronunzia costitutiva degli effetti di quella
vendita non conclusa, l’assetto degli interessi assunto dalle parti nel contratto
preliminare; posto che la D.M. avrebbe ricevuto l’intero prezzo della porzione
d’immobile che si era obbligato a vendere a fronte del suo trasferimento in
proprietà al solo L.P.C. e questi avrebbe ricevuto in proprietà quella intera
porzione di immobile che unitamente a L.P.S. si era impegnato ad acquistare
in proprietà indivisa.
L’accoglimento di questo motivo assorbe gli altri motivi.
In definitiva, va accolto il quarto motivo del ricorso e vanno dichiarati assorbiti gli altri. La sentenza va cassata e rinviata ad altra sezione della Corte
di Appello di Catania, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.
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Presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo e dichiara assorbiti gli altri, cassa la
sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’Appello di
Catania anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 gennaio 2014.
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2014.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776
Nota a sentenza di Stefano Quagliata
Sommario: 1. Il caso. - 2. Le questioni. - 3. I precedenti. - 4. La dottrina.
1. IL CASO
A seguito della morte del promissario acquirente di un immobile, due degli
eredi intentano un’azione costituiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., per ottenere
la pronuncia sostituiva dell’obbligo di concludere il definitivo.
Il Tribunale adito accoglie la domanda, ma la parte soccombente propone
appello avverso la sentenza di I grado. La Corte territoriale riforma la decisione del giudice di prime cure, sul presupposto che il vincolo derivante dal
preliminare dovesse ritenersi ormai sciolto in forza del mutuo consenso
espresso dalla ricorrente in ordine alla risoluzione del contratto e da uno dei
due attori, come dimostrerebbe lo scambio di lettere che ha avuto luogo tra
le parti. Né tantomeno, a giudizio della Corte d’Appello, avrebbe potuto trovare accoglimento la domanda di esecuzione del preliminare nei confronti
dell’altro erede del promissario acquirente, poiché «la sentenza sostituiva del
consenso delle parti doveva realizzare una situazione del tutto identica a
quella a suo tempo prevista nel contratto preliminare»: tale circostanza, nel
caso di specie, non potrebbe ammettersi, poiché il preliminare si sarebbe, per
l’appunto, parzialmente risolto.
La questione viene infine portata all’attenzione della Suprema Corte.
L’argomentazione dei ricorrenti si fonda essenzialmente sul seguente assunto: la Corte di merito avrebbe ritenuto, in modo erroneo, che la lettera di uno
dei due eredi rivolta alla controparte, determinando la risoluzione del preliminare, fosse stata in condizione di precludere all’altro erede la possibilità di ottenere l’effetto costituivo di cui all’art. 2932 c.c. per la sua quota parte. E ciò
essenzialmente perché la Corte d’Appello non avrebbe tenuto in debito conto
il principio fondamentale di cui all’art. 1372 c.c., a mente del quale il mutuo
consenso quale causa di risoluzione del contratto, per potersi ritenere efficace, deve intervenire tra le medesime parti che hanno concluso il negozio,
escludendosi, pertanto, la possibilità che l’effetto risolutivo possa derivare da
manifestazioni di volontà parziali, intervenute, come nel caso di specie, soltanto tra alcune delle parti che avevano stipulato il negozio.
Nel caso di specie, in cui si è in presenza di un contratto preliminare di
vendita di un fondo, con pluralità di promissari venditori, la relativa obbligazione deve considerarsi per sua natura indivisibile e quindi sia l’adempimento
che l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. devono essere domandati
da tutti i promissari, ritenendosi sussistente un’ipotesi di litisconsorzio necessario, ai sensi dell’art. 102 c.p.c.
Pertanto, la lettera intercorrente soltanto tra uno degli eredi e il promittente venditore non pare idonea a produrre l’effetto liberatorio parziale nei
confronti degli altri creditori, così come previsto dall’art. 1301 c.c., nell’ipotesi
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di remissione da parte di uno dei creditori. Alla luce di tali considerazioni, i
giudici di legittimità, ritenendo fondato il principale motivo di doglianza prospettato dagli eredi del promissario acquirente, concludono infine per
l’accoglimento del ricorso.
2. LE QUESTIONI
2.1. Il mutuo consenso alla risoluzione del contratto preliminare di immobile
con più promissari acquirenti
La decisione della Cassazione fa il punto sulla questione della risolubilità
per mutuo consenso del contratto preliminare, qualora i promissari acquirenti
siano più d’uno.
A tal proposito, come è noto, il comma 1 dell’art. 1372 c.c. prescrive che
«Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge». Volendo focalizzare
l’attenzione sulla prima delle due modalità estintive, ovvero lo scioglimento
del contratto per “mutuo consenso” (a parte l’utilizzo improprio del termine
“scioglimento”, che nel caso di specie è riferito a un fatto, cioè al contratto, e
non al rapporto giuridico che si instaura tra le parti), esso viene definito dalla
dottrina prevalente come «un negozio giuridico mediante il quale le parti, con
rinnovata manifestazione di volontà, stabiliscono di porre nel nulla un contratto precedentemente stipulato». Se ne riconosce, dunque, l’essenza negoziale, che implica una ulteriore manifestazione di volontà, uguale e contraria
a quella espressa attraverso il contratto.
Peraltro, c’è da rilevare come non vi sia totale unità di vedute circa la natura da attribuire al mutuo dissenso. Secondo una parte della dottrina, (che,
sostanzialmente, nega la negozialità dell’atto) infatti, si tratterebbe di un mero atto di adempimento traslativo, da cui deriverebbero soltanto effetti restitutori solutionis causa, in una prospettiva perlopiù ripristinatoria della situazione antecedente alla stipula del contratto. Più articolata si rivela, invece,
una seconda teoria, la quale ravvisa nel mutuo dissenso un negozio dal contenuto uguale e contrario al precedente: tale dottrina giunge ad ammettere la
ammissibilità di un contrarius actus, che si pone come una sorta di “contronegozio” rispetto al contratto principale. Tale ricostruzione, tuttavia, sembra
incontrare consistenti limiti logici, prima ancora che giuridici nelle ipotesi di
contratti ad effetti obbligatori [Si pensi, a titolo d’esempio, all’ipotesi del contratto d’appalto: qui risulterebbe davvero arduo ipotizzare che, grazie ad un
contrarius actus, il committente si trasformi in appaltatore e viceversa].
Anche per ovviare a tali problematiche, appare senz’altro preferibile la
teoria del negozio risolutorio volto a porre nel nulla gli effetti del precedente
contratto. A tal riguardo, il mutuo dissenso assume i connotati di una figura
in grado di risolvere gli effetti dell’accordo intercorso tra le parti e di ripristinare lo status quo ante. Uno status quo ante, si badi, simile ma comunque
differente da quello che si otterrebbe mediante l’espediente del contrarius actus, che mira, come si è accennato a ritornare “al punto di partenza”.
Tale ultima dottrina, in definitiva, è quella che ha riscosso maggiore successo, non soltanto perché ha consentito di superare gli inconvenienti propri
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Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776
delle teorie anzidette, ma anche perché risulta chiaramente suffragata dal
dato normativo, oltre che dalla prevalente giurisprudenza in materia.
Pertanto, secondo questa prospettiva, il mutuo consenso allo scioglimento
del vincolo contrattuale (o “mutuo dissenso”, che dir si voglia) assume un significato ben preciso: la ratio di tale istituto va rinvenuta nella circostanza
per cui il vincolo contrattuale è posto a tutela dell'affidamento delle parti. Posto ciò, tale esigenza viene meno quando sono le stesse parti a decidere lo
scioglimento del vincolo.
Ciò, per altro verso, consente di precisare meglio il senso dell’affermazione
secondo cui nei contratti ad effetti obbligatori per porre nel nulla gli effetti del
contratto occorre la medesima manifestazione di volontà negoziale espressa
in un primo momento, quanto meno (ed è questo il punto che maggiormente
interessa sottolineare in tale sede) sotto il profilo della rispondenza soggettiva tra i due negozi, quello positivo e quello risolutivo.
Pertanto, laddove le parti considerino il bene stesso come un unicum inscindibile (e non come somma delle singole quote che fanno capo ai rispettivi
comproprietari), per cui le dichiarazioni di volontà di voler promettere in vendita non hanno una propria autonomia, ma si fondono in un'unica volontà negoziale (quella della parte promittente venditrice, appunto), allora quando
una di tali dichiarazioni venga a mancare (o sia da considerarsi invalida) non
si può validamente formare la volontà di una delle parti del contratto preliminare, il quale non viene ad esistenza o, al massimo, è da considerarsi affetto
da nullità.
2.2. L’art. 1320 c.c. e il rinvio alla disciplina delle obbligazioni solidali offerto
dall’art. 1317 c.c.
A ben vedere, in realtà, va rilevato come l’obbligazione che trovi il proprio
fondamento nella promessa fatta da più soggetti, consistente nell’acquisto di
un immobile in comune, debba considerarsi un’obbligazione indivisibile tout
court, e come tale soggetta alla disciplina prevista in proposito dagli artt.
1316 ss. c.c.
Infatti, secondo l’art. 1316 c.c., si ha obbligazione divisibile quando «la
prestazione ha ad oggetto una cosa o un fatto che non è suscettibile di divisione», a causa della sua natura o per le modalità con cui è stato considerato
dai contraenti (come nel caso di un facere indivisibile). Ne discende che, con
specifico riferimento a tali fattispecie, troveranno applicazione, oltre all’art.
1317 c.c. già richiamato in precedenza (v. supra, § 1), il quale sancisce il rinvio alla disciplina delle obbligazioni solidali «in quanto applicabili e salvo
quanto disposto dagli articoli seguenti», anche le norme previste dagli artt.
1318 e 1320 c.c. Queste, peraltro, rappresentano le principali ipotesi di deroga al sistema della solidarietà.
Deve aggiungersi, inoltre, che ai sensi dell’art. 1318 c.c., l’indivisibilità
opera sia nei riguardi degli eredi del debitore che di quelli del creditore.
Maggiori spunti di riflessione, in relazione al caso in esame, offre l’esegesi
dell’art. 1320 c.c., a mente del quale «Se uno dei creditori ha fatto remissione del debito o ha consentito a ricevere un'altra prestazione in luogo di quella
dovuta [detto in altri termini, se uno dei creditori ha concluso con il debitore
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una datio in solutum], il debitore non è liberato verso gli altri creditori. Questi
tuttavia non possono domandare la prestazione indivisibile se non addebitandosi ovvero rimborsando il valore della parte di colui che ha fatto la remissione o che ha ricevuto la prestazione diversa».
La ratio della norma è di tutta evidenza: lasciare integra l’obbligazione
riguardo agli eredi o ai creditori che non abbiano preso parte alla vicenda
parzialmente estintiva dell’obbligazione, ovvero la remissione (o la datio in
solutum); non solo: tale accorgimento consente di evitare la risoluzione
del contratto per l’impossibilità di richiedere una prestazione pro quota
dell’obbligazione.
Peraltro, nel caso in cui venga data esecuzione a un contratto preliminare
con cui le parti abbiano previsto il trasferimento di un immobile a più persone, le singole quote di comproprietà relative ai promissari acquirenti si devono presumere uguali, salvo che nel regolamento contrattuale non sia stato
espressamente disposto il contrario. Né, tantomeno, il valore delle suddette
quote può essere desunto, in modo implicito, dall’entità delle somme versate,
in quanto tale parte del prezzo complessivo non può esplicare alcun effetto
nei rapporti tra le parti contrattuali.
2.3. Profili processuali: l’indivisibilità quale ipotesi di litisconsorzio necessario
ex art. 102 c.p.c.
L’orientamento assolutamente prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, tendeva tradizionalmente a escludere la sussistenza di un collegamento inscindibile tra rapporto plurisoggettivo (sul piano sostanziale) e litisconsorzio necessario (su quello processuale), evitando, in tal modo, di dover
ricorrere a una impegnativa quanto rischiosa operazione di individuazione
astratta delle ipotesi litisconsortili necessarie, dalla quale, come si sa, il Legislatore si è sempre astenuto.
A tal proposito, non si è mancato di far rilevare come l’art. 1306, comma
1, c.c. in tema di obbligazioni solidali, espressamente preveda che «La sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore
e uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli
altri creditori». Peraltro, il secondo comma della disposizione in esame prevede un’ipotesi di estensione soggettiva della sentenza limitatamente agli effetti
favorevoli alle parti che non hanno preso parte al giudizio.
Il senso attribuito a tale norma, specie con riferimento alla statuizione del
primo comma, è stato quello di voler escludere, con riferimento a una situazione certamente plurisoggettiva quale è l’obbligazione solidale, la necessità
del ricorso al litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c.
L’ambito di applicazione di tale disciplina, per altro verso, è stato esteso
all’intera categoria delle obbligazioni soggettivamente complesse, quindi anche a quelle che non sottostanno alla regola della solidarietà.
Tale orientamento è stato oggetto di critica da parte di una certa dottrina
che ha correttamente fatto notare come la disposizione prevista dall’art. 1306
c.c. non si estenda alle obbligazioni ad attuazione non solidale; inoltre, con riferimento alle ipotesi di obbligazioni complesse per le quali trova applicazione
la solidarietà, attiva o passiva, la regola dell’art. 1306 c.c. vada interpretata
828
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776
in maniera più restrittiva: il principio desumibile in maniera implicita dall’art.
1306 c.c. costituirebbe nient’altro che il riflesso processuale del meccanismo
solidaristico. Pertanto, il presupposto per la sua applicazione sarebbe da individuare nella circostanza che la controversia iniziata da alcuno dei concreditori o contro alcuno dei condebitori abbia ad oggetto la mera condanna
all’adempimento dell’intera prestazione a favore del solo concreditore agente
e contro il solo condebitore convenuto. In caso contrario, ovvero qualora
vengano proposte domande volte ad ottenere l’accertamento od una pronuncia costitutiva sul rapporto plurisoggettivo dal quale origini l’obbligazione
soggettivamente complessa ad attuazione solidale, si dovrebbe prendere atto
che «l’art. 1306 cede logicamente il posto alla regola generale del litisconsorzio necessario».
Non si deve, tuttavia, confondere l’obbligazione solidale con quella indivisibile, giacché una obbligazione solidale ben può essere divisibile. L’art. 1292
c.c., recante la nozione della solidarietà, non vieta, infatti, la divisibilità della
prestazione, ma ammette come possibili entrambe le soluzioni, essendo rilevante solamente l’adempimento da parte di uno dei soggetti coobbligati (o la
ricezione dell’adempimento da parte di uno di essi) e il conseguente effetto
liberatorio. Del resto, nella realtà naturalistica non esistono obbligazioni (sia
solidali che non) che non si possano dividere, ma solo obbligazioni che non è
opportuno dividere (in quanto la loro divisione arrecherebbe pregiudizio ad
interessi ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento oppure perché la frazionabilità della prestazione determinerebbe il venir meno dell’interesse creditorio a conseguire il bene oggetto del rapporto). Si può affermare, dunque,
che mentre l'indivisibilità attiene alla natura dell’obbligazione (e alla sua “genesi” dal punto di vista giuridico), la solidarietà riguarda precipuamente gli
effetti dell’obbligazione.
2.4. L’indivisibilità dell’obbligazione e l’esecuzione specifica dell’obbligo di
contrarre ex art. 2932 c.c.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte mostra di accogliere tale
ultima tesi, certificando non tanto le ragioni di quella dottrina che ha creduto
nella regola della necessaria correlazione tra rapporti soggettivamente complessi e litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., quanto piuttosto valorizzando il dato giuridico sostanziale della insensibilità del concetto di “parte negoziale” rispetto alle vicende estintive interne che possano verificarsi durante
la scansione negoziale preliminare-definitivo. La regola è che la "parte negoziale", intesa come entità soggettiva di imputazione delle posizioni attive e
passive scaturenti dal negozio, è insensibile alle proprie mutazioni interne,
sicché, qualora un promissario acquirente receda dal preliminare di compravendita, l'altro può pretendere la stipula del definitivo e agire ai sensi dell'art.
2932 c.c., facendosi carico dell'intero prezzo.
Ne discende, come corollario, il principio della conservazione degli effetti
del preliminare di compravendita immobiliare anche a seguito del recesso fatto valere soltanto da alcuno dei promissari acquirenti, ovvero soltanto da uno
dei soggetti costituenti la parte negoziale in senso tecnico. La pronunzia costituiva ex art. 2932 c.c. occorsa esclusivamente tra uno dei promissari acRassegna Forense - 3-4/2014
829
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Stefano Quagliata
quirenti e la parte promittente venditrice non varrebbe, pertanto, a modificare soggettivamente l’unica manifestazione del consenso validamente prestata
dalle parti in occasione della stipula del contratto, dalla quale deriverebbero,
in definitiva, gli effetti tipici del trasferimento della proprietà dell’immobile (ai
sensi degli artt. 1376 e 1470 c.c.) e, in particolare, quello primario della corresponsione dell’intero prezzo concordato.
D’altro canto, trattandosi di obbligazione indivisibile (e come tale soggetta
al rinvio che l’art. 1317 c.c. ne fa alla disciplina delle obbligazioni solidali) il
diritto di ciascun creditore di domandare l’esecuzione dell’intera prestazione
fa si che, in caso di remissione del debito da parte di altro creditore, non trovi
applicazione la regola dell’effetto liberatorio parziale nei confronti degli altri
creditori, prevista dall’art. 1301 c.c.
Alla luce di tali considerazioni, sulla scorta di una giurisprudenza che già in
passato aveva avuto modo di pronunciarsi al riguardo, la Cassazione giunge
ad affermare che la remissione compiuta da uno soltanto dei creditori non
comporti la risoluzione del contratto per impossibilità di richiedere la prestazione pro quota dell’obbligazione indivisibile, stante il disposto dell’art. 1320
c.c. secondo cui, in caso di remissione da parte di uno soltanto dei creditori, il
diritto degli altri di domandare la prestazione per l’intero non viene mai meno, ma è condizionato soltanto all’addebito o al rimborso del valore della quota di colui il quale ha compiuto la remissione.
Tale orientamento, tra l’altro, risulta avvalorato anche dalla lettera
dell’art. 2932, comma 2, c.c., stante il quale «se si tratta di contratti che
hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o
la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere accolta, se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione o non
ne fa offerta nei modi di legge (...)». In particolare, nel caso di specie viene
in rilievo una duplice esigenza: da un lato, che la necessaria identità del bene
oggetto del trasferimento con quello previsto nel preliminare non vada intesa
nel senso di una rigorosa corrispondenza, quanto piuttosto come un’esigenza
che il bene da trasferire non sia oggettivamente diverso, per struttura e funzione, da quello considerato e promesso; per altro verso, che l’offerta debba
essere esatta, potendo il creditore, ai sensi dell’art. 1181 c.c., rifiutare un
adempimento parziale.
Stando così le cose, allora, risulta senz’altro conforme al diritto presumere
come ciascun promissario acquirente possa validamente esigere dal promittente venditore l’unica prestazione oggetto del contratto principale. E a nulla
varrebbero, in tali ipotesi, le rimostranze della controparte, giacché la prestazione non diviene impossibile per la sola circostanza della rinunzia (parziale)
esercitata da uno dei creditori.
3. I PRECEDENTI
La sentenza in commento offre un quadro relativamente esaustivo della
giurisprudenza conforme ai principi espressi dalla medesima. Peraltro, i giudici di legittimità hanno avuto occasione di pronunciarsi con riguardo a una serie di ipotesi simili.
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776
Secondo il recente orientamento prospettato da Cass., n. 5529/2014 il
mutuo dissenso realizzerebbe «per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dando vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e liberatoria, con contenuto uguale e contrario a quello del contratto
originario».
La teoria del negozio risolutorio volto a porre nel nulla gli effetti del precedente contratto trova accoglimento in una copiosa giurisprudenza: a sostegno
di tale orientamento si evidenziano, in particolare, Cass., n. 3027/1962;
Cass., n. 3692/1983; Cass., n. 7551/1986; Cass., n. 3816/1988.
Cfr. Cass., n. 15354/2001, con riferimento al tema della indivisibilità
dell’obbligazione relativa ad un contratto preliminare con pluralità di promissari acquirenti avente ad oggetto un unico immobile considerato nella sua interezza (e, quindi, non per quote).
Per quanto concerne il nesso sussistente tra indivisibilità ed esecuzione
coattiva del preliminare ex art. 2932 c.c., v. Cass., n. 7287/2005, conforme
alla sentenza in commento.
4. LA DOTTRINA
Relativamente al “mutuo consenso”, richiesto ex art. 1372 c.c. per lo scioglimento del vincolo contrattuale, imprescindibile risulta essere l’apporto fornito dall’opera di LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, il quale sostiene
che il mutuo dissenso vada inquadrato alla stregua di un contratto tipico ed
autonomo, che trova proprio nell'estinzione di un pregresso rapporto contrattuale la sua funzione e dunque la sua causa, che proprio in tal senso può definirsi tipica. Cfr., a tal riguardo, MIRABELLI, Il contratto in generale, Torino,
1980, che per primo ha proposto una modifica alla terminologia codicistica: il
“mutuo consenso” ex art. 1372 c.c. è qualificato, più propriamente,
dall’Autore come “mutuo dissenso” all’ulteriore dispiegamento degli effetti del
contratto già concluso.
Sul punto, cfr. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 16a ed., Napoli, 2013, il
quale pone l’accento sulla importanza di tale manifestazione di volontà quale
modalità generale di scioglimento del vincolo contrattuale prevista ex lege;
sul punto v. anche BRIGANTI, in Comm. cod. civ., diretto da Cendon, IV, Torino, 1999, nonché SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio giuridico,
Napoli, 1950.
Tale principio, peraltro, appare in perfetta sintonia con quello della libera
estrinsecazione dell'autonomia contrattuale, secondo il quale ai soggetti di diritto è consentito porre in essere regolamenti negoziali, tipici o atipici, entro i
limiti posti dall'art. 1322 c.c., e cioè, essenzialmente, «purché siano diretti a
realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico».
Sulla solidarietà nei rapporti obbligatori in generale: MELUCCI, La teoria
delle obbligazioni solidali nel diritto civile italiano, Torino, 1884; ALLARA, Delle
obbligazioni, Torino, 1939; SALVESTRONI, Solidarietà d’interessi e d’obbligazioni,
Padova, 1974; RESCIGNO, Obbligazioni, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 133
ss.; ORLANDI, La responsabilità solidale, Milano, 1993; CHIANALE, Obbligazione,
in Dig. civ., XII, Torino, 1995, 337 ss.
Rassegna Forense - 3-4/2014
831
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Stefano Quagliata
Ancora sul tema delle obbligazioni solidali, DI MAJO, Obbligazioni solidali (e
indivisibili), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 325 ss., secondo cui la disposizione di cui al comma 1 dell'art. 1306 c.c. non sarebbe altro se non la regolare applicazione del principio generale di cui all'art. 2909 c.c. in forza del quale
gli effetti della cosa giudicata si producono soltanto nei confronti delle parti e
degli aventi causa; cfr. BIANCA, Diritto civile, IV, Milano, 1998, 742 ss.; RUBINO, Obbligazioni alternative, obbligazioni in solido, obbligazioni indivisibili e
indivisibili, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja-Branca (artt. 1285-1320),
Bologna-Roma, 1968, 287.
Per quanto concerne gli aspetti più propriamente processualistici, significativo, nel senso della configurabilità di un’ipotesi litisconsortile in argomento, appare il contributo offerto da COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979; più di recente, nello stesso senso COSTANTINO, Litisconsorzio (Diritto processuale civile), in Enc. giur., XIX, Roma,
1990, 1; in senso contrario, BUSNELLI, L’obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974; ID., Obbligazioni soggettivamente complesse, in Enc.
dir., XXIX, Milano, 1979, 329 ss., il quale affronta la questione da un angolo
visuale differente, che consente di operare, nell'ambito indifferenziato
dell'obbligazione solidale, una distinzione fondata sulla comunanza o meno
dell'interesse unitario dei coobbligati (che rinverrebbe la propria fonte nell'origine unitaria del rapporto e nella conseguente comunanza di interessi).
Con specifico riferimento al rapporto solidale e ai presupposti per la concessione giudiziale dell’esecuzione in forma specifica di concludere il contratto, VISALLI, L’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre (art. 2932
c.c.), Padova, 1995, 190; cfr. GAZZONI, Il contratto preliminare, in Trattato di
diritto privato, diretto da Bessone, XIII, 2, Torino, 2002, spec. 714 s.
832
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
278. Sulla interpretazione di una clausola risolutiva espressa
prevista all’interno di un contratto preliminare di vendita
di immobili da costruire.
Cass. civ., sez. II, sentenza 21 marzo 2014, n. 6786 - Pres. BURSESE Rel. PARZIALE
La sentenza di esecuzione in forma specifica di un preliminare di
vendita, resa ai sensi dell’art. 2932 c.c., è destinata ad attuare gli
impegni assunti dalle parti, anche con riguardo all’ammontare del
prezzo, il quale, pertanto, deve essere quello fissato con il preliminare
medesimo restando esclusa, con riguardo alla sua natura di debito di
valuta, la possibilità di una rivalutazione automatica per effetto del ritardo rispetto alla data prevista per la stipulazione del definitivo, salvo che i contraenti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano espressamente previsto delle maggiorazioni o dei correttivi per
compensare la svalutazione monetaria durante il periodo del suddetto
ritardo 1.
FATTO
1. Con atto di citazione notificato il 13 luglio 2000, la *** s.r.l. conveniva
in giudizio, innanzi al Tribunale di Monza, il sig. G. con il quale in data 13
marzo 1992 aveva concluso un contratto preliminare di compravendita relativo ad un alloggio sito in (omissis), per un complessivo corrispettivo di L.
228.000.000 oltre iva. Il contratto prevedeva una serie di versamenti collegati anche all’avanzamento della costruzione, nonché l’accollo da parte del promissario acquirente di un mutuo di L. 130.000.000 che la società costruttrice
si accingeva ad accendere.
Il contratto prevedeva, altresì, una clausola risolutiva espressa in base alla
quale il contratto si sarebbe automaticamente sciolto in conseguenza
dell’inadempimento all’obbligo di versare anche una sola delle rate previste,
con la previsione del diritto della promettente venditrice di trattenere, a titolo
di penale, le anticipazioni ricevute sino alla risoluzione.
Il promissario acquirente era immesso nel possesso dell’immobile in data
3 maggio 1995.
La società attrice deduceva l’inadempimento del sig. G. rispetto al versamento di una parte delle somme previste quale prezzo dell’immobile, precisando che il promissario acquirente a fronte dei versamenti previsti per L.
98.000.000, aveva corrisposto solo L. 87.800.379 ed in più, nonostante le
reiterate richieste in tal senso, non aveva voluto stipulare il rogito, né accollarsi il mutuo acceso presso l’istituto bancario San Paolo di (omissis), né
provvedere al pagamento delle rate semestrali di mutuo scadute con i relativi
interessi di mora per complessive L. 56.203.088, né corrispondere l’ulteriore
1
Massima non ufficiale di M. D’Auria (vedi nota a sentenza pag. 841).
Rassegna Forense - 3-4/2014
833
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire
somma di L. 9.807.332 oltre iva e gli interessi sulle somme pagate in ritardo
per un ammontare di L. 5.000.000.
Pertanto, la ***s.r.l. domandava la declaratoria di risoluzione del contratto
in base alla clausola risolutiva ivi prevista, non avendo il convenuto provveduto
ai pagamenti previsti nel contratto preliminare, con conseguente condanna
all’immediato rilascio dell’alloggio e con incameramento delle anticipazioni a titolo di penale. In via subordinata, chiedeva di dichiarare risolto il contratto ai
sensi dell’art. 1454 c.c., comma 2, per grave inadempimento del promissario
acquirente, con conseguente condanna del medesimo al rilascio dell’immobile
ed al risarcimento dei danni per un ammontare di L. 98.167.088, con compensazione di tale importo con i versamenti già effettuati.
Si costituiva in giudizio il sig. G. che contestava le pretese attoree, producendo una serie di documenti quanto all’inesattezza delle cifre riportate dalla
***s.r.l., avendo effettuato pagamenti per l’importo di L. 159.667.052, così
adempiendo pienamente agli obblighi contrattuali.
Inoltre, precisava che alla data in cui aveva preso possesso dell’alloggio,
questo risultava mancante di elementi essenziali quali porte, infissi, sanitari,
pavimenti, e affetto da vizi e difetti cui aveva dovuto porre rimedio a sue
spese.
In via riconvenzionale, chiedeva, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento della proprietà dell’immobile di cui al preliminare del 13 marzo 1992, eventualmente subordinato al pagamento di quanto ancora dovesse ravvisarsi a
suo carico, anche relativamente all’accollo del mutuo.
2. Con sentenza del 13 marzo 2002, il Tribunale di Monza, accoglieva la
domanda principale proposta dalla ***s.r.l., accertando l’intervenuta risoluzione del contratto preliminare del 13 marzo 1992 ed il diritto della società
attrice a trattenere le somme già versate dal G., con condanna del convenuto
all’immediato rilascio dell’immobile e al pagamento delle spese processuali.
Il giudice di prime cure rilevava che, in base alle produzioni documentali,
risultavano i numerosi ritardi del promissario acquirente nel versamento degli
acconti, nonché il suo inadempimento rispetto all’obbligo di accollarsi il mutuo, espressamente previsto dal contratto. Trattandosi di adempimenti esplicitamente contemplati dalla clausola risolutiva espressa, il contratto era da
intendersi risolto di diritto a seguito della comunicazione ritualmente inviata
dall’impresa. La documentazione prodotta dal sig. G. era ritenuta inidonea a
provare l’effettuazione dei pagamenti.
3. Proponeva appello il soccombente, argomentando che i documenti prodotti nel giudizio di primo grado erano sufficienti a provare i versamenti effettuati per l’ammontare di L. 160.000.000 e che, dunque, la clausola risolutiva
espressa non avrebbe dovuto trovare applicazione, mancando il suo inadempimento.
In più, deduceva che, in ogni caso, il suo inadempimento non era così
grave da giustificare la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1454 c.c.,
comma 2, e che il Tribunale non aveva tenuto in alcun conto le spese sostenute per ovviare ai vizi e i difetti dell’immobile riscontrati all’atto della
consegna.
834
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Nel giudizio d’appello interveniva la ****s.p.a. che, nelle more aveva acquistato dalla ***s.r.l. l’immobile in oggetto. Veniva inoltre espletata una
CTU. 4. La Corte di Milano accoglieva l’appello e, riformando la sentenza di
primo grado, disponeva il trasferimento dell’alloggio sito in (omissis) al sig.
G., condizionato al pagamento della somma di Euro 3.716, 59 e di Euro
67.139,04 anche mediante accollo del mutuo acceso presso il gruppo bancario San Paolo di (omissis). Inoltre condannava le soccombenti al pagamento
delle spese dei due gradi di giudizio. Il giudice d’appello riteneva che il Tribunale avesse erroneamente considerata operativa la clausola risolutiva espressa prevista dal contratto, che prendeva in considerazione la mancata corresponsione e non già il ritardato versamento di una delle rate previste. In questo senso non vi era prova che il promissario acquirente avesse omesso il pagamento di una di esse, mentre i documenti prodotti dimostravano che i diversi pagamenti effettuati dal 1992 al 1995 erano stati esaustivi delle singole
rate: non vi erano quindi gli estremi per dichiarare risolto di diritto il contratto e neppure per applicare la connessa penale d’incameramento dei versamenti già eseguiti. Né poteva essere dichiarata la risoluzione ex art. 1454
c.c., comma 2, chiesta in via subordinata dalla società venditrice, in quanto la
norma citata impone la verifica della “non scarsa importanza” dell’inadempimento che deve essere, altresì, colpevole.
Dalle risultanze processuali non emergeva la prova di tali necessarie condizioni, nella misura in cui la differenza tra le somme dovute e le somme effettivamente versate dal G. (L. 3.003.750) era da considerarsi di scarsa importanza rispetto al corrispettivo pattuito, ed in più, incolpevole, in quanto
giustificato da opere non eseguite o mal eseguite dall’impresa.
Neppure con riferimento all’accollo del mutuo era ravvisabile un inadempimento colpevole dell’appellante, in quanto egli non aveva mai manifestato
una volontà contraria all’adempimento di tale obbligo;
in ogni caso, tale accolto sarebbe dovuto avvenire contestualmente alla
stipula del rogito, ma i contrasti nel frattempo insorti - tra i contraenti circa i
pagamenti effettuati e i vizi dell’immobile - avevano impedito la conclusione
del contratto definitivo.
5. Avverso tale sentenza propongono ricorso la ***s.r.l. e la **** s.p.a.
articolando tre motivi di gravame. Resiste con controricorso il sig. G. G.
DIRITTO
1. I motivi del ricorso.
1.1. Col primo motivo si deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art.
1456 cod. civ. (in ordine all’art. 360 c.p.c., n. 3) e omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione sul punto (ex art. 360 c.p.c., n. 5) segnatamente in
ordine alla non operatività della clausola risolutiva espressa; nonché violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) in punto
interpretazione di detta clausola e della raccomandata a.r. del 13 aprile
1999”.
La Corte d’Appello ha errato nell’interpretare l’art. 4 del contratto preliminare di compravendita, non ravvisando che esso ricollega l’operatività della
clausola risolutiva espressa non solo al pagamento dei versamenti ivi conRassegna Forense - 3-4/2014
835
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire
trassegnati dalle lettere maiuscole A), B), C), E) ed F), ma anche al pagamento della quota di mutuo di Lire 130 milioni di cui alla lettera G) nonché al
“versamento in conto e/o saldo dei rimborsi per le anticipazioni fatte dalla
Promittente per allacciamenti e/o accessorie di mutuo”.
Così opinando, il giudice d’appello ha tradito l’autentica volontà delle parti
quale desumibile dalla formulazione letterale della clausola contrattuale in
oggetto, violando, pertanto, il criterio ermeneutico dettato dall’art. 1362 c.c.
Il tenore letterale della clausola in esame deve far ritenere, come aveva
correttamente argomentato il giudice di prime cure, che la clausola risolutiva
espressa era destinata ad operare anche in relazione ai rimborsi e alle anticipazioni fatte dalla promettente società per il mutuo, con conseguente scioglimento automatico del contratto, a fronte dell’inadempimento all’obbligo di
rimborsarli entro cinque giorni dall’avvenuta richiesta.
La motivazione fornita circa l’inapplicabilità della clausola risolutiva
espressa risulta, in ogni caso, insufficiente, tenuto conto che il sig. G. risultava parzialmente inadempiente anche rispetto all’obbligo di effettuare i versamenti previsti dal contratto, come risultava dalla diffida del 25 settembre
1998 con la quale la *** faceva notare che il promissario, a fronte del prezzo
pattuito aveva effettuato versamenti per una somma inferiore per L.
10.199.625. Viene formulato il seguente quesito: “Dica Codesta Suprema
Corte se, nel sistema giuridico attuale, l’interpretazione del contratto e/o di
una clausola possa affidarsi al mero richiamo contenuto in sentenza ad una
sola parte della relativa lettera o non debba, invece, conformarsi a diritto ed
estendersi all’intero contenuto per essere poi regolata dalle norme cogenti
dettate dagli artt. 1362 e 1371 c.c. Dica ancora se il Giudice possa escludere
l’operatività della clausola risolutiva espressa facendo riferimento solo ad uno
degli inadempimenti richiamati nella relativa dichiarazione”.
1.2 Con il secondo motivo di ricorso si deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1454, 1460, 2932 e 2697 c.c., e dell’art. 116 c.p.c. (in ordine all’art. 360 c.p.c., n. 3) e omessa, insufficiente e/o incongrua motivazione sul punto (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5); violazione dell’art. 1362
c.c. e segg., (in ordine all’art. 360 c.p.c., n. 5) con riferimento
all’interpretazione della clausola 4 del contratto preliminare in atti per aver la
Corte escluso che l’obbligazione di rimborsare il mutuo non fosse esigibile
prima della stipula del rogito”.
Il giudice d’appello ha errato, altresì, nel rigettare la domanda di risoluzione formulata, in via subordinata, ai sensi dell’art. 1454 c.c., comma 2, avendo considerato, in maniera arbitraria, quale inadempimento di scarsa importanza e “in larga parte incolpevole” l’omessa corresponsione di L.
10.100.087, importo accertato in sede di c.t.u.
Inoltre, la Corte Territoriale è incorsa in errore ritenendo non grave
l’inadempienza del promissario al mancato rimborso dei ratei semestrali di
mutuo, sulla base del fatto che l’accollo sarebbe dovuto essere formalizzato
in sede di atto pubblico. Così argomentando, ha ignorato illegittimamente il
dato contrattuale da cui si desume che il sig. G. si era assunto l’onere di
versare direttamente all’Istituto mutuante le “rate che verranno richieste in
ogni tempo prima dell’atto di compravendita” ovvero “nel caso fossero antici-
836
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
pate dalla promittente venditrice a rimborsarle entro 5 giorni dall’avvenuta
richiesta”.
La Corte d’Appello di Milano, nel valutare il comportamento inadempiente
del sig. G., peraltro protrattosi per anni, ha ignorato le specifiche disposizioni
contrattuali. Né è comprensibile come la Corte possa aver giustificato
l’inadempimento del promissario acquirente all’obbligo di stipulare il contratto
definitivo, a fronte della formale diffida del 25 settembre 1998, sulla base del
contenzioso insorto tra le parti circa i pagamenti effettuati e i vizi
dell’immobile. Con raccomandata del 16 ottobre 1995 la *** aveva riconosciuto tali vizi, quantificandoli in L. 3.003.750 ed esprimendo la più ampia disponibilità a risolvere le pendenze in essere. Viceversa, a fronte di tale disponibilità, il sig. G., pur continuando a godere dell’immobile sin dal maggio
1995, si rifiutava ingiustificatamente di adempiere agli obblighi contrattuali,
ponendo in essere un inadempimento che non può non essere considerato
grave e colpevole.
Viene formulato il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte se il Giudice
violi gli artt. 1454 e 1455 c.c., qualora nel valutare la gravità e la colpevolezza dell’inadempimento posto a fondamento della diffida, anziché svolgere
un’indagine unitaria del comportamento del debitore ivi evidenziato, si limiti
alla valutazione di uno solo degli inadempimenti dedotti a fronte di una pluralità di gravi e importanti inadempiente imputate al debitore;
dica, altresì, se il Giudice possa giustificare l’inadempimento del promissario nel rendere la prestazione promessa ancorandone l’esecuzione ad una
epoca successiva (nella fattispecie stipula del rogito), nonostante il contrastante tenore del negozio concluso e senza offrire al riguardo motivazione alcuna”.
1.3 Col terzo motivo di ricorso si deduce la “violazione e falsa applicazione
degli artt. 1282, 1224, 1498 e 2932 c.c.; nonché dell’art. 116 c.p.c., nella
parte in cui è stata emessa la sentenza sostitutiva del titolo di proprietà (in
relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) ed omessa, insufficiente contraddittoria motivazione al riguardo; nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 1362
c.c. e segg., in punto interpretazione della clausola n. 4 del preliminare”.
La Corte d’appello di Milano ha errato nell’accogliere la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ai sensi dell’art. 2932 c.c. Infatti, nelle ipotesi vi sia una separazione temporale tra il momento del pagamento del prezzo e quello del perfezionamento del contratto definitivo,
l’accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c., postula necessariamente
l’adempimento della parte di prestazione divenuta esigibile o l’offerta nei modi di legge. Conseguentemente, in difetto dell’offerta nei modi di legge delle
prestazioni derivanti dall’accollo di mutuo da parte del sig. G., la domanda
non poteva che essere disattesa, essendo irrilevante l’offerta come formulata
in corso di causa e limitata, peraltro, al solo importo capitale del prezzo da
corrispondere a mezzo accollo di mutuo. Inoltre, la Corte Territoriale ha contravvenuto al principio di diritto da essa stessa affermato in sentenza, secondo cui la sentenza emessa ex articolo 2932 c.c., tenendo luogo del contratto
definitivo, deve recepire fedelmente le pattuizioni contenute nel preliminare.
In questo senso non si spiega perché abbia subordinato il trasferimento della
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire
proprietà promessa al pagamento dell’importo residuo del prezzo e al versamento della somma di Lire 130.000.000, oggetto dell’accollo di mutuo, alterando le pattuizioni racchiuse nel preliminare, secondo cui tutte le rate di mutuo scadute prima della compravendita sarebbero dovute essere pagate e/o
rimborsate dal promissario con i relativi accessori.
Viene formulato il seguente quesito: “Dica l’Ecc.ma Corte se il Giudice
possa accogliere la domanda ex art. 2932 c.c., di trasferimento della proprietà qualora il richiedente sia inadempiente con riferimento all’obbligo di eseguire la prestazione a suo carico, esigibile e/o scaduta in data antecedente alla stipula del rogito. Dica, inoltre, se la statuizione di accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto possa ritenersi conforme a diritto se non accompagnata da un’offerta formale o comunque da un’offerta idonea a manifestare la concreta e seria volontà di
adempiere con riferimento a tutte le prestazioni già scadute”.
2. Il ricorso è infondato e va rigettato per quanto di seguito si chiarisce.
2.1 Col primo motivo si deduce violazione dell’articolo 1456 cc sulla ritenuta errata non operatività della clausola risolutiva espressa, nonché violazione dell’art. 360, n. 5, sulla interpretazione della clausola stessa.
Al riguardo, occorre rilevare in primo luogo l’inammissibilità del quesito,
formulato in modo astratto e cioè con risposta obbligata e non con riferimento alla specifica situazione verificatasi. In ogni caso, il motivo è infondato per quanto di seguito si chiarisce. Il motivo censura il senso della clausola riportata a pagina 9 e 10 del ricorso e della dichiarazione di avvalimento della clausola, effettuata in data 13 aprile 1999. Occorre però rilevare
che è la stessa *** a riconoscere che la clausola doveva intendersi nel senso che fosse rilevante l’omissione di una rata del contratto, con ciò intendendosi far riferimento alla intera rata prevista dal contratto. Al riguardo,
sarebbe stato del tutto eccedente la risoluzione per pochi Euro di scarto. In
tal senso, tutta la censura si risolve in una questione di fatto che la Corte
d’appello ha affrontato e definito attraverso la constatazione dell’avvenuto
pagamento di una somma notevolmente superiore prima della dichiarazione
di avvenimento della clausola (vedi pagina 14 e 15 della sentenza).
L’accertamento in fatto è stato operato sulla base della c.t.u. È sufficiente
questo rilievo a rendere privo di consistenza l’argomento della vincolatività
della clausola sul piano dell’importanza dell’inadempimento, per la ragione
che l’inadempimento, così come accertato dalla Corte d’appello, non vi era
stato, posto che l’importo versato a quella data era risultato appunto “ampiamente superiore” al dovuto.
La censura sul piano interpretativo si incentra anche su un secondo aspetto e cioè sulla tesi che il “mancato pagamento” cui aveva riguardo la clausola,
fosse riferibile anche alle rate stabilite per l’accollo del mutuo fondiario, alla
luce della clausola n. 4 del negozio. Ma tale censura, peraltro assertiva, non
indica i criteri legislativi violati ed è priva di argomentazione convincente perché, anzi, mira a includere nell’ambito delle obbligazioni assistite dalla clausola una voce (il mutuo), che non solo è correlata alla relativa accensione,
ma che nella configurazione del preliminare è dichiaratamente rimandata per
la sua precisa quantificazione, al futuro. Vedasi in proposito l’uso del tempo
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Parte Seconda - Giurisprudenza
futuro riferito a tale voce (avverrà, sarà eccetera). Plausibile e non censurabile risulta allora la soluzione interpretativa della Corte d’appello che ha escluso
questa voce rispetto alle altre, affrontando la questione della clausola risolutiva in modo indipendente da questa voce, soprattutto per il difetto di allegazione e prova della richiesta.
2.2 Il secondo motivo deduce violazione dell’art. 1454 c.c., nonché vizi di
motivazione, riproponendo le medesime censure del motivo precedente, sul
presupposto che la interpretazione della clausola contrattuale al n. 4 citata
dovrebbe includere anche la quota-mutuo, anticipatamente rispetto al rogito.
In relazione a tale motivo valgono le considerazioni già svolte con riguardo al
primo motivo, potendosi ulteriormente aggiungere che l’interpretazione nel
senso della “separazione” tra pagamento dei ratei e pagamento (recte accollo) del mutuo, oltre a essere conforme alla pratica più usuale in questo campo, si è svolta assumendo l’obbligo di accollo contestualmente al definitivo,
come da regola. E tale conclusione non è contraddetta dal carico degli accessori sugli importi eventualmente pagati dal costruttore-venditore. Anzi proprio questa pattuizione esprime una soluzione di pagamento proposta al definitivo, perché gli interessi decorrono a favore della costruttrice, obbligatastipulante verso la Banca. Inoltre, va anche considerato che la soluzione prospettata dalla Corte d’appello si fonda su altri elementi probatori quali la corrispondenza tra le parti, prodotta in giudizio, e l’impostazione difensiva tenuta in causa (vedi al riguardo la motivazione a pagina 16 della sentenza) sicché anche da questo punto di vista la conclusione della Corte di merito non è
censurabile. Né infine rileva la clausola e) (vedi pagina 12 del ricorso) perché
ipotetica. Infatti, se era la costruttrice a pagare, allora l’acquirente doveva rispondere “a richiesta”. Ma la stessa sentenza in chiusura afferma espressamente che non vi è alcuna prova che i pagamenti dei ratei siano stati effettuati. Infatti, non è chiaro quanto la società ha dovuto pagare e se ha richiesto quanto è stato pagato. Quanto infine alla valutazione della “gravità” degli
inadempimenti, una volta eliminata l’incidenza della componente-mutuo, la
valutazione della Corte d’appello appare corretta. Il c.t.u. ha accertato un
“differenziale” tra versato e dovuto pari in sostanza circa Euro 5000 (132 milioni dovuti a fronte 142 milioni di lire versati, vedi pagina 15 da sentenza). E
la valutazione della gravità, nel bilanciamento degli interessi, è operazione
dovuta anche in caso di diffida ad adempiere (sul punto si registra
l’orientamento costante di questa Corte). Le argomentazioni con le quali, infine, si contesta il difetto di prova sull’avvenuto pagamento da parte della venditrice di rate di mutuo (pagina 21 del ricorso), appaiono allora del tutto insufficienti, in quanto effettuate attraverso un mero rinvio a documenti, peraltro non indicati specificamente (si fa riferimento a “numerose lettere”), rispetto all’esplicita notazione della sentenza. ***, quindi, afferma, ma non
prova, di aver estinto totalmente o parzialmente il mutuo (pagina 18 del ricorso). La questione dei vizi materiali resta quindi assorbita (al riguardo si
può anche considerare, ad abundantiam, il tenore confessorio di quanto riportato al terzo motivo, dal quale si deduce che il pagamento delle rate di
mutuo avviene nel 2007 dopo la sentenza di appello).
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire
Infondato è anche il terzo motivo, col quale si deduce violazione di legge e
vizio di motivazione sulla sentenza “sostitutiva” del contratto, perché si prospetta che essa non poteva essere disposta per difetto dell’offerta del mutuo.
La questione non appare fondata, attesa la disponibilità dichiarata dal
promittente acquirente, seppure non sacramentale, al pagamento di tutto
quanto dovuto. Il motivo, in via gradata, censura l’omessa statuizione sugli
interessi (di ammortamento e di mora). Anche tale censura è infondata alla
luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale se
l’adempimento non è imputabile all’acquirente e l’obbligo a contrarre sia imputabile esclusivamente al promettente venditore, “non può il promissario
acquirente essere obbligato a corrispondere anche gli interessi legali sulla
somma dovuta a titolo di corrispettivo” (Cass. 2012 n. 8171, rv 622431). E
ciò anche perché la pattuizione in preliminare non è stata prevista a titolo di
maggiorazione “compensativa” della svalutazione, secondo l’orientamento di
questa Corte, secondo cui “La sentenza di esecuzione in forma specifica di un
preliminare di vendita, resa ai sensi dell’art. 2932 c.c., è destinata ad attuare
gli impegni assunti dalle parti, anche con riguardo all’ammontare del pretto, il
quale, pertanto, deve essere quello fissato con il preliminare medesimo, restando esclusa, con riguardo alla sua natura di debito di valuta, la possibilità
di una rivalutazione automatica per effetto del ritardo rispetto alla data prevista per la stipulazione del definitivo, salvo che i contraenti, nell’esercizio della
loro autonomia negoziale, abbiano espressamente previsto delle maggiorazioni o dei correttivi per compensare la svalutazione monetaria durante il periodo del suddetto ritardo” (Cass. n. 15546 del 2013, Rv. 626898).
Infine, va anche considerato che gli interessi di “prefinanziamento” sono
ricompresi nell’importo stabilito dal c.t.u., come affermato dalla sentenza, e
dunque non possono essere duplicati.
3. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 7.000 (settemila) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2014.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786
Nota a sentenza di Massimo D’Auria
Sommario: 1. Il caso. - 2. Le questioni. - 2.1. La natura della convenzione di accollo. 2.2. Il rapporto tra accollo e vendita. - 2.3. Il rilievo giuridico attuale della disciplina degli
immobili da costruire. - 2.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum
proprium. - 2.5. Sui limiti della sentenza costitutiva. - 3. I precedenti. - 3.1. La natura della convenzione di accollo. - 3.2. Il rapporto tra accollo e vendita. - 3.3. Il rilievo giuridico
della disciplina degli immobili da costruire. - 3.4. Buona fede interpretativa e divieto di
venire contra factum proprium. - 3.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva. - 4. La dottrina.
- 4.1. La natura della convenzione di accollo. - 4.2. Sul collegamento negoziale. - 4.3. Il
rilievo della disciplina degli immobili da costruire. - 4.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium. - 4.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva.
1. IL CASO
La fattispecie sottoposta al giudizio della Cassazione riguarda
l’interpretazione di una clausola risolutiva espressa prevista all’interno di un
contratto preliminare di vendita di immobili da costruire.
Scorrendo il testo del contratto si apprende che il prezzo sarebbe stato
corrisposto in parte mediante pagamento rateizzato a stadio di avanzamento
lavori, in parte mediante accollo del mutuo fondiario stipulato dal costruttore.
Seppure immesso nel possesso del bene, il promissario acquirente rifiuta
di pagare il residuo del prezzo, nonché di procedere all’accollo del mutuo.
Perciò, il promittente venditore, avvalendosi dell’accennata clausola risolutiva
espressa, dichiara risolto il contratto preliminare.
Il problema ermeneutico riguarda l’individuazione della condotta inadempiente del promissario acquirente rilevante ai fini dell’applicazione della clausola risolutiva espressa. In particolare, occorre accertare se tra le condotte
previste “sia contemplato anche il mancato rimborso delle quote di mutuo anticipatamente pagate dal costruttore”.
La questione è decisiva perché dalle risultanze istruttorie emerge che
l’importo pagato dal promissario acquirente alla società costruttrice era più di
quanto fissato nel preliminare relativamente alla quota di prezzo da corrispondere a stadio avanzamento lavori.
Nel passaggio teoricamente più significativo della motivazione, la Cassazione riferisce di una prassi operante nel mercato immobiliare secondo cui
«occorre distinguere la valutazione giuridica dei pagamenti dei ratei dall’accollo del mutuo, nonostante entrambe siano componenti del prezzo». Alla stregua di tale indirizzo, poiché il promissario acquirente non può considerarsi inadempiente, avrà diritto, anche in assenza di formale offerta di
accollarsi il mutuo, al trasferimento coattivo del bene, al netto della rivalutazione.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Massimo D’Auria
2. LE QUESTIONI
2.1. La natura della convenzione di accollo
Il riferimento ad una prassi esistente nel mercato immobiliare secondo cui
l’esecuzione dell’accollo deve essere valutato in maniera distinta dal pagamento dei ratei di prezzo, merita di essere approfondito. Si tratta, invero, di
una distinzione apparentemente contro intuitiva, dato che l’accollo del mutuo
contratto dal promittente venditore da parte del promissario acquirente svolge la funzione di modalità alternativa di pagamento del prezzo.
Analizzando gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali si scorge però la
ragione di una sottile linea di discrimine nella valutazione delle due componenti del prezzo. Per comprenderla, occorre preliminarmente soffermarsi su
alcuni dati rimasti impliciti nel ragionamento condotto dalla Corte.
Quanto alla natura della convenzione preliminare di accollo stipulata tra le
parti sottoposta al giudizio della Cassazione, questa appare avere programmaticamente natura interna. È solo il caso di rammentare la distinzione tra
accollo con efficacia esterna, sia esso privativo o cumulativo, ed accollo semplice o interno.
Nel caso di accollo esterno, l’unico disciplinato dal codice, poiché propone
una deviazione dal principio di relatività degli effetti del contratto,
l’operazione dovrà qualificarsi alla stregua di negozio a favore di terzo. Infatti, l’efficacia esterna della relativa convenzione contrattuale di assunzione del
debito altrui dipende da un atto espresso di adesione del terzo creditore.
Conseguentemente, laddove l’adesione del terzo non si concretizzi, l’accollo
avrà natura meramente interna, giusto il richiamo al disposto di cui all’art.
1411, comma 3.
L’accollo interno è, invece, istituto di origine dottrinaria. Il terzo creditore
rimane estraneo all’operazione. Sicché, in caso d’inadempimento, l’accollante
risponde solo nei confronti del proprio debitore, non anche del terzo, salva la
possibilità dell’esercizio in via surrogatoria dell’azione di adempimento spettante all’accollato da parte del terzo creditore in caso d’inerzia del primo, o la
cessione dell’azione. (Rescigno, Studi sull’accollo, Milano, 1958, 142; Id., Accollo, in Dig. civ., I, Torino, 1980, 40 ss. infra sez. IV).
La convenzione di accollo esaminata dalla Corte accessoria al preliminare
di vendita immobiliare, ha natura meramente interna. Conseguentemente, la
sua esecuzione produrrà effetti, da un lato, estintivi dell’eventuale mutuo
fondiario (e della relativa ipoteca eventualmente gravante sull’immobile),
dall’altro liberatori in favore della società costruttrice nei confronti del terzo
creditore. Dunque, l’operazione può qualificarsi come datio in solutum mediante cui l’accollante estingue un proprio debito nei confronti dell’accollato.
2.2. Il rapporto tra accollo e vendita
Tornando al caso deciso dalla Cassazione, il dubbio ermeneutico è sorto
perché, tra le condizioni di operatività della clausola risolutiva espressa era
contemplato anche il mancato pagamento della quota di mutuo nonché «il
versamento in conto e/o saldo dei rimborsi per le anticipazioni fatte dalla
Promittente per allacciamenti e/o accessorie di mutuo».
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786
Secondo il promittente venditore, in base a tale disposizione, egli avrebbe
avuto diritto anche al rimborso delle rate pagate prima della stipula del definitivo. La Corte ha, tuttavia, avuto buon gioco nel rilevare che il promittente
venditore non ha allegato alcuna richiesta di rimborso indirizzata al promissario acquirente.
Potrebbe sorgere il dubbio che, in presenza di un’allegazione congrua da
parte della società costruttrice, la richiesta del promittente venditore avrebbe
avuto migliore sorte. Del resto, in giurisprudenza il mancato accollo del mutuo può generare la risoluzione del contratto di vendita (Cass., 9 dicembre
1982, n. 6713, infra sez. III).
Contro questo possibile esito, il dato più significativo dal punto di vista interpretativo, evidenziato dalla Corte, sta in ciò che il promissario acquirente
aveva promesso di eseguire l’accollo “al momento della stipula del definitivo”.
In tali casi, la giurisprudenza ritiene che la clausola di corresponsione di parte
del prezzo mediante accollo del mutuo contempli due distinte pattuizioni. La
prima riguarda le modalità di pagamento del prezzo, la seconda, integra la
promessa di accollo del mutuo sottoposto alla condizione sospensiva della
stipula del rogito.
Non si tratta necessariamente d’instaurare un collegamento negoziale tra
convenzione di accollo e compravendita per duplice ragione che la dimensione causale della prima si esaurisce nell’assunzione del debito altrui e che i
motivi individuali per le quali si accede a tale operazione devono considerarsi
irrilevanti (RESCIGNO, Studi sull’accollo, cit., 91).
Semmai, tale impostazione conduce a ritenere che tali obblighi operano su
piani diversi, il che giustifica la distinzione valutativa sul piano giuridico. Ed
invero, gli effetti dell'accollo, salva pattuizione contraria, sono collegati al trasferimento della proprietà, sicché con la conseguenza che, nonostante
l’avvenuta immissione nel possesso, l’adempimento della promessa di accollo
non avrebbe comunque potuta essere pretesa prima della stipula del definitivo (Cass. 59/2002).
