C) Giurisprudenza della Corte di Cassazione 277. Sui presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare in caso di pluralità di promissari acquirenti. Cass. civ., sez. II, sentenza 12 marzo 2014, n. 5776 - Pres. ODDO Rel. SCALISI La remissione di uno dei creditori all’adempimento di un’obbligazione indivisibile non osta alla possibilità da parte degli altri creditori in solido di chiedere, ex art. 2932 c.c., l’integrale esecuzione dell’obbligo di concludere il contratto preliminare di vendita immobiliare a carico dell’alienante 1. FATTO L.P.S. e L.P.C. con atto di citazione del 25 luglio 1995 convenivano davanti al Tribunale di Modica D.M. I. e, premettendo che il padre L.P.R. deceduto in data (omissis) aveva stipulato in data 16 giugno 1990 un contratto preliminare di compravendita con S.G. quale procuratore generale della D.M.I. avente ad oggetto la cessione di uno stacco di terreno sito nel territorio di (omissis) costituenti i lotti 40 e 136 della pianta generale del fondo; che per tale compravendita era stato stabilito il prezzo di L. 7.000 al mq per il terreno di cui alla particella n. 40 e L. 5000 al metro quadrato per il terreno di cui alla particella n. 136, che tale compravendita sarebbe stata perfezionata con il contratto definitivo in seguito ad una puntuale misurazione dello stacco di terreno provvedendosi alla stipula del preliminare, al pagamento di L. 30.000.000; che nonostante i ripetuti solleciti fino anche alla data del 3 marzo 1995 D.M.I. si era resa inadempiente all’obbligo di alienazione da essa assunta; che gli altri eredi di L.P.R., L.P.F., A. e N. avevano rinunciato ad ogni diritto loro spettante in conseguenza della stipulazione del contratto preliminare. Tutto ciò premesso, chiedevano che il Tribunale di Modica, riconosciuta la loro qualità di unici titolari dei diritti e degli obblighi derivanti dal preliminare del 16 giugno 1990, emettesse una sentenza produttiva degli effetti del contratto non concluso e la condanna della D. M. al risarcimento danni da inadempimento contrattuale. Si costituiva in giudizio D.M.I. eccependo in via preliminare l’inammissibilità della domanda posto che la stessa avrebbe dovuto essere posposta dagli eredi di L.P.R. e non solo di alcuni di essi, deduceva l’avvenuta risoluzione del contratto per mutuo dissenso delle parti come desumibile dallo scambio epistolare intercorso con gli eredi L.P.; e in, via subordinata, eccepiva 1 Massima non ufficiale di S. Quagliata (vedi nota a sentenza pag. 825). Rassegna Forense - 3-4/2014 819 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare l’avvenuta risoluzione del contratto per inadempimento stante il frazionamento del fondo in data 15 gennaio 1992 e in mancanza da quella data di una qualsiasi sollecitazione o invito da parte degli attori a dare esecuzione al contratto preliminare, specificamente condizionato temporalmente al frazionamento del fondo stesso, chiedeva il rigetto della domanda e la condanna degli attori al pagamento delle spese di lite. Nel corso del giudizio intervenivano volontariamente in giudizio L. P.F., A. e N. deducendo di essere succeduti per legge al padre L.P.R. e di aver rinunciato ai loro diritti in forza del contratto preliminare, rinuncia che era stata comunicata alla D.M.I. Il Tribunale di Modica con sentenza n. 210 del 2001 accoglieva la domanda e per l’effetto trasferiva il bene oggetto della controversia a L.P.S. e L.P.C., condannava la convenuta al pagamento delle spese giudiziali. Avverso questa sentenza proponeva appello D.M.I., censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto ammissibile la domanda di esecuzione specifica del preliminare, nonostante non fosse stata proposta da tutti gli eredi di L.P., per non aver accolto l’eccezione secondo cui L.P.S. aveva rinunziato all’esecuzione del preliminare comportandosi come unico erede del padre per cui l’atto doveva ritenersi risolto per mutuo consenso di tutte le parti. Si costituivano L.P.S. e L.P.C. chiedendo il rigetto dell’appello. La Corte di Appello di Catania con sentenza n. 202 del 2008 accoglieva l’appello e in riforma della sentenza impugnata rigettava le domande proposte da L.P.S. e L.P.C., condannava questi al pagamento delle spese del primo e del secondo grado del giudizio. Secondo la Corte di merito il contratto preliminare oggetto della controversa doveva ritenersi risolto per mutuo consenso alla risoluzione espresso dalla D.M. e dalla P.S. e, pertanto, nei confronti dello stesso la domanda di esecuzione del contratto preliminare non poteva essere accolta. La stessa domanda di esecuzione del preliminare avanzata da L.P. C. non poteva essere accolta perché la sentenza sostitutiva del consenso delle parti doveva realizzare una situazione del tutto identica a quella a suo tempo prevista nel contratto preliminare e nel caso in esame non poteva realizzarla perché il contratto preliminare in parte si era risolto. La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da L.P. S., L.P.C., L.P.F., L.P. A., L.P.N. Con atto di ricorso affidato a quattro motivi. D.M.I. ha resistito con controricorso. In prossimità dell’udienza di discussione i ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. DIRITTO In via preliminare va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dai controricorrenti perché, il ricorso, sarebbe stato notificato il 2 maggio 2008 a persona deceduta durante il giudizio di appello. Va qui considerato che i ricorrenti erano stati resi edotti della morte di D.M.I. avvenuta a (omissis), con la notifica della sentenza. Tuttavia, la sentenza era stata notificata, come risulta dalla sentenza depositata unitamente al ricorso, alla parte personalmente, contestualmente al precetto, e, pertanto, quella notifica era affetta da nullità, e come tale, inidonea a far decorrere il termine breve di impugnazione e, avendo, i resistenti, 820 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza notificato il controricorso prima della scadenza del termine annuale, per la proposizione del ricorso, hanno sanato la nullità. L.P.S., C., F., A. e N. lamentano: Con il primo motivo la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 1321 e 1362 c.c. Insufficiente e contraddittoria motivazione circa il contenuto della nota a firma l. P.S. del 23 dicembre 1993. Secondo i ricorrenti, la Corte di Catania, senza soffermarsi sul significato letterale delle parole, né sul contesto complessivo della nota, avrebbe acclarato, dalla missiva di L.P. diretta alla sig.ra D.M. del 23 dicembre 1993, l’apodittica affermazione, non suffragata da alcuna argomentazione, che questa valesse quale consenso alla proposta di risoluzione. Piuttosto, specificano i ricorrenti, posto che l’accordo simulatorio di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam è soggetto alla medesima forma stabilita per la conclusione di esso l’anzidetto requisito può ritenersi soddisfatto solo in presenza di un documento che contenga in modo diretto la dichiarazione della volontà e venga redatto alla specifico fine di manifestare tale volontà. Per altro, la presa d’atto delle determinazioni della D.M. e l’invito rivolto alla stessa all’immediata restituzione dell’importo versato in conto prezzo con salvezza di ogni altro diritto non possono essere, secondo sempre i ricorrenti equiparate tout court ad una adesione risolutoria. Pertanto concludono i ricorrenti dica la Corte Suprema: a) È viziata o meno la motivazione dell’impugnata sentenza in ordine al corretto significato da attribuire alla nota 23.12.1993 nonché alla omessa indagine circa la reale intenzione di L.P.S., anche in relazione al successivo comportamento delle parti segnatamente alla mancata restituzione dell’acconto prezzo di L. 3.000.000. b) È viziata o meno la sentenza impugnata laddove essa non ha motivato circa la sussistenza o no nella nota del 23 dicembre 1003 a firma di L.P.S. della dichiarazione della volontà negoziale finalizzata alla risoluzione del preliminare? Con il secondo motivo, la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 1321 e 1453 c.c. Secondo i ricorrenti la Corte di Catania avrebbe ritenuto che le parti (L.P. S. e D.M.I.) avessero concordato la risoluzione per mutuo consenso, anche se la parte venditrice non solo non è stata in condizione di produrre un documento che contenesse in modo diretto una dichiarazione di volontà solutoria ma non ha neppure dimostrato di aver dato esecuzione alla risoluzione mediante restituzione del prezzo. Pertanto, concludono i ricorrenti dica la Corte Suprema: è viziata o meno l’impugnata sentenza laddove la Corte territoriale e omettendo di valutare in ordine alla mancata restituzione dell’importo versato in acconto prezzo, non ha dichiarato non essersi perfezionato per mutuo consenso il contratto di scioglimento del preliminare? Con il terzo motivo la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione all’art. 1362 c.c. Secondo i ricorrenti la Corte territoriale nell’individuare la comune intenzione delle parti non avrebbe tenuto conto del comportamento successivo delle parti con riferimento, in particolare, alla riserva di salvezza di ogni diritto da parte di L.P. e alla mancata restituzione dell’importo pagato in conto prezzo. Se avesse compiuto tale indagine il Giudice del merito, secondo Rassegna Forense - 3-4/2014 821 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare i ricorrenti avrebbe potuto trarre la convinzione che il contratto avente ad oggetto l’asserita risoluzione del contratto preliminare vertendo in fattispecie a formazione graduale, non era stato mai concluso per la mancata restituzione del prezzo. Dica, pertanto, la Corte suprema, concludono i ricorrenti. È viziata o meno l’impugnata sentenza laddove il giudice a quo ha omesso ogni indagine in ordine al comportamento tenuto dalle parti anche, successivamente, all’asserito effetto solutorio con riferimento, in particolare, alla mancata restituzione del prezzo e alle riserve formulate da L.P.S. Con il quarto motivo, la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione all’art. 1372 c.c. e art. 102 c.p.c. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Avrebbe errato la Corte di merito, secondo i ricorrenti, nell’aver ritenuto che la lettera di L.P.S., avendo determinato la risoluzione del preliminare, avesse precluso all’altro erede L.P. C. di ottenere pro quota l’effetto ex art. 2932 c.c., perché non avrebbe tenuto conto che secondo l’art. 1372, ai fini dell’efficacia del mutuo consenso alla risoluzione venga effettuato dalle stesse parti che avevano concluso il contratto escludendo che l’effetto possa discendere da manifestazioni di volontà parziali provenienti da una parte o dall’altra. In particolare, la Corte di merito, secondo i ricorrenti non avrebbe tenuto conto che le parti del preliminare erano da una parte i fratelli L.P. (C. e S.) e dall’altra la D.M.I., pertanto era irrilevante la lettera del 23.12.1990 di L.P.S. perché non proveniva dalla parte tecnicamente intesa. Nel caso di contratto preliminare con pluralità di promesse di un unico fondo considerato nella sua interezza la relativa obbligazione è indivisibile per cui tanto l’adempimento quanto l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ai sensi dell’art. 2932 c.c., devono essere richiesti congiuntamente da tutti i promissari, configurando tra i medesimi un litisconsorzio necessario. Dica la Corte di Cassazione, concludono i ricorrenti: è viziata o meno la motivazione della impugnata sentenza laddove è stato omesso di valutare l’indivisibilità delle obbligazioni assunte delle parti ragion per cui tanto l’adempimento quanto l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre si sarebbero dovuto richiedere congiuntamente e non, avuto riguardo alla parte promissaria acquirente sola da una sua componente? Ragioni di ordine logico e di opportunità inducono ad esaminare per primo il quarto motivo del ricorso ed è fondato. Non è revocabile in dubbio che la nozione di “parte negoziale”, quale entità soggettiva di imputazione di posizioni attive o passive nascenti dal contratto, sia insensibile alle sue mutazioni soggettive interne e che di riflesso lo siano quelle posizioni a questa imputabili. A questa esatta premessa è coerente l’ulteriore proposizione della conservazione degli effetti del contratto preliminare di vendita - e che la richiesta pronunzia ex art. 2932 c.c., necessariamente postula - a seguito del “recesso” di uno dei soggetti costituenti la parte promissaria acquirente. In siffatta evenienza, la successiva stipula del contratto definitivo di vendita immobiliare fra la D.M., nella veste di alienante ed il solo L.P.C. in quella di acquirente, così come la pronunzia costitutiva degli effetti di quel contratto non concluso, non avrebbe comportato una diver- 822 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza sità delle parti, né inciso sulle rispettive “uniche ed indivisibili” prestazioni del consenso, dal quale sarebbe derivato il trasferimento della proprietà di quel determinato unico immobile (artt. 1376 e 1470 c.c.), di consegnarlo (art. 1476 c.c.), ove in previsione della vendita non se ne fosse anticipato l’effetto traslativo del possesso, di corrispondere l’intero prezzo convenuto (art. 1498 c.c.). Per altro, ai sensi dell’art. 1320 c.c., l’indivisibilità caratterizza entrambe le prestazioni riferite ad entrambe le “parti”, il consenso al trasferimento dell’immobile unitariamente considerato ed il pagamento dell’(intero) prezzo convenuto. Pertanto, avendo uno dei creditori dell’unica prestazione della D.M., il L.P.S., a questa rinunziato a mezzo del recesso e/o risoluzione, l’altro creditore poteva esigerla, essendosi fatto carico della prestazione considerata indivisibile del prezzo. E, comunque, in via ancor più generale, va qui ribadito quanto già affermato da questa Corte in altra occasione (Cass. n. 7287 del 2005) e, cioè, che in tema di obbligazioni indivisibili, fra le quali rientra la promessa di più soggetti di acquistare in comune un immobile considerato nella sua interezza, l’impossibilità che gli effetti del contratto si producano (o non si producano) pro quota o nei confronti soltanto di alcuni dei promissari comporta che il diritto di ciascuno dei creditori di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione, comune alla disciplina delle obbligazioni solidali, richiamata in materia dall’art. 1317 cod. civ., non sia oggettivamente suscettibile dell’effetto liberatorio parziale nei confronti degli altri creditori previsto dall’art. 1301 cod. civ., nell’ipotesi di remissione di uno dei creditori; ciò, peraltro, non comporta la risolubilità del contratto per l’impossibilità di richiedere una prestazione pro quota dell’obbligazione indivisibile, attesa l’espressa previsione nell’art. 1320 cod. civ., secondo la quale la remissione di uno dei creditori non determina la liberazione del debitore nei confronti degli altri creditori e il loro diritto di domandare la prestazione indivisibile è condizionato, in tal caso, unicamente all’addebito o al rimborso del valore della parte di colui che ha fatto la remissione. Pertanto, la Corte di merito, non ha considerato che a seguito del “recesso” e/o risoluzione di L.P.S. ed alla riduzione unisoggettiva della parte promissaria acquirente si sarebbe conservato, sia in sede di stipulazione della vendita definitiva sia in sede di pronunzia costitutiva degli effetti di quella vendita non conclusa, l’assetto degli interessi assunto dalle parti nel contratto preliminare; posto che la D.M. avrebbe ricevuto l’intero prezzo della porzione d’immobile che si era obbligato a vendere a fronte del suo trasferimento in proprietà al solo L.P.C. e questi avrebbe ricevuto in proprietà quella intera porzione di immobile che unitamente a L.P.S. si era impegnato ad acquistare in proprietà indivisa. L’accoglimento di questo motivo assorbe gli altri motivi. In definitiva, va accolto il quarto motivo del ricorso e vanno dichiarati assorbiti gli altri. La sentenza va cassata e rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Catania, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione. Rassegna Forense - 3-4/2014 823 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Presupposti soggettivi per la risolubilità del preliminare P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo e dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 gennaio 2014. Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2014. 824 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776 Nota a sentenza di Stefano Quagliata Sommario: 1. Il caso. - 2. Le questioni. - 3. I precedenti. - 4. La dottrina. 1. IL CASO A seguito della morte del promissario acquirente di un immobile, due degli eredi intentano un’azione costituiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., per ottenere la pronuncia sostituiva dell’obbligo di concludere il definitivo. Il Tribunale adito accoglie la domanda, ma la parte soccombente propone appello avverso la sentenza di I grado. La Corte territoriale riforma la decisione del giudice di prime cure, sul presupposto che il vincolo derivante dal preliminare dovesse ritenersi ormai sciolto in forza del mutuo consenso espresso dalla ricorrente in ordine alla risoluzione del contratto e da uno dei due attori, come dimostrerebbe lo scambio di lettere che ha avuto luogo tra le parti. Né tantomeno, a giudizio della Corte d’Appello, avrebbe potuto trovare accoglimento la domanda di esecuzione del preliminare nei confronti dell’altro erede del promissario acquirente, poiché «la sentenza sostituiva del consenso delle parti doveva realizzare una situazione del tutto identica a quella a suo tempo prevista nel contratto preliminare»: tale circostanza, nel caso di specie, non potrebbe ammettersi, poiché il preliminare si sarebbe, per l’appunto, parzialmente risolto. La questione viene infine portata all’attenzione della Suprema Corte. L’argomentazione dei ricorrenti si fonda essenzialmente sul seguente assunto: la Corte di merito avrebbe ritenuto, in modo erroneo, che la lettera di uno dei due eredi rivolta alla controparte, determinando la risoluzione del preliminare, fosse stata in condizione di precludere all’altro erede la possibilità di ottenere l’effetto costituivo di cui all’art. 2932 c.c. per la sua quota parte. E ciò essenzialmente perché la Corte d’Appello non avrebbe tenuto in debito conto il principio fondamentale di cui all’art. 1372 c.c., a mente del quale il mutuo consenso quale causa di risoluzione del contratto, per potersi ritenere efficace, deve intervenire tra le medesime parti che hanno concluso il negozio, escludendosi, pertanto, la possibilità che l’effetto risolutivo possa derivare da manifestazioni di volontà parziali, intervenute, come nel caso di specie, soltanto tra alcune delle parti che avevano stipulato il negozio. Nel caso di specie, in cui si è in presenza di un contratto preliminare di vendita di un fondo, con pluralità di promissari venditori, la relativa obbligazione deve considerarsi per sua natura indivisibile e quindi sia l’adempimento che l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. devono essere domandati da tutti i promissari, ritenendosi sussistente un’ipotesi di litisconsorzio necessario, ai sensi dell’art. 102 c.p.c. Pertanto, la lettera intercorrente soltanto tra uno degli eredi e il promittente venditore non pare idonea a produrre l’effetto liberatorio parziale nei confronti degli altri creditori, così come previsto dall’art. 1301 c.c., nell’ipotesi Rassegna Forense - 3-4/2014 825 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefano Quagliata di remissione da parte di uno dei creditori. Alla luce di tali considerazioni, i giudici di legittimità, ritenendo fondato il principale motivo di doglianza prospettato dagli eredi del promissario acquirente, concludono infine per l’accoglimento del ricorso. 2. LE QUESTIONI 2.1. Il mutuo consenso alla risoluzione del contratto preliminare di immobile con più promissari acquirenti La decisione della Cassazione fa il punto sulla questione della risolubilità per mutuo consenso del contratto preliminare, qualora i promissari acquirenti siano più d’uno. A tal proposito, come è noto, il comma 1 dell’art. 1372 c.c. prescrive che «Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge». Volendo focalizzare l’attenzione sulla prima delle due modalità estintive, ovvero lo scioglimento del contratto per “mutuo consenso” (a parte l’utilizzo improprio del termine “scioglimento”, che nel caso di specie è riferito a un fatto, cioè al contratto, e non al rapporto giuridico che si instaura tra le parti), esso viene definito dalla dottrina prevalente come «un negozio giuridico mediante il quale le parti, con rinnovata manifestazione di volontà, stabiliscono di porre nel nulla un contratto precedentemente stipulato». Se ne riconosce, dunque, l’essenza negoziale, che implica una ulteriore manifestazione di volontà, uguale e contraria a quella espressa attraverso il contratto. Peraltro, c’è da rilevare come non vi sia totale unità di vedute circa la natura da attribuire al mutuo dissenso. Secondo una parte della dottrina, (che, sostanzialmente, nega la negozialità dell’atto) infatti, si tratterebbe di un mero atto di adempimento traslativo, da cui deriverebbero soltanto effetti restitutori solutionis causa, in una prospettiva perlopiù ripristinatoria della situazione antecedente alla stipula del contratto. Più articolata si rivela, invece, una seconda teoria, la quale ravvisa nel mutuo dissenso un negozio dal contenuto uguale e contrario al precedente: tale dottrina giunge ad ammettere la ammissibilità di un contrarius actus, che si pone come una sorta di “contronegozio” rispetto al contratto principale. Tale ricostruzione, tuttavia, sembra incontrare consistenti limiti logici, prima ancora che giuridici nelle ipotesi di contratti ad effetti obbligatori [Si pensi, a titolo d’esempio, all’ipotesi del contratto d’appalto: qui risulterebbe davvero arduo ipotizzare che, grazie ad un contrarius actus, il committente si trasformi in appaltatore e viceversa]. Anche per ovviare a tali problematiche, appare senz’altro preferibile la teoria del negozio risolutorio volto a porre nel nulla gli effetti del precedente contratto. A tal riguardo, il mutuo dissenso assume i connotati di una figura in grado di risolvere gli effetti dell’accordo intercorso tra le parti e di ripristinare lo status quo ante. Uno status quo ante, si badi, simile ma comunque differente da quello che si otterrebbe mediante l’espediente del contrarius actus, che mira, come si è accennato a ritornare “al punto di partenza”. Tale ultima dottrina, in definitiva, è quella che ha riscosso maggiore successo, non soltanto perché ha consentito di superare gli inconvenienti propri 826 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776 delle teorie anzidette, ma anche perché risulta chiaramente suffragata dal dato normativo, oltre che dalla prevalente giurisprudenza in materia. Pertanto, secondo questa prospettiva, il mutuo consenso allo scioglimento del vincolo contrattuale (o “mutuo dissenso”, che dir si voglia) assume un significato ben preciso: la ratio di tale istituto va rinvenuta nella circostanza per cui il vincolo contrattuale è posto a tutela dell'affidamento delle parti. Posto ciò, tale esigenza viene meno quando sono le stesse parti a decidere lo scioglimento del vincolo. Ciò, per altro verso, consente di precisare meglio il senso dell’affermazione secondo cui nei contratti ad effetti obbligatori per porre nel nulla gli effetti del contratto occorre la medesima manifestazione di volontà negoziale espressa in un primo momento, quanto meno (ed è questo il punto che maggiormente interessa sottolineare in tale sede) sotto il profilo della rispondenza soggettiva tra i due negozi, quello positivo e quello risolutivo. Pertanto, laddove le parti considerino il bene stesso come un unicum inscindibile (e non come somma delle singole quote che fanno capo ai rispettivi comproprietari), per cui le dichiarazioni di volontà di voler promettere in vendita non hanno una propria autonomia, ma si fondono in un'unica volontà negoziale (quella della parte promittente venditrice, appunto), allora quando una di tali dichiarazioni venga a mancare (o sia da considerarsi invalida) non si può validamente formare la volontà di una delle parti del contratto preliminare, il quale non viene ad esistenza o, al massimo, è da considerarsi affetto da nullità. 