D’altra parte, la somma oggetto dell'accollo, in quanto parte del prezzo, è
in ogni caso dovuta al venditore, dunque anche se l'accollo non diviene operativo. Perciò, ove il promittente venditore paghi, in relazione ai termini di rateazione previsti dal contratto di mutuo, uno o più rate o addirittura tutte le
rate del mutuo anteriormente al trasferimento della proprietà, avrà diritto al
rimborso dal compratore dell'importo della quota capitale e degli interessi
corrisposti al mutuante (sent. n. 2093/84).
2.3. Il rilievo giuridico attuale della disciplina degli immobili da costruire
La previsione secondo cui l’accollo del mutuo è stato fissato al momento
del rogito ha dispensato la Corte dal richiamare il proprio precedente secondo
cui deve essere esclusa l’ammissibilità del rimborso delle somme pagate
dall’accollato al creditore (sent. n. 821/1997). D’altro canto, sempre secondo
la giurisprudenza, le parti possono convenire che il promissario acquirente
sarà tenuto ad apprestare in anticipo al debitore i mezzi occorrenti per adempiere l’obbligazione presso il terzo, oppure a pagare di volta in volta direttamente il terzo creditore mutuante.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Massimo D’Auria
Quid iuris se le parti prevedono di anticipare gli esborsi a copertura delle
rate di mutuo da parte del promissario acquirente in favore della società costruttrice?.
La dottrina ha correttamente evidenziato come in tale ipotesi si dovrebbe
ammettere un’anticipata esecuzione dell’obbligo di corrispondere il prezzo
(SERRAO, Il contratto preliminare, Padova, 2002, 148). Ciò suggerisce di valutare l’ipotetica previsione contrattuale alla luce di un dato normativo ulteriore, non espressamente preso in considerazione dalla Corte anche perché non
applicabile ratione temporis al caso di specie.
Si tratta del D.Lgs. n. 122/2005 in materia di tutela degli acquirente di
immobili da costruire ed in particolare dell’art. 2 in forza del quale il venditore
ha l’obbligo di prestare garanzia fideiussoria per le somme di prezzo riscosse
dalla società costruttrice nel periodo anteriore alla stipula del definitivo.
Poiché, come detto, le somme riscosse dal venditore, non anche quelle direttamente pagate all’istituto di credito, ancorché siano volte a fornirgli la
provvista per il pagamento del mutuo, costituiscono anticipato pagamento del
prezzo, se ne deduce abbastanza agevolmente che esse dovranno essere garantite da fideiussione.
Il suddetto dato normativo appare significativo perché suggerisce un ulteriore indice ermeneutico per la soluzione di casi inerenti l’individuazione
dell’inadempimento rilevante ai fini della risoluzione contrattuale.
Infatti, l’eventuale pretesa del costruttore di applicare la clausola risolutiva
espressa nel caso in cui il promissario acquirente non gli fornisca i mezzi per
pagare le rate di mutuo, “prima della stipula del definitivo”, potrebbe essere
sindacata anche alla luce del canone ermeneutico di buona fede contrattuale,
in assenza della consegna della fideiussione.
2.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium
Al fine di potersi avvalere della clausola risolutiva espressa per sanzionare
l’inadempimento del promissario acquirente nel procurare anticipatamente la
provvista per adempiere al mutuo, la società costruttrice deve avere provveduto a fornire idonea fideiussione al promissario acquirente per gli importi
corrispondenti. In assenza, la pretesa del promittente venditore di applicare
la clausola risolutiva espressa, anche laddove contempli anche testualmente
l’ipotesi del rimborso delle rate di mutuo, appare contraria al canone d buona
fede interpretativa, contravvenendo in particolare al divieto di venire contra
factum proprium.
Il riferimento alla buona fede interpretativa appare tecnicamente appropriato.
Anzitutto, perché il suo impiego consente d’individuare l’inadempimento
rilevante nell’applicazione della clausola risolutiva espressa. Essa consente infatti di adottare una valutazione in concreto del modo in cui il rapporto contrattuale si è sviluppato tra le parti e nel rispetto della peculiare distribuzione
dei rischi effettivamente condivisa.
In secondo luogo, la buona fede interpretativa ha proprio la funzione di
paralizzare richieste abusive che, sotto il pretesto di applicare cavillosamente
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786
il contratto, modificano di fatto la distribuzione del rischi programmati contrattualmente.
Appare evidente che la richiesta avvalersi della clausola risolutiva espressa
si fonda sull’elusione della protezione accordata dalla regola legale in favore
del promissario acquirente. Il costruttore avrebbe ritratto un vantaggio abusivo addossando al promissario acquirente il rischio di dissesto dell’impresa
costruttrice nelle more dell’edificazione dell’immobile, rischio non solo non
espressamente contemplato dal contratto ma anche contrario allo standard
legale di protezione in favore dell’acquirente di immobile da costruire.
A chiusura dell’argomento, vale solo la pena evidenziare che la disciplina
richiamata orienta le parti, ed in particolare la società costruttrice, verso la
previsione di accollo del mutuo contestuale al trasferimento dell’immobile. In
tale modo, infatti, la società eviterà l’iscrizione in bilancio di una fideiussione
bancaria d’importo sicuramente superiore, con conseguente appesantimento
del bilancio.
D’altro canto, la giurisprudenza pare orientata ad applicare il disposto
dell’art. 1273, comma 4, c.c. anche nel caso di accollo del mutuo contestuale
alla stipula del preliminare, nel qual caso l’istituto mutuante ha la possibilità
di aderire alla convenzione di accollo fino alla stipula del definitivo per obbligare nei suoi confronti anche l’accollante. Tuttavia, in caso d’inadempimento
del venditore nel pagamento delle rate di mutuo, l’acquirente potrà sollevare
la relativa eccezione d’inadempimento nei confronti del terzo mutuante (Trib.
Reggio Emilia, 24 marzo 2006, infra sez. III). Peraltro, laddove dovesse sopravvenire la crisi della società costruttrice, il promissario acquirente, domandando la risoluzione del contratto preliminare di compravendita, potrà ottenere anche la caducazione dell’accollo del mutuo, con diritto di ripetere le
somme eventualmente versate all’istituto di credito.
In sostanza, poiché l’istituto di credito si accolla il rischio del dissesto
dell’impresa mutuataria, ciò suggerisce, quantomeno al ceto bancario, di non
strutturare l’operazione in termini di accollo esterno.
2.5. Sui limiti della sentenza costitutiva
La sentenza si chiude affrontando due ulteriori questioni inerenti i limiti
che incontra la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. In particolare, occorre
soffermarsi sul concetto di offerta nei modi di legge stabilito dall’art. 2932,
comma 2, c.c. e sulla natura di debito di valuta dell’obbligazione di pagamento del prezzo fissato nel preliminare. Entrambe le questioni devono essere valutate alla luce dell’orientamento che fa divieto al giudice di pronuncia sostitutiva.
In virtù del suddetto principio, la giurisprudenza ha evidenziato come
l’offerta di accollo del mutuo non possa astrattamente essere sostituita
dall’offerta di pagamento dell’equivalente in denaro.
Tuttavia, secondo un diverso itinerario ricostruttivo, ormai accreditato in
giurisprudenza, l’offerta di pagamento nei termini stabiliti dal contratto preliminare, deve ritenersi implicita nella domanda di esecuzione in forma specifica. Infatti, la sentenza costituiva del giudice deve essere comunque condizionata all’adempimento della controprestazione (sent. n. 16881/2007).
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Massimo D’Auria
L’ammissibilità di pronuncia c.d. condizionata costituisce orientamento
condiviso dalla dottrina (SERRAO, Il contratto preliminare, cit., 147).
Perciò, quanto alla prima doglianza, la Cassazione osserva che, in realtà, il
promissario acquirente aveva espresso, seppure in maniera non sacramentale, di pagare quanto eventualmente dovuto e poiché l’accollo del mutuo era
fissato al momento del definitivo, non vi è ragione di onerarlo all’offerta formale.
Quanto alla rivalutazione del prezzo, la Corte rigetta anche questa doglianza sul rilievo che questa non è dovuta stante la natura di debito di valuta
del prezzo fissato nel contratto preliminare.
A tale riguardo, la Corte osserva che, essendo l’inadempimento non imputabile al promissario acquirente, costui non sarà tenuto a corrispondere gli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di corrispettivo (sent. n.
8171/2012). D’altra parte proprio perché la sentenza è attuativa del regolamento previsto dalle parti nel preliminare, laddove esse non abbiano previsto
correttivi per rendere operante la rivalutazione in caso di ritardo nella stipula
del definitivo, allora la natura di debito di valuta del prezzo fissato nel preliminare impedisce l’innesco di automatiche forme di rivalutazione (sent. n.
15546/2013). Del resto, la qualificazione della prestazione avente ad oggetto
il pagamento del prezzo fissato nel preliminare come debito avente natura di
valuta non è che uno svolgimento del divieto in capo al giudice d’introdurre
varianti al preliminare (Cass. 6 agosto 1990, n. 7907, infra sez. III).
3. I PRECEDENTI
3.1. La natura della convenzione di accollo
Sulla distinzione tra accollo interno ed esterno si veda Cass., 8 luglio
1983, n. 4618, in Mass. Giust. civ., 1983, 7; Cass., 1 agosto 1996, n. 6936,
in Mass. Giust. civ., 1996, 1091. La distinzione tra accollo esterno ed interno
discende da un accertamento ermeneutico del giudice secondo Cass., 24 febbraio 1982, n. 1180, in Mass. Giust. civ., 1982, 2. Sulla configurazione
dell’accollo con efficacia esterna nei termini di negozio a favore di terzi si veda Cass., 11 aprile 2000, n. 4604, in Mass. Giust. civ., 2000, 783; Cass., 23
febbraio 1979, n. 1217, in Giust. civ., 1979, 1, 1254; Cass., 21 giugno 1979,
n. 3479, in Mass. Giust. civ., 1979, 6.; Cass, 26 agosto 1997, n. 8044, in
Mass. Giust. civ., 1997, 1523. Per un’ipotesi di applicazione dell’art. 1273,
comma 4, c.c. Trib. Reggio Emilia 24 marzo 2006, in Obbl. e Contr., 2007, 5,
460).
3.2. Il rapporto tra accollo e vendita
Sulla disciplina dei rapporti tra accollo e vendita si veda Cass., 26 agosto
1997, n. 8044, in Mass. Giust. civ., 1997, 1523; Cass., 11 aprile 2000, n.
4604, in Mass. Giust. civ., 2000, 783. Seppure in fattispecie differenti, in una
prospettiva causalistica si pongono Cass., 8 luglio 1983, n. 4618, in Mass.
Giust. civ., 1983, 7, che non esclude che l’accollo interno possa integrare, in
talune ipotesi, una tipica donazione obbligatoria; nonché Cass., 30 marzo
2006, n. 7507, in Vita not., 2007, 1, 188 che ravvisa una donazione diretta
846
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786
nell’accollo del mutuo contratto dalla figlia da parte del padre; Cass., 11 ottobre 1978, n. 4550, in Riv. not., 1978, 1341; contra Cass., 8 luglio 1983, n.
4618, in Giur. it., 1983, I, 1, 1792.
Sulla risoluzione per mancato pagamento mediante accollo Cass., 9 dicembre 1982, n. 6713, in Mass. Giust. civ., 1982, 12; Cass., 30 marzo 1984,
n. 2093, in Riv. giur. edilizia, 1985, I, 587. Sull’accollo come modalità alternativa di pagamento del prezzo si vedano in sede tributaria Comm. trib.
centr., SS.UU., 3 maggio 1984, n. 4179, in Comm. trib. centr., 1984, I, 281;
Comm. trib. I gr. di Milano, 30 gennaio 1985, in Riv. dott. comm., 1986, 364.
L’indice dell’immissione in possesso potrebbe non essere privo di rilevanza
sotto il profilo della gravità dell’inadempimento Cass., 17 agosto 2011, n.
17328, in Mass. Giust. civ., 2011, 7-8, 1171.
3.3. Il rilievo giuridico della disciplina degli immobili da costruire
Sui presupposti di applicazione della disciplina si veda Cass., 10 marzo
2011, n. 5749, in Rass. dir. civ., 2012, 4, 1235.
3.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium
Sulla possibilità di anticipare l’accollo del mutuo rispetto al definitivo
Cass., 1 agosto 1996, n. 6939, in Mass. Giust. civ., 1996, 1091. Sul divieto di
pretendere il rimborso delle somme corrisposte al creditore Cass., 27 gennaio
1997, n. 821, in Mass. Giust. civ., 1997, 140. Sull’onere della prova si veda
Cass., 9 maggio 2011, n. 10172, ined., secondo cui la prova dell’avvenuto
pagamento delle rate di mutuo già scadute tra la data del preliminare e la
stipula del definitivo deve essere fornita dal venditore.
Sul divieto di venire contra factum proprium Cass., 12 febbraio 1992, n.
1715, in Giust. civ., 1993, I, 504; Cass., 7 marzo 2007, n. 5273, in Dir.
giust. online, secondo cui il riferimento al divieto di venire contra factum proprium è idoneo a paralizzare l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte o
giustificando il rigetto della domanda giudiziale fondata sul medesimo.
3.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva
Sulla natura implicita dell’offerta di pagamento del prezzo contestuale alla
stipula del definitivo Cass., 21 aprile 1979, n. 2230, in Mass. Giust. civ.,
1979, 4. Cass., 31 luglio 2007, n. 16881, in Mass. Giust. civ., 2007, 9. Sul
concetto di offerta nei modi di legge di cui all’art. 2932, comma 2, c.c. si vedano Cass., 16 marzo 2006 n. 5875, in Mass. Giur. it., 2006, nonché in Guida
dir., 2006, 22, 47 ss.; Cass, 13 dicembre 2007, n. 26226, in Contratti, 2008,
7, 665 con nota di A. Barba; Cass., 15 ottobre 2008, n. 25185, in Obbl. e
Contr., 2009, 12, 972 con nota di Tomassetti.
Il pagamento del prezzo è solo un presupposto per l’efficacia della sentenza costitutiva secondo Cass., 21 aprile 1979, n. 2230, in Mass. Giust. civ.,
1979, 4; perciò, ritiene implicita l’offerta di pagamento del prezzo Cass., 31
luglio 2007, n. 16881, in Mass. Giust. civ., 2007, 9; Cass., 28 luglio 2010 n.
17688, in Contratti, 2011, 2, 136 con nota di Mastandrea.
Rassegna Forense - 3-4/2014
847
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Massimo D’Auria
Sulla possibilità di pronuncia condizionata ex art. 2932 c.c. si vedano
Cass., 4 gennaio 2002, n. 59, in Contratti, 2002, 660 con nota di Tagliaferri;
Cass., 29 novembre 1984, n. 6258, in Mass. Giust. civ., 1984, 11; Cass., 27
aprile 1996, n. 3926, in Mass. Giust. civ., 1996, 641. Naturalmente, la condizione attiene al trasferimento del diritto e non all’obbligo di consegna, ragione per cui non sussiste la possibilità di subordinare il pagamento del prezzo
alla consegna dell’immobile secondo Cass., 27 dicembre 2012, n. 11195, in
Mass. Giust. civ., 1994, 12. Da ultimo, Trib. Lucca, 2 luglio 2013, n. 783, in
DeJure, secondo cui, al fine di salvaguardare l’equilibrio sinallagmatico tra le
prestazioni, ha subordinato il pagamento del residuo del prezzo all’estinzione
dell’ipoteca ancora iscritta sull’immobile compravenduto da parte del promittente alienante. Cass., 21 ottobre 2011 n. 21896; Cass., 29 agosto 2011 n.
17717; Cass., 23 febbraio 2001 n. 2661, in Giur. it., 2001, 1824, con nota di
Corriero.
Sulla possibilità di soddisfare il venditore in sede di esecuzione in forma
specifica non già mediante l’esecuzione dell’accollo del mutuo ma mediante la
corresponsione in denaro dell’importo corrispondente Cass., 24 giugno 1993,
n. 6990, in Mass. Giust. civ., 1993, 1073; contra Cass., 6 agosto 1990, n.
7907, in Giur. it., 1991, I, 1, 7971, in applicazione del principio di non modificabilità del contratto preliminare. Nonché, sull’impossibilità da parte del debitore di scegliere l’imputazione del pagamento ad una modalità piuttosto che
un’altra di pagamento (denaro o accollo) poiché, trattandosi comunque di
prezzo dell’immobile, la facoltà di scelta è preclusa essendo l’istituto
dell’imputazione previsto per pluralità di crediti tra le stesse parti aventi causa e titolo diversi Cass., 23 marzo 1998, n. 3077, in Mass. Giust. civ., 1998,
644.
Sulla esclusione di interessi legali sul corrispettivo laddove la mancata stipula del definitivo sia dovuta a colpa del promittente venditore, si veda Cass.,
23 maggio 2012, n. 8171, in Mass. Giust. civ., 2012, 5, 660; App. Roma, 3
ottobre 2011, in Guida dir., 2011, 47, 83. Sulla esclusione della rivalutazione
automatica del prezzo si veda Cass., 20 luglio 2013, n. 15546, in Mass. Giust.
civ., 2013; Cass., 18 luglio 2011, n. 15734, in Mass. Giust. civ., 2011, 7-8,
1081; Cass., 14 marzo 1998, n. 2441, in Mass. Giust. Civ., 1998, 3; nonché
in termini Cass., 14 marzo 1988, n. 2441, inedita; sul fondamento di tale indicazione, ritrovato nel principio di identità del bene tra preliminare e definitivo si veda Cass., 25 febbraio 2003, n. 2824, in Riv. not., 2004, II, 222.;
Cass., 20 gennaio 2010, n. 937, in juris data.
4. LA DOTTRINA
4.1. La natura della convenzione di accollo
Sulla differenza rispetto all’accollo esterno, si vedano R. CICALA, Accollo
(dir. priv.), in Enc. dir., I, Milano, 1958, passim.; RESCIGNO, Studi sull’accollo,
Milano, 1958, 142; ID., Accollo, in Dig. civ., I, Torino, 1980, 40 ss.; LA PORTA,
L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu-Messineo, diretto da Mengoni e
cont. da Schlesinger, Milano, 2009, 223, in nota 64, secondo cui l’accollo di
mutuo è solo un modo di atteggiarsi dell’obbligo di pagare il prezzo di vendita
848
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786
per effetto della specifica deviazione operata dal venditore stipulante. Di talché, laddove tale deviazione sia divenuta inefficace, l’acquirente resta comunque obbligato al pagamento del prezzo verso il venditore. Si veda anche
PICCININI, L’atto di adesione del creditore all’accollo esterno privativo tra criteri interpretativi e produzione in giudizio dell’accordo, in Giur. mer., 2011, 10,
2366, in nota a Trib. Bologna, 28 giugno 2010, 1909.
4.2. Sul collegamento negoziale
Si esprimono nel senso del collegamento negoziale ROPPO, Il contratto, in
Tratt. dir. priv., a cura di Iudica Zatti, Milano, 2011, 353 ss.; QUATRARO, DIMUNDO, La verifica dei crediti, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, 4, 144; TAFURI,
Fideiussione ed assunzione del debito altrui, in Riv. not., 6, 1996, 1417; contra BISCONTINI, Assunzione del debitore garanzia del credito, Napoli, 1993, 58
secondo cui l’accollo si configura come una vicenda modificativa che non realizza alcuna causa ulteriore rispetto all’assunzione del debito altrui.
4.3. Il rilievo della disciplina degli immobili da costruire
FERRUCCI, FERRENTINO, AMORESANO, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, Milano, 2008, 168 ss. Specificamente sui riflessi della disciplina ed accollo del mutuo fondiario si vedano Morano, CHIAIA,
Problemi critici dell’accollo di credito fondiario e riflessi nel bilancio d’esercizio
dell’impresa costruttrice, in Riv. not., 2005, 1, 1 ss. i quali sottolineano criticamente come nella prassi la concessione dell’accollo da parte dell’istituto di
credito avviene generalmente in via cumulativa e non liberatoria; TORRONI, Il
D.lgs. n. 122 del 2005 letto con la lente del costruttore, in Riv. not., 2007, 4,
879 ss. Sulla necessità di una fideiussione che contempli anche le somme
rimborsate dal promissario acquirente al promittente venditore a scadenza
delle rate di mutuo si vedano PAOLINI, RUOTOLO, Alcuni aspetti problematici nel
decreto legislativo in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire,
in Riv. not., 2005, 4., 887; RIZZI, La nuova disciplina di tutela dell’acquirente
di immobili da costruire nella bozza di decreto legislativo di attuazione della
legge delega 210/2004, in Notariato, 2005, 443; più in generale sull’obbligo
legale di fideiussione si vedano ORLANDO, La tutela dei diritti patrimoniali degli
acquirenti di immobili da costruire, in Contratti, 2011, 661; DI ROSA, Circolazione immobiliare e contrattazione preliminare, in Riv. dir. civ., 2011, 107;
DELLE MONACHE, La garanzia fideiussoria negli acquisti di immobile da costruire
(fra obbligo e onere), in Resp. civ. prev., 2009, 613; PALERMO, La tutela dei
diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, in Giust. civ.,
2008, I, 319.
4.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium
Sulla buona fede come criterio di individuazione del contenuto della prestazione si veda in particolare RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto,
Milano, 1969, 160 ss. E per la distinzione rispetto alla diligenza, che è misura
della responsabilità, si vedano ALPA, Pretese del creditore e normative di cor-
Rassegna Forense - 3-4/2014
849
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Massimo D’Auria
rettezza, in Riv. dir. comm., 1971, I, 287; FERRANDO, Criteri di diligenza e
clausola di buona fede, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 835.
Sul rapporto tra distribuzione del rischio ed interpretazione secondo buona
fede si vedano COSTANZA, Profili dell’interpretazione del contratto secondo
buona fede, Milano, 1989, 111 ss.; ID., Interpretazione dei negozi di diritto
privato, in Dig. civ., X, Torino, 1993, 25 ss.; D’ANGELO, Contratto e operazione economica, Torino, 1992, 233. Per una ricognizione generale del significato del divieto di venire contra factum proprium FESTI, Il divieto di venire contro il fatto proprio, Milano, 2007, 19, 84; SCARSO, Venire contra factum proprium e responsabilità, in Resp. Civ. prev., 2009, 3, 513 ss.; CATTANEO, Buona
fede obiettiva ed abuso del diritto, in Riv. trim dir. proc. civ., 1971, 636, 637
segnala l’esigenza di fattispecie tipiche che orientino la valutazione di coerenza dei comportamenti a fini giudiziali. Sulla complessità della valutazione della buona fede e sulla idoneità ad accogliere il giudizio di non contraddizione o
dovere di coerenza, si veda RESCIGNO, Rimeditazioni sulla buona fede: omaggio ad Alberto Burdese, in GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica e storica contemporanea, IV, Padova, 2003,
567. ASTONE, Venire contra factum proprium, Napoli, 2006, 59; rispetto ad ulteriori indici ermeneutici SICCHIERO, L’interpretazione del contratto ed il principio “nemo contra factum proprium venire potest”, in Contr. Impr., 2003, 507
ss., spec. 511 e 517. Più in generale sul rapporto con il tema
dell’interpretazione contrattuale, si veda CAPODANNO, L’interpretazione del
contratto, Padova, 2006, 85 ss.
4.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva
Sul concetto di offerta ex art. 2932, comma 2, c.c., si veda Rossi, Offerta
di adempimento e sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., in Obbl. e Contr.,
2009, 8-9, 722; Mastrandrea, Esecuzione in forma specifica ed offerta di
adempimento della contro-prestazione, in Contratti, 2011, 2, 136; Tagliaferri,
Promessa di vendita ed esigibilità della controprestazione, in Contratti, 2002,
7, 660, nonché A. Venturelli, L'ambito di operatività dell'art. 2932, 2° co.,
c.c.: la «esigibilità» della prestazione, in Obbl. e Contr., 2011, 1, 40.
Sul tema dell’inammissibilità di automatica rivalutazione si veda Santarsiere, Sentenza dichiarativa degli effetti del preliminare di vendita. Non è inficiata dalla nullità formale di esso né tiene conto della rivalutazione del prezzo, in Giur. mer., 2012, 5, 1061.
850
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
279. Sulla natura di giudice speciale del Consiglio nazionale forense e sulla riserva di legge in materia, con conseguente
inammissibilità di operazioni di “delegificazione”.
Cass. civ., SS.UU., sentenza 29 maggio 2014, n. 12064 - Primo Pres.
f.f. MIANI CANEVARI - Pres. sez. ROSELLI - Pres. sez. RORDORF - Rel. SAN
GIORGIO
Il Consiglio Nazionale Forense (C.N.F.), quale organo di giustizia
disciplinare, è un giudice speciale, istituito con il d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione. Ne consegue che la disciplina della funzione giurisdizionale del C.N.F. è coperta, anche per quanto attiene al momento della formazione
dell’organo, da riserva assoluta di legge ex art. 108, primo comma,
Cost., e non può essere affidata alla regolamentazione governativa,
ragion per cui l’art. 3, comma 5, lett. f), del d.l. 13 agosto 2011, n.
138 - in forza del quale con apposito regolamento vanno istituiti a livello territoriale separati organi per l’esercizio delle funzioni amministrative e disciplinari - non si applica al C.N.F. nella sua veste di organo disciplinare.
FATTO
1.- Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza depositata il 22 aprile
2013, ha rigettato il ricorso proposto dall’avv. M. G.K. avverso la decisione
del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Pisa che le aveva inflitto la sanzione
disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per un anno in
relazione a due procedure disciplinari, l’una relativa all’acquisizione di pagamenti da un cliente in difetto di alcuna attività professionale, l’altra per negligenza nella conduzione di un procedimento di divorzio.
Con riguardo, in particolare, per quanto rileva nella presente sede, alla
censura avente ad oggetto il vizio di costituzione del giudice per effetto del
D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, conv., con modif., nella L. n. 148 del
2011, che ha autorizzato la emanazione di un regolamento governativo per la
riforma degli ordinamenti professionali, prevedendo, tra l’altro, un organo nazionale di disciplina diverso da quello avente funzioni amministrative - regolamento adottato con D.P.R. n. 137 del 2012 - il C.N.F. ha escluso che le predette disposizioni siano applicabili ad esso, che opera n veste di giudice speciale, ed è, quindi, soggetto a riserva assoluta di legge ai sensi dell’art. 108
della Costituzione, con conseguente irrilevanza anche della questione di legittimità costituzionale del R.D. n. 1578 del 1933, art. 54, eccepita dalla ricorrente, questione peraltro ritenuta manifestamente infondata nel merito, avuto riguardo alla terzietà ed imparzialità del C.N.F., riconosciuta anche dalla
Corte costituzionale.
Rassegna Forense - 3-4/2014
851
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Natura di giudice speciale del Consiglio nazionale forense
2. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’avv. M. G. sulla base di tre
motivi. Resiste con controricorso il COA di Pisa, che ha anche depositato memoria illustrativa.
DIRITTO
1. - Con la prima doglianza si deduce “violazione di legge:
violazione del D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, lett. f), - violazione
del D.P.R. n. 137 del 2012, art. 8, comma 7, - nullità del processo per vizio di
costituzione e/o capacità del giudice - incompetenza del giudicante - incompatibilità del giudice adito - violazione dei principi di terzietà ed imparzialità
del giudice - violazione dell’art. 111 della Costituzione”. Si censura la decisione adottata dal CNF sul punto della contestata nullità del processo per vizio di
costituzione e/o capacità del giudice. Richiamato il tenore del D.L. n. 138 del
2011, art. 3, comma 5, conv. in L. n. 148 del 2011, il quale ha stabilito
l’obbligo di riformare gli ordinamenti professionali entro dodici mesi dalla data
di entrata in vigore dello stesso decreto-legge mediante lo strumento del decreto del Presidente della Repubblica ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400,
art. 17, comma 2, (adottato con d.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, recante riforma degli ordinamenti professionali), e ricordata, in particolare, il citato art. 3,
comma 5, lett. f), - a norma del quale gli ordinamenti professionali devono
prevedere l’istituzione di organi a livello territoriale diversi da quelli aventi
funzioni amministrative, ai quali vanno specificamente affidate l’istruzione e
la decisione delle questioni disciplinari e di un organo nazionale di disciplina la difesa della ricorrente rileva che il CNF ha omesso di adottare il regolamento che avrebbe dovuto, alla stregua della invocata normativa, separare stabilmente le funzioni dei propri componenti. Si sottolinea nel ricorso la erroneità della tesi al riguardo sostenuta nella sentenza impugnata, là dove essa afferma che il predetto D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, riguarderebbe
solo i Consigli Nazionali operanti in veste amministrativa, e non quelli che,
come il CNF, operano quali giudici speciali, garantiti da riserva assoluta di
legge. Secondo la difesa della ricorrente, invece, la norma richiamata,
nell’imporre la separazione tra funzione disciplinare e funzione di amministrazione degli Ordini professionali, si rivolge in modo indifferenziato ad ogni consiglio locale e nazionale di ciascuna professione, con la sola esclusione di
quella sanitaria. Tale previsione non contrasterebbe con la riserva di legge di
cui all’art. 108 Cost., essendo stato il principio della incompatibilità della funzione giurisdizionale con quella amministrativa del giudicante dell’Ordine professionale stabilito in una norma di legge, andata ben oltre il principio di delegificazione nel perseguire obiettivi primari e comuni ai diversi contesti professionali. Del resto, anche a voler ammettere che illegittimamente, perché in
contrasto con la riserva assoluta di legge di cui all’art. 108 Cost., si sia realizzato un trasferimento della disciplina della materia de qua dalla sede legislativa a quella regolamentare, si dovrebbe comunque giungere alla conclusione
che il CNF, nella specie, non avrebbe potuto che adeguarsi al disposto normativo in attesa di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale del D.L.
n. 138 del 2011, per contrasto con l’art. 108 Cost.
2. - La doglianza risulta immeritevole di accoglimento.
852
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
2.1. - Come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (v., di recente,
Cass. S.U., sent. n. 27268 del 2013, e, in precedenza, Cass., S.U., sentt. n.
16349 del 2010, n. 1732 del 2002), e dalla stessa Corte costituzionale (sent. n.
114 del 1970; arg. altresì ex sent. n. 284 del 1986, pur pronunciata con riguardo al Consiglio nazionale dei geometri), il Consiglio Nazionale Forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale, istituito con
D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione.
Le norme che concernono il predetto Organo, nel disciplinare la nomina
dei componenti dello stesso ed il procedimento che innanzi ad esso si svolge,
assicurano, per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al
secondo, della osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento
del P.M., il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto
organo in tale materia con riguardo alla garanzia del diritto di difesa e
all’indipendenza del giudice, che consiste nella autonoma potestà decisionale,
non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza. Né sul requisito in esame può influire la circostanza che i componenti
del Consiglio Nazionale Forense appartengano all’ordine di professionisti nei
confronti dei quali il detto organo deve esercitare le sue funzioni, poiché il
tratto caratteristico della c.d. giurisdizione professionale è dato proprio dalla
vasta partecipazione - anche indiretta tramite il sistema elettivo, garanzia di
per se stesso della democraticità del sistema e costituzionalmente legittimo
(cfr. art. 106 Cost., comma 2) - dei medesimi soggetti appartenenti alla categoria interessata, partecipazione che è giustificata dalla specifica idoneità
dei singoli componenti il Collegio a pronunziarsi nella materia disciplinare, attinente, in sostanza, alle regole di deontologia professionale che l’Ordine ha
ritenuto di dare a se stesso ed ai propri appartenenti riconoscendone la validità e la conformità alla communis opinio in un determinato momento storico
ed in un determinato contesto sociale.
2.2. - Ne consegue che la disciplina della funzione giurisdizionale del CNF,
anche per quanto attiene al momento della formazione dell’organo, è coperta
da riserva assoluta di legge ex art. 108, primo comma, della Costituzione, e
non può essere affidata alla regolamentazione governativa.
Deve, dunque, concludersi che il D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5,
lett. f), non trova applicazione con riferimento al CNF nella sua veste di organo disciplinare. Non a caso la legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, all’art. 34, nel regolare la composizione del predetto Organo, richiama il R.D.L. n. 1578 del
1933, art. 52 e segg., e il R.D. n. 37 del 1934, art. 59 e segg., e, all’art. 38,
che disciplina la eleggibilità e le incompatibilità dei componenti del CNF, non
opera alcun riferimento alla separazione delle funzioni amministrative da
quelle giurisdizionali.
3. - Le considerazioni svolte sub 2.1. danno altresì conto della manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata, in riferimento all’art. 111 Cost., commi 1 e 2, con il secondo motivo di ricorso, degli
artt. da 52 a 56, e, segnatamente, del R.D. n. 1578 del 1933, art. 54, e
del D.Lgs.Lgt. n. 382 del 1944, artt. 14 e 21, per la mancata esclusione del
Rassegna Forense - 3-4/2014
853
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Natura di giudice speciale del Consiglio nazionale forense
congiunto esercizio delle funzioni giurisdizionali ed amministrative in capo
ai componenti del C.N.F. Secondo la difesa della ricorrente il Consiglio Nazionale Forense sarebbe un giudice privo dei requisiti della terzietà e della imparzialità.
Al riguardo, oltre a quanto già supra rilevato, giova richiamare quanto
chiarito con la sentenza n. 284 del 1986, con riguardo, in via generale, alle
giurisdizioni “professionali”, dalla Corte costituzionale, che, in detta occasione, ebbe ad osservare, tra l’altro, che la giurisdizione professionale è conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati e che, in particolare, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, chiamata ad esaminare il medesimo problema (pur
se, naturalmente, rispetto a una fonte normativa diversa e cioè all’art. 6, par.
1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, ratificata in Italia con L. 4 agosto 1955 n. 848), aveva
riconosciuto, rispetto ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei medici
belgi, la sussistenza del requisito dell’indipendenza degli organi della giurisdizione professionale (sent. 23 giugno 1981, nel caso Le Compte, Van Leuven,
De Meyere e sent. 10 febbraio 1983, nel caso Albert e Le Compte). Di tali decisioni il giudice delle leggi ricordò anche l’importante notazione, indubbiamente da condividere, che i membri dei collegi professionali partecipano al
giudizio non già come rappresentanti dell’ordine professionale, e quindi in
una posizione incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale, bensì a titolo personale e perciò in una posizione di terzietà, analogamente a tutte le magistrature.
Nella medesima sentenza la Corte chiarì anche che sulla legittimità costituzionale della normativa non poteva incidere la circostanza della spettanza
in capo al Consiglio anche delle funzioni amministrative. In proposito - osservò il giudice delle leggi - non è pertinente la giurisprudenza costituzionale che
ha ritenuto l’illegittimità di alcune giurisdizioni speciali a causa della coesistenza nello stesso organo di funzioni giurisdizionali e amministrative (cfr.
sentt. n. 60 del 1969; n. 121 del 1970; n. 128 del 1974). Invero, secondo
detta giurisprudenza, non è la semplice coesistenza delle due funzioni che
menoma l’indipendenza del giudice (come la Corte ha espressamente ribadito
nella sent. 73/1970), bensì il fatto che, nelle ipotesi considerate dalle decisioni suddette, le funzioni amministrative erano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, sicché era immanente il rischio che il potere dell’organo superiore potesse indirettamente estendersi
anche alle funzioni giurisdizionali e potesse così in definitiva pregiudicare altresì l’indipendenza del giudice.
Nella fattispecie, al contrario, le funzioni amministrative sono esercitate
dal Consiglio senza che sussista un rapporto di subordinazione verso alcun altro soggetto e quindi in piena autonomia: con la evidente conseguenza che la
loro coesistenza con quelle giurisdizionali non importa il rischio sopra menzionato e pertanto non incide sull’indipendenza del Consiglio stesso.
4. - Con il terzo motivo si denuncia la violazione del D.P.R. n. 247 del
2012, artt. 56, 59 e 65, eccependosi la prescrizione con riferimento al procedimento disciplinare n. 4 del 2007. In relazione a tale procedimento, si rileva
che l’incarico alla ricorrente fu conferito l’8 ottobre 2002, e che, nel mese di
854
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
agosto del 2004 e nel mese di aprile del 2005, il mandante, in considerazione
dei dubbi nutriti sul corretto operato della professionista, registrò due colloqui
con la stessa. Dall’8 ottobre del 2002, ma anche dalla data della registrazione
dell’agosto 2004, la ricorrente ritiene ampiamente violati i termini di cui
all’art. 56, in combinato disposto con il D.P.R. n. 247 del 2012, art. 65, avuto
riguardo alla data del deposito della decisione del CNF, intervenuto il 22 aprile 2013.
5. - La censura è inammissibile.
Non chiarisce il ricorso la ragione per la quale dovrebbe aversi riguardo, ai
fini in esame, alla prima e non già alla seconda delle registrazioni dei colloqui
intercorsi tra la professionista ed il cliente, posto che la condotta denunciata
era proseguita anche fino all’aprile del 2005 (data della seconda registrazione). In tal modo, la doglianza rimane generica sulla indicazione della data
dalla quale dovrebbe decorrere nella specie il termine prescrizionale.
Per di più, la genericità investe l’ulteriore profilo della mancata indicazione
delle date della interruzione del periodo da considerare ai fini della prescrizione.
6. - Il ricorso deve, conclusivamente, essere rigettato. Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, devono, in applicazione del criterio della soccombenza, essere poste a carico della ricorrente. Risultando
dagli atti che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento
del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui all’art.
13, comma 1 quater, del testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato Legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4200,00, di cui Euro
200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il
17 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2014.
Rassegna Forense - 3-4/2014
855
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Stefania Gentile
Nota a sentenza di Stefania Gentile
GIURISDIZIONE SPECIALE E RIFORMA DELLE
PROFESSIONI: LE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE
CONFERMANO LA GIURISDIZIONE SPECIALE DEL
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
I FATTI
La vicenda da cui scaturisce la sentenza in commento trae origine da due
distinti procedimenti disciplinari - poi riuniti davanti al CdO di Pisa - a carico
di un Avvocato, aventi ad oggetto il primo l’acquisizione da parte del professionista di pagamenti da un cliente in difetto di attività professionale, e il secondo la condotta negligente dell’Avvocato nella conduzione di un procedimento di divorzio.
Il CdO di Pisa, con decisione del 30 maggio del 2008, irrogava la sanzione
della sospensione di un anno dall’esercizio della professione forense
all’incolpato che ricorreva dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, avanzando
preliminarmente due eccezioni e questioni pregiudiziali che investivano la giurisdizione speciale dello stesso CNF.
Con sentenza depositata il 22 aprile 2013, il Consiglio confermava la sanzione della sospensione di un anno dall’esercizio della professione a carico
dell’incolpato, il quale ricorreva davanti alla Corte di Cassazione.
1
Veniva nuovamente dedotta la presunta violazione dell’art. 3, comma 5 ,
lett. f), D.L. n. 138/2011 - Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo - convertito in Legge n. 148/2011, che stabilisce il
principio in base al quale gli ordinamenti professionali devono prevedere
l’istituzione di organi a livello territoriale diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali vanno affidate l’istruzione e la decisione delle questioni
disciplinari, nonché l’istituzione di un organo nazionale di disciplina diverso da
quello avente funzioni amministrative, e dell’art. 8, comma 7, D.P.R. n.
2
137/2012, che ha previsto l’istituzione dei consigli nazionali di disciplina .
Secondo la ricostruzione offerta dal ricorrente l’art. 3, comma 5, lett. f),
del D.L. citato sarebbe rivolto, in modo indifferenziato, ad ogni Consiglio
1
Che ha stabilito l’obbligo di riformare gli ordinamenti professionali entro dodici mesi dalla data
di entrata in vigore dello stesso decreto-legge attraverso lo strumento del D.P.R. (ai sensi della
Legge 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 2).
2
In argomento E. VENEZIANI, Il nuovo sistema disciplinare alla luce della riforma degli ordinamenti professionali (Commento a art. 8 d.p.r. 7 agosto 2012, n. 137), in Corriere trib., 2012, f. 37,
2840-2841.
856
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Giurisdizione speciale e riforma delle professioni
locale e nazionale di ciascuna professione, con la sola esclusione di quella
sanitaria.
Conseguentemente con l’entrata in vigore del D.P.R. n. 137/2012 - che
all’art. 8, comma 8, così prescrive: «I consiglieri dei consigli nazionali dell'ordine o collegio che esercitano funzioni disciplinari non possono esercitare funzioni amministrative. Per la ripartizione delle funzioni disciplinari ed amministrative tra i consiglieri, in applicazione di quanto disposto al periodo che precede, i consigli nazionali dell'ordine o collegio adottano regolamenti attuativi»
- tutte le norme dei vari ordinamenti professionali incompatibili con lo stesso
(tra cui l’art. 52, R.D. n. 1578/1933 e gli artt. 14 e 21, D.Lgs.Lgt. n.
382/1944) dovevano essere ritenute abrogate, e il CNF avrebbe dovuto adottare un regolamento attuativo volto a separare stabilmente le funzioni dei
propri componenti.
Il ricorrente eccepiva, pertanto, la nullità del processo dinanzi al Consiglio
per vizio di costituzione e/o di capacità del giudice determinato dal sopravvenire, dopo la proposizione del ricorso, della produzione normativa sopradetta,
che ha avuto l’effetto di innovare il quadro nell’ambito del quale deve svolgersi il giudizio disciplinare.
Tutti i componenti del Consiglio, secondo l’incolpato, avrebbero dovuto essere ritenuti incompatibili a svolgere la funzione giurisdizionale, e mancando
l’organo competente ad esercitare i poteri disciplinari, la funzione per esso
prevista non poteva essere lecitamente surrogata da un organo diverso, e
non più previsto dalla legge: il CNF avrebbe dovuto, pertanto, dichiarare la
propria irregolare costituzione.
Con la seconda eccezione il ricorrente, desumendo una presunta violazione dell’art. 111 della Costituzione in materia di giusto processo, sollevava dinanzi alla Corte di Cassazione questione di legittimità costituzionale delle
norme dell’ordinamento forense, in particolare dell’art. 54, R.D. n. 1578/1933
e degli artt. 14 e 21, D.Lgs.Lgt. n. 382/1944, per la mancata esclusione del
congiunto esercizio delle funzioni giurisdizionali ed amministrative in capo ai
componenti del CNF: l’art. 3, comma 5, lett. f), D.L. n. 138/2011 disporrebbe
anche con riferimento all’Organo nazionale dell’Avvocatura l’incompatibilità
tra le due sopradette funzioni.
La Corte di Cassazione - nella sua massima articolazione delle Sezioni Unite - con la sentenza del 29 maggio 2014, n. 12064 3 ha ritenuto entrambe le
doglianze sollevate nel ricorso inammissibili.
Il dato più interessante è che il Giudice di legittimità non solo ha chiarito
ancora una volta l’orientamento già espresso in diverse occasioni dalla propria giurisprudenza sulla funzione giurisdizionale del CNF, ribadendone la piena legittimazione, ma ha precisato che la funzione giurisdizionale del Consiglio Nazionale Forense non può essere oggetto di delegificazione in quanto la
Costituzione impone la riserva assoluta di legge con riferimento alla disciplina
delle giurisdizioni.
3
Questa come le altre sentenze della Corte di Cassazione richiamate nella nota sono state reperite all’interno della banca dati Dejure.
Rassegna Forense - 3-4/2014
857
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Stefania Gentile
LA GIURISDIZIONE SPECIALE DEL CNF
Con la sentenza in commento la Cassazione ha statuito che il Consiglio
Nazionale Forense, quale organo di giustizia disciplinare, è un giudice speciale
istituito con D.Lgs. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente
operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costitu4
zione .
5
Non è la prima volta che la giurisprudenza si esprime in tal senso .
Con la pronuncia n. 27268 del 5 dicembre 2013, i giudici di legittimità
avevano già avuto modo di chiarire che le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano - per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell'osservanza delle
comuni regole processuali e dell'intervento del P.M. - il corretto esercizio della
funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all'indipendenza del giudice e alla
6
sua all'imparzialità .
7
Con una sentenza precedente la Cassazione aveva, inoltre, riferito sulla
terzietà del Consiglio Nazionale Forense, assicurata dalla sua autonoma potestà decisionale e non condizionata da interferenze dirette o indirette di qualsiasi provenienza: il requisito della terzietà del giudice non può essere messo
in discussione dalla circostanza che i componenti del CNF appartengono
all’ordine dei professionisti nei confronti dei quali l’organo esercita le sue funzioni, in quanto la particolare connotazione della c.d. giurisdizione professionale dipende proprio dalla partecipazione all’interno di essa dei professionisti,
giustificata dalla idoneità di questi soggetti a giudicare disciplinarmente le
violazioni deontologiche che la stessa categoria ha previsto.
4
«Il termine per la revisione delle giurisdizioni speciali, stabilito dalla sesta disposizione transitoria della Costituzione, ha natura meramente ordinatoria e, anche dopo la scadenza di esso, è costituzionalmente legittimo il funzionamento degli organi di giurisdizione speciale, preesistenti alla
Costituzione, per i quali non si sia provveduto alla revisione legislativa», così Cass., SS.UU., sentenza n. 109/1970. La Corte costituzionale con la sentenza n. 284/1986 ha confermato che il termine previsto per la revisione delle giurisdizioni speciali non è da considerare perentorio (questa come
le altre sentenze della Corte cost. richiamate nella nota sono reperibili al seguente indirizzo
http://www.cortecostituzionale.it). Sul punto vedasi anche Corte cost. sentenza n. 189/2001, con
nota di G. COLAVITTI, La legittimazione a sollevare questione di costituzionalità e il principio pluralista. L’esercizio della professione di avvocato da parte di dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a
tempo parziale: un approccio dubbio al tema del conflitto d’interessi, in Giur. cost., 2001, f. 4,
2647-2659. In giurisprudenza circa la natura di giudice speciale precostituzionale del CNF si veda
Cass., SS.UU., sentenza n. 11833/2013.
5
In dottrina, tra i molti contributi sulla competenza giurisdizionale del CNF, si veda U. PERFETTI,
Ordinamento e deontologia Forensi, Padova, 2011, 53 ss., e ID., Il disciplinare del Consiglio Nazionale Forense dopo la legge di riforma, in Prev. for., 2014, n. 1, 40 ss.; R. M. CREMONINI-A. SCHILLACI,
Il Consiglio Nazionale Forense, in Riforma Forense, Officina del Diritto (collana), a cura di G. Colavitti-G. Gambogi, Padova, 2013, 81 ss. Sul requisito di indipendenza del CNF quale garanzia del
corretto esercizio della funzione giurisdizionale, si veda Codice Commentato della deontologia Forense, a cura di F. Caia-A. G. Diana-V. Pecorella, Torino, 2012, 91.
6
In tal senso si veda anche Cass., SS.UU., sentenza n. 1732/2002 e Cass., SS.UU., sentenza n.
185/1992.
7
Cass., SS.UU., sentenza n. 16349/2010.
858
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Giurisdizione speciale e riforma delle professioni
Sotto questo profilo rilevano, certamente, le concrete modalità di scelta
dei componenti dell’organo giudicante al quale, nell’iter disciplinare, è attribuito un notevole margine di giudizio destinato al controllo del provvedimento
sanzionatorio del COA.
Secondo la normativa previgente, ma anche alla luce della riforma
dell’ordinamento professionale di cui alla Legge n. 247/2012, il meccanismo
di elezione dei componenti del CNF integra un sistema idoneo a selezionare
soggetti il cui profilo è svincolato da condizionamenti e da interferenze
nell’esercizio della funzione giurisdizionale, basato sull’elezione dei componenti dei COA, riuniti su base distrettuale, e a loro volta eletti dagli iscritti
all’Albo.
L’origine elettiva del CNF non determina alcun rapporto di dipendenza con
le parti in causa, giacché la composizione collegiale dell’organo giudicante
esclude qualsiasi attentato all’imparzialità nei confronti dell’elettore, garan8
tendone l’indipendenza e l’autonomia .
Anche il Giudice delle Leggi si è più volte pronunciato sulla giurisdizione
speciale dei Consigli Nazionali, quando giudicano in materia disciplinare: così
nella sentenza n. 114/1970, ove è stato affermato che il CNF, a differenza dei
singoli Consigli dell’Ordine, svolge, quando è chiamato a decidere sui ricorsi
contro i provvedimenti adottati dai COA, funzione giurisdizionale per la tutela
di un interesse pubblicistico, esterno e superiore a quello dell’interesse del
gruppo professionale; nella sentenza n. 12/1971, ove la Corte con riferimento
alla sezione disciplinare del CSM, ha avuto modo di precisare che il fatto di
dover giudicare su soggetti appartenenti alla stessa categoria professionale
non comporta, di per sé, l’incostituzionalità della giurisdizione disciplinare;
nella sentenza n. 284/1986, che se pur pronunciata con riguardo al Consiglio
nazionale dei geometri, ha statuito in via generale sulle giurisdizioni profes9
sionali (riconoscendo la natura giurisdizionale a quelle - come il CNF - anteriori alla Costituzione repubblicana), sulla legittimità del criterio elettivo costituzionalmente previsto dall’art. 106, comma 2, Cost., sulla possibilità di rielezione dei singoli componenti, sull'appartenenza degli stessi alla categoria professionale interessata, sulle modalità di funzionamento del procedimento siccome improntato al modello del processo civile; nella sentenza n.
10
189/2001 , in cui il Giudice delle Leggi ha riconosciuto in capo al CNF la qualità di giudice speciale e terzo anche all’atto di sottoporre questioni di legittimità costituzionale in relazione a norme di necessaria applicazione in processi
11
pendenti di fronte ad esso .
8
Così Cass., SS.UU., sentenza n. 17064/2011.
Nella pronuncia richiamata il Giudice delle Leggi ha avuto modo di osservare, peraltro, che la
giurisdizione professionale è conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati.
10
Sul punto vedasi la nota a sentenza di G. COLAVITTI, La legittimazione a sollevare questione di
costituzionalità e il principio pluralista. L’esercizio della professione di avvocato da parte di dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale: un approccio dubbio al tema del conflitto
d’interessi, sopra cit.
11
Sul CNF nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e nella giurisprudenza costituzionale,
si veda G. ALPA, L'illecito deontologico e il procedimento disciplinare nell'ordinamento della professione forense, in Nuova giur. civ. comm., 2014, f. 4, 188 ss.
9
Rassegna Forense - 3-4/2014
859
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Stefania Gentile
Tanto premesso, le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza in
commento hanno ritenuto che la prima doglianza del ricorrente sulla presunta
violazione dell’art. 3, comma 5, lett. f) D.L. n. 138/2011, e sulla presunta
violazione dell’art. 8, comma 7, D.P.R. n. 137/2012 fosse immeritevole di accoglimento: il CNF è “giudice speciale” ai sensi e per gli effetti del combinato
disposto della VI disp. trans. Cost. e dell’art. 102 Cost., sicché la disciplina
che ne regola la composizione e le funzioni giurisdizionali è soggetta a riserva
assoluta di legge ex art. 108 della Carta Costituzionale secondo cui «le norme
sull’ordinamento giudiziario e su ogni altra magistratura sono stabilite con
12
legge» .
La norma costituzionale prevede, pertanto, una tipica ipotesi di riserva assoluta di legge, con la necessaria conseguenza che la disciplina relativa alla
funzione giurisdizionale del Consiglio Nazionale Forense, anche per quanto attiene al momento della formazione dell’organo ossia alla sua composizione,
non può essere disciplinata né sottoposta alla regolamentazione governativa,
e quindi ad alcun procedimento di delegificazione.
Peraltro è la stessa norma che si assume violata nel ricorso, ovvero l’art.
8, comma 7, del Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali
a circoscrivere la portata dell’innovazione legislativa ai soli Consigli nazionali
che operano e decidono in via amministrativa.
La relazione ministeriale di accompagnamento al sopraddetto Regolamento conferma il quadro descritto nella parte in cui si legge che: «la norma primaria detta un criterio di delegificazione che non sembra tener conto della
natura della competenza disciplinare di quegli ordini professionali per i quali
le funzioni in materia disciplinare sono previste dal legislatore alla stregua di
una vera e propria competenza giurisdizionale (è il caso, a titolo di esempio,
degli architetti, degli avvocati, dei chimici, dei geometri, degli ingegneri, dei
periti industriali). È noto che le funzioni giudiziarie dei consigli nazionali sono
ritenute compatibili con la Costituzione per la conservazione delle giurisdizioni
speciali esistenti al 1° gennaio 1948. La Costituzione prevede che la materia
della giurisdizione non possa venir disciplinata se non ad opera della legge
ordinaria. Si tratta di una tipica ipotesi di riserva assoluta di legge prevista
dalla Costituzione, con la conseguenza che non può ritenersi che la previsione
di legge abbia abilitato il Governo a regolamentare anche le funzioni giurisdizionali dei Consigli dell’ordine nazionali, dovendosi concludere che il regolamento sia sprovvisto, a riguardo, di ogni potestà d’intervento. Corollario di
tale assunto è che la lettera f) dell’articolo 3, comma 5, del decreto legge 13
agosto 2011, n. 138, può riferirsi in effetti ai soli procedimenti disciplinari
12
Cfr. Cons. Naz. For., sentenza 18 luglio 2013, n. 111 e Cons. Naz. For., sentenza 22 aprile
2013, n. 63: queste come le altre pronunce CNF richiamate nella nota sono disponibili all’interno
della banca dati IPSOA (http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp). In arg. cfr. anche Cons. Naz. For.,
parere 10 aprile 2013, n. 30 sulla permanenza in capo agli Ordini della funzione disciplinare a seguito della complessa vicenda normativa determinata dalla successione temporale tra il processo di
delegificazione prefigurato dall’art. 3, comma 5, D.L. n. 138/2011 e realizzato dal D.P.R. n.
137/2012 e l’entrata in vigore della nuova legge professionale forense, disponibile all’interno della
banca dati IPSOA (http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp).
860
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Giurisdizione speciale e riforma delle professioni
rimessi alla competenza di consigli che decidono in via amministrativa (come
nel caso dei commercialisti ed esperti contabili: cfr. in Cass. n. 30785 del
2011)».
Sulla base delle considerazioni che precedono, con la sentenza n. 12064 le
Sezioni Unite hanno poi dichiarato la manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale - sollevata nel ricorso - di talune norme dell’ordinamento forense (art. 54, R.D. n. 1578/1933, artt. 14 e 21, D.Lgs.Lgt.
n. 382/1944) per presunta violazione dell’art. 111 della Carta Costituzionale.
L’effetto di incostituzionalità sarebbe scaturito, secondo la ricostruzione
offerta dal ricorrente, dall’art. 3, comma 5, lett. f), D.L. n. 138/2011, che
nell’ambito di un programma di riforma in materia di ordinamenti professionali ha disposto l’incompatibilità tra la carica di Consigliere nazionale e quella
di membro del Consiglio Nazionale di disciplina: il CNF si sarebbe, perciò,
avvalso di competenze tra loro eterogenee ed incompatibili che lo avrebbero
reso un giudice né terzo né imparziale, in violazione dei principi della legge.
Nella sentenza in commento il Giudice di legittimità ha stabilito che il richiamo all’art. 3, comma 5, lett. f), del D.L. citato è del tutto irrilevante, in
quanto la norma non è applicabile al Consiglio Nazionale Forense, la cui terzietà ed imparzialità è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza tanto ordinaria quanto costituzionale.
Si rammenti che nella sentenza n. 284/1986 il Giudice delle Leggi ha con13
fermato quell’orientamento della Corte Costituzionale secondo cui la speciale circostanza della coesistenza tra funzioni amministrative e giurisdizionali
non è idonea ad escludere, di per sé, il requisito dell’indipendenza dell’organo
giudicante (si pensi ad esempio al Consiglio di Stato o anche al CSM ed alla
sua sezione disciplinare).
Sostanzialmente la peculiare posizione di giudice speciale vale da sola ad
14
escludere condizionamenti da parte di organi amministrativi .
Peraltro è stata la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo a pronunciarsi
in materia di indipendenza della giurisdizione professionale, e ad affermare
che i membri dei collegi professionali partecipano al giudizio disciplinare non
già come rappresentanti dell’ordine professionale - e quindi in una posizione
incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale - bensì a titolo
personale, in una posizione di terzietà, analogamente a tutte le altre magi15
strature .
In conclusione non v’è dubbio alcuno sulla natura del Consiglio Nazionale
Forense: a confermare la sua giurisdizione speciale, in virtù del combinato
disposto dell’art. 102 Cost. e della VI disposizione transitoria della Cost., è
13
Così Corte cost. sentenza n. 73/1970.
In tal senso si veda Corte cost. sentenza n. 284 del 1986, cit.; Cass., SS.UU., sentenza 23
marzo 2005, n. 6213 in Dir. e giustizia, con nota di G. COLAVITTI; in senso conforme Cons. Naz. For.,
sentenza 10 giugno 2014, n. 87, 111/2013 cit., 63/2013 cit.
15
La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha esaminato il problema dell’indipendenza della giurisdizione professionale rispetto all’art. 6 della CEDU, riconoscendo la sussistenza del requisito con riferimento ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei medici belgi: cfr. Corte europea, sentenza
23 giugno 1981, Caso Le Compte, Van Leuven, De Meyere e Corte europea, sentenza 10 febbraio
1983, Caso Albert e Le Compte (reperibili al seguente indirizzo http://www.echr.coe.int/Pages/
home.aspx?p=home).
14
Rassegna Forense - 3-4/2014
861
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Stefania Gentile
stata recentemente anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea con la
16
sentenza del 17 luglio 2014, n. 58 , ove viene riconosciuto in capo al CNF nella sua veste di giudice - il diritto di adire la Corte attraverso lo strumento
del rinvio pregiudiziale, e ove viene evidenziato che l’Organo di rappresentanza nazionale dell’Avvocatura, istituito per legge e con carattere permanente, è soggetto a tutte le garanzie previste dalla Costituzione italiana, ed esercita le proprie funzioni in autonomia, senza vincoli di subordinazione nei confronti di alcuno.
16
La sentenza è disponibile in questa rivista a pag. 781; con particolare riferimento alla conferma della natura giurisdizionale del CNF da parte del Giudice europeo nella sentenza citata, si veda la nota a sentenza di Marina Chiarelli, Il sì della Corte alla via spagnola per diventare avvocati,
sempre in questa rivista a pag. 793.
862
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
280. Sull’ultrattività del mandato in caso di morte della parte.
Cass. civ., SS.UU., sentenza 4 luglio 2014, n. 15295 - Primo Pres. f.f.
ROVELLI - Pres. sez. ADAMO - Pres. sez. RORDORF - Rel. SPIRITO
La morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di
procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, comportano, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 cod. proc. civ., è idonea a far decorrere il termine per
l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; b) il medesimo procuratore,
qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione - ad
eccezione del ricorso per Cassazione, per cui è richiesta la procura
speciale - in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell’ambito del processo, tuttora in vita e capace; c) è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui,
ai sensi dell’art. 330, primo comma, cod. proc. civ., senza che rilevi la
conoscenza “aliunde” di uno degli eventi previsti dall’art. 299 cod.
proc. civ. da parte del notificante.
FATTO E DIRITTO
1. - La vicenda processuale e l’ordinanza di rimessione alle SU. T.N. ed
C.A.M. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte
d’appello di Bari, notificando l’impugnazione, il 26 marzo 2007, al procuratore
di D. M.R., deceduto il (omissis). Le conclusioni erano state rassegnate
nell’udienza del 5 ottobre 2005 e nell’udienza del 17 ottobre 2006 la causa
era stata discussa e rimessa al collegio per la decisione. Il D.M. è, dunque,
deceduto prima della pubblicazione della sentenza di appello, avvenuta il 28
dicembre 2006.
Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione civile e fissato per la
trattazione all’udienza del 20 marzo 2013. All’esito di quest’ultima, il Collegio
ha pronunciato ordinanza interlocutoria n. 10216, depositata il 30 aprile
2013, nella quale si è posta, preliminarmente, la necessità di esaminare se
l’invalidità che vizia il ricorso, indirizzato alla parte ormai defunta, presso il
suo procuratore, possa considerarsi sanata dalla costituzione degli eredi della
stessa.
In particolare, per un più preciso inquadramento dei presupposti di fatto
della rilevata problematica, l’ordinanza di rimessione ha premesso: a) che la
causa è iniziata con citazione notificata il 2 marzo 1990, dunque prima delle
modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla l. n. 353 del 1990, e successive
integrazioni; b) che D.M.R. è deceduto prima della pubblicazione della sentenza di secondo grado; c) che il ricorso è stato notificato al procuratore dello
stesso, pur dopo l’avvenuto decesso; d) che il controricorso delle parti che si
sono dichiarate eredi del de cujus è stato notificato prima del decorso del
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
termine c.d. lungo per l’impugnazione di legittimità, non risultando notificata
la sentenza di appello; e) che i controricorrenti hanno ritenuto di provare la
propria qualità di eredi mediante la produzione del certificato di morte del de
cujus, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la composizione del nucleo familiare del defunto e la rinunzia all’eredità da parte
della madre, moglie dello stesso.
Ciò posto, e ritenendo sussistere il vizio della vocatio in jus del ricorso (indirizzato ad un soggetto oramai defunto), l’ordinanza interlocutoria ha evidenziato che, fino ad epoca recente, costituiva principio consolidato che la
costituzione degli eredi della parte defunta avesse un effetto sanante: a) dalla notifica del controricorso - e quindi ex nunc - se effettuata nel vigore
dell’art. 164 c.p.c., anteriore alle modifiche operate con l. n. 353/1990 (sempre che fosse stato rispettato il termine lungo dalla pubblicazione della sentenza); b) dalla notifica del ricorso - e quindi ex tunc - se relativa alle cause
c.d. di nuovo rito (in argomento, sono citate, tra le varie, Cass. n. 776 del
2011; n. 23522 del 2010; n. 13395 del 2007; n. 7981 del 2007; n. 21550 del
2004; n. 6045 del 2003).
Ha però osservato che, con la statuizione delle Sezioni Unite del 13 marzo
2013, n. 6070, la soluzione - in termini di sanatoria - sopra prospettata è stata sostanzialmente rimessa in discussione, quale necessario portato logico
della dichiarata applicabilità dei principi successori nella fattispecie in cui,
all’estinzione di una società, a seguito di cancellazione, fossero sopravvissute
o sopravvenute delle entità patrimoniali non interessate dal procedimento liquidatorio. Sentenza nella quale s’è, infatti, affermato che la erronea evocazione in giudizio di una parte che non sia la “giusta parte” non comporta la
nullità della vocatio in jus, e quindi la conseguente possibilità di sanatoria a
seguito della costituzione della parte pretermessa, quanto piuttosto la inammissibilità del ricorso stesso, da dichiararsi anche di ufficio, dunque mettendo
sull’identico piano il vizio dell’atto con le conseguenze che da esso deriverebbero.
Secondo l’ordinanza interlocutoria in esame, tale affermazione sembrerebbe implicitamente presupporre che, nel caso sopra divisato, il vizio consista nella radicale inesistenza della vocatio in jus, tale dunque da non consentire l’applicazione della sanatoria prevista dall’art. 164 c.p.c., e, per logica
conseguenza, il ricorso che ne sia affetto sarebbe, sempre e comunque,
inammissibile.
La sezione è mossa dalla considerazione che nella decisione delle Sezioni
Unite appena riportata non si rinviene alcun cenno volto a restringere al caso
lì affrontato la sfera di applicazione della regula juris riferita; ne appare al
contrario una portata generale, dunque applicabile anche ai casi di successione di persone fisiche nel processo: questo, perché dalla decisione emergono
richiami a precedenti pronunce di legittimità, lì disattese, che trattavano
l’ipotesi di citazione di parti defunte con successiva costituzione degli eredi
(in particolare, SU n. 6070 del 2013 faceva riferimento a Cass. n. 7981 del
2007 ed a Cass. n. 13395 del 2007).
Il collegio della seconda sezione civile ha così ritenuto che la generalità
della conclusione sulla non applicabilità della sanatoria, contenuta nella sen-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
tenza n. 6070 del 2013, non abbia formato, di per sé, oggetto di intervento
regolatore di conflitti e la questione si presti perciò ad una nuova e diversa
valutazione da parte delle stesse Sezioni Unite: ciò nel senso di una conferma
della soluzione sinora adottata dalle sezioni semplici in materia di sussistenza
del vizio di nullità e della sua sanabilità.
Ad identica soluzione, peraltro, dovrebbe pervenirsi, ad avviso della medesima ordinanza, anche se si volesse ricostruire il vizio in termini di inesistenza della vocatio; cosa peraltro difficilmente ipotizzabile, stante la continuazione della personalità del defunto in quella dell’erede. Invero, tale pur
radicale vizio non comporterebbe, per sé, che all’atto non si possano ricollegare gli effetti cui era stato rivolto: non si potrebbe infatti negare rilevanza
alla costituzione della “giusta parte”, giacché tale costituzione soddisferebbe
comunque l’esigenza che al giudizio partecipino tutti i soggetti che avevano
diritto di esservi presenti, così dandosi applicazione, come riferimento interpretativo, al principio del c.d. giusto processo.
Per tali ragioni, quindi, la Seconda Sezione Civile ha ritenuto “... necessario un ulteriore intervento chiarificatore delle Sezioni Unite che precisi se i
principi affermati con la sentenza n. 6070/2013 espressamente in materia
societaria, comportanti la drastica sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione, siano del tutto estensibili anche alle vicende successorie delle persone
fisiche...”, ipotesi, questa, che - prosegue la citata ordinanza interlocutoria “... suscita notevoli perplessità segnatamente nei casi in cui - come nella specie - ad una impugnazione mal diretta, cui ha contribuito anche la mancata
dichiarazione dell’evento interruttivo nel giudizio a quo, abbia fatto seguito
l’instaurazione del contraddittorio con gli eredi della parte defunta, a seguito
della costituzione dei medesimi, in considerazione della quale l’impugnante,
pur essendo ancora nei termini per rinnovare utilmente il gravame, non vi
abbia provveduto, confidando nella giurisprudenza di legittimità, all’epoca di
gran lunga prevalente, che ravvisava l’intervenuta sanatoria in detta tempestiva costituzione...”, sicché, evidenziando “... la rilevante importanza della
questione, in quanto relativa a situazioni frequentemente riscontrabili
nell’ambito dei giudizi in cassazione, in massima parte relativi a vicende processuali risalenti nel tempo...”, ha rimesso gli atti al Primo Presidente ai sensi
dell’art. 374 c.p.c., comma 2, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite,
al fine di risolvere il descritto conflitto interpretativo o comunque per delineare il principio di diritto sulla corrispondente questione di massima di particolare importanza.
2. - Le questioni - Premesse.
Riassumendo, la questione sottoposta all’esame delle SU riguarda, dunque, il caso in cui: a) la parte, costituita in appello a mezzo di procuratore,
muoia prima dell’udienza di discussione e risulti vittoriosa nel grado; b)
l’evento non sia stato né dichiarato in udienza, né notificato alla controparte;
c) quest’ultima proponga ricorso per cassazione contro la parte deceduta, notificandolo a colui che era stato suo procuratore nel precedente grado di giudizio; d) gli eredi si difendano con controricorso, notificandolo prima della
scadenza del termine lungo per impugnare. Per questa ipotesi, si chiede di
sapere se il ricorso per cassazione sia affetto da vizio della vocatio in ius ed,
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
in caso positivo, se la suddetta difesa degli eredi (non si può parlare di costituzione in giudizio, posto che quest’istituto non è previsto nel giudizio di legittimità) abbia efficacia sanante di quel vizio.
La perplessità del collegio remittente sorge dalla consapevolezza che la
giurisprudenza s’era assestata negli ultimi anni nel senso di ritenere che detta difesa (e, dunque, la costituzione di un integro contraddittorio nei confronti
degli eredi del defunto) avesse efficacia sanante rispetto ad un vizio di chiamata in giudizio che difficilmente può essere definito in termini di inesistenza,
in quanto, alla fine, hanno partecipato al giudizio coloro che ne avevano diritto. Consapevolezza che il collegio remittente ritiene essere stata posta in crisi
dal sopravvento di Cass. SU n. 6073 del 2013, la quale, pur trattando di società estinta (ma il discorso sembrerebbe al collegio remittente poter essere
esteso anche alla persona fisica defunta), ha configurato il vizio stesso in
termini tali da farne derivare la drastica inammissibilità del ricorso per cassazione.
Ora, prima di avvicinarsi alla disamina della questione ed alla sua soluzione, occorre fare alcune premesse circa quello che sarà l’oggetto e lo sviluppo
del futuro ragionamento.
Il quesito qui posto coinvolge solo un aspetto delle conseguenze processuali derivanti dalla morte o dalla perdita della capacità di stare in giudizio di
una delle parti o del suo rappresentate o dalla cessazione della rappresentanza (ossia di quegli eventi che sono elencati nell’art. 299 c.p.c.); piuttosto, la
problematica coinvolge un autonomo sottosistema, nell’ambito del più vasto
sistema processuale.
Bisogna, infatti, tener conto che lo studio del fenomeno coinvolge il tema
dell’individuazione della giusta parte, quale corollario del giusto processo,
nonché la definizione dei poteri e della legittimazione del difensore della parte
stessa. Pertanto, bisogna l’indagine va estesa ai seguenti casi:
1. notificazione dell’atto d’impugnazione alla parte defunta o divenuta incapace, presso il suo difensore nel grado precedente;
2. notificazione della sentenza al procuratore della parte defunta o divenuta incapace, ai fini del decorso del termine breve per impugnare;
3. proposizione dell’impugnazione da parte del difensore della parte defunta o divenuta incapace.
L’inizio del percorso richiede, poi, un’ulteriore premessa.
Quella di cui si discute è una delle problematiche più studiate e dibattute
del processo civile, segnalata come “una storia infinita”, dipanatasi attraverso
un emblematico esempio di “pendolarismo giurisprudenziale”. La puntuale relazione dell’Ufficio del Massimario ricostruisce l’evoluzione (talvolta,
l’involuzione) della giurisprudenza, dagli anni ‘40 del secolo scorso fino ai nostri giorni, il frequente ripensamento (ad opera delle sezioni semplici della
Corte o delle stesse Sezioni Unite) di approdi che, di volta in volta, erano
sembrati definitivamente raggiunti, il districarsi del discorso attraverso una
serie di rivoli, eccezioni, condizioni che hanno reso la materia quanto mai incerta. Tant’è che la stessa ordinanza di remissione fa riferimento
all’affidamento che riponeva la parte in una giurisprudenza che ammette(va)
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Parte Seconda - Giurisprudenza
la sanatoria del vizio di chiamata in giudizio, nell’ipotesi che vi si fossero costituiti gli eredi della parte premorta alla pubblicazione della sentenza.
D’altro canto, all’incertezza giurisprudenziale ha corrisposto la mancanza
di chiari indirizzi dottrinari, in sede manualistica come in quella monografica,
dovendosi piuttosto rilevare l’assenza di uno studio che ricostruisca in maniera organica e complessa l’intera materia alla quale si fa riferimento.
3. - La disciplina codicistica in relazione alle varie fasi del rapporto processuale.
Nel codice di rito l’incidenza di uno degli eventi previsti nell’art. 299 (morte o perdita di capacità di una delle parti di stare in giudizio o del suo rappresentante legale o cessazione di tale rappresentanza) non è regolata in modo
unitario, ma ha discipline diversificate, con varietà d’effetti, a seconda che
l’evento si verifichi in una o altra fase di quel rapporto.
La scansione normativa, con riferimento ad uno dei suddetti eventi, è la
seguente:
1. Evento verificatosi prima della costituzione - interruzione del processo,
salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione (art. 299, comma
1);
2. Evento avveratosi nei riguardi della parte costituita a mezzo di procuratore - dichiarazione del procuratore in udienza o notifica alle altre parti - interruzione del processo dal momento della dichiarazione o della notificazione
(art. 300, commi 1 e 2);
3. Evento avveratosi nei riguardi della parte costituitasi personalmente interruzione del processo dal momento dell’evento (art. 300, comma 3);
4. Evento avveratosi nei riguardi della parte dichiarata contumace - interruzione del processo dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato
dall’altra parte o è notificato o è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti dell’art. 292 (art. 300, comma
4, nella novella di cui alla l. n. 69 del 2009);
5. Evento avveratosi o notificato dopo la chiusura della discussione - inefficacia sul processo, se non nel caso di riapertura dell’istruzione (art. 300,
comma 5), tuttavia in quest’ipotesi la notificazione della sentenza “si può fare... a coloro ai quali spetta stare in giudizio”, cioè agli eredi della parte defunta, individualmente a ciascuno di essi, oppure collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto (art. 286, in relazione all’art. 303).
6. Parte defunta dopo la notificazione della sentenza - l’impugnazione può
essere notificata collettivamente ed impersonalmente agli eredi: nella residenza dichiarata dalla parte o nel domicilio eletto nella circoscrizione del giudice che ha pronunciato la sentenza, se nell’atto di notificazione della sentenza è contenuta quella dichiarazione o quella elezione; altrimenti,
l’impugnazione può essere notificata presso il procuratore costituito o nella
residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio (art. 330).
7. Evento sopravvenuto durante la decorrenza del termine breve per impugnare -interruzione del termine e nuova decorrenza dal giorno in cui la notificazione della sentenza è stata rinnovata (art. 328, comma 1) - la rinnova-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
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zione “può essere fatta agli eredi collettivamente e impersonalmente,
nell’ultimo domicilio del defunto” (art. 328, comma 2);
8. Evento verificatosi dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza - il
termine lungo per impugnare (art. 327) è prorogato per tutte le parti di sei
mesi dal giorno dell’evento (art. 328, comma 3). A riguardo, occorre però riflettere sull’attuale operatività del terzo comma dell’art. 328, successivamente alla modifica dell’art. 327, comma 1, ad opera della l. n. 69 del 2009, che
ha ridotto da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza il termine
per proporre l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi
di cui all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5.
I casi dal 2 al 4 sono quelli verificatisi durante la c.d. fase attiva del rapporto processuale. Il caso di cui al n. 5 riguarda anch’esso la fase attiva del
rapporto, ma solo per l’ipotesi di riapertura dell’istruzione. Gli altri attengono
alla fase di quiescenza del rapporto.
Riepilogando, gli eventi in questione hanno efficacia immediatamente interattiva del processo (ossia, al momento del loro stesso avverarsi) quando si
verifichino prima della costituzione, oppure nei riguardi della parte costituitasi
personalmente. Per il periodo successivo alla costituzione e sino a tutta
l’udienza di precisazione delle conclusioni, nei casi di parte costituitasi a mezzo di procuratore, oppure di parte dichiarata contumace, il legislatore prevede l’effetto interruttivo in virtù di fattispecie complesse:
nella prima ipotesi, oltre all’evento è necessaria la relativa dichiarazione
del procuratore in udienza o la notifica alle altre parti e l’interruzione si verifica nel momento stesso della dichiarazione o della notificazione; nella seconda
ipotesi, oltre all’evento, è necessaria la documentazione a cura dell’altra parte o la notificazione o la certificazione dell’ufficiale giudiziario, e l’interruzione
si verifica a partire da questi momenti.
Gli eventi dell’art. 299, che si verificano dopo l’udienza di discussione non
determinano alcuna conseguenza, se non: l’effetto interruttivo del processo,
quando sia riaperta l’istruzione; l’effetto interruttivo del termine breve per
impugnare, se l’evento sopravviene durante il suo decorso; l’effetto di prorogare il termine lungo per impugnare, se l’evento s’avvera dopo sei mesi dalla
pubblicazione della sentenza; la facoltà di notificare la sentenza agli eredi anche collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto.
Con riferimento al giudizio di primo grado, va precisato come, a seguito della novella di riforma del codice di rito del 1990, essendo l’udienza di discussione dinanzi al collegio divenuta vicenda processuale residuale: a) se l’istanza di
discussione orale non è stata presentata, il termine di cui all’art. 300 c.p.c.,
comma 5, coincide con la scadenza del termine di cui agli artt. 190 e 281 quinquies c.p.c., per il deposito delle memorie di replica; b) se la richiesta di discussione è stata avanzata, l’inciso “davanti al collegio” deve ritenersi tacitamente abrogato, atteso che il regime temporale deve essere lo stesso sia che
la causa debba essere decisa dal giudice unico, che dal collegio.
Quanto, poi, al verificarsi dell’evento dopo la proposizione dell’appello, si
applica la medesima disciplina del primo grado di giudizio.
Occorre subito porre in risalto che gli eventi dell’art. 299 c.p.c., hanno la
comune caratteristica di menomare la possibilità della parte di difendersi
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Parte Seconda - Giurisprudenza
adeguatamente in giudizio. Il verificarsi di questi fatti produce uno stato di
quiescenza, caratterizzato dall’impossibilità di compiere ulteriori atti del processo e dall’interruzione dei termini in corso (artt. 298 e 304 c.p.c.).
La dottrina ha da tempo individuato il fondamento dell’istituto
dell’interruzione del processo nella necessità di assicurare l’effettività del contraddittorio tra le parti, ove i suddetti eventi colpiscano, nel corso dello stesso, alcuna di esse (i soggetti, cioè, investiti della potestà di compiere atti processuali), menomando in qualche misura la loro partecipazione in difesa delle
proprie ragioni.
Al pari della speculare fattispecie della rimessione in termini, l’interruzione
si caratterizza, pertanto, nel suo aspetto genetico, come istituto volto alla tutela della effettività del contraddittorio tra le parti (principio, questo, implicitamente garantito dallo stesso art. 24 della Costituzione ed operante per tutta la fase di merito del processo, ma non anche, secondo l’unanime giurisprudenza e la prevalente dottrina, in seno al giudizio di cassazione); sul piano funzionale, a guisa di evento determinativo di uno iato procedimentale circoscritto nel tempo, che non incide sul permanere della litispendenza, realizzando, per converso, uno stato di mera quiescenza del processo.
L’interruzione è, dunque, nel suo aspetto morfologico, vicenda processuale
di tutela predisposta in favore della parte colpita dall’evento che la genera, e
solo tale parte sarà legittimata ad eccepire il mancato rispetto delle norme
che la prevedono.
Essa viene meno (e il procedimento riprenderà il proprio corso) quando sia
stata compiuta quell’attività che la legge ritiene necessaria per ristabilire la
piena effettività del contraddittorio, ma i suoi effetti, secondo la più attenta
dottrina, si realizzerebbero indipendentemente dall’accertamento se il fatto
interattivo si sia tradotto in concreto in un impedimento inevitabile con
l’impiego del necessario grado di diligenza.
In conclusione, il legislatore non ha previsto una specifica disciplina per le
ipotesi che sono oggetto di questa indagine, ossia non dice: se alla parte deceduta possa essere validamente notificata la sentenza presso il suo difensore, al fine di far decorre il termine breve per impugnare; se l’impugnazione
possa essere notificata alla parte deceduta presso il suo procuratore nel precedente grado di giudizio (il caso che specificamente interessa la causa in
trattazione); se il procuratore della parte deceduta o divenuta incapace sia
legittimato a proporre l’impugnazione per la parte stessa.
Tutto ciò premesso, si può ora passare ad esaminare come le regole sopra
scrutinate siano state finora applicate dalla giurisprudenza per risolvere i
quesiti sopra posti.
4. - Gli effetti del verificarsi degli eventi dell’art. 299 c.p.c., nella giurisprudenza di legittimità.
S’è già detto in precedenza della storica ed esasperata instabilità giurisprudenziale nella materia in trattazione.
In grandi linee, per l’ipotesi in cui si sia verificato l’evento interruttivo e
questo non sia stato dichiarato, è possibile individuare due indirizzi: uno, che,
curandosi sia dell’interesse degli eredi (che non sono di facile ed immediata
individuabilità da parte del difensore del defunto) alla prosecuzione del giudi-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
zio nei termini e nei modi stabiliti, sia della posizione della controparte non
formalmente edotta dell’evento o che, comunque, incolpevolmente non
l’abbia conosciuto (e si trovi, dunque, in uno stato di assoluta incertezza rispetto all’identità del suo contraddittore), tende a salvare (vedremo poi come) gli atti posti in essere dal procuratore del defunto e, nel contempo, gli
atti indirizzati dalla controparte al procuratore della stessa parte deceduta;
un altro, che tende a privilegiare gli interessi degli eredi, li considera ormai
giusta parte e ritiene valido solo l’atto processuale che sia a loro diretto o sia
da loro stessi voluto ed indirizzato alla controparte.
Ecco, dunque, che con sentenza del 18 maggio 1963, n. 1294, le Sezioni
Unite, in ipotesi di morte della parte costituita a mezzo di procuratore avvenuta in corso di causa, statuirono che, non dichiarato in udienza l’evento alle
altre parti dal procuratore di quella deceduta, è ammissibile l’impugnazione
proposta nei confronti di quest’ultima e notificata presso il procuratore. Principio di diritto, questo, ribadito, in via generale, in ipotesi di morte della parte
avvenuta sia prima che dopo la chiusura della discussione e la pubblicazione
della sentenza, nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici (Cfr.
Cass. 18 novembre 1964, n. 2753; 24 ottobre 1968, n. 3482; 14 luglio 1971,
n. 2293; 22 gennaio 1974, n. 174; 4 luglio 1974, n. 1934; 29 ottobre 1974,
n. 3281; 14 febbraio 1975, n. 579; 13 marzo 1975, n. 951; 26 gennaio 1976,
n. 2403; 26 giugno 1976, n. 2420).
Ma la sentenza 29 novembre 1971, n. 3474, in una fattispecie in cui era
stato dichiarato il fallimento di una parte, restrinse l’applicazione della disciplina di cui all’art. 300 c.p.c., al grado di giudizio in cui si verifica l’evento, nel
periodo tra la citazione e la discussione, rilevando che, nella diversa ipotesi
del verificarsi dell’evento dopo la chiusura della discussione o dopo la pubblicazione o la notificazione della sentenza, l’art. 328 c.p.c., si limita a disporre
l’interruzione o la proroga dei termini per la impugnazione. Il che fu ribadito
dalla sentenza 7 gennaio 1974, n. 30, relativamente all’ipotesi di morte della
parte vittoriosa avvenuta dopo l’udienza di discussione e prima della pubblicazione della sentenza.
Per l’ipotesi di morte della parte, fu ripreso e ribadito il principio di diritto
secondo cui la validità della notificazione dell’impugnazione alla parte deceduta, presso il procuratore costituito, è subordinata alla condizione che la parte
soccombente che propone l’impugnazione non abbia comunque avuto, senza
sua colpa, conoscenza del decesso della controparte (Cfr. Cass. 7 ottobre
1974, n. 2639).
Anche relativamente all’ipotesi in cui la parte incapace perché minore,
rappresentata dall’esercente la potestà genitoria costituito a mezzo di procuratore, avesse raggiunto la maggiore età in corso di causa, senza che
l’evento fosse stato dichiarato in udienza o notificato all’altra parte dal procuratore, fu affermata la validità dell’impugnazione notificata al legale rappresentante presso il procuratore (Cass. 9 ottobre 1969, n. 3240; Cass. 6 luglio
1971, n. 2116; Cass. 28 luglio 1975, n. 2905; Cass. 10 giugno 1974, n.
2639), benché alcune pronunce avessero subordinato la validità
dell’impugnazione, in quel modo notificata, all’assenza di colpa nella parte
impugnante quanto all’ignoranza di detto vento, ponendone l’onere della pro-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
va talvolta a carico di quest’ultima (Cass. 10 febbraio 1968, n. 452; Cass. 16
ottobre 1969, n. 3352; Cass. 9 aprile 1974, n. 989), talaltra della parte
chiamata nel giudizio di impugnazione (Cass. 23 maggio 1972, n. 1605;
Cass. 21 aprile 1975, n. 1531; Cass. 5 aprile 1976, n. 1176).
Le Sezioni Unite si pronunciarono nuovamente con la sentenza 21 luglio
1978, n. 3630, esaminando l’ipotesi di morte o perdita della capacità processuale della parte costituita a mezzo di procuratore avvenuta tra una fase processuale e l’altra, e, in tale occasione, statuirono che il problema della notificazione dell’atto di impugnazione e della instaurazione della fase processuale
di gravame va risolto non già alla luce dei principi dell’ultrattività del mandato
al procuratore costituito o della non automaticità della interruzione ex art.
300 c.p.c., bensì alla stregua delle disposizioni normative contenute nell’art.
328 c.p.c., secondo cui l’evento interruttivo verificatosi dopo la pubblicazione
della sentenza conclusiva di una fase di merito incide non più sul processo,
ma sul termine per la proposizione della impugnazione, con effetti diversi a
seconda che si tratti di termine breve (art. 325 c.p.c.) o di termine lungo
(art. 327 c.p.c.) di decadenza; e che, conseguentemente, mai può prescindersi dalla nuova situazione soggettiva verificatasi riguardo ad una delle parti, salvo che la controparte abbia, senza sua colpa, ignorato l’evento, nel qual
caso opera la disciplina di cui all’art. 291 c.p.c.
Nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici fu riaffermata
l’ammissibilità dell’impugnazione proposta nei confronti della parte deceduta
o divenuta incapace presso il procuratore se questi non avesse dichiarato in
udienza o notificato alle altre parti l’evento (Cass. 15 febbraio 1979, n. 996;
22 febbraio 1979, n. 1139; 10 gennaio 1981, n. 217), e fu ribadito che l’atto
di impugnazione notificato alla parte deceduta o divenuta incapace o al legale
rappresentante della parte divenuta maggiorenne è valido se la parte notificante ha ignorato senza colpa l’evento (Cass. 12 gennaio 1979, n. 225; 25
gennaio 1979, n. 587; 9 maggio 1979, n. 2641; 11 febbraio 1980, n. 2452;
22 aprile 1981, n. 2349). Il che si trova sancito anche nella sentenza delle
Sezioni Unite 2 aprile 1981, n. 1865, alla quale hanno fatto seguito altre sentenze delle sezioni semplici (Cass. 4 agosto 1982, n. 4387, non massimata;
25 novembre 1982, n. 6400).
Ma gli interventi salienti ai quali occorre far ora riferimento sono quelli costituiti dalle sentenze delle Sezioni Unite del 1984 (Cass. SU nn. 1228, 1229
e 1230 del 21 febbraio 1984) e del 1996 (Cass. SU 19 dicembre 1996, n.
11394).
Le prime, trovandosi ad esaminare un caso in cui la morte della parte era
avvenuta prima della discussione della causa (ed, ovviamente, non era stata
dichiarata, né comunicata) affermarono il principio che può dirsi (sicuramente
in maniera approssimativa e riduttiva) di ultrattività del mandato, in forza del
quale: è valida la notificazione della sentenza fatta al procuratore della parte
deceduta a norma dell’art. 285 c.p.c.; il procuratore stesso (al quale sia stata
originariamente conferita procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del
processo) è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte “che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell’ambito del
processo, ancora in vita o capace”; è ammissibile l’atto di impugnazione noti-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
ficato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1 presso il procuratore, alla parte
deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto aliunde
conoscenza dell’evento.
Il nucleo del discorso svolto dalle sentenze del 1984 è fondato sulla considerazione che, omessa dal procuratore (unico legittimato) la dichiarazione in
udienza o la notificazione alle altre parti (fino alla chiusura della discussione)
dell’avvenuta morte o della perdita di capacità della parte da lui rappresentata, la posizione giuridica di questa resta stabilizzata, rispetto alle altri parti ed
al giudice, quale persona ancora esistente ed ancora capace, nella fase attiva
in corso del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza, dopo
la pubblicazione della sentenza, e di riattivazione, a seguito e per effetto della
proposizione dell’impugnazione.
Situazione che è suscettibile d’essere modificata solo se, nel successivo
processo d’impugnazione, si costituiscono gli eredi della parte defunta o il
rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore
di tale parte, originariamente munito di procura ad litem valida anche per gli
ulteriori gradi del processo, dichiarerà in udienza o notificherà alle altre parti
l’evento verificatosi, oppure se, rimasta la medesima parte contumace,
l’evento sarà notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario secondo la norma
di cui all’art. 300 c.p.c., comma 4.
Le tre sentenze delle quali s’è finora detto hanno deciso, dunque, in
un’ipotesi in cui l’evento dell’art. 299 c.p.c., s’era verificato prima della discussione, cioè nel corso di quella che è detta la fase attiva del processo, ed il
procuratore della parte non ne aveva fatto oggetto di formale dichiarazione in
udienza o di notifica alle altre parti.
La Cass. SU 19 dicembre 1996, n. 11394, torna sull’argomento per aggiungere un altro tassello a quello che è stato definito il puzzle processuale,
ossia specificamente tratta dell’ipotesi in cui l’evento si verifichi dopo la pubblicazione della sentenza, per concludere che in questo caso: la notificazione
della sentenza ad opera del procuratore della parte deceduta è viziata da nullità e non è, dunque, idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione,
se egli non chiarisce che la notificazione è fatta a nome degli eredi e non fornisce indicazioni tali da consentire alla controparte la proposizione
dell’impugnazione nei loro confronti; l’impugnazione fatta dal procuratore della parte deceduta è viziata da nullità; nullità sanata dalla costituzione in appello degli eredi entro la scadenza del termine per impugnare.
È proprio questo il principio al quale fa riferimento l’ordinanza di rimessione allorché rileva: che nella fattispecie oggi in trattazione si discute di un ricorso per cassazione mal diretto, al quale ha contribuito anche la mancata dichiarazione dell’evento interruttivo nel giudizio a quo; che al ricorso ha fatto
seguito l’instaurazione del contraddittorio con gli eredi della parte defunta a
seguito della costituzione dei medesimi; costituzione in considerazione della
quale l’impugnante, pur essendo nei termini per rinnovare utilmente il gravame, non vi ha provveduto, confidando nella giurisprudenza di legittimità,
all’epoca di gran lunga prevalente, che ravvisava l’intervenuta sanatoria attraverso la menzionata costituzione.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
La premessa richiamata dalle Sezioni Unite del 1996 è che, in questa ipotesi, il problema della notificazione dell’atto di impugnazione e della instaurazione di una valida fase processuale di impugnazione deve essere risolto non
già alla luce dei criteri dell’ultrattività del mandato al procuratore costituito e
della non automaticità dell’interruzione ex art. 300 c.p.c., che operano solo
se uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c., si verifica nell’intervallo temporale tra la costituzione della parte e la chiusura dell’udienza di discussione
(secondo i principi, appunto, sanciti dalle Sezioni Unite con le summenzionate
sentenze del 1984), bensì alla stregua dell’art. 328 c.p.c., secondo il quale
l’evento interruttivo, avvenuto nel caso di specie dopo la pubblicazione della
sentenza di primo grado, incide non più sul processo, ma essenzialmente sul
termine per la proposizione dell’impugnazione, con la conseguenza che non si
può, in alcun caso, prescindere dalla nuova, reale situazione soggettiva delle
parti sostanziali interessate attualmente alla sentenza ed al processo.
In altri termini, l’arresto del quale si discute accoglie il principio (che definisce “chiovendiano”) in ragione del quale le parti, quand’è definito un grado
e deve aprirsene un altro, tornano nella situazione in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, cioè di dover conoscere la condizione di colui con
il quale intende contrarre il rapporto processuale. Principio, questo, derogato
- secondo la sentenza - allorché l’evento si sia verificato nella fase attiva del
processo ed il procuratore non l’abbia dichiarato, ma che riacquista pieno vigore allorché l’evento si verifica tra un grado e l’altro, perché in tal caso il
processo d’impugnazione va proposto dai soggetti reali contro i soggetti reali
ed a questo fine l’art. 328 detta alcune regole per rendere possibile (“a costi
accettabili”) tali risultati. Regole in base alle quali, se l’evento morte o incapacità della parte si verifica quando è stata notificata la sentenza ed è in corso il termine per impugnare, tale termine rimane automaticamente interrotto
ed un nuovo termine prende a decorrere solo ed in quanto la notificazione
della sentenza sia rinnovata alla parte reale e, quindi, nel caso di morte, agli
eredi (sia pure entro l’anno, collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo
domicilio del defunto, a norma dell’art. 328 c.p.c., comma 2).
La tematica viene, dunque, ricondotta dall’arresto del 1996 nella categoria
della nullità, siccome non si tratta di impugnazione rivolta contro soggetto
tutt’affatto diverso da quello che è stato in giudizio nel precedente grado (nel
qual caso l’impugnazione sarebbe come non proposta e rileverebbe solo sotto
il profilo di inesistenza/inammissibilità), con la conseguenza che la situazione
è ricostruibile non in termini di impugnazione non esercitata, bensì di impugnazione invalidamente esercitata, in quanto tra il soggetto deceduto ed i
suoi eredi non v’è totale alterità processuale. Vizio desumibile dal combinato
disposto dell’art. 163 c.p.c., n. 2, e art. 164 c.p.c., in quanto attinente
all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione.
La sentenza ne fa derivare l’effetto che, stando alla disciplina anteriore alla novella n. 353 del 1990, non sarebbe possibile la rinnovazione dell’atto e la
costituzione del convenuto farebbe salvi i diritti anteriormente quesiti, lasciando ferma la decadenza dall’impugnazione ove frattanto maturata. Diversa è, invece, la disciplina dettata dalla novella, prevedendosi, con riferimento
alle nullità di cui all’art. 163 c.p.c., nn. 1 e 2, la possibilità di rinnovazione
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Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
(art. 164 novellato) e, tanto a questa, quanto alla costituzione del convenuto,
attribuendosi effetto ex tunc. Nel 2005 le Sezioni Unite tornano sull’argomento con la sentenza n. 15783 del 28 luglio, la quale, benché tratti dell’ipotesi di
raggiungimento della maggiore età da parte di un minore costituitosi in giudizio a mezzo dei suoi legali rappresentanti, estende il discorso a tutti gli eventi
dell’art. 299 c.p.c., stabilendo che, qualora uno di quegli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo si verifichi nel corso del giudizio di primo
grado, prima della chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza
dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell’art. 190 c.p.c.), e tale evento non venga
dichiarato né notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce a norma dell’art. 300 c.p.c., il giudizio di impugnazione deve essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati.
Anche in questo caso viene invocato il portato dell’art. 328 c.p.c., dal quale viene desunta la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della
notifica della sentenza che dell’impugnazione, con piena parificazione, a tali
effetti, tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante
la fase attiva del giudizio e non dichiarato né notificato (in senso conforme, si
veda anche la più recente Cass. 4 aprile 2013, n. 8194).
La sentenza precisa pure che, limitatamente ai processi pendenti alla data
del 30 aprile 1995 (rispetto ai quali non opera la possibilità di sanatoria
dell’eventuale errore incolpevole nell’individuazione del soggetto, nei cui confronti il potere di impugnazione deve essere esercitato, offerta dal nuovo testo dell’art. 164 c.p.c., come sostituito dalla l. 26 novembre 1990, n. 353,
nella parte in cui consente la rinnovazione, con efficacia ex tunc, della citazione e dell’impugnazione, in relazione alle nullità riferibili all’art. 163 c.p.c.,
nn. 1 e 2) il dovere di indirizzare l’impugnazione nei confronti del nuovo soggetto effettivamente legittimato resta subordinato alla conoscenza o alla conoscibilità dell’evento, secondo criteri di normale diligenza, da parte del soggetto che propone l’impugnazione, essendo tale interpretazione l’unica compatibile con la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.).
In realtà, con quest’arresto le Sezioni Unite operano una drastica virata rispetto a tutti i precedenti.
Abbiamo visto che la sentenza del 1996 aveva lasciato formalmente salva
la tesi dell’ultrattività del mandato predicata dalle sentenze del 1984, purché
l’evento si fosse verificato nella fase attiva del rapporto processuale ed (ovviamente) il procuratore non l’avesse né dichiarato, né comunicato alle altre
parti; aveva, invece, preteso che il rapporto fosse instaurato nei confronti
della giusta parte nel caso in cui l’evento si fosse verificato dopo l’udienza di
discussione, ossia nella fase di quiescenza del rapporto stesso; aveva, a tal
riguardo, rinvenuto nel disposto dell’art. 328 c.p.c., la chiave di volta del sistema; aveva escluso l’applicabilità dell’art. 291 c.p.c., (rinnovazione della
notificazione); aveva ammessa l’ipotesi sanante della costituzione degli eredi.
Il precedente del 2005, invece, relega il principio d’irrilevanza dell’evento
non dichiarato né comunicato alla mera fase in cui esso si verifica e nega del
tutto il correlato principio d’ultrattività del mandato. Principio, questo, rinne-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
gato in ragione della disciplina codicistica sostanziale (art. 1722 c.c., n. 4)
che prevede la morte del mandante come causa d’estinzione del mandato.
Sicché - sostiene l’arresto - la disciplina dettata dall’art. 300, commi 1 e 2,
(che attribuisce al procuratore la possibilità di continuare a rappresentare in
giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato, anche se sia nel frattempo
deceduta o divenuta incapace), in quanto derogatoria al principio dell’art.
1722 c.c., n. 4, va contenuto entro il rigoroso ambito ivi previsto, ossia nei
limiti di quella fase del processo in cui s’è verificato l’evento non dichiarato né
notificato concernente il mandante, e non può espandersi nella successiva fase di quiescenza e di riattivazione del rapporto processuale. In altri termini, il
principio generale secondo il quale la legittimazione a compiere e ricevere atti
del giudizio d’impugnazione resta influenzata dalla nuova situazione soggettiva di una delle parti, vale non solo nel caso di evento verificatosi dopo la discussione (come aveva ritenuto la sentenza del 1996), “ma anche nell’ipotesi
di evento accaduto nella fase attiva del processo e non dichiarato, né notificato; ponendosi in quest’ipotesi il silenzio del procuratore quale fatto idoneo
a spostare nel tempo la rilevanza di quell’evento che, rimasto nascosto per
tutto il corso del giudizio di primo grado dalla mancata dichiarazione o notificazione, riacquista alle soglie dell’appello la rilevanza propria della morte o di
altro evento prima della costituzione del giudizio”.
Successivamente a questa sentenza, resta da segnalare Cass. Sezioni Unite 16 dicembre 2009, n. 26279, la quale ribadisce che l’atto d’impugnazione,
nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli
eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia
dall’eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente (senza possibilità d’applicazione del disposto dell’art. 291 c.p.c.,
ove l’impugnazione sia invece proposta nei confronti del defunto).
A questo punto, siamo giunti a Cass. Sezioni Unite 13 marzo 2013, n.
6070, la quale, per certo un verso, rappresenta l’origine di tutto questo discorso, posto che (come s’è visto) l’ordinanza della seconda sezione civile
(che ha rimesso la questione al nuovo vaglio delle Sezioni Unite) nasce proprio dalla perplessità che essa abbia rimesso in crisi l’orientamento che s’era
da più di un decennio affermato, secondo cui l’impugnazione diretta al procuratore della parte ormai defunta è affetta da una nullità sanabile mediante
costituzione degli eredi (come di fatto è avvenuto nel processo di cui oggi si
discute).
La sentenza tratta di alcune questioni attinenti agli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, dopo la riforma del diritto societario attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003.
Muovendo dalla premessa che, dall’entrata in vigore della novella, la cancellazione determina l’estinzione della società di capitali e la presunzione
d’estinzione della società di persone, indipendentemente dall’esaurimento dei
rapporti giuridici ad esse facenti capo (avendo la riforma adottato, per una
ratio di certezza giuridica, il sistema della liquidazione formale), le Sezioni
Unite ricostruiscono le conseguenze dell’estinzione in termini - lato sensu successori: a) quanto agli effetti sostanziali passivi (trasferimento del debito
sociale ai soci, con responsabilità limitata o illimitata, a seconda del tipo di
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Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
responsabilità durante societate); b) quanto agli effetti sostanziali attivi (acquisto in comunione tra i soci dei diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione, escluse le mere pretese e le ragioni creditorie incerte, la cui mancata liquidazione manifesta rinuncia); c) quanto agli effetti processuali (incapacità della società di stare in giudizio, interruzione del giudizio pendente,
prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, inammissibilità
dell’impugnazione proposta dalla società o contro di essa, anziché dai soci o
contro di essi).
In particolare, con specifico riferimento a quest’ultimo punto, resta confermato il principio che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dalla l. fall., art. 10); pertanto, qualora
l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è
parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dall’art. 299 c.p.c. e
ss., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei
soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; qualora l’evento
non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo
constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della
sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che
la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso.
Per quanto qui interessa, la Corte (sancita l’applicabilità, all’ipotesi di cancellazione della società dal registro delle imprese, con conseguente sua estinzione, dell’art. 299 c.p.c.), nell’affrontare gli interrogativi che sorgono quando, essendosi il giudizio svolto senza interruzione, la necessità di confrontarsi
con la sopravvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese si
ponga nel passaggio al grado successivo (il che può accadere o perché in
precedenza siano mancate la dichiarazione dell’evento estintivo o il suo accertamento in una delle altre forme prescritte dai citati art. 299 e segg., oppure perché quell’evento si è verificato quando ormai, nel grado precedente,
non sarebbe più stato possibile farlo constare, ovvero ancora perché
l’estinzione è sopravvenuta dopo la pronuncia della sentenza che ha concluso
il grado precedente di giudizio e durante la pendenza del termine
d’impugnazione), ha ritenuto, pur nella consapevolezza di indicazioni giurisprudenziali non sempre univoche sul punto, che l’esigenza di stabilità del
processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia
venuta meno la parte (se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nel
modi di legge), debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui
quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne
consentano una più ampia esplicazione. Viceversa - secondo la sentenza in
rassegna - il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero della giusta parte (sul punto
sono citate Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; 8 febbraio 2012, n. 1760; 13
maggio 2011, n. 10649; 7 gennaio 2011, n. 259; Sez. un. 18 giugno 2010,
n. 14699; 8 giugno 2007, n. 13395; Sez. un. 28 luglio 2005, n. 15783).
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La sentenza ritiene non essere un onere troppo gravoso (né tanto meno
un’ingiustificata limitazione del diritto d’azione, a fronte dell’esigenza di tutelare anche i successori della controparte, che potrebbero essere ignari della
pendenza giudiziaria) quello di svolgere, per chi intenda dare inizio ad un
nuovo grado di giudizio, i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte, che sono normalmente richiesti al momento introduttivo
della lite. Né la sentenza si sofferma a discutere del se ed in quale eventuale
misura tale regola sia suscettibile di attenuazione o di correttivi quando la
parte impugnante non sia in condizione, neppure adoperando l’ordinaria diligenza, di conoscere l’evento estintivo che ha interessato la controparte, né
quindi d’individuare i successori nei cui confronti indirizzare correttamente
l’atto d’impugnazione. L’evento estintivo in discussione, ossia la cancellazione
della società dal registro delle imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo
impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta
in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), la sentenza non ritiene
ammissibile che l’impugnazione provenga dalla - o sia indirizzata alla - società cancellata, e perciò non più esistente, giacché la pubblicità legale cui
l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le
controparti processuali, ne siano a conoscenza; e la necessaria visione unitaria dell’ordinamento non consente di limitare al solo campo del diritto sostanziale la portata delle suaccennate regole inerenti al regime di pubblicità,
escludendone l’applicazione in ambito processuale, salvo che vi siano diverse
e più specifiche disposizioni processuali di segno contrario (come accade per
il verificarsi dell’evento interruttivo nell’ambito del singolo grado di giudizio).
La sentenza del 2013 perviene, dunque, a sanzionare d’inammissibilità
l’impugnazione che non sia diretta o non provenga dalla giusta parte, rifiutando la tesi che ritiene nullo, per errore sull’identità del soggetto (anziché
inammissibile), l’atto d’impugnazione rivolto ad una parte ormai estinta anziché ai successori si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per
l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo (analoga statuizione di inammissibilità è contenuta in Cass. 9 aprile 2013, n.
8596, mentre i principi sanciti dalle Sezioni Unite con la pronuncia in rassegna hanno trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di fattispecie
esaminata, anche in Cass. 4 luglio 2013, n. 16751).
Quanto alla sentenza del 2013, occorre, dunque, osservare (per soddisfare
il dubbio insito nell’ordinanza di rimessione) che essa, se per un verso è vero
che tratta la problematica in termini generali e tiene conto di tutti i precedenti che hanno anch’essi affrontato la materia in termini generali, per altro verso è pur vero che è fortemente influenzata dalla circostanza dell’essere la
parte estinta, nella fattispecie, una società cancellata dal registro; tant’è che,
come s’è visto, neppure si cura di affrontare dettagliatamente il tema di
eventuali ipotesi sananti la sostenuta inammissibilità dell’atto d’impugnazione, fermandosi a fronte del regime pubblicitario vigente per lo specifico
soggetto processuale societario.
Volendo incrociare e raffrontare tra loro i dati giurisprudenziali finora illustrati, si può osservare che lo stesso s’è verificato rispetto alla sentenza a
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Sezioni Unite del 2005, la quale, pur trattando della specifica fattispecie della
cessazione della rappresentanza genitoriale per sopravvenuta maggiore età
del soggetto rappresentato, ha voluto affrontare il tema in termini generali,
per poi concludere che, quanto al raggiungimento della maggiore età, il problema della consapevolezza o meno del verificarsi dell’evento (e, quindi, di
tutela della parte incolpevole) non si pone neppure, posto che la maggiore
età è un accadimento inevitabile nell’an ed agevolmente riscontrabile nel
quando.
5. - La soluzione della questione.
Volendo tentare un’estrema sintesi del così variegato e contraddittorio
quadro giurisprudenziale finora delineato, può dirsi che i precedenti fin qui
esaminati spaziano tra due estremi: dalla risalente (ma tuttora ricorrente) affermazione dell’ultrattività del mandato, alla recentissima, drastica sanzione
d’inammissibilità dell’impugnazione proposta da o contro un soggetto estinto.
Nel mezzo v’è lo sforzo di mediare tra la tutela, per un verso, della giusta
parte (che, dopo l’evento, è considerato un soggetto ormai nuovo e diverso
da quello che era stato fino ad allora nel processo) ed il problema della conoscibilità dell’evento stesso, con tutto quanto consegue circa la tutela, per altro verso, della buona fede della controparte, che incolpevolmente l’abbia
ignorato. Di qui, la configurazione in termini di nullità dell’atto diretto alla
parte che non esiste più o non è più capace o dell’atto da quella proveniente,
con la correlata esigenza di individuare meccanismi recuperatori (rispetto alle
maturate decadenze), quali la rimessione in termini o la costituzione (entro
certi termini) degli eredi della parte deceduta.
Un più attento raffronto tra i principi di volta in volta affermati e le vicende
trattate, consente poi di verificare che la soluzione giurisprudenziale è stata
la maggior parte delle volte raggiunta attraverso il metodo induttivo, più che
deduttivo. Nel senso che, dati alcuni principi base, la peculiarità del caso specificamente trattato ha influenzato la decisione ed il suo portato nomofilattico, mentre più raramente dal principio generale si è pervenuti a disciplinare
la vicenda concreta. Ed è per questo che le regole di massima hanno viaggiato diacronicamente attraverso quello che viene definito il diritto vivente, potendosi riscontrare in recenti pronunzie echi emersi alcuni decenni addietro,
benché essi dovessero o potessero ritenersi superati dagli arresti di volta in
volta resi dalle Sezioni Unite. È per questo che, ancora una volta, il collegio di
una sezione semplice si rivolge alle Sezioni Unite per sapere quale, delle tante soluzioni finora escogitate, sia da applicare ad un processo che, soprattutto
per la sua esasperante ed insostenibile durata, vede innumerevoli volte verificarsi la successione di parte a parte.
La tesi della nullità, introdotta dalla sentenza del 1996 e seguita, poi, nella
conclusione estrema apportata dalla sentenza del 2005, non ha soddisfatto la
successiva giurisprudenza ed ha destato aspre critiche in dottrina.
La stessa sentenza del 1996 individua il vizio dell’ipotesi esaminata (notificazione dell’impugnazione alla parte deceduta, presso il procuratore costituito
nel precedente grado) con una sorta di approssimazione (in via di principio
non appare scorretta la riconduzione della tematica in esame alla categoria
della nullità...) ed in via d’esclusione, tenuto conto che non può trattarsi di
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Parte Seconda - Giurisprudenza
“inesistenza/inammissibilità” perché l’impugnazione non è rivolta contro un
soggetto tutt’affatto diverso da quello che è stato nel precedente grado e che
tra il soggetto deceduto ed i suoi eredi non v’è totale alterità dal punto di vista del processo.
Vizio che “potrebbe”, dunque ricondursi al combinato disposto dell’art. 163
c.p.c., n. 2, e art. 164 c.p.c., in quanto attinente all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione.
Ma la sentenza del 2013 non si mostra convinta da questa soluzione, riflettendo sul fatto che nella situazione della quale si discute non v’è incertezza sull’identità della parte (che, invece, è ben chiara), ma accade che il giudizio sia stato promosso, oppure che in esso sia stata evocata, una parte diversa da quella che quel giudizio avrebbero potuto promuovere, o che avrebbero
dovuto esservi evocati.
Non è, insomma, l’identificazione della parte del processo ad essere in
gioco, bensì la stessa possibilità di assumere la veste di parte per l’autore o
per il destinatario della chiamata in giudizio. Ed allora, ove tale possibilità di
assumere la veste di parte faccia difetto, si è in presenza di un giudizio (o
grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo: donde l’inammissibilità dell’atto che lo promuove.
Analoghe critiche sono state mosse, dalla dottrina, alla tesi della nullità:
sia perché l’art. 164 c.p.c., riguarda il caso dell’omissione o dell’assoluta incertezza dell’identità della parte evocata in giudizio, evidentemente ben diverso da quello della precisa direzione della vocatio in ius verso un soggetto
compiutamente identificato ma estinto (tant’è che non è poi mancata qualche
pronunzia della stessa Suprema Corte che ha ritenuto attinente addirittura alla editio actionis il vizio derivante dalla citazione in giudizio di una persona fisica deceduta, anziché dei suoi eredi); sia perché la stessa giurisprudenza di
legittimità, anche se probabilmente per l’insussistenza in tal caso
dell’esigenza di tutelare la parte ignara dell’avvenuto decesso della controparte, sembra non fare un simmetrico discorso in relazione al caso
dell’impugnazione proposta da (anziché contro) un soggetto ormai estinto,
che infatti non sembrava esitare nell’affermare inammissibile e non già affetta da una nullità sanabile ex tunc ai sensi e nei modi di cui all’art. 164 c.p.c.,
commi 1 e 2; sia, ancora, perché l’idea che l’impugnazione proposta da o
contro una parte deceduta sia nulla ma sanabile ex tunc è asimmetrica pure
rispetto alla pacifica affermazione che l’atto introduttivo del giudizio di primo
grado rivolto o notificato ad un soggetto inesistente è assolutamente inidoneo
ad instaurare il contraddittorio processuale e dunque è esso stesso giuridicamente inesistente (in questo senso: Cass. 3 agosto 1984, n. 4616), ovvero
affetto da una nullità assoluta ed insanabile rilevabile in ogni stato e grado
del processo (in quest’altro senso: Cass. 14 agosto 1999, n. 8670; 5 dicembre 1994, n. 10437; 14 aprile 1988, n. 2951; 1 ottobre 1985, n. 4758; 23
maggio 1985, n. 3108; 6 aprile 1983, n. 2400; 12 gennaio 1979, n. 244).
Il quadro interpretativo, così come emerso e sviluppato, manifesta, dunque, un profondo stato di insoddisfazione ed inquietudine, un’instabilità in-
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Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
sopportabile e sconcertante non solo per la dottrina e per il foro ma, evidentemente, per gli stessi giudici (di merito e di legittimità).
Allora, le Sezioni Unite sono caricate dallo sforzo (e dall’auspicio) di offrire
alla materia una soluzione che abbia un effetto stabilizzante per il processo
ed eviti equivoci, arditi distinguo, ricerca di rimedi di salvaguardia e sanatoria, accertamenti incidentali relativi a condotte e stati psicologici.
E, per stabilizzare il processo, occorre stabilizzare la parte stessa, ritornando alla teoria dell’ultrattività del mandato, nel senso e nei limiti di cui si
dirà in seguito, seguendo il consiglio che ormai da molta parte della dottrina
proviene.
6. - L’ultrattività del mandato.
Come s’è visto in precedenza, la tesi dell’ultrattività del mandato costituisce uno dei primi approdi giurisprudenziali. Gli arresti degli anni ‘60 e ‘70 del
secolo scorso non dubitavano che il principio per cui il mandato alla lite sopravvive alla morte del mandante si spiega, sul piano razionale e funzionale,
con la considerazione che, salvo che la legge disponga altrimenti, le parti
debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente (art. 82 c.p.c.) ed a tale presenza la legge fa ricorso ai fini di regolare gli
effetti della morte o della perdita della capacità della parte costituita o contumace, in modo che tali eventi non operino automaticamente sul corso della
vicenda processuale turbandone l’ordinato svolgimento, col rischio di provocare ingiustificate ripercussioni sostanziali sul diritto dedotto.
Dal canto suo, l’art. 85 c.p.c., stabilisce che la procura può essere sempre
revocata ed il difensore può sempre rinunciarvi, ma la revoca e la rinuncia
non hanno effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore.