2.2. L’art. 1320 c.c. e il rinvio alla disciplina delle obbligazioni solidali offerto dall’art. 1317 c.c. A ben vedere, in realtà, va rilevato come l’obbligazione che trovi il proprio fondamento nella promessa fatta da più soggetti, consistente nell’acquisto di un immobile in comune, debba considerarsi un’obbligazione indivisibile tout court, e come tale soggetta alla disciplina prevista in proposito dagli artt. 1316 ss. c.c. Infatti, secondo l’art. 1316 c.c., si ha obbligazione divisibile quando «la prestazione ha ad oggetto una cosa o un fatto che non è suscettibile di divisione», a causa della sua natura o per le modalità con cui è stato considerato dai contraenti (come nel caso di un facere indivisibile). Ne discende che, con specifico riferimento a tali fattispecie, troveranno applicazione, oltre all’art. 1317 c.c. già richiamato in precedenza (v. supra, § 1), il quale sancisce il rinvio alla disciplina delle obbligazioni solidali «in quanto applicabili e salvo quanto disposto dagli articoli seguenti», anche le norme previste dagli artt. 1318 e 1320 c.c. Queste, peraltro, rappresentano le principali ipotesi di deroga al sistema della solidarietà. Deve aggiungersi, inoltre, che ai sensi dell’art. 1318 c.c., l’indivisibilità opera sia nei riguardi degli eredi del debitore che di quelli del creditore. Maggiori spunti di riflessione, in relazione al caso in esame, offre l’esegesi dell’art. 1320 c.c., a mente del quale «Se uno dei creditori ha fatto remissione del debito o ha consentito a ricevere un'altra prestazione in luogo di quella dovuta [detto in altri termini, se uno dei creditori ha concluso con il debitore Rassegna Forense - 3-4/2014 827 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefano Quagliata una datio in solutum], il debitore non è liberato verso gli altri creditori. Questi tuttavia non possono domandare la prestazione indivisibile se non addebitandosi ovvero rimborsando il valore della parte di colui che ha fatto la remissione o che ha ricevuto la prestazione diversa». La ratio della norma è di tutta evidenza: lasciare integra l’obbligazione riguardo agli eredi o ai creditori che non abbiano preso parte alla vicenda parzialmente estintiva dell’obbligazione, ovvero la remissione (o la datio in solutum); non solo: tale accorgimento consente di evitare la risoluzione del contratto per l’impossibilità di richiedere una prestazione pro quota dell’obbligazione. Peraltro, nel caso in cui venga data esecuzione a un contratto preliminare con cui le parti abbiano previsto il trasferimento di un immobile a più persone, le singole quote di comproprietà relative ai promissari acquirenti si devono presumere uguali, salvo che nel regolamento contrattuale non sia stato espressamente disposto il contrario. Né, tantomeno, il valore delle suddette quote può essere desunto, in modo implicito, dall’entità delle somme versate, in quanto tale parte del prezzo complessivo non può esplicare alcun effetto nei rapporti tra le parti contrattuali. 2.3. Profili processuali: l’indivisibilità quale ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. L’orientamento assolutamente prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, tendeva tradizionalmente a escludere la sussistenza di un collegamento inscindibile tra rapporto plurisoggettivo (sul piano sostanziale) e litisconsorzio necessario (su quello processuale), evitando, in tal modo, di dover ricorrere a una impegnativa quanto rischiosa operazione di individuazione astratta delle ipotesi litisconsortili necessarie, dalla quale, come si sa, il Legislatore si è sempre astenuto. A tal proposito, non si è mancato di far rilevare come l’art. 1306, comma 1, c.c. in tema di obbligazioni solidali, espressamente preveda che «La sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori». Peraltro, il secondo comma della disposizione in esame prevede un’ipotesi di estensione soggettiva della sentenza limitatamente agli effetti favorevoli alle parti che non hanno preso parte al giudizio. Il senso attribuito a tale norma, specie con riferimento alla statuizione del primo comma, è stato quello di voler escludere, con riferimento a una situazione certamente plurisoggettiva quale è l’obbligazione solidale, la necessità del ricorso al litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. L’ambito di applicazione di tale disciplina, per altro verso, è stato esteso all’intera categoria delle obbligazioni soggettivamente complesse, quindi anche a quelle che non sottostanno alla regola della solidarietà. Tale orientamento è stato oggetto di critica da parte di una certa dottrina che ha correttamente fatto notare come la disposizione prevista dall’art. 1306 c.c. non si estenda alle obbligazioni ad attuazione non solidale; inoltre, con riferimento alle ipotesi di obbligazioni complesse per le quali trova applicazione la solidarietà, attiva o passiva, la regola dell’art. 1306 c.c. vada interpretata 828 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776 in maniera più restrittiva: il principio desumibile in maniera implicita dall’art. 1306 c.c. costituirebbe nient’altro che il riflesso processuale del meccanismo solidaristico. Pertanto, il presupposto per la sua applicazione sarebbe da individuare nella circostanza che la controversia iniziata da alcuno dei concreditori o contro alcuno dei condebitori abbia ad oggetto la mera condanna all’adempimento dell’intera prestazione a favore del solo concreditore agente e contro il solo condebitore convenuto. In caso contrario, ovvero qualora vengano proposte domande volte ad ottenere l’accertamento od una pronuncia costitutiva sul rapporto plurisoggettivo dal quale origini l’obbligazione soggettivamente complessa ad attuazione solidale, si dovrebbe prendere atto che «l’art. 1306 cede logicamente il posto alla regola generale del litisconsorzio necessario». Non si deve, tuttavia, confondere l’obbligazione solidale con quella indivisibile, giacché una obbligazione solidale ben può essere divisibile. L’art. 1292 c.c., recante la nozione della solidarietà, non vieta, infatti, la divisibilità della prestazione, ma ammette come possibili entrambe le soluzioni, essendo rilevante solamente l’adempimento da parte di uno dei soggetti coobbligati (o la ricezione dell’adempimento da parte di uno di essi) e il conseguente effetto liberatorio. Del resto, nella realtà naturalistica non esistono obbligazioni (sia solidali che non) che non si possano dividere, ma solo obbligazioni che non è opportuno dividere (in quanto la loro divisione arrecherebbe pregiudizio ad interessi ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento oppure perché la frazionabilità della prestazione determinerebbe il venir meno dell’interesse creditorio a conseguire il bene oggetto del rapporto). Si può affermare, dunque, che mentre l'indivisibilità attiene alla natura dell’obbligazione (e alla sua “genesi” dal punto di vista giuridico), la solidarietà riguarda precipuamente gli effetti dell’obbligazione. 2.4. L’indivisibilità dell’obbligazione e l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre ex art. 2932 c.c. Con la sentenza in commento, la Suprema Corte mostra di accogliere tale ultima tesi, certificando non tanto le ragioni di quella dottrina che ha creduto nella regola della necessaria correlazione tra rapporti soggettivamente complessi e litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., quanto piuttosto valorizzando il dato giuridico sostanziale della insensibilità del concetto di “parte negoziale” rispetto alle vicende estintive interne che possano verificarsi durante la scansione negoziale preliminare-definitivo. La regola è che la "parte negoziale", intesa come entità soggettiva di imputazione delle posizioni attive e passive scaturenti dal negozio, è insensibile alle proprie mutazioni interne, sicché, qualora un promissario acquirente receda dal preliminare di compravendita, l'altro può pretendere la stipula del definitivo e agire ai sensi dell'art. 2932 c.c., facendosi carico dell'intero prezzo. Ne discende, come corollario, il principio della conservazione degli effetti del preliminare di compravendita immobiliare anche a seguito del recesso fatto valere soltanto da alcuno dei promissari acquirenti, ovvero soltanto da uno dei soggetti costituenti la parte negoziale in senso tecnico. La pronunzia costituiva ex art. 2932 c.c. occorsa esclusivamente tra uno dei promissari acRassegna Forense - 3-4/2014 829 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefano Quagliata quirenti e la parte promittente venditrice non varrebbe, pertanto, a modificare soggettivamente l’unica manifestazione del consenso validamente prestata dalle parti in occasione della stipula del contratto, dalla quale deriverebbero, in definitiva, gli effetti tipici del trasferimento della proprietà dell’immobile (ai sensi degli artt. 1376 e 1470 c.c.) e, in particolare, quello primario della corresponsione dell’intero prezzo concordato. D’altro canto, trattandosi di obbligazione indivisibile (e come tale soggetta al rinvio che l’art. 1317 c.c. ne fa alla disciplina delle obbligazioni solidali) il diritto di ciascun creditore di domandare l’esecuzione dell’intera prestazione fa si che, in caso di remissione del debito da parte di altro creditore, non trovi applicazione la regola dell’effetto liberatorio parziale nei confronti degli altri creditori, prevista dall’art. 1301 c.c. Alla luce di tali considerazioni, sulla scorta di una giurisprudenza che già in passato aveva avuto modo di pronunciarsi al riguardo, la Cassazione giunge ad affermare che la remissione compiuta da uno soltanto dei creditori non comporti la risoluzione del contratto per impossibilità di richiedere la prestazione pro quota dell’obbligazione indivisibile, stante il disposto dell’art. 1320 c.c. secondo cui, in caso di remissione da parte di uno soltanto dei creditori, il diritto degli altri di domandare la prestazione per l’intero non viene mai meno, ma è condizionato soltanto all’addebito o al rimborso del valore della quota di colui il quale ha compiuto la remissione. Tale orientamento, tra l’altro, risulta avvalorato anche dalla lettera dell’art. 2932, comma 2, c.c., stante il quale «se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere accolta, se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge (...)». In particolare, nel caso di specie viene in rilievo una duplice esigenza: da un lato, che la necessaria identità del bene oggetto del trasferimento con quello previsto nel preliminare non vada intesa nel senso di una rigorosa corrispondenza, quanto piuttosto come un’esigenza che il bene da trasferire non sia oggettivamente diverso, per struttura e funzione, da quello considerato e promesso; per altro verso, che l’offerta debba essere esatta, potendo il creditore, ai sensi dell’art. 1181 c.c., rifiutare un adempimento parziale. Stando così le cose, allora, risulta senz’altro conforme al diritto presumere come ciascun promissario acquirente possa validamente esigere dal promittente venditore l’unica prestazione oggetto del contratto principale. E a nulla varrebbero, in tali ipotesi, le rimostranze della controparte, giacché la prestazione non diviene impossibile per la sola circostanza della rinunzia (parziale) esercitata da uno dei creditori. 3. I PRECEDENTI La sentenza in commento offre un quadro relativamente esaustivo della giurisprudenza conforme ai principi espressi dalla medesima. Peraltro, i giudici di legittimità hanno avuto occasione di pronunciarsi con riguardo a una serie di ipotesi simili. 830 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2014, n. 5776 Secondo il recente orientamento prospettato da Cass., n. 5529/2014 il mutuo dissenso realizzerebbe «per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dando vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e liberatoria, con contenuto uguale e contrario a quello del contratto originario». La teoria del negozio risolutorio volto a porre nel nulla gli effetti del precedente contratto trova accoglimento in una copiosa giurisprudenza: a sostegno di tale orientamento si evidenziano, in particolare, Cass., n. 3027/1962; Cass., n. 3692/1983; Cass., n. 7551/1986; Cass., n. 3816/1988. Cfr. Cass., n. 15354/2001, con riferimento al tema della indivisibilità dell’obbligazione relativa ad un contratto preliminare con pluralità di promissari acquirenti avente ad oggetto un unico immobile considerato nella sua interezza (e, quindi, non per quote). Per quanto concerne il nesso sussistente tra indivisibilità ed esecuzione coattiva del preliminare ex art. 2932 c.c., v. Cass., n. 7287/2005, conforme alla sentenza in commento. 4. LA DOTTRINA Relativamente al “mutuo consenso”, richiesto ex art. 1372 c.c. per lo scioglimento del vincolo contrattuale, imprescindibile risulta essere l’apporto fornito dall’opera di LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, il quale sostiene che il mutuo dissenso vada inquadrato alla stregua di un contratto tipico ed autonomo, che trova proprio nell'estinzione di un pregresso rapporto contrattuale la sua funzione e dunque la sua causa, che proprio in tal senso può definirsi tipica. Cfr., a tal riguardo, MIRABELLI, Il contratto in generale, Torino, 1980, che per primo ha proposto una modifica alla terminologia codicistica: il “mutuo consenso” ex art. 1372 c.c. è qualificato, più propriamente, dall’Autore come “mutuo dissenso” all’ulteriore dispiegamento degli effetti del contratto già concluso. Sul punto, cfr. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 16a ed., Napoli, 2013, il quale pone l’accento sulla importanza di tale manifestazione di volontà quale modalità generale di scioglimento del vincolo contrattuale prevista ex lege; sul punto v. anche BRIGANTI, in Comm. cod. civ., diretto da Cendon, IV, Torino, 1999, nonché SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950. Tale principio, peraltro, appare in perfetta sintonia con quello della libera estrinsecazione dell'autonomia contrattuale, secondo il quale ai soggetti di diritto è consentito porre in essere regolamenti negoziali, tipici o atipici, entro i limiti posti dall'art. 1322 c.c., e cioè, essenzialmente, «purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico». Sulla solidarietà nei rapporti obbligatori in generale: MELUCCI, La teoria delle obbligazioni solidali nel diritto civile italiano, Torino, 1884; ALLARA, Delle obbligazioni, Torino, 1939; SALVESTRONI, Solidarietà d’interessi e d’obbligazioni, Padova, 1974; RESCIGNO, Obbligazioni, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 133 ss.; ORLANDI, La responsabilità solidale, Milano, 1993; CHIANALE, Obbligazione, in Dig. civ., XII, Torino, 1995, 337 ss. Rassegna Forense - 3-4/2014 831 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefano Quagliata Ancora sul tema delle obbligazioni solidali, DI MAJO, Obbligazioni solidali (e indivisibili), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 325 ss., secondo cui la disposizione di cui al comma 1 dell'art. 1306 c.c. non sarebbe altro se non la regolare applicazione del principio generale di cui all'art. 2909 c.c. in forza del quale gli effetti della cosa giudicata si producono soltanto nei confronti delle parti e degli aventi causa; cfr. BIANCA, Diritto civile, IV, Milano, 1998, 742 ss.; RUBINO, Obbligazioni alternative, obbligazioni in solido, obbligazioni indivisibili e indivisibili, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja-Branca (artt. 1285-1320), Bologna-Roma, 1968, 287. Per quanto concerne gli aspetti più propriamente processualistici, significativo, nel senso della configurabilità di un’ipotesi litisconsortile in argomento, appare il contributo offerto da COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979; più di recente, nello stesso senso COSTANTINO, Litisconsorzio (Diritto processuale civile), in Enc. giur., XIX, Roma, 1990, 1; in senso contrario, BUSNELLI, L’obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974; ID., Obbligazioni soggettivamente complesse, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 329 ss., il quale affronta la questione da un angolo visuale differente, che consente di operare, nell'ambito indifferenziato dell'obbligazione solidale, una distinzione fondata sulla comunanza o meno dell'interesse unitario dei coobbligati (che rinverrebbe la propria fonte nell'origine unitaria del rapporto e nella conseguente comunanza di interessi). Con specifico riferimento al rapporto solidale e ai presupposti per la concessione giudiziale dell’esecuzione in forma specifica di concludere il contratto, VISALLI, L’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre (art. 2932 c.c.), Padova, 1995, 190; cfr. GAZZONI, Il contratto preliminare, in Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, XIII, 2, Torino, 2002, spec. 714 s. 832 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 278. Sulla interpretazione di una clausola risolutiva espressa prevista all’interno di un contratto preliminare di vendita di immobili da costruire. Cass. civ., sez. II, sentenza 21 marzo 2014, n. 6786 - Pres. BURSESE Rel. PARZIALE La sentenza di esecuzione in forma specifica di un preliminare di vendita, resa ai sensi dell’art. 2932 c.c., è destinata ad attuare gli impegni assunti dalle parti, anche con riguardo all’ammontare del prezzo, il quale, pertanto, deve essere quello fissato con il preliminare medesimo restando esclusa, con riguardo alla sua natura di debito di valuta, la possibilità di una rivalutazione automatica per effetto del ritardo rispetto alla data prevista per la stipulazione del definitivo, salvo che i contraenti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano espressamente previsto delle maggiorazioni o dei correttivi per compensare la svalutazione monetaria durante il periodo del suddetto ritardo 1. FATTO 1. Con atto di citazione notificato il 13 luglio 2000, la *** s.r.l. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Monza, il sig. G. con il quale in data 13 marzo 1992 aveva concluso un contratto preliminare di compravendita relativo ad un alloggio sito in (omissis), per un complessivo corrispettivo di L. 228.000.000 oltre iva. Il contratto prevedeva una serie di versamenti collegati anche all’avanzamento della costruzione, nonché l’accollo da parte del promissario acquirente di un mutuo di L. 130.000.000 che la società costruttrice si accingeva ad accendere. Il contratto prevedeva, altresì, una clausola risolutiva espressa in base alla quale il contratto si sarebbe automaticamente sciolto in conseguenza dell’inadempimento all’obbligo di versare anche una sola delle rate previste, con la previsione del diritto della promettente venditrice di trattenere, a titolo di penale, le anticipazioni ricevute sino alla risoluzione. Il promissario acquirente era immesso nel possesso dell’immobile in data 3 maggio 1995. La società attrice deduceva l’inadempimento del sig. G. rispetto al versamento di una parte delle somme previste quale prezzo dell’immobile, precisando che il promissario acquirente a fronte dei versamenti previsti per L. 98.000.000, aveva corrisposto solo L. 87.800.379 ed in più, nonostante le reiterate richieste in tal senso, non aveva voluto stipulare il rogito, né accollarsi il mutuo acceso presso l’istituto bancario San Paolo di (omissis), né provvedere al pagamento delle rate semestrali di mutuo scadute con i relativi interessi di mora per complessive L. 56.203.088, né corrispondere l’ulteriore 1 Massima non ufficiale di M. D’Auria (vedi nota a sentenza pag. 841). Rassegna Forense - 3-4/2014 833 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire somma di L. 9.807.332 oltre iva e gli interessi sulle somme pagate in ritardo per un ammontare di L. 5.000.000. Pertanto, la ***s.r.l. domandava la declaratoria di risoluzione del contratto in base alla clausola risolutiva ivi prevista, non avendo il convenuto provveduto ai pagamenti previsti nel contratto preliminare, con conseguente condanna all’immediato rilascio dell’alloggio e con incameramento delle anticipazioni a titolo di penale. In via subordinata, chiedeva di dichiarare risolto il contratto ai sensi dell’art. 1454 c.c., comma 2, per grave inadempimento del promissario acquirente, con conseguente condanna del medesimo al rilascio dell’immobile ed al risarcimento dei danni per un ammontare di L. 98.167.088, con compensazione di tale importo con i versamenti già effettuati. Si costituiva in giudizio il sig. G. che contestava le pretese attoree, producendo una serie di documenti quanto all’inesattezza delle cifre riportate dalla ***s.r.l., avendo effettuato pagamenti per l’importo di L. 159.667.052, così adempiendo pienamente agli obblighi contrattuali. Inoltre, precisava che alla data in cui aveva preso possesso dell’alloggio, questo risultava mancante di elementi essenziali quali porte, infissi, sanitari, pavimenti, e affetto da vizi e difetti cui aveva dovuto porre rimedio a sue spese. In via riconvenzionale, chiedeva, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento della proprietà dell’immobile di cui al preliminare del 13 marzo 1992, eventualmente subordinato al pagamento di quanto ancora dovesse ravvisarsi a suo carico, anche relativamente all’accollo del mutuo. 2. Con sentenza del 13 marzo 2002, il Tribunale di Monza, accoglieva la domanda principale proposta dalla ***s.r.l., accertando l’intervenuta risoluzione del contratto preliminare del 13 marzo 1992 ed il diritto della società attrice a trattenere le somme già versate dal G., con condanna del convenuto all’immediato rilascio dell’immobile e al pagamento delle spese processuali. Il giudice di prime cure rilevava che, in base alle produzioni documentali, risultavano i numerosi ritardi del promissario acquirente nel versamento degli acconti, nonché il suo inadempimento rispetto all’obbligo di accollarsi il mutuo, espressamente previsto dal contratto. Trattandosi di adempimenti esplicitamente contemplati dalla clausola risolutiva espressa, il contratto era da intendersi risolto di diritto a seguito della comunicazione ritualmente inviata dall’impresa. La documentazione prodotta dal sig. G. era ritenuta inidonea a provare l’effettuazione dei pagamenti. 3. Proponeva appello il soccombente, argomentando che i documenti prodotti nel giudizio di primo grado erano sufficienti a provare i versamenti effettuati per l’ammontare di L. 160.000.000 e che, dunque, la clausola risolutiva espressa non avrebbe dovuto trovare applicazione, mancando il suo inadempimento. In più, deduceva che, in ogni caso, il suo inadempimento non era così grave da giustificare la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1454 c.c., comma 2, e che il Tribunale non aveva tenuto in alcun conto le spese sostenute per ovviare ai vizi e i difetti dell’immobile riscontrati all’atto della consegna. 834 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nel giudizio d’appello interveniva la ****s.p.a. che, nelle more aveva acquistato dalla ***s.r.l. l’immobile in oggetto. Veniva inoltre espletata una CTU. 4. La Corte di Milano accoglieva l’appello e, riformando la sentenza di primo grado, disponeva il trasferimento dell’alloggio sito in (omissis) al sig. G., condizionato al pagamento della somma di Euro 3.716, 59 e di Euro 67.139,04 anche mediante accollo del mutuo acceso presso il gruppo bancario San Paolo di (omissis). Inoltre condannava le soccombenti al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio. Il giudice d’appello riteneva che il Tribunale avesse erroneamente considerata operativa la clausola risolutiva espressa prevista dal contratto, che prendeva in considerazione la mancata corresponsione e non già il ritardato versamento di una delle rate previste. In questo senso non vi era prova che il promissario acquirente avesse omesso il pagamento di una di esse, mentre i documenti prodotti dimostravano che i diversi pagamenti effettuati dal 1992 al 1995 erano stati esaustivi delle singole rate: non vi erano quindi gli estremi per dichiarare risolto di diritto il contratto e neppure per applicare la connessa penale d’incameramento dei versamenti già eseguiti. Né poteva essere dichiarata la risoluzione ex art. 1454 c.c., comma 2, chiesta in via subordinata dalla società venditrice, in quanto la norma citata impone la verifica della “non scarsa importanza” dell’inadempimento che deve essere, altresì, colpevole. Dalle risultanze processuali non emergeva la prova di tali necessarie condizioni, nella misura in cui la differenza tra le somme dovute e le somme effettivamente versate dal G. (L. 3.003.750) era da considerarsi di scarsa importanza rispetto al corrispettivo pattuito, ed in più, incolpevole, in quanto giustificato da opere non eseguite o mal eseguite dall’impresa. Neppure con riferimento all’accollo del mutuo era ravvisabile un inadempimento colpevole dell’appellante, in quanto egli non aveva mai manifestato una volontà contraria all’adempimento di tale obbligo; in ogni caso, tale accolto sarebbe dovuto avvenire contestualmente alla stipula del rogito, ma i contrasti nel frattempo insorti - tra i contraenti circa i pagamenti effettuati e i vizi dell’immobile - avevano impedito la conclusione del contratto definitivo. 5. Avverso tale sentenza propongono ricorso la ***s.r.l. e la **** s.p.a. articolando tre motivi di gravame. Resiste con controricorso il sig. G. G. DIRITTO 1. I motivi del ricorso. 1.1. Col primo motivo si deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1456 cod. civ. (in ordine all’art. 360 c.p.c., n. 3) e omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione sul punto (ex art. 360 c.p.c., n. 5) segnatamente in ordine alla non operatività della clausola risolutiva espressa; nonché violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) in punto interpretazione di detta clausola e della raccomandata a.r. del 13 aprile 1999”. La Corte d’Appello ha errato nell’interpretare l’art. 4 del contratto preliminare di compravendita, non ravvisando che esso ricollega l’operatività della clausola risolutiva espressa non solo al pagamento dei versamenti ivi conRassegna Forense - 3-4/2014 835 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire trassegnati dalle lettere maiuscole A), B), C), E) ed F), ma anche al pagamento della quota di mutuo di Lire 130 milioni di cui alla lettera G) nonché al “versamento in conto e/o saldo dei rimborsi per le anticipazioni fatte dalla Promittente per allacciamenti e/o accessorie di mutuo”. Così opinando, il giudice d’appello ha tradito l’autentica volontà delle parti quale desumibile dalla formulazione letterale della clausola contrattuale in oggetto, violando, pertanto, il criterio ermeneutico dettato dall’art. 1362 c.c. Il tenore letterale della clausola in esame deve far ritenere, come aveva correttamente argomentato il giudice di prime cure, che la clausola risolutiva espressa era destinata ad operare anche in relazione ai rimborsi e alle anticipazioni fatte dalla promettente società per il mutuo, con conseguente scioglimento automatico del contratto, a fronte dell’inadempimento all’obbligo di rimborsarli entro cinque giorni dall’avvenuta richiesta. La motivazione fornita circa l’inapplicabilità della clausola risolutiva espressa risulta, in ogni caso, insufficiente, tenuto conto che il sig. G. risultava parzialmente inadempiente anche rispetto all’obbligo di effettuare i versamenti previsti dal contratto, come risultava dalla diffida del 25 settembre 1998 con la quale la *** faceva notare che il promissario, a fronte del prezzo pattuito aveva effettuato versamenti per una somma inferiore per L. 10.199.625. Viene formulato il seguente quesito: “Dica Codesta Suprema Corte se, nel sistema giuridico attuale, l’interpretazione del contratto e/o di una clausola possa affidarsi al mero richiamo contenuto in sentenza ad una sola parte della relativa lettera o non debba, invece, conformarsi a diritto ed estendersi all’intero contenuto per essere poi regolata dalle norme cogenti dettate dagli artt. 1362 e 1371 c.c. Dica ancora se il Giudice possa escludere l’operatività della clausola risolutiva espressa facendo riferimento solo ad uno degli inadempimenti richiamati nella relativa dichiarazione”. 1.2 Con il secondo motivo di ricorso si deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1454, 1460, 2932 e 2697 c.c., e dell’art. 116 c.p.c. (in ordine all’art. 360 c.p.c., n. 3) e omessa, insufficiente e/o incongrua motivazione sul punto (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5); violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., (in ordine all’art. 360 c.p.c., n. 5) con riferimento all’interpretazione della clausola 4 del contratto preliminare in atti per aver la Corte escluso che l’obbligazione di rimborsare il mutuo non fosse esigibile prima della stipula del rogito”. Il giudice d’appello ha errato, altresì, nel rigettare la domanda di risoluzione formulata, in via subordinata, ai sensi dell’art. 1454 c.c., comma 2, avendo considerato, in maniera arbitraria, quale inadempimento di scarsa importanza e “in larga parte incolpevole” l’omessa corresponsione di L. 10.100.087, importo accertato in sede di c.t.u. Inoltre, la Corte Territoriale è incorsa in errore ritenendo non grave l’inadempienza del promissario al mancato rimborso dei ratei semestrali di mutuo, sulla base del fatto che l’accollo sarebbe dovuto essere formalizzato in sede di atto pubblico. Così argomentando, ha ignorato illegittimamente il dato contrattuale da cui si desume che il sig. G. si era assunto l’onere di versare direttamente all’Istituto mutuante le “rate che verranno richieste in ogni tempo prima dell’atto di compravendita” ovvero “nel caso fossero antici- 836 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza pate dalla promittente venditrice a rimborsarle entro 5 giorni dall’avvenuta richiesta”. La Corte d’Appello di Milano, nel valutare il comportamento inadempiente del sig. G., peraltro protrattosi per anni, ha ignorato le specifiche disposizioni contrattuali. Né è comprensibile come la Corte possa aver giustificato l’inadempimento del promissario acquirente all’obbligo di stipulare il contratto definitivo, a fronte della formale diffida del 25 settembre 1998, sulla base del contenzioso insorto tra le parti circa i pagamenti effettuati e i vizi dell’immobile. Con raccomandata del 16 ottobre 1995 la *** aveva riconosciuto tali vizi, quantificandoli in L. 3.003.750 ed esprimendo la più ampia disponibilità a risolvere le pendenze in essere. Viceversa, a fronte di tale disponibilità, il sig. G., pur continuando a godere dell’immobile sin dal maggio 1995, si rifiutava ingiustificatamente di adempiere agli obblighi contrattuali, ponendo in essere un inadempimento che non può non essere considerato grave e colpevole. Viene formulato il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte se il Giudice violi gli artt. 1454 e 1455 c.c., qualora nel valutare la gravità e la colpevolezza dell’inadempimento posto a fondamento della diffida, anziché svolgere un’indagine unitaria del comportamento del debitore ivi evidenziato, si limiti alla valutazione di uno solo degli inadempimenti dedotti a fronte di una pluralità di gravi e importanti inadempiente imputate al debitore; dica, altresì, se il Giudice possa giustificare l’inadempimento del promissario nel rendere la prestazione promessa ancorandone l’esecuzione ad una epoca successiva (nella fattispecie stipula del rogito), nonostante il contrastante tenore del negozio concluso e senza offrire al riguardo motivazione alcuna”. 1.3 Col terzo motivo di ricorso si deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1282, 1224, 1498 e 2932 c.c.; nonché dell’art. 116 c.p.c., nella parte in cui è stata emessa la sentenza sostitutiva del titolo di proprietà (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) ed omessa, insufficiente contraddittoria motivazione al riguardo; nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg., in punto interpretazione della clausola n. 4 del preliminare”. La Corte d’appello di Milano ha errato nell’accogliere la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ai sensi dell’art. 2932 c.c. Infatti, nelle ipotesi vi sia una separazione temporale tra il momento del pagamento del prezzo e quello del perfezionamento del contratto definitivo, l’accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c., postula necessariamente l’adempimento della parte di prestazione divenuta esigibile o l’offerta nei modi di legge. Conseguentemente, in difetto dell’offerta nei modi di legge delle prestazioni derivanti dall’accollo di mutuo da parte del sig. G., la domanda non poteva che essere disattesa, essendo irrilevante l’offerta come formulata in corso di causa e limitata, peraltro, al solo importo capitale del prezzo da corrispondere a mezzo accollo di mutuo. Inoltre, la Corte Territoriale ha contravvenuto al principio di diritto da essa stessa affermato in sentenza, secondo cui la sentenza emessa ex articolo 2932 c.c., tenendo luogo del contratto definitivo, deve recepire fedelmente le pattuizioni contenute nel preliminare. In questo senso non si spiega perché abbia subordinato il trasferimento della Rassegna Forense - 3-4/2014 837 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire proprietà promessa al pagamento dell’importo residuo del prezzo e al versamento della somma di Lire 130.000.000, oggetto dell’accollo di mutuo, alterando le pattuizioni racchiuse nel preliminare, secondo cui tutte le rate di mutuo scadute prima della compravendita sarebbero dovute essere pagate e/o rimborsate dal promissario con i relativi accessori. Viene formulato il seguente quesito: “Dica l’Ecc.ma Corte se il Giudice possa accogliere la domanda ex art. 2932 c.c., di trasferimento della proprietà qualora il richiedente sia inadempiente con riferimento all’obbligo di eseguire la prestazione a suo carico, esigibile e/o scaduta in data antecedente alla stipula del rogito. Dica, inoltre, se la statuizione di accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto possa ritenersi conforme a diritto se non accompagnata da un’offerta formale o comunque da un’offerta idonea a manifestare la concreta e seria volontà di adempiere con riferimento a tutte le prestazioni già scadute”. 2. Il ricorso è infondato e va rigettato per quanto di seguito si chiarisce. 2.1 Col primo motivo si deduce violazione dell’articolo 1456 cc sulla ritenuta errata non operatività della clausola risolutiva espressa, nonché violazione dell’art. 360, n. 5, sulla interpretazione della clausola stessa. Al riguardo, occorre rilevare in primo luogo l’inammissibilità del quesito, formulato in modo astratto e cioè con risposta obbligata e non con riferimento alla specifica situazione verificatasi. In ogni caso, il motivo è infondato per quanto di seguito si chiarisce. Il motivo censura il senso della clausola riportata a pagina 9 e 10 del ricorso e della dichiarazione di avvalimento della clausola, effettuata in data 13 aprile 1999. Occorre però rilevare che è la stessa *** a riconoscere che la clausola doveva intendersi nel senso che fosse rilevante l’omissione di una rata del contratto, con ciò intendendosi far riferimento alla intera rata prevista dal contratto. Al riguardo, sarebbe stato del tutto eccedente la risoluzione per pochi Euro di scarto. In tal senso, tutta la censura si risolve in una questione di fatto che la Corte d’appello ha affrontato e definito attraverso la constatazione dell’avvenuto pagamento di una somma notevolmente superiore prima della dichiarazione di avvenimento della clausola (vedi pagina 14 e 15 della sentenza). L’accertamento in fatto è stato operato sulla base della c.t.u. È sufficiente questo rilievo a rendere privo di consistenza l’argomento della vincolatività della clausola sul piano dell’importanza dell’inadempimento, per la ragione che l’inadempimento, così come accertato dalla Corte d’appello, non vi era stato, posto che l’importo versato a quella data era risultato appunto “ampiamente superiore” al dovuto. La censura sul piano interpretativo si incentra anche su un secondo aspetto e cioè sulla tesi che il “mancato pagamento” cui aveva riguardo la clausola, fosse riferibile anche alle rate stabilite per l’accollo del mutuo fondiario, alla luce della clausola n. 4 del negozio. Ma tale censura, peraltro assertiva, non indica i criteri legislativi violati ed è priva di argomentazione convincente perché, anzi, mira a includere nell’ambito delle obbligazioni assistite dalla clausola una voce (il mutuo), che non solo è correlata alla relativa accensione, ma che nella configurazione del preliminare è dichiaratamente rimandata per la sua precisa quantificazione, al futuro. Vedasi in proposito l’uso del tempo 838 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza futuro riferito a tale voce (avverrà, sarà eccetera). Plausibile e non censurabile risulta allora la soluzione interpretativa della Corte d’appello che ha escluso questa voce rispetto alle altre, affrontando la questione della clausola risolutiva in modo indipendente da questa voce, soprattutto per il difetto di allegazione e prova della richiesta. 2.2 Il secondo motivo deduce violazione dell’art. 1454 c.c., nonché vizi di motivazione, riproponendo le medesime censure del motivo precedente, sul presupposto che la interpretazione della clausola contrattuale al n. 4 citata dovrebbe includere anche la quota-mutuo, anticipatamente rispetto al rogito. In relazione a tale motivo valgono le considerazioni già svolte con riguardo al primo motivo, potendosi ulteriormente aggiungere che l’interpretazione nel senso della “separazione” tra pagamento dei ratei e pagamento (recte accollo) del mutuo, oltre a essere conforme alla pratica più usuale in questo campo, si è svolta assumendo l’obbligo di accollo contestualmente al definitivo, come da regola. E tale conclusione non è contraddetta dal carico degli accessori sugli importi eventualmente pagati dal costruttore-venditore. Anzi proprio questa pattuizione esprime una soluzione di pagamento proposta al definitivo, perché gli interessi decorrono a favore della costruttrice, obbligatastipulante verso la Banca. Inoltre, va anche considerato che la soluzione prospettata dalla Corte d’appello si fonda su altri elementi probatori quali la corrispondenza tra le parti, prodotta in giudizio, e l’impostazione difensiva tenuta in causa (vedi al riguardo la motivazione a pagina 16 della sentenza) sicché anche da questo punto di vista la conclusione della Corte di merito non è censurabile. Né infine rileva la clausola e) (vedi pagina 12 del ricorso) perché ipotetica. Infatti, se era la costruttrice a pagare, allora l’acquirente doveva rispondere “a richiesta”. Ma la stessa sentenza in chiusura afferma espressamente che non vi è alcuna prova che i pagamenti dei ratei siano stati effettuati. Infatti, non è chiaro quanto la società ha dovuto pagare e se ha richiesto quanto è stato pagato. Quanto infine alla valutazione della “gravità” degli inadempimenti, una volta eliminata l’incidenza della componente-mutuo, la valutazione della Corte d’appello appare corretta. Il c.t.u. ha accertato un “differenziale” tra versato e dovuto pari in sostanza circa Euro 5000 (132 milioni dovuti a fronte 142 milioni di lire versati, vedi pagina 15 da sentenza). E la valutazione della gravità, nel bilanciamento degli interessi, è operazione dovuta anche in caso di diffida ad adempiere (sul punto si registra l’orientamento costante di questa Corte). Le argomentazioni con le quali, infine, si contesta il difetto di prova sull’avvenuto pagamento da parte della venditrice di rate di mutuo (pagina 21 del ricorso), appaiono allora del tutto insufficienti, in quanto effettuate attraverso un mero rinvio a documenti, peraltro non indicati specificamente (si fa riferimento a “numerose lettere”), rispetto all’esplicita notazione della sentenza. ***, quindi, afferma, ma non prova, di aver estinto totalmente o parzialmente il mutuo (pagina 18 del ricorso). La questione dei vizi materiali resta quindi assorbita (al riguardo si può anche considerare, ad abundantiam, il tenore confessorio di quanto riportato al terzo motivo, dal quale si deduce che il pagamento delle rate di mutuo avviene nel 2007 dopo la sentenza di appello). Rassegna Forense - 3-4/2014 839 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Clausola risolutiva contratto preliminare di vendita immobili da costruire Infondato è anche il terzo motivo, col quale si deduce violazione di legge e vizio di motivazione sulla sentenza “sostitutiva” del contratto, perché si prospetta che essa non poteva essere disposta per difetto dell’offerta del mutuo. La questione non appare fondata, attesa la disponibilità dichiarata dal promittente acquirente, seppure non sacramentale, al pagamento di tutto quanto dovuto. Il motivo, in via gradata, censura l’omessa statuizione sugli interessi (di ammortamento e di mora). Anche tale censura è infondata alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale se l’adempimento non è imputabile all’acquirente e l’obbligo a contrarre sia imputabile esclusivamente al promettente venditore, “non può il promissario acquirente essere obbligato a corrispondere anche gli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di corrispettivo” (Cass. 2012 n. 8171, rv 622431). E ciò anche perché la pattuizione in preliminare non è stata prevista a titolo di maggiorazione “compensativa” della svalutazione, secondo l’orientamento di questa Corte, secondo cui “La sentenza di esecuzione in forma specifica di un preliminare di vendita, resa ai sensi dell’art. 2932 c.c., è destinata ad attuare gli impegni assunti dalle parti, anche con riguardo all’ammontare del pretto, il quale, pertanto, deve essere quello fissato con il preliminare medesimo, restando esclusa, con riguardo alla sua natura di debito di valuta, la possibilità di una rivalutazione automatica per effetto del ritardo rispetto alla data prevista per la stipulazione del definitivo, salvo che i contraenti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano espressamente previsto delle maggiorazioni o dei correttivi per compensare la svalutazione monetaria durante il periodo del suddetto ritardo” (Cass. n. 15546 del 2013, Rv. 626898). Infine, va anche considerato che gli interessi di “prefinanziamento” sono ricompresi nell’importo stabilito dal c.t.u., come affermato dalla sentenza, e dunque non possono essere duplicati. 3. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 7.000 (settemila) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 dicembre 2013. Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2014. 840 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786 Nota a sentenza di Massimo D’Auria Sommario: 1. Il caso. - 2. Le questioni. - 2.1. La natura della convenzione di accollo. 2.2. Il rapporto tra accollo e vendita. - 2.3. Il rilievo giuridico attuale della disciplina degli immobili da costruire. - 2.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium. - 2.5. Sui limiti della sentenza costitutiva. - 3. I precedenti. - 3.1. La natura della convenzione di accollo. - 3.2. Il rapporto tra accollo e vendita. - 3.3. Il rilievo giuridico della disciplina degli immobili da costruire. - 3.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium. - 3.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva. - 4. La dottrina. - 4.1. La natura della convenzione di accollo. - 4.2. Sul collegamento negoziale. - 4.3. Il rilievo della disciplina degli immobili da costruire. - 4.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium. - 4.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva. 1. IL CASO La fattispecie sottoposta al giudizio della Cassazione riguarda l’interpretazione di una clausola risolutiva espressa prevista all’interno di un contratto preliminare di vendita di immobili da costruire. Scorrendo il testo del contratto si apprende che il prezzo sarebbe stato corrisposto in parte mediante pagamento rateizzato a stadio di avanzamento lavori, in parte mediante accollo del mutuo fondiario stipulato dal costruttore. Seppure immesso nel possesso del bene, il promissario acquirente rifiuta di pagare il residuo del prezzo, nonché di procedere all’accollo del mutuo. Perciò, il promittente venditore, avvalendosi dell’accennata clausola risolutiva espressa, dichiara risolto il contratto preliminare. Il problema ermeneutico riguarda l’individuazione della condotta inadempiente del promissario acquirente rilevante ai fini dell’applicazione della clausola risolutiva espressa. In particolare, occorre accertare se tra le condotte previste “sia contemplato anche il mancato rimborso delle quote di mutuo anticipatamente pagate dal costruttore”. La questione è decisiva perché dalle risultanze istruttorie emerge che l’importo pagato dal promissario acquirente alla società costruttrice era più di quanto fissato nel preliminare relativamente alla quota di prezzo da corrispondere a stadio avanzamento lavori. Nel passaggio teoricamente più significativo della motivazione, la Cassazione riferisce di una prassi operante nel mercato immobiliare secondo cui «occorre distinguere la valutazione giuridica dei pagamenti dei ratei dall’accollo del mutuo, nonostante entrambe siano componenti del prezzo». Alla stregua di tale indirizzo, poiché il promissario acquirente non può considerarsi inadempiente, avrà diritto, anche in assenza di formale offerta di accollarsi il mutuo, al trasferimento coattivo del bene, al netto della rivalutazione. Rassegna Forense - 3-4/2014 841 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Massimo D’Auria 2. LE QUESTIONI 2.1. La natura della convenzione di accollo Il riferimento ad una prassi esistente nel mercato immobiliare secondo cui l’esecuzione dell’accollo deve essere valutato in maniera distinta dal pagamento dei ratei di prezzo, merita di essere approfondito. Si tratta, invero, di una distinzione apparentemente contro intuitiva, dato che l’accollo del mutuo contratto dal promittente venditore da parte del promissario acquirente svolge la funzione di modalità alternativa di pagamento del prezzo. Analizzando gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali si scorge però la ragione di una sottile linea di discrimine nella valutazione delle due componenti del prezzo. Per comprenderla, occorre preliminarmente soffermarsi su alcuni dati rimasti impliciti nel ragionamento condotto dalla Corte. Quanto alla natura della convenzione preliminare di accollo stipulata tra le parti sottoposta al giudizio della Cassazione, questa appare avere programmaticamente natura interna. È solo il caso di rammentare la distinzione tra accollo con efficacia esterna, sia esso privativo o cumulativo, ed accollo semplice o interno. Nel caso di accollo esterno, l’unico disciplinato dal codice, poiché propone una deviazione dal principio di relatività degli effetti del contratto, l’operazione dovrà qualificarsi alla stregua di negozio a favore di terzo. Infatti, l’efficacia esterna della relativa convenzione contrattuale di assunzione del debito altrui dipende da un atto espresso di adesione del terzo creditore. Conseguentemente, laddove l’adesione del terzo non si concretizzi, l’accollo avrà natura meramente interna, giusto il richiamo al disposto di cui all’art. 1411, comma 3. L’accollo interno è, invece, istituto di origine dottrinaria. Il terzo creditore rimane estraneo all’operazione. Sicché, in caso d’inadempimento, l’accollante risponde solo nei confronti del proprio debitore, non anche del terzo, salva la possibilità dell’esercizio in via surrogatoria dell’azione di adempimento spettante all’accollato da parte del terzo creditore in caso d’inerzia del primo, o la cessione dell’azione. (Rescigno, Studi sull’accollo, Milano, 1958, 142; Id., Accollo, in Dig. civ., I, Torino, 1980, 40 ss. infra sez. IV). La convenzione di accollo esaminata dalla Corte accessoria al preliminare di vendita immobiliare, ha natura meramente interna. Conseguentemente, la sua esecuzione produrrà effetti, da un lato, estintivi dell’eventuale mutuo fondiario (e della relativa ipoteca eventualmente gravante sull’immobile), dall’altro liberatori in favore della società costruttrice nei confronti del terzo creditore. Dunque, l’operazione può qualificarsi come datio in solutum mediante cui l’accollante estingue un proprio debito nei confronti dell’accollato. 2.2. Il rapporto tra accollo e vendita Tornando al caso deciso dalla Cassazione, il dubbio ermeneutico è sorto perché, tra le condizioni di operatività della clausola risolutiva espressa era contemplato anche il mancato pagamento della quota di mutuo nonché «il versamento in conto e/o saldo dei rimborsi per le anticipazioni fatte dalla Promittente per allacciamenti e/o accessorie di mutuo». 