Concordando con la maggiore elaborazione giurisprudenziale della tesi in
argomento, sviluppata dalle già citate tre sentenze rese dalle Sezioni Unite
del 1984, occorre riflettere sulla circostanza che, a norma dell’art. 300 c.p.c.,
essendo indispensabile ed insostituibile la comunicazione formale dell’evento
da effettuarsi dal procuratore della parte deceduta o che ha perduto la capacità di stare in giudizio, e non avendo perciò rilevanza la conoscenza che
dell’evento le altre parti abbiano aliunde, l’effetto interruttivo del processo è
prodotto da una fattispecie complessa costituita dal verificarsi dell’evento e
dalla dichiarazione in udienza o dalla notificazione fattane dal procuratore alle
altre parti. Dichiarazione o notificazione che il procuratore della parte defunta
o non più capace, ed egli soltanto (con esclusione, perciò degli eredi o del
rappresentante legale della parte), può, discrezionalmente, fare o non fare, e
fare nel momento che ritiene più opportuno, al fine di provocare, sul presupposto dell’effettivo verificarsi dell’evento, l’effetto giuridico dell’interruzione
del processo; dichiarazione o notificazione del procuratore che, consistendo
nell’esteriorizzazione di una determinazione volitiva, al fine di produrre
l’effetto interruttivo del processo, si configura come negozio processuale del
procuratore legittimato dal potere rappresentativo conferito con la procura ad
litem.
In altri termini, l’interruzione del processo non si produce automaticamente, quale effetto ricollegato direttamente ed esclusivamente alla morte o alla
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Parte Seconda - Giurisprudenza
perdita della capacità della parte: finché non vi sia la comunicazione formale
del procuratore della parte defunta o divenuta incapace, proseguendo l’iter
processuale nello stato anteriore, come se la parte fosse ancora in vita o continuasse ad essere capace, si verifica, appunto, il fenomeno dell’ultrattività
della procura ad litem, nonostante il verificarsi dell’evento che, per la norma
dell’art. 1722, n. 4, avrebbe dovuto procurarne l’estinzione (vedremo, in seguito, che la regola dell’ultrattività del mandato alla lite è compatibile con il
diritto sostanziale).
La tassatività delle forme di manifestazione dell’evento previste dall’art.
300 c.p.c., comma 1, è, dunque, confortata dalla natura negoziale della dichiarazione esplicitata in udienza o notificata, la quale è a sua volta argomentata, in primo luogo, per essere nella potestà del difensore il diritto-potere di
provocare o meno l’interruzione del processo ed, in secondo luogo, in quanto,
allorché il procuratore, valutata la situazione processuale e sostanziale facente capo alla parte colpita dall’evento, entri nella determinazione di denunciare
l’evento, la sua è una manifestazione di volontà preordinata a conseguire il
fine (e l’effetto) della tutela dell’interruzione.
Va, dunque, escluso che la dichiarazione in questione sia di pura scienza.
Se lo fosse (ossia, avesse la semplice funzione di mettere al corrente la controparte del fatto menomativo sopravvenuto), la dichiarazione diventerebbe
un atto doveroso e dovuto, in quanto il difensore, una volta a conoscenza
dell’accadimento, sarebbe tenuto a darne notizia; inoltre, e per conseguenza,
verrebbe sottratto al procuratore della parte il potere di valutare la situazione
processuale in corso e di manifestare l’evento con la precisa e predeterminata
volontà di perseguire per il proprio cliente la tutela della interruzione.
Ma ciò contrasta proprio con le ragioni che hanno spinto il legislatore a diversificare la disciplina del perfezionamento della fattispecie interruttiva
nell’ipotesi in cui la parte sia costituita in giudizio a mezzo di procuratore ad
litem. Infatti, ove questi ritenga che nessun pregiudizio possa derivare alla
parte sostanziale dalla prosecuzione del processo (eventualmente concordata
con chi è legittimato a costituirsi in giudizio in vece del soggetto colpito
dall’evento), proprio in virtù del potere discrezionale di cui legittimamente si
avvale, può anche sottacere l’evento, astenendosi dal provocare l’interruzione
del processo. Restando, tuttavia, esposto ad una personale responsabilità nei
confronti della parte sostanziale, qualora dalla omessa dichiarazione della
morte o del fatto esclusivo della capacità di stare in giudizio sia derivato a
questa un pregiudizio, tenuto conto che la sentenza deliberata al termine di
un processo, che avrebbe potuto essere interrotto, è comunque destinata a
produrre i suoi effetti.
È per questo che dottrina e giurisprudenza hanno attribuito al difensore la
figura di dominus litis, discutendo di sopravvivenza della rappresentanza giudiziale alla morte del mandante ed ipotizzando talvolta una presunzione di conferma tacita del mandato da parte del successore della parte deceduta o di colui che assume la rappresentanza legale della parte divenuta incapace, destinata a venir meno soltanto con la comunicazione dell’intervenuto evento.
Come rappresentante tecnico, il difensore, con la costituzione in giudizio,
realizza anche e soprattutto la presenza legale della parte nel processo, il
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
quale rimane completamente impermeabile rispetto agli eventi menomativi
che colpiscono la parte stessa o il suo rappresentante legale.
In altre parole ed in linea di principio, il decesso della parte non pregiudica
alcun diritto dei suoi successori, in quanto la presenza in giudizio del procuratore ad litem garantisce ed assicura il rispetto del contraddittorio.
Di qui il potere del difensore di proseguire il processo nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo, insuscettibile di ledere il contraddittorio e di
pregiudicare o menomare in qualche modo l’esercizio dell’attività tecnica difensiva, che è di esclusiva competenza del procuratore, sul quale graverà, se
mai, l’onere (tenuto conto della personale responsabilità di cui si faceva cenno) di dare notizia dell’esistenza e pendenza del processo ai legittimati alla
prosecuzione del giudizio per concordare con questi la determinazione di interrompere o meno il processo.
L’unico, vero limite, invece, che il procuratore della parte può incontrare
nell’esercizio del potere discrezionale di proseguire il processo successivamente all’evento interruttivo è quello del grado di giudizio, in pendenza del
quale si è verificato l’accadimento. In altre parole, allorché, la parte abbia
conferito procura ad litem per il solo giudizio di primo grado, il difensore, che
non avesse dichiarato o notificato l’evento, potrebbe solo ricevere la notifica
della sentenza o dell’atto di impugnazione, ma non potrebbe mai né notificare
validamente la sentenza né, tantomeno, interporre o costituirsi nel giudizio di
gravame. Diversamente, potrebbe attendere e svolgere legittimamente le attività in oggetto e quelle procuratorie in generale, qualora sia munito di procura anche per gli altri gradi di giudizio.
Così pure, un ulteriore limite è costituito dalla procura speciale ad impugnare per cassazione, nel senso che il procuratore costituito per i giudizi di
merito potrebbe solo ricevere la notifica della sentenza o dell’atto di impugnazione per cassazione, ma non potrebbe né validamente notificare la sentenza, né resistere con controricorso, né, tanto meno proporre ricorso in via
principale o incidentale.
Passando ora alla seconda fase processuale, che va dalla chiusura della discussione alla pubblicazione della sentenza, il verificarsi dell’evento, pur se
notificato dal procuratore, non produce alcun effetto interruttivo, perché la situazione delle parti è cristallizzata al momento iniziale di tale fase e ad essa
si riferisce la sentenza.
Tuttavia, la notificazione che il procuratore della parte defunta abbia fatto
in epoca successiva alla chiusura della discussione, come quella che faccia
una volta pubblicata la sentenza e prima che questa sia notificata richiede
che ci si interroghi sulla direzione che tale notificazione debba prendere per
poter produrre l’effetto suo proprio di determinare la decorrenza del termine
breve per l’impugnazione.
Ora, l’art. 285 c.p.c., dispone, in via generale, che la notificazione della
sentenza, al fine della decorrenza dei termini per l’impugnazione, si fa, su
istanza di parte, a norma dell’art. 170 (l’originario testo dell’art. 285 stabiliva
che “la notificazione della sentenza... si fa, su istanza di parte, a norma
dell’art. 170, commi 1 e 3”; la l. n. 69 del 2009, ha soppresso l’inciso “commi
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Parte Seconda - Giurisprudenza
1 e 3 “), ossia al procuratore costituito per la parte nel grado di giudizio concluso con la pubblicazione della sentenza.
Il primo comma del successivo art. 286, per l’ipotesi che dopo la chiusura
della discussione si sia verificata la morte o la perdita della capacità della parte alla quale deve essere notificata la sentenza, dispone che tale notificazione
nsi può fare, anche a norma dell’art. 303, comma 2, a coloro ai quali spetta
stare in giudizio”, ossia agli eredi della parte defunta, individualmente a ciascuno di loro oppure collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio
del defunto, o al rappresentante legale della parte divenuta incapace.
Le sentenze del 1984 hanno affermato che la forma verbale usata nell’art.
286, comma 1, (“si può fare”) offre alla parte totalmente o parzialmente vittoriosa due alternative per la notificazione della sentenza al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione: o dirigerla alla parte defunta o divenuta incapace, come se fosse ancora in vita o capace, rappresentata dal suo
procuratore nel precedente grado del processo, oppure dirigerla agli eredi
della controparte defunta o al rappresentate legale della controparte divenuta
incapace.
È necessario, però, precisare che questa possibilità di scelta sussiste per la
parte che si accinge alla notificazione della sentenza solo se non le sia stata
intanto notificato dal procuratore dell’altra l’evento che è sopravvenuto a menomarne la capacità di difesa.
Di tal che, la notificazione della sentenza non potrebbe sortire l’effetto di
far iniziare il decorso del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., quando sia
fatta al procuratore dell’altra, una volta che il suo procuratore ne abbia notificato il sopravvenuto effetto menomante.
È, dunque, affidata alla scelta della parte vittoriosa l’incidenza o meno della morte o della perdita della capacità della controparte, verificatasi dopo la
chiusura della discussione, nel rapporto processuale entrato nello stato di
quiescenza dopo la pubblicazione della sentenza, per la notificazione di questa al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione. Se la scelta è fatta in senso positivo, l’incidenza dell’evento nel rapporto processuale si verifica per volontà di quella parte. Se, invece, la scelta è fatta in senso negativo,
il rapporto processuale, nel suo riferimento soggettivo resta immutato, quale
era al momento della chiusura della discussione: continua ad essere parte,
rappresentata dal suo procuratore, il soggetto defunto o divenuto incapace,
come se fosse ancora in vita o capace, essendo la sua estinzione o la modifica del suo stato irrilevante nei confronti dell’altra parte.
La prospettiva da cui si pone l’art. 328 c.p.c., comma 1, è infine quella del
fatto menomante che colpisce la parte mentre è in corso il termine breve per
l’impugnazione, perciò dopo che si sia avuta la notificazione della sentenza.
Verificatosi l’evento durante la decorrenza del termine breve, questo è interrotto ed il nuovo decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è
rinnovata, la quale rinnovazione può essere fatta agli eredi collettivamente ed
impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto.
L’art. 328, comma 1, non diversifica la disciplina per l’una e l’altra parte,
disponendo genericamente che “il termine è interrotto e il nuovo decorre dal
giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata”, mentre il terzo
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
comma (sulla cui attuale operatività, a seguito della modifica dell’art. 327
c.p.c., comma 1, ci si è già interrogati in precedenza) statuisce (o statuiva)
espressamente che il termine di un anno “è prorogato per tutte le parti”: la
stessa portata deve avere la norma di cui al comma 1.
In questo periodo di quiescenza, dunque, l’evento costituisce (diversamente da quanto, come abbiamo visto, avviene nella fase attiva) un elemento genetico strutturalmente completo, che produce effetti d’interruzione o di
proroga del termine d’impugnazione in maniera diretta ed esclusiva.
Ed in questo senso, è, dunque, corretto affermare che il legislatore ha
previsto una differente disciplina per ciascuno dei momenti in cui l’evento si
verifichi; discipline che non si sovrappongono e non interferiscono tra loro,
sicché, verificatosi l’evento in un dato momento del rapporto processuale e
prodottosi l’effetto ricollegato all’evento dalla corrispondente normativa,
l’effetto così prodotto permane in tutto il successivo svolgersi del rapporto,
senza che su di esso possano influire le altre diverse normative che regolano
gli effetti dell’evento verificatosi negli ulteriori momenti del rapporto.
Perciò, tornando all’ipotesi in cui l’evento si verifichi durante la fase attiva
del processo, l’unica disciplina applicabile è quella dell’art. 300, con la conseguenza che la scelta (esteriorizzazione o meno dell’evento) è nelle mani del
procuratore della parte colpita dall’evento e l’effetto che deriverà da questa
scelta permarrà per tutto l’ulteriore svolgimento del rapporto processuale. Se
egli (unico legittimato) omette la dichiarazione dell’evento in udienza o la notificazione alle altre parti (fino all’udienza di discussione), la posizione giuridica della parte da lui rappresentata resta stabilizzata, rispetto alle altri parti
ed al giudice, come se fosse ancora viva o capace, sia nella fase attiva in corso del rapporto, sia nelle successive fasi di quiescenza, dopo la pubblicazione
della sentenza, sia di riattivazione del rapporto processuale stesso a seguito e
per effetto della proposizione dell’impugnazione.
Questa posizione giuridica stabilizzata si modificherà solo se, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiranno gli eredi della parte defunta o il
rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure, ancora, se il
procuratore di tale parte, originariamente munito di valida procura ad litem
anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiarerà in udienza o notificherà
alle altre parti l’evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sarà notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ai sensi
dell’art. 300 c.p.c., comma 4.
Ed è proprio la stabilizzazione della parte, pur se defunta o divenuta incapace, a comportare nell’ambito del rapporto processuale, verso l’esterno, nei
confronti delle altri parti e del giudice, l’ultrattività della procura alla lite. Nel
senso che verso l’esterno il procuratore costituito continua a rappresentare la
parte, considerata esistente e capace.
Tutto ciò si riflette nel rapporto interno tra cliente e procuratore. Alla base
di questo v’è, dunque, l’incarico di una prestazione d’opera professionale di
carattere pubblicistico, con conferimento del potere di rappresentanza processuale, esteriorizzato nei confronti dei terzi dalla procura alla lite (o alle liti), che permane, nonostante la morte o la perdita di capacità della parte,
nella cui posizione subentrano gli eredi o il rappresentante legale.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
7. - Critiche alla teoria dell’ultrattività del mandato.
Confutazione.
Giunti a questo punto, occorre affrontare (e confutare) le critiche rivolte
alla tesi dell’ultrattività del mandato ed alle conseguenze che essa comporta;
critiche che si sostanziano, soprattutto: nella valorizzazione della giusta parte, che a seguito del verificarsi dell’evento menomativo, non sarebbe più
quella originaria e che andrebbe tutelata nella sua diversa identità;
nell’inestensibilità della disciplina dell’art. 300 c.p.c., alle fasi processuali per
le quali non è esplicitamente prevista, dovendosi considerare questa disposizione eccezionale e derogatoria alla già menzionata disposizione civilistica
dettata in tema di mandato.
Quanto al primo rilievo, s’è già dato conto del versante giurisprudenziale
che, nel considerare le ipotesi di evento verificatosi tra un grado e l’altro del
processo, afferma l’imprescindibilità della nuova realtà soggettiva venutasi a
determinare, con la conseguenza che il nuovo grado di giudizio andrebbe instaurato da e contro i soggetti reali. È questo orientamento che, nel porre al
centro della questione la regola dell’art. 328 c.p.c., (secondo la quale - lo si
ripete - l’evento interruttivo verificatosi dopo la pubblicazione della sentenza
conclusiva di una fase di merito incide non più sul processo, bensì sul termine
per la proposizione dell’impugnazione) deduce che, in nessun caso, si può
prescindere dalla nuova, reale situazione soggettiva delle parti sostanziali interessate attualmente dalla controversia ed al processo.
Orientamento che, come s’è visto, è richiamato dal precedente delle Sezioni Unite del 1996, il quale accoglie questa impostazione giurisprudenziale
alla luce del principio “chiovendiano” secondo cui le parti, quand’è definito un
grado e deve aprirsene un altro, tornano nella situazione in cui si trova
l’attore prima di proporre la domanda, ossia prima di dover conoscere la condizione di colui col quale intende contrarre il rapporto processuale. Principio
che sarebbe derogato solo nel caso in cui l’evento si sia verificato nella fase
attiva del rapporto ed il procuratore non l’abbia dichiarato e che riacquisterebbe, invece, pieno vigore allorché l’evento si verifichi tra un grado e l’altro,
con la necessità che il processo di impugnazione vada proposto contro i soggetti “reali”.
Il riferimento (seppur sotto forma d’aggettivazione, in ragione del divieto
di citare in sentenza il nome di autori) all’illustre processual civilista è ribadito
dalla sentenza a Sezioni Unite del 2005 per giungere - come s’è visto - a conclusioni di carattere generale (non limitate, dunque, all’ipotesi in trattazione
del minorenne divenuto maggiorenne nel corso del processo) ancor più
estreme rispetto alla sentenza del 1996.
Tuttavia, oggi le Sezioni Unite nutrono un forte ripensamento circa il fatto
che quell’idea dottrinaria del processo possa essere trasferita nella materia in
questione per trarne la conseguenza che la parte, ogni volta che si apra una
nuova fase processuale (sia essa attiva o di quiescenza), debba ripetere tutti
gli stessi accertamenti svolti all’origine dell’instaurazione della causa, per
avere la certezza (pur sempre relativa) di avere come proprio interlocutore la
parte “reale” del processo.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
È pur vero che il precetto costituzionale dell’art. 111 (peraltro, invocato da
ciascuna delle contrapposte tesi) implica e contiene nel principio del contraddittorio anche quello di giusta parte. Tuttavia, occorre mettersi d’accordo su
quale sia effettivamente questa parte.
I precedenti che hanno ritenuto nulla o inammissibile l’impugnazione rivolta contro il defunto e notificata presso il suo procuratore comunemente sostengono che giusta non può considerarsi la parte non più in vita, nel cui universum ius sono subentrati i successori, deducendone che l’impugnazione va
instaurata e deve svolgersi da e contro i soggetti che siano parti attualmente
interessate alla controversia ed al processo.
Bisogna, invece, dire, sulla base di quanto finora espresso, che cosa è la
parte in senso processuale e cosa è la parte in senso sostanziale, che la giusta parte è quella che ha instaurato e quella contro cui è stato instaurato il
giudizio, ossia quelle che lo hanno fondato e costruito, conferendo il loro
mandato al difensore per la globale cura della controversia. Parti che, seppur
menomate nella loro capacità o nella loro stessa esistenza in vita, continuano
a veder tutelate le proprie ragioni, in favore di coloro che saranno i successori, ad opera del loro rappresentate eletto, al quale soltanto è conferito il potere di disvelare al giudice ed alla controparte l’avvenuta verificazione di quella
menomazione.
Allora, proprio nella logica costituzionale delle “pari condizioni processuali”, appare quanto meno paradossale che colui che è detentore della conoscenza di quell’evento (il difensore) e decida di non svelarlo al giudice ed alla
controparte, possa successivamente giovarsi di quella scelta (che potrebbe
essere addirittura concordata con i chiamati all’eredità), ottenendo che tutti
gli atti rivolti al defunto e presso di lui notificati siano, in buona sostanza ed a
prescindere dalle categorie giuridiche, ridotti nel nulla. Il legislatore, probabilmente, non ha più dettagliatamente disciplinato la materia nella prospettiva che la via della dichiarazione o della notificazione dell’evento, ai fini
dell’interruzione del processo, dovesse essere quella più comunemente sperimentata. Invece, l’interpretazione del complesso normativo nel senso opposto a quello che si va ora affermando condurrebbe non solo a legittimare il
summenzionato paradosso ma, addirittura, ad incentivare il difensore in una
scelta difensiva che porti quanto più possibile non solo a tacere ma addirittura a celare l’evento, così da avvantaggiarsene in seguito.
A tutto questo occorre aggiungere che non è infondata la protesta di molta
parte della dottrina che ha temuto (soprattutto criticando l’arresto delle Sezioni Unite del 2005) la trasformazione degli avvocati da tutori degli interessi
sostanziali dei loro clienti ad “attenti e scrupolosi investigatori della capacità
processuale della controparte”.
Passando, ora, al secondo rilievo (eccezionalità e, dunque, inestensibilità
alle fasi processuali per le quali non è prevista della disciplina dell’art. 300),
pur senza assumere alcuna posizione in ordine a quella dottrina che predica
l’autonomia del diritto processuale da quello sostanziale, occorre notare,
nell’affrontare il parallelismo tra diritto sostanziale e diritto processuale, che il
principio di ultrattività del mandato ad litem non costituisce affatto
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Parte Seconda - Giurisprudenza
un’eccezione rispetto alle regole civilistiche concernenti il mandato, bensì segue una logica insita nel sistema sostanziale.
A tal riguardo va invocato l’art. 1728 c.c., comma 1, (a mente del quale,
quando il mandato s’estingue per morte o incapacità sopravvenuta del mandante, il mandatario che ha iniziato l’esecuzione deve continuarla, se vi è pericolo nel ritardo), che è interpretato nel senso che il mandatario deve continuare l’esecuzione del mandato estinto, agendo quale gestore di negozi, non
già soltanto quando vi è un pericolo, ma sempre che a suo criterio, corrispondente a quello del buon padre di famiglia, vi sia l’eventualità di un pregiudizio per l’affare o per la buona riuscita dello stesso; così come, in sostanza, il difensore continua a gestire la lite per la parte defunta o divenuta incapace secondo la sua discrezionale scelta difensiva mirante al buon esito della
controversia.
Altrettanto, allo stesso fine, deve essere invocata la seconda parte dell’art.
1722, n. 4, la quale stabilisce che il mandato avente per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa non s’estingue per morte, interdizione o inabilitazione del mandante, se l’esercizio dell’impresa è continuato (salvo il diritto di recesso delle parti o degli eredi). Qui valgono i medesimi criteri che mantengono ferma la proposta di contratto fatta
dall’imprenditore nonostante la sua morte, interdizione o inabilitazione; ossia,
l’impresa obiettivizza gli interessi che si concentrano in essa e li rende (quasi)
indipendenti dalle vicende che colpiscono la persona dell’imprenditore. E non
è peregrina, al riguardo, la proposta di un autore favorevole alla teoria
dell’ultrattività del mandato alla lite, che suggerisce di sostituire alle parole
“atti relativi all’esercizio di un’impresa” le parole “atti relativi allo svolgimento
del processo”, per verificare la perfetta corrispondenza della menzionata teoria anche alle regole civilistiche.
Nella stessa linea si pone anche l’art. 1723 c.c., comma 2, laddove è sancito che il mandato conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi
non s’estingue per la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante.
Ai fini che ci interessano è pure utile menzionare l’art. 2013 c.c., comma
3, il quale stabilisce che l’efficacia della girata per procura del titolo di credito
non cessa per la morte o la sopravvenuta incapacità del girante.
Ma la norma fondamentale alla quale fare riferimento è quella contenuta
nell’art. 1396 c.c., comma 2, secondo cui le cause di estinzione, diverse dalla
revoca della procura, del potere di rappresentanza conferito dall’interessato
non sono opponibili ai terzi che le hanno senza colpa ignorate. E, tra le cause
di estinzione del potere rappresentativo diverse dalla revoca, vi sono, appunto, la morte o la sopravvenuta incapacità del rappresentato.
In conclusione, sembra inutile discutere della limitata efficacia della disposizione dell’art. 300 c.p.c., come conseguenza della sua eccezionalità rispetto
al sistema sostanziale: sia perché essa ha una sua specifica ratio e funzione
nel corretto e coerente svolgimento del processo, e ciò basta perché tutto il
processo possa riceverne beneficio; sia perché essa è perfettamente in linea
con il sistema sostanziale che, in particolari ipotesi e per determinati fini,
prevede, come s’è visto, dei meccanismi assolutamente analoghi.
Altri argomenti militano, poi, a favore della tesi qui affermata.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
Tenuto conto degli interessi in gioco (quello della parte che non ha subito
l’evento, alla prosecuzione del processo ed all’ammissibilità dell’impugnazione; quello della parte colpita dall’evento, alla garanzia del diritto di difesa) il neointrodotto art. 816 sexies c.p.c., (dal d.lgs. n. 40 del 2006, art. 22)
stabilisce che, se la parte viene meno per morte o altra causa, ovvero perde
la capacità legale, gli arbitri assumono le misure idonee a garantire
l’applicazione del contraddittorio ai fini della prosecuzione del giudizio. Essi
possono sospendere il procedimento e se nessuna delle parti ottempera alle
disposizioni degli arbitri per la prosecuzione del giudizio, gli arbitri possono
rinunciare all’incarico.
Disposizione, questa, che pone la prosecuzione del giudizio al centro
dell’interesse comune delle parti, pur nella salvaguardia del contraddittorio da
assicurare con qualsiasi misura dettata dall’arbitro.
L’art. 182 c.p.c., nel comma 2, sostituito dalla l. n. 69 del 1969, art. 46,
stabilisce che il giudice, quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione
della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio
delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o
per la rinnovazione della stessa. Come suggerisce un’attenta dottrina, distinguendo “rilascio” da “rinnovazione” della procura alle liti, la norma sembra
considerare due fenomeni distinti: il primo, caratterizzato dalla alterità soggettiva dell’autore della (nuova) procura rispetto a colui che l’aveva (necessariamente ex art. 125 c.p.c., comma 2) rilasciata in origine, così rimediando
al successivo venir meno del potere; il secondo, caratterizzato invece dalla
permanenza del potere in capo al medesimo soggetto, cui compete il nuovo
esercizio soltanto per emendare i vizi dell’atto formato in origine.
Pertanto, la tesi dell’ultrattività del mandato trova un’implicita convalida là
dove la legge ammette la negotiorum gestio dell’avvocato, tanto da consentire ai nuovi titolari del potere di rilasciare una procura con efficacia anche retroattiva e godere del ponte tra i diversi gradi che l’esercizio difensivo
dell’avvocato (intanto fattosi sprovvisto del potere autenticamente rappresentativo per il venir meno della parte originaria) ha già precariamente assicurato. Recuperando ex tunc, in questo modo, e stabilizzando la continuità
del potere di rappresentanza in giudizio.
A conclusione di questo discorso occorre apporre un’avvertenza. Tutto
quanto finora detto e la soluzione adottata non significa certamente che la
causa “della parte” si possa trasformare in causa “dell’avvocato”. Al contrario,
la soluzione qui accolta carica di maggiore responsabilità il difensore, poiché
è vero che la scelta di esteriorizzare o meno l’evento è solo sua e fa capo alla
propria, discrezionale scelta professionale (sia essa concordata o non con i
successori della parte scomparsa), ma è maggiormente vero che siffatto
complesso di legittimazioni e poteri lo pone in una situazione professionalmente e deontologicamente delicatissima nei confronti dei successori stessi.
Occorre, infatti, ricordare che uno dei principali obblighi scaturenti dal
contratto d’opera professionale è quello d’informazione, il che significa che è
implicito al sistema che il procuratore alla lite, verificatosi uno degli eventi dei
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Parte Seconda - Giurisprudenza
quali s’è finora discorso, è legittimato a ricevere gli atti dei quali s’è detto ed
tenuto a compiere di sua iniziativa solo gli atti urgentissimi che siano indispensabili ad evitare decadenze; per il resto, egli ha il preciso obbligo professionale di individuare immediatamente i successori o il rappresentante del
suo cliente per informarli dello stato della causa, illustrare la strategia difensiva e ricevere disposizioni in merito. Diversamente, egli è responsabile in via
disciplinare ed in via civile per qualsiasi pregiudizio derivante al cliente dalla
sua colpevole condotta.
In conclusione, va affermato il principio secondo cui:
L’incidenza sul processo degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c., (morte o
perdita di capacità della parte) è disciplinata, in ipotesi di costituzione in giudizio a mezzo di difensore, dalla regola dell’ultrattività del mandato alla lite,
in ragione della quale, nel caso in cui l’evento non sia dichiarato o notificato
nei modi e nei tempi di cui all’art. 300 c.p.c., il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento non si sia verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti
ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive fasi
di quiescenza e riattivazione del rapporto a seguito della proposizione
dell’impugnazione. Tale posizione giuridica è suscettibile di modificazione
nell’ipotesi in cui, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiscano gli
eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza
o notifichi alle altri parti l’evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte
contumace, l’evento sia documentato dall’altra parte (come previsto dalla novella di cui alla l. n. 69 del 2009, art. 46), o notificato o certificato
dall’ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 300 c.p.c., comma 4. Ne deriva che:
a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, a norma dell’art.
285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale della parte divenuta incapace; b) detto procuratore, qualora gli sia originariamente conferita procura
alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione (ad eccezione del ricorso per cassazione, per la proposizione del quale è richiesta la procura speciale) in rappresentanza della parte
che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo ancora in vita e capace; c) è ammissibile l’atto di impugnazione notificato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, presso il procuratore, alla parte
deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto diversamente conoscenza dell’evento.
8. - La soluzione del caso in esame.
Venendo ora allo ius litigatoris e riassumendo i dati della fattispecie in
trattazione, si rileva che: a) la causa sottoposta al giudizio della seconda sezione è iniziata con citazione notificata il 2 marzo 1990, dunque prima delle
modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla l. n. 353 del 1990, e successive
integrazioni; b) una delle parti è deceduta prima della pubblicazione della
sentenza di secondo grado; c) il ricorso per cassazione è stato notificato alla
parte deceduta, presso il suo procuratore nel precedente grado; d) il contro-
Rassegna Forense - 3-4/2014
889
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Ultrattività del mandato in caso di morte della parte
ricorso dei soggetti dichiaratisi eredi del de cujus è stato notificato prima del
decorso del termine c.d. lungo per l’impugnazione di legittimità, non risultando notificata la sentenza di appello.
Ciò posto, la vicenda avrebbe assunto diversi esiti a seconda che si fosse
applicata la regola della sentenza del 1996 o quella della sentenza del 2013.
La prima avrebbe attribuito efficacia sanante del ricorso (considerato nullo) al
controricorso degli eredi, con efficacia ex nunc (trattandosi, come s’è detto,
di processo introdotto prima delle modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla l. n. 353 del 1990); la seconda avrebbe sanzionato d’inammissibilità il ricorso.
La tesi oggi accolta risolve in radice ogni problema, posto che il ricorso per
cassazione risulta essere stato notificato alla parte deceduta presso il procuratore nominato per il precedente grado di giudizio. Il ricorso stesso è, dunque, ammissibile.
Gli atti vanno rimessi alla seconda sezione civile per la decisione in ordine
al merito del ricorso.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, dichiara ammissibile il ricorso e rimette gli atti
alla seconda sezione civile per la decisione in ordine al merito del ricorso
stesso.
Così deciso in Roma, il 25 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2014
890
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
281. Sull’avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della professione.
Cass. civ., SS.UU., sentenza 7 luglio 2014, n. 15429 - Primo Pres. f.f.
ROVELLI - Pres. sez. ADAMO - Pres. sez. RORDORF - Rel. BANDINI
Il ricorso al Consiglio Nazionale Forense non ha effetto sospensivo
del provvedimento di sospensione cautelare dell’avvocato dall’esercizio
della professione, sicché deve ritenersi legittima la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo per aver svolto l’attività difensiva
nonostante la sospensione in via cautelare e a tempo indeterminato
dall’esercizio della professione.
FATTO
L’avvocato P.O. impugnò avanti al Consiglio Nazionale Forense la decisione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca del 30.9.2011-21.5.2012,
con la quale gli era stata inflitta la sanzione disciplinare della cancellazione
dall’Albo professionale, per avere svolto, in data 10.12.2010, attività difensiva avanti al Tribunale di Lucca, nonostante fosse stato sospeso, in via cautelare e a tempo indeterminato, con provvedimento del competente Consiglio
dell’Ordine in data 11.10.2010, dall’esercizio dell’attività forense; con il quarto motivo di impugnazione, in particolare, l’avv. P. dedusse che l’esercizio
della professione durante la sospensione cautelare non era censurabile, in
quanto dovuta ad errore scusabile.
Con sentenza n. 195/2013 del 18.7-21.10.2013, il Consiglio Nazionale Forense respinse il ricorso.
A sostegno del decisum, per ciò che ancora qui specificamente rileva, il
Consiglio Nazionale Forense osservò quanto segue:
- il fatto storico per il quale si era proceduto non era mai stato oggetto di
contestazione e poteva dunque ritenersi pacificamente ammesso;
- l’avv. P. conosceva la sua condizione di sottoposto a sospensione cautelare o, comunque, era stato posto con ogni mezzo nelle condizioni di conoscerla;
- in ordine alla dedotta scusabilità dell’errore nel quale il ricorrente sarebbe incorso per non avere avuto la consapevolezza della efficacia immediata
della sospensione cautelare, doveva escludersi che l’iscritto all’Albo potesse
invocare, come esimente della responsabilità disciplinare, la propria ignoranza delle norme che regolano la sua attività, onde la non conoscenza dei precetti deontologici avrebbe in realtà costituito aggravante della violazione contestata e non certo giustificazione della condotta;
- doveva ritenersi l’estrema gravità del comportamento dell’avv. P., che,
svolgendo attività processuale in pendenza di sospensione cautelare, aveva
pregiudicato (o, quanto meno, avrebbe potuto compromettere) gli interessi
del proprio assistito, trattandosi di attività difensiva inficiata da nullità, che in
effetti aveva indotto il Giudice della causa a rimettere la stessa sul ruolo dopo
averla introitata per la decisione;
Rassegna Forense - 3-4/2014
891
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della professione
- la sanzione inflitta doveva ritenersi adeguata, trattandosi di comportamento indiscutibilmente grave e lesivo della dignità e del decoro della professione forense.
Avverso l’anzidetta sentenza del Consiglio Nazionale Forense, l’avv. P.O.
ha proposto ricorso per Cassazione fondato su due motivi, con richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato; ha quindi
depositato memoria illustrativa.
Gli intimati Consiglio Nazionale Forense, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca e Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di Firenze sono rimasti intimati.
DIRITTO
1. Preliminarmente il ricorso va dichiarato inammissibile nei confronti del
Consiglio Nazionale Forense e del Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di Firenze.
Infatti, come è stato affermato da queste Sezioni Unite e va qui ribadito,
nel giudizio di impugnazione delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense
dinanzi alla Corte di Cassazione, contraddittori necessari - in quanto unici
portatori dell’interesse a proporre impugnazione e a contrastare
l’impugnazione proposta - sono unicamente il soggetto destinatario del provvedimento impugnato, il consiglio dell’ordine locale che ha deciso in primo
grado in sede amministrativa ed il Pubblico Ministero presso la Corte di Cassazione, mentre tale qualità non può legittimamente riconoscersi al Consiglio
Nazionale Forense, per la sua posizione di terzietà rispetto alla controversia,
essendo l’organo che ha emesso la decisione impugnata (cfr., ex plurimis,
Cass., SU, nn. 4446/2002; 9075/2003; 18771/2004; 15289/2006;
19513/2008; 1716/2013; 14746/2014).
2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge ex art.
112 c.p.c., nonché vizio di motivazione, deducendo che, con la sentenza impugnata, non era stato esaminato in alcun modo il profilo di doglianza secondo cui esso ricorrente aveva fatto affidamento, in buona fede, su di un provvedimento di un Giudice del Tribunale di Firenze, che aveva riconosciuto
l’efficacia sospensiva dell’impugnativa al Consiglio Nazionale Forense contro
la sanzione disciplinare.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’irragionevolezza ed eccessività della sanzione inflittagli, assumendo che per l’imputabilità di un’infrazione disciplinare è necessaria la volontarietà dell’atto deontologicamente
scorretto e che, in un richiamato procedimento afferente a un diverso incolpato, era stata confermata la sanzione della sospensione dalla professione,
nonostante la pluralità delle analoghe infrazioni commesse.
3. Premesso che, come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare, l’avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della
professione è privo dello ius postulandi, tanto che deve ritenersi inammissibile il ricorso al Consiglio Nazionale Forense ove personalmente proposto
dall’avvocato sospeso (cfr., ex plurimis, Cass., SU, n. 11213/2008) e che,
come pure, con risalente decisione, queste sezioni Unite hanno espressamente precisato, il ricorso al Consiglio Nazionale Forense non ha effetto sospensi892
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
vo del provvedimento di sospensione cautelare dell’avvocato dall’esercizio
professionale (cfr., Cass., SU, n. 831/1971), deve osservarsi che il primo motivo di doglianza si incentra sulla dedotta mancata considerazione, da parte
della sentenza impugnata, di uno degli elementi di giudizio addotti
dall’interessato a sostegno del motivo di gravame incentrato sulla scusabilità
dell’errore in cui sarebbe incorso in ordine all’efficacia sospensiva del ricorso
al Consiglio Nazionale Forense.
3.1 Peraltro, come già diffusamente esposto nello storico di lite, la sentenza impugnata si è espressamente pronunciata, nei termini già ricordati, su tale specifico motivo di gravame, ritenendone l’inaccoglibilità, dal che discende
l’infondatezza del profilo di censura qui svolto e relativo alla pretesa violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato.
3.2 Quanto al pur dedotto vizio di motivazione, va tenuto presente che,
nel presente giudizio, trova applicazione il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente a seguito della riformulazione dello stesso attuata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convenuto con modificazioni nella L. n.
134 del 2012, considerato che la sentenza impugnata è stata depositata il
21.10.2013.
In proposito le Sezioni Unite di questa Corte hanno già avuto modo di affermare i principi secondo cui:
- la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22
giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi,
come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione, cosicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in
quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal
testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze
processuali; tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione;
- l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n.
83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce
nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo
all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che,
se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), con
la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c.,
comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il
“fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato
oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in
Rassegna Forense - 3-4/2014
893
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della professione
causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr., Cass.,
SU, nn. 8053/2014; 8054/2014; 9032/2014).
3.3 Nel caso di specie il fatto storico non espressamente considerato dalla
sentenza impugnata (vale a dire il ricordato provvedimento del Tribunale di
Firenze che aveva riconosciuto l’efficacia sospensiva dell’impugnativa al Consiglio Nazionale Forense contro la sanzione disciplinare) è in sé privo del carattere di decisività, non potendo ravvisarsi, quale conseguenza logicamente
necessitata dal medesimo e, come tale, comportante un diverso esito del
giudizio, il riconoscimento di un errore scusabile in ordine alla legittimità della
condotta professionale oggetto di incolpazione.
3.4 Né, attesa la sussistenza sul punto di una motivazione effettiva e non
meramente apparente, coerente con le circostanze esaminate e scevra da
elementi di illogicità, la mancata espressa considerazione dell’emergenza
istruttoria dedotta dal ricorrente può concretizzare un’anomalia motivazionale
che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto
attinente all’esistenza della motivazione in sé.
3.5 Il motivo all’esame, nei distinti profili in cui si articola, non può pertanto trovare accoglimento.
4. Quanto al secondo motivo, deve rilevarsi che, in sede di impugnazione
delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare dinanzi
alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi del R.D.L. 27 novembre
1933, n. 1578, art. 56, comma 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 22
gennaio 1934, n. 36, l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di
controllo in sede di legittimità, salvo che si traducano in palese sviamento di
potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per
il quale è stato conferito (cfr. Cass., SU, n. 7103/2007).
Oltre a ciò, essendo le suddette decisioni soggette all’obbligo di motivazione sancito per ogni provvedimento giurisdizionale dall’art. 111 Cost., esse
possono esser censurate dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
anche per difetto di motivazione, nei termini già più sopra precisati a seguito
della modificazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; alla luce dei ricordati
principi enunciati da queste Sezioni Unite, deve pertanto escludersi che la
deduzione di tale vizio possa essere tesa ad ottenere un riesame delle prove
e degli accertamenti di fatto, ovvero un sindacato sulla scelta discrezionale
del Consiglio in ordine al tipo e all’entità della sanzione, non essendo consentito alla Corte di Cassazione di sostituirsi all’organo disciplinare né
nell’enunciazione di ipotesi di illecito nell’ambito della regola generale di riferimento, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, né
nell’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni (cfr., ex
plurimis, Cass., SU, nn. 130/1999; 148/1999; 4802/2005; 20360/2007).
4.1 La coerente ed esaustiva motivazione della sentenza impugnata, nei
termini già esposti, esclude il dedotto profilo di irragionevolezza della decisione assunta, dovendo altresì osservarsi che, a tale specifico riguardo, il sindacato di ragionevolezza non può prendere a parametro di valutazione, come
894
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
preteso dal ricorrente, la sanzione inflitta, in un differente giudizio ed in diverse circostanze fattuali, ancorché per violazioni deontologiche similari, ad
altro avvocato.
4.2 Né può censurarsi in questa sede la sanzione inflitta sotto il profilo
della sua adeguatezza, in quanto, come è stato costantemente affermato da
queste Sezioni Unite e va qui ribadito, in tema di procedimento disciplinare a
carico degli avvocati, il potere di applicare la sanzione adeguata alla gravità
ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale è riservato agli organi disciplinari, cosicché la determinazione della sanzione inflitta all’incolpato dal Consiglio Nazionale Forense non è censurabile in sede di
legittimità, salvo il caso di assenza di motivazione (cfr, ex plurimis, Cass.,
SU, nn. 326/2003; 1229/2004; 11564/2011; 13791/2012; 9032/2014), ciò
che palesemente non ricorre nel caso di specie.
4.3 Anche il secondo motivo non può pertanto essere accolto.
5. Con la memoria illustrativa il ricorrente ha dedotto la violazione del
combinato disposto della L. n. 247 del 2012, artt. 52 e 59, deducendo che, in
forza di tale normativa, non è più prevista l’irrogazione della sanzione della
cancellazione dall’albo professionale; la doglianza è tuttavia inammissibile,
non essendo stata svolta con il ricorso per cassazione.
6. In definitiva il ricorso va rigettato, con conseguente assorbimento della
richiesta di sospensiva.
Non è luogo a provvedere sulle spese, in mancanza di attività difensiva da
parte degli intimati.
Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso,
sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1
quater.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e del Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di
Firenze; rigetta il ricorso nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
di Lucca; nulla per le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 1 luglio 2014.
Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2014.
Rassegna Forense - 3-4/2014
895
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Irretroattività delle norme in materia di sanzioni amministrative
282. Sul criterio generale dell’irretroattività delle norme in
materia di sanzioni amministrative.
Cass. civ., SS.UU., sentenza 14 luglio 2014, n. 16068 - Primo Pres.
f.f. ROVELLI - Pres. sez. SALMÈ - Pres. sez. RORDORF - Rel. AMATUCCI
In materia di sanzioni disciplinari a carico degli avvocati, l’art. 65,
comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, nel prevedere, con
riferimento alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua
entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del
nuovo codice deontologico. Ne consegue che per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il
criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni
amministrative, sicché è inapplicabile lo jus superveniens introdotto
con l’art. 56, comma 3, della legge n. 247.
FATTO
Rilevato che con decisione in data 30.6.2011 il Consiglio dell’ordine degli
avvocati di Catanzaro irrogò all’avv. R.F. S. la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un anno per averlo ritenuto responsabile della violazione degli artt. 5 (obbligo di probità, dignità e
decoro), 6 (dovere di lealtà e correttezza), 7 (dovere di fedeltà), 8 (dovere di
diligenza), 38 (inadempimento al mandato), 41 gestione di danaro altrui) e
15 (dovere di adempimento previdenziale e fiscale) del codice deontologico
per aver gestito in maniera non conforme al titolo la somma di circa Euro
170.000 ricevuta dalla parte assistita, “utilizzandone solo piccola parte per
assolvere ad obblighi dei propri clienti e trattenendone invece preponderante
parte, senza neanche darne il rendiconto, consegnare alla cliente le note specifiche e le parcelle fiscali e restituire le somme residuali, invece indebitamente trattenute: tutto ciò senza ottemperare all’obbligo di richiedere istruzioni scritte in ordine all’utilizzo delle somme ricevute fiduciariamente in deposito”;
che con sentenza n. 6 del 2014 il Consiglio nazionale forense ha respinto il
ricorso dell’interessato;
che avverso detta sentenza l’avv. R. ricorre per cassazione sulla base di
due motivi, con allegata istanza domandando la sospensione dell’esecuzione
della sentenza impugnata;
ritenuto che il ricorso presenta aspetti:
- di inammissibilità, in relazione all’inspiegato riferimento alla data
dell’1.2.2011 (anziché del 18.5.2010, indicata all’ottava riga di pag. 7 della
sentenza) come a quella di “reale notifica” della citazione a giudizio in sede
disciplinare, nonché in relazione alla omessa contestazione della ratio decidendi secondo la quale il compimento del termine ad quem della prescrizione
896
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
andava individuato nell’anteriore data di apertura del procedimento disciplinare (5.11.2009);
- e di infondatezza quanto alla invocata applicabilità del principio di retroattività della legge più favorevole in ambito diverso da quello penale, essendosi chiarito che “in materia di sanzioni disciplinari a carico degli avvocati,
la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 65, comma 5, nel prevedere, con riferimento alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che le
norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, riguarda esclusivamente la successione nel tempo
delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico. Ne consegue che
per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta
operante il criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni
amministrative, sicché è inapplicabile lo jus superveniens introdotto con la L.
n. 247 cit., art. 56, comma 3” (S.U. n. 11025/2014);
che, dunque, l’istanza di sospensione dell’esecuzione della menzionata
sentenza del Consiglio nazionale forense non può trovare accoglimento per
assoluto difetto di fumus boni iuris.
DIRITTO
P.Q.M.
visto il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 4; rigetta
l’istanza.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il
17 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2014.
Rassegna Forense - 3-4/2014
897
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Rilevanza delle carenze logiche ed espositive della sentenza impugnata
283. Sulla rilevanza delle carenze logiche ed espositive della
sentenza impugnata con riferimento alla decisione giudiziale di compensazione delle spese di lite.
Cass. civ., sez. III, sentenza 14 agosto 2014, n. 17960 - Pres. BERRUTI
- Rel. ROSSETTI
Quando le sentenze di primo e secondo grado mancano di nitore
sintattico, chiarezza logica e struttura espositiva, inducendo in tal
modo, anche incolpevolmente, le parti a coltivare la lite, le spese del
giudizio di legittimità sono compensate integralmente tra le parti.
FATTO
1. Nel 2004 la società M.T. s.r.l. convenne dinanzi al Tribunale di Milano la
società L. s.p.a. (che in seguito si fonderà per incorporazione nella società
U.L. s.p.a.), esponendo che:
- aveva stipulato con la L. un contratto di leasing, avente ad oggetto un
natante;
- in esecuzione di tale contratto aveva pagato una parte del corrispettivo
pattuito;
- il natante oggetto del contratto doveva essere fornito alla L. dalla società
A. s.r.l.;
- il natante approntato dalla A. s.r.l. era tuttavia affetto da vizi e difformità rispetto al modello prescelto, sicché essa M.T. si rifiutò di ritirarlo;
- il contratto di leasing stipulato con la L. prevedeva una “clausola risolutiva espressa”, in virtù della quale la risoluzione si sarebbe verificata automaticamente nel caso di: (a) risoluzione del contratto di vendita del natante; (b)
giustificato rifiuto di ritiro del bene da parte dell’utilizzatore. Chiedeva perciò
l’accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto di leasing, e la condanna della L. alla restituzione del corrispettivo percepito.
2. Il Tribunale di Milano, con sentenza 7.9.2006 n. 10021 accolse la domanda e dichiarò risolto il contratto, condannando la L. alla restituzione dei
canoni già percepiti.
3. La decisione di primo grado, impugnata dalla L., venne riformata dalla
Corte d’appello di Milano con la sentenza 8.4.2008 n. 918. Con tale sentenza
la Corte d’appello ha rigettato la domanda della M.T., sul presupposto che
nessuna risoluzione (automatica o giudiziale) si fosse verificata: né del contratto di vendita, né di quello di leasing. La Corte d’appello motivò tale decisione osservando che il contratto di leasing prevedeva la possibilità, per
l’utilizzatore, di domandare la risoluzione del contratto di vendita solo previo
consenso scritto del concedente, nella specie mancato.
4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla M.T. sulla
base di 8 motivi.
Ha resistito la U.L. (successore della L.) con controricorso.
DIRITTO
1. Il primo, secondo e terzo motivo di ricorso.
898
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
1.1. I primi tre motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente, perché tutti incentrati su un presupposto comune:
ovvero che nessun contratto di vendita si concluse mai tra la A. (fornitrice
del natante) e la L. (acquirente del natante e lessor).
Con ciascuno di essi la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3.
1.2. Col primo motivo di ricorso la ricorrente deduce di avere allegato in
primo grado che il contratto di vendita tra fornitore (A.) e concedente (L.)
non si fosse mai concluso.
Dinanzi a questa allegazione, sarebbe stato onere del concedente (L.) dimostrare l’avvenuta conclusione del contratto.
Questa prova, però, non era mai stata data. La L., in particolare, non aveva mai provato che il fornitore gli avesse restituito - così come previsto dal
contratto ai fini dell’efficacia del contratto di vendita - l’”ordine di acquisto”
debitamente firmato. Pertanto la Corte d’appello, rigettando la domanda della
M.T. di restituzione dell’acconto pagato al concedente, avrebbe violato sia gli
artt. 1457 e 2697 c.c., sia gli artt. 112 e 115 c.p.c.
1.3. Col secondo motivo di ricorso la M.T. lamenta che la Corte d’appello
avrebbe violato l’art. 1326 c.c., ritenendo concluso il contratto di vendita del
natante (tra concedente L. e fornitore A.) nonostante mancasse la relativa
prova (restituzione al concedente dell’ordine di acquisto firmato dal fornitore).
1.4. Col terzo motivo di ricorso la M.T. lamenta l’erroneità della sentenza
impugnata per non avere la Corte d’appello tenuto conto del documento, depositato dalla M.T., dimostrativo che il fornitore (A.) aveva accettato solo tardivamente la proposta di acquisto formulata dal concedente (L.). E poiché la
proposta d’acquisto era soggetta a termine essenziale, quella accettazione
tardiva era inefficace, e nessun contratto di vendita si era concluso: sicché il
contratto di leasing si era risolto per effetto della clausola risolutiva espressa
secondo cui la mancata stipula del contratto di vendita avrebbe comportato la
risoluzione ipso iure di quello di leasing. 1.5. Tutti i suddetti motivi sono
inammissibili.
Quelle che dalla M.T. vengono prospettate come altrettante violazioni delle
regole sul riparto dell’onere della prova, ovvero sulla clausola risolutiva
espressa, od infine sulla conclusione dei contratti, costituiscono in realtà doglianze concernenti un accertamento di fatto: tale è, infatti, lo stabilire se un
contratto si sia concluso o meno.
Tale accertamento in facto è istituzionalmente riservato al giudice di merito, ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato. Nel
caso di specie, la ricorrente M.T. non ha mosso censure alla motivazione con
la quale la Corte d’appello ritenne concluso e vincolante il contratto di leasing
e, implicitamente, quello di vendita del natante che ne costituiva parte essenziale.
Vale la pena aggiungere che, nella parte in cui la M.T. lamenta l’omesso
rilievo, da parte della Corte d’appello, della mancata riconsegna dalla A. alla
L. del documento (“ordine d’acquisto”) cui le parti avevano pattiziamente subordinato l’efficacia della locazione finanziaria, prospetta in realtà un vizio re-
Rassegna Forense - 3-4/2014
899
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Rilevanza delle carenze logiche ed espositive della sentenza impugnata
vocatorio, che si sarebbe dovuto far valere con le forme di cui all’art. 395
c.p.c.
3. Il quarto motivo di ricorso.
3.1. Col quarto motivo di ricorso la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360
c.p.c., n. 3.
Espone, al riguardo, che il fornitore del natante (A.) aveva intimato al
concedente (L.) una diffida ad adempiere, affinché fosse ritirato il natante
stesso presso il cantiere della A.
Poiché il relativo termine scadde inutilmente, la vendita doveva considerarsi risolta ipso iure, ex art. 1454 c.c., e con essa anche il leasing, in virtù
della clausola risolutiva espressa di cui all’art. 5 del contratto di leasing. 3.2.
Il motivo è tanto inammissibile quanto infondato.
È inammissibile perché la ricorrente M.T., pur invocando gli effetti dell’art.
5 delle condizioni generali di contratto, non ne ha trascritto integralmente il
contenuto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 2560 del 06/02/2007, Rv. 594992).
È, in ogni caso, infondato, poiché la diffida della A. alla L. parrebbe intimata il 7 (o l’8) agosto, con termine per il ritiro di natante il 9 successivo: e
dunque essa non era efficace, per difetto della fissazione del termine minimo
di 15 giorni prescritto dall’art. 1454 c.c.
4. Il quinto motivo di ricorso.
4.1. Col quinto motivo di ricorso la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360
c.p.c., n. 3.
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe escluso che si fosse
verificata una risoluzione del contratto di vendita, sul presupposto che nel
contratto di leasing era previsto che la risoluzione potesse essere domandata
dal utilizzatore al fornitore solo su autorizzazione scritta del concedente, nella
specie mancata.
Tuttavia la Corte d’appello non ha considerato che la concedente (L.) aveva ratificato con un comportamento concludente l’operato della utilizzatrice
(M.T.) che aveva manifestato la volontà di ritenere risolto il contratto di vendita.
Pertanto:
- l’utilizzatrice ed il fornitore avevano ritenuto risolto il contratto di vendita;
- l’utilizzatrice era rappresentante del concedente, per patto espresso del
contratto di leasing;
- il concedente ne aveva ratificato l’operato;
- ergo, il contratto di vendita si era risolto, e con esso quello di leasing per
effetto dell’art. 5 delle condizioni generali del contratto di leasing. La Corte
d’appello tuttavia, conclude la ricorrente, non aveva considerato tali circostanze “senza motivazione giustificativa alcuna”.
4.2. Il motivo è inammissibile, per più ragioni.
La prima ragione di inammissibilità è che, pur formalmente lamentando un
vizio di violazione di legge, la M.T. deduce nella sostanza un vizio di motiva-
900
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
zione (cfr. il ricorso, foglio 23, secondo capoverso), senza far seguire il motivo di ricorso dalla chiara indicazione del fatto controverso, prescritto dall’art.
366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis al presente giudizio.
La seconda ragione di inammissibilità è che anche in questo caso la M.T.
invoca gli effetti di una clausola contrattuale (l’art. 5 del contratto di leasing)
senza averne trascritto integralmente il contenuto nel ricorso.
La terza ragione di inammissibilità è che la quaestio facti dell’esistenza
d’una risoluzione consensuale del contratto dei vendita; della ratifica da parte
della L. all’operato della M.T., e della sussistenza d’un potere rappresentativo
della prima in capo alla seconda, sono questioni del tutto nuove, prospettate
inammissibilmente per la prima volta in questa sede.
5. Il sesto, settimo ed ottavo motivo di ricorso.
5.1. I motivi di ricorso sesto, settimo ed ottavo possono essere esaminati
congiuntamente, perché con tutti e tre la M.T. lamenta un vizio di motivazione della sentenza impugnata.
5.2. Col sesto motivo di ricorso la M.T. si duole del fatto che la Corte
d’appello abbia dichiarato “inopponibile” al venditore (A.), estraneo al giudizio, gli esiti di quest’ultimo.
5.3. Col settimo motivo di ricorso la M.T. lamenta che la Corte d’appello
non avrebbe motivato la propria affermazione secondo cui la risoluzione del
contratto di vendita poteva essere domandata dall’utilizzatore solo col consenso scritto del concedente.
5.3. Con l’ottavo motivo di ricorso la M.T. lamenta che la Corte d’appello
avrebbe errato nel ritenere che l’utilizzatore avesse dato spontanea esecuzione al contratto di leasing, nonostante l’inadempimento di controparte, e che
quindi nessuna risoluzione per inadempimento si fosse verificata.
5.4. Tutti e tre i motivi sono inammissibili, perché non conclusi dalla “chiara indicazione del fatto controverso”, prescritta a pena d’inammissibilità
dall’art. 366 bis c.p.c.
6. Le spese.
La circostanza che tanto la sentenza di primo grado, quanto quella di secondo grado, non brillino certo per nitore sintattico, chiarezza logica e struttura espositiva, e che tali carenze possano avere indotto le parti, anche incolpevolmente, a coltivare la lite, costituiscono un giusto motivo ai sensi dell’art.
92 c.p.c., comma 2, (nel testo applicabile ratione temporis al presente giudizio, ovvero nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. 28 dicembre
2005, n. 263, art. 21, lett. (a), applicabile ai procedimenti iniziati sino al 1
marzo 2006) per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio
di legittimità.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
-) rigetta il ricorso;
-) compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile
della Corte di cassazione, il 28 aprile 2014.
Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2014.