842 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786 Secondo il promittente venditore, in base a tale disposizione, egli avrebbe avuto diritto anche al rimborso delle rate pagate prima della stipula del definitivo. La Corte ha, tuttavia, avuto buon gioco nel rilevare che il promittente venditore non ha allegato alcuna richiesta di rimborso indirizzata al promissario acquirente. Potrebbe sorgere il dubbio che, in presenza di un’allegazione congrua da parte della società costruttrice, la richiesta del promittente venditore avrebbe avuto migliore sorte. Del resto, in giurisprudenza il mancato accollo del mutuo può generare la risoluzione del contratto di vendita (Cass., 9 dicembre 1982, n. 6713, infra sez. III). Contro questo possibile esito, il dato più significativo dal punto di vista interpretativo, evidenziato dalla Corte, sta in ciò che il promissario acquirente aveva promesso di eseguire l’accollo “al momento della stipula del definitivo”. In tali casi, la giurisprudenza ritiene che la clausola di corresponsione di parte del prezzo mediante accollo del mutuo contempli due distinte pattuizioni. La prima riguarda le modalità di pagamento del prezzo, la seconda, integra la promessa di accollo del mutuo sottoposto alla condizione sospensiva della stipula del rogito. Non si tratta necessariamente d’instaurare un collegamento negoziale tra convenzione di accollo e compravendita per duplice ragione che la dimensione causale della prima si esaurisce nell’assunzione del debito altrui e che i motivi individuali per le quali si accede a tale operazione devono considerarsi irrilevanti (RESCIGNO, Studi sull’accollo, cit., 91). Semmai, tale impostazione conduce a ritenere che tali obblighi operano su piani diversi, il che giustifica la distinzione valutativa sul piano giuridico. Ed invero, gli effetti dell'accollo, salva pattuizione contraria, sono collegati al trasferimento della proprietà, sicché con la conseguenza che, nonostante l’avvenuta immissione nel possesso, l’adempimento della promessa di accollo non avrebbe comunque potuta essere pretesa prima della stipula del definitivo (Cass. 59/2002). D’altra parte, la somma oggetto dell'accollo, in quanto parte del prezzo, è in ogni caso dovuta al venditore, dunque anche se l'accollo non diviene operativo. Perciò, ove il promittente venditore paghi, in relazione ai termini di rateazione previsti dal contratto di mutuo, uno o più rate o addirittura tutte le rate del mutuo anteriormente al trasferimento della proprietà, avrà diritto al rimborso dal compratore dell'importo della quota capitale e degli interessi corrisposti al mutuante (sent. n. 2093/84). 2.3. Il rilievo giuridico attuale della disciplina degli immobili da costruire La previsione secondo cui l’accollo del mutuo è stato fissato al momento del rogito ha dispensato la Corte dal richiamare il proprio precedente secondo cui deve essere esclusa l’ammissibilità del rimborso delle somme pagate dall’accollato al creditore (sent. n. 821/1997). D’altro canto, sempre secondo la giurisprudenza, le parti possono convenire che il promissario acquirente sarà tenuto ad apprestare in anticipo al debitore i mezzi occorrenti per adempiere l’obbligazione presso il terzo, oppure a pagare di volta in volta direttamente il terzo creditore mutuante. Rassegna Forense - 3-4/2014 843 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Massimo D’Auria Quid iuris se le parti prevedono di anticipare gli esborsi a copertura delle rate di mutuo da parte del promissario acquirente in favore della società costruttrice?. La dottrina ha correttamente evidenziato come in tale ipotesi si dovrebbe ammettere un’anticipata esecuzione dell’obbligo di corrispondere il prezzo (SERRAO, Il contratto preliminare, Padova, 2002, 148). Ciò suggerisce di valutare l’ipotetica previsione contrattuale alla luce di un dato normativo ulteriore, non espressamente preso in considerazione dalla Corte anche perché non applicabile ratione temporis al caso di specie. Si tratta del D.Lgs. n. 122/2005 in materia di tutela degli acquirente di immobili da costruire ed in particolare dell’art. 2 in forza del quale il venditore ha l’obbligo di prestare garanzia fideiussoria per le somme di prezzo riscosse dalla società costruttrice nel periodo anteriore alla stipula del definitivo. Poiché, come detto, le somme riscosse dal venditore, non anche quelle direttamente pagate all’istituto di credito, ancorché siano volte a fornirgli la provvista per il pagamento del mutuo, costituiscono anticipato pagamento del prezzo, se ne deduce abbastanza agevolmente che esse dovranno essere garantite da fideiussione. Il suddetto dato normativo appare significativo perché suggerisce un ulteriore indice ermeneutico per la soluzione di casi inerenti l’individuazione dell’inadempimento rilevante ai fini della risoluzione contrattuale. Infatti, l’eventuale pretesa del costruttore di applicare la clausola risolutiva espressa nel caso in cui il promissario acquirente non gli fornisca i mezzi per pagare le rate di mutuo, “prima della stipula del definitivo”, potrebbe essere sindacata anche alla luce del canone ermeneutico di buona fede contrattuale, in assenza della consegna della fideiussione. 2.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium Al fine di potersi avvalere della clausola risolutiva espressa per sanzionare l’inadempimento del promissario acquirente nel procurare anticipatamente la provvista per adempiere al mutuo, la società costruttrice deve avere provveduto a fornire idonea fideiussione al promissario acquirente per gli importi corrispondenti. In assenza, la pretesa del promittente venditore di applicare la clausola risolutiva espressa, anche laddove contempli anche testualmente l’ipotesi del rimborso delle rate di mutuo, appare contraria al canone d buona fede interpretativa, contravvenendo in particolare al divieto di venire contra factum proprium. Il riferimento alla buona fede interpretativa appare tecnicamente appropriato. Anzitutto, perché il suo impiego consente d’individuare l’inadempimento rilevante nell’applicazione della clausola risolutiva espressa. Essa consente infatti di adottare una valutazione in concreto del modo in cui il rapporto contrattuale si è sviluppato tra le parti e nel rispetto della peculiare distribuzione dei rischi effettivamente condivisa. In secondo luogo, la buona fede interpretativa ha proprio la funzione di paralizzare richieste abusive che, sotto il pretesto di applicare cavillosamente 844 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786 il contratto, modificano di fatto la distribuzione del rischi programmati contrattualmente. Appare evidente che la richiesta avvalersi della clausola risolutiva espressa si fonda sull’elusione della protezione accordata dalla regola legale in favore del promissario acquirente. Il costruttore avrebbe ritratto un vantaggio abusivo addossando al promissario acquirente il rischio di dissesto dell’impresa costruttrice nelle more dell’edificazione dell’immobile, rischio non solo non espressamente contemplato dal contratto ma anche contrario allo standard legale di protezione in favore dell’acquirente di immobile da costruire. A chiusura dell’argomento, vale solo la pena evidenziare che la disciplina richiamata orienta le parti, ed in particolare la società costruttrice, verso la previsione di accollo del mutuo contestuale al trasferimento dell’immobile. In tale modo, infatti, la società eviterà l’iscrizione in bilancio di una fideiussione bancaria d’importo sicuramente superiore, con conseguente appesantimento del bilancio. D’altro canto, la giurisprudenza pare orientata ad applicare il disposto dell’art. 1273, comma 4, c.c. anche nel caso di accollo del mutuo contestuale alla stipula del preliminare, nel qual caso l’istituto mutuante ha la possibilità di aderire alla convenzione di accollo fino alla stipula del definitivo per obbligare nei suoi confronti anche l’accollante. Tuttavia, in caso d’inadempimento del venditore nel pagamento delle rate di mutuo, l’acquirente potrà sollevare la relativa eccezione d’inadempimento nei confronti del terzo mutuante (Trib. Reggio Emilia, 24 marzo 2006, infra sez. III). Peraltro, laddove dovesse sopravvenire la crisi della società costruttrice, il promissario acquirente, domandando la risoluzione del contratto preliminare di compravendita, potrà ottenere anche la caducazione dell’accollo del mutuo, con diritto di ripetere le somme eventualmente versate all’istituto di credito. In sostanza, poiché l’istituto di credito si accolla il rischio del dissesto dell’impresa mutuataria, ciò suggerisce, quantomeno al ceto bancario, di non strutturare l’operazione in termini di accollo esterno. 2.5. Sui limiti della sentenza costitutiva La sentenza si chiude affrontando due ulteriori questioni inerenti i limiti che incontra la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. In particolare, occorre soffermarsi sul concetto di offerta nei modi di legge stabilito dall’art. 2932, comma 2, c.c. e sulla natura di debito di valuta dell’obbligazione di pagamento del prezzo fissato nel preliminare. Entrambe le questioni devono essere valutate alla luce dell’orientamento che fa divieto al giudice di pronuncia sostitutiva. In virtù del suddetto principio, la giurisprudenza ha evidenziato come l’offerta di accollo del mutuo non possa astrattamente essere sostituita dall’offerta di pagamento dell’equivalente in denaro. Tuttavia, secondo un diverso itinerario ricostruttivo, ormai accreditato in giurisprudenza, l’offerta di pagamento nei termini stabiliti dal contratto preliminare, deve ritenersi implicita nella domanda di esecuzione in forma specifica. Infatti, la sentenza costituiva del giudice deve essere comunque condizionata all’adempimento della controprestazione (sent. n. 16881/2007). Rassegna Forense - 3-4/2014 845 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Massimo D’Auria L’ammissibilità di pronuncia c.d. condizionata costituisce orientamento condiviso dalla dottrina (SERRAO, Il contratto preliminare, cit., 147). Perciò, quanto alla prima doglianza, la Cassazione osserva che, in realtà, il promissario acquirente aveva espresso, seppure in maniera non sacramentale, di pagare quanto eventualmente dovuto e poiché l’accollo del mutuo era fissato al momento del definitivo, non vi è ragione di onerarlo all’offerta formale. Quanto alla rivalutazione del prezzo, la Corte rigetta anche questa doglianza sul rilievo che questa non è dovuta stante la natura di debito di valuta del prezzo fissato nel contratto preliminare. A tale riguardo, la Corte osserva che, essendo l’inadempimento non imputabile al promissario acquirente, costui non sarà tenuto a corrispondere gli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di corrispettivo (sent. n. 8171/2012). D’altra parte proprio perché la sentenza è attuativa del regolamento previsto dalle parti nel preliminare, laddove esse non abbiano previsto correttivi per rendere operante la rivalutazione in caso di ritardo nella stipula del definitivo, allora la natura di debito di valuta del prezzo fissato nel preliminare impedisce l’innesco di automatiche forme di rivalutazione (sent. n. 15546/2013). Del resto, la qualificazione della prestazione avente ad oggetto il pagamento del prezzo fissato nel preliminare come debito avente natura di valuta non è che uno svolgimento del divieto in capo al giudice d’introdurre varianti al preliminare (Cass. 6 agosto 1990, n. 7907, infra sez. III). 3. I PRECEDENTI 3.1. La natura della convenzione di accollo Sulla distinzione tra accollo interno ed esterno si veda Cass., 8 luglio 1983, n. 4618, in Mass. Giust. civ., 1983, 7; Cass., 1 agosto 1996, n. 6936, in Mass. Giust. civ., 1996, 1091. La distinzione tra accollo esterno ed interno discende da un accertamento ermeneutico del giudice secondo Cass., 24 febbraio 1982, n. 1180, in Mass. Giust. civ., 1982, 2. Sulla configurazione dell’accollo con efficacia esterna nei termini di negozio a favore di terzi si veda Cass., 11 aprile 2000, n. 4604, in Mass. Giust. civ., 2000, 783; Cass., 23 febbraio 1979, n. 1217, in Giust. civ., 1979, 1, 1254; Cass., 21 giugno 1979, n. 3479, in Mass. Giust. civ., 1979, 6.; Cass, 26 agosto 1997, n. 8044, in Mass. Giust. civ., 1997, 1523. Per un’ipotesi di applicazione dell’art. 1273, comma 4, c.c. Trib. Reggio Emilia 24 marzo 2006, in Obbl. e Contr., 2007, 5, 460). 3.2. Il rapporto tra accollo e vendita Sulla disciplina dei rapporti tra accollo e vendita si veda Cass., 26 agosto 1997, n. 8044, in Mass. Giust. civ., 1997, 1523; Cass., 11 aprile 2000, n. 4604, in Mass. Giust. civ., 2000, 783. Seppure in fattispecie differenti, in una prospettiva causalistica si pongono Cass., 8 luglio 1983, n. 4618, in Mass. Giust. civ., 1983, 7, che non esclude che l’accollo interno possa integrare, in talune ipotesi, una tipica donazione obbligatoria; nonché Cass., 30 marzo 2006, n. 7507, in Vita not., 2007, 1, 188 che ravvisa una donazione diretta 846 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786 nell’accollo del mutuo contratto dalla figlia da parte del padre; Cass., 11 ottobre 1978, n. 4550, in Riv. not., 1978, 1341; contra Cass., 8 luglio 1983, n. 4618, in Giur. it., 1983, I, 1, 1792. Sulla risoluzione per mancato pagamento mediante accollo Cass., 9 dicembre 1982, n. 6713, in Mass. Giust. civ., 1982, 12; Cass., 30 marzo 1984, n. 2093, in Riv. giur. edilizia, 1985, I, 587. Sull’accollo come modalità alternativa di pagamento del prezzo si vedano in sede tributaria Comm. trib. centr., SS.UU., 3 maggio 1984, n. 4179, in Comm. trib. centr., 1984, I, 281; Comm. trib. I gr. di Milano, 30 gennaio 1985, in Riv. dott. comm., 1986, 364. L’indice dell’immissione in possesso potrebbe non essere privo di rilevanza sotto il profilo della gravità dell’inadempimento Cass., 17 agosto 2011, n. 17328, in Mass. Giust. civ., 2011, 7-8, 1171. 3.3. Il rilievo giuridico della disciplina degli immobili da costruire Sui presupposti di applicazione della disciplina si veda Cass., 10 marzo 2011, n. 5749, in Rass. dir. civ., 2012, 4, 1235. 3.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium Sulla possibilità di anticipare l’accollo del mutuo rispetto al definitivo Cass., 1 agosto 1996, n. 6939, in Mass. Giust. civ., 1996, 1091. Sul divieto di pretendere il rimborso delle somme corrisposte al creditore Cass., 27 gennaio 1997, n. 821, in Mass. Giust. civ., 1997, 140. Sull’onere della prova si veda Cass., 9 maggio 2011, n. 10172, ined., secondo cui la prova dell’avvenuto pagamento delle rate di mutuo già scadute tra la data del preliminare e la stipula del definitivo deve essere fornita dal venditore. Sul divieto di venire contra factum proprium Cass., 12 febbraio 1992, n. 1715, in Giust. civ., 1993, I, 504; Cass., 7 marzo 2007, n. 5273, in Dir. giust. online, secondo cui il riferimento al divieto di venire contra factum proprium è idoneo a paralizzare l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte o giustificando il rigetto della domanda giudiziale fondata sul medesimo. 3.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva Sulla natura implicita dell’offerta di pagamento del prezzo contestuale alla stipula del definitivo Cass., 21 aprile 1979, n. 2230, in Mass. Giust. civ., 1979, 4. Cass., 31 luglio 2007, n. 16881, in Mass. Giust. civ., 2007, 9. Sul concetto di offerta nei modi di legge di cui all’art. 2932, comma 2, c.c. si vedano Cass., 16 marzo 2006 n. 5875, in Mass. Giur. it., 2006, nonché in Guida dir., 2006, 22, 47 ss.; Cass, 13 dicembre 2007, n. 26226, in Contratti, 2008, 7, 665 con nota di A. Barba; Cass., 15 ottobre 2008, n. 25185, in Obbl. e Contr., 2009, 12, 972 con nota di Tomassetti. Il pagamento del prezzo è solo un presupposto per l’efficacia della sentenza costitutiva secondo Cass., 21 aprile 1979, n. 2230, in Mass. Giust. civ., 1979, 4; perciò, ritiene implicita l’offerta di pagamento del prezzo Cass., 31 luglio 2007, n. 16881, in Mass. Giust. civ., 2007, 9; Cass., 28 luglio 2010 n. 17688, in Contratti, 2011, 2, 136 con nota di Mastandrea. Rassegna Forense - 3-4/2014 847 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Massimo D’Auria Sulla possibilità di pronuncia condizionata ex art. 2932 c.c. si vedano Cass., 4 gennaio 2002, n. 59, in Contratti, 2002, 660 con nota di Tagliaferri; Cass., 29 novembre 1984, n. 6258, in Mass. Giust. civ., 1984, 11; Cass., 27 aprile 1996, n. 3926, in Mass. Giust. civ., 1996, 641. Naturalmente, la condizione attiene al trasferimento del diritto e non all’obbligo di consegna, ragione per cui non sussiste la possibilità di subordinare il pagamento del prezzo alla consegna dell’immobile secondo Cass., 27 dicembre 2012, n. 11195, in Mass. Giust. civ., 1994, 12. Da ultimo, Trib. Lucca, 2 luglio 2013, n. 783, in DeJure, secondo cui, al fine di salvaguardare l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni, ha subordinato il pagamento del residuo del prezzo all’estinzione dell’ipoteca ancora iscritta sull’immobile compravenduto da parte del promittente alienante. Cass., 21 ottobre 2011 n. 21896; Cass., 29 agosto 2011 n. 17717; Cass., 23 febbraio 2001 n. 2661, in Giur. it., 2001, 1824, con nota di Corriero. Sulla possibilità di soddisfare il venditore in sede di esecuzione in forma specifica non già mediante l’esecuzione dell’accollo del mutuo ma mediante la corresponsione in denaro dell’importo corrispondente Cass., 24 giugno 1993, n. 6990, in Mass. Giust. civ., 1993, 1073; contra Cass., 6 agosto 1990, n. 7907, in Giur. it., 1991, I, 1, 7971, in applicazione del principio di non modificabilità del contratto preliminare. Nonché, sull’impossibilità da parte del debitore di scegliere l’imputazione del pagamento ad una modalità piuttosto che un’altra di pagamento (denaro o accollo) poiché, trattandosi comunque di prezzo dell’immobile, la facoltà di scelta è preclusa essendo l’istituto dell’imputazione previsto per pluralità di crediti tra le stesse parti aventi causa e titolo diversi Cass., 23 marzo 1998, n. 3077, in Mass. Giust. civ., 1998, 644. Sulla esclusione di interessi legali sul corrispettivo laddove la mancata stipula del definitivo sia dovuta a colpa del promittente venditore, si veda Cass., 23 maggio 2012, n. 8171, in Mass. Giust. civ., 2012, 5, 660; App. Roma, 3 ottobre 2011, in Guida dir., 2011, 47, 83. Sulla esclusione della rivalutazione automatica del prezzo si veda Cass., 20 luglio 2013, n. 15546, in Mass. Giust. civ., 2013; Cass., 18 luglio 2011, n. 15734, in Mass. Giust. civ., 2011, 7-8, 1081; Cass., 14 marzo 1998, n. 2441, in Mass. Giust. Civ., 1998, 3; nonché in termini Cass., 14 marzo 1988, n. 2441, inedita; sul fondamento di tale indicazione, ritrovato nel principio di identità del bene tra preliminare e definitivo si veda Cass., 25 febbraio 2003, n. 2824, in Riv. not., 2004, II, 222.; Cass., 20 gennaio 2010, n. 937, in juris data. 4. LA DOTTRINA 4.1. La natura della convenzione di accollo Sulla differenza rispetto all’accollo esterno, si vedano R. CICALA, Accollo (dir. priv.), in Enc. dir., I, Milano, 1958, passim.; RESCIGNO, Studi sull’accollo, Milano, 1958, 142; ID., Accollo, in Dig. civ., I, Torino, 1980, 40 ss.; LA PORTA, L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu-Messineo, diretto da Mengoni e cont. da Schlesinger, Milano, 2009, 223, in nota 64, secondo cui l’accollo di mutuo è solo un modo di atteggiarsi dell’obbligo di pagare il prezzo di vendita 848 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nota a sentenza Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2014, n. 6786 per effetto della specifica deviazione operata dal venditore stipulante. Di talché, laddove tale deviazione sia divenuta inefficace, l’acquirente resta comunque obbligato al pagamento del prezzo verso il venditore. Si veda anche PICCININI, L’atto di adesione del creditore all’accollo esterno privativo tra criteri interpretativi e produzione in giudizio dell’accordo, in Giur. mer., 2011, 10, 2366, in nota a Trib. Bologna, 28 giugno 2010, 1909. 4.2. Sul collegamento negoziale Si esprimono nel senso del collegamento negoziale ROPPO, Il contratto, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudica Zatti, Milano, 2011, 353 ss.; QUATRARO, DIMUNDO, La verifica dei crediti, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, 4, 144; TAFURI, Fideiussione ed assunzione del debito altrui, in Riv. not., 6, 1996, 1417; contra BISCONTINI, Assunzione del debitore garanzia del credito, Napoli, 1993, 58 secondo cui l’accollo si configura come una vicenda modificativa che non realizza alcuna causa ulteriore rispetto all’assunzione del debito altrui. 4.3. Il rilievo della disciplina degli immobili da costruire FERRUCCI, FERRENTINO, AMORESANO, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, Milano, 2008, 168 ss. Specificamente sui riflessi della disciplina ed accollo del mutuo fondiario si vedano Morano, CHIAIA, Problemi critici dell’accollo di credito fondiario e riflessi nel bilancio d’esercizio dell’impresa costruttrice, in Riv. not., 2005, 1, 1 ss. i quali sottolineano criticamente come nella prassi la concessione dell’accollo da parte dell’istituto di credito avviene generalmente in via cumulativa e non liberatoria; TORRONI, Il D.lgs. n. 122 del 2005 letto con la lente del costruttore, in Riv. not., 2007, 4, 879 ss. Sulla necessità di una fideiussione che contempli anche le somme rimborsate dal promissario acquirente al promittente venditore a scadenza delle rate di mutuo si vedano PAOLINI, RUOTOLO, Alcuni aspetti problematici nel decreto legislativo in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in Riv. not., 2005, 4., 887; RIZZI, La nuova disciplina di tutela dell’acquirente di immobili da costruire nella bozza di decreto legislativo di attuazione della legge delega 210/2004, in Notariato, 2005, 443; più in generale sull’obbligo legale di fideiussione si vedano ORLANDO, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, in Contratti, 2011, 661; DI ROSA, Circolazione immobiliare e contrattazione preliminare, in Riv. dir. civ., 2011, 107; DELLE MONACHE, La garanzia fideiussoria negli acquisti di immobile da costruire (fra obbligo e onere), in Resp. civ. prev., 2009, 613; PALERMO, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, in Giust. civ., 2008, I, 319. 4.4. Buona fede interpretativa e divieto di venire contra factum proprium Sulla buona fede come criterio di individuazione del contenuto della prestazione si veda in particolare RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, 160 ss. E per la distinzione rispetto alla diligenza, che è misura della responsabilità, si vedano ALPA, Pretese del creditore e normative di cor- Rassegna Forense - 3-4/2014 849 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Massimo D’Auria rettezza, in Riv. dir. comm., 1971, I, 287; FERRANDO, Criteri di diligenza e clausola di buona fede, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 835. Sul rapporto tra distribuzione del rischio ed interpretazione secondo buona fede si vedano COSTANZA, Profili dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, Milano, 1989, 111 ss.; ID., Interpretazione dei negozi di diritto privato, in Dig. civ., X, Torino, 1993, 25 ss.; D’ANGELO, Contratto e operazione economica, Torino, 1992, 233. Per una ricognizione generale del significato del divieto di venire contra factum proprium FESTI, Il divieto di venire contro il fatto proprio, Milano, 2007, 19, 84; SCARSO, Venire contra factum proprium e responsabilità, in Resp. Civ. prev., 2009, 3, 513 ss.; CATTANEO, Buona fede obiettiva ed abuso del diritto, in Riv. trim dir. proc. civ., 1971, 636, 637 segnala l’esigenza di fattispecie tipiche che orientino la valutazione di coerenza dei comportamenti a fini giudiziali. Sulla complessità della valutazione della buona fede e sulla idoneità ad accogliere il giudizio di non contraddizione o dovere di coerenza, si veda RESCIGNO, Rimeditazioni sulla buona fede: omaggio ad Alberto Burdese, in GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica e storica contemporanea, IV, Padova, 2003, 567. ASTONE, Venire contra factum proprium, Napoli, 2006, 59; rispetto ad ulteriori indici ermeneutici SICCHIERO, L’interpretazione del contratto ed il principio “nemo contra factum proprium venire potest”, in Contr. Impr., 2003, 507 ss., spec. 511 e 517. Più in generale sul rapporto con il tema dell’interpretazione contrattuale, si veda CAPODANNO, L’interpretazione del contratto, Padova, 2006, 85 ss. 4.5. Sui limiti della pronuncia costitutiva Sul concetto di offerta ex art. 2932, comma 2, c.c., si veda Rossi, Offerta di adempimento e sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., in Obbl. e Contr., 2009, 8-9, 722; Mastrandrea, Esecuzione in forma specifica ed offerta di adempimento della contro-prestazione, in Contratti, 2011, 2, 136; Tagliaferri, Promessa di vendita ed esigibilità della controprestazione, in Contratti, 2002, 7, 660, nonché A. Venturelli, L'ambito di operatività dell'art. 2932, 2° co., c.c.: la «esigibilità» della prestazione, in Obbl. e Contr., 2011, 1, 40. Sul tema dell’inammissibilità di automatica rivalutazione si veda Santarsiere, Sentenza dichiarativa degli effetti del preliminare di vendita. Non è inficiata dalla nullità formale di esso né tiene conto della rivalutazione del prezzo, in Giur. mer., 2012, 5, 1061. 850 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 279. Sulla natura di giudice speciale del Consiglio nazionale forense e sulla riserva di legge in materia, con conseguente inammissibilità di operazioni di “delegificazione”. Cass. civ., SS.UU., sentenza 29 maggio 2014, n. 12064 - Primo Pres. f.f. MIANI CANEVARI - Pres. sez. ROSELLI - Pres. sez. RORDORF - Rel. SAN GIORGIO Il Consiglio Nazionale Forense (C.N.F.), quale organo di giustizia disciplinare, è un giudice speciale, istituito con il d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione. Ne consegue che la disciplina della funzione giurisdizionale del C.N.F. è coperta, anche per quanto attiene al momento della formazione dell’organo, da riserva assoluta di legge ex art. 108, primo comma, Cost., e non può essere affidata alla regolamentazione governativa, ragion per cui l’art. 3, comma 5, lett. f), del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 - in forza del quale con apposito regolamento vanno istituiti a livello territoriale separati organi per l’esercizio delle funzioni amministrative e disciplinari - non si applica al C.N.F. nella sua veste di organo disciplinare. FATTO 1.- Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza depositata il 22 aprile 2013, ha rigettato il ricorso proposto dall’avv. M. G.K. avverso la decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Pisa che le aveva inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per un anno in relazione a due procedure disciplinari, l’una relativa all’acquisizione di pagamenti da un cliente in difetto di alcuna attività professionale, l’altra per negligenza nella conduzione di un procedimento di divorzio. Con riguardo, in particolare, per quanto rileva nella presente sede, alla censura avente ad oggetto il vizio di costituzione del giudice per effetto del D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, conv., con modif., nella L. n. 148 del 2011, che ha autorizzato la emanazione di un regolamento governativo per la riforma degli ordinamenti professionali, prevedendo, tra l’altro, un organo nazionale di disciplina diverso da quello avente funzioni amministrative - regolamento adottato con D.P.R. n. 137 del 2012 - il C.N.F. ha escluso che le predette disposizioni siano applicabili ad esso, che opera n veste di giudice speciale, ed è, quindi, soggetto a riserva assoluta di legge ai sensi dell’art. 108 della Costituzione, con conseguente irrilevanza anche della questione di legittimità costituzionale del R.D. n. 1578 del 1933, art. 54, eccepita dalla ricorrente, questione peraltro ritenuta manifestamente infondata nel merito, avuto riguardo alla terzietà ed imparzialità del C.N.F., riconosciuta anche dalla Corte costituzionale. Rassegna Forense - 3-4/2014 851 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Natura di giudice speciale del Consiglio nazionale forense 2. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’avv. M. G. sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso il COA di Pisa, che ha anche depositato memoria illustrativa. DIRITTO 1. - Con la prima doglianza si deduce “violazione di legge: violazione del D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, lett. f), - violazione del D.P.R. n. 137 del 2012, art. 8, comma 7, - nullità del processo per vizio di costituzione e/o capacità del giudice - incompetenza del giudicante - incompatibilità del giudice adito - violazione dei principi di terzietà ed imparzialità del giudice - violazione dell’art. 111 della Costituzione”. Si censura la decisione adottata dal CNF sul punto della contestata nullità del processo per vizio di costituzione e/o capacità del giudice. Richiamato il tenore del D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, conv. in L. n. 148 del 2011, il quale ha stabilito l’obbligo di riformare gli ordinamenti professionali entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge mediante lo strumento del decreto del Presidente della Repubblica ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 2, (adottato con d.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, recante riforma degli ordinamenti professionali), e ricordata, in particolare, il citato art. 3, comma 5, lett. f), - a norma del quale gli ordinamenti professionali devono prevedere l’istituzione di organi a livello territoriale diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali vanno specificamente affidate l’istruzione e la decisione delle questioni disciplinari e di un organo nazionale di disciplina la difesa della ricorrente rileva che il CNF ha omesso di adottare il regolamento che avrebbe dovuto, alla stregua della invocata normativa, separare stabilmente le funzioni dei propri componenti. Si sottolinea nel ricorso la erroneità della tesi al riguardo sostenuta nella sentenza impugnata, là dove essa afferma che il predetto D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, riguarderebbe solo i Consigli Nazionali operanti in veste amministrativa, e non quelli che, come il CNF, operano quali giudici speciali, garantiti da riserva assoluta di legge. Secondo la difesa della ricorrente, invece, la norma richiamata, nell’imporre la separazione tra funzione disciplinare e funzione di amministrazione degli Ordini professionali, si rivolge in modo indifferenziato ad ogni consiglio locale e nazionale di ciascuna professione, con la sola esclusione di quella sanitaria. Tale previsione non contrasterebbe con la riserva di legge di cui all’art. 108 Cost., essendo stato il principio della incompatibilità della funzione giurisdizionale con quella amministrativa del giudicante dell’Ordine professionale stabilito in una norma di legge, andata ben oltre il principio di delegificazione nel perseguire obiettivi primari e comuni ai diversi contesti professionali. Del resto, anche a voler ammettere che illegittimamente, perché in contrasto con la riserva assoluta di legge di cui all’art. 108 Cost., si sia realizzato un trasferimento della disciplina della materia de qua dalla sede legislativa a quella regolamentare, si dovrebbe comunque giungere alla conclusione che il CNF, nella specie, non avrebbe potuto che adeguarsi al disposto normativo in attesa di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale del D.L. n. 138 del 2011, per contrasto con l’art. 108 Cost. 2. - La doglianza risulta immeritevole di accoglimento. 852 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 2.1. - Come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (v., di recente, Cass. S.U., sent. n. 27268 del 2013, e, in precedenza, Cass., S.U., sentt. n. 16349 del 2010, n. 1732 del 2002), e dalla stessa Corte costituzionale (sent. n. 114 del 1970; arg. altresì ex sent. n. 284 del 1986, pur pronunciata con riguardo al Consiglio nazionale dei geometri), il Consiglio Nazionale Forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale, istituito con D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione. Le norme che concernono il predetto Organo, nel disciplinare la nomina dei componenti dello stesso ed il procedimento che innanzi ad esso si svolge, assicurano, per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, della osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M., il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia con riguardo alla garanzia del diritto di difesa e all’indipendenza del giudice, che consiste nella autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza. Né sul requisito in esame può influire la circostanza che i componenti del Consiglio Nazionale Forense appartengano all’ordine di professionisti nei confronti dei quali il detto organo deve esercitare le sue funzioni, poiché il tratto caratteristico della c.d. giurisdizione professionale è dato proprio dalla vasta partecipazione - anche indiretta tramite il sistema elettivo, garanzia di per se stesso della democraticità del sistema e costituzionalmente legittimo (cfr. art. 106 Cost., comma 2) - dei medesimi soggetti appartenenti alla categoria interessata, partecipazione che è giustificata dalla specifica idoneità dei singoli componenti il Collegio a pronunziarsi nella materia disciplinare, attinente, in sostanza, alle regole di deontologia professionale che l’Ordine ha ritenuto di dare a se stesso ed ai propri appartenenti riconoscendone la validità e la conformità alla communis opinio in un determinato momento storico ed in un determinato contesto sociale. 2.2. - Ne consegue che la disciplina della funzione giurisdizionale del CNF, anche per quanto attiene al momento della formazione dell’organo, è coperta da riserva assoluta di legge ex art. 108, primo comma, della Costituzione, e non può essere affidata alla regolamentazione governativa. Deve, dunque, concludersi che il D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, lett. f), non trova applicazione con riferimento al CNF nella sua veste di organo disciplinare. Non a caso la legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, all’art. 34, nel regolare la composizione del predetto Organo, richiama il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 52 e segg., e il R.D. n. 37 del 1934, art. 59 e segg., e, all’art. 38, che disciplina la eleggibilità e le incompatibilità dei componenti del CNF, non opera alcun riferimento alla separazione delle funzioni amministrative da quelle giurisdizionali. 3. - Le considerazioni svolte sub 2.1. danno altresì conto della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata, in riferimento all’art. 111 Cost., commi 1 e 2, con il secondo motivo di ricorso, degli artt. da 52 a 56, e, segnatamente, del R.D. n. 1578 del 1933, art. 54, e del D.Lgs.Lgt. n. 382 del 1944, artt. 14 e 21, per la mancata esclusione del Rassegna Forense - 3-4/2014 853 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Natura di giudice speciale del Consiglio nazionale forense congiunto esercizio delle funzioni giurisdizionali ed amministrative in capo ai componenti del C.N.F. Secondo la difesa della ricorrente il Consiglio Nazionale Forense sarebbe un giudice privo dei requisiti della terzietà e della imparzialità. Al riguardo, oltre a quanto già supra rilevato, giova richiamare quanto chiarito con la sentenza n. 284 del 1986, con riguardo, in via generale, alle giurisdizioni “professionali”, dalla Corte costituzionale, che, in detta occasione, ebbe ad osservare, tra l’altro, che la giurisdizione professionale è conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati e che, in particolare, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, chiamata ad esaminare il medesimo problema (pur se, naturalmente, rispetto a una fonte normativa diversa e cioè all’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata in Italia con L. 4 agosto 1955 n. 848), aveva riconosciuto, rispetto ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei medici belgi, la sussistenza del requisito dell’indipendenza degli organi della giurisdizione professionale (sent. 23 giugno 1981, nel caso Le Compte, Van Leuven, De Meyere e sent. 10 febbraio 1983, nel caso Albert e Le Compte). Di tali decisioni il giudice delle leggi ricordò anche l’importante notazione, indubbiamente da condividere, che i membri dei collegi professionali partecipano al giudizio non già come rappresentanti dell’ordine professionale, e quindi in una posizione incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale, bensì a titolo personale e perciò in una posizione di terzietà, analogamente a tutte le magistrature. Nella medesima sentenza la Corte chiarì anche che sulla legittimità costituzionale della normativa non poteva incidere la circostanza della spettanza in capo al Consiglio anche delle funzioni amministrative. In proposito - osservò il giudice delle leggi - non è pertinente la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto l’illegittimità di alcune giurisdizioni speciali a causa della coesistenza nello stesso organo di funzioni giurisdizionali e amministrative (cfr. sentt. n. 60 del 1969; n. 121 del 1970; n. 128 del 1974). Invero, secondo detta giurisprudenza, non è la semplice coesistenza delle due funzioni che menoma l’indipendenza del giudice (come la Corte ha espressamente ribadito nella sent. 73/1970), bensì il fatto che, nelle ipotesi considerate dalle decisioni suddette, le funzioni amministrative erano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, sicché era immanente il rischio che il potere dell’organo superiore potesse indirettamente estendersi anche alle funzioni giurisdizionali e potesse così in definitiva pregiudicare altresì l’indipendenza del giudice. Nella fattispecie, al contrario, le funzioni amministrative sono esercitate dal Consiglio senza che sussista un rapporto di subordinazione verso alcun altro soggetto e quindi in piena autonomia: con la evidente conseguenza che la loro coesistenza con quelle giurisdizionali non importa il rischio sopra menzionato e pertanto non incide sull’indipendenza del Consiglio stesso. 4. - Con il terzo motivo si denuncia la violazione del D.P.R. n. 247 del 2012, artt. 56, 59 e 65, eccependosi la prescrizione con riferimento al procedimento disciplinare n. 4 del 2007. In relazione a tale procedimento, si rileva che l’incarico alla ricorrente fu conferito l’8 ottobre 2002, e che, nel mese di 854 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza agosto del 2004 e nel mese di aprile del 2005, il mandante, in considerazione dei dubbi nutriti sul corretto operato della professionista, registrò due colloqui con la stessa. Dall’8 ottobre del 2002, ma anche dalla data della registrazione dell’agosto 2004, la ricorrente ritiene ampiamente violati i termini di cui all’art. 56, in combinato disposto con il D.P.R. n. 247 del 2012, art. 65, avuto riguardo alla data del deposito della decisione del CNF, intervenuto il 22 aprile 2013. 5. - La censura è inammissibile. Non chiarisce il ricorso la ragione per la quale dovrebbe aversi riguardo, ai fini in esame, alla prima e non già alla seconda delle registrazioni dei colloqui intercorsi tra la professionista ed il cliente, posto che la condotta denunciata era proseguita anche fino all’aprile del 2005 (data della seconda registrazione). In tal modo, la doglianza rimane generica sulla indicazione della data dalla quale dovrebbe decorrere nella specie il termine prescrizionale. Per di più, la genericità investe l’ulteriore profilo della mancata indicazione delle date della interruzione del periodo da considerare ai fini della prescrizione. 6. - Il ricorso deve, conclusivamente, essere rigettato. Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, devono, in applicazione del criterio della soccombenza, essere poste a carico della ricorrente. Risultando dagli atti che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1 quater, del testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato Legge di stabilità 2013). P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 17 dicembre 2013. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 855 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefania Gentile Nota a sentenza di Stefania Gentile GIURISDIZIONE SPECIALE E RIFORMA DELLE PROFESSIONI: LE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE CONFERMANO LA GIURISDIZIONE SPECIALE DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE I FATTI La vicenda da cui scaturisce la sentenza in commento trae origine da due distinti procedimenti disciplinari - poi riuniti davanti al CdO di Pisa - a carico di un Avvocato, aventi ad oggetto il primo l’acquisizione da parte del professionista di pagamenti da un cliente in difetto di attività professionale, e il secondo la condotta negligente dell’Avvocato nella conduzione di un procedimento di divorzio. Il CdO di Pisa, con decisione del 30 maggio del 2008, irrogava la sanzione della sospensione di un anno dall’esercizio della professione forense all’incolpato che ricorreva dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, avanzando preliminarmente due eccezioni e questioni pregiudiziali che investivano la giurisdizione speciale dello stesso CNF. Con sentenza depositata il 22 aprile 2013, il Consiglio confermava la sanzione della sospensione di un anno dall’esercizio della professione a carico dell’incolpato, il quale ricorreva davanti alla Corte di Cassazione. 1 Veniva nuovamente dedotta la presunta violazione dell’art. 3, comma 5 , lett. f), D.L. n. 138/2011 - Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo - convertito in Legge n. 148/2011, che stabilisce il principio in base al quale gli ordinamenti professionali devono prevedere l’istituzione di organi a livello territoriale diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali vanno affidate l’istruzione e la decisione delle questioni disciplinari, nonché l’istituzione di un organo nazionale di disciplina diverso da quello avente funzioni amministrative, e dell’art. 8, comma 7, D.P.R. n. 2 137/2012, che ha previsto l’istituzione dei consigli nazionali di disciplina . Secondo la ricostruzione offerta dal ricorrente l’art. 3, comma 5, lett. f), del D.L. citato sarebbe rivolto, in modo indifferenziato, ad ogni Consiglio 1 Che ha stabilito l’obbligo di riformare gli ordinamenti professionali entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge attraverso lo strumento del D.P.R. (ai sensi della Legge 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 2). 2 In argomento E. VENEZIANI, Il nuovo sistema disciplinare alla luce della riforma degli ordinamenti professionali (Commento a art. 8 d.p.r. 7 agosto 2012, n. 137), in Corriere trib., 2012, f. 37, 2840-2841. 856 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Giurisdizione speciale e riforma delle professioni locale e nazionale di ciascuna professione, con la sola esclusione di quella sanitaria. Conseguentemente con l’entrata in vigore del D.P.R. n. 137/2012 - che all’art. 8, comma 8, così prescrive: «I consiglieri dei consigli nazionali dell'ordine o collegio che esercitano funzioni disciplinari non possono esercitare funzioni amministrative. Per la ripartizione delle funzioni disciplinari ed amministrative tra i consiglieri, in applicazione di quanto disposto al periodo che precede, i consigli nazionali dell'ordine o collegio adottano regolamenti attuativi» - tutte le norme dei vari ordinamenti professionali incompatibili con lo stesso (tra cui l’art. 52, R.D. n. 1578/1933 e gli artt. 14 e 21, D.Lgs.Lgt. n. 382/1944) dovevano essere ritenute abrogate, e il CNF avrebbe dovuto adottare un regolamento attuativo volto a separare stabilmente le funzioni dei propri componenti. Il ricorrente eccepiva, pertanto, la nullità del processo dinanzi al Consiglio per vizio di costituzione e/o di capacità del giudice determinato dal sopravvenire, dopo la proposizione del ricorso, della produzione normativa sopradetta, che ha avuto l’effetto di innovare il quadro nell’ambito del quale deve svolgersi il giudizio disciplinare. Tutti i componenti del Consiglio, secondo l’incolpato, avrebbero dovuto essere ritenuti incompatibili a svolgere la funzione giurisdizionale, e mancando l’organo competente ad esercitare i poteri disciplinari, la funzione per esso prevista non poteva essere lecitamente surrogata da un organo diverso, e non più previsto dalla legge: il CNF avrebbe dovuto, pertanto, dichiarare la propria irregolare costituzione. Con la seconda eccezione il ricorrente, desumendo una presunta violazione dell’art. 111 della Costituzione in materia di giusto processo, sollevava dinanzi alla Corte di Cassazione questione di legittimità costituzionale delle norme dell’ordinamento forense, in particolare dell’art. 54, R.D. n. 1578/1933 e degli artt. 14 e 21, D.Lgs.Lgt. n. 382/1944, per la mancata esclusione del congiunto esercizio delle funzioni giurisdizionali ed amministrative in capo ai componenti del CNF: l’art. 3, comma 5, lett. f), D.L. n. 138/2011 disporrebbe anche con riferimento all’Organo nazionale dell’Avvocatura l’incompatibilità tra le due sopradette funzioni. La Corte di Cassazione - nella sua massima articolazione delle Sezioni Unite - con la sentenza del 29 maggio 2014, n. 12064 3 ha ritenuto entrambe le doglianze sollevate nel ricorso inammissibili. Il dato più interessante è che il Giudice di legittimità non solo ha chiarito ancora una volta l’orientamento già espresso in diverse occasioni dalla propria giurisprudenza sulla funzione giurisdizionale del CNF, ribadendone la piena legittimazione, ma ha precisato che la funzione giurisdizionale del Consiglio Nazionale Forense non può essere oggetto di delegificazione in quanto la Costituzione impone la riserva assoluta di legge con riferimento alla disciplina delle giurisdizioni. 3 Questa come le altre sentenze della Corte di Cassazione richiamate nella nota sono state reperite all’interno della banca dati Dejure. Rassegna Forense - 3-4/2014 857 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefania Gentile LA GIURISDIZIONE SPECIALE DEL CNF Con la sentenza in commento la Cassazione ha statuito che il Consiglio Nazionale Forense, quale organo di giustizia disciplinare, è un giudice speciale istituito con D.Lgs. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costitu4 zione . 5 Non è la prima volta che la giurisprudenza si esprime in tal senso . Con la pronuncia n. 27268 del 5 dicembre 2013, i giudici di legittimità avevano già avuto modo di chiarire che le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano - per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell'osservanza delle comuni regole processuali e dell'intervento del P.M. - il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all'indipendenza del giudice e alla 6 sua all'imparzialità . 7 Con una sentenza precedente la Cassazione aveva, inoltre, riferito sulla terzietà del Consiglio Nazionale Forense, assicurata dalla sua autonoma potestà decisionale e non condizionata da interferenze dirette o indirette di qualsiasi provenienza: il requisito della terzietà del giudice non può essere messo in discussione dalla circostanza che i componenti del CNF appartengono all’ordine dei professionisti nei confronti dei quali l’organo esercita le sue funzioni, in quanto la particolare connotazione della c.d. giurisdizione professionale dipende proprio dalla partecipazione all’interno di essa dei professionisti, giustificata dalla idoneità di questi soggetti a giudicare disciplinarmente le violazioni deontologiche che la stessa categoria ha previsto. 4 «Il termine per la revisione delle giurisdizioni speciali, stabilito dalla sesta disposizione transitoria della Costituzione, ha natura meramente ordinatoria e, anche dopo la scadenza di esso, è costituzionalmente legittimo il funzionamento degli organi di giurisdizione speciale, preesistenti alla Costituzione, per i quali non si sia provveduto alla revisione legislativa», così Cass., SS.UU., sentenza n. 109/1970. La Corte costituzionale con la sentenza n. 284/1986 ha confermato che il termine previsto per la revisione delle giurisdizioni speciali non è da considerare perentorio (questa come le altre sentenze della Corte cost. richiamate nella nota sono reperibili al seguente indirizzo http://www.cortecostituzionale.it). Sul punto vedasi anche Corte cost. sentenza n. 189/2001, con nota di G. COLAVITTI, La legittimazione a sollevare questione di costituzionalità e il principio pluralista. L’esercizio della professione di avvocato da parte di dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale: un approccio dubbio al tema del conflitto d’interessi, in Giur. cost., 2001, f. 4, 2647-2659. In giurisprudenza circa la natura di giudice speciale precostituzionale del CNF si veda Cass., SS.UU., sentenza n. 11833/2013. 