Rassegna Forense - 3-4/2014
901
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Differenza tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio
284. Sulla differenza tra la procura ad litem e il contratto di
patrocinio.
Cass. civ., sez. II, sentenza 29 agosto 2014, n. 18450 - Pres. TRIOLA Rel. NUZZO
In tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la
procura ad litem è un negozio unilaterale col quale il difensore viene
investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il contratto
di patrocinio è un negozio bilaterale col quale il professionista viene
incaricato di svolgere la sua opera secondo lo schema del mandato.
Pertanto, come presupposto di riconoscimento del compenso per le
prestazioni svolte dal difensore nel giudizio, occorre accertare, anche d’ufficio, il valido conferimento della procura, non potendo
l’invalidità di questa essere superata dal contratto di patrocinio, che
può riferirsi solo ad un’attività extragiudiziaria svolta dal professionista in favore del cliente sulla base di un rapporto interno di natura
extraprocessuale.
FATTO
Con atto di citazione notificato in data 8.7.2005, M.G. F. proponeva appello avverso la sentenza del giudice di Pace di Roma, in data 2.2.2015, che
l’aveva condannata al pagamento della somma di Euro 2.550,00, oltre interessi ed accessori nei confronti dell’avvocato Ma.Fa., per l’assistenza e rappresentanza da questi prestata nei confronti della M.G. in un giudizio risarcitorio dalla stessa promosso innanzi al giudice di pace di Roma (R.G.
8114/2000).
Il Tribunale di Roma rigettava le eccezioni riproposte con l’atto di appello(nullità per genericità della domanda, difetto dei termini liberi a comparire,
nullità della notifica ex art. 143 c.p.c., per difetto delle prescritte ricerche), rilevando che “petitum” e la “causa pretendi” della domanda era individuabile e
che era intervenuta sanatoria di dette violazioni processuali a seguito della
costituzione della parte convenuta che, fra l’altro, non aveva contestato la
inosservanza dei termini di comparizione; riteneva sussistente la prova sul
mandato professionale conferito all’Avv. Ma.; dichiarava assorbita ogni questione sulla querela di falso proposta avverso la procura alle liti a margine
dell’atto di citazione di detto giudizio risarcitorio, rilevando che ad una procura invalida poteva accompagnarsi sul piano negoziale un contratto di patrocinio valido ed efficace, posto che “l’invalidità della prima non preclude al giudice l’accertamento aliunde dell’esistenza del secondo”; dichiarava inammissibili, ex art. 345 c.p.c., le censure relative alla “notula” formata dall’avv. Ma.
nel giudizio risarcitorio innanzi al Giudice di Pace di Roma.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso M.G. F. formulando otto
motivi; illustrati da successiva memoria.
L’intimato non ha svolto attività difensiva.
902
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
DIRITTO
La ricorrente deduce:
1) violazione dell’art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4, non avendo l’Avv. Ma. specificato il fatto che avrebbe dato origine alla pretesa fatta valere in giudizio; ne
conseguiva la nullità della citazione per difetto dei requisiti richiesti dall’art.
164 c.p.c.
La censura si conclude con il seguente quesito di diritto: “se l’atto di citazione privo dei requisiti di cui all’art. 164 c.p.c., non produce effetti giuridici
se la parte cui è diretto solleva subito l’eccezione di nullità”;
2) nullità della notifica eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c., stante
l’insufficienza del termine (16 giorni) rispetto alla data di udienza fissata per
il 28.3.03, in relazione al perfezionamento delle notifica (12.3.03) ed essendo
avvenuta la costituzione del convenuto solo il 25.11.03 quando detto termine
era già spirato.
Sul punto si chiede l’affermazione del principio: “quando il difetto del termine di costituzione indicato nell’art. 163 bis c.p.c., viene rilevato dopo la sua
scadenza, per motivo non imputabile alla parte, il giudizio è nullo, avendo il
termine esaurito il proprio scopo”;
3) nullità della notifica per violazione dell’art. 143 c.p.c., posto che nella
prima relata di notifica del 7.2.03 si dava atto dell’impossibilità di eseguire la
notifica per trasferimento della destinataria e che. nella successiva relata del
22.2.93 si attestava il deposito, ex art. 143 c.p.c., di copia dell’atto da notificare nella casa comunale di Roma, senza alcuna indicazione delle ricerche
necessarie ad accertare la nuova residenza del destinatario dell’atto stesso.
Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., si chiede se “la notifica è valida il ventesimo
giorno successivo a quello in cui è stata attuata la formalità del deposito
presso la casa comunale essendo stata abolita l’affissione presso il giudice
davanti a cui si procede e che la notificazione è nulla se non risultano svolte
le ricerche da parte dell’ufficiale giudiziario”;
4) omessa e/o contraddittoria motivazione, laddove il giudice di appello
aveva affermato che “nel merito la parte appellante ripropone nell’atto di impugnazione, senza con ciò individuare peraltro puntuali motivi di censura della sentenza di primo grado, le medesime argomentazioni spese dinanzi al
giudice di pace”; in realtà le censure erano state svolte ed il Tribunale le aveva elencate ed aveva affermato, nella prima udienza e nelle successive, che
l’appellante non aveva riproposto l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza ex artt. 281 e 353 c.p.c., nonostante tali norme non prevedessero la proposizione di detta istanza in udienza.
La censura si conclude con la richiesta di affermazione del principio “che la
istanza di sospensione della efficacia della sentenza impugnata è validamente
proposta nell’atto introduttivo e non necessita di ulteriore conferma in udienza, mentre il giudice deve provvedevi alla prima udienza”;
5) violazione degli artt. 99 e 100 c.p.c., per avere il giudice di appello superato la questione sulla validità della procura alle liti, una volta accertato il
conferimento di mandato sostanziale, non considerando che ciò vale per le
attività stragiudiziarie, ma non per quelle giudiziarie richiedenti la procura
Rassegna Forense - 3-4/2014
903
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Differenza tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio
con rappresentanza e, nella specie, il compenso professionale era stato richiesto dall’avv. Ma. solo per lo svolgimento di attività giudiziaria;
peraltro, la circostanza da cui il giudice di appello aveva desunto il mandato sostanziale (partecipazione della G. alle operazioni del C.T.U. per una visita medica di accertamento degli esiti derivati da un incidente stradale), non
implicava che la parte fosse stata consapevole della instaurazione del giudizio.
Al riguardo viene sollecitata l’affermazione del principio secondo cui “le attività giudiziarie comportano oneri per la parte solo se in presenza di regolare
procura alle liti e che il mandato per avere effetto in sede stragiudiziale, se
contestato, deve avere il supporto della prova fornita dalla parte o comunque
ricavata dall’insieme di tutte le prove”;
6) violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e art. 2697 c.c., laddove la sentenza impugnata aveva affermato che il difetto di procura alle liti non invalidava il sottostante mandato e che, ad una procura invalida, poteva accompagnarsi un contratto di patrocinio valido, non considerando che la contestazione della procura si estendeva a tutto il giudizio. La censura si conclude con il
quesito: se le attività giudiziarie comportino oneri per la parte solo in presenza di regolare procura alle lite e se il mandato per avere effetto in sede stragiudiziale, ove contestato, deve essere provato dalla parte;
7) violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo al rapporto tra valore
della causa ed oneri, avendo l’Avv. Ma. chiesto con riferimento ad un danno
di Euro 1.000,00, un importo di Euro 5.500,00 per spese processuali benché
fossero state contestate alcune prestazioni professionali (11 udienze invece di
6; due prove invece di una ecc); si punto si chiede “se i compensi per
l’assistenza professionale non possono superare la metà del valore
dell’incarico, salvo ulteriori indicazioni per importi elevati”;
8) violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 3, in relazione al codice deontologico, per avere l’Avv. Ma. promosso un giudizio “con colpa grave e malafede in quanto l’azione appariva palesemente infondata” (l’assicurazione aveva
già pagato il danno fisico; il motorino non era intestato alla G., la causa era
stata instaurata senza procura alle liti; la parte assistita non era stata mai informata del giudizio).
Il primo motivo è infondato. La sentenza impugnata ha dato conto della
piena identificazione dei termini della domanda introduttiva del giudizio sulla
base delle valutazioni espresse dal giudice di prime cure; la doglianza non
contesta tali valutazioni, limitandosi a riprodurre genericamente la censura
svolta in sede di appello e, quindi, sotto tale profilo, la stessa è priva del requisito di specificità.
Quanto al secondo e terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente perché
connessi, è sufficiente ribadire, in aderenza alla giurisprudenza in materia
(Cass. n. 3335/2002), che le dedotte nullità erano rimaste sanate dalla intervenuta costituzione in giudizio della M., non avendo la stessa, peraltro, sollevato alcuna questione sulla inosservanza dei termini a comparire, come si
legge in sentenza.
La quarta censura è priva di fondamento, avendo il giudice di appello evidenziato che l’appellante M. non aveva riproposto l’istanza di sospensione, ex
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
artt. 283 e 351 c.p.c., ritenendo, di conseguenza, con valutazione e immune
di vizi logici e giuridici, che la parte avesse rinunciato a tale istanza.
Meritano, invece, accoglimento il quinto ed il sesto motivo che, per la loro
connessione logica, possono essere trattati congiuntamente.
Va, innanzitutto, rammentato che la procura alle liti costituisce il presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale e può essere conferita, con effetti retroattivi, solo nei limiti stabiliti dall’art. 125 c.p.c., il quale
prevede che la procura al difensore può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell’atto, purché anteriormente alla costituzione della parte
rappresentata (Cass. S.U. n. 10706/2006; Cass. n. 9464/2012).
Nella specie la M. ha negato, sin dal giudizio di primo grado, di aver conferito all’avv. Ma.Fa. procura alle liti nel giudizio di risarcimento danni da questi
promosso contro l’autore di incidente stradale in danno dell’attrice (giudizio
iscritto al n. di R.G. 8114/2000), tanto che, in sede di appello, la stessa ha
proposto querela di falso, ex art. 221 c.p.c., assumendo la falsità di detta
procura alle liti.
Il Tribunale ha superato le questioni sulla regolarità del conferimento della
procura ad litem, ravvisando la sussistenza di un contratto “di mandato professionale o di patrocinio”, desunto dalla circostanza che la M. si era sottoposta, in detto giudizio, ad una visita medica e dal fatto che non aveva contestato di aver ricevuto dalla compagnia di assicurazione, per il sinistro in questione, una somma a titolo di risarcitorio. La M., secondo quanto affermato
nella sentenza impugnata, “non avrebbe potuto, quindi, ignorare la posizione
rivestita nel processo” e gli oneri assunti nei confronti dell’avv. Ma. sicché allo
stesso era dovuto il compenso professionale per le prestazioni svolte nel giudizio suddetto.
Orbene, a parte l’inadeguatezza della motivazione in ordine alla presunta
sussistenza del contratto di patrocinio, in quanto rapportato a circostanze
prive del requisito di univocità della prova, deve rilevarsi l’erroneità in diritto
di tale motivazione, considerato che, mentre la procura “ad litem” costituisce
un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di
rappresentare la parte in giudizio con le forme previste dall’art. 83 c.p.c., il
mandato sostanziale costituisce un negozio bilaterale (contratto di patrocinio)
con cui il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera professionale
in favore della parte, secondo la schema proprio del mandato(Cass. n.
13963/2006; n. 10454/2002).
Ne consegue che per l’attività svolta nell’ambito del processo si richiede
l’accertamento, anche di ufficio, della validità del conferimento della procura,
quale presupposto per il riconoscimento dell’eventuale compenso spettante al
difensore per le prestazioni da lui svolte nel giudizio stesso, non potendo la
eventuale invalidità della procura alle liti, da conferirsi nelle forme di legge,
essere superata, ai fini del riconoscimento di detto compenso professionale,
dal contratto di patrocinio che può riferirsi solo ad un’attività extragiudiziaria,
svolta dal professionista legale in favore del proprio cliente, sulla base di un
rapporto interno, di natura extraprocessuale, con il cliente stesso, rapporto
ben distinto, quindi, dal mandato “ad litem”.
Rassegna Forense - 3-4/2014
905
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Differenza tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio
D’altronde, in difetto di un conferimento di una procura alle liti per la rappresentanza e difesa in giudizio, non insorgendo un rapporto professionale
tra patrono e cliente, non è neppure consentito determinare il contento economico del compenso professionale, secondo le norme inderogabili di cui alla
L. n. 794 del 1942, in materia di prestazioni giudiziali degli avvocati in sede
civile (Cass. n. 28718/2008).
Va, infine, rilevato che il settimo e l’ottavo motivo sono inammissibili per il
loro carattere di novità, non risultando che le relative questioni siano state
sollevate con l’atto di appello.
In conclusione, alla stregua di quanto osservato, vanno rigettati i motivi
da uno a quattro, nonché il settimo e l’ottavo motivo, mentre in accoglimento
del quinto e del sesto motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata con
rinvio al Tribunale di Roma, in persona di un diverso giudice, che provvederà
anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta i motivi da uno a quattro nonché il settimo e l’ottavo motivo; accoglie il quinto ed il sesto motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Roma in persona di un diverso giudice anche per le spese
del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 22 maggio 2014.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2014.
906
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
285. Sul contenuto dell’esposto o della segnalazione nei confronti dell’avvocato al competente Consiglio dell’ordine
forense.
Cass. pen., sez. I, sentenza 23 settembre 2014, n. 41749 - Pres.
ZAMPETTI - Rel. MAZZEI
L’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense contenente accuse di condotte deontologicamente rilevanti, tenute
da un professionista nei confronti del cliente denunciante, costituisce
esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso
il diritto di critica, sub specie di esposto, di cui all’art. 51 c.p., per il
quale valgono i limiti ad esso connaturati, occorrendo, in primo luogo,
che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia
fermamente e incolpevolmente (ancorché erroneamente) convinto di
quanto afferma; tali limiti, se rispettati, escludono la sussistenza del
delitto di diffamazione (esclusa, nella specie, la responsabilità di un
imputato che aveva inoltrato un esposto al Consiglio dell’ordine degli
avvocati nel quale scriveva che la condotta professionale dell’avvocato
era stata improntata a fare di tutto perché la società legalmente rappresentata dall’imputato iniziasse cause al solo fine di assicurare
compensi allo stesso avvocato, senza alcun risultato positivo).
FATTO
1. Il Tribunale di Sulmona, con sentenza del 21 marzo 2013, resa nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento di precedente decisione dello stesso
Tribunale del 26 maggio 2011, giusta sentenza di questa Corte di cassazione
in data 4 ottobre 2012, ha confermato la decisione del Giudice di pace di
Sulmona, emessa il 23 luglio 2010, con la quale G.M. era stato condannato
alla pena di Euro cinquecento di multa per il delitto di diffamazione, di cui
all’art. 595, commi primo e secondo, cod. pen., in danno di C. V., con assegnazione alla persona offesa, costituitasi parte civile, di una provvisionale,
immediatamente esecutiva, di Euro diecimila.
Secondo il tenore della contestazione criminosa, il G. aveva offeso l’onore
e la reputazione dell’avvocato C.V. mediante l’inoltro di un esposto al Consiglio dell’ordine degli avvocati presso il Tribunale di Sulmona, in data 29 agosto 2007, nel quale scriveva che la condotta professionale del C. era stata
improntata a fare di tutto perché la società Ecoprogetti s.r.l., legalmente rappresentata dal G., iniziasse cause al solo fine di assicurare compensi allo
stesso avvocato, senza alcun risultato positivo; inoltre, con l’avvento
dell’avvocato S. M., nominato al posto del C., e già destinatario di precedente
esposto del G. al Consiglio dell’Ordine in data 14 dicembre 2006, c’era stata,
secondo la testuale espressione utilizzata nella segnalazione del 29 agosto
2007, “la botta finale” in danno del G., perché, come riconosciuto per iscritto
dal terzo legale officiato, l’avvocato Sc.Ro., i predetti C. e S. avevano attuato
una “collusione retributiva” (altra espressione testuale dell’esposto) per gonRassegna Forense - 3-4/2014
907
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Contenuto dell’esposto o della segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense
fiare le rispettive parcelle nei confronti della Ecoprogetti e condurla al fallimento.
La Corte di cassazione, nella sentenza di annullamento del 4 ottobre 2012,
ha ritenuto integrato l’elemento oggettivo del reato e, tuttavia, ha rilevato
che il Tribunale di Sulmona, nella sentenza di appello del 26 maggio 2011,
pur essendo stato espressamente sollecitato sul punto col quarto motivo di
impugnazione, non aveva preso in considerazione l’eventuale ricorrenza della
causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., o della
causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p., entrambe ignorate anche
nella decisione di primo grado del 23 luglio 2010; ha, quindi, rinviato gli atti
al Tribunale di Sulmona perché eliminasse la rilevata lacuna argomentativa,
riesaminando il fatto con riguardo alla possibile ricorrenza delle predette esimenti nell’esposto presentato dall’Imputato al Consiglio dell’ordine forense
per denunciare condotte del professionista ritenute deontologicamente scorrette, in quanto legittima espressione del diritto di critica nei limiti enunciati
dalla giurisprudenza di legittimità.
Il Tribunale di Sulmona, giudice del rinvio, a sostegno della decisione di
conferma della sentenza di condanna, dopo aver richiamato i limiti connaturati al diritto di critica (fondamento delle accuse o convinzione, sia pure erronea, dell’accusatore della veridicità di quanto affermato), ha ritenuto che il G.
non avesse dato la prova, a lui spettante, né della verità dei fatti esposti a
carico del C., né della sua incolpevole convinzione della veridicità di quanto
denunciato.
2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il G.
tramite i difensori, avvocati Dario Visconti e Vincenzina Buonajuto, i quali articolano quattro motivi.
2.1. Il primo motivo denuncia mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere il Tribunale omesso di prendere in considerazione i fatti storici, che si assumono incontroversi, documentati nel corso
del processo, e in particolare:
a) l’effettivo rapporto professionale intercorso tra l’avvocato C. e
l’imputato; b) le parcelle professionali particolarmente elevate presentate dal
professionista (circa diecimila Euro) per una causa che sarebbe stata male
impostata fin dall’inizio; c) il non puntuale adempimento degli obblighi professionali da parte del C. al punto che il G. gli aveva revocato la procura; d)
la conoscenza della situazione economica dell’impresa rappresentata
dall’imputato, da parte del professionista, intenzionato a richiederne il fallimento pur di riscuotere le sue esose parcelle.
Tali fatti sarebbero stati documentati con la produzione e acquisizione dei
seguenti atti: e) atto di citazione nel confronti degli eredi Gi., redatto il 3 settembre 1999 dall’avvocato C., in qualità di procuratore dell’impresa Ecoprogetti s.r.l.; f) sentenza del Tribunale civile di Sulmona, in data 21 aprile
2005, di rigetto della suddetta domanda, dalla quale emergerebbe, secondo il
ricorrente, la negligente prestazione professionale dell’avvocato C. nei suoi
confronti (la domanda nei confronti degli eredi Gi. formulava l’esorbitante richiesta di cinque miliardi a titolo di risarcimento del danno, al solo fine - secondo il G. - di far lievitare il valore della causa e consentire al professionista
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Parte Seconda - Giurisprudenza
di pretendere onorari più elevati, e sarebbe stata respinta per mancanza dei
requisiti giuridici essenziali); g) ricorso per decreto ingiuntivo proposto dal C.,
in data 1 giugno 2005, nei confronti della società Ecoprogetti, rappresentata
dal G., per competenze professionali ascendenti ad Euro 26.866, di cui Euro
9.936 solo per la suddetta causa persa contro gli eredi G.; h) ricorso per decreto ingiuntivo, recante la data del 18 febbraio 2006, proposto dall’avvocato
S.M., subentrato al C., per richiedere alla medesima Ecoprogetti onorali professionali assommanti ad Euro 63.255 oltre accessori di legge, di cui Euro
11.548 imputabili alla sola memoria conclusiva nel suddetto procedimento civile contro gli eredi Gi.; i) opposizione del G., assistito dal nuovo avvocato,
Sc.Ro., ai decreti ingiuntivi ottenuti dagli avvocati C. e S.
Nell’opposizione ai decreti ingiuntivi era stato lo stesso redattore, avvocato Sc., ad usare l’espressione “collusione retribuiva” a proposito dei rapporti
tra i due precedenti avvocati in danno del G., evidenziando che la richiesta di
provvisoria esecuzione dei decreti opposti preludeva alla presentazione di
istanza di fallimento nei confronti della società debitrice, Ecoprogetti s.r.l.
Tutta la suddetta documentazione, pur risultando acquisita fin dal processo di primo grado davanti al Giudice di pace di Sulmona, unitamente agli
esposti del 14 dicembre 2006 e del 29 agosto 2007, era stata completamente
ignorata dal giudice di rinvio, sebbene rilevante per accertare la ricorrenza
dei presupposti della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 c.p., o della
causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p., la cui omessa considerazione
aveva determinato l’annullamento della prima sentenza di appello.
Parimenti obliterate dal giudice di merito erano state le dichiarazioni rese
dall’avvocato Sc. all’ufficiale del commissariato di Avezzano, delegato dal
pubblico ministero, in merito al significato dell’espressione “collusione retribuiva”, utilizzata dallo stesso professionista per stigmatizzare l’operato dei
colleghi predecessori nell’assistenza legale del G., i quali, a suo avviso,
avrebbero richiesto all’attuale ricorrente somme esorbitanti e non corrispondenti alle tariffe professionali, considerato anche l’esito delle cause.
Il G., pertanto, nel rappresentare sia pure con linguaggio colorito tutte le
predette circostanze al competente Consiglio dell’ordine forense di Sulmona,
non avrebbe fatto altro che esercitare il suo legittimo diritto di critica
dell’operato dei professionisti cui si era affidato, tanto più censurabile per la
consapevolezza degli stessi legali di poter determinare, con le loro esose richieste, il fallimento della società Ecoprogetti che avevano rappresentato in
giudizio.
Trattandosi, inoltre, di fatti storici neppure contestati dalla persona offesa,
era evidente che il G., se anche avesse errato nel l’attribuire all’avvocato C.
un comportamento deontologicamente scorretto, lo avrebbe fatto per errore
e non dolosamente, nella convinzione di essere stato effettivamente vittima
di un comportamento ingiusto da parte del professionista.
E, in proposito, il ricorrente richiama l’esito del procedimento per calunnia
iscritto nei suoi confronti sulla base del precedente esposto del 14 dicembre
2006 presentato contro l’avvocato S. M.: tale procedimento era stato definito, su conforme richiesta del pubblico ministero, con decreto di archiviazione,
non avendo il G. mosso accuse di commissione di reati nei confronti
Rassegna Forense - 3-4/2014
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Contenuto dell’esposto o della segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense
dell’avvocato S., ma solo prospettato fatti di rilevanza disciplinare circa
l’opera professionale prestata dal legale nei suoi confronti, e comunque difettando l’elemento psicologico del reato.
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge per erronea
applicazione dell’art. 51 c.p., di cui ricorrerebbero, nel caso in esame, tutti i
presupposti non esaminati dal Tribunale: la verità del fatti rappresentati
nell’esposto; l’interesse pubblico sotteso alla denuncia presentata al Consiglio
dell’ordine degli avvocati, organo competente a sanzionare i comportamenti
deontologicamente scorretti; la continenza formale e sostanziale delle
espressioni usate, seppure colorite, ma non gravemente infamanti o inutilmente umilianti nei confronti del professionista.
2.3. Il terzo motivo lamenta l’erronea applicazione della legge penale in
relazione alla causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p., dovendo il G.
considerarsi parte del procedimento disciplinare da lui richiesto con l’esposto
del 29 agosto 2007 nei confronti dell’avvocato C., come da giurisprudenza di
legittimità (citata sentenza n. 19248 del 2013); d’altronde, non sarebbe conforme a giustizia che una stessa frase, inserita in un atto giudiziario o ricorso
amministrativo, non sia punibile come diffamatoria, mentre lo sarebbe solo
perché inclusa in un esposto correttamente indirizzato all’autorità competente
a promuovere il procedimento disciplinare e, quindi, preposta alla tutela di interessi pubblici.
2.4. Il quarto motivo denuncia violazione di legge penale sostanziale e
processuale per inosservanza dei principi direttivi fissati nella sentenza di annullamento con rinvio della quinta sezione di questa Corte di cassazione, richiedente l’esame dei dati probatori già acquisiti, del tutto omesso nella generica motivazione adottata dal giudice del rinvio, al fine di verificare la possibile ricorrenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 c.p., ovvero
della causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p.
DIRITTO
1. Il primo e il quarto motivo del ricorso sono fondati.
1.1 La sentenza emessa nel giudizio di rinvio è, innanzitutto, giuridicamente errata, laddove respinge l’appello proposto dall’imputato avverso la
sentenza di condanna per diffamazione, poiché il ricorrente non avrebbe fornito la prova di avere legittimamente esercitato il suo diritto di critica
dell’operato professionale della persona offesa.
Nell’ordinamento processuale penale, invero, non è previsto un onere di
prova a carico dell’imputato, modellato sui principi propri del processo civile,
ma è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale
l’imputato è tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari
all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati,
a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di
giustificazione, il caso fortuito, la forza maggiore, il costringimento fisico e
l’errore di fatto (Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013, dep. 10/05/2013, Weng,
Rv. 255916; conforme, tra le molte, con specifico riguardo all’Invocata applicazione di una causa di giustificazione: Sez. 1, n. 717 del 15/04/1988, dep.
21/01/1989, Zirafi, Rv. 180232).
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Parte Seconda - Giurisprudenza
La sentenza impugnata, inoltre, elude l’indicazione della pronuncia di annullamento a colmare la lacuna argomentativa in punto di eventuale ricorrenza
della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 c.p., o dall’art. 598 c.p., limitandosi al generico rilievo che l’imputato non avrebbe provato la verità dei fatti
rappresentati nel suo esposto al Consiglio dell’Ordine in data 29 agosto 2007
ovvero la sua incolpevole convinzione della veridicità di quanto denunciato.
Al riguardo, dalla lettura della sentenza appellata si evince la produzione
difensiva, fin dal primo grado del giudizio, degli atti pertinenti all’assistenza
prestata al G. dall’avvocato C. nel processo civile richiamato nell’esposto del
29 agosto 2007, e l’acquisizione d’ufficio di copia degli atti presenti nel fascicolo iscritto presso il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Sulmona sulla base
del medesimo esposto.
Proprio sulla ritenuta completezza di tale compendio documentale era fondata l’ordinanza del Giudice di pace che aveva respinto la richiesta di esame
testimoniale, ex art. 507 c.p.p., dell’avvocato Sc.Ro., il quale, per primo,
aveva qualificato il rapporto tra i due precedenti difensori del G., entrambi richiedenti e beneficiari di decreti ingiuntivi nei confronti dell’impresa rappresentata dall’imputato per cospicue somme di denaro a titolo di onorari e spese, come un sodalizio finalizzato alla “collusione retribuiva”, espressione testualmente mutuata dal G. nell’esposto presentato al Consiglio dell’ordine.
La denuncia del ricorrente alla competente autorità disciplinare non era,
pertanto, svestita e il giudice del rinvio, nel doveroso riesame del caso in funzione dell’accertamento dell’eventuale ricorrenza degli estremi della causa di
giustificazione, non avrebbe dovuto omettere di valutare la documentazione
prodotta e acquisita di ufficio, per stabilire se da essa emergessero elementi
idonei a corroborare le censure esposte dal G. o, comunque, a determinare
nell’imputato la convinzione di aver subito comportamenti professionali deontologicamente scorretti e meritevoli di essere sanzionati.
E questo in conformità della giurisprudenza richiamata nella stessa sentenza di annullamento, secondo la quale “l’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense contenente accuse di condotte deontologicamente rilevanti, tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciarne, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo,
attraverso il diritto di critica, sub specie di esposto, di cui all’art. 51 c.p., per
il quale valgono i limiti ad esso connaturati, occorrendo, in primo luogo, che
le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente
e incolpevolmente (ancorché erroneamente) convinto di quanto afferma; tali
limiti, se rispettati, escludono la sussistenza del delitto di diffamazione” (Sez.
5, n. 28081 del 15/04/2011, dep. 15/07/2011, Tarante, Rv. 250406; conformi: n. 3565 del 2008, Rv. 238909).
L’omessa verifica, da parte del giudice del rinvio, dell’eventuale legittimo
esercizio del diritto di critica dell’operato del professionista nell’esposto presentato dal G. al Consiglio dell’ordine, sulla base dell’erronea attribuzione
all’imputato dell’onere probatorio della causa di giustificazione che sarebbe
rimasto inadempiuto, integra quindi il vizio di motivazione denunciato col
primo motivo nonché l’inosservanza dell’indicazione contenuta nella sentenza
di annullamento, come da quarto motivo di ricorso, reiterando il già rilevato
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Contenuto dell’esposto o della segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense
vizio del provvedimento annullato per mancato esame del compendio probatorio acquisito In funzione della possibile ricorrenza della causa di giustificazione o di non punibilità.
1.2. La fondatezza delle predette censure assorbe il secondo motivo con
riguardo all’osservanza, nel caso di specie, dei limiti di continenza previsti per
il legittimo esercizio, anche solo putativo, del diritto di critica ai sensi dell’art.
51 c.p., comma 1, o dell’art. 59 c.p., comma 4, supponendo tale verifica
l’esame delle risultanze probatorie illegittimamente omesso, come si è detto.
1.3. Patimenti fondato, infine, è il terzo motivo di ricorso, poiché il Tribunale ha anche trascurato di considerare l’eventuale ricorrenza della causa di
non punibilità ex art. 598 c.p., pur richiamata come oggetto di doverosa verifica nella sentenza rescindente di questa Corte in data 4 ottobre 2012, sulla
base dell’interpretazione estensiva della suddetta esimente nella più recente
giurisprudenza di legittimità (c.f.r, sul punto, Sez. 5, n. 33453 del
08/07/2008, dep. 14/08/2008, Boschi Benedetti, Rv. 241393; Sez. 5, n.
44148 del 25/09/2008, dep. 26/11/2008, Santulli, Rv. 241806; Sez. 5, n.
19248 del 9/04/2013, dep. 3/05/2013, Russo, quest’ultima espressamente
richiamata dal ricorrente).
2. Segue, a norma dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. d), l’annullamento
con rinvio della sentenza impugnata con la trasmissione degli atti allo stesso
Tribunale di Sulmona diversamente composto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale
monocratico di Sulmona in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2014.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
286. Sull’astensione dalle udienze degli avvocati 1.
Cass. pen., SS.UU., sentenza 29 settembre 2014, n. 40187 - Pres.
SANTACROCE - Rel. FRANCO
L’adesione del difensore all’astensione collettiva di categoria configura non una mera libertà, ma l’esercizio di un vero e proprio diritto
avente fondamento costituzionale.
FATTO
1. Il Tribunale di Ferrara, con sentenza del 17 aprile 2008, dichiarò L.A.
colpevole dei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale,
commessi quale amministratore di fatto della E.M. 2000 s.r.l., dichiarata fallita il (omissis), e A.R. colpevole del reato di bancarotta fraudolenta documentale, commesso in concorso con il L., nella qualità di amministratrice di diritto
della suddetta società;
e ciò per avere, da un lato, distratto beni e danaro della società (mai consegnati alla curatela, né da questa reperiti) per complessivi Euro 133.845,63,
e, da un altro lato, occultato i libri e le scritture contabili della società, o comunque per averli tenuti in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.
Rileva qui ricordare che, in vista dell’udienza del 5 luglio 2007, nella quale
era prevista la deposizione di una teste di accusa, il difensore di fiducia
dell’imputato L.A., avv. G.M., aveva fatto pervenire in cancelleria a mezzo fax
una dichiarazione di adesione all’astensione proclamata dalle Camere penali
con richiesta di rinvio dell’udienza. Il Tribunale, all’udienza, respinse l’istanza,
nominò al difensore non comparso un sostituto ex art. 97 c.p.p., comma 4, e
dispose ugualmente l’escussione della teste, per il motivo: - che la teste aveva affrontato un viaggio da Bari per partecipare all’udienza; - che
l’assunzione della testimonianza appariva “improcrastinabile ai fini di giusti1
Nota redazionale a cura dell’Ufficio studi del Consiglio Nazionale Forense:
Stando alle SS.UU. il caso in rassegna è disciplinato dal combinato disposto degli artt. art. 392
e 467 c.p.p., secondo cui non può essere rinviata la deposizione testimoniale quando vi è fondato
motivo di ritenere che il teste non potrà essere esaminato nel dibattimento per infermità o altro
grave impedimento. Poiché nel caso di specie risulta che non sussistevano le condizioni indicate
dall’art. 392 c.p.p. - non essendo stato accertato né motivato, che la teste non avrebbe potuto più
essere esaminata per infermità o altro grave impedimento, essendosi invece ritenuto nei primi gradi
di giudizio che occorreva acquisire la deposizione testimoniale per evitare alla teste il grave disagio
di ritornare da Bari a Ferrara, grave disagio che però, secondo le SS. UU. non integra la fattispecie
delineata dall’art. 392 cod. proc. penale - la statuizione del Tribunale di Ferrara di rigettare l’istanza
di rinvio del difensore, confermata dalla Corte di appello, è illegittima per violazione di legge, ledendo il diritto del difensore di astenersi e il diritto di difesa e al contradditorio degli imputati. Ne consegue nullità assoluta, riconducibile all’art. 178, comma 1, lett. c) e 179 c.p.p., rilevabile anche di
ufficio in ogni grado e stato del procedimento.
Principi di diritto affermati:
1) Il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati (pubblicato in
G.U. 4 gennaio 2008, n. 3) è fonte di rango secondario o regolamentare, vincolante erga omnes. Alle disposizioni in esso contenute è soggetto anche il giudice, in forza dell’art. 101, comma 2, Cost.
2) Al giudice spetta il compito di accertare se l’adesione all’astensione sia avvenuta nel rispetto
delle regole fissate dalle competenti disposizioni primarie e secondarie.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
zia, non potendosi costringere la teste a ricomparire in altra udienza neppure
coattivamente, in quanto una tale misura apparirebbe verosimilmente vessatoria e contraria ai fondamentali diritti delle parti”; - che la testimonianza era
necessaria e non si poteva garantire la presenza della teste in altra udienza,
sicché l’atto appariva urgente ed indifferibile.
La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 17 luglio 2012, ridusse le
pene confermando nel resto la sentenza di primo grado. In particolare, rigettò l’eccezione della difesa relativa al mancato rinvio dell’udienza del 5 luglio
2007, per il motivo: - che il giudice, nel valutare la richiesta del difensore di
rinvio per adesione ad una astensione di categoria, “non deve tenere conto
delle norme del codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura circa la disciplina delle modalità dell’astensione collettiva”; - che “invero, l’art. 4 del codice di autoregolamentazione indica le ragioni per cui il difensore non può
astenersi, e non, invece, quelle che, sole, possano consentire al Tribunale di
dichiarare di doversi procedere”; - che nella specie il Tribunale aveva “operato una comparazione, logicamente motivata, tra il diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva, e le esigenze di giustizia, rappresentate dalla necessità di procedere all’audizione di una teste... che aveva affrontato un lungo viaggio da Bari per essere sentita in dibattimento e che, se il processo fosse stato rinviato, avrebbe dovuto... affrontare altri due lunghi viaggi”; - che
dunque, il Tribunale aveva “indicato fondate ragioni di giustizia che imponevano la celebrazione del processo in quell’udienza”.
2. Contro tale sentenza ha proposto personalmente ricorso per cassazione
L.A., deducendo i seguenti sei motivi:
1) Violazione dell’art. 420 ter c.p.p., per essere stata rigettata la richiesta
di rinvio dell’udienza del 3 maggio 2007, formulata per impedimento del difensore. In particolare, censura la motivazione nella parte in cui ha ritenuto
l’impedimento non assoluto per la possibilità di spostarsi con mezzi pubblici,
senza considerare la notevole distanza da percorrere.
2) Violazione dell’art. 420 ter c.p.p., per essere stata illegittimamente rigettata la richiesta di rinvio dell’udienza del 5 luglio 2007 per adesione del difensore all’astensione proclamata dalle Camere penali. Dopo aver ricordato la
motivazione adottata dalla Corte di appello per giustificare il mancato rinvio,
eccepisce la violazione dell’art. 4 del codice di autoregolamentazione perché
l’audizione di una teste (che peraltro non si era presentata nelle tre udienze
precedenti) non rientra in alcuna delle situazioni ostative all’astensione ivi
contemplate (imminente prescrizione, decorrenza dei termini di custodia cautelare, presenza di detenuti ecc), né poteva aversi riguardo alla disponibilità
di una testimone. Pertanto erroneamente è stata respinta l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per violazione del diritto di difesa, sacrificando illegittimamente “un diritto costituzionalmente garantito (sotto forma
del diritto dell’associazione)”, superabile solo “quando vi sia un interesse dello Stato come quello relativo alla prescrizione del reato”.
3) Erronea applicazione dell’art. 507 c.p.p., per essere state rigettate le richieste di prova avanzate all’udienza del 6 marzo 2008 nonché quella relativa
all’escussione del teste R.B.
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
4) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in
ordine al punto e) dei motivi di appello; erronea applicazione della L. Fall.,
artt. 216 e 223. Deduce che nessuno dei testi (le cui deposizioni passa in rassegna) ha reso dichiarazioni atte a dimostrare l’esistenza dei beni di cui si
presume la distrazione e che l’attività sociale è cessata nel 2002, per cui non
sussisteva obbligo di tenuta delle scritture dopo detta data.
5) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in
ordine alla partecipazione di L.A. alla gestione della società. Richiama alcune
prove documentali, le dichiarazioni dei testi e alcuni passaggi della deposizione del teste Z. per confutarne la veridicità, l’esattezza o la rilevanza.
6) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in
ordine al punto g) dei motivi di appello, ed erronea applicazione dell’art. 62
bis c.p., e L. Fall., art. 219. Lamenta, in particolare, che le attenuanti generiche sono state negate per l’assenza dell’imputato al procedimento di primo
grado e che l’attenuante speciale del danno di speciale tenuità di cui alla L.
Fall., art. 219, è stata negata pur non essendovi alcuna certezza in ordine
all’effettiva entità degli ammanchi.
3. La Quinta Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 21 novembre 2013, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, sottolineando
la rilevanza preliminare del secondo motivo, relativo al rigetto della richiesta
di rinvio dell’udienza del 5 luglio 2007, per adesione del difensore
all’astensione dichiarata dalle Camere penali. Osserva che la questione di diritto proposta con tale motivo consiste, essenzialmente, nello stabilire se il
giudice, nel valutare la richiesta di rinvio per adesione del difensore
all’astensione, sia tenuto o meno all’osservanza del Codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura circa la disciplina delle modalità di astensione collettiva. Secondo i giudici del merito, invero, l’art. 4 di tale codice - che disciplina
le prestazioni indispensabili in materia penale - “indica le ragioni per cui il difensore non può astenersi, e non, invece, quelle che, sole, possano consentire al Tribunale di dichiarare di doversi procedere”. Conseguentemente, è stato riconosciuto al giudice il potere di individuare altre situazioni, oltre quelle
contemplate dal codice, che legittimano la prosecuzione del giudizio nonostante l’adesione del difensore all’astensione.
L’ordinanza ricorda come in giurisprudenza si sia venuto affermando
l’orientamento secondo cui tale adesione non integra un legittimo impedimento ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., in quanto non si ricollega a situazioni
oggettive ed indipendenti dalla volontà del soggetto “impedito”, ma costituisce una libera scelta del difensore e rappresenta una forma di esercizio di una
libertà sindacale riconosciuta a tutti i soggetti dell’ordinamento. Da questa
premessa è stata tratta la conseguenza che il rinvio dell’udienza comporta la
sospensione del corso della prescrizione per tutta la durata del rinvio e non
per soli sessanta giorni; che restano sospesi i termini di durata massima della
custodia cautelare; che il difensore non comparso non ha diritto alla notifica
dell’ordinanza di fissazione della nuova udienza.
La Sezione rimettente ricorda poi come il Codice di autoregolamentazione
delle astensioni dalle udienze, adottato dall’Avvocatura il 4 aprile 2007 in
adempimento dell’obbligo previsto dalla L. 12 giugno 1990, n. 146, come
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
modificata dalla L. 11 aprile 2000, n. 83, ha introdotto una serie di prescrizioni e adempimenti a carico degli avvocati al fine di assicurare un ordinato
svolgimento della protesta e di garantire, nei processi penali, l’assistenza legale nelle situazioni di maggiore criticità. Il rispetto di tali condizioni costituisce la condizione perché la mancata comparizione del difensore sia ritenuta
legittima. Tuttavia, secondo la Sezione, se il rispetto delle condizioni e dei limiti posti dal detto codice rappresenta un requisito per la legittimità
dell’astensione, la normativa introdotta dopo la sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale ha lasciato intatto il potere del giudice di regolare lo
svolgimento del processo secondo i canoni dell’ordinamento processuale. La
giurisprudenza ha invero ritenuto che le disposizioni del codice vincolano i soli
associati e non anche il giudice procedente, il quale, nel valutare le circostanze che rendono urgente la trattazione di un processo, impedendo
l’accoglimento dell’istanza di rinvio per astensione, può compiere un autonomo bilanciamento degli interessi in gioco. A questo proposito l’ordinanza di
rimessione valorizza le affermazioni della citata sentenza costituzionale, n.
171 del 1996, relative sia all’impossibilità di configurare l’astensione degli avvocati come esercizio del diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost., trattandosi
di una “libertà” riconducibile al diverso diritto di associazione di cui all’art. 18
Cost.; sia alla necessità di tutelare anche altri valori costituzionali, ed in particolare i diritti fondamentali dei destinatari della funzione giurisdizionale (diritto di azione e difesa di cui all’art. 24 Cost.) ed i principi generali posti a tutela della giurisdizione. Dunque, le disposizioni vigenti e l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza sembrano asseverare l’affermazione per cui “il codice di autoregolamentazione non esaurisce il novero delle situazioni potenzialmente idonee a fondare la potestà valutativa del giudice di fronte a situazioni create dall’adesione del difensore all’astensione proclamata
dall’associazione di riferimento, dovendosi tener conto, da parte del giudice,
delle altre situazioni, non catalogabili a priori, idonee ad incidere su diritti costituzionalmente rilevanti, da bilanciare col diritto del difensore
all’esplicazione della propria libertà sindacale”.
La Sezione rimettente ricorda che è però recentemente intervenuta
l’ordinanza emessa dalle Sezioni Unite nell’ambito del proc. R.G. n.
11751/2012 (sentenza n. 26711 del 30/05/2013), la quale ha parlato, con riferimento al Codice di autoregolamentazione, di “normativa secondaria alla
quale occorre conformarsi”, senza peraltro precisare se ad essa debba “conformarsi” il difensore oppure anche il giudice e mostrando di ritenere che il
codice suddetto, essendo approvato dalla Commissione di Garanzia istituita
dalla L. n. 83 del 2000, è destinato a realizzare il “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati”, di cui alla L. n. 146 del 1990,
art. 1. Secondo l’ordinanza di rimessione rimane perciò aperto il problema se
analoga potestà di contemperamento sia riservata al giudice di fronte a interessi, diritti e situazioni - frequenti a verificarsi - non contemplati dal suddetto codice, quali, a titolo di esempio, la ragionevole durata del processo (ormai
assurta a rango costituzionale), la coesistenza di situazioni confliggenti (imputati con interessi contrapposti), la persistenza di misure cautelari non custodiali ma comunque incidenti su un diritto fondamentale (la libertà di loco-
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
mozione) o - come nel caso di specie - il grave disagio di un teste chiamato a
testimoniare da città lontana rispetto al luogo di svolgimento del processo.
Secondo l’ordinanza di rimessione, dunque, permane la necessità di definire “l’esatto ambito di operatività e cogenza” della normativa emanata in attuazione della L. n. 146 del 1990, sicché la relativa questione è stata rimessa
alle Sezioni Unite.
4. Con decreto in data 3 gennaio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il
ricorso alle Sezioni Unite penali fissando per la trattazione l’odierna udienza.
DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite è stata così individuata dall’ordinanza di rimessione: “Se, anche dopo l’emanazione del codice
di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia
dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del
13 dicembre 2007, permanga il potere del giudice - in caso di adesione del
difensore all’astensione proclamata dall’associazione di categoria - di disporre
la prosecuzione del giudizio in presenza di esigenze di giustizia non contemplate dal codice suddetto”.
L’ordinanza, peraltro, propone altresì la connessa questione su quale sia
“l’esatto ambito di operatività e cogenza” della normativa emanata in attuazione della L. n. 146 del 1990, e cioè se le norme del detto codice di autoregolamentazione abbiano o meno valore di normativa secondaria avente efficacia erga omnes e, quindi, vincolante anche per il giudice.
2. Sulle questioni sottoposte alle Sezioni Unite negli ultimi decenni vi sono
state, sia in giurisprudenza sia in dottrina, plurime e differenti opinioni e soluzioni, dovute peraltro soprattutto alla diversità dei contesti normativi succedutisi nel tempo. Appare quindi indispensabile ricordare preliminarmente,
sia pure sommariamente, l’evoluzione normativa in materia.
2.1. Nella vigenza del codice Rocco, caratterizzato da una disciplina di impronta marcatamente inquisitoria, la mancata presenza del difensore non
rientrava tra le cause obbligatorie di sospensione o rinvio del dibattimento. Il
principio seguito era che “l’impedimento del difensore, anche se provato, non
rende obbligatorio il rinvio, poiché l’imputato può provvedere alla nomina di
altro difensore o essere assistito da quello di ufficio” (Sez. 4, n. 5556 del
04/03/1985, Gavioli, Rv. 169604; Sez. 4, n. 8618 del 12/04/1984, Biancardi,
Rv. 166136; Sez. 2, n. 6868 del 17/12/1982, dep. 1983, De Sivo, Rv.
160009). Al difensore, inoltre, era anche radicalmente preclusa qualsiasi possibilità di optare per l’astensione dalla propria attività di assistenza nel processo, quand’anche si trattasse di una scelta per fini “rivendicativi” o di denuncia di violazione di diritti della difesa. La giurisprudenza era costante
nell’escludere che l’adesione all’astensione di categoria potesse pregiudicare il
regolare svolgimento del processo e nell’affermare che “lo sciopero della categoria professionale degli avvocati e dei procuratori esercita la propria influenza limitatamente alla categoria stessa e non determina alcuna sospensione dell’attività giurisdizionaie, né tanto meno la nullità del dibattimento,
per violazione dell’art. 185 c.p.p., svoltosi in assenza del difensore di fiducia
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
che abbia aderito allo sciopero”, ove l’imputato sia stato regolarmente assistito dal difensore d’ufficio (Sez. 5, n. 16015 del 21/10/1977, Arzano, Rv.
137510; Sez. 1, n. 2517 del 10/05/1989, dep. 1990, Zeno, Rv. 183435). Anzi, tale condotta risultava riconducibile ad un “abbandono” della difesa, rilevante ai sensi dell’art. 131 del previgente codice, e quindi punibile con sanzione disciplinare interdittiva irrogata dalla sezione istruttoria della Corte di
appello nel cui distretto aveva sede l’autorità giudiziaria procedente; e per
parte della dottrina tale “assenza qualificata” era anche riconducibile alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 333 c.p. (poi abrogato dalla L. 12 giugno
1990, n. 146).
2.2. La situazione mutò profondamente con l’entrata in vigore del “codice
Vassalli” ed il passaggio all’attuale sistema processuale, imperniato sui principi di parità delle parti ed effettività del contraddittorio, successivamente
consacrati anche nell’art. 111 Cost.
Venne così introdotto l’obbligo di sospendere o rinviare il dibattimento in
caso di assenza del difensore dovuta ad assoluta impossibilità di comparire
per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato (art. 486 c.p.p.,
comma 5, poi abrogato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, e in sostanza sostituito dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che estese l’applicazione dell’istituto
del legittimo impedimento del difensore alla fase dell’udienza preliminare).
Inoltre, i principi ispiratori del codice del 1988 (parità tra accusa e difesa,
effettività del contraddittorio, immutabilità e libertà di autodeterminazione
della difesa) determinarono una disciplina significativamente diversa
dell’abbandono (e del rifiuto) di difesa. L’art. 105 dell’attuale codice di rito individua la competenza esclusiva del consiglio dell’ordine forense per
l’irrogazione delle sanzioni disciplinari; sancisce la completa autonomia del
procedimento disciplinare rispetto al procedimento penale in cui è avvenuto
l’abbandono; e prevede che, quando l’abbandono è motivato con la violazione
dei diritti della difesa ed il consiglio dell’ordine lo ritenga giustificato, la sanzione non è applicata anche se il giudice escluda che la violazione si sia verificata: laddove invece, nel sistema precedente era escluso che tale motivazione potesse costituire una causa di giustificazione della condotta del difensore.
Di questa impostazione radicalmente diversa risentì ovviamente anche la
giurisprudenza della Corte di cassazione.
Alcune decisioni, in particolare, ritennero che l’assenza del difensore causata dall’adesione all’astensione di categoria costituisse un’ipotesi di legittimo
impedimento, idonea a determinare il rinvio dell’udienza (Sez. 1, n. 3113 del
08/07/1991, Lo Iacono, Rv. 188390). In dottrina, peraltro, si osservò che
questa interpretazione era determinata, più che da un consapevole inquadramento della fattispecie nel nuovo istituto del legittimo impedimento,
dall’esigenza di affermare la legittimità dell’astensione quale forma di salvaguardia degli interessi della categoria forense a fronte del persistere di opinioni che negavano la legittimità del fenomeno e ne affermavano invece la rilevanza disciplinare (come abbandono di difesa ex art. 105 c.p.p.) ed anche
penale (negata peraltro da Sez. 6, n. 1895 del 09/01/1997, Sorrentino, Rv.
207546, per la mera adesione all’agitazione, non integrata da ulteriori comportamenti positivi idonei ad influire sul regolare svolgimento del “servizio
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
giustizia”). In ogni modo, la qualificazione dell’astensione come legittimo impedimento venne ribadita da successive decisioni, affermandosi esplicitamente che “l’esercizio di un diritto tutelato costituzionalmente, come il diritto di
sciopero, qualora comporti l’astensione dalle udienze, costituisce legittimo
impedimento del difensore ai sensi dell’art. 486 c.p.p., comma 5, e determina
necessariamente il rinvio del dibattimento” (Sez. 3, n. 8533 del 24/08/1993,
Capaci, Rv. 195162, che sottolineò anche come il contrario indirizzo della
sent. 10/05/1989, Zeno, cit., fosse stato elaborato prima dell’entrata in vigore del nuovo codice e del riconoscimento per il difensore di una autonoma
causa di legittimo impedimento).
Altre pronunce, invece, esclusero l’applicabilità delle disposizioni sul legittimo impedimento, ma non misero comunque in discussione la legittimità
dell’astensione dalle udienze, preoccupandosi piuttosto di valutarne ed inquadrarne gli effetti sui termini di custodia cautelare. In particolare, si affermò
che “l’astensione dalle udienze diffusamente attuata dai difensori in applicazione di uno stato di agitazione sindacale costituisce una causa di privazione
dell’imputato di quell’assistenza difensiva che la legge esige che, se non legalmente ovviabile, impone la sospensione o il rinvio del procedimento, ma
giustifica tuttavia la sospensione dei termini di durata massima della custodia
cautelare, ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b), ... onde evitare che
la mancata assistenza legale risulti comunque premiata dal decorrere dei
termini” (Sez. 1, n. 2851 del 24/06/1991, Egizio, Rv. 188342; Sez. 6, n.
3223 del 20/11/1990, dep. 1991, Papajanni, Rv. 187019).
Con un’altra serie di pronunce, poi, si ammise che il giudice, ravvisando
motivi di urgenza nella trattazione del processo a causa dell’imminente maturare della prescrizione, e nell’impossibilità di sospendere il corso della stessa,
potesse rigettare l’istanza di rinvio per adesione all’astensione e nominare
all’imputato un difensore di ufficio; in quanto in questa situazione era legittimamente applicato dal giudice “il principio del bilanciamento di interessi,
dando prevalenza a quello dello Stato, diretto ad evitare l’estinzione del reato
per prescrizione, rispetto a quello del difensore dell’imputato, concernente il
pur legittimo esercizio dei diritti personali di libertà, in particolare di quello di
astenersi dal partecipare alle udienze... a fronte della impossibilità di sospensione del corso della prescrizione del reato, limitata ai casi tassativamente indicati nell’art. 159 c.p.” (Sez. 4, n. 6604 del 17/12/1992, dep. 1993, Montagnoli, Rv. 195252).
2.3. In questo contesto - caratterizzato dal riconoscimento della legittimità
dell’astensione ma anche dalla preoccupazione per le implicazioni processuali
in mancanza di una specifica normativa - intervenne una prima volta la Corte
costituzionale con la sentenza n. 114 del 1994. La questione esaminata aveva
ad oggetto, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 159 c.p., nella parte in cui non
prevedeva la sospensione della prescrizione nel caso di sospensione o rinvio
del dibattimento per l’astensione dalle udienze del difensore ovvero, in subordine, nella parte in cui non prevedeva la possibilità di adottare un provvedimento di sospensione della prescrizione, sulla falsariga di quanto disposto,
per i termini di custodia cautelare, dall’art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b). La
questione venne dichiarata manifestamente inammissibile sia per la duplicità
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
di soluzioni alternative prospettate, sia anche e soprattutto perché era stata
sollecitata una pronuncia additiva in malam partem (tale essendo stata considerata l’aggiunta di una nuova causa di sospensione della prescrizione), in
contrasto col principio di legalità di cui all’art. 25 Cost.
La sentenza assume comunque particolare importanza perché conteneva,
da un lato, l’auspicio che situazioni patologiche come quella descritta
nell’ordinanza di rimessione fossero sanate dal legislatore e, da un altro lato,
l’invito all’interprete a considerare, anche a questi fini, le norme dettate in
tema di sciopero dei servizi pubblici essenziali dalla L. n. 146 del 1990. In
particolare, la Corte richiamò la diversa questione dell’impedimento del difensore dovuto a concorrenti impegni professionali e ricordò che un soddisfacente punto di equilibrio era stato raggiunto dalla soluzione individuata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4708 del 27/03/1992, Fogliani, Rv. 190828,
secondo la quale l’impegno professionale, per poter assurgere a legittimo impedimento rilevante ex art. 486 c.p.c., comma 5, doveva non solo essere
prontamente comunicato, ma anche adeguatamente motivato e documentato
in relazione alla essenzialità e non sostituibilità del difensore nell’altro processo: e ciò al fine di far esercitare, al giudice cui si chiede il rinvio, “il poteredovere di valutare e comparare le esigenze difensive e quelle pubbliche, affinché non si realizzino né impunità né anticipate liberazioni pericolose per la
sicurezza collettiva né pretestuosi ritardi nella definizione dei processi”.
La Corte quindi osservò che invece rimaneva del tutto privo di qualsiasi
analogo bilanciamento il diverso caso dell’assenza, non del singolo difensore,
ma di tutti i difensori, in dipendenza dalla loro adesione alle manifestazioni di
protesta deliberate dagli organismi di categoria, sicché manifestazioni connotate da particolare durata e livello partecipativo avrebbero potuto paralizzare
la funzione giurisdizionale, con grave compromissione di principi anche di
rango costituzionale. In conclusione, la Corte costituzionale rilevò che “se il
legislatore ha avvertito la necessità di dettare, proprio in funzione della salvaguardia di beni costituzionalmente tutelati, norme sul diritto di sciopero nei
servizi pubblici essenziali, ricomprendendo fra questi anche l’amministrazione
della giustizia (v. L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 1), non v’è ragione per cui
debbano restare esenti da specifiche previsioni forme di protesta collettiva
che, al pari dello sciopero, sono in grado di impedire il pieno esercizio di funzioni che assumono, come quella giurisdizionale, un risalto primario
nell’ordinamento dello Stato”.
2.4. Nel periodo successivo alla sentenza costituzionale n. 114 del 1994,
la giurisprudenza di legittimità, pur continuando a ricondurre l’astensione
nell’alveo del legittimo impedimento, sottolineò più volte la necessità per il
giudice di operare un bilanciamento tra l’interesse difensivo all’astensione e
l’interesse pubblico alla immediata trattazione del processo “quando sussistano ragioni obiettive che la impongano (imminente operatività di cause estintive del reato, prossima scadenza di termini di custodia cautelare e simili)” (v.