5 In dottrina, tra i molti contributi sulla competenza giurisdizionale del CNF, si veda U. PERFETTI, Ordinamento e deontologia Forensi, Padova, 2011, 53 ss., e ID., Il disciplinare del Consiglio Nazionale Forense dopo la legge di riforma, in Prev. for., 2014, n. 1, 40 ss.; R. M. CREMONINI-A. SCHILLACI, Il Consiglio Nazionale Forense, in Riforma Forense, Officina del Diritto (collana), a cura di G. Colavitti-G. Gambogi, Padova, 2013, 81 ss. Sul requisito di indipendenza del CNF quale garanzia del corretto esercizio della funzione giurisdizionale, si veda Codice Commentato della deontologia Forense, a cura di F. Caia-A. G. Diana-V. Pecorella, Torino, 2012, 91. 6 In tal senso si veda anche Cass., SS.UU., sentenza n. 1732/2002 e Cass., SS.UU., sentenza n. 185/1992. 7 Cass., SS.UU., sentenza n. 16349/2010. 858 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Giurisdizione speciale e riforma delle professioni Sotto questo profilo rilevano, certamente, le concrete modalità di scelta dei componenti dell’organo giudicante al quale, nell’iter disciplinare, è attribuito un notevole margine di giudizio destinato al controllo del provvedimento sanzionatorio del COA. Secondo la normativa previgente, ma anche alla luce della riforma dell’ordinamento professionale di cui alla Legge n. 247/2012, il meccanismo di elezione dei componenti del CNF integra un sistema idoneo a selezionare soggetti il cui profilo è svincolato da condizionamenti e da interferenze nell’esercizio della funzione giurisdizionale, basato sull’elezione dei componenti dei COA, riuniti su base distrettuale, e a loro volta eletti dagli iscritti all’Albo. L’origine elettiva del CNF non determina alcun rapporto di dipendenza con le parti in causa, giacché la composizione collegiale dell’organo giudicante esclude qualsiasi attentato all’imparzialità nei confronti dell’elettore, garan8 tendone l’indipendenza e l’autonomia . Anche il Giudice delle Leggi si è più volte pronunciato sulla giurisdizione speciale dei Consigli Nazionali, quando giudicano in materia disciplinare: così nella sentenza n. 114/1970, ove è stato affermato che il CNF, a differenza dei singoli Consigli dell’Ordine, svolge, quando è chiamato a decidere sui ricorsi contro i provvedimenti adottati dai COA, funzione giurisdizionale per la tutela di un interesse pubblicistico, esterno e superiore a quello dell’interesse del gruppo professionale; nella sentenza n. 12/1971, ove la Corte con riferimento alla sezione disciplinare del CSM, ha avuto modo di precisare che il fatto di dover giudicare su soggetti appartenenti alla stessa categoria professionale non comporta, di per sé, l’incostituzionalità della giurisdizione disciplinare; nella sentenza n. 284/1986, che se pur pronunciata con riguardo al Consiglio nazionale dei geometri, ha statuito in via generale sulle giurisdizioni profes9 sionali (riconoscendo la natura giurisdizionale a quelle - come il CNF - anteriori alla Costituzione repubblicana), sulla legittimità del criterio elettivo costituzionalmente previsto dall’art. 106, comma 2, Cost., sulla possibilità di rielezione dei singoli componenti, sull'appartenenza degli stessi alla categoria professionale interessata, sulle modalità di funzionamento del procedimento siccome improntato al modello del processo civile; nella sentenza n. 10 189/2001 , in cui il Giudice delle Leggi ha riconosciuto in capo al CNF la qualità di giudice speciale e terzo anche all’atto di sottoporre questioni di legittimità costituzionale in relazione a norme di necessaria applicazione in processi 11 pendenti di fronte ad esso . 8 Così Cass., SS.UU., sentenza n. 17064/2011. Nella pronuncia richiamata il Giudice delle Leggi ha avuto modo di osservare, peraltro, che la giurisdizione professionale è conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati. 10 Sul punto vedasi la nota a sentenza di G. COLAVITTI, La legittimazione a sollevare questione di costituzionalità e il principio pluralista. L’esercizio della professione di avvocato da parte di dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale: un approccio dubbio al tema del conflitto d’interessi, sopra cit. 11 Sul CNF nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e nella giurisprudenza costituzionale, si veda G. ALPA, L'illecito deontologico e il procedimento disciplinare nell'ordinamento della professione forense, in Nuova giur. civ. comm., 2014, f. 4, 188 ss. 9 Rassegna Forense - 3-4/2014 859 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefania Gentile Tanto premesso, le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza in commento hanno ritenuto che la prima doglianza del ricorrente sulla presunta violazione dell’art. 3, comma 5, lett. f) D.L. n. 138/2011, e sulla presunta violazione dell’art. 8, comma 7, D.P.R. n. 137/2012 fosse immeritevole di accoglimento: il CNF è “giudice speciale” ai sensi e per gli effetti del combinato disposto della VI disp. trans. Cost. e dell’art. 102 Cost., sicché la disciplina che ne regola la composizione e le funzioni giurisdizionali è soggetta a riserva assoluta di legge ex art. 108 della Carta Costituzionale secondo cui «le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni altra magistratura sono stabilite con 12 legge» . La norma costituzionale prevede, pertanto, una tipica ipotesi di riserva assoluta di legge, con la necessaria conseguenza che la disciplina relativa alla funzione giurisdizionale del Consiglio Nazionale Forense, anche per quanto attiene al momento della formazione dell’organo ossia alla sua composizione, non può essere disciplinata né sottoposta alla regolamentazione governativa, e quindi ad alcun procedimento di delegificazione. Peraltro è la stessa norma che si assume violata nel ricorso, ovvero l’art. 8, comma 7, del Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali a circoscrivere la portata dell’innovazione legislativa ai soli Consigli nazionali che operano e decidono in via amministrativa. La relazione ministeriale di accompagnamento al sopraddetto Regolamento conferma il quadro descritto nella parte in cui si legge che: «la norma primaria detta un criterio di delegificazione che non sembra tener conto della natura della competenza disciplinare di quegli ordini professionali per i quali le funzioni in materia disciplinare sono previste dal legislatore alla stregua di una vera e propria competenza giurisdizionale (è il caso, a titolo di esempio, degli architetti, degli avvocati, dei chimici, dei geometri, degli ingegneri, dei periti industriali). È noto che le funzioni giudiziarie dei consigli nazionali sono ritenute compatibili con la Costituzione per la conservazione delle giurisdizioni speciali esistenti al 1° gennaio 1948. La Costituzione prevede che la materia della giurisdizione non possa venir disciplinata se non ad opera della legge ordinaria. Si tratta di una tipica ipotesi di riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, con la conseguenza che non può ritenersi che la previsione di legge abbia abilitato il Governo a regolamentare anche le funzioni giurisdizionali dei Consigli dell’ordine nazionali, dovendosi concludere che il regolamento sia sprovvisto, a riguardo, di ogni potestà d’intervento. Corollario di tale assunto è che la lettera f) dell’articolo 3, comma 5, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, può riferirsi in effetti ai soli procedimenti disciplinari 12 Cfr. Cons. Naz. For., sentenza 18 luglio 2013, n. 111 e Cons. Naz. For., sentenza 22 aprile 2013, n. 63: queste come le altre pronunce CNF richiamate nella nota sono disponibili all’interno della banca dati IPSOA (http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp). In arg. cfr. anche Cons. Naz. For., parere 10 aprile 2013, n. 30 sulla permanenza in capo agli Ordini della funzione disciplinare a seguito della complessa vicenda normativa determinata dalla successione temporale tra il processo di delegificazione prefigurato dall’art. 3, comma 5, D.L. n. 138/2011 e realizzato dal D.P.R. n. 137/2012 e l’entrata in vigore della nuova legge professionale forense, disponibile all’interno della banca dati IPSOA (http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp). 860 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Giurisdizione speciale e riforma delle professioni rimessi alla competenza di consigli che decidono in via amministrativa (come nel caso dei commercialisti ed esperti contabili: cfr. in Cass. n. 30785 del 2011)». Sulla base delle considerazioni che precedono, con la sentenza n. 12064 le Sezioni Unite hanno poi dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale - sollevata nel ricorso - di talune norme dell’ordinamento forense (art. 54, R.D. n. 1578/1933, artt. 14 e 21, D.Lgs.Lgt. n. 382/1944) per presunta violazione dell’art. 111 della Carta Costituzionale. L’effetto di incostituzionalità sarebbe scaturito, secondo la ricostruzione offerta dal ricorrente, dall’art. 3, comma 5, lett. f), D.L. n. 138/2011, che nell’ambito di un programma di riforma in materia di ordinamenti professionali ha disposto l’incompatibilità tra la carica di Consigliere nazionale e quella di membro del Consiglio Nazionale di disciplina: il CNF si sarebbe, perciò, avvalso di competenze tra loro eterogenee ed incompatibili che lo avrebbero reso un giudice né terzo né imparziale, in violazione dei principi della legge. Nella sentenza in commento il Giudice di legittimità ha stabilito che il richiamo all’art. 3, comma 5, lett. f), del D.L. citato è del tutto irrilevante, in quanto la norma non è applicabile al Consiglio Nazionale Forense, la cui terzietà ed imparzialità è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza tanto ordinaria quanto costituzionale. Si rammenti che nella sentenza n. 284/1986 il Giudice delle Leggi ha con13 fermato quell’orientamento della Corte Costituzionale secondo cui la speciale circostanza della coesistenza tra funzioni amministrative e giurisdizionali non è idonea ad escludere, di per sé, il requisito dell’indipendenza dell’organo giudicante (si pensi ad esempio al Consiglio di Stato o anche al CSM ed alla sua sezione disciplinare). Sostanzialmente la peculiare posizione di giudice speciale vale da sola ad 14 escludere condizionamenti da parte di organi amministrativi . Peraltro è stata la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo a pronunciarsi in materia di indipendenza della giurisdizione professionale, e ad affermare che i membri dei collegi professionali partecipano al giudizio disciplinare non già come rappresentanti dell’ordine professionale - e quindi in una posizione incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale - bensì a titolo personale, in una posizione di terzietà, analogamente a tutte le altre magi15 strature . In conclusione non v’è dubbio alcuno sulla natura del Consiglio Nazionale Forense: a confermare la sua giurisdizione speciale, in virtù del combinato disposto dell’art. 102 Cost. e della VI disposizione transitoria della Cost., è 13 Così Corte cost. sentenza n. 73/1970. In tal senso si veda Corte cost. sentenza n. 284 del 1986, cit.; Cass., SS.UU., sentenza 23 marzo 2005, n. 6213 in Dir. e giustizia, con nota di G. COLAVITTI; in senso conforme Cons. Naz. For., sentenza 10 giugno 2014, n. 87, 111/2013 cit., 63/2013 cit. 15 La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha esaminato il problema dell’indipendenza della giurisdizione professionale rispetto all’art. 6 della CEDU, riconoscendo la sussistenza del requisito con riferimento ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei medici belgi: cfr. Corte europea, sentenza 23 giugno 1981, Caso Le Compte, Van Leuven, De Meyere e Corte europea, sentenza 10 febbraio 1983, Caso Albert e Le Compte (reperibili al seguente indirizzo http://www.echr.coe.int/Pages/ home.aspx?p=home). 14 Rassegna Forense - 3-4/2014 861 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Stefania Gentile stata recentemente anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea con la 16 sentenza del 17 luglio 2014, n. 58 , ove viene riconosciuto in capo al CNF nella sua veste di giudice - il diritto di adire la Corte attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale, e ove viene evidenziato che l’Organo di rappresentanza nazionale dell’Avvocatura, istituito per legge e con carattere permanente, è soggetto a tutte le garanzie previste dalla Costituzione italiana, ed esercita le proprie funzioni in autonomia, senza vincoli di subordinazione nei confronti di alcuno. 16 La sentenza è disponibile in questa rivista a pag. 781; con particolare riferimento alla conferma della natura giurisdizionale del CNF da parte del Giudice europeo nella sentenza citata, si veda la nota a sentenza di Marina Chiarelli, Il sì della Corte alla via spagnola per diventare avvocati, sempre in questa rivista a pag. 793. 862 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 280. Sull’ultrattività del mandato in caso di morte della parte. Cass. civ., SS.UU., sentenza 4 luglio 2014, n. 15295 - Primo Pres. f.f. ROVELLI - Pres. sez. ADAMO - Pres. sez. RORDORF - Rel. SPIRITO La morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, comportano, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 cod. proc. civ., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione - ad eccezione del ricorso per Cassazione, per cui è richiesta la procura speciale - in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell’ambito del processo, tuttora in vita e capace; c) è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330, primo comma, cod. proc. civ., senza che rilevi la conoscenza “aliunde” di uno degli eventi previsti dall’art. 299 cod. proc. civ. da parte del notificante. FATTO E DIRITTO 1. - La vicenda processuale e l’ordinanza di rimessione alle SU. T.N. ed C.A.M. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari, notificando l’impugnazione, il 26 marzo 2007, al procuratore di D. M.R., deceduto il (omissis). Le conclusioni erano state rassegnate nell’udienza del 5 ottobre 2005 e nell’udienza del 17 ottobre 2006 la causa era stata discussa e rimessa al collegio per la decisione. Il D.M. è, dunque, deceduto prima della pubblicazione della sentenza di appello, avvenuta il 28 dicembre 2006. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione civile e fissato per la trattazione all’udienza del 20 marzo 2013. All’esito di quest’ultima, il Collegio ha pronunciato ordinanza interlocutoria n. 10216, depositata il 30 aprile 2013, nella quale si è posta, preliminarmente, la necessità di esaminare se l’invalidità che vizia il ricorso, indirizzato alla parte ormai defunta, presso il suo procuratore, possa considerarsi sanata dalla costituzione degli eredi della stessa. In particolare, per un più preciso inquadramento dei presupposti di fatto della rilevata problematica, l’ordinanza di rimessione ha premesso: a) che la causa è iniziata con citazione notificata il 2 marzo 1990, dunque prima delle modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla l. n. 353 del 1990, e successive integrazioni; b) che D.M.R. è deceduto prima della pubblicazione della sentenza di secondo grado; c) che il ricorso è stato notificato al procuratore dello stesso, pur dopo l’avvenuto decesso; d) che il controricorso delle parti che si sono dichiarate eredi del de cujus è stato notificato prima del decorso del Rassegna Forense - 3-4/2014 863 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte termine c.d. lungo per l’impugnazione di legittimità, non risultando notificata la sentenza di appello; e) che i controricorrenti hanno ritenuto di provare la propria qualità di eredi mediante la produzione del certificato di morte del de cujus, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la composizione del nucleo familiare del defunto e la rinunzia all’eredità da parte della madre, moglie dello stesso. Ciò posto, e ritenendo sussistere il vizio della vocatio in jus del ricorso (indirizzato ad un soggetto oramai defunto), l’ordinanza interlocutoria ha evidenziato che, fino ad epoca recente, costituiva principio consolidato che la costituzione degli eredi della parte defunta avesse un effetto sanante: a) dalla notifica del controricorso - e quindi ex nunc - se effettuata nel vigore dell’art. 164 c.p.c., anteriore alle modifiche operate con l. n. 353/1990 (sempre che fosse stato rispettato il termine lungo dalla pubblicazione della sentenza); b) dalla notifica del ricorso - e quindi ex tunc - se relativa alle cause c.d. di nuovo rito (in argomento, sono citate, tra le varie, Cass. n. 776 del 2011; n. 23522 del 2010; n. 13395 del 2007; n. 7981 del 2007; n. 21550 del 2004; n. 6045 del 2003). Ha però osservato che, con la statuizione delle Sezioni Unite del 13 marzo 2013, n. 6070, la soluzione - in termini di sanatoria - sopra prospettata è stata sostanzialmente rimessa in discussione, quale necessario portato logico della dichiarata applicabilità dei principi successori nella fattispecie in cui, all’estinzione di una società, a seguito di cancellazione, fossero sopravvissute o sopravvenute delle entità patrimoniali non interessate dal procedimento liquidatorio. Sentenza nella quale s’è, infatti, affermato che la erronea evocazione in giudizio di una parte che non sia la “giusta parte” non comporta la nullità della vocatio in jus, e quindi la conseguente possibilità di sanatoria a seguito della costituzione della parte pretermessa, quanto piuttosto la inammissibilità del ricorso stesso, da dichiararsi anche di ufficio, dunque mettendo sull’identico piano il vizio dell’atto con le conseguenze che da esso deriverebbero. Secondo l’ordinanza interlocutoria in esame, tale affermazione sembrerebbe implicitamente presupporre che, nel caso sopra divisato, il vizio consista nella radicale inesistenza della vocatio in jus, tale dunque da non consentire l’applicazione della sanatoria prevista dall’art. 164 c.p.c., e, per logica conseguenza, il ricorso che ne sia affetto sarebbe, sempre e comunque, inammissibile. La sezione è mossa dalla considerazione che nella decisione delle Sezioni Unite appena riportata non si rinviene alcun cenno volto a restringere al caso lì affrontato la sfera di applicazione della regula juris riferita; ne appare al contrario una portata generale, dunque applicabile anche ai casi di successione di persone fisiche nel processo: questo, perché dalla decisione emergono richiami a precedenti pronunce di legittimità, lì disattese, che trattavano l’ipotesi di citazione di parti defunte con successiva costituzione degli eredi (in particolare, SU n. 6070 del 2013 faceva riferimento a Cass. n. 7981 del 2007 ed a Cass. n. 13395 del 2007). Il collegio della seconda sezione civile ha così ritenuto che la generalità della conclusione sulla non applicabilità della sanatoria, contenuta nella sen- 864 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza tenza n. 6070 del 2013, non abbia formato, di per sé, oggetto di intervento regolatore di conflitti e la questione si presti perciò ad una nuova e diversa valutazione da parte delle stesse Sezioni Unite: ciò nel senso di una conferma della soluzione sinora adottata dalle sezioni semplici in materia di sussistenza del vizio di nullità e della sua sanabilità. Ad identica soluzione, peraltro, dovrebbe pervenirsi, ad avviso della medesima ordinanza, anche se si volesse ricostruire il vizio in termini di inesistenza della vocatio; cosa peraltro difficilmente ipotizzabile, stante la continuazione della personalità del defunto in quella dell’erede. Invero, tale pur radicale vizio non comporterebbe, per sé, che all’atto non si possano ricollegare gli effetti cui era stato rivolto: non si potrebbe infatti negare rilevanza alla costituzione della “giusta parte”, giacché tale costituzione soddisferebbe comunque l’esigenza che al giudizio partecipino tutti i soggetti che avevano diritto di esservi presenti, così dandosi applicazione, come riferimento interpretativo, al principio del c.d. giusto processo. Per tali ragioni, quindi, la Seconda Sezione Civile ha ritenuto “... necessario un ulteriore intervento chiarificatore delle Sezioni Unite che precisi se i principi affermati con la sentenza n. 6070/2013 espressamente in materia societaria, comportanti la drastica sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione, siano del tutto estensibili anche alle vicende successorie delle persone fisiche...”, ipotesi, questa, che - prosegue la citata ordinanza interlocutoria “... suscita notevoli perplessità segnatamente nei casi in cui - come nella specie - ad una impugnazione mal diretta, cui ha contribuito anche la mancata dichiarazione dell’evento interruttivo nel giudizio a quo, abbia fatto seguito l’instaurazione del contraddittorio con gli eredi della parte defunta, a seguito della costituzione dei medesimi, in considerazione della quale l’impugnante, pur essendo ancora nei termini per rinnovare utilmente il gravame, non vi abbia provveduto, confidando nella giurisprudenza di legittimità, all’epoca di gran lunga prevalente, che ravvisava l’intervenuta sanatoria in detta tempestiva costituzione...”, sicché, evidenziando “... la rilevante importanza della questione, in quanto relativa a situazioni frequentemente riscontrabili nell’ambito dei giudizi in cassazione, in massima parte relativi a vicende processuali risalenti nel tempo...”, ha rimesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, al fine di risolvere il descritto conflitto interpretativo o comunque per delineare il principio di diritto sulla corrispondente questione di massima di particolare importanza. 2. - Le questioni - Premesse. Riassumendo, la questione sottoposta all’esame delle SU riguarda, dunque, il caso in cui: a) la parte, costituita in appello a mezzo di procuratore, muoia prima dell’udienza di discussione e risulti vittoriosa nel grado; b) l’evento non sia stato né dichiarato in udienza, né notificato alla controparte; c) quest’ultima proponga ricorso per cassazione contro la parte deceduta, notificandolo a colui che era stato suo procuratore nel precedente grado di giudizio; d) gli eredi si difendano con controricorso, notificandolo prima della scadenza del termine lungo per impugnare. Per questa ipotesi, si chiede di sapere se il ricorso per cassazione sia affetto da vizio della vocatio in ius ed, Rassegna Forense - 3-4/2014 865 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte in caso positivo, se la suddetta difesa degli eredi (non si può parlare di costituzione in giudizio, posto che quest’istituto non è previsto nel giudizio di legittimità) abbia efficacia sanante di quel vizio. La perplessità del collegio remittente sorge dalla consapevolezza che la giurisprudenza s’era assestata negli ultimi anni nel senso di ritenere che detta difesa (e, dunque, la costituzione di un integro contraddittorio nei confronti degli eredi del defunto) avesse efficacia sanante rispetto ad un vizio di chiamata in giudizio che difficilmente può essere definito in termini di inesistenza, in quanto, alla fine, hanno partecipato al giudizio coloro che ne avevano diritto. Consapevolezza che il collegio remittente ritiene essere stata posta in crisi dal sopravvento di Cass. SU n. 6073 del 2013, la quale, pur trattando di società estinta (ma il discorso sembrerebbe al collegio remittente poter essere esteso anche alla persona fisica defunta), ha configurato il vizio stesso in termini tali da farne derivare la drastica inammissibilità del ricorso per cassazione. Ora, prima di avvicinarsi alla disamina della questione ed alla sua soluzione, occorre fare alcune premesse circa quello che sarà l’oggetto e lo sviluppo del futuro ragionamento. Il quesito qui posto coinvolge solo un aspetto delle conseguenze processuali derivanti dalla morte o dalla perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentate o dalla cessazione della rappresentanza (ossia di quegli eventi che sono elencati nell’art. 299 c.p.c.); piuttosto, la problematica coinvolge un autonomo sottosistema, nell’ambito del più vasto sistema processuale. Bisogna, infatti, tener conto che lo studio del fenomeno coinvolge il tema dell’individuazione della giusta parte, quale corollario del giusto processo, nonché la definizione dei poteri e della legittimazione del difensore della parte stessa. Pertanto, bisogna l’indagine va estesa ai seguenti casi: 1. notificazione dell’atto d’impugnazione alla parte defunta o divenuta incapace, presso il suo difensore nel grado precedente; 2. notificazione della sentenza al procuratore della parte defunta o divenuta incapace, ai fini del decorso del termine breve per impugnare; 3. proposizione dell’impugnazione da parte del difensore della parte defunta o divenuta incapace. L’inizio del percorso richiede, poi, un’ulteriore premessa. Quella di cui si discute è una delle problematiche più studiate e dibattute del processo civile, segnalata come “una storia infinita”, dipanatasi attraverso un emblematico esempio di “pendolarismo giurisprudenziale”. La puntuale relazione dell’Ufficio del Massimario ricostruisce l’evoluzione (talvolta, l’involuzione) della giurisprudenza, dagli anni ‘40 del secolo scorso fino ai nostri giorni, il frequente ripensamento (ad opera delle sezioni semplici della Corte o delle stesse Sezioni Unite) di approdi che, di volta in volta, erano sembrati definitivamente raggiunti, il districarsi del discorso attraverso una serie di rivoli, eccezioni, condizioni che hanno reso la materia quanto mai incerta. Tant’è che la stessa ordinanza di remissione fa riferimento all’affidamento che riponeva la parte in una giurisprudenza che ammette(va) 866 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza la sanatoria del vizio di chiamata in giudizio, nell’ipotesi che vi si fossero costituiti gli eredi della parte premorta alla pubblicazione della sentenza. D’altro canto, all’incertezza giurisprudenziale ha corrisposto la mancanza di chiari indirizzi dottrinari, in sede manualistica come in quella monografica, dovendosi piuttosto rilevare l’assenza di uno studio che ricostruisca in maniera organica e complessa l’intera materia alla quale si fa riferimento. 