Sez. 1, n. 9922 del 07/09/1995, Esposito, Rv. 202538); anche se qualche
pronuncia si orientò nel senso di riconoscere senz’altro la sussistenza del legittimo impedimento per il solo fatto dell’adesione all’astensione (“allo sciopero di categoria”), purché prontamente comunicata al giudice procedente (cfr.,
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
ad es., Sez. 3, n. 8338 del 01/07/1994, Riccio, Rv. 198701; Sez. 1, n. 856
del 29/11/1995, dep. 1996, Milano, Rv. 203501, secondo cui la necessità di
una tempestiva comunicazione è dovuta al fatto che l’astensione non è vincolante per il singolo associato, che rimane libero di aderirvi o meno).
2.5. In questa situazione di incertezza giurisprudenziale, in cui, da un lato,
perdurava l’inerzia del legislatore e, da un altro lato, si accresceva la frequenza e l’intensità partecipativa delle astensioni proclamate dalle associazioni forensi, la Corte costituzionale intervenne una seconda volta con la sentenza (additiva di principio) n. 171 del 1996, la quale, dopo avere constatato
l’inefficacia dell’invito rivolto al legislatore con la precedente pronuncia - cui
era anzi seguito un deterioramento ed un crescente allarme per il ripetersi di
astensioni non regolamentate, con conseguente disagio e pregiudizio per
l’amministrazione della giustizia e, dunque, per i diritti fondamentali della
persona che in essa trovano tutela - passò “dal monito ai fatti” e dichiarò
l’illegittimità costituzionale non già di norme del codice di rito (pure impugnate da numerose ordinanze di rimessione), ma di alcune disposizioni della legge n. 146 del 1990, regolativa dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. La
sentenza ribadì innanzitutto che il pieno riconoscimento della libertà di associazione e della libertà sindacale e la garanzia espressa del diritto di sciopero
(nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti) sono valori fondanti del nostro ordinamento, e consentono di individuare
“un’area, connessa alla libertà di associazione, che è oggetto di salvaguardia
costituzionale ed è significativamente più estesa rispetto allo sciopero”: in
questa area rientrano “le astensioni collettive dal lavoro volte a difendere interessi di categoria, non soltanto economici, e a garantire un corretto esercizio della libera professione”. L’astensione degli avvocati, quindi, pur non potendo essere ricondotta nell’alveo del diritto di sciopero tutelato ex art. 40
Cost., costituisce una incisiva manifestazione della dinamica associativa volta
alla tutela di quella forma di lavoro autonomo e, di conseguenza, ricade nel
favor libertatis che ispira la prima parte della Costituzione e non può “essere
ridotta a mera facoltà di rilievo costituzionale”. La salvaguardia di questi
“spazi di libertà dei singoli e dei gruppi” - precisò la Corte - non esclude però
la necessità di tutelare altri valori di rango costituzionale, quali i diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale (diritti di
azione e difesa ex art. 24 Cost.) ed i principi generali posti a tutela della giurisdizione. La stessa L. n. 146 del 1990, nel definire i servizi pubblici essenziali, “fa riferimento non tanto a prestazioni determinate oggettivamente,
quanto al nesso teleologia) tra queste e gli interessi e beni costituzionalmente
protetti” (diritto alla vita, alla salute, alla libertà e sicurezza, alla libertà di
circolazione, ecc); e, coerentemente con questa impostazione, individua, tra i
servizi pubblici essenziali, “l’amministrazione della giustizia, con particolare
riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione”
(L. n. 146, art. 1, comma 2, lett. a)). Ne deriva che “quando la libertà degli
avvocati e procuratori si eserciti in contrasto con la tavola di valori sopra richiamata, essa non può non arretrare per la forza prevalente di quelli”. La
Corte quindi concordò con la soluzione fino ad allora adottata, in mancanza di
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
una specifica disciplina normativa, da una parte della giurisprudenza di legittimità - e consistente nel bilanciamento degli interessi in gioco, onde privilegiare i valori costituzionali a scapito della “libertà sindacale” - perché conforme ad una interpretazione adeguatrice delle disposizioni normative in vigore.
Osservò, tuttavia, che, da una parte, non poteva costituire una risposta soddisfacente la nomina di un difensore d’ufficio all’esito del bilanciamento, se
non altro per le criticità derivanti dall’eventuale adesione anche del sostituto
all’astensione di categoria. Da un’altra parte, la L. n. 146 del 1990, pur finalizzata a garantire i servizi pubblici essenziali ed i beni fondamentali della
persona ad essi sottesi, ometteva di disciplinare “situazioni che - al pari dello
sciopero - possono determinare lesioni non rimediabili a detti beni”: il che
poneva un problema “non più eludibile di legittimità costituzionale della legge”, in quanto, per disciplinare le astensioni dei difensori, non poteva procedersi ad un’interpretazione estensiva o analogica dei meccanismi ivi previsti
per l’astensione dal lavoro dei lavoratori subordinati (personale di cancelleria
ecc). Secondo la Corte, quindi, era necessaria una più ampia disciplina, idonea a regolare anche le astensioni collettive non qualificabili come esercizio
del diritto di sciopero, quanto meno in relazione alla necessità di un congruo
preavviso e di un ragionevole limite di durata (“peraltro già previsti da codici
di autoregolamentazione recentemente adottati da vari organismi professionali che, tuttavia, non hanno efficacia generale”), nonché all’individuazione
delle prestazioni essenziali da eseguire durante l’astensione e delle misure in
caso di inosservanza. Sulla base di queste considerazioni, la sentenza n. 171
del 1996 dichiarò l’illegittimità costituzionale della L. n. 146 del 1990, art. 2,
commi 1 e 5, “nella parte in cui non prevede, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo di un
congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non
prevede altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni
essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza”.
3. Tralasciando le altre implicazioni dogmatiche e pratiche di tale sentenza
- sia per la sua natura di additiva di principio, sia per la collocazione
dell’astensione nell’ambito della libertà di associazione, sia per
l’inquadramento dello sciopero come species di un più ampio genus cui ricondurre le manifestazioni del conflitto collettivo, sia per le ricadute dei principi
affermati all’interno del processo penale - rileva qui ricordare l’influenza da
essa avuta, da un lato, sull’attività della Commissione di garanzia per
l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, istituita in
forza della L. n. 146 del 1990, art. 12, e, da un altro lato, sul legislatore ordinario.
3.1. La Commissione di garanzia (ricondotta generalmente tra le autorità
amministrative indipendenti), a seguito della sentenza n. 171 del 1996 operò,
per così dire, una svolta in senso “interventista” (a volte vivacemente contestata dagli organismi rappresentativi dell’avvocatura), considerando ormai il
fenomeno delle astensioni forensi come rientrante nel campo di applicazione
della L. n. 146 del 1990, ed esercitando quindi, in attesa di un intervento legislativo, i poteri che tale legge le attribuiva per disciplinare le astensioni col-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
lettive riconducigli allo sciopero, se esercitate nel settore dei servizi pubblici
essenziali. Si sono quindi succedute, tra il 1996 ed il 2000, una serie di delibere (che qui è superfluo ricordare) di invito a revocare astensioni collettive
ritenute illegittime e, soprattutto, di valutazione negativa di astensioni attuate in contrasto con la legge e la sentenza costituzionale (specie per mancato
rispetto del termine di preavviso, o per eccessiva durata dell’astensione o per
mancata garanzia sulle udienze con imputati detenuti). Inoltre la Commissione, esercitando anche nei confronti degli avvocati il potere, previsto dall’art.
13 della legge, di valutazione sulla “idoneità dei codici di autoregolamentazione deliberati dagli organismi di categoria”, espresse parere negativo su
quelli adottati dall’Organismo unitario dell’avvocatura (delibera 11 luglio
1996) e dall’Unione delle Camere penali (delibera 12 giugno 1997), per la
mancanza di predeterminazione della durata dell’astensione, di un adeguato
impianto sanzionatorio, di meccanismi idonei ad impedire l’uso strumentale
dell’astensione per far decorrere i termini di prescrizione e di custodia cautelare.
Le iniziative della Commissione furono spesso accompagnate da vivaci
reazioni negative degli organismi rappresentativi dell’avvocatura, come
l’iniziale negazione della competenza della Commissione da parte del Consiglio Nazionale Forense (delibera 21 giugno 1996) e l’inserimento, all’interno
di uno dei codici di autoregolamentazione, poi ritenuti inidonei, della previsione di una commissione ad hoc per la vigilanza sulle astensioni di categoria.
La situazione, già di per sé problematica, era aggravata dalla sostanziale
inapplicabilità di gran parte delle disposizioni della L. n. 146 del 1990, chiaramente “modellate” sulle astensioni dei lavoratori subordinati (soprattutto in
ordine alle procedure di individuazione delle prestazioni indispensabili ed
all’apparato sanzionatorio).
3.2. Il legislatore ordinario intervenne finalmente con la L. 11 aprile 2000,
n. 83, che introdusse sostanziali modifiche ed integrazioni alla L. n. 146 del
1990, nella direzione indicata dalla Corte costituzionale.
Fra le altre, sono di fondamentale importanza le disposizioni contenute
nella L. n. 146, nuovo art. 2 bis, il quale dispone, innanzitutto, che
l’astensione collettiva dalle prestazioni dei lavoratori autonomi, professionisti
o piccoli imprenditori, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria, è
esercitata - se incidente sulla funzionalità dei servizi pubblici essenziali di cui
all’art. 1 della legge - “nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione
delle prestazioni indispensabili” di cui al medesimo art. 1. Si tratta delle prestazioni che - come accade per l’esercizio del diritto di sciopero (art. 2) - devono essere individuate allo scopo di contemperare l’astensione con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati e, quindi, di assicurare, in caso di conflitto collettivo, l’effettività dei diritti medesimi “nel loro
contenuto essenziale” (cfr. art. 1, comma 2).
A tal fine, l’art. 2 bis prevede che la Commissione di garanzia promuove
l’adozione, da parte degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, “di codici di autoregolamentazione che realizzino, in caso di astensione collettiva, il contemperamento con i diritti” di cui all’art. 1: qualora poi
tali codici manchino, o non siano valutati dalla Commissione idonei a garanti-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
re le predette finalità, la Commissione “delibera la provvisoria regolamentazione”, sentite le parti interessate. L’ultima parte dell’art. 2 bis, comma 1,
quindi, da un lato, individua il contenuto minimo dei codici di autoregolamentazione (termine di preavviso non inferiore a dieci giorni, indicazione della durata e delle motivazioni dell’astensione collettiva), che devono comunque assicurare, in ogni caso, un livello di prestazioni compatibili con le finalità predette; dall’altro lato, delinea un sistema di sanzioni pecuniarie, a carico delle
organizzazioni di categoria in solido con i singoli professionisti e lavoratori autonomi, per la violazione dei codici di autoregolamentazione (con un rinvio al
successivo art. 4). Infine, in via transitoria, il comma 2 prevede che la Commissione di garanzia deliberi la provvisoria regolamentazione (anche)
nell’ipotesi di mancata adozione dei codici di autoregolamentazione, decorsi
sei mesi dall’entrata in vigore della legge.
In questo modo, il contemperamento tra gli interessi di rilevanza costituzionale in gioco e l’individuazione delle prestazioni indispensabili da assicurare in ogni caso nei servizi pubblici essenziali, durante le astensioni dal lavoro
non riconducibili allo sciopero, viene rimessa dalla legge in primo luogo al codice di autoregolamentazione predisposto dagli organismi rappresentativi di
categoria, il quale, peraltro, deve non solo contenere necessariamente disposizioni sul preavviso minimo di dieci giorni e sulla durata, ma deve anche assicurare, “in ogni caso”, un livello di prestazioni compatibili con la finalità della legge. Questa idoneità allo scopo è oggetto di una specifica valutazione da
parte della Commissione di garanzia: in caso di ritenuta inidoneità, ovvero di
mancata predisposizione del codice, la legge demanda alla Commissione il
compito di disciplinare la materia con una “regolamentazione provvisoria”.
Si è notato che, in questo modo, la L. n. 83 del 2000, ha armonizzato la
disciplina delle varie tipologie di astensioni dal lavoro nei servizi pubblici essenziali. Infatti, nello sciopero dei lavoratori subordinati, l’individuazione delle
prestazioni indispensabili è rimessa “in prima battuta” a disposizioni adottate
in sede di contrattazione collettiva (accordi tra le imprese erogatrici e le organizzazioni sindacali rappresentative dei lavoratori), che peraltro devono
anch’esse ottenere una valutazione di idoneità da parte della Commissione di
garanzia, la quale, anche in questo caso, è tenuta ad adottare una “regolamentazione provvisoria” in caso di inidoneità o mancanza degli accordi. Nel
caso di astensione degli avvocati (o di altri professionisti o lavoratori autonomi) manca il rapporto bilaterale datore di lavoro-lavoratore, che inerisce profondamente allo sciopero in senso proprio, e quindi manca una controparte
specifica con la quale siglare un accordo bilaterale, venendo piuttosto in rilievo una figura “terza” - perché del tutto estranea al conflitto che porta
l’avvocato ad astenersi - quale quella dell’utente del servizio. In questo tipo
di astensione, pertanto, la funzione assolta dai contratti collettivi per il lavoro
subordinato, viene svolta dai codici di autoregolamentazione.
4. Nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della L. n.
83 del 2000, non cessarono le marcate contrapposizioni tra Commissione di
garanzia e gli organismi di rappresentanza delle categorie forensi. La Commissione dichiarò inidonea anche una nuova versione, lievemente modificata,
del codice di autoregolamentazione già presentato dai predetti organismi nel
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Parte Seconda - Giurisprudenza
1997. Questi ultimi preferirono non interloquire sulla proposta di individuazione delle prestazioni indispensabili formulata dalla Commissione: proposta
che, ai sensi della novellata L. n. 146, art. 13, lett. a), costituisce l’avvio del
procedimento di formazione della regolamentazione provvisoria demandata
alla Commissione nell’ipotesi in cui il codice di autoregolamentazione manchi
o sia ritenuto inidoneo.
Finalmente, con deliberazione del 4 luglio 2002, pubblicata sulla G.U. del
23 luglio 2002, la Commissione adottò la regolamentazione provvisoria
dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria. Pur trattandosi
di disposizioni ormai superate dalla successiva entrata in vigore del codice
varato dagli organismi di categoria e ritenuto idoneo dalla Commissione, può
essere interessante ricordare due profili di quella disciplina. In particolare,
l’art. 2, comma 2 (sul punto poi profondamente modificato dal vigente codice
di autoregolamentazione), stabiliva che, nel procedimento penale, il difensore
che non intendeva aderire all’astensione era tenuto a comunicare prontamente tale sua decisione all’autorità giudiziaria procedente e agli altri difensori
costituiti: ponendo quindi una sorta di “presunzione di adesione” in contrasto
con quell’orientamento giurisprudenziale che invece faceva gravare sul difensore aderente all’astensione un preciso onere di pronta comunicazione al giudice procedente (v., ad es., Sez. 1, n. 936 del 16/02/1998, Natale, Rv.
209900, secondo cui occorreva anche che il difensore fosse presente in
udienza per evitare oneri di avvisi). L’art. 2, comma 4, invece, escludeva
l’operatività di tale presunzione “per le udienze che possono celebrarsi anche
in assenza del difensore”; il che presupponeva evidentemente la possibilità di
astenersi anche nelle udienze camerali, ponendosi quindi in contrasto con un
orientamento
giurisprudenziale
all’epoca
consolidato,
che
negava
l’ammissibilità dell’astensione nelle udienze a partecipazione non necessaria.
5. La disciplina delle astensioni collettive degli avvocati passò finalmente
alla fase “fisiologica” con la delibera del 13 dicembre 2007, pubblicata sulla
G.U. del 4 gennaio 2008, con la quale la Commissione di garanzia valutò idoneo il codice di autoregolamentazione adottato dagli organismi rappresentativi della categoria, allegato alla delibera stessa.
La motivazione della delibera appare significativa, sia per le indicazioni
sulla complessità del cammino percorso per superare la regolamentazione
provvisoria, sia soprattutto per la valutazione compiuta dalla Commissione
sui pareri (obbligatori, ai sensi della L. n. 146, art. 13, ma non vincolanti)
formulati dalle associazioni degli utenti e dei consumatori. In particolare,
l’Assoutenti aveva segnalato l’opportunità di prevedere nel codice - in linea
con quanto affermato da alcune decisioni della Corte di cassazione (cfr., ad
es., Sez. 1, n. 10955 del 10/06/1999, Volpe, Rv. 214371; Sez. 1, n. 936 del
16/02/1998, Natale, Rv. 209900, cit.) - un obbligo per l’avvocato di comunicare al cliente, in via diretta e preventiva, la propria adesione all’astensione.
Il suggerimento fu però disatteso dalla Commissione per la ragione che la
questione avrebbe potuto trovare più adeguata soluzione nell’ambito delle
norme deontologiche, essendo relativa “al rapporto fiduciario che intercorre
tra professionista e cliente”.
Rassegna Forense - 3-4/2014
925
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
La Commissione fondò la valutazione positiva del codice di autoregolamentazione sull’avvenuto rispetto degli obblighi di legge in tema di preavviso
e di idonea comunicazione (l’astensione deve essere comunicata almeno 10
giorni prima al presidente della corte di appello e ai dirigenti degli uffici giudiziari interessati, nonché al Ministro della Giustizia, alla Commissione di garanzia, ecc: art. 2, comma 1); in tema di determinazione della durata massima e di previsione di intervalli temporali tra un’astensione e l’altra
(l’astensione non può superare gli otto giorni consecutivi, né più astensioni
possono andare oltre gli otto giorni in un mese solare, ferma la necessità di
un intervallo di almeno quindici giorni tra l’una e l’altra: art. 2, comma 4); ed
in tema di individuazione delle prestazioni indispensabili nei procedimenti penali, civili, amministrativi e tributari durante l’astensione (artt. 4, 5 e 6).
Di particolare importanza, in questa sede, è l’art. 4, relativo alle prestazioni indispensabili in materia penale, il quale, da un lato (lett. a), dispone
che l’astensione non è consentita quanto all’assistenza al compimento di atti
di perquisizione e sequestro, alle udienze di convalida dell’arresto e del fermo
ed a quelle afferenti misure cautelari, agli interrogatori di garanzia,
all’incidente probatorio (ad eccezione dei casi in cui non si verta in ipotesi di
urgenza), al giudizio direttissimo, al compimento di atti urgenti ex art. 467
c.p.p., “nonché ai procedimenti e processi concernenti reati la cui prescrizione maturi durante il periodo di astensione, ovvero, se pendenti nella fase delle indagini preliminari, entro trecentosessanta giorni, se pendenti in grado di
merito, entro centottanta giorni, se pendenti nel giudizio di legittimità, entro
novanta giorni”; dall’altro lato (lett. b), l’art. 4, esclude l’astensione nei procedimenti o processi con imputati “in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto
dall’art. 420 ter, comma 5 (introdotto dalla L. n. 479 del 1999) del codice di
procedura penale, che si proceda malgrado l’astensione del difensore. In tal
caso il difensore di fiducia o di ufficio, non può legittimamente astenersi ed
ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale”.
Altrettanto rilevante è l’art. 3, sugli “effetti dell’astensione”, il quale innanzitutto (comma 1) prevede una modalità alternativa di comunicazione
all’autorità procedente dell’adesione all’astensione: in particolare, la mancata
comparizione dell’avvocato - per poter essere considerata in adesione ad una
legittima astensione collettiva “e dunque considerata legittimo impedimento
del difensore” - deve essere dichiarata (personalmente o tramite sostituto)
all’inizio dell’udienza o dell’atto di indagine preliminare, oppure comunicata
almeno due giorni prima della data stabilita “con atto scritto trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero,
oltreché agli altri avvocati costituiti”. Ove tali formalità siano rispettate,
“l’astensione costituisce legittimo impedimento anche qualora avvocati del
medesimo procedimento non abbiano aderito all’astensione stessa. La presente disposizione si applica a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi i
difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile” (art. 3,
comma 2). Il comma 3, prevede poi che “nel caso in cui sia possibile la separazione o lo stralcio per le parti assistite da un legale che non intende aderire
all’astensione, questi, conformemente alle regole deontologiche, deve farsi
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
carico di avvisare gli altri colleghi interessati all’udienza o all’atto di indagine
preliminare quanto prima, e comunque almeno due giorni prima della data
stabilita, ed è tenuto a non compiere atti pregiudizievoli per le altre parti in
causa”. L’art. 3, comma 4, chiarisce, conclusivamente, che il diritto di astensione può essere esercitato in ogni stato e grado del procedimento, sia dal difensore di fiducia sia da quello d’ufficio.
6. Anche dopo l’entrata in vigore, con la sua pubblicazione sulla G.U. del 4
gennaio 2008, del codice di autoregolamentazione del 2007, rimasero aperte
diverse questioni, tra cui quella della natura giuridica dell’astensione, la cui
soluzione peraltro è stata notevolmente influenzata dalle implicazioni con il
tema della prescrizione del reato.
6.1. Si è già ricordato che, all’indomani dell’entrata in vigore del “codice
Vassalli”, la giurisprudenza di legittimità si era per lo più orientata a ricondurre l’astensione degli avvocati nell’alveo del legittimo impedimento previsto
dall’allora vigente art. 486 c.p.p., comma 5, talora avvertendo la necessità di
operare un bilanciamento tra l’interesse difensivo all’astensione e l’interesse
pubblico alla immediata trattazione del processo, con particolare riferimento
al maturare della prescrizione per effetto dei rinvii conseguenti all’astensione.
Questo orientamento venne ribadito anche dopo la sentenza n. 171 del 1996
della Corte costituzionale, la quale aveva ritenuto necessario, in mancanza di
una disciplina normativa, un contemperamento giudiziale tra gli opposti interessi. Nella giurisprudenza di legittimità, quindi, si affermò il principio che “se
l’astensione dalle udienze in adesione allo sciopero proclamato dalle organizzazioni della categoria professionale rientra tra le cause di legittimo impedimento del difensore, il giudice è sempre tenuto tuttavia ad operare un bilanciamento fra l’interesse difensivo e l’interesse pubblico alla immediata trattazione del processo, e deve affermare la prevalenza dell’uno o dell’altro tenendo conto delle situazioni contingenti, quali l’esistenza di imminenti cause
estintive, l’esaurimento prossimo dei termini di fase della custodia cautelare e
simili” (cfr. Sez. 2, n. 3795 del 03/02/1997, Quintini, Rv. 207558; Sez. 1, n.
5740 del 14/10/1997, Ancler, Rv. 208925).
D’altra parte, ancor prima di queste decisioni, il legislatore - intervenendo
esplicitamente (come si legge nella relazione al disegno di legge) al fine di
rimediare alla “incongruenza del computo dei periodi di astensione dalle
udienze dei difensori nei termini di prescrizione del reato e di custodia cautelare”, come “segnalato” dalla sentenza n. 114 del 1994 della Corte costituzionale - con la L. 8 agosto 1995, n. 332, modificò l’art. 159 c.p., inserendo, tra
le cause di sospensione della prescrizione, anche l’ipotesi in cui la sospensione dei termini di custodia cautelare fosse stata imposta da una particolare disposizione di legge (con un implicito richiamo, quindi, alla mancata comparizione del difensore presa in considerazione dall’art. 304 c.p.p.). Tuttavia, secondo l’orientamento giurisprudenziale all’epoca dominante, la nuova causa
di sospensione della prescrizione introdotta nel 1995, imperniata sulla sospensione dei termini di custodia di cui all’art. 304 c.p.p., doveva ritenersi
operante soltanto nei procedimenti con detenuti (cfr., ad es., Sez. 3, n.
10205 del 19/06/1998, Auricchio, Rv. 211863; Sez. 5, n. 12643 del
16/1/2001, Lavecchia, Rv. 218344). Il che spiega il persistere dell’indirizzo
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
giurisprudenziale volto a bilanciare il “legittimo impedimento da astensione”
con l’interesse pubblico alla immediata trattazione di un processo prossimo a
prescriversi.
6.2. Questo orientamento fu abbandonato solo a seguito dell’intervento
delle Sezioni Unite, che affermarono il diverso principio che la sospensione o
il rinvio del dibattimento per impedimento dell’imputato o del difensore, o su
loro richiesta (salvo che quest’ultima sia stata determinata da esigenze di acquisizione della prova o di beneficiare di termini a difesa) determina comunque la sospensione della prescrizione, anche se l’imputato non sia sottoposto
a misura cautelare (Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese,
Rv. 220509). In sostanza, in questa sentenza, l’astensione continua ad essere considerata come un legittimo impedimento, ma viene al contempo ricondotta tra le fattispecie determinanti la sospensione della prescrizione, ricorrendo un’ipotesi di sospensione del procedimento penale imposta da una particolare disposizione di legge. Nella medesima prospettiva, altre pronunce
successivamente ribadirono la sospensione della prescrizione nei casi di cui
all’art. 304 c.p.p., anche in assenza di misure cautelari, continuando però a
qualificare - “quasi in forma tralatizia”, come rilevato dalla dottrina l’astensione come legittimo impedimento: cfr. Sez. 6, n. 24603 del
03/04/2003, Cuozzo, Rv. 226008; Sez. 3, n. 16022 del 05/03/2004, Granata,
Rv. 228968. Quest’ultima decisione, peraltro, affermò anche un altro importante principio (Rv. 228969) - poi ripreso da numerosissime pronunce successive - sulla durata della sospensione del corso della prescrizione, sostenendo che tale sospensione, se “collegata al rinvio od alla sospensione del dibattimento disposti nei casi previsti dalla legge, va commisurata alla effettiva
durata del rinvio dell’udienza disposto dal giudice: quindi nel caso di impedimento a comparire del difensore, motivato dall’adesione all’astensione dalle
udienze proclamata dalla categoria, l’effetto sospensivo deve essere determinato non in base alla durata dello sciopero, ma al tempo resosi di conseguenza necessario per gli adempimenti tecnici imprescindibili per garantire il recupero dell’ordinario corso della giustizia, atteso che tutte le parti processuali
condividono con il giudice che dispone il rinvio la responsabilità dell’ordinato
andamento del processo, nel corretto bilanciamento tra garanzia dei diritti di
difesa e funzionalità del processo penale”.
6.3. I termini della questione cambiarono necessariamente con l’ulteriore
modifica dell’art. 159 c.p., ad opera della L. 5 dicembre 2005, n. 251. Il vigente art. 159, comma 1, n. 3, individua, tra le cause di sospensione della
prescrizione, le ipotesi della sospensione del procedimento o del processo per
ragioni di impedimento (delle parti o dei difensori) e le ipotesi di sospensione
del procedimento o del processo su richiesta (dell’imputato o del difensore),
differenziando peraltro nettamente i due casi: solo nel primo (sospensione
per impedimento), infatti, la sospensione della prescrizione opera nel limite di
sessanta giorni dal termine dell’impedimento. È così divenuto di centrale rilevanza, agli effetti del calcolo della prescrizione del reato, stabilire se la causa
di rinvio del procedimento o del processo è dovuta ad un “impedimento” ovvero ad una “richiesta” del difensore.
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
A seguito di questo ulteriore mutamento normativo, si è venuta progressivamente affermando la tesi che nega radicalmente che l’astensione del difensore dalle udienze sia riconducibile nell’ambito del legittimo impedimento, essendo del tutto libera la scelta del difensore di aderire o meno all’astensione
proclamata dagli organismi di categoria. Si osserva che se è vero che
l’astensione ha ormai ricevuto una chiara copertura costituzionale nell’ambito
della libertà di associazione, è anche vero che si tratta pur sempre di una opzione di natura volontaria, rimessa alle valutazioni soggettive del difensore e
basata su criteri di opportunità di fatto. Si è quindi in presenza di una situazione del tutto diversa da quella della “assoluta impossibilità” di comparire o,
comunque, di partecipare all’udienza che, a norma dell’art. 420 ter c.p.p.,
comma 5, e art. 484 c.p.p., comma 2 bis, definisce la figura del “legittimo
impedimento” del difensore quale causa di rinvio della udienza e di conseguente sospensione del processo.
Anche se non sono mancate in dottrina opinioni contrarie (nel senso che
l’assolutezza dell’impedimento dovrebbe essere intesa non in termini letterali,
“bensì come impossibilità per il difensore di comparire in udienza senza patire
l’irrimediabile lesione di un proprio, concorrente diritto costituzionalmente garantito”), questo indirizzo, volto ad escludere che l’astensione dalle udienze
possa essere ricondotta nell’alveo del legittimo impedimento, appare ormai
del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità. Se prima della sentenza costituzionale n. 171 del 1996 alcune pronunce contrarie al legittimo
impedimento tendevano talora a considerare la “libera scelta del difensore”
come un abbandono di difesa giustificato come esercizio di un diritto costituzionalmente garantito (cfr. Sez. 1, n. 2646 del 26/04/1996, Di Paolo, Rv.
205175), la giurisprudenza successiva ha seguito l’inquadramento operato
dalla Corte costituzionale nell’ambito della libertà di associazione.
L’orientamento ormai consolidato, quindi, parte dal riconoscimento della piena legittimazione dell’astensione dei difensori nell’ambito delle regole e dei
limiti fissati “direttamente dal legislatore o dalle fonti ed istituzioni alle quali
la legge rinvia”, ed osserva che il rispetto di queste regole e questi limiti determinerà l’accoglimento della richiesta del difensore di differimento
dell’udienza, ma in tal caso “la ragione del rinvio sarà pur sempre l’esercizio
di un diritto di libertà, che è cosa del tutto diversa dal rinvio determinato da
un impedimento”; con la conseguenza che si verterà nella seconda ipotesi
prevista dall’art. 159 c.p., n. 3. Ossia, l’adesione all’astensione costituisce un
legittimo motivo per chiedere ed ottenere di non trattare il processo, ma non
costituisce un impedimento a comparire, sicché il giudice non è tenuto a differire l’udienza entro i sessanta giorni e l’intero periodo di rinvio andrà considerato ai fini della sospensione della prescrizione (in questo senso, Sez. 2, n.
20574 del 12/02/2008, Rosano, Rv. 239890; Sez. 5, n. 44924 del
14/11/2007, Marras, Rv. 237914; Sez. 5, n. 33335 del 23/04/2008, Inserra,
Rv. 241387; Sez. 1, n. 25714 del 17/06/2008, Arena, Rv. 240460; Sez. 5, n.
18071 del 08/02/2010, Piacentino, Rv. 247142; Sez. 4, n. 10621 del
29/01/2013, M., Rv. 256067). Alcune decisioni hanno fondato questa soluzione anche richiamando l’art. 4 del vigente codice di autoregolamentazione il quale vieta l’astensione qualora l’imputato si trovi in stato di custodia cau-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
telare o di detenzione e “chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che si proceda malgrado l’astensione
del difensore” - osservando che in questo modo il legislatore secondario sembra aver considerato l’astensione dalle udienze come non riconducibile ad un
legittimo impedimento a comparire poiché, diversamente, il richiamo all’art.
420 ter c.p.p., comma 5, sarebbe stato superfluo (v. Sez. 5, n. 21963 del
07/05/2008, Del Duca, n. m.; Sez. 2, n. 44391 del 29/10/2008, Palumbo, n.
m.).
Peraltro, l’astensione del difensore non comporta la sospensione della prescrizione qualora si sia in presenza di più fatti idonei a legittimare il rinvio
dell’udienza, perché in tal caso “occorre dare la prevalenza al fatto non dipendente dall’imputato o dal suo difensore” (Sez. 2, n. 41027 del
20/10/2011, Tarantino, n.m., in un caso in cui il difetto di notifica al coimputato impediva la trattazione del processo cumulativo; Sez. 2, n. 11559 del
09/02/2011, De Rinaldis, Rv. 249909, in un caso di rinvio del dibattimento
per la contemporanea adesione del difensore e del giudice all’astensione indetta dalle rispettive categorie).
È stato da molti osservato che tale consolidato orientamento giurisprudenziale ha ormai completamente “sterilizzato”, agli effetti del calcolo della prescrizione, il decorso del tempo decorrente dal giorno dell’udienza rinviata per
astensione al giorno dell’udienza successiva. Ciò comporta che il divieto di
astensione nei processi prossimi a prescriversi, nelle varie articolazioni di cui
all’art. 4 del codice di autoregolamentazione, possa apparire in qualche modo
“superato” e non più sorretto dalla originaria giustificazione. La questione
esula dall’oggetto del presente giudizio, nel quale appare invece interessante
ricordare che nella recente giurisprudenza di questa Corte sono stati frequenti i casi di rigetto di richieste di rinvio per astensione in riferimento a reati il
cui termine di prescrizione maturava entro 90 giorni, fondati sul rilievo che il
divieto è imposto da una norma di diritto oggettivo tuttora vigente (art. 4 del
codice di autoregolamentazione), della quale non sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la disapplicazione: cfr., ad es., Sez. 3, n. 7620 del
28/01/2010, Settecase, Rv. 246197; Sez. 6, n. 39238 del 12/07/2013, Cartia, Rv. 256336. Quest’ultima pronuncia non solo richiama esplicitamente la
“natura regolamentare” dell’art. 4 citato, ma afferma che la disciplina speciale del codice di autoregolamentazione prevale sulla disciplina codicistica
dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, sia perché posta dalla fonte competente a
“costituire il limite originario della legittimità dell’esercizio del diritto
all’astensione collettiva degli avvocati dalle udienze”, e sia comunque perché
“l’autolimitazione, rispetto alla disciplina codicistica della prescrizione, risponde a specifiche scelte della categoria professionale perfettamente adeguate, e
quindi congrue, ai principi costituzionali in materia di giustizia, primo tra tutti
quello della ragionevole durata del processo”, sicché non sarebbe ipotizzarle
una disapplicazione della norma secondaria.
Opinione questa non pienamente collimante con quanto sostenuto dalla
Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane in una nota del 7 giugno 2012 inviata alla Commissione di garanzia, nella quale, preso atto del “diritto vivente”, si esprime la necessità di riformare il vigente codice di autoregolamenta-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
zione sia quanto alla qualificazione di “legittimo impedimento” ivi conferita
all’astensione, sia quanto ai divieti di astenersi nei processi prossimi alla prescrizione, trattandosi di un’autolimitazione che “non ha oggi più alcuna ragione giustificatrice”.
7. Venendo ora più specificamente all’esame delle questioni sottoposte alle Sezioni Unite, va preliminarmente ricordato che il rispetto dei presupposti
fissati dal codice di autoregolamentazione “costituisce la precondizione per la
sussistenza del diritto che si afferma voler esercitare” (cfr. Sez. 6, n. 39238
del 12/07/2013, Cartia, Rv. 256336, cit.) - In particolare, l’art. 3 del vigente
codice prevede specifiche modalità di presentazione della dichiarazione di
astensione, il cui rispetto è necessario, affinché la mancata comparizione sia
considerata in adesione all’astensione (e quindi, stando al codice, “legittimo
impedimento”). L’astensione, difatti, come già ricordato, deve essere “dichiarata (personalmente o tramite sostituto) all’inizio dell’udienza o dell’atto di
indagine preliminare”, oppure, in alternativa, deve essere “comunicata prima
con atto trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero oltreché agli altri avvocati costituiti, almeno due
giorni prima della data stabilita”.
In questo processo l’avv. G.M., difensore dell’imputato L.A., comunicò al
Tribunale di Ferrara la propria dichiarazione di adesione all’astensione indetta
dall’Unione delle Camere Penali facendola pervenire alla cancelleria del giudice procedente a mezzo telefax, con contestuale richiesta di rinvio.
Occorre pertanto valutare la ritualità di questa presentazione, dal momento che la giurisprudenza non è pacifica sull’ammissibilità di una presentazione
via fax di un’istanza di rinvio per astensione.
Alcune sentenze si sono pronunciate nel senso dell’inammissibilità, perché
la trasmissione via fax di tale istanza non costituisce una forma valida di comunicazione ai sensi dell’art. 121 c.p.p., in quanto non garantirebbe la verifica dell’autenticità della sua provenienza (Sez. 1, n. 3138 del 20/01/1998,
Monti, n. m.; Sez. 1, n. 6528 del 11/05/1998, Sileno, Rv. 210711); altre, nel
senso diametralmente opposto dell’ammissibilità di una comunicazione via
fax, non richiedendo tale comunicazione forme particolari (Sez. 2, n. 28141
del 06/05/2004, Paolini, Rv. 229718).
Sull’analoga questione dell’utilizzo del telefax, da parte del difensore, per
la comunicazione di richieste di rinvio per impedimento dovuto a concomitanti
impegni professionali, sono rinvenibili attualmente, nella giurisprudenza di legittimità, tre diversi orientamenti. Un primo indirizzo esclude l’ammissibilità
dell’istanza di rinvio inviata via fax, perché l’art. 121 c.p.p., stabilisce
l’obbligo per le parti di presentare le memorie e le richieste rivolte al giudice
mediante deposito in cancelleria, mentre il ricorso al telefax è riservato ai
funzionari di cancelleria ai sensi dell’art. 150 c.p.p., (in tal senso, Sez. 5, n.
46954 del 14/10/2009, Giosuè, Rv. 245397; Sez. 4, n. 21602 del
23/01/2003, Giuliano, Rv. 256498; Sez. 6, n. 28244 del 30/01/2013, Bagheri, Rv. 256894; Sez. 3, n. 7058 del 11/02/2014, Vacante, Rv. 258443, che
ribadisce il principio anche con riferimento all’invio di istanze tramite posta
elettronica certificata). In senso contrario, si è invece affermato che è viziata
da nullità assoluta, insanabile e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
del processo, la sentenza emessa senza che il giudice si sia pronunciato
sull’istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire, trasmessa via
fax, atteso che tale modalità di trasmissione deve ritenersi consentita alla luce dell’evoluzione del sistema di comunicazioni e notifiche, non ostandovi il
dato letterale dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5, il quale si limita a richiedere
che l’impedimento sia “prontamente comunicato”, senza indicare le modalità
(cfr. Sez. 3, n. 11268 del 06/11/1996, D’Andrea, Rv. 207030; Sez. 5, n.
32964 del 24/04/2008, Pezza, Rv. 241167; Sez. 3, n. 10637 del 20/01/2010,
Barila, Rv. 246338; Sez. 5, n. 43514 del 16/11/2010, Graci, Rv. 249280;
Sez. 5, n. 21987 del 16/01/2012, Balasco, Rv. 252954). In un senso in parte
diverso, si è affermato che l’istanza inviata a mezzo fax non è inammissibile o
irricevibile, ma la sua mancata delibazione non comporta alcuna violazione
del diritto di difesa, “in quanto la scelta di un mezzo tecnico non autorizzato
per il deposito espone il difensore al rischio dell’intempestività con cui l’atto
stesso può pervenire a conoscenza del destinatario”, sicché la parte ha
l’onere di accertarsi del regolare arrivo del fax e del suo tempestivo inoltro al
giudice procedente (Sez. 3, n. 9162 del 29/10/2009, dep. 2010, Goldin, Rv.
246207; Sez. 2, n. 9030 del 05/11/2013, dep. 2014, Stucchi, Rv. 258526).
Nel caso in esame, trattandosi di istanza di rinvio per adesione del difensore all’astensione di categoria, deve trovare applicazione - in base ai criteri
di specialità e di competenza - la norma posta dalla fonte speciale e competente a regolare la specifica materia, ossia, attualmente, dall’art. 3, del vigente codice di autoregolamentazione, il quale prevede che l’atto contenente
la dichiarazione di astensione sia “trasmesso o depositato nella cancelleria del
giudice o nella segreteria del pubblico ministero”. Appare evidente che con
questa locuzione la norma abbia esplicitamente previsto, oltre al tradizionale
deposito, anche la trasmissione nella cancelleria o segreteria con qualsiasi
mezzo tecnico idoneo - quale normalmente il telefax - ad assicurare la provenienza della comunicazione dal difensore e l’arrivo della stessa nella cancelleria o nella segreteria.
D’altra parte - anche a prescindere da tale specifica norma - questa soluzione appare imposta non solo da una interpretazione letterale (perché non è
previsto il rispetto di formalità particolari, potendo la comunicazione e il deposito avvenire con qualsiasi mezzo e forma, mentre quando siano richieste
forme vincolate, il legislatore lo ha previsto espressamente, come per l’art.
162 c.p.p.: cfr. Sez. 3, n. 10637 del 20/01/2010, Barillà, cit.), ma anche da
una interpretazione adeguatrice (perché maggiormente conforme ai principi
costituzionali del diritto di difesa e del contraddittorio), e comunque da una
interpretazione sistematica meno legata a risalenti schemi formalistici e più
rispondente alla evoluzione del sistema delle comunicazioni e notifiche (cfr.
art. 148 c.p.p., comma 2 bis; D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24) nonché alle esigenze
di semplificazione e celerità richieste dal principio della ragionevole durata del
processo. È altresì significativa l’evoluzione delle forme di comunicazione e
notificazione (anche a mezzo di posta elettronica certificata) previste nel processo civile, pur se ritenute non estensibili al processo penale (Sez. 3, n.
7058 del 11/02/2014, Vacante, Rv. 258443).
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Del resto, quanto alla esigenza di autenticità della provenienza e della ricezione di questa forma di comunicazione, le Sezioni Unite hanno già rilevato
- a proposito dell’art. 148 c.p.p., comma 2 bis, - che il telefax è “uno strumento tecnico che da assicurazioni in ordine alla ricezione dell’atto da parte
del destinatario, attestata dallo stesso apparecchio di trasmissione mediante
il cosiddetto OK o altro simbolo equivalente” (Sez. U, n. 28451 del
28/04/2011, Pedicone, Rv. 250121), specificando anche che “la mancata individuazione, in sede normativa, dei mezzi tecnici idonei ad assicurare la effettiva conoscenza dell’atto... è evidentemente legata all’esigenza di non rendere necessario il continuo aggiornamento legislativo degli strumenti utilizzabili, né in qualche modo obbligatorio il loro utilizzo, tenuto conto della evoluzione scientifica e dell’effettivo grado di diffusione di nuovi mezzi tecnici di
trasmissione”. Inoltre, le indicazioni automaticamente impresse sul documento ricevuto dall’ufficio sono idonee ad assicurare l’autenticità della provenienza dal difensore (peraltro facilmente controllabile dall’ufficio in caso di dubbio); e la norma vigente consente che la dichiarazione sia fatta anche tramite
sostituto, senza speciali formalità.
Quanto alla paventata possibilità che il difensore invii indiscriminatamente
e subdolamente istanze di rinvio a mezzo fax ad un qualsiasi numero di fax
dell’ufficio procedente (Sez. 2, n. 9030 del 05/11/2013, dep. 2014, Stucchi,
cit.), è sufficiente osservare - a parte ogni altra considerazione - che dall’art.
3 del vigente codice di autoregolamentazione deriva la regola - del resto da
ritenersi implicita nel sistema anche senza la presenza di questa disposizione
- che la trasmissione a mezzo fax della dichiarazione di astensione, per essere valida ed efficace, va fatta ad un numero di fax della cancelleria del giudice
o della segreteria del pubblico ministero procedenti, e non a qualsiasi numero
di fax dell’ufficio giudiziario.
Il medesimo art. 3 poi dispone che la dichiarazione di astensione, se non
effettuata, personalmente o tramite sostituto, all’inizio dell’udienza o dell’atto
preliminare, va depositata o trasmessa almeno due giorni prima della data
stabilita, il che sembra escludere - per questo tipo di richiesta di rinvio - la
preoccupazione - emergente da molte delle decisioni dianzi citate - che il fax
pervenga all’ultimo momento, senza che vi sia il tempo per portarlo alla conoscenza del giudice.
Alla luce della norma speciale attualmente in vigore, pertanto, la dichiarazione del difensore di astensione fatta pervenire a mezzo fax alla cancelleria
del giudice procedente, deve ritenersi ricevibile ed ammissibile.
Alla medesima conclusione peraltro deve pervenirsi anche nel caso di specie, in cui, riguardando la dichiarazione di astensione l’udienza del 5 luglio
2007, era applicabile, ratione temporis, non la suddetta norma del vigente
codice di autoregolamentazione, ma l’art. 3, comma 2, della regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione di garanzia il 4 luglio 2002 e pubblicata sulla G.U. del 23 luglio 2002, il quale, al contrario della disciplina attuale, disponeva che “nell’ambito del procedimento penale, il difensore che
non intenda aderire all’astensione proclamata, deve comunicare prontamente
tale sua decisione all’autorità procedente ed agli altri difensori costituiti”.
Come si è già ricordato, la normativa secondaria vigente all’epoca poneva
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
una sorta di presunzione di adesione alla protesta di categoria e non imponeva alcun onere di comunicazione al difensore che vi aderisse. Nella specie,
pertanto, sarebbe stata sufficiente la sola mancata presenza del difensore
all’udienza (in mancanza di previa sua contraria comunicazione). L’avv. L.,
peraltro, comunicò ugualmente la sua volontà di aderire all’astensione con
fax pervenuto alla Cancelleria del Tribunale il giorno prima dell’udienza ed
esaminato dal giudice. Correttamente, quindi, il Tribunale ha ritenuto ammissibile l’istanza di rinvio e l’ha esaminata nel merito.
È appena il caso di rilevare che la soluzione non muterebbe nemmeno
qualora, per una qualche ragione, si volesse ritenere non applicabile nella
specie il suddetto art. 3, comma 2, della regolamentazione provvisoria. In tal
caso si dovrebbe invero applicare per analogia l’art. 420 ter c.p.p., il quale richiede che il legittimo impedimento a comparire sia “prontamente comunicato”; e, per le considerazioni dianzi svolte, deve preferirsi l’interpretazione secondo cui tale comunicazione, per la quale non sono previste speciali formalità, possa avvenire anche mediante telefax pervenuto nella cancelleria del
giudice procedente. Nella specie, poi, il Tribunale di Ferrara ha ritenuto che la
comunicazione, effettuata il giorno prima dell’udienza, fosse comunque tempestiva, tanto che l’ha esaminata nel merito.
8. Giurisprudenza e dottrina sono state (e, in parte, ancora sono) divise
sulla natura giuridica ed il fondamento costituzionale da riconoscere
all’astensione forense (e, in genere, all’astensione di altre categorie di prestatori d’opera autonomi).
Anche dopo le modifiche introdotte con la L. n. 83 del 2000, la legge sullo
sciopero nei servizi pubblici essenziali distingue nettamente, da un punto di
vista letterale, il “diritto di sciopero” dei lavoratori subordinati dalla “astensione collettiva” dei lavoratori autonomi, professionisti, piccoli imprenditori,
pur considerando anche quest’ultima tra le situazioni in grado di incidere sui
servizi pubblici essenziali, con la conseguente necessità di contemperamento
con i diritti della persona costituzionalmente garantiti, al fine di assicurarne il
godimento almeno nel loro contenuto essenziale.
Secondo l’opinione prevalente, pertanto, il tenore testuale dell’art. 2 bis
non consentirebbe di ricondurre il fenomeno nell’alveo del diritto di sciopero.
Si è ricordato che la sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale
affermò che le astensioni collettive dal lavoro “volte a difendere interessi di
categoria, non soltanto economici, e a garantire un corretto esercizio della libera professione” rientrano in “un’area, connessa alla libertà di associazione,
che è oggetto di salvaguardia costituzionale ed è significativamente più estesa rispetto allo sciopero”. Secondo tale sentenza, pertanto, se è vero che
“l’astensione forense da ogni attività defensionale non può configurarsi come
diritto di sciopero e non ricade sotto la specifica protezione dell’art. 40”, è
anche vero che essa costituisce “manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di quella forma di lavoro autonomo” e, come tale,
“non può essere ridotta a mera facoltà di rilievo costituzionale”, ma ricade nel
“favor libertatis, il quale ispira la prima parte della Costituzione e si pone come fondamentale criterio regolatore di tale ambito di rapporti, garantendo la
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Parte Seconda - Giurisprudenza
libertà di ogni formazione sociale e postulando, nel contempo, la concorrente
tutela degli altri valori di rango costituzionale”.
Dopo questa sentenza alcune opinioni dottrinali, facendo leva anche sulla
lettera della novellata legge sullo sciopero, hanno qualificato l’astensione forense non come un diritto, ma come una mera libertà nei confronti dello Stato, riconducibile appunto alla libertà di associazione di cui all’art. 18 Cost.
(con la conseguenza, per alcuni, che il suo esercizio escluderebbe solo
l’addebito sotto il profilo penalistico, ma non l’azione di inadempimento).
Nell’ambito di questo filone interpretativo sembrerebbe porsi anche un
orientamento giurisprudenziale secondo il quale dovrebbe distinguersi tra il
“diritto di sciopero”, specificamente tutelato dall’art. 40 Cost., ed una mera
“libertà di astensione”, riconducibile al diverso ambito del diritto di associazione di cui all’art. 18 Cost., con la conseguenza che il giudice avrebbe, nel
singolo processo, il potere di bilanciare i valori e gli interessi in conflitto e
quindi “di far recedere la “libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali
primari” (in questo senso, a quanto sembra, Sez. 2, n. 22353 del
19/04/2013, Di Giorgio, Rv. 255937; Sez. 2, n. 46686 del 06/12/2011, Bencivenga, n. m.; Sez. 2, n. 18613 del 16/04/2010, Bau, n. m.).
Si tratta però di una opinione non condivisibile, dovendo preferirsi
l’interpretazione, del resto ormai assolutamente prevalente in dottrina, secondo cui anche l’astensione dei lavoratori autonomi deve essere qualificata
come diritto, con la conseguente esclusione di ogni illecito, qualora esso venga esercitato nel rispetto delle disposizioni della legge e dei codici di autoregolamentazione. Si è infatti esattamente osservato in dottrina che l’intera
operazione di contemperamento tra alcune manifestazioni di conflitto collettivo ed alcuni diritti costituzionalmente tutelati, realizzata dalla L. n. 146 del
1990, si fonda su un necessario presupposto logico e giuridico, costituto dal
riconoscimento dell’astensione collettiva come esercizio di un vero e proprio
diritto, e non di una mera libertà. Il legislatore in tanto ha potuto contemperare l’esercizio di determinate astensioni collettive dalle prestazioni dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori con un catalogo di diritti
costituzionalmente garantiti della persona, in quanto ha ritenuto che anche le
prime configurino situazioni giuridiche comparabili con i secondi. In sostanza,
l’impianto della L. n. 146 del 1990, ed in particolare l’art. 2 bis, si basa sulla
premessa del riconoscimento di un diritto costituzionalmente garantito di
astensione collettiva dal lavoro per tutti i soggetti compresi nel suo campo di
applicazione, in quanto, senza questa implicita ammissione del comune rilievo
quali diritti di rango costituzionale, l’operazione di contemperamento tra contrapposte situazioni giuridiche non avrebbe potuto essere realizzata. In particolare, non sarebbe stato possibile, senza un comune radicamento costituzionale, inserire manifestazioni di conflitto collettivo, diverse dallo sciopero di cui
all’art. 40 Cost., in una legge che, proprio per consentire il contemporaneo
esercizio di diritti per certi aspetti inconciliabili, ma insopprimibili, impone il
principio del loro reciproco contemperamento. Anzi, si è espresso il dubbio
sulla legittimità costituzionale di una disciplina che prevedesse che uno dei
termini del contemperamento potesse essere privo di riferimento costituzionale.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
Vero è che le opinioni non sono tutte concordi nella individuazione dello
specifico principio costituzionale che funge da base al diritto di astensione.
Secondo l’opinione di gran lunga più diffusa, che si richiama anche
all’interpretazione seguita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 171 del
1996, il fondamento costituzionale dell’astensione risiederebbe nella garanzia
della libertà di associazione di cui all’art. 18 Cost., sicché l’adesione
all’astensione costituirebbe esercizio di facoltà insite nel diritto costituzionale
di libera associazione. È questa, del resto, l’interpretazione seguita dalla assolutamente prevalente giurisprudenza di legittimità.
Questa opinione, peraltro, non è andata esente da rilievi da una parte della dottrina costituzionalistica, che ha lamentato una utilizzazione anomala
della libertà di associazione ed un profondo mutamento sul piano ermeneutico dei confini e dei tratti caratteristici della fattispecie prevista dall’art. 18
Cost., ricordando che l’essenza dell’associarsi è cosa diversa dall’agire secondo i dettami dell’associazione e che restano fuori dell’ambito della garanzia
costituzionale i comportamenti posti in essere dagli associati, anche se funzionali al raggiungimento dei fini sociali.
Da una parte, sia pure minoritaria, della dottrina si sono pertanto continuate a prospettare opinioni diverse sul riferimento costituzionale del diritto
di astensione, quale quella secondo cui, nonostante il tenore letterale della
novella legislativa, anche i lavoratori autonomi e gli altri soggetti di cui all’art.
2 bis sarebbero divenuti titolari del diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost.; o
quella secondo cui il riferimento andrebbe ricercato, per le varie categorie
professionali, nell’art. 39 Cost., inteso non come dichiarazione di mera libertà
sindacale, ma come affermazione integrale della libertà di azione sindacale; o
quella secondo cui, almeno per alcune fra le eterogenee figure di lavoratori
autonomi contemplate dall’art. 2 bis, dovrebbe aversi riguardo alla libertà,
costituzionalmente garantita, di iniziativa economica privata di cui all’art. 41
Cost. (con il divieto di svolgerla in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana).
Quel che rileva ai fini del quesito qui esaminato è peraltro la qualificazione
dell’astensione forense non già come una mera libertà, bensì come esercizio
di un vero e proprio diritto avente un sicuro fondamento costituzionale: soluzione questa che - per le ragioni dianzi esplicitate - deve mantenersi ferma
quand’anche non si volesse - contrariamente alla assolutamente prevalente
giurisprudenza della Corte di cassazione - ravvisare tale fondamento nell’art.
18 Cost., ma (anche) in diversi principi costituzionali. Va pertanto pienamente confermato il principio recentemente enunciato dalla sentenza delle Sez. U,
n. 26711 del 30/05/2013, Ucciero, Rv. 255346, la quale ha inequivocamente
qualificato l’astensione collettiva dalla attività giudiziaria da parte degli avvocati come “un diritto, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo”.
9. Strettamente connessa, ed anzi pregiudiziale alla soluzione dello specifico quesito individuato dall’ordinanza di rimessione, è la questione della natura giuridica e dell’efficacia (vincolante erga omnes o meno) del codice di
autoregolamentazione valutato idoneo dalla Commissione di garanzia (e della
regolamentazione provvisoria).
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
A questo proposito occorre distinguere nettamente il periodo precedente
l’entrata in vigore della L. n. 83 del 2000, dal periodo successivo.
9.1. Nel sistema originario della legge n. 146 del 1990, imperniato sullo
sciopero dei lavoratori subordinati, l’individuazione delle prestazioni indispensabili era rimessa ai (soli) contratti collettivi valutati idonei dalla Commissione
di garanzia: i codici di autoregolamentazione - pur conosciuti nell’esperienza
anteriore alla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali - venivano
presi in considerazione come strumenti meramente “eventuali” dall’art. 2
(vecchio testo) della legge, il quale, demandando ai codici stessi la previsione
delle sanzioni da applicare in caso di violazione, confermava chiaramente la
loro natura ed efficacia meramente endoassociativa.
In particolare, quanto ai codici di autoregolamentazione varati in quel periodo dagli organismi rappresentativi della categoria forense, l’opinione consolidata era che essi davano luogo ad un mero impegno unilaterale nei confronti dell’utenza, utilizzabile dal giudice nell’attività di bilanciamento degli
opposti interessi ovvero in sede disciplinare, con riferimento alla violazione di
regole deontologiche.
Questa tesi, del resto, aveva ricevuto l’avallo dalla sentenza n. 171 del
1996 della Corte costituzionale, la quale aveva espressamente osservato che
una nuova ed adeguata regolamentazione legislativa era “ormai indilazionabile” - “anche in riferimento all’astensione collettiva dal lavoro non qualificabile,
per l’assenza dei suoi tratti tipici, come esercizio del diritto di sciopero” e che
fosse finalizzata alla salvaguardia dei principi e valori costituzionali, anche
con la specificazione, da parte del legislatore, delle “prestazioni essenziali da
adempiere durante l’astensione, le procedure e le misure consequenziali
nell’ipotesi di inosservanza” - anche perché i “codici di autoregolamentazione
recentemente adottati da vari organismi professionali... non hanno efficacia
generale”. In tal modo, peraltro, la Corte costituzionale chiaramente sembrava auspicare che la invocata nuova disciplina legislativa prevedesse che la regolamentazione delle prestazioni essenziali durante l’astensione dei lavoratori
autonomi fosse posta da fonti di diritto oggettivo, aventi appunto “efficacia
generale”.