3. - La disciplina codicistica in relazione alle varie fasi del rapporto processuale. Nel codice di rito l’incidenza di uno degli eventi previsti nell’art. 299 (morte o perdita di capacità di una delle parti di stare in giudizio o del suo rappresentante legale o cessazione di tale rappresentanza) non è regolata in modo unitario, ma ha discipline diversificate, con varietà d’effetti, a seconda che l’evento si verifichi in una o altra fase di quel rapporto. La scansione normativa, con riferimento ad uno dei suddetti eventi, è la seguente: 1. Evento verificatosi prima della costituzione - interruzione del processo, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione (art. 299, comma 1); 2. Evento avveratosi nei riguardi della parte costituita a mezzo di procuratore - dichiarazione del procuratore in udienza o notifica alle altre parti - interruzione del processo dal momento della dichiarazione o della notificazione (art. 300, commi 1 e 2); 3. Evento avveratosi nei riguardi della parte costituitasi personalmente interruzione del processo dal momento dell’evento (art. 300, comma 3); 4. Evento avveratosi nei riguardi della parte dichiarata contumace - interruzione del processo dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte o è notificato o è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti dell’art. 292 (art. 300, comma 4, nella novella di cui alla l. n. 69 del 2009); 5. Evento avveratosi o notificato dopo la chiusura della discussione - inefficacia sul processo, se non nel caso di riapertura dell’istruzione (art. 300, comma 5), tuttavia in quest’ipotesi la notificazione della sentenza “si può fare... a coloro ai quali spetta stare in giudizio”, cioè agli eredi della parte defunta, individualmente a ciascuno di essi, oppure collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto (art. 286, in relazione all’art. 303). 6. Parte defunta dopo la notificazione della sentenza - l’impugnazione può essere notificata collettivamente ed impersonalmente agli eredi: nella residenza dichiarata dalla parte o nel domicilio eletto nella circoscrizione del giudice che ha pronunciato la sentenza, se nell’atto di notificazione della sentenza è contenuta quella dichiarazione o quella elezione; altrimenti, l’impugnazione può essere notificata presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio (art. 330). 7. Evento sopravvenuto durante la decorrenza del termine breve per impugnare -interruzione del termine e nuova decorrenza dal giorno in cui la notificazione della sentenza è stata rinnovata (art. 328, comma 1) - la rinnova- Rassegna Forense - 3-4/2014 867 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte zione “può essere fatta agli eredi collettivamente e impersonalmente, nell’ultimo domicilio del defunto” (art. 328, comma 2); 8. Evento verificatosi dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza - il termine lungo per impugnare (art. 327) è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell’evento (art. 328, comma 3). A riguardo, occorre però riflettere sull’attuale operatività del terzo comma dell’art. 328, successivamente alla modifica dell’art. 327, comma 1, ad opera della l. n. 69 del 2009, che ha ridotto da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza il termine per proporre l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi di cui all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5. I casi dal 2 al 4 sono quelli verificatisi durante la c.d. fase attiva del rapporto processuale. Il caso di cui al n. 5 riguarda anch’esso la fase attiva del rapporto, ma solo per l’ipotesi di riapertura dell’istruzione. Gli altri attengono alla fase di quiescenza del rapporto. Riepilogando, gli eventi in questione hanno efficacia immediatamente interattiva del processo (ossia, al momento del loro stesso avverarsi) quando si verifichino prima della costituzione, oppure nei riguardi della parte costituitasi personalmente. Per il periodo successivo alla costituzione e sino a tutta l’udienza di precisazione delle conclusioni, nei casi di parte costituitasi a mezzo di procuratore, oppure di parte dichiarata contumace, il legislatore prevede l’effetto interruttivo in virtù di fattispecie complesse: nella prima ipotesi, oltre all’evento è necessaria la relativa dichiarazione del procuratore in udienza o la notifica alle altre parti e l’interruzione si verifica nel momento stesso della dichiarazione o della notificazione; nella seconda ipotesi, oltre all’evento, è necessaria la documentazione a cura dell’altra parte o la notificazione o la certificazione dell’ufficiale giudiziario, e l’interruzione si verifica a partire da questi momenti. Gli eventi dell’art. 299, che si verificano dopo l’udienza di discussione non determinano alcuna conseguenza, se non: l’effetto interruttivo del processo, quando sia riaperta l’istruzione; l’effetto interruttivo del termine breve per impugnare, se l’evento sopravviene durante il suo decorso; l’effetto di prorogare il termine lungo per impugnare, se l’evento s’avvera dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza; la facoltà di notificare la sentenza agli eredi anche collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto. Con riferimento al giudizio di primo grado, va precisato come, a seguito della novella di riforma del codice di rito del 1990, essendo l’udienza di discussione dinanzi al collegio divenuta vicenda processuale residuale: a) se l’istanza di discussione orale non è stata presentata, il termine di cui all’art. 300 c.p.c., comma 5, coincide con la scadenza del termine di cui agli artt. 190 e 281 quinquies c.p.c., per il deposito delle memorie di replica; b) se la richiesta di discussione è stata avanzata, l’inciso “davanti al collegio” deve ritenersi tacitamente abrogato, atteso che il regime temporale deve essere lo stesso sia che la causa debba essere decisa dal giudice unico, che dal collegio. Quanto, poi, al verificarsi dell’evento dopo la proposizione dell’appello, si applica la medesima disciplina del primo grado di giudizio. Occorre subito porre in risalto che gli eventi dell’art. 299 c.p.c., hanno la comune caratteristica di menomare la possibilità della parte di difendersi 868 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza adeguatamente in giudizio. Il verificarsi di questi fatti produce uno stato di quiescenza, caratterizzato dall’impossibilità di compiere ulteriori atti del processo e dall’interruzione dei termini in corso (artt. 298 e 304 c.p.c.). La dottrina ha da tempo individuato il fondamento dell’istituto dell’interruzione del processo nella necessità di assicurare l’effettività del contraddittorio tra le parti, ove i suddetti eventi colpiscano, nel corso dello stesso, alcuna di esse (i soggetti, cioè, investiti della potestà di compiere atti processuali), menomando in qualche misura la loro partecipazione in difesa delle proprie ragioni. Al pari della speculare fattispecie della rimessione in termini, l’interruzione si caratterizza, pertanto, nel suo aspetto genetico, come istituto volto alla tutela della effettività del contraddittorio tra le parti (principio, questo, implicitamente garantito dallo stesso art. 24 della Costituzione ed operante per tutta la fase di merito del processo, ma non anche, secondo l’unanime giurisprudenza e la prevalente dottrina, in seno al giudizio di cassazione); sul piano funzionale, a guisa di evento determinativo di uno iato procedimentale circoscritto nel tempo, che non incide sul permanere della litispendenza, realizzando, per converso, uno stato di mera quiescenza del processo. L’interruzione è, dunque, nel suo aspetto morfologico, vicenda processuale di tutela predisposta in favore della parte colpita dall’evento che la genera, e solo tale parte sarà legittimata ad eccepire il mancato rispetto delle norme che la prevedono. Essa viene meno (e il procedimento riprenderà il proprio corso) quando sia stata compiuta quell’attività che la legge ritiene necessaria per ristabilire la piena effettività del contraddittorio, ma i suoi effetti, secondo la più attenta dottrina, si realizzerebbero indipendentemente dall’accertamento se il fatto interattivo si sia tradotto in concreto in un impedimento inevitabile con l’impiego del necessario grado di diligenza. In conclusione, il legislatore non ha previsto una specifica disciplina per le ipotesi che sono oggetto di questa indagine, ossia non dice: se alla parte deceduta possa essere validamente notificata la sentenza presso il suo difensore, al fine di far decorre il termine breve per impugnare; se l’impugnazione possa essere notificata alla parte deceduta presso il suo procuratore nel precedente grado di giudizio (il caso che specificamente interessa la causa in trattazione); se il procuratore della parte deceduta o divenuta incapace sia legittimato a proporre l’impugnazione per la parte stessa. Tutto ciò premesso, si può ora passare ad esaminare come le regole sopra scrutinate siano state finora applicate dalla giurisprudenza per risolvere i quesiti sopra posti. 4. - Gli effetti del verificarsi degli eventi dell’art. 299 c.p.c., nella giurisprudenza di legittimità. S’è già detto in precedenza della storica ed esasperata instabilità giurisprudenziale nella materia in trattazione. In grandi linee, per l’ipotesi in cui si sia verificato l’evento interruttivo e questo non sia stato dichiarato, è possibile individuare due indirizzi: uno, che, curandosi sia dell’interesse degli eredi (che non sono di facile ed immediata individuabilità da parte del difensore del defunto) alla prosecuzione del giudi- Rassegna Forense - 3-4/2014 869 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte zio nei termini e nei modi stabiliti, sia della posizione della controparte non formalmente edotta dell’evento o che, comunque, incolpevolmente non l’abbia conosciuto (e si trovi, dunque, in uno stato di assoluta incertezza rispetto all’identità del suo contraddittore), tende a salvare (vedremo poi come) gli atti posti in essere dal procuratore del defunto e, nel contempo, gli atti indirizzati dalla controparte al procuratore della stessa parte deceduta; un altro, che tende a privilegiare gli interessi degli eredi, li considera ormai giusta parte e ritiene valido solo l’atto processuale che sia a loro diretto o sia da loro stessi voluto ed indirizzato alla controparte. Ecco, dunque, che con sentenza del 18 maggio 1963, n. 1294, le Sezioni Unite, in ipotesi di morte della parte costituita a mezzo di procuratore avvenuta in corso di causa, statuirono che, non dichiarato in udienza l’evento alle altre parti dal procuratore di quella deceduta, è ammissibile l’impugnazione proposta nei confronti di quest’ultima e notificata presso il procuratore. Principio di diritto, questo, ribadito, in via generale, in ipotesi di morte della parte avvenuta sia prima che dopo la chiusura della discussione e la pubblicazione della sentenza, nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici (Cfr. Cass. 18 novembre 1964, n. 2753; 24 ottobre 1968, n. 3482; 14 luglio 1971, n. 2293; 22 gennaio 1974, n. 174; 4 luglio 1974, n. 1934; 29 ottobre 1974, n. 3281; 14 febbraio 1975, n. 579; 13 marzo 1975, n. 951; 26 gennaio 1976, n. 2403; 26 giugno 1976, n. 2420). Ma la sentenza 29 novembre 1971, n. 3474, in una fattispecie in cui era stato dichiarato il fallimento di una parte, restrinse l’applicazione della disciplina di cui all’art. 300 c.p.c., al grado di giudizio in cui si verifica l’evento, nel periodo tra la citazione e la discussione, rilevando che, nella diversa ipotesi del verificarsi dell’evento dopo la chiusura della discussione o dopo la pubblicazione o la notificazione della sentenza, l’art. 328 c.p.c., si limita a disporre l’interruzione o la proroga dei termini per la impugnazione. Il che fu ribadito dalla sentenza 7 gennaio 1974, n. 30, relativamente all’ipotesi di morte della parte vittoriosa avvenuta dopo l’udienza di discussione e prima della pubblicazione della sentenza. Per l’ipotesi di morte della parte, fu ripreso e ribadito il principio di diritto secondo cui la validità della notificazione dell’impugnazione alla parte deceduta, presso il procuratore costituito, è subordinata alla condizione che la parte soccombente che propone l’impugnazione non abbia comunque avuto, senza sua colpa, conoscenza del decesso della controparte (Cfr. Cass. 7 ottobre 1974, n. 2639). Anche relativamente all’ipotesi in cui la parte incapace perché minore, rappresentata dall’esercente la potestà genitoria costituito a mezzo di procuratore, avesse raggiunto la maggiore età in corso di causa, senza che l’evento fosse stato dichiarato in udienza o notificato all’altra parte dal procuratore, fu affermata la validità dell’impugnazione notificata al legale rappresentante presso il procuratore (Cass. 9 ottobre 1969, n. 3240; Cass. 6 luglio 1971, n. 2116; Cass. 28 luglio 1975, n. 2905; Cass. 10 giugno 1974, n. 2639), benché alcune pronunce avessero subordinato la validità dell’impugnazione, in quel modo notificata, all’assenza di colpa nella parte impugnante quanto all’ignoranza di detto vento, ponendone l’onere della pro- 870 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza va talvolta a carico di quest’ultima (Cass. 10 febbraio 1968, n. 452; Cass. 16 ottobre 1969, n. 3352; Cass. 9 aprile 1974, n. 989), talaltra della parte chiamata nel giudizio di impugnazione (Cass. 23 maggio 1972, n. 1605; Cass. 21 aprile 1975, n. 1531; Cass. 5 aprile 1976, n. 1176). Le Sezioni Unite si pronunciarono nuovamente con la sentenza 21 luglio 1978, n. 3630, esaminando l’ipotesi di morte o perdita della capacità processuale della parte costituita a mezzo di procuratore avvenuta tra una fase processuale e l’altra, e, in tale occasione, statuirono che il problema della notificazione dell’atto di impugnazione e della instaurazione della fase processuale di gravame va risolto non già alla luce dei principi dell’ultrattività del mandato al procuratore costituito o della non automaticità della interruzione ex art. 300 c.p.c., bensì alla stregua delle disposizioni normative contenute nell’art. 328 c.p.c., secondo cui l’evento interruttivo verificatosi dopo la pubblicazione della sentenza conclusiva di una fase di merito incide non più sul processo, ma sul termine per la proposizione della impugnazione, con effetti diversi a seconda che si tratti di termine breve (art. 325 c.p.c.) o di termine lungo (art. 327 c.p.c.) di decadenza; e che, conseguentemente, mai può prescindersi dalla nuova situazione soggettiva verificatasi riguardo ad una delle parti, salvo che la controparte abbia, senza sua colpa, ignorato l’evento, nel qual caso opera la disciplina di cui all’art. 291 c.p.c. Nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici fu riaffermata l’ammissibilità dell’impugnazione proposta nei confronti della parte deceduta o divenuta incapace presso il procuratore se questi non avesse dichiarato in udienza o notificato alle altre parti l’evento (Cass. 15 febbraio 1979, n. 996; 22 febbraio 1979, n. 1139; 10 gennaio 1981, n. 217), e fu ribadito che l’atto di impugnazione notificato alla parte deceduta o divenuta incapace o al legale rappresentante della parte divenuta maggiorenne è valido se la parte notificante ha ignorato senza colpa l’evento (Cass. 12 gennaio 1979, n. 225; 25 gennaio 1979, n. 587; 9 maggio 1979, n. 2641; 11 febbraio 1980, n. 2452; 22 aprile 1981, n. 2349). Il che si trova sancito anche nella sentenza delle Sezioni Unite 2 aprile 1981, n. 1865, alla quale hanno fatto seguito altre sentenze delle sezioni semplici (Cass. 4 agosto 1982, n. 4387, non massimata; 25 novembre 1982, n. 6400). Ma gli interventi salienti ai quali occorre far ora riferimento sono quelli costituiti dalle sentenze delle Sezioni Unite del 1984 (Cass. SU nn. 1228, 1229 e 1230 del 21 febbraio 1984) e del 1996 (Cass. SU 19 dicembre 1996, n. 11394). Le prime, trovandosi ad esaminare un caso in cui la morte della parte era avvenuta prima della discussione della causa (ed, ovviamente, non era stata dichiarata, né comunicata) affermarono il principio che può dirsi (sicuramente in maniera approssimativa e riduttiva) di ultrattività del mandato, in forza del quale: è valida la notificazione della sentenza fatta al procuratore della parte deceduta a norma dell’art. 285 c.p.c.; il procuratore stesso (al quale sia stata originariamente conferita procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo) è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte “che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell’ambito del processo, ancora in vita o capace”; è ammissibile l’atto di impugnazione noti- Rassegna Forense - 3-4/2014 871 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte ficato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1 presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto aliunde conoscenza dell’evento. Il nucleo del discorso svolto dalle sentenze del 1984 è fondato sulla considerazione che, omessa dal procuratore (unico legittimato) la dichiarazione in udienza o la notificazione alle altre parti (fino alla chiusura della discussione) dell’avvenuta morte o della perdita di capacità della parte da lui rappresentata, la posizione giuridica di questa resta stabilizzata, rispetto alle altri parti ed al giudice, quale persona ancora esistente ed ancora capace, nella fase attiva in corso del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza, dopo la pubblicazione della sentenza, e di riattivazione, a seguito e per effetto della proposizione dell’impugnazione. Situazione che è suscettibile d’essere modificata solo se, nel successivo processo d’impugnazione, si costituiscono gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura ad litem valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiarerà in udienza o notificherà alle altre parti l’evento verificatosi, oppure se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sarà notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario secondo la norma di cui all’art. 300 c.p.c., comma 4. Le tre sentenze delle quali s’è finora detto hanno deciso, dunque, in un’ipotesi in cui l’evento dell’art. 299 c.p.c., s’era verificato prima della discussione, cioè nel corso di quella che è detta la fase attiva del processo, ed il procuratore della parte non ne aveva fatto oggetto di formale dichiarazione in udienza o di notifica alle altre parti. La Cass. SU 19 dicembre 1996, n. 11394, torna sull’argomento per aggiungere un altro tassello a quello che è stato definito il puzzle processuale, ossia specificamente tratta dell’ipotesi in cui l’evento si verifichi dopo la pubblicazione della sentenza, per concludere che in questo caso: la notificazione della sentenza ad opera del procuratore della parte deceduta è viziata da nullità e non è, dunque, idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione, se egli non chiarisce che la notificazione è fatta a nome degli eredi e non fornisce indicazioni tali da consentire alla controparte la proposizione dell’impugnazione nei loro confronti; l’impugnazione fatta dal procuratore della parte deceduta è viziata da nullità; nullità sanata dalla costituzione in appello degli eredi entro la scadenza del termine per impugnare. È proprio questo il principio al quale fa riferimento l’ordinanza di rimessione allorché rileva: che nella fattispecie oggi in trattazione si discute di un ricorso per cassazione mal diretto, al quale ha contribuito anche la mancata dichiarazione dell’evento interruttivo nel giudizio a quo; che al ricorso ha fatto seguito l’instaurazione del contraddittorio con gli eredi della parte defunta a seguito della costituzione dei medesimi; costituzione in considerazione della quale l’impugnante, pur essendo nei termini per rinnovare utilmente il gravame, non vi ha provveduto, confidando nella giurisprudenza di legittimità, all’epoca di gran lunga prevalente, che ravvisava l’intervenuta sanatoria attraverso la menzionata costituzione. 