Anche la consolidata giurisprudenza di legittimità era nel senso che le “disposizioni fissate in un codice di autoregolamentazione possono avere efficacia vincolante per la categoria di soggetti che hanno contribuito alla creazione
della fonte normativa, in funzione dello scopo di porsi alcuni limiti all’esercizio
concreto di un fondamentale diritto”, ma non sono vincolanti per il giudice
che “rimane soggetto ai vincoli che derivano dall’ordinamento processuale”
(Sez. 5, n. 3047 del 21/01/1999 Nava, Rv. 212952 - richiamata anche
dall’ordinanza di rimessione - la quale però si riferiva appunto al codice di autoregolamentazione adottato all’epoca dell’Unione delle Camere penali e poi
dichiarato non idoneo dalla Commissione di garanzia e quindi mai entrato in
vigore come fonte di diritto oggettivo).
9.2. La situazione era destinata evidentemente a mutare radicalmente dopo l’entrata in vigore della legge n. 83 del 2000, ed in particolare a seguito
della emanazione ed entrata in vigore, dapprima, della regolamentazione
provvisoria emanata dalla Commissione e, in seguito, dei codici di autorego-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
lamentazione “muniti” della valutazione di idoneità, ai sensi della L. n. 146
del 1990, nuovo art. 2 bis.
Tuttavia, nella giurisprudenza di legittimità si sono formati su questo punto due diversi indirizzi interpretativi. Un primo indirizzo ha continuato, anche
di recente, ad affermare - quasi tralaticiamente, richiamando difatti la giurisprudenza anteriore alla L. n. 83 del 2000, e la sentenza costituzionale n. 171
del 1996, ossia principi che si riferivano ad un contesto normativo affatto differente - che il giudice, nel valutare l’accoglibilità di una richiesta di rinvio
dell’udienza per adesione del difensore all’astensione di categoria, “non è legato dai principi fissati dall’avvocatura per autodisciplinare l’astensione medesima (Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli
avvocati pubblicato in G.U. n. 3 del 4 gennaio 2008), ma deve autonomamente procedere al bilanciamento degli interessi in gioco in quanto il codice
di autoregolamentazione è un atto che vincola i soli associati” (Sez. 2, n.
22353 del 19/04/2013, Di Giorgio, Rv. 255937, con riferimento, quindi, proprio al codice di autoregolamentazione attualmente in vigore; conf. Sez. 2, n.
24533 del 29/05/2009, Frediani, Rv. 244785).
Un secondo, più cospicuo e recente indirizzo è quello affermato dalla già
citata sentenza delle Sezioni Unite n. 26711 del 30/05/2013, Ucciero, la quale ha espressamente osservato che le norme del codice di “Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati”, adottato il 4 aprile 2007 e
ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, hanno
“valore di normativa secondaria”, e vanno pertanto obbligatoriamente applicate dal giudice. La sentenza Ucciero - dopo aver richiamato la sentenza costituzionale n. 171 del 1996, e l’inquadramento ivi contenuto dell’astensione
forense quale “manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla
tutela di questa forma di lavoro autonomo”, nonché la sua inclusione fra i diritti “di libertà dei singoli e dei gruppi che ispira l’intera prima parte della Costituzione, e la sua qualificazione come un vero e proprio “diritto, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo” - ha ricordato che proprio “allo scopo di soddisfare le esigenze di bilanciamento tra le istanze contrapposte additate dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale, la L.
n. 146 del 1990, è stata appositamente novellata ad opera della L. n. 83 del
2000, con l’introduzione dell’art. 2 bis che ha appunto previsto, per l’astensione collettiva da parte di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori, l’adozione di appositi codici di autoregolamentazione destinati a
realizzare il contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente
tutelati di cui all’art. 1 della stessa legge, previa verifica di idoneità da parte
della apposita Commissione di garanzia”. Ha quindi ricordato che, sulla base
delle nuove disposizioni, il nuovo codice di autoregolamentazione adottato nel
2007 è stato valutato idoneo dalla Commissione il 13 dicembre 2007 e quindi
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Ha infine concluso che, in questo quadro di
riferimento normativo, “il codice di che trattasi assume valore di normativa
secondaria alla quale occorre conformarsi”.
Questo indirizzo è stato poi seguito da numerose pronunce delle sezioni
semplici. Così, la sentenza della Sez. 6, n. 39871 del 12/07/2013, Notarianni,
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Rv. 256444, nel rigettare una istanza di rinvio per astensione in un procedimento di sequestro preventivo, ha ribadito i principi espressi dalla sentenza
Ucciero, stabilendo che il divieto di astenersi nelle udienze “afferenti misure
cautelari”, di cui all’art. 4, lett. a), del codice di autoregolamentazione, deve
ritenersi comprensivo anche dei procedimenti relativi a misure cautelari reali,
sulla base di una interpretazione che trovava conferma nella coerenza sul
punto tra la normativa secondaria (più dettagliata) e quella primaria della L.
n. 146 del 1990.
Analogamente, la sentenza Sez. 6, n. 51524 del 12/07/2013, Cartia, Rv.
256336, ha fondato il rigetto di una istanza di rinvio per astensione sull’art.
4, comma 1, lett. a), del codice di autoregolamentazione, nella parte in cui
non consente l’astensione nei giudizi di legittimità in cui la prescrizione dei
reati vada a maturare nei novanta giorni successivi. La sentenza afferma che
proprio il valore di normativa secondaria, che deve attribuirsi al codice valutato idoneo, impone di escludere la legittimità della dichiarazione di adesione
nei casi di divieto ivi contemplati, poiché in tali casi la dichiarazione di astensione non trova “copertura” e si risolve “in una iniziativa individuale, come tale non rilevante perché inidonea a costituire esercizio del diritto all’astensione
collettiva dalle udienze”. La sentenza ha anche osservato che l’ormai avvenuta “sterilizzazione” del corso della prescrizione per l’intero periodo di differimento potrebbe indurre a considerare inopportuno il suddetto divieto di
astensione, ma ha ritenuto che tale vigente norma regolamentare non fosse
illegittima, e non andasse quindi disapplicata, essendo peraltro congrua rispetto al principio della ragionevole durata del processo.
Un richiamo adesivo al principio della sentenza Ucciero sul “valore di normativa secondaria” riconosciuto al codice di autoregolamentazione, è contenuto anche in altre più recenti decisioni, che hanno basato sui divieti di cui
all’art. 4 del codice il rigetto di richieste di rinvio formulate sia in udienze “afferenti misure cautelari” (Sez. 6, n. 39979 del 19/09/2013, Cellamare; Sez.
2, n. 47145 del 17/09/2013, Figliuzzi; Sez. 2, n. 38684 del 17/09/2013, Di
Puppo; Sez. 6, n. 17 del 18/09/2013, dep. 2014, Q.S., tutte n. m.), sia in
processi per reati destinati a prescriversi entro i successivi novanta giorni
(Sez. 2, n. 51412 del 18/09/2013, Verardi, n. m.). Allo stesso modo, la sentenza della Sez. 2, n. 13227 del 20/02/2014, Colucci, n. m., ha rigettato una
richiesta di rinvio per astensione per il mancato rispetto delle prescrizioni di
cui all’art. 3, comma 1, lett. b), del codice di autoregolamentazione, in quanto la dichiarazione di astensione era stata trasmessa in cancelleria fuori dal
termine di due giorni prima della data stabilita e non era stata comunicata
agli altri avvocati costituiti, né vi era comunque dichiarazione impegnativa di
avere assolto a tale obbligo anche con forme diverse da quelle scritte.
Da ultimo, il principio è stato confermato anche dalla sentenza della Sez.
6, n. 1826 del 24/10/2013, dep. 2014, S., Rv. 258336 - relativa, specificamente, al diritto di astensione del difensore dalle udienze camerali, in cui la
sua partecipazione non è obbligatoria - la quale ha ribadito il valore di normativa secondaria del codice in vigore, ricordando che l’attuale assetto delle fonti normative in materia di rinvio dell’udienza per astensione del difensore
prevede che la stessa trovi appunto la sua regolamentazione nella legge sullo
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
sciopero nei servizi essenziali e nella suddetta fonte regolatrice di natura sublegislativa (la sentenza, in particolare, a differenza di quelle appena richiamate, non ha fatto riferimento ai divieti ed alle prescrizioni del codice per rigettare istanze di rinvio, ma ha applicato una norma dello stesso ritenendo che
essa implicitamente consentisse l’astensione in una ipotesi fino ad allora
esclusa dalla giurisprudenza).
9.3. Questa conclusione sembra messa in dubbio dall’ordinanza di rimessione la quale sostiene che questa normativa primaria e secondaria non esaurirebbe la regolamentazione della materia, con la conseguenza che residuerebbe per il giudice un potere di autonoma valutazione in situazioni non
espressamente contemplate dal codice di autoregolamentazione con la possibilità di bilanciare il diritto all’astensione del difensore con altri diritti costituzionalmente rilevanti. Sembrerebbe che l’ordinanza di rimessione ritenga anche che, qualora il giudice consideri necessario tale bilanciamento, il vigente
codice di autoregolamentazione non avrebbe nei suoi confronti valore vincolante con l’ulteriore conseguenza della natura sostanzialmente endoassociativa delle norme del codice (orientamento questo, ancora di recente sostenuto,
fra le altre, anche dalle citate sentenze Sez. 2, n. 22353 del 19/04/2013, Di
Giorgio, e Sez. 2, n. 24533 del 29/05/2009, Frediani).
Ritengono le Sezioni Unite che questa interpretazione debba essere
senz’altro disattesa e che vada invece pienamente confermato il principio, già
enunciato dalla sentenza Ucciero, che il codice di autoregolamentazione delle
astensioni dalle udienze degli avvocati ritenuto idoneo dalla Commissione di
garanzia nel 2007, pubblicato sulla G.U. nel 2008 ed attualmente in vigore
(così come, parimenti, la regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione nel 2002) contiene una normativa di valore secondario, o regolamentare, che ha efficacia obbligatoria per tutti i soggetti dell’ordinamento, ed
in primo luogo, quindi, nei confronti del giudice, il quale è tenuto a rispettarla
ed applicarla.
Il legislatore primario, dopo aver posto con legge la normativa generale
sulla astensione dal lavoro di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori in caso di interferenza con pubblici servizi essenziali, ha previsto
che la normativa secondaria e di dettaglio, di rango regolamentare, sia attribuita alla competenza di una specifica fonte, appositamente creata (costituita, appunto, dai codici di autoregolamentazione, adottati dalla categoria professionale, ritenuti idonei dalla Commissione di garanzia e pubblicati sulla
Gazzetta Ufficiale ovvero, in mancanza degli stessi o della dichiarazione di
idoneità, dalla regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione).
Si tratta dunque di norme poste dalla speciale fonte normativa alla quale
le norme di rango legislativo sulla produzione hanno attribuito la specifica
competenza a porre la disciplina secondaria della materia, e pertanto a tutti
gli effetti di vere e proprie norme che fanno parte del “diritto oggettivo”. In
altre parole, si tratta di norme che rientrano nell’ambito delle norme di “legge” cui si riferisce l’art. 101 Cost., comma 2, ed alle quali il giudice, proprio in
forza di tale disposizione costituzionale, è sicuramente “soggetto” (pur essendo soggetto solo ad esse).
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Le norme del vigente codice di autoregolamentazione (come quelle della
regolamentazione provvisoria), del resto, presentano tutte le caratteristiche
che, nel nostro ordinamento, contraddistinguono le norme poste da fonti di
diritto oggettivo. In primo luogo, invero, per esse trova applicazione il principio iura novit curia, come peraltro è confermato da tutte le sentenze dianzi
citate che hanno applicato d’ufficio le norme del codice per rigettare richieste
di rinvio per astensione da udienze afferenti misure cautelari o reati destinati
a prescriversi entro i 90 giorni (nonostante l’ormai avvenuta “sterilizzazione”
della prescrizione per l’intero periodo di rinvio). La violazione di dette norme,
poi, può costituire oggetto di ricorso per cassazione per violazione di legge (ai
sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), e
dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e l’eventuale annullamento andrà appunto pronunciato per violazione di legge, e non per vizio di motivazione. Inoltre,
le disposizioni del codice di autoregolamentazione (e della regolamentazione
provvisoria) vanno sicuramente interpretate secondo i criteri ermeneutici fissati per le leggi dall’art. 12 preleggi, e non secondo le regole interpretative
valevoli per gli atti normativi e gli accordi collettivi di diritto privato.
Ciò del resto è confermato non solo da tutto il complesso sistema normativo specificamente creato dal legislatore primario, ma anche dal tenore testuale della L. n. 83 del 2000. Si è esattamente osservato che nel settore del
lavoro autonomo, in mancanza di altre fonti di disciplina, la generale obbligatorietà dei codici è la condicio sine qua non perché il meccanismo introdotto
dal legislatore possa dar vita ad una disciplina vincolante per l’intera categoria dei lavoratori (autonomi, professionisti, piccoli imprenditori) interessati.
Tale risultato è stato raggiunto dalla L. n. 83 del 2000, rendendo operativo
anche nei confronti dei codici di autoregolamentazione valutati idonei dalla
Commissione di garanzia l’obbligo legale di osservanza delle relative prescrizioni. In particolare, questa operazione legislativa si è incentrata sul disposto
della L. n. 146 del 1990, art. 2, comma 3, che prescrive a tutti i soggetti
coinvolti nello sciopero di effettuare le prestazioni indispensabili, nonché di rispettare le modalità, le procedure e le altre misure previste dal medesimo
art. 2, comma 2.
L’art. 2, comma 2, è stato poi espressamente richiamato - ed in tal modo
reso applicabile anche ai lavoratori autonomi ed alle loro associazioni - sia
dall’art. 2 bis, che impone anche a tali soggetti il suo rispetto, sia dall’art. 4,
comma 4, secondo periodo, che sanziona nei loro confronti la sua inosservanza. L’art. 2 bis, infatti, stabilisce che resta fermo “quanto previsto dall’art. 2,
comma 3”, così operando la detta estensione ai lavoratori autonomi ed alle
loro associazioni dell’obbligo, sancito da questa norma, di effettuare le prestazioni indispensabili e di rispettare le altre previsioni dell’art. 2, comma 2.
Quest’ultima disposizione, inoltre, contiene un esplicito riferimento ai codici di
autoregolamentazione, il che ha determinato un profondo mutamento della
loro efficacia rispetto alla normativa precedente, nella quale, in mancanza di
espliciti richiami, non era possibile attribuire ai codici di autoregolamentazione del lavoro subordinato una generale obbligatorietà, che ora invece discende comunque dall’art. 2, comma 3, e dal suo richiamo all’art. 2, comma 2.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
Si è quindi conclusivamente e correttamente sostenuto che la obbligatorietà generale dei codici di autoregolamentazione deriva dal rinvio, contenuto
nella L. n. 146 del 1990, art. 2 bis, all’art. 2, comma 3, il quale a sua volta richiama l’art. 2, comma 2, oggi comprensivo anche di un espresso riferimento
ai codici di autoregolamentazione. Questa vincolatività ex lege è poi confermata dalle misure sanzionatorie che, ai sensi dell’art. 4, comma 4, secondo
periodo, si applicano sia “in caso di violazione dei codici di autoregolamentazione di cui all’art. 2 bis”, sia “in ogni altro caso di violazione dell’art. 2,
comma 3”. Del resto, proprio in virtù della vincolatività ex lege dei codici,
questa disposizione dell’art. 4 non prevede mere sanzioni endo-sindacali,
bensì sanzioni amministrative pecuniarie, deliberate dalla Commissione di garanzia ed applicate con ordinanza ingiunzione della Direzione provinciale del
lavoro.
L’efficacia erga omnes viene generalmente ammessa dalla dottrina anche
sulla base di considerazioni prettamente sistematiche. Si evidenzia che, nel
sistema normativo, l’art. 2 bis, ha il ruolo di norma sulla produzione, e in particolare di norma sulla fonte secondaria di disciplina delle misure dirette a
consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili di cui alla L. n. 146 del
1990, art. 1, mentre i codici di autoregolamentazione assumono appunto il
ruolo di fonte secondaria regolativa delle dette misure, svolgendo la parallela
funzione assolta per il lavoro subordinato dai contratti collettivi. È pure vero
che i codici non avrebbero di per sé efficacia erga omnes (come ritenuto dalla
sentenza costituzionale n. 171 del 1996 in riferimento alla precedente normativa), ma la previsione della delibera di idoneità, coniugata con il nuovo riconoscimento in capo alla Commissione di garanzia del potere normativo
(espresso dalla provvisoria regolamentazione), permette di ritenere che proprio la delibera di idoneità attribuisca ai codici efficacia generale. E difatti, se
si prescinde dall’efficacia generalizzata di un codice dichiarato idoneo, più non
si comprende la previsione che, in alternativa ad un codice idoneo, ha rimesso alla Commissione di garanzia il potere di regolamentazione provvisoria.
L’opinione pacificamente concorde - e che va qui condivisa - è dunque nel
senso che il nuovo assetto normativo consente di riconoscere al codice dichiarato idoneo (ed alla regolamentazione provvisoria) un ruolo di fonte normativa subprimaria e quindi in grado di porre norme vincolanti per tutti i
soggetti dell’ordinamento e, in primo luogo, per il giudice. Si tratta in particolare di fonte posta per effetto di uno speciale procedimento diretto specificamente ad individuare le regole di contemperamento del diritto di astensione
con i diritti costituzionali degli utenti, nel quale è decisiva la finale valutazione
di idoneità della Commissione di garanzia. Si è anche osservato, infine, che il
risultato della generale vincolatività prescinde dall’ampiezza del consenso su
cui le fonti collettive si fondano, dal momento che “il legislatore ha ritenuto di
astenersi dall’introdurre meccanismi di controllo dei conflitti basati sulla selezione dei soggetti legittimati a definire le regole negoziali o a proclamare gli
scioperi”.
In conclusione, alle norme poste dalla regolamentazione provvisoria e dal
codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo e pubblicato deve ricono-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
scersi forza e valore di norme di diritto oggettivo di rango secondario o regolamentare.
10. Dopo avere accertato che in capo al difensore è configurabile un vero
e proprio diritto all’astensione costituzionalmente tutelato (qualora siano rispettate le specifiche norme primarie e secondarie in materia) e non una mera libertà, e che le norme del codice di autoregolamentazione, dichiarato idoneo e pubblicato (o quelle della regolamentazione provvisoria) sono norme di
diritto oggettivo vincolanti erga omnes, occorre ora esaminare la questione
se, pur dopo l’entrata in vigore delle suddette fonti secondarie con cui è stato
effettuato in via generale il contemperamento, continui a permanere in capo
al giudice un potere di autonomo bilanciamento degli interessi e dei valori in
gioco ed un potere di rifiutare eventualmente, a seguito di tale valutazione, il
rinvio nonostante una regolare dichiarazione di astensione del difensore ed il
rispetto delle norme del codice di autoregolamentazione.
10.1. Come si è già ricordato, questo potere di bilanciamento del giudice
era generalmente ritenuto sussistente da giurisprudenza e dottrina nella vigenza della normativa anteriore alla disciplina introdotta dalla legge n. 83 del
2000. Si riconosceva, infatti, che l’adesione all’astensione poneva un problema - ancor prima al legislatore che al giudice - di “bilanciamento di interessi”,
soprattutto per il “nodo cruciale” della prescrizione, che all’epoca non aveva
ancora trovato una condivisa e definitiva soluzione giurisprudenziale.
La stessa sentenza costituzionale n. 171 del 1996 aveva affermato che allo stato della normativa all’epoca vigente ed in mancanza della auspicata
specifica regolamentazione normativa, anche mediante codici di autoregolamentazione - era da privilegiare (anche se non risolveva il problema per
l’eventualità dell’adesione all’astensione dei difensori d’ufficio nominati)
l’interpretazione che riconosceva “al giudice il potere di bilanciare i valori in
conflitto e, conseguentemente, di far recedere la “libertà sindacale” di fronte
a valori costituzionali primari”. La sentenza, peraltro, non mancava di sottolineare che, per la salvaguardia dei valori e principi costituzionali, era indispensabile che fosse il legislatore ad individuare “anche le prestazioni essenziali da adempiere durante l’astensione, le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza”, spettando appunto “al legislatore di definire
in modo organico le misure atte a realizzare l’equilibrata tutela dei beni coinvolti”.
Negli anni novanta del secolo scorso - non essendosi all’epoca ancora affermato un orientamento giurisprudenziale volto ad individuare una causa di
sospensione ex lege della prescrizione, in virtù del combinato disposto
dell’art. 159 c.p., e art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b), - nella giurisprudenza
di cassazione si faceva frequentemente ricorso al principio del bilanciamento
di interessi, soprattutto per impedire il maturare della prescrizione, “dandosi
la prevalenza a quello dello Stato, diretto ad evitare l’estinzione del reato per
prescrizione, rispetto a quello del difensore dell’imputato, diretto al legittimo
esercizio dei diritti personali di libertà, in particolare di quello di astenersi dal
partecipare alle udienze” (v., ad es., Sez. 4, n. 6604 del 17/12/1992, Montagnoli, Rv. 195252; Sez. 6, n. 2156 del 17/12/1996, dep. 1997, Galletto, Rv.
207265; Sez. 1, n. 5740 del 14/10/1997, Ancler, Rv. 208925; Sez. 3, n. 466
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
del 11/03/1999, Savarese, Rv. 213092; Sez. 5, n. 3047 del 21/01/1999 Nava, Rv. 212952, che ritenne il giudice non vincolato dal parametro temporale
della prescrizione entro 45 giorni successivi all’udienza fissato allora dal codice di autoregolamentazione dichiarato non idoneo dalla Commissione di garanzia). In un caso particolare, si ritenne che il rigetto - peraltro anteriore
all’entrata in vigore della legge n. 83 del 2000 - era giustificato dal fatto che
era stata già disposta una udienza della corte di assise in trasferta per
l’esame di un teste a domicilio ai sensi dell’art. 502 c.p.p., in quanto spettava
“al giudice ogni motivata decisione, che tenga conto e bilanci gli interessi in
giuoco, evidentemente costituiti anche da quelli - processuali e logistici - della giustizia” (Sez. 1, 13/12/2001, dep. 2002, Agate, n. m.).
10.2. Con riferimento a dichiarazioni di astensione formulate dopo
l’entrata in vigore della legge n. 83 del 2000, e durante la vigenza della provvisoria regolamentazione emanata dalla Commissione di garanzia con delibera del 4 luglio 2002, in un processo in cui il difensore di un imputato libero
aveva dichiarato di aderire all’astensione, mentre i difensori dei coimputati
detenuti avevano sollecitato la trattazione del processo, venne rifiutato il rinvio richiamando la necessità, sulla scorta dei principi della sentenza costituzionale n. 171 del 1996, di un bilanciamento giudiziale tra l’”esercizio della libertà di astensione collettiva” e gli altri valori costituzionali, anche in relazione al principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., che
esalta il rilievo speciale conferito ai processi con imputati in stato di detenzione, dal momento che è “incomprimibile il diritto dell’imputato detenuto ad
una rapida definizione del processo; diritto che quindi fa aggio sulla libertà
degli avvocati di astenersi collettivamente dalle udienze” (Sez. 3, n. 17269
del 21/03/2007, Musaj, Rv. 237322). Va però rilevato che questa decisione si
fonda, oltre che su tali considerazioni generali, anche e soprattutto sulla necessità di rispettare l’art. 4, comma 1, lett. b), della regolamentazione provvisoria, che prevedeva la celebrazione del processo ove lo richiedesse
l’imputato in stato di detenzione malgrado l’astensione del suo difensore, di
fiducia o d’ufficio, “ipotesi questa da ritenersi comprensiva della richiesta, di
analogo
contenuto,
fatta
dal
difensore
dell’imputato
detenuto”.
L’affermazione che la mera “libertà” degli avvocati di astenersi “trova un limite in altri valori costituzionali, fra i quali rientra la ragionevole durata del processo”, è stata poi ripresa da successive decisioni (cfr. Sez. 2, n. 46686 del
06/12/2011, Bencivenga, n. m., in riferimento ad una astensione in una
udienza camerale d’appello con rito abbreviato).
Sempre con riferimento all’epoca di vigenza della fonte secondaria costituita dalla regolamentazione provvisoria, è stato ritenuto legittimo il rigetto di
una istanza di rinvio per astensione per il motivo che il processo si sarebbe
prescritto entro sei mesi, ipotesi questa non contemplata dalla regolamentazione provvisoria, e ciò perché (riprendendo testualmente le argomentazioni
della sentenza Nava, che invece si riferiva al codice di autoregolamentazione
“ante riforma” dichiarato non idoneo) il giudice “non è legato ai principi fissati
dall’avvocatura per autodisciplinare l’astensione medesima, ma deve autonomamente considerare l’interesse a non lasciar prescrivere i reati da giudi-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
care tenendo conto delle molteplici variabili che condizionano un simile giudizio” (Sez. 2, n. 24533 del 29/05/2009, Frediani, Rv. 244785).
Anche in altra occasione venne ritenuta irrilevante la “presunzione di
astensione” fissata dall’art. 3 della regolamentazione provvisoria del 2002,
per il motivo che questa disposizione imponeva all’avvocato “non aderente” di
comunicare tale sua decisione per fini organizzativi, ma “nulla invece essa dispone, né potrebbe disporre, circa la rilevanza che assume la pura e semplice
assenza del difensore, in occasione di astensione collettiva, nei procedimenti
camerali” (Sez. 6, n. 14396 del 19/02/2009, Leoni, Rv. 243263).
Questa tesi della non vincolatività per il giudice di detta disposizione della
regolamentazione provvisoria e della presunzione di astensione ivi fissata,
venne ripresa anche da Sez. 2, n. 10834 del 26/01/2011, Adaggio, n. m., che
ritenne “irrilevante la preventiva comunicazione delle Camere penali al presidente del tribunale, attesa la natura individuale dell’adesione alla programmata astensione”, e ripropose anche la qualificazione dell’astensione come
legittimo impedimento.
10.3. Più di recente, in riferimento ad istanze di rinvio per astensione formulate nella vigenza dell’attuale codice di autoregolamentazione, in relazione
alla questione del permanere di un potere del giudice di compiere un autonomo bilanciamento di interessi, possono distinguersi nella giurisprudenza
della Corte di cassazione due diversi indirizzi interpretativi.
Da un lato, invero, alcune decisioni hanno ribadito la necessità per il giudice di operare un bilanciamento dei contrapposti interessi. In un caso di rigetto, da parte del giudice del merito, della richiesta di rinvio per adesione
all’astensione del difensore di una imputata non sottoposta a misura detentiva, ma alla sola misura cautelare coercitiva di cui all’art. 282 ter c.p.p., sono
stati di nuovo richiamati i principi espressi dalla sentenza costituzionale n.
171 del 1996 e si è affermata ancora la necessità di riconoscere al giudice “il
potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere
la “libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali primari”, ribadendo che il
giudice non è vincolato dal codice di autoregolamentazione pubblicato in G.U.
(Sez. 2, n. 22353 del 19/04/2013, Di Giorgio, Rv. 255937). Peraltro, dopo
queste affermazioni, la sentenza osserva che “l’imputata si trovava pur sempre sottoposta ad una misura coercitiva - sebbene non detentiva - e, quindi,
essendo limitato un suo diritto costituzionalmente protetto (art. 16 Cost.),
era interesse primario lo svolgimento del processo”, mentre era irrilevante
che l’art. 4 del codice di autoregolamentazione vieti l’astensione nei soli processi con imputati detenuti, perché correttamente il giudice, nel bilanciare gli
interessi in gioco, aveva dato la prevalenza all’interesse dell’imputata, sottoposta a misura coercitiva, ad un celere processo, essendo invece irrilevante
che l’imputata non avesse chiesto espressamente di procedere nonostante
l’astensione del suo avvocato, e ciò in quanto “il processo non è una materia
disponibile”, così come non sono disponibili i diritti costituzionali inviolabili,
quale la libertà di circolazione.
Sotto un altro profilo si è ritenuto che la dichiarazione di astensione del difensore della parte civile non legittima il rinvio, in presenza di una contraria
volontà manifestata dal difensore dell’imputato, sebbene l’art. 3, comma 2,
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
del vigente codice di autoregolamentazione stabilisca che l’astensione costituisce legittimo impedimento anche qualora avvocati del medesimo procedimento non abbiano aderito ad essa, specificando che tale disposizione si applica a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi i difensori della persona
offesa, ancorché non costituita parte civile. Si è invero affermato che questa
disposizione (alla quale viene riconosciuto il valore di normativa secondaria)
non può essere interpretata nel senso della prevalenza della dichiarazione di
astensione del difensore della parte civile sulla contraria volontà espressa,
tramite il proprio difensore, dall’imputato, dovendo invece essere privilegiato
l’interesse dell’imputato ad una celere definizione del procedimento, anche in
virtù del principio della ragionevole durata del processo (Sez. 6, n. 43213 del
12/07/2013, Arangio, Rv. 257205).
A ben vedere, tuttavia, in queste due sentenze l’affermazione del potere
del giudice di operare un autonomo bilanciamento di interessi sembra fatto
più come tralaticia ripetizione di formule tratte da sentenze risalenti che come enunciazione di un principio effettivamente utilizzato per la decisione. In
realtà si è trattato non di bilanciamento tra valori costituzionali confliggenti,
ma della scelta di una interpretazione - fra le varie possibili - estensiva ed
adeguatrice (a norme o principi costituzionali) delle norme secondarie in materia. Così, la sentenza Arangio ha solo interpretato l’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione - il quale dispone che la regola, secondo cui
l’astensione costituisce legittimo impedimento anche quando gli altri difensori
non vi abbiano aderito, si applica anche con riferimento ai difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile - nel senso che però prevale
in ogni caso l’eventuale contraria volontà formalmente espressa dall’imputato
di procedere, in considerazione del suo interesse ad una celere definizione del
procedimento. Analogamente, anche la sentenza De Giorgio, nonostante le
non condivisibili (e superate) affermazioni di principio, ha in realtà interpretato l’art. 4, lett. b), del codice - che vieta l’astensione nei procedimenti con
imputati in stato di custodia cautelare o di detenzione - nel senso che esso si
applichi anche ai casi di imputati soggetti alla misura coercitiva non detentiva
di cui all’art. 282 ter c.p.p. (peraltro violando poi il medesimo art. 4, il quale
richiede, per escludere l’astensione, che l’imputato detenuto o in stato di custodia cautelare, chieda espressamente, analogamente a quanto previsto
dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che si proceda malgrado l’astensione del difensore).
10.4. Altre recenti decisioni, invece, aderiscono ad una diversa impostazione di principio. Così, già la citata sentenza delle Sezioni Unite Ucciero aveva tenuto a sottolineare che proprio per soddisfare le esigenze di bilanciamento tra diversi interessi e valori costituzionali indicati dalla sentenza costituzionale n. 171 del 1996, il legislatore, con la L. n. 83 del 2000, aveva previsto l’adozione di specifiche fonti di diritto oggettivo, aventi valore di normativa secondaria, costituite da appositi codici di autoregolamentazione destinati a realizzare il “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 1”, previa verifica di idoneità
da parte della apposita Commissione di garanzia.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Particolare rilievo presenta, anche sotto questo profilo, la già ricordata
sentenza della Sez. 6, n. 1826 del 24/10/2013, dep. 2014, S., la quale, dopo
aver riaffermato il principio che “con la dichiarazione di astensione dalle
udienze il difensore esercita un diritto, che il giudice deve riconoscere, purché
il suo esercizio avvenga nel rispetto della legge” e ribadito la “sussistenza di
un vero e proprio diritto al rinvio quale diretta conseguenza dell’esercizio del
diritto costituzionale di libertà di associazione del difensore”, ha sottolineato
una serie di rilevanti proposizioni - tutte pienamente condivisibili e certamente operanti nell’attuale sistema normativo - specificando: che se è vero che
questo diritto di libertà deve essere bilanciato con i diritti fondamentali degli
altri soggetti interessati dalla funzione giudiziaria nonché con i principi costituzionali del buon andamento dell’amministrazione della giustizia, è anche
vero che “un tale bilanciamento risulta oggi effettuato a monte dal legislatore”; che proprio per soddisfare le esigenze di questo bilanciamento è intervenuto il legislatore, sollecitato dalla Corte costituzionale, con la L. n. 83 del
2000, prevedendo anche l’adozione di codici di autoregolamentazione, dichiarati idonei dalla Commissione di garanzia; che pertanto attualmente
l’esercizio del diritto di astensione “resta subordinato ad una serie di regole e
limiti, che sono stabiliti dalla legge, integrata dai codici di autoregolamentazione che siano valutati conformi alla legge stessa” ed idonei; che “una volta
che tali regole risultano osservate, il giudice non può che accogliere la richiesta di differimento dell’udienza formulata dal difensore che dichiari di aderire
all’astensione collettiva, a condizione che sia stata proclamata a norma di
legge”; che del resto vi sono altri istituti in grado di assicurare tutela ai principi e ai diritti suscettibili di essere lesi dagli effetti dell’astensione e dal conseguente diritto al rinvio (dato che: il rinvio dell’udienza determina la sospensione della prescrizione per l’intero periodo necessario per gli adempimenti
occorrenti per il recupero dello svolgimento del processo; si esclude il diritto
del difensore ad avere la notifica del provvedimento di differimento;
l’astensione rende operante anche la causa di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare; il codice di autoregolamentazione
esclude l’astensione nei processi per reati la cui prescrizione maturi durante il
periodo di astensione o nei termini ivi indicati); che, pertanto, nell’attuale sistema normativo i diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione
giudiziaria, espressione dei principi e dei valori costituzionali del buon andamento dell’amministrazione giudiziaria, risultano fortemente tutelati nella
comparazione con la libertà di astensione.
In questo indirizzo, poi, sembra possano farsi rientrare anche le recenti
sentenze dianzi ricordate che hanno rigettato richieste di rinvio per la prossima prescrizione del reato, applicando senz’altro l’art. 4 del codice vigente e
così implicitamente escludendo che permanga ancora la possibilità di un autonomo giudizio di bilanciamento, nel quale, stante l’ormai avvenuta sterilizzazione della prescrizione, avrebbe potuto forse, in qualche caso, trovare
prevalenza il diritto costituzionale all’astensione.
10.5. Quest’ultima linea interpretativa deve senz’altro essere qui condivisa
e confermata. La disciplina normativa della materia relativa alla astensione
collettiva dei difensori è attualmente interamente contenuta in norme di dirit-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
to oggettivo poste da fonti legislative e dalle competenti fonti di livello secondario o regolamentare, sicché non può residuare spazio (se non in ipotesi veramente eccezionali ed in limiti molto ristretti) per il riconoscimento di un autonomo potere giudiziale di bilanciamento dei valori costituzionali in possibile
contrasto, e per ritenere ancora pienamente applicabile il principio - affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in un
contesto normativo totalmente diverso, caratterizzato dalla mancanza di disciplina - che riconosceva al giudice un potere discrezionale di bilanciamento.
Già da tempo, del resto, si era evidenziato che le gravi criticità emerse
subito dopo l’entrata in vigore del “codice Vassalli” e che avevano determinato e giustificato tale potere di bilanciamento attribuito al giudice erano state
via via superate negli anni successivi.
L’elemento decisivo è comunque rappresentato dall’intervento legislativo
costituito dalla L. n. 83 del 2000, e dalla ormai piena operatività del sistema
normativo da questa delineato con la creazione delle fonti secondarie competenti (codici di autoregolamentazione dichiarati idonei dalla Commissione di
garanzia e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale ovvero regolamentazioni provvisorie). In questo sistema il contemperamento tra l’astensione collettiva dei
lavoratori autonomi, professionisti, piccoli imprenditori ed il godimento dei diritti costituzionalmente tutelati degli utenti dei servizi pubblici essenziali è
ormai disciplinato - come per il diritto di sciopero - dalla legge, attraverso
l’individuazione delle prestazioni “indispensabili” (perché idonee ad assicurare
l’effettività del godimento dei diritti “nel loro contenuto essenziale”) che devono essere comunque garantite in ogni caso di conflitto collettivo. Tale individuazione è rimessa dalla legge alla contrattazione collettiva quanto allo
sciopero e ai codici di autoregolamentazione quanto all’astensione dei lavoratori autonomi, e - solo ove questi manchino o siano ritenuti inidonei dalla
Commissione di garanzia - alla regolamentazione provvisoria emanata dalla
Commissione stessa.
Dunque, nel sistema attuale - strutturato proprio seguendo le indicazioni
della sentenza costituzionale n. 171 del 1996 - le situazioni che richiedono un
bilanciamento tra i confliggenti diritti costituzionali sono state in via generale
previste dalle norme legislative e secondarie competenti in materia, le quali
hanno già provveduto al bilanciamento. Il che appare appunto conforme alla
suddetta sentenza costituzionale, che aveva auspicato l’intervento del legislatore anche per l’esigenza che in una materia così delicata, come le agitazioni
sindacali di lavoratori non dipendenti nei servizi pubblici essenziali, le interferenze ed i conflitti tra i contrapposti valori costituzionali in gioco siano regolati “a monte” da norme certe, generali ed astratte e non rimesse a mutevoli
valutazioni discrezionali in relazione ai singoli casi concreti.
Così, ad esempio, il bilanciamento con l’esigenza che il servizio essenziale
giustizia non resti paralizzato e con le esigenze organizzative, logistiche e di
buon andamento della amministrazione giudiziaria, è effettuato innanzitutto
dall’art. 2 del codice, il quale dispone che la proclamazione dell’astensione,
“con l’indicazione della specifica motivazione e della sua durata”, deve essere
comunicata almeno dieci giorni prima agli uffici giudiziari interessati, al Ministro, alla Commissione di Garanzia e al Consiglio Nazionale forense; che va
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Parte Seconda - Giurisprudenza
fatta anche comunicazione al pubblico “con modalità tali da determinare il
minimo disagio per i cittadini” e da rendere nota l’iniziativa il più tempestivamente possibile; che fra proclamazione ed astensione non possono intercorrere più di sessanta giorni; che ciascuna proclamazione deve riguardare
un unico periodo di astensione; che l’astensione non può superare otto giorni
consecutivi non festivi; che in ogni mese solare non può comunque essere
superata la durata di otto giorni; che in ogni caso fra due astensioni successive deve intercorrere un intervallo di almeno quindici giorni. Queste regole
possono essere derogate solo nel caso in cui l’astensione sia proclamata “in
difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi
dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori” (art. 2, comma 7, della legge e
art. 2, comma 3, del codice).
Il bilanciamento con le esigenze organizzative e logistiche è poi effettuato
anche dall’art. 3, comma 1, del codice, il quale prevede che la mancata comparizione dell’avvocato all’udienza, o all’atto di indagine, “o a qualsiasi altro
atto o adempimento per il quale sia prevista la sua presenza, ancorché non
obbligatoria”, affinché sia considerata in adesione all’astensione regolarmente
proclamata ed effettuata, e dunque considerata legittimo impedimento, deve
essere alternativamente: a) dichiarata personalmente, o tramite sostituto,
all’inizio dell’udienza o dell’atto di indagine preliminare; ovvero b) comunicata
con atto scritto trasmesso o depositato alla cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero, oltreché agli altri avvocati costituiti, almeno
due giorni prima della data stabilita.
Il medesimo art. 3 provvede anche al bilanciamento con il diritto di difesa
e di azione e con i contrapposti interessi delle altre parti processuali, disponendo, al comma 2, che la dichiarazione di astensione regolarmente manifestata costituisce legittimo impedimento anche qualora avvocati del medesimo
procedimento non abbiano aderito all’astensione stessa, e che tale disposizione si applica a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi i difensori
della persona offesa, ancorché non costituita parte civile; ed, al comma 3,
che, nel caso in cui sia possibile la separazione o lo stralcio per le parti assistite da difensore che non aderisce all’astensione, questi, conformemente alle
regole deontologiche forensi, deve farsi carico di avvisare gli altri colleghi interessati all’udienza o all’atto di indagine preliminare quanto prima, e comunque almeno due giorni prima della data stabilita, ed è tenuto a non compiere
atti pregiudizievoli per le altre parti in causa.
Il bilanciamento con il fondamentale diritto di libertà di indagati ed imputati, nonché con le esigenze di urgenza, di celerità e di effettività (e ragionevole durata) del processo, è operato dall’art. 4 del codice che, come già ricordato, prevede, alla lettera a), che l’astensione non è consentita in relazione agli atti di perquisizione e sequestro; alle udienze di convalida dell’arresto
e del fermo; a quelle afferenti misure cautelari; agli interrogatori di garanzia
di cui all’art. 294 c.p.p.; all’incidente probatorio ad eccezione dei casi in cui
non si verta in ipotesi di urgenza, come ad esempio di accertamento peritale
complesso; al giudizio direttissimo;
al compimento degli atti urgenti di cui all’art. 467 c.p.p. (specie con riferimento alle prove non rinviabili); e, alla lettera b), che l’astensione è esclusa
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
“nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che si
proceda malgrado l’astensione del difensore. In tal caso il difensore di fiducia
o d’ufficio, non può legittimamente astenersi ed ha l’obbligo di assicurare la
propria prestazione professionale”.
L’interesse fondamentale dello Stato di evitare la prescrizione dei reati
(che aveva determinato in passato la gran parte dei bilanciamenti ad opera
del giudice), è stato ormai contemperato con il diritto all’astensione dall’art.
4, lett. b), del codice, secondo cui l’astensione non è consentita nei procedimenti e processi concernenti reati la cui prescrizione maturi durante il periodo di astensione, ovvero entro 360, 180 o 90 giorni se pendenti rispettivamente nella fase delle indagini preliminari, o in grado di merito o nel giudizio
di legittimità. Del resto, come già ricordato, questa esigenza è attualmente
ampiamente soddisfatta - a prescindere da tale disposizione - anche dal pacifico orientamento secondo cui il corso della prescrizione rimane sospeso per
l’intero periodo compreso tra l’udienza rinviata per l’astensione e quella successiva.
Inoltre, in caso di rinvio per astensione in un processo con imputati sottoposti a custodia cautelare, è anche pacifica l’operatività della sospensione dei
relativi termini, ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b), (Sez. 5, n.
3920 del 22/09/1997, Gaglione, Rv. 208826; Sez. 1, n. 1036 del
14/02/2000, Mazzocca, Rv. 215376; nonché, da ultimo, Sez. 1, n. 12697 del
15/01/2008, Schiavone, Rv. 239357, secondo cui la sospensione va commisurata all’effettiva durata del rinvio disposto dal giudice; Sez. 5, n. 19646 del
19/04/2011, Ambrosino, Rv. 250178, secondo cui non è necessaria
un’esplicita ordinanza dispositiva della sospensione dei termini custodiali).
10.6. Il legislatore, primario e secondario, ha pertanto già posto un sistema idoneo ad operare esaurientemente il bilanciamento del diritto
all’astensione con gli altri diritti e valori costituzionali primari, nel tempo individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità,
quali, ad esempio, quelli del diritto di libertà, del diritto di difesa e di azione,
del buon andamento della amministrazione della giustizia, dell’interesse dello
Stato ad evitare la prescrizione dei reati, nonché quello generale delle “esigenze di giustizia” e della ragionevole durata del processo (chiaramente ritenuto dal legislatore non idoneo di per se solo, a giustificare una valutazione
discrezionale del giudice e ad escludere o limitare l’esercizio del diritto costituzionale del difensore all’astensione).
Il legislatore, quindi, seguendo le indicazioni della Corte costituzionale, ha
voluto superare la fase transitoria - caratterizzata dalla mancanza di una
adeguata disciplina normativa che aveva determinato a volte forti contrapposizioni ed aveva giustificato l’attribuzione al giudice del potere discrezionale di
bilanciamento tra valori costituzionali - assegnando alle fonti competenti in
materia la funzione di bilanciamento prima provvisoriamente svolta dal giudice.
Queste considerazioni si basano anche sulla constatazione che il sistema
di bilanciamento individuato dalla legge non è rimasto lettera morta e che,
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Parte Seconda - Giurisprudenza
specialmente dopo l’entrata in vigore del codice di autoregolamentazione del
2007 dichiarato idoneo, esso ha dato buoni risultati, grazie anche alla circostanza che si è generalmente avuta la presenza di due elementi fondamentali, e precisamente, da un lato, il senso di responsabilità e di realismo degli
organismi di categoria dell’avvocatura e, dall’altro lato, l’attenta e continua
attività di vigilanza e di intervento della Commissione di garanzia.
Non si può infatti negare che le astensioni degli avvocati possono arrecare
notevoli disagi non solo al funzionamento dell’apparato giudiziario, ma anche
ad un grande numero di utenti e di soggetti terzi. I due suddetti elementi,
pertanto, appaiono veramente indispensabili per il buon funzionamento del
delicato sistema di bilanciamento dei contrapposti valori costituzionali, col
conseguente superamento delle incerte e variabili soluzioni della fase precedente.
Negli ultimi cinque anni, dal 2009 al 2013, la Commissione di garanzia ha
svolto circa una novantina di interventi preventivi di “indicazione immediata”
delle violazioni della normativa vigente, ai sensi della L. n. 146 del 1990, art.
13, comma 1, lett. d). Con questi provvedimenti la Commissione, non appena
ricevuta la delibera di proclamazione dell’astensione delle udienze, ha indicato “immediatamente” le violazioni delle disposizioni della legge e del codice di
autoregolamentazione relative alla fase precedente all’astensione (solitamente riguardanti il preavviso minimo, la durata massima e l’intervallo minimo
tra successive proclamazioni); ed ha invitato l’organismo proclamante, a seconda dei casi, a revocare immediatamente l’astensione ovvero a differirla,
riformulandola in modo conforme alla normativa.
Circa una ventina di delibere hanno aperto il procedimento diretto a valutare il comportamento del Consiglio dell’Ordine (nella persona del Presidente), quale rappresentante degli avvocati, finalizzato all’eventuale irrogazione
delle sanzioni pecuniarie di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 4. Solitamente
questi procedimenti sono stati aperti dopo che le indicazioni immediate offerte con gli interventi preventivi sono rimaste, in tutto o in parte, prive di riscontro. In molti casi, a fronte di plurime agitazioni proclamate a breve distanza di tempo dal medesimo Consiglio dell’Ordine per le quali erano state
emesse delibere di intervento urgente, la Commissione ha poi applicato i
principi generali sulla connessione aprendo quindi un ridotto numero di procedimenti di valutazione del comportamento.
Vi sono poi state, in quel periodo, sedici delibere di valutazione del comportamento dell’organismo di categoria che aveva proclamato l’astensione, le
quali, per la larghissima parte, hanno “valutato negativamente” il comportamento e quindi hanno irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria ai
sensi della L. n. 146, art. 4, comma 4, da adottare poi con ordinanzaingiunzione emessa dalla competente Direzione territoriale del lavoro. Solo in
due casi è stata disposta l’archiviazione del procedimento, ed in un altro caso
si sono ritenuti insussistenti i motivi per giungere ad una valutazione negativa.
Tra le violazioni più spesso sanzionate vi sono state il mancato rispetto
degli obblighi di preavviso e di durata massima. Il punto di maggiore criticità
è dato dal fatto che queste violazioni vengono frequentemente giustificate
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
dagli organismi che proclamano l’astensione con il richiamo alla L. n. 146 del
1990, art. 2, comma 7, il quale prevede che le disposizioni in tema di preavviso e di durata massima “non si applicano nei casi di astensione dal lavoro in
difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi
dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”. L’art. 2, comma 3, del codice
di autoregolamentazione ribadisce che le norme in tema di preavviso e di durata possono non essere rispettate nei soli casi in cui l’astensione è proclamata ai sensi della L. n. 146, citato art. 2, comma 7, (la disposizione, quindi, è
più restrittiva del previgente art. 2, comma 3, della regolamentazione provvisoria, il quale parlava di proclamazione “in difesa dell’ordine costituzionale
ovvero per gravi attentati ai diritti fondamentali dei cittadini e alle garanzie
essenziali del processo”). Questa disposizione è stata a volte erroneamente
interpretata in modo eccessivamente esteso da alcuni organismi locali. Nelle
delibere di apertura del procedimento di valutazione del comportamento, fra
le motivazioni alla base dell’astensione, possono leggersi, ad esempio, quelle
dell’aggravarsi della situazione organizzativa del tribunale; o di gravi carenze
nell’impianto elettrico e di prevenzione degli incendi; o della mancanza o insufficiente funzionamento dell’impianto di climatizzazione; o del decesso di
un avvocato per malore cardiaco in mancanza di un presidio medico presso il
tribunale; o delle precarie condizioni di stabilità dell’edificio o della mancanza
dei canoni di salubrità; o della carenza di organico del personale e dei magistrati e della proposta del Governo di riforma delle sedi giudiziarie.
Queste motivazioni addotte per giustificare il non rispetto delle norme sul
preavviso e la durata massima sono state però fino ad ora tutte giustamente
censurate e sanzionate dalla Commissione di garanzia. Nelle delibere di valutazione negativa è stato ripetutamente affermato che la deroga concerne i
soli scioperi proclamati “allorché siano minacciati i valori fondanti del nostro
sistema di governo democratico e di libertà individuali e collettive”, situazione
non configurabile, ad esempio, quando l’astensione intenda denunciare
l’incostituzionalità e il conseguente “grave pregiudizio per i diritti fondamentali dei cittadini” connessi a progetti di modifica legislativa delle circoscrizioni
giudiziarie, potendo tali doglianze essere fatte valere con gli ordinari rimedi
giurisdizionali. Analoghe considerazioni possono valere per l’ipotesi di agitazioni (in genere locali) di protesta contro specifici provvedimenti dell’autorità
giudiziaria, contro i quali sono esperibili i normali rimedi giurisdizionali.
Allo stesso modo, si è affermato che la deroga riguarda il caso “di effettiva
verificazione di gravi eventi lesivi di danno, che mettano fisicamente a repentaglio la sicurezza dei lavoratori”, sicché la deroga non si estende “alle situazioni di fatto antecedenti a un evento di danno, nemmeno quando queste abbiano determinato la generica messa in pericolo della incolumità e della sicurezza dei lavoratori”, situazioni di fatto che non sono sfornite di tutela, o alla
situazione di inadeguatezza della sede del tribunale che si protragga da anni
e non può quindi considerarsi “evento” o “accadimento”, precisando però che
la deroga è invece estensibile, oltre agli eventi di danno, a quelli di pericolo
“grave, attuale e non altrimenti evitabile”, idonei ad integrare un vero e proprio “stato di necessità”, con conseguente “inevitabilità” dell’azione di astensione.
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
La Commissione ha altresì esattamente messo in rilievo in diverse delibere
che le esimenti di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 2, comma 7, “costituiscono
deroghe tassative alle regole ordinarie che disciplinano le astensioni dal lavoro e, come tali, sono soggette a una stretta interpretazione e non possono
essere derogate da atti di livello inferiore, quali i codici di autodisciplina o le
regolamentazioni provvisorie” (e difatti nel vigente codice di autoregolamentazione non è stata più riprodotta la deroga prevista nella previgente regolamentazione provvisoria).
In questi casi, e in particolare quando vi sia stato l’intervento preventivo
di “indicazione immediata” da parte della Commissione, non può ritenersi che
siano state rispettate le condizioni per una regolare e valida proclamazione
dell’astensione e, di conseguenza, che sia sorto il diritto costituzionale
dell’avvocato di astenersi.
L’art. 3, comma 1, del codice di autoregolamentazione infatti dispone che,
affinché la mancata comparizione dell’avvocato possa essere considerata legittimo impedimento, deve, tra l’altro, consistere in una “adesione
all’astensione regolarmente proclamata ed effettuata”.
Non essendosi in presenza di un diritto costituzionale per assenza dei suoi
presupposti, non vi è alcuna necessità di bilanciamento con altri diritti costituzionali ed il giudice dovrà considerare ingiustificata la mancata presenza,
salve le sanzioni di competenza della Commissione.
Nemmeno dovrebbero esservi incertezze e difformità interpretative sulla
sussistenza delle condizioni che giustifichino una deroga perché la Commissione di garanzia, almeno fino ad oggi, è sempre intervenuta con urgenza (di
solito lo stesso giorno della proclamazione o in quello successivo) emanando
il provvedimento (comunicato a tutti gli uffici giudiziari interessati) con la “indicazione immediata” delle violazioni alle norme sul preavviso e sulla durata,
con invito a revocare immediatamente l’astensione o a riformularla.
10.7. Alla luce dell’attuale sistema normativo, dunque, appare difficile che
possano residuare diritti o valori costituzionali diversi ed ulteriori rispetto a
quelli considerati dalla legge o dal codice di autoregolamentazione, tali da poter ancora giustificare l’esercizio di un potere discrezionale del giudice volto a
limitare il diritto costituzionale di libertà del difensore di astenersi.
D’altra parte, se si ritiene che la presenza di uno dei suddetti valori costituzionali possa continuare a giustificare un bilanciamento giudiziale per rigettare una richiesta di rinvio nonostante la regolamentazione attuata dalla fonte
secondaria competente, dovrebbe coerentemente ammettersi che il bilanciamento possa anche portare ad accogliere l’istanza di rinvio in contrasto con
una norma del codice (ad esempio, in un caso di prossima prescrizione, considerando ormai non più compromesso l’interesse dello Stato), così determinandosi in pratica il ritorno ad una situazione di incertezza e di variabilità delle soluzioni concrete che il legislatore del 2000, seguendo l’indicazione della
Corte costituzionale, ha sicuramente voluto superare.
Di conseguenza, deve confermarsi il principio già enunciato dalle più recenti decisioni dianzi ricordate, secondo cui il difensore ha un diritto costituzionalmente garantito all’astensione, mentre il giudice ha il compito di accertare che siano rispettati i limiti, le prescrizioni e le modalità fissati dalla legge
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
n. 146 del 1990 e dal codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo dalla
Commissione e pubblicato sulla G.U. (o, in mancanza, dalla regolamentazione
provvisoria), ed allorché tale accertamento abbia esito positivo deve accogliere la richiesta di differimento formulata dal difensore.
Ciò peraltro non significa che al giudice sia totalmente preclusa qualsiasi
valutazione. Il giudice, infatti, deve comunque accertare che l’astensione sia
stata regolarmente proclamata e che la dichiarazione del difensore di adesione all’astensione e la sua richiesta di rinvio siano conformi alle suddette disposizioni della L. n. 146 del 1990, e del codice di autoregolamentazione.
Inoltre, se è vero che il sistema delle legge n. 146 del 1990 e dei codici di autoregolamentazione non prevede espressamente un autonomo potere di bilanciamento in capo al giudice nel singolo caso, è anche vero che il giudice
ovviamente conserva, come in qualsiasi altra ipotesi, il compito di dare alle
suddette disposizioni normative la corretta interpretazione, anche mediante
una esegesi sistematica o adeguatrice, facendo appunto in modo che il risultato della interpretazione sia il più possibile conforme ai principi e valori costituzionali di cui si sta discutendo. In altre parole, questi principi costituzionali
potrebbero essere utilizzati per bilanciare i diversi interessi in modo indiretto,
dando alle disposizioni del codice una interpretazione più conforme ai principi
stessi, sempre però nella misura in cui tale interpretazione adeguatrice non si
ponga in contrasto con lettera della disposizione o con la ratio della soluzione
normativa. È questa, ad esempio, la via seguita dalla ricordata sentenza della
Sez. 6, n. 39871 del 12/07/2013, Notarianni, che ha interpretato la locuzione
“misure cautelari” contenuta nell’art. 4, lett. a), del codice nel senso che essa
comprende anche le misure cautelari reali.
Certo, in questa sede non potrebbe nemmeno a priori escludersi - in via
ipotetica - che si possano presentare situazioni in cui riemerga il potere di bilanciamento in capo al giudice, come nell’ipotesi in cui, per una qualche ragione, venisse meno la vigenza di codici di autoregolamentazione e di regolamentazioni provvisorie, e si ripresentasse la situazione di carenza normativa nella quale era intervenuta la sentenza costituzionale n. 171 del 1996. E
forse nemmeno potrebbe escludersi che - sempre ipoteticamente - si verifichino ipotesi eccezionali in cui emergano valori costituzionali che non possano, nemmeno indirettamente, farsi rientrare tra quelli già presi in considerazione dalla normativa primaria e secondaria e che potrebbero essere irrimediabilmente pregiudicati dall’esercizio del diritto di astensione. In questi casi,
potrebbe pensarsi che, in riferimento a tali ulteriori valori, si riproponga una
situazione di mancanza e inadeguatezza normativa considerata dalla suddetta
sentenza costituzionale e che, in passato, aveva giustificato l’attribuzione al
giudice del potere di bilanciamento. Dovrebbe comunque trattarsi di valori
costituzionali che non siano stati tenuti presenti, neppure indirettamente, dalla fonte secondaria competente al fine di contemperamento, il che in concreto
appare appunto molto difficile, anche perché i casi finora esaminati dalla giurisprudenza di legittimità appaiono tutti rientrare nell’ambito dei valori e principi costituzionali per i quali le fonti secondarie hanno già effettuato il bilanciamento o essere comunque risolvibili, in un modo o nell’altro, mediante
l’interpretazione delle disposizioni di dette fonti. Dovrebbe comunque trattarsi
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Parte Seconda - Giurisprudenza
di veri e propri ulteriori diritti o valori costituzionali (non riconducibili a quelli
per i quali è già normativamente avvenuto il bilanciamento), mentre non potrebbero ritenersi sufficienti, ad esempio, generiche ragioni di opportunità, o
vaghe “esigenze di giustizia” non contemplate dal codice, o il fine di evitare
“il grave disagio ad un teste chiamato a testimoniare da città lontana” o la lesione di “interessi logistici della giustizia” nell’ipotesi di udienza in trasferta
per l’esame (che sia ripetibile) di un teste. In queste ipotesi mancherebbe un
vero e proprio valore costituzionale da far prevalere sul diritto costituzionale
all’astensione, e comunque i casi in cui l’astensione non è consentita per la
necessità di assumere un atto o una prova urgenti sono già previsti dall’art. 4
del codice che richiama l’art. 467 c.p.p., che a sua volta richiama i casi previsti dall’art. 392. Non potrebbe quindi comunque condividersi la tesi
dell’ordinanza di rimessione che sembra ritenere rilevanti non veri e propri
valori costituzionali ma addirittura semplici disagi o difficoltà del servizio giudiziario o dei soggetti interessati. Del resto è normale che uno sciopero o una
astensione collettiva che interessi servizi pubblici essenziali possa creare disagi agli utenti ed intralci all’organizzazione, ma ciò non sarebbe sufficiente
ad escludere o limitare l’esercizio del diritto costituzionale che si svolga nel rispetto delle norme di diritto oggettivo.
11. In conclusione, vanno affermati i seguenti principi di diritto.
“Il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della
legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, con deliberazione del 13
dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 3 del 4 gennaio 2008
(così come la previgente Regolamentazione provvisoria dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria, adottata dalla Commissione di garanzia con deliberazione del 4 luglio 2002, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 23 luglio 2002), costituisce fonte di diritto oggettivo contenente
norme aventi forza e valore di normativa secondaria o regolamentare, vincolanti erga omnes, ed alle quali anche il giudice è soggetto in forza dell’art.
101 Cost., comma 2”.
“Il bilanciamento tra il diritto costituzionale dell’avvocato che aderisce
all’astensione dall’attività giudiziaria e i contrapposti diritti e valori costituzionali dello Stato e dei soggetti interessati al servizio giudiziario, è stato realizzato, conformemente alle indicazioni della sentenza costituzionale n. 171 del
1996, in via generale dal legislatore primario con la L. n. 146 del 1990 (come
modificata e integrata dalla L. n. 83 del 2000) e dalle suddette fonti secondarie alle quali è stata dalla legge attribuita la competenza in materia, mentre
al giudice spetta normalmente il compito di accertare se l’adesione
all’astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate dalle competenti
disposizioni primarie e secondarie, previa loro corretta interpretazione”.
12. In questo processo, il difensore aveva comunicato la sua adesione
all’astensione collettiva regolarmente proclamata chiedendo il rinvio
dell’udienza del 5 luglio 2007. Il Tribunale di Ferrara rigettò l’istanza di rinvio
per la ragione che la teste del P.M. aveva affrontato un viaggio da Bari per
essere presente in udienza e che “l’assunzione della testimonianza appariva
improcrastinabile ai fini di giustizia, non potendosi costringere la teste a ri-
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Astensione dalle udienze degli avvocati
comparire in altra udienza neppure coattivamente, in quanto una tale misura
apparirebbe verosimilmente vessatoria e contraria ai fondamentali diritti delle
parti avendo la teste dimostrato una disponibilità alle esigenze della giustizia
che non possono peraltro essere portate oltre una soglia minima di ragionevolezza”. La Corte di appello, a sua volta, ha ritenuto corretta la valutazione
del giudice di primo grado sia perché l’art. 4 del codice di autoregolamentazione non era vincolante per il giudice ma solo per l’avvocatura, sia perché
sul diritto di astensione dovevano prevalere “le esigenze di giustizia, rappresentate dalla necessità di procedere all’audizione di una teste che aveva affrontato un lungo viaggio da Bari per essere sentita in dibattimento” e che, se
il processo fosse stato rinviato, avrebbe dovuto affrontare altri due lunghi
viaggi.
Va innanzitutto ricordato quanto già dianzi osservato, e cioè che, in relazione all’epoca in cui è avvenuta la dichiarazione di astensione, non trovava
applicazione il codice di autoregolamentazione approvato dalla Commissione
il 13 dicembre 2007 e pubblicato nella G.U. del 4 gennaio 2008, bensì la regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione di garanzia il 4 luglio
2002 e pubblicata nella G.U. del 23 luglio 2002. Ciò però non produce in pratica conseguenze sulla presente decisione, perché, come già rilevato, anche
la regolamentazione provvisoria è una fonte secondaria di diritto oggettivo
contenente norme efficaci erga omnes e vincolanti per il giudice. La disciplina
posta dalla regolamentazione provvisoria, almeno per gli aspetti rilevanti in
questo processo, era poi identica a quella del successivo codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo. In particolare, era identico il testo dell’art. 4,
lett. a), nella parte in cui esclude il diritto di astenersi nel caso di “compimento degli atti urgenti di cui all’art. 467 c.p.p.”. Ora, l’art. 467 prevede che il
presidente, a richiesta di parte, dispone l’assunzione delle prove non rinviabili
nei casi previsti dall’art. 392 c.p.p. Quest’ultimo, per quanto concerne in particolare la raccolta di deposizioni testimoniali nelle ipotesi che possono interessare il presente giudizio, prevede “l’assunzione di una testimonianza di
una persona, quando vi è fondato motivo di ritenere che la stessa non potrà
essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento”.
Nella specie, dalle stesse sentenze di merito risulta che non sussistevano
le condizioni per escludere il diritto del difensore all’astensione e disattendere
la richiesta di rinvio, dal momento che non è stato accertato (né motivato)
che la teste non avrebbe potuto più essere esaminata “per infermità o altro
grave impedimento”, ma si è solo ritenuto di dover evitare alla stessa il “grave disagio” di ritornare da Bari a Ferrara, grave disagio che sicuramente non
integra una situazione di “impedimento”, e tanto meno di “grave impedimento”.
La statuizione del Tribunale (confermata dalla Corte di appello) di rigettare
la richiesta di rinvio è quindi illegittima per violazione di legge, e precisamente dell’art. 4, comma 1, lett. a), della regolamentazione provvisoria pubblicata nella G.U. del 23 luglio 2002 e della L. n. 146 del 1990, art. 2 bis, e, conseguentemente, per lesione del diritto del difensore di astenersi e del diritto
di difesa ed al contraddittorio degli imputati. Non essendo stato consentito al
difensore di fiducia di partecipare all’udienza di audizione della teste e di con-
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Parte Seconda - Giurisprudenza
trointerrogarla, nonostante la sua legittima richiesta di rinvio (attuata in ottemperanza alle prescrizioni delle norme speciali regolatrici della materia), si
è determinata una nullità assoluta, riconducibile all’art. 178 c.p.p., comma 1,
lett. c), e all’art. 179 c.p.p., rilevabile anche di ufficio in ogni grado e stato
del procedimento.
Va dunque accolto il secondo motivo, restando assorbiti gli altri motivi. Di
conseguenza vanno annullate senza rinvio la sentenza impugnata nonché
quella emessa il 17 aprile 2008 dal Tribunale di Ferrara e va disposta la trasmissione degli atti al predetto Tribunale di Ferrara per il giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e quella del Tribunale di Ferrara in data 17
aprile 2008 e dispone trasmettersi gli atti al predetto Tribunale per il giudizio.
Così deciso in Roma, il 14 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2014.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Esercizio abusivo di una professione
287. Sull’esercizio abusivo di una professione.
Cass. pen., sez. V, sentenza 2 ottobre 2014, n. 50345 - Pres. MARASCA
- Rel. DEMARCHI ALBENGO
Integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato
la condotta dell’imputato, il quale, pur avendo conseguito l’abilitazione statale, aveva provveduto all’autenticazione della sottoscrizione
del mandato difensivo prima di aver ottenuto l’iscrizione all’albo
professionale.
FATTO
1. G.S. è stata condannata alla pena di mesi sei di reclusione dal tribunale
di Monza, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in
quanto ritenuta responsabile dei seguenti reati:
a) dell’art. 348 c.p., per aver abusivamente esercitato la professione di
avvocato;
b) del medesimo articolo per aver assunto mandato professionale ad assistere F.A.;
c) dell’art. 476 per aver formato un falso decreto di archiviazione;
d) dell’art. 640, perché, con artifici e raggiri consistiti nel presentarsi quale
avvocato a F.A., si procurava l’ingiusto profitto rappresentato dal corrispettivo da costui versato in relazione all’attività professionale asseritamente prestata;
e) del reato di cui all’articolo 485 perché falsificava la firma di F.A. in calce
all’atto di nomina di difensore di fiducia a lei conferito.
2. La corte d’appello di Milano dichiarava non doversi procedere in ordine
ai capi a) ed e) di cui sopra perché estinti per intervenuta prescrizione. Confermava nel resto la sentenza di condanna, rideterminando la pena in mesi
quattro di reclusione (in aumento di quella inflitta con sentenza del gip del
tribunale di Monza del 25 settembre 2007).
3. Contro la predetta sentenza propone ricorso per cassazione l’imputata
per i seguenti motivi:
1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 348 c.p.,
art. 110 c.p.p., e art. 39 disp. att. c.p.p.;
sotto tale profilo-: sostiene che l’autenticazione del mandato difensivo non
costituisca atto tipico della professione forense, se ad esso non segue lo svolgimento di attività processuale. In subordine, ritiene che la fattispecie sia assorbita, quale elemento necessario (l’artifizio), nel reato di truffa.
2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 476 e
482 c.p., nonché artt. 516 e 522 c.p.p.; sostiene la ricorrente che il reato di
cui all’art. 476 sia reato proprio e che, nel caso di specie, proprio per il fatto
di non essere titolare della funzione forense, il fatto dovrebbe essere qualificato come falsità materiale commessa da privato (art. 482 c.p.). In subordine, sostiene la incapacità del falso di trarre in inganno soggetti estranei
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
all’ordinamento giudiziario, essendo l’atto diretto a persona “addetta
all’ordinamento”.
3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’articolo 640 del
codice penale e 192 c.p.p.; sostiene la ricorrente che non vi sia stato danno
per il F., in quanto a lui è stato consegnato l’importo complessivo di Euro
5.000,00 e tali somme non potevano non essere giustificate se non proprio in
ragione delle attività legittime svolte nel suo interesse dell’imputato.
4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 89 c.p.,
per omessa concessione dell’invocata attenuante dell’infermità mentale.
DIRITTO
1. Il ricorso è parzialmente fondato con riferimento al secondo motivo di
ricorso. Il primo motivo è destituito di fondamento; invero, integra il delitto di
esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita
l’abilitazione statale, provveda all’autenticazione della sottoscrizione del
mandato difensivo prima di aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale
(Sez. 6, n. 27440 del 19/01/2011, Sgambati, Rv. 250531); poco importa che
nel caso trattato dalla sentenza richiamata l’imputato avesse poi svolto attività giudiziaria, dal momento che la predetta pronuncia non aveva collegato la
responsabilità al successivo uso del mandato, ma all’atto in sé. Per comprenderlo è sufficiente riportare un passo della motivazione, che così recita: «La
sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e dà conto, con motivazione adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla
quale perviene. È indubbio che l’autenticazione della sottoscrizione del mandato difensivo, così deve essere qualificato l’atto che viene qui in rilievo, è atto tipico della professione forense e, in quanto tale, riservato a chi legittimamente tale professione può esercitare (art. 39 disp. att. c.p.p.). L’art. 348
c.p. è norma penale in bianco, che presuppone l’esistenza di norme giuridiche
diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali prescrivano una speciale abilitazione dello Stato ed impongano l’iscrizione in uno specifico albo. Ne consegue che è abusivo l’esercizio della professione di avvocato da parte di colui che, pur avendo conseguito l’abilitazione statale, non sia
iscritto all’albo professionale, considerato che tale iscrizione è imposta da
norma cogente quale condizione inderogabile per l’esercizio della professione
(r.d.l. n. 1578 del 1933, art. 1). Lo Sgambati, nel momento in cui
(24/3/2004) pose in essere l’atto tipico innanzi citato, non era ancora iscritto
nell’albo professionale, iscrizione intervenuta solo il 2 aprile successivo, e non
poteva, quindi, assumere il titolo di avvocato né esercitare le relative funzioni. La condotta posta in essere dall’imputato, pur nella sua oggettiva marginalità, della quale il giudice di merito ha tenuto conto nel determinare il trattamento sanzionatorio, integra il reato contestato».
2. D’altronde, l’esercizio abusivo della professione legale, ancorché riferito
allo svolgimento dell’attività riservata al professionista iscritto nell’albo degli
avvocati, non implica necessariamente la spendita al cospetto del giudice o di
altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta, sicché il reato si
perfeziona per il solo fatto che l’agente curi pratiche legali dei clienti o predi-
Rassegna Forense - 3-4/2014
959
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Esercizio abusivo di una professione
sponga ricorsi anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato (Sez. 5, Sentenza n. 646 del 06/11/2013, Rv. 257955).
3. Il secondo motivo di ricorso, invece, merita accoglimento; la motivazione della corte d’appello sul punto è oscura e non appagante; in ogni caso la
sentenza conferma la condanna per il reato di cui all’art. 476, che presuppone la qualifica di pubblico ufficiale del suo autore. Nel caso di specie,
l’imputata, non avendo la qualifica millantata, difettava di un presupposto
fondamentale del reato. Il fatto, dunque, deve essere riqualificato come falsità materiale commessa dal privato ai sensi dell’art. 482 c.p.; non vi è violazione del principio di correlazione, atteso che la contestazione in fatto era
specifica, né vi è violazione dei diritti della difesa, atteso che la riqualificazione giuridica in tal senso è stata sollecitata proprio dalla parte. Consegue,
all’accoglimento del ricorso, l’annullamento della sentenza in parte qua ed il
rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per la rideterminazione
del trattamento sanzionatorio, che dovrà evidentemente subire una diminuzione, attesa la minore pena edittale prevista per tale reato.
4. Non può essere accolta, invece, la censura relativa all’assorbimento del
reato in quello di cui all’art. 640, in quanto gli artifici utilizzati consistevano
non tanto nell’assumere il mandato difensivo, quanto piuttosto nel presentarsi quale avvocato.
5. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato, atteso che per escludere il
danno a carico della persona offesa non è sufficiente che questa abbia ricevuto alcune somme di denaro, dovendosi altresì provare che quanto ricevuto
era non inferiore a quello che egli avrebbe potuto recuperare se la G. fosse
stata effettivamente un avvocato ed avesse proceduto giudizialmente.
D’altronde, la stessa corte d’appello, con valutazione di merito non sindacabile in cassazione, ha ritenuto sussistente un danno conseguente alla mancata difesa nei procedimenti penali. Infine, si deve osservare che il riferimento ai Euro 5.000 ricevuti dalla G. sia tutt’altro che certo, dal momento che in
sentenza si afferma che l’assegno di Euro 2.500,00 era stato sottratto ad un
terzo ed abusivamente riempito e quindi non vi è prova che sia stato regolarmente incassato dalla persona offesa, dovendosi anzi presumere il contrario.
6. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile in quanto diretto a censurare
una valutazione di merito che i giudici di primo e secondo grado hanno condotto con motivazione più che sufficiente e priva di vizi logici evidenti.
7. Ne consegue che il ricorso deve essere accolto, limitatamente al reato
di cui all’art. 476 c.p., da riqualificarsi ai sensi dell’art. 482 c.p., con rinvio ad
altra sezione della Corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
8. Considerato che la sentenza di condanna, nella parte di accertamento,
della responsabilità, passa in giudicato, dovendosi solo più quantificare la
sanzione, l’eventuale decorso della prescrizione in data successiva alla presente sentenza non assumerà più alcun rilievo.
960
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
P.Q.M.
riqualificato il fatto di cui al capo B del procedimento numero 10.633-07
nel reato di cui all’art. 482 c.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio ad
altra sezione della Corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Rigetta nel resto.
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2014.
Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2014.
Rassegna Forense - 3-4/2014
961
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Applicabilità della normativa sulla liquidazione degli onorari e diritti dell’avvocato
288. Sull’applicabilità della normativa sulla liquidazione degli
onorari e diritti dell’avvocato anche alle prestazioni stragiudiziali, anche in materia penale.
Cass. civ., sez. II, sentenza 16 ottobre 2014, n. 21954 - Pres. BURSESE
- Rel. SAN GIORGIO
La normativa sulla liquidazione degli onorari e diritti dell’avvocato,
anche se prevista per le prestazioni giudiziali civili, si applica anche
per le prestazioni stragiudiziali, anche penali, a condizione che ci sia
strumentalità o complementarietà rispetto all’attività processuale. Nel
caso di specie, si trattava di un professionista che, curando gli interessi della parte in un giudizio di separazione, aveva posto in essere
non solo procedure di natura civile, come l’esecuzione/rilascio di un
immobile, ma anche di natura penale, come la predisposizione di una
querela.
FATTO
1.- O.E.S. ricorre contro l’ordinanza, depositata il 23 giugno 2008, con la
quale il Tribunale di Cagliari, su ricorso l. n. 794 del 1942, ex art. 28,
dell’avv. C.M., che aveva chiesto la liquidazione delle spese, degli onorari e
dei diritti per l’attività professionale svolta in favore della stessa O. in una serie di procedure (ex art. 710 c.p.c., di esecuzione - rilascio di un immobile e
pagamento dell’assegno di mantenimento -, di divorzio), nonché per la predisposizione di una querela, tutte volte ad ottenere la modifica e l’attuazione
delle obbligazioni sorte in capo al coniuge Co.Lu. nell’ambito del procedimento di separazione personale, ritenuto che le notule fossero state redatte con
l’osservanza della tariffa professionale, che i compensi richiesti rientrassero
nei limiti di legge e che fossero proporzionati alla natura e complessità delle
cause ed ai risultati conseguiti, liquidò in favore della professionista la somma
complessiva di Euro 10610, 00 e la ulteriore somma di Euro 250,00 per la
predisposizione della querela, oltre agli interessi legali dalla pronuncia della
ordinanza fino al saldo, ponendo a carico della O. le spese del procedimento.
2. - Il ricorso si basa su due motivi.
L’intimata non si è costituita nel giudizio.
DIRITTO
1. - Con il primo motivo si deduce violazione degli artt. 149, 162, 164 e
291 c.p.c., l. n. 794 del 1942, art. 29, art. 24 Cost., in relazione all’art. 111
Cost., Sostiene la ricorrente che il Tribunale di Cagliari, stante la mancata costituzione della signora O. e la notifica del ricorso effettuata oltre il termine di
comparizione indicato nel decreto di fissazione dell’udienza, avrebbe dovuto
pronunciare la nullità del ricorso introduttivo per mancato rispetto del termine
dilatorio di comparizione, con lesione del diritto di difesa, e disporne la rinno-
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
vazione, ai sensi degli artt. 162, 164 e 291 c.p.c. Il procedimento sarebbe,
quindi, affetto da nullità.
Ciò in quanto il plico contenente il ricorso dell’avv. C. l. n. 794 del 1942,
ex art. 28, e il decreto di fissazione dell’udienza per il 6 marzo 2008, per la
cui notifica il Presidente del Tribunale aveva fissato la data del 17 gennaio
2008, era stato ritirato dalla O. all’ufficio postale di (OMISSIS) in data 22
gennaio 2008, stante l’assenza della stessa dalla sua residenza il precedente
15 gennaio.
La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente
quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie ratione temporis: «La notifica del ricorso l. n. 194 del 1942, ex art. 29, effettuata oltre il termine indicato nel decreto di fissazione udienza, determina la
nullità del ricorso. La mancata pronuncia della nullità dell’atto introduttivo del
giudizio determina la nullità dell’intero procedimento e dell’ordinanza adottata».
2. - La censura è infondata.
Alla stregua della stessa ricostruzione della vicenda processuale de qua
operata dalla ricorrente, dopo che il Presidente del Tribunale aveva fissato
per la comparizione delle parti l’udienza del 6 marzo 2008, e per la notificazione del ricorso e del decreto di comparizione il termine del 17 gennaio
2008, la signora O. aveva ritirato la raccomandata, spedita il 12 gennaio
2008, presso l’ufficio postale di (OMISSIS), dove era stata depositata il 16
gennaio 2008, per essere stata assente la stessa dalla sua residenza il 15
gennaio. La O. non era comparsa né si era costituita in giudizio all’udienza
del 6 marzo 2008, mentre l’avv. C. aveva depositato il ricorso notificato,
chiedendo termine per il reperimento ed il deposito dell’avviso di ricevimento.
La causa era stata, quindi, rinviata all’udienza del 3 aprile 2008.
Tale rinvio avrebbe consentito alla O. di costituirsi nel giudizio, ciò che non
avvenne.
Pertanto nessuna lesione del diritto di difesa, né delle altre norme evocate
nel ricorso, è stata consumata.
3. - Con il secondo motivo si lamenta violazione della l. n. 794 del 1942,
artt. 28, 29 e 30, in relazione all’art. 111 Cost. Avrebbe errato il Tribunale di
Cagliari nell’utilizzare la procedura camerale di cui alla l. n. 794 del 1942,
artt. 29 e 30, per la liquidazione degli onorari e diritti di avvocato e procuratore in favore dell’avv. C. oltre che per le procedure giudiziali civili, anche per
quelle in materia penale e per gli atti di precetto e procedure esecutive stragiudiziali in cui la professionista aveva assistito l’attuale ricorrente, in relazione alle quali la legge escluderebbe la predette procedura sommaria.
La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente
quesito di diritto: «Il procedimento l. 13 giugno 1942, n. 492, ex artt. 28, 29
e 30, è applicabile solo per la liquidazione di onorari di avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile e non è applicabile per la liquidazione di compensi per atti di precetto, per procedure esecutive e per prestazioni professionali in materia penale».
4. - La censura è immeritevole di accoglimento.
Rassegna Forense - 3-4/2014
963
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Applicabilità della normativa sulla liquidazione degli onorari e diritti dell’avvocato
Secondo l’orientamento di questa Corte, la procedura camerale prevista
dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, artt. 29 e 30, per la liquidazione degli onorari e diritti di avvocato e procuratore, pur dettata solo per le prestazioni giudiziali civili, è ammessa anche per le prestazioni stragiudiziali, allorché esse
siano in funzione strumentale o complementare all’attività propriamente processuale (v. Cass., sentt. n. 28718 del 2008, n. 13847 del 2007).
Nella specie, risulta di tutta evidenza che le prestazioni professionali rese
dall’avv. C. in favore della signora O. nelle procedure ulteriori rispetto a quelle strettamente civilistiche fossero preordinate allo svolgimento della principale attività processuale, come sottolineato dal Tribunale, che le aveva configurate come volte tutte ad ottenere la modifica e l’attuazione delle obbligazioni sorte in capo al coniuge della O., Luciano Co., nell’ambito del procedimento di separazione personale.
Ne consegue la correttezza della liquidazione, operata dal Tribunale di Cagliari a favore della professionista, degli onorari e diritti per l’assistenza prestata alla attuale ricorrente in tutta la serie delle predette procedure.
5. - Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Non vi è luogo a
provvedimenti sulle spese del presente giudizio, non avendo la parte intimata
svolto alcuna attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 maggio 2014.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2014.
964
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
289. Sul diritto al compenso da parte dell’avvocato.
Cass. civ., sez. VI, ordinanza 27 ottobre 2014, n. 22737 - Pres. BIAN- Rel. SCALISI
CHINI
L’avvocato che impegna il proprio tempo e le proprie competenze
professionali nell’esame di un atto giudiziario, anche in assenza di un
successivo conferimento di incarico formale, ha diritto ad essere
compensato secondo il tariffario forense (nella specie, alcuni incaricati
di una società si erano recati presso lo studio del professionista e al
fine di esaminare un atto di citazione per una causa già pendente dinanzi al Tribunale; non si era trattato di un mero colloquio informativo ma erano stati sottoposti all’attenzione dell’avvocato atti giudiziari
ancora in possesso in copia dell’avvocato e prodotti in giudizio, al fine
di ottenere un parere ed in vista di un futuro mandato professionale).
FATTO
Rilevato che il Consigliere designato, Dott. A. Scalisi, ha depositato ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., la seguente proposta di definizione del giudizio: Preso atto che la società F.I. srl proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo 752/08 emesso dal Giudice di Pace di Pisa con il quale veniva ingiunta alla società F.I. la somma di Euro 738,20 oltre interessi e spese per prestazioni professionali asseritamente fornite alla ricorrente. La società F.I.
chiedeva la revoca del DI. in quanto contestava che all’avv. C.A. fosse mai
stato conferito alcun mandato professionale né che mai la stessa avesse effettuato prestazioni professionali in favore della stessa.
Il Giudice di Pace, con sentenza n. 2305/09 rigettava l’opposizione.
Avverso tale sentenza proponeva appello la società F.I. srl lamentando essenzialmente l’erroneità e la contraddittorietà della motivazione per aver ritenuto come provato l’incarico professionale all’avvocato C. da parte del legale
rappresentante della società F.I.
Il Tribunale di Pisa con sentenza n. n. 863 del 2012, rigettava l’appello e
confermava la sentenza impugnata. Secondo il Tribunale di Pisa la decisione
del Giudice di Pace andava confermata posto che era stato evidenziato come
alcuni incaricati della F.I. in data 5 luglio 2004 si recarono presso lo studio
del legale C. al fine di far esaminare allo stesso un atto di citazione per una
causa già pendente dinnanzi al Tribunale di Pisa.
Successivamente seguiva una missiva da parte del legale alla F.I. srl con
la quale l’avvocato C. invitava la società a prendere contatti con lo studio legale al fine di formalizzare l’incarico professionale.
Per quanto, poi, non sia effettivamente seguito il conferimento formale
dell’incarico non vi era dubbio che il professionista aveva impegnato il proprio
tempo e le proprie competenze professionali.
Rassegna Forense - 3-4/2014
965
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Diritto al compenso da parte dell’avvocato
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dalla società F.I. con ricorso affidato a due motivi. L’avv. C. in questa fase non ha svolto attività
giudiziale.
Considerato che: 1.- La società Immobiliare srl lamenta:
a) Con il primo motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 112
c.p.c., e dell’art. 360, n. 3, per vizio di ultra petizione su fatto controverso e
decisivo.
Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa non avrebbe tenuto presente che
la stessa attrice aveva dichiarato di avere svolta solamente attività prodromica all’incarico chiedendo poi compenso per attività giudiziale che non si mai
effettuata.
b) Con il secondo motivo la violazione dell’art. 360, n. 5, per omesso
esame circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa non avrebbe prestato alcuna attenzione alle diverse prospettazioni fatte dall’avv. C. omettendo un accurato
esame delle diverse ricostruzioni della stessa, in particolare sul fatto controverso dell’affidamento dell’incarico dell’accettazione dello stesso e dell’attività
che nel caso di avvenuta accettazione non risulta sia stata svolta dalla controparte.
1.1.- Entrambi i motivi, che vanno esaminati congiuntamente per
l’innegabile connessione che esiste tra gli stessi, sono infondati e non solo
perché si risolvono nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze istruttorie non proponibile nel giudizio di legittimità se, come nel caso in esame, la valutazione effettuata dal Giudice del merito non presenta vizi
logici o giuridici, ma, anche perché il Tribunale non ha omesso di valutare
tutti i dati e/o, comunque, i dati essenziali, acquisiti agli atti del giudizio.
In particolare il Giudice di Pace prima e il Tribunale dopo hanno avuto modo di chiarire che in data 5 luglio 2004 incaricati della F.I. si recavano presso
lo studio del legale C. al fine di fare esaminare un atto di citazione per una
causa già pendete dinanzi al Tribunale di Pisa. E, di più, il Tribunale ha avuto
modo di chiarire che non si trattò di un mero colloquio informativo ma vennero sottoposti all’attenzione del legale atti giudiziali ancora in possesso in copia
dell’Avvocato C. e prodotti in giudizio, al fine di ottenere un parere ed in vista
di un futuro mandato professionale. Emerge con chiarezza, dunque, la sussistenza di un rapporto professionale tra la società F.I. e il legale C. e il conferimento di un incarico, dalla società F.I. al legale C., avente ad oggetto un
parere professionale in merito ad una causa già pendente presso il Tribunale
di Pisa.
Pertanto correttamente il Tribunale ha ritenuto che il professionista avendo impegnato il proprio tempo e le proprie competenze professionali andava
compensato secondo il tariffario forense.
In definitiva, si propone il rigetto del ricorso.
Tale relazione veniva comunicata al PM ed ai difensori delle parti costituite.
Il Collegio, condivide argomenti e proposte contenute nella relazione ex
art. 380 bis c.p.c., alla quale non sono stati mossi rilievi critici. Evidenzia, altresì, che il ricorso difetta, comunque, di autosufficienza dato che il ricorren-
966
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
te, pur facendo riferimento ad una prova testimoniale ha omesso di indicare i
capitoli di prova non ammessi funzionali alla dimostrazione della propria difesa.
In definitiva, il ricorso va rigettato: Non occorre provvedere alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione dato che l’avv. C., regolarmente intimato, in questa fase non ha svolto attività giudiziale.
Il Collegio, ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater,
da atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto che
sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile
della Corte Suprema di Cassazione, il 17 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2014.
Rassegna Forense - 3-4/2014
967
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato
290. Sull’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato.
Cass. civ., SS.UU., sentenza 25 novembre 2014, n. 25012 - Primo
Pres. f.f. ROVELLI - Pres. sez. LUCCIOLI - Rel. GIUSTI
L’art. 45 del Codice deontologico forense consente all’avvocato di
pattuire con il cliente, purché in forma scritta, compensi parametrati
al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, alla condizione che i
compensi siano proporzionati all’attività svolta (confermata la sanzione nei confronti di un avvocato che aveva sottoscritto un patto di
quota lite a garanzia del pagamento dei corrispettivi professionali
svolti, con il quale il cliente si obbligava, appena ottenuto il risarcimento, a corrispondergli il 30% di quanto incassato, atteso che la
percentuale del compenso risultava sproporzionata rispetto al complessivo risarcimento ed in relazione ad una controversia dall’esito
ben prevedibile e di non così rilevante difficoltà).
FATTO
1. - L’avvocato S.C. è stato sottoposto a procedimento disciplinare dal
Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trento per violazione dell’art. 38, della
legge professionale forense (approvata con il r.d.l. 27 novembre 1933, n.
1578, convertito, con modificazioni, nella l. 22 gennaio 1934, n. 36) e degli
artt. 5, 6 e 45 del codice deontologico forense, perché, in data 27 settembre
2008, otteneva dal proprio assistito Sa.Zi., nato in (OMISSIS), la sottoscrizione di una scrittura privata denominata “patto di quota lite”, e successivamente tentava di farne valere il contenuto.
In detta scrittura privata si legge che: il signor Sa.Zi.
dichiara di non avere redditi e di stipulare per tale motivo il patto di quota
lite a garanzia del pagamento dei corrispettivi professionali dell’avv. S.; l’avv.
S. si impegna ad anticipare i costi delle cause per conto del signor Sa.Zi. con
riserva di recuperarli appena ottenuto il risarcimento; l’avv. S. si impegna a
svolgere l’attività di assistenza e di difesa del signor Sa.Zi. con professionialità e competenza, a non richiedere anticipazioni in denaro a titolo di spese, diritti ed onorari di causa e contributi, promuovendo ogni procedura penale, civile e amministrativa necessaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti
dal signor Sa.Zi. nel sinistro stradale avvenuto in data (OMISSIS). Nella scrittura privata si prevede che il signor Sa.Zi., appena ottenuto il risarcimento
anche parziale a titolo provvisionale, si obbliga, con l’avv. S. C., a corrispondergli il 30% di quanto incassato, oltre alla rifusione dei costi tutti anticipati
(prima e dopo la sottoscrizione del patto). A tal fine, lo stesso Sa. conferisce
all’avv. S. espressamente ed irrevocabilmente il potere di riscuotere le somme di denaro per suo conto, trattenendo quanto di sua spettanza a titolo di
competenze, diritti ed onorari nella misura concordata del 30%; e il Sa. si
impegna a non sollevare alcun tipo di eccezione al momento del pagamento.
968
Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
Nella scrittura privata si prevede infine che il documento viene redatto in unico originale e trattenuto dall’avv. S.; e che, in caso di revoca del mandato, il
Sa. è obbligato al pagamento del 30% a titolo di penale.
All’epoca di stipulazione della scrittura privata - precisa il capo di incolpazione - il Sa. viveva in Italia in condizioni di clandestinità, era privo di documenti identificativi, era invalido al 95% in conseguenza del sinistro stradale,
era incarcerato per effetto di precedenti condanne penali e, pertanto, in condizioni psicofisiche gravemente menomate, con conseguenti obiettive difficoltà rispetto ad una compiuta e completa comprensione, verosimilmente anche
sotto il profilo linguistico, del contenuto del documento sottopostogli ai fini
della sottoscrizione.
L’avvocato è stato quindi incolpato di violazione dei fondamentali doveri di
fedeltà, probità, dignità e decoro, lealtà e correttezza per avere richiesto
compensi sproporzionati rispetto all’attività svolta.
La vicenda è stata portata all’attenzione del Consiglio dell’ordine dal legale
fiduciario della Compagnia di assicurazioni che era tenuta al risarcimento verso il Sa.. La Compagnia aveva ricevuto dall’avvocato S. - al quale era stato
nel frattempo revocato il mandato, essendo stato nominato in sua sostituzione altro difensore - una diffida a corrispondere direttamente a lui la somma di
Euro 240.000, pari alla percentuale del 30% della somma di Euro 800.000
accordata quale provvisionale, in forza del ricordato patto di quota lite.
2. - Il Consiglio dell’ordine di Trento, con decisione in data 24 gennaio
2012, ha riconosciuto la responsabilità dell’incolpato e gli ha irrogato la sospensione dall’esercizio della professione per due mesi. Il Consiglio ha rilevato che, al momento della sottoscrizione del patto, non esisteva oggettivamente alcuna aleatorietà in ordine al punto della responsabilità (non essendovi
margini di incertezza sulla colpa del conducente del motoveicolo assicurato
sul quale viaggiava come trasportato il Sa.Zi.) ed alta quantificazione del
danno, quantificazione che non sarebbe potuta scendere al di sotto
dell’importo del massimale, pari ad Euro 1.500.000. Di qui il giudizio di manifesta sproporzione della percentuale pattuita del 30% e ciò, sempre a giudizio
del Consiglio, anche tenendo conto di tutta l’attività stragiudiziale pregressa
svolta dall’avvocato S. per la regolarizzazione della posizione del Sa.
3. - Il Consiglio nazionale forense, con sentenza in data 18 marzo 2014, in
parziale accoglimento del ricorso ed a parziale modifica della decisione impugnata, ha applicato all’avvocato S. C. la meno grave sanzione disciplinare
della censura.
3.1. - Il Consiglio nazionale forense ha condiviso l’affermazione di responsabilità disciplinare cui è pervenuto il Consiglio dell’ordine.
Ricostruita l’evoluzione della disciplina in materia (dall’art. 2333 c.c., che
vietava i patti di quota lite, alla l. 4 agosto 2006, n. 248, di conversione del
d.l. 4 luglio 2006, n. 223, che ha abrogato ogni divieto di compenso parametrato al raggiungimento degli obiettivi perseguiti), il CNF ricorda che, da ultimo, è intervenuta la l. 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina
dell’ordinamento della professione forense), la quale, all’art. 13, da un lato ha
reintrodotto il principio in base al quale «sono vietati i patti con i quali
l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato
oggetto della prestazione o della ragione litigiosa», e dall’altro ha previsto la
validità della pattuizione con cui si determini il compenso al difensore «a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non
soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione».
Secondo il Consiglio nazionale forense, la percentuale può essere rapportata al valore dei beni o degli interessi litigiosi, ma non al risultato, in tal senso dovendo interpretarsi l’inciso "si prevede possa giovarsene", che evoca un
rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo
della prestazione professionale. Questa interpretazione - secondo il CNF - ha
dalla sua, oltre che la conformità al dato letterale, anche la coerenza con la
ratio del divieto, dal momento che accentua il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuendo la portata dell’eventuale commistione di interessi
quale si avrebbe se il compenso fosse collegato, in tutto o in parte, all’esito
della lite, con il rischio così della trasformazione del rapporto professionale da
rapporto di scambio a rapporto associativo.
Il patto di quota lite - precisa il CNF - non può tradursi in una illegittima
ed illecita cessione della res litigiosa: interpretazione, questa, che, coerente
con la ratio della normativa del 2006 e del codice deontologico, trova oggi
una conferma, autentica e retrospettiva, nella citata l. n. 247 del 2012.
Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il patto di quota lite integra
un contratto aleatorio in quanto il compenso varia in funzione dei benefici ottenuti in conseguenza dell’esito favorevole della lite e il suo tratto caratterizzante è dato, appunto, dal rischio, perché il risultato da raggiungere non è
certo nel quantum né, soprattutto, nell’an. Il nuovo testo dell’art. 45 del codice deontologico forense, conseguente alla disciplina introdotta dal D.L. n. 223
del 2006, applicabile ratione temporis, sotto la rubrica «accordi sulla definizione del compenso», consente bensì all’avvocato e al patrocinatore di determinare il compenso parametrandolo ai risultati perseguiti, ma fermo il divieto di cui all’art. 1261 c.c., e fermo restando che, nell’interesse del cliente,
tali compensi debbono essere comunque proporzionati all’attività svolta.
Secondo il Consiglio nazionale forense, il rispetto della proporzionalità della pretesa costituisce canone deontologico che deve improntare la condotta
dell’avvocato. Nemmeno con la più benevole prognosi ex ante può immaginarsi che, nel caso di specie, fosse proporzionato un compenso pari al 30%
della res litigiosa, soprattutto in un giudizio dall’alea assai ridotta.
L’eccessività sta nell’abnorme percentuale del compenso rispetto al complessivo risarcimento in relazione ad una controversia dall’esito ben prevedibile e
di non così rilevante difficoltà.
In punto di sanzione, il CNF, nell’applicare, in luogo della disposta sospensione, la minor grave sanzione della censura, ha fatto leva:
sul fatto che «una indubbia attività l’avvocato S. aveva svolto anche e soprattutto per la regolarizzazione della presenza del cliente in Italia, pervenendo a risultati indubbiamente positivi per il Sa.Zi.»; sul tardivo «ravvedimento operoso» che vi è stato, attraverso la composizione stragiudiziale della
questione; e sulla incensuratezza disciplinare dell’incolpato.
4. - Per la cassazione della sentenza del CNF l’avvocato S. ha proposto ricorso, con atto notificato il 5 maggio 2014, sulla base di un motivo.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
All’udienza di discussione il difensore del ricorrente ha depositato brevi osservazioni per iscritto sulle conclusioni del pubblico ministero.
DIRITTO
1. - Con l’unico mezzo (violazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578,
art. 12, comma 1, e art. 38, comma 1, convertito in legge, con modificazioni
dalla l. 22 gennaio 1934, n. 36, e art. 45 del codice deontologico forense), il
ricorrente osserva che, con il prescrivere che gli accordi sulla definizione del
compenso siano proporzionati all’attività svolta, l’art. 45 del codice deontologico non ha individuato in astratto una quota oltre la quale il patto sarebbe
da ritenere tout court eccessivo e la sua stipulazione illecita sotto l’aspetto disciplinare, ma ha invece optato per una valutazione in concreto
dell’incongruità della quota in esito al confronto tra l’obiettivo raggiunto e
l’attività svolta.
Ad avviso dell’avvocato S., la proporzione ovvero la sproporzione del compenso, ai fini del giudizio sulla liceità o illiceità deontologica della condotta, va
valutata necessariamente ex post e sarebbe arbitrario pretendere di accertarla, come ha ritenuto il CNF, ex ante, già al momento del conferimento
dell’incarico.
Il rapporto andrebbe instaurato «da un lato tra il valore economico dato
dall’applicazione della quota pattuita al risultato ottenuto e dall’altro
dall’attività profusa dal legale per giungere all’esito favorevole: soltanto dal
raffronto di questi dati concreti sarebbe possibile esprimere il giudizio di valore (congruità/incongruità)».
Valutare ex ante l’eccessività della quota mediante un giudizio di c.d. prognosi postuma significherebbe pretendere di preconizzare la complessità di
una vertenza prima che essa abbia avuto inizio (o, quanto meno, si sia conclusa).
Secondo il ricorrente, la natura aleatoria del patto di quota lite nulla
avrebbe a che vedere con la questione centrale, cioè quella se la sproporzione della quota possa essere apprezzata ex ante.
Il ricorrente censura la valutazione di abnormità della percentuale pattuita: il complessivo risarcimento, l’esito prevedibile del giudizio e la non così rilevante difficoltà dell’attività resasi necessaria sono dati di fatto che il CNF ha
ricavato a posteriori alla luce d’un esito e di un’attività che altro difensore ha
ottenuto e ha svolto.
2. - Il motivo è infondato.
Il legislatore del 2006 (d.l. n. 223 del 2006, art. 2, convertito nella l. n.
248 del 2006), nel disporre l’abolizione del divieto previsto dall’art. 2233 c.c.,
comma 3, e nell’ammettere pattuizioni, purché redatte in forma scritta, di
compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, ha previsto
la necessità di adeguare le norme deontologiche alle nuove regole.
L’art. 45 del codice deontologico forense - nel testo modificato con la delibera dell’organismo di autogoverno dell’avvocatura del 18 gennaio 2007,
conseguente alla riforma legislativa del 2006 - consente all’avvocato di pattuire «con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato
perseguiti», alla condizione, tuttavia, «che i compensi siano proporzionati
all’attività svolta».
La possibilità di pattuire tariffe speculative si accompagna quindi
all’introduzione di particolare cautele sul piano deontologico, tese a prevenire
il rischio di abusi commessi a danno del cliente e a precludere la conclusione
di accordi iniqui.
La proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimangono l’essenza comportamentale richiesta all’avvocato, indipendentemente
dalle modalità di determinazione del corrispettivo a fui spettante. La norma
dell’art. 45 del codice deontologico riproduce infatti la previsione contenuta
nell’art. 43, punto II, dello stesso codice, che vieta all’avvocato di «richiedere
compensi manifestamente sproporzionati all’attività svolta».
L’aleatorietà dell’accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne
l’equità: se, cioè, la stima effettuata dalle parti era, all’epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario,
sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di
tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e
della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio.
A questo criterio si è attenuto il Consiglio nazionale forense, il quale - con
congruo e motivato apprezzamento - ha rilevato la manifesta eccessività e
l’iniquità del compenso, attesa l’“abnorme percentuale” dello stesso in rapporto al risarcimento in una controversia «dall’esito ben prevedibile e di non
così rilevante difficoltà», non essendovi oggettivamente alcuna incertezza né
in ordine al punto della responsabilità del danneggiante né in ordine alla
quantificazione del danno (che non sarebbe potuto scendere al di sotto
dell’importo del massimale assicurato).
In questo contesto, correttamente il giudice disciplinare ha eseguito il controllo di proporzionalità del patto di quota lite, che precede il compimento
dell’attività, includendo nel proprio ambito valutativo il rischio sostanziale e
processuale connesso al risultato favorevole.
A fronte di una decisione che in modo chiaro precisa le ragioni della manifesta irragionevolezza del patto, la censura finisce in realtà con il richiedere
una nuova - non consentita in questa sede - valutazione dei fatti su cui riposa
il congruo apprezzamento del giudice disciplinare.
3. - Il ricorso è rigettato.
Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed
è respinto, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della l. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso
art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2014.30 maggio 2002, n. 115,
art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla
l. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso
art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2014.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Irrilevanza disciplinare delle condotte antecedenti l’iscrizione all’albo
291. Sulla irrilevanza disciplinare delle condotte antecedenti
l’iscrizione all’albo.
Cass. civ., SS.UU., sentenza 1° dicembre 2014, n. 25369 - Primo Pres.
f.f. SANTACROCE - Pres. sez. SALMÈ - Pres. sez. RORDORF - Rel. MAZZACANE
L’esercizio del potere disciplinare nei confronti degli avvocati, ai
sensi dell’art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, tutela il prestigio dell’ordine forense in presenza di comportamenti idonei a
screditarne l’autorevolezza e la credibilità, tenuti dagli iscritti in violazione dei doveri professionali, sicché non hanno rilevanza disciplinare le condotte antecedenti l’iscrizione all’albo, a prescindere dalla
loro rilevanza penale e dalla capacità di determinare “strepitus fori”
nel periodo d’iscrizione.
FATTO
La dottoressa C.P., iscritta all’albo dei praticanti avvocati di Pescara, ricorreva avverso la delibera del COA di Pescara del 14-7-2011 con la quale
le era stata inflitta la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio
della professione forense per mesi dodici per avere riportato una condanna
definitiva ad anni tre e mesi dei di reclusione per ti reato di estorsione, e
quindi per aver avuto una condotta ritenuta contraria ai doveri di probità,
dignità e decoro cui sono tenuti sia gli avvocati sia i praticanti anche nella
sfera privata.
Il COA di Pescara chiedeva il rigetto del ricorso in quanto infondato.
Il CNF con sentenza del 26-10-2013 ha rigettato il ricorso.
Il CNF in particolare, premesso che l’azione disciplinare nei confronti degli
avvocati per fatti oggetto di procedimento penale è obbligatoria ai sensi del
R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 44, in ragione dello speciale “vulnus”
che l’esposizione penale cagiona al prestigio dell’Ordine forense ed alla credibilità del professionista, ha affermato che l’azione disciplinare può essere
esercitata dal COA anche in relazione a fatti risalenti ad epoca anteriore
all’iscrizione dell’avvocato al relativo albo professionale, allorché il “vulnus”
derivante da tali fatti sia ancora percepibile nel periodo di iscrizione, così fondando il potere disciplinare; ha quindi ritenuto che nella fattispecie, ancorché
i fatti commessi dalla dottoressa C. oggetto del procedimento penale risalissero ad epoca anteriore alla sua iscrizione come praticante nell’apposito registro tenuto dal COA di Pescara, tuttavia, alla data dell’iscrizione la ricorrente
era già stata condannata dal Tribunale di Chieti, ed il procedimento penale
era ancora pendente in grado di appello, con la conseguenza che il “vulnus”
continuava ad essere attuale.
Per la cassazione di tale sentenza la C. ha proposto un ricorso basato su di
un unico motivo; nessuno dei soggetti intimati ha svolto attività difensiva in
questa sede.
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Parte Seconda - Giurisprudenza
DIRITTO
Con l’unico motivo formulato la ricorrente denuncia violazione ed errata
applicazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 38 e ss., e art. 44 e
ss., eccesso di potere e difetto di giurisdizione.
La C. rileva che ai sensi dell’art. 44, del r.d.l. ora richiamato l’azione disciplinare deve essere promossa nei confronti dell’avvocato nei cui confronti
venga iniziato un procedimento penale, cosicché tale potere disciplinare non
compete al COA qualora un procedimento penale venga promosso nei confronti di un soggetto non iscritto all’albo professionale; nella fattispecie, invero, i fatti addebitati all’esponente risalivano all’anno 2000, ed il procedimento
penale era iniziato nel 2001, epoca in cui la ricorrente non era ancora in possesso della laurea in Giurisprudenza, cosicché nei suoi confronti non avrebbe
potuto essere promosso un procedimento disciplinare.
La C. assume poi che l’interpretazione offerta da parte del CNF alla sentenza delle S.U. di questa Corte 1-2-2010 n. 2223 è errata, avendo sostenuto
che secondo tale pronuncia il potere e la giurisdizione disciplinare sarebbero
esercitabili anche per fatti commessi dall’iscritto molti anni e prima della sua
iscrizione all’albo, qualora il “vulnus” ricada nel periodo di appartenenza
all’Ordine; la sentenza suddetta ha in realtà ritenuto legittimo l’esercizio
dell’azione disciplinare nei confronti dell’iscritto per fatti commessi prima della sua iscrizione all’albo in quanto il relativo procedimento penale aveva avuto inizio dopo l’iscrizione all’albo e, di conseguenza, il “vulnus” era ricaduto
nel periodo di appartenenza all’Ordine; nella fattispecie, invece, il procedimento penale a carico della ricorrente era iniziato nell’anno 2001, allorquando l’esponente era una semplice cittadina e non era iscritta all’albo professionale; pertanto il COA non aveva alcun potere di iniziare nei suoi confronti un
procedimento disciplinare.
Il motivo è fondato.
La sentenza impugnata si basa sul presupposto, affermato anche dalla
sentenza delle S.U. di questa Corte 1-2-2010 n. 2223, che l’azione disciplinare può essere esercitata nei confronti degli avvocati anche in relazione a fatti
di rilevanza penale risalenti ad epoca anteriore all’iscrizione dell’avvocato al
relativo albo professionale, allorché il “vulnus” che l’esposizione penale cagiona al prestigio dell’Ordine forense ed alla credibilità della professione sia ricaduto nel periodo di iscrizione all’albo, così fondando il potere disciplinare.
Tale convincimento non può essere condiviso.
Invero l’esercizio del potere disciplinare da parte dei COA nei confronti degli avvocati trova il suo fondamento nell’esigenza di una tutela del prestigio
dell’Ordine forense in presenza di comportamenti posti in essere dai suddetti
professionisti idonei a screditarne l’autorevolezza e la credibilità, comportamenti quindi contrari ai doveri di probità, di buona condotta e di deontologia
professionale che gli avvocati sono tenuti a rispettare nell’esercizio della professione; al riguardo occorre rilevare che il r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578,
art. 38, prevede la sottoposizione a procedimento disciplinare degli avvocati
“che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”,
con la conseguente irrilevanza al riguardo di comportamenti che, pur se idoRassegna Forense - 3-4/2014
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Irrilevanza disciplinare delle condotte antecedenti l’iscrizione all’albo
nei a determinare uno “strepitus fori” nel periodo di iscrizione all’albo da parte del professionista resosi colpevole di detti comportamenti, sono ininfluenti
ai fini disciplinari in quanto risalenti ad epoca antecedente alla iscrizione
all’albo, e dunque estranei ai presupposti fondanti l’esercizio del potere disciplinare; sotto tale profilo, quindi, si ritiene di dissentire dalla richiamata pronuncia di questa Corte a Sezioni Unite, che in effetti non ha esaminato specificatamente tale decisiva questione.
Nella fattispecie, pertanto, essendo pacifico che i fatti di rilevanza penale
ascritti alla C., che hanno poi determinato una sua condanna passata in giudicato ad anni sei e mesi tre di reclusione per il delitto di estorsione, sono risalenti ad un periodo antecedente alla sua iscrizione all’albo dei praticanti avvocati, deve escludersi la sussistenza del potere del COA di Pescara di sottoporre a procedimento disciplinare l’attuale ricorrente, e di infliggerle la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per mesi dodici.
In definitiva, quindi, il ricorso deve essere accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata; non essendo poi necessari ulteriori accertamenti di fatto, e decidendo la causa nel merito, occorre conseguentemente
annullare la delibera del 14-7-2011 del COA di Pescara.
Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla natura peculiare della controversia, per compensare interamente le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel
merito, annulla la delibera del 14-7-2011 del COA di Pescara, e compensa interamente tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2014.
Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2014.
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Rassegna Forense - 3-4/2014
Parte Seconda - Giurisprudenza
292. Sulla condotta dell’avvocato che consiglia al cliente di
non avanzare pretese economiche.
Cass. civ., sez. I, sentenza 10 dicembre 2014, n. 26059 - Pres.
VITRONE - Rel. CAMPANILE
Deve ritenersi insussistente una responsabilità, per violazione dei
doveri professionali, in capo all’avvocato il quale segua una strategia
processuale consistente nella proposizione di una domanda di divorzio, per mancata consumazione, nei confronti del coniuge dell’assistita,
rinviando poi ad un giudizio successivo la proposizione di un assegno
per il suo mantenimento.
FATTO
1 - Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Palermo ha
rigettato il gravame proposto da S.C. avverso la sentenza del Tribunale di Palermo, depositata in data 27 gennaio 2005, con la quale era stata giudicata
infondata la domanda dalla predetta avanzata nei confronti dell’avv. F.S.,
avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno, per violazione dei
doveri professionali, in relazione al consiglio di detto professionista di avanzare domanda di divorzio, per mancata consumazione, nei confronti del coniuge
B.S., rinviando a un giudizio successivo la proposizione della domanda di un
assegno per il proprio mantenimento.
1.1 - La corte territoriale ha rilevato che il consiglio dato dal professionista
alla cliente di non avanzare pretese economiche contestualmente alla domanda di divorzio non era di per sé incongruo, atteso che la necessità di accertamenti peritali (effettivamente eseguiti nel corso di quel giudizio) era
ostativa a una separata ed immediata pronuncia sull’“an”, che costituiva il
prioritario interesse della S. Il giudizio, infatti, si era concluso senza opposizione da parte del convenuto, mentre le questioni di natura economica - per
altro proponibili autonomamente, con possibilità di ottenere la decorrenza
dell’assegno dal momento della domanda - avrebbero di certo ritardato la
pronuncia relativa allo "status".
1.2 - È stata rimarcata l’irrilevanza dei profili concernenti la responsabilità
del professionista per non aver evidenziato, nel primo giudizio, l’addebitabilità
al marito del fallimento del matrimonio, ed è stata, infine, dichiarata
l’inammissibilità dell’appello proposto in via incidentale dal F. in merito al regolamento delle spese processuali.
1.3 - Per la cassazione di tale decisione la S. propone ricorso, affidato a
due motivi, cui l’avv. F. resiste con controricorso.
DIRITTO
2 - Con il primo motivo si denuncia violazione della l. n. 898 del 1970, art.
4 laddove consente la pronuncia di una sentenza relativa allo scioglimento o
alla cessazione degli effetti civili del matrimonio e la prosecuzione del giudizio
per la definizione delle questioni di natura patrimoniale.
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Giurisprudenza della Corte di Cassazione
Condotta dell’avvocato che consiglia al cliente di non avanzare pretese economiche
2.1 - Con la seconda censura, denunciandosi violazione dell’art. 2236 cod.
civ., si sostiene che la corte territoriale avrebbe erroneamente escluso la responsabilità del professionista in relazione alla scelta sopra indicata, valorizzando le sollecitazioni - inidonee a tal fine - della stessa cliente.
3 - I motivi, per i quali sono stati indicati validi quesiti di diritto, vanno
esaminati congiuntamente, in quanto intimamente correlati.
Essi risultano in parte inammissibili, ed in parte infondati.
3.1 - Deve in primo luogo constatarsi come l’attribuzione alla corte territoriale dell’affermazione dell’impossibilità giuridica di ottenere una sentenza
non definitiva sullo “status” non trova riscontro nella motivazione della decisione impugnata, che ha posto in evidenza, da un lato, l’opportunità della
scelta di non compromettere la celerità del procedimento, che costituiva il
preminente interesse della cliente, introducendo temi di natura economica,
comportanti attività istruttoria non scindibile da quella inerente alla specifica
ragione posta alla base del divorzio, dall’altro la possibilità (con richiamo alla
decisione di questa Corte n. 1031 del 1998) di avanzare separatamente la
domanda di assegno.
3.2 - La Corte di appello, quindi, non ha affermato che, ai sensi della l. n.
898 del 1970, art. 4 non fosse possibile ottenere una pronuncia non definitiva, ma ha semplicemente ritenuto che i relativi tempi non fossero compatibili
con una pronuncia definitiva, certamente ottenibile in un giudizio non appesantito da temi di natura economica, che, per altro, avrebbero provocato una
differente “reazione difensiva” da parte del B.
4 - Al di là della evidenziata inammissibilità, precisato che manca qualsiasi
riferimento, nel ricorso, a un eventuale mancato assolvimento degli oneri di
natura informativa facenti capo al professionista, deve osservarsi che, alla luce dell’affermata - e non contestata - possibilità di proporre in via separata la
domanda di assegno, non sussiste la dedotta responsabilità del professionista
per aver scelto una strategia processuale ritenuta, secondo l’apprezzamento
del giudice del merito sorretto da adeguata motivazione, e del resto non censurata, confacente agli interessi della stessa cliente.
5 - In considerazione della delicatezza del tema trattato, inerenti a scelte
di natura discrezionale del difensore, va disposta la compensazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese relative al presente giudizio
di legittimità. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento
siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile,
il 5 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2014.
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Rassegna Forense - 3-4/2014
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