872 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza La premessa richiamata dalle Sezioni Unite del 1996 è che, in questa ipotesi, il problema della notificazione dell’atto di impugnazione e della instaurazione di una valida fase processuale di impugnazione deve essere risolto non già alla luce dei criteri dell’ultrattività del mandato al procuratore costituito e della non automaticità dell’interruzione ex art. 300 c.p.c., che operano solo se uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c., si verifica nell’intervallo temporale tra la costituzione della parte e la chiusura dell’udienza di discussione (secondo i principi, appunto, sanciti dalle Sezioni Unite con le summenzionate sentenze del 1984), bensì alla stregua dell’art. 328 c.p.c., secondo il quale l’evento interruttivo, avvenuto nel caso di specie dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado, incide non più sul processo, ma essenzialmente sul termine per la proposizione dell’impugnazione, con la conseguenza che non si può, in alcun caso, prescindere dalla nuova, reale situazione soggettiva delle parti sostanziali interessate attualmente alla sentenza ed al processo. In altri termini, l’arresto del quale si discute accoglie il principio (che definisce “chiovendiano”) in ragione del quale le parti, quand’è definito un grado e deve aprirsene un altro, tornano nella situazione in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, cioè di dover conoscere la condizione di colui con il quale intende contrarre il rapporto processuale. Principio, questo, derogato - secondo la sentenza - allorché l’evento si sia verificato nella fase attiva del processo ed il procuratore non l’abbia dichiarato, ma che riacquista pieno vigore allorché l’evento si verifica tra un grado e l’altro, perché in tal caso il processo d’impugnazione va proposto dai soggetti reali contro i soggetti reali ed a questo fine l’art. 328 detta alcune regole per rendere possibile (“a costi accettabili”) tali risultati. Regole in base alle quali, se l’evento morte o incapacità della parte si verifica quando è stata notificata la sentenza ed è in corso il termine per impugnare, tale termine rimane automaticamente interrotto ed un nuovo termine prende a decorrere solo ed in quanto la notificazione della sentenza sia rinnovata alla parte reale e, quindi, nel caso di morte, agli eredi (sia pure entro l’anno, collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto, a norma dell’art. 328 c.p.c., comma 2). La tematica viene, dunque, ricondotta dall’arresto del 1996 nella categoria della nullità, siccome non si tratta di impugnazione rivolta contro soggetto tutt’affatto diverso da quello che è stato in giudizio nel precedente grado (nel qual caso l’impugnazione sarebbe come non proposta e rileverebbe solo sotto il profilo di inesistenza/inammissibilità), con la conseguenza che la situazione è ricostruibile non in termini di impugnazione non esercitata, bensì di impugnazione invalidamente esercitata, in quanto tra il soggetto deceduto ed i suoi eredi non v’è totale alterità processuale. Vizio desumibile dal combinato disposto dell’art. 163 c.p.c., n. 2, e art. 164 c.p.c., in quanto attinente all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione. La sentenza ne fa derivare l’effetto che, stando alla disciplina anteriore alla novella n. 353 del 1990, non sarebbe possibile la rinnovazione dell’atto e la costituzione del convenuto farebbe salvi i diritti anteriormente quesiti, lasciando ferma la decadenza dall’impugnazione ove frattanto maturata. Diversa è, invece, la disciplina dettata dalla novella, prevedendosi, con riferimento alle nullità di cui all’art. 163 c.p.c., nn. 1 e 2, la possibilità di rinnovazione Rassegna Forense - 3-4/2014 873 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte (art. 164 novellato) e, tanto a questa, quanto alla costituzione del convenuto, attribuendosi effetto ex tunc. Nel 2005 le Sezioni Unite tornano sull’argomento con la sentenza n. 15783 del 28 luglio, la quale, benché tratti dell’ipotesi di raggiungimento della maggiore età da parte di un minore costituitosi in giudizio a mezzo dei suoi legali rappresentanti, estende il discorso a tutti gli eventi dell’art. 299 c.p.c., stabilendo che, qualora uno di quegli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo si verifichi nel corso del giudizio di primo grado, prima della chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell’art. 190 c.p.c.), e tale evento non venga dichiarato né notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce a norma dell’art. 300 c.p.c., il giudizio di impugnazione deve essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati. Anche in questo caso viene invocato il portato dell’art. 328 c.p.c., dal quale viene desunta la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell’impugnazione, con piena parificazione, a tali effetti, tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato né notificato (in senso conforme, si veda anche la più recente Cass. 4 aprile 2013, n. 8194). La sentenza precisa pure che, limitatamente ai processi pendenti alla data del 30 aprile 1995 (rispetto ai quali non opera la possibilità di sanatoria dell’eventuale errore incolpevole nell’individuazione del soggetto, nei cui confronti il potere di impugnazione deve essere esercitato, offerta dal nuovo testo dell’art. 164 c.p.c., come sostituito dalla l. 26 novembre 1990, n. 353, nella parte in cui consente la rinnovazione, con efficacia ex tunc, della citazione e dell’impugnazione, in relazione alle nullità riferibili all’art. 163 c.p.c., nn. 1 e 2) il dovere di indirizzare l’impugnazione nei confronti del nuovo soggetto effettivamente legittimato resta subordinato alla conoscenza o alla conoscibilità dell’evento, secondo criteri di normale diligenza, da parte del soggetto che propone l’impugnazione, essendo tale interpretazione l’unica compatibile con la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.). In realtà, con quest’arresto le Sezioni Unite operano una drastica virata rispetto a tutti i precedenti. Abbiamo visto che la sentenza del 1996 aveva lasciato formalmente salva la tesi dell’ultrattività del mandato predicata dalle sentenze del 1984, purché l’evento si fosse verificato nella fase attiva del rapporto processuale ed (ovviamente) il procuratore non l’avesse né dichiarato, né comunicato alle altre parti; aveva, invece, preteso che il rapporto fosse instaurato nei confronti della giusta parte nel caso in cui l’evento si fosse verificato dopo l’udienza di discussione, ossia nella fase di quiescenza del rapporto stesso; aveva, a tal riguardo, rinvenuto nel disposto dell’art. 328 c.p.c., la chiave di volta del sistema; aveva escluso l’applicabilità dell’art. 291 c.p.c., (rinnovazione della notificazione); aveva ammessa l’ipotesi sanante della costituzione degli eredi. Il precedente del 2005, invece, relega il principio d’irrilevanza dell’evento non dichiarato né comunicato alla mera fase in cui esso si verifica e nega del tutto il correlato principio d’ultrattività del mandato. Principio, questo, rinne- 874 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza gato in ragione della disciplina codicistica sostanziale (art. 1722 c.c., n. 4) che prevede la morte del mandante come causa d’estinzione del mandato. Sicché - sostiene l’arresto - la disciplina dettata dall’art. 300, commi 1 e 2, (che attribuisce al procuratore la possibilità di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato, anche se sia nel frattempo deceduta o divenuta incapace), in quanto derogatoria al principio dell’art. 1722 c.c., n. 4, va contenuto entro il rigoroso ambito ivi previsto, ossia nei limiti di quella fase del processo in cui s’è verificato l’evento non dichiarato né notificato concernente il mandante, e non può espandersi nella successiva fase di quiescenza e di riattivazione del rapporto processuale. In altri termini, il principio generale secondo il quale la legittimazione a compiere e ricevere atti del giudizio d’impugnazione resta influenzata dalla nuova situazione soggettiva di una delle parti, vale non solo nel caso di evento verificatosi dopo la discussione (come aveva ritenuto la sentenza del 1996), “ma anche nell’ipotesi di evento accaduto nella fase attiva del processo e non dichiarato, né notificato; ponendosi in quest’ipotesi il silenzio del procuratore quale fatto idoneo a spostare nel tempo la rilevanza di quell’evento che, rimasto nascosto per tutto il corso del giudizio di primo grado dalla mancata dichiarazione o notificazione, riacquista alle soglie dell’appello la rilevanza propria della morte o di altro evento prima della costituzione del giudizio”. Successivamente a questa sentenza, resta da segnalare Cass. Sezioni Unite 16 dicembre 2009, n. 26279, la quale ribadisce che l’atto d’impugnazione, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia dall’eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente (senza possibilità d’applicazione del disposto dell’art. 291 c.p.c., ove l’impugnazione sia invece proposta nei confronti del defunto). A questo punto, siamo giunti a Cass. Sezioni Unite 13 marzo 2013, n. 6070, la quale, per certo un verso, rappresenta l’origine di tutto questo discorso, posto che (come s’è visto) l’ordinanza della seconda sezione civile (che ha rimesso la questione al nuovo vaglio delle Sezioni Unite) nasce proprio dalla perplessità che essa abbia rimesso in crisi l’orientamento che s’era da più di un decennio affermato, secondo cui l’impugnazione diretta al procuratore della parte ormai defunta è affetta da una nullità sanabile mediante costituzione degli eredi (come di fatto è avvenuto nel processo di cui oggi si discute). La sentenza tratta di alcune questioni attinenti agli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, dopo la riforma del diritto societario attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003. Muovendo dalla premessa che, dall’entrata in vigore della novella, la cancellazione determina l’estinzione della società di capitali e la presunzione d’estinzione della società di persone, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad esse facenti capo (avendo la riforma adottato, per una ratio di certezza giuridica, il sistema della liquidazione formale), le Sezioni Unite ricostruiscono le conseguenze dell’estinzione in termini - lato sensu successori: a) quanto agli effetti sostanziali passivi (trasferimento del debito sociale ai soci, con responsabilità limitata o illimitata, a seconda del tipo di Rassegna Forense - 3-4/2014 875 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte responsabilità durante societate); b) quanto agli effetti sostanziali attivi (acquisto in comunione tra i soci dei diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione, escluse le mere pretese e le ragioni creditorie incerte, la cui mancata liquidazione manifesta rinuncia); c) quanto agli effetti processuali (incapacità della società di stare in giudizio, interruzione del giudizio pendente, prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla società o contro di essa, anziché dai soci o contro di essi). In particolare, con specifico riferimento a quest’ultimo punto, resta confermato il principio che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dalla l. fall., art. 10); pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dall’art. 299 c.p.c. e ss., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso. Per quanto qui interessa, la Corte (sancita l’applicabilità, all’ipotesi di cancellazione della società dal registro delle imprese, con conseguente sua estinzione, dell’art. 299 c.p.c.), nell’affrontare gli interrogativi che sorgono quando, essendosi il giudizio svolto senza interruzione, la necessità di confrontarsi con la sopravvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese si ponga nel passaggio al grado successivo (il che può accadere o perché in precedenza siano mancate la dichiarazione dell’evento estintivo o il suo accertamento in una delle altre forme prescritte dai citati art. 299 e segg., oppure perché quell’evento si è verificato quando ormai, nel grado precedente, non sarebbe più stato possibile farlo constare, ovvero ancora perché l’estinzione è sopravvenuta dopo la pronuncia della sentenza che ha concluso il grado precedente di giudizio e durante la pendenza del termine d’impugnazione), ha ritenuto, pur nella consapevolezza di indicazioni giurisprudenziali non sempre univoche sul punto, che l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte (se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nel modi di legge), debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione. Viceversa - secondo la sentenza in rassegna - il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero della giusta parte (sul punto sono citate Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; 8 febbraio 2012, n. 1760; 13 maggio 2011, n. 10649; 7 gennaio 2011, n. 259; Sez. un. 18 giugno 2010, n. 14699; 8 giugno 2007, n. 13395; Sez. un. 28 luglio 2005, n. 15783). 876 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza La sentenza ritiene non essere un onere troppo gravoso (né tanto meno un’ingiustificata limitazione del diritto d’azione, a fronte dell’esigenza di tutelare anche i successori della controparte, che potrebbero essere ignari della pendenza giudiziaria) quello di svolgere, per chi intenda dare inizio ad un nuovo grado di giudizio, i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte, che sono normalmente richiesti al momento introduttivo della lite. Né la sentenza si sofferma a discutere del se ed in quale eventuale misura tale regola sia suscettibile di attenuazione o di correttivi quando la parte impugnante non sia in condizione, neppure adoperando l’ordinaria diligenza, di conoscere l’evento estintivo che ha interessato la controparte, né quindi d’individuare i successori nei cui confronti indirizzare correttamente l’atto d’impugnazione. L’evento estintivo in discussione, ossia la cancellazione della società dal registro delle imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), la sentenza non ritiene ammissibile che l’impugnazione provenga dalla - o sia indirizzata alla - società cancellata, e perciò non più esistente, giacché la pubblicità legale cui l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le controparti processuali, ne siano a conoscenza; e la necessaria visione unitaria dell’ordinamento non consente di limitare al solo campo del diritto sostanziale la portata delle suaccennate regole inerenti al regime di pubblicità, escludendone l’applicazione in ambito processuale, salvo che vi siano diverse e più specifiche disposizioni processuali di segno contrario (come accade per il verificarsi dell’evento interruttivo nell’ambito del singolo grado di giudizio). La sentenza del 2013 perviene, dunque, a sanzionare d’inammissibilità l’impugnazione che non sia diretta o non provenga dalla giusta parte, rifiutando la tesi che ritiene nullo, per errore sull’identità del soggetto (anziché inammissibile), l’atto d’impugnazione rivolto ad una parte ormai estinta anziché ai successori si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo (analoga statuizione di inammissibilità è contenuta in Cass. 9 aprile 2013, n. 8596, mentre i principi sanciti dalle Sezioni Unite con la pronuncia in rassegna hanno trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di fattispecie esaminata, anche in Cass. 4 luglio 2013, n. 16751). Quanto alla sentenza del 2013, occorre, dunque, osservare (per soddisfare il dubbio insito nell’ordinanza di rimessione) che essa, se per un verso è vero che tratta la problematica in termini generali e tiene conto di tutti i precedenti che hanno anch’essi affrontato la materia in termini generali, per altro verso è pur vero che è fortemente influenzata dalla circostanza dell’essere la parte estinta, nella fattispecie, una società cancellata dal registro; tant’è che, come s’è visto, neppure si cura di affrontare dettagliatamente il tema di eventuali ipotesi sananti la sostenuta inammissibilità dell’atto d’impugnazione, fermandosi a fronte del regime pubblicitario vigente per lo specifico soggetto processuale societario. Volendo incrociare e raffrontare tra loro i dati giurisprudenziali finora illustrati, si può osservare che lo stesso s’è verificato rispetto alla sentenza a Rassegna Forense - 3-4/2014 877 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte Sezioni Unite del 2005, la quale, pur trattando della specifica fattispecie della cessazione della rappresentanza genitoriale per sopravvenuta maggiore età del soggetto rappresentato, ha voluto affrontare il tema in termini generali, per poi concludere che, quanto al raggiungimento della maggiore età, il problema della consapevolezza o meno del verificarsi dell’evento (e, quindi, di tutela della parte incolpevole) non si pone neppure, posto che la maggiore età è un accadimento inevitabile nell’an ed agevolmente riscontrabile nel quando. 5. - La soluzione della questione. Volendo tentare un’estrema sintesi del così variegato e contraddittorio quadro giurisprudenziale finora delineato, può dirsi che i precedenti fin qui esaminati spaziano tra due estremi: dalla risalente (ma tuttora ricorrente) affermazione dell’ultrattività del mandato, alla recentissima, drastica sanzione d’inammissibilità dell’impugnazione proposta da o contro un soggetto estinto. Nel mezzo v’è lo sforzo di mediare tra la tutela, per un verso, della giusta parte (che, dopo l’evento, è considerato un soggetto ormai nuovo e diverso da quello che era stato fino ad allora nel processo) ed il problema della conoscibilità dell’evento stesso, con tutto quanto consegue circa la tutela, per altro verso, della buona fede della controparte, che incolpevolmente l’abbia ignorato. Di qui, la configurazione in termini di nullità dell’atto diretto alla parte che non esiste più o non è più capace o dell’atto da quella proveniente, con la correlata esigenza di individuare meccanismi recuperatori (rispetto alle maturate decadenze), quali la rimessione in termini o la costituzione (entro certi termini) degli eredi della parte deceduta. Un più attento raffronto tra i principi di volta in volta affermati e le vicende trattate, consente poi di verificare che la soluzione giurisprudenziale è stata la maggior parte delle volte raggiunta attraverso il metodo induttivo, più che deduttivo. Nel senso che, dati alcuni principi base, la peculiarità del caso specificamente trattato ha influenzato la decisione ed il suo portato nomofilattico, mentre più raramente dal principio generale si è pervenuti a disciplinare la vicenda concreta. Ed è per questo che le regole di massima hanno viaggiato diacronicamente attraverso quello che viene definito il diritto vivente, potendosi riscontrare in recenti pronunzie echi emersi alcuni decenni addietro, benché essi dovessero o potessero ritenersi superati dagli arresti di volta in volta resi dalle Sezioni Unite. È per questo che, ancora una volta, il collegio di una sezione semplice si rivolge alle Sezioni Unite per sapere quale, delle tante soluzioni finora escogitate, sia da applicare ad un processo che, soprattutto per la sua esasperante ed insostenibile durata, vede innumerevoli volte verificarsi la successione di parte a parte. La tesi della nullità, introdotta dalla sentenza del 1996 e seguita, poi, nella conclusione estrema apportata dalla sentenza del 2005, non ha soddisfatto la successiva giurisprudenza ed ha destato aspre critiche in dottrina. La stessa sentenza del 1996 individua il vizio dell’ipotesi esaminata (notificazione dell’impugnazione alla parte deceduta, presso il procuratore costituito nel precedente grado) con una sorta di approssimazione (in via di principio non appare scorretta la riconduzione della tematica in esame alla categoria della nullità...) ed in via d’esclusione, tenuto conto che non può trattarsi di 878 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza “inesistenza/inammissibilità” perché l’impugnazione non è rivolta contro un soggetto tutt’affatto diverso da quello che è stato nel precedente grado e che tra il soggetto deceduto ed i suoi eredi non v’è totale alterità dal punto di vista del processo. Vizio che “potrebbe”, dunque ricondursi al combinato disposto dell’art. 163 c.p.c., n. 2, e art. 164 c.p.c., in quanto attinente all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione. Ma la sentenza del 2013 non si mostra convinta da questa soluzione, riflettendo sul fatto che nella situazione della quale si discute non v’è incertezza sull’identità della parte (che, invece, è ben chiara), ma accade che il giudizio sia stato promosso, oppure che in esso sia stata evocata, una parte diversa da quella che quel giudizio avrebbero potuto promuovere, o che avrebbero dovuto esservi evocati. Non è, insomma, l’identificazione della parte del processo ad essere in gioco, bensì la stessa possibilità di assumere la veste di parte per l’autore o per il destinatario della chiamata in giudizio. Ed allora, ove tale possibilità di assumere la veste di parte faccia difetto, si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo: donde l’inammissibilità dell’atto che lo promuove. Analoghe critiche sono state mosse, dalla dottrina, alla tesi della nullità: sia perché l’art. 164 c.p.c., riguarda il caso dell’omissione o dell’assoluta incertezza dell’identità della parte evocata in giudizio, evidentemente ben diverso da quello della precisa direzione della vocatio in ius verso un soggetto compiutamente identificato ma estinto (tant’è che non è poi mancata qualche pronunzia della stessa Suprema Corte che ha ritenuto attinente addirittura alla editio actionis il vizio derivante dalla citazione in giudizio di una persona fisica deceduta, anziché dei suoi eredi); sia perché la stessa giurisprudenza di legittimità, anche se probabilmente per l’insussistenza in tal caso dell’esigenza di tutelare la parte ignara dell’avvenuto decesso della controparte, sembra non fare un simmetrico discorso in relazione al caso dell’impugnazione proposta da (anziché contro) un soggetto ormai estinto, che infatti non sembrava esitare nell’affermare inammissibile e non già affetta da una nullità sanabile ex tunc ai sensi e nei modi di cui all’art. 164 c.p.c., commi 1 e 2; sia, ancora, perché l’idea che l’impugnazione proposta da o contro una parte deceduta sia nulla ma sanabile ex tunc è asimmetrica pure rispetto alla pacifica affermazione che l’atto introduttivo del giudizio di primo grado rivolto o notificato ad un soggetto inesistente è assolutamente inidoneo ad instaurare il contraddittorio processuale e dunque è esso stesso giuridicamente inesistente (in questo senso: Cass. 3 agosto 1984, n. 4616), ovvero affetto da una nullità assoluta ed insanabile rilevabile in ogni stato e grado del processo (in quest’altro senso: Cass. 14 agosto 1999, n. 8670; 5 dicembre 1994, n. 10437; 14 aprile 1988, n. 2951; 1 ottobre 1985, n. 4758; 23 maggio 1985, n. 3108; 6 aprile 1983, n. 2400; 12 gennaio 1979, n. 244). Il quadro interpretativo, così come emerso e sviluppato, manifesta, dunque, un profondo stato di insoddisfazione ed inquietudine, un’instabilità in- Rassegna Forense - 3-4/2014 879 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte sopportabile e sconcertante non solo per la dottrina e per il foro ma, evidentemente, per gli stessi giudici (di merito e di legittimità). Allora, le Sezioni Unite sono caricate dallo sforzo (e dall’auspicio) di offrire alla materia una soluzione che abbia un effetto stabilizzante per il processo ed eviti equivoci, arditi distinguo, ricerca di rimedi di salvaguardia e sanatoria, accertamenti incidentali relativi a condotte e stati psicologici. E, per stabilizzare il processo, occorre stabilizzare la parte stessa, ritornando alla teoria dell’ultrattività del mandato, nel senso e nei limiti di cui si dirà in seguito, seguendo il consiglio che ormai da molta parte della dottrina proviene. 6. - L’ultrattività del mandato. Come s’è visto in precedenza, la tesi dell’ultrattività del mandato costituisce uno dei primi approdi giurisprudenziali. Gli arresti degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso non dubitavano che il principio per cui il mandato alla lite sopravvive alla morte del mandante si spiega, sul piano razionale e funzionale, con la considerazione che, salvo che la legge disponga altrimenti, le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente (art. 82 c.p.c.) ed a tale presenza la legge fa ricorso ai fini di regolare gli effetti della morte o della perdita della capacità della parte costituita o contumace, in modo che tali eventi non operino automaticamente sul corso della vicenda processuale turbandone l’ordinato svolgimento, col rischio di provocare ingiustificate ripercussioni sostanziali sul diritto dedotto. Dal canto suo, l’art. 85 c.p.c., stabilisce che la procura può essere sempre revocata ed il difensore può sempre rinunciarvi, ma la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore. Concordando con la maggiore elaborazione giurisprudenziale della tesi in argomento, sviluppata dalle già citate tre sentenze rese dalle Sezioni Unite del 1984, occorre riflettere sulla circostanza che, a norma dell’art. 300 c.p.c., essendo indispensabile ed insostituibile la comunicazione formale dell’evento da effettuarsi dal procuratore della parte deceduta o che ha perduto la capacità di stare in giudizio, e non avendo perciò rilevanza la conoscenza che dell’evento le altre parti abbiano aliunde, l’effetto interruttivo del processo è prodotto da una fattispecie complessa costituita dal verificarsi dell’evento e dalla dichiarazione in udienza o dalla notificazione fattane dal procuratore alle altre parti. Dichiarazione o notificazione che il procuratore della parte defunta o non più capace, ed egli soltanto (con esclusione, perciò degli eredi o del rappresentante legale della parte), può, discrezionalmente, fare o non fare, e fare nel momento che ritiene più opportuno, al fine di provocare, sul presupposto dell’effettivo verificarsi dell’evento, l’effetto giuridico dell’interruzione del processo; dichiarazione o notificazione del procuratore che, consistendo nell’esteriorizzazione di una determinazione volitiva, al fine di produrre l’effetto interruttivo del processo, si configura come negozio processuale del procuratore legittimato dal potere rappresentativo conferito con la procura ad litem. In altri termini, l’interruzione del processo non si produce automaticamente, quale effetto ricollegato direttamente ed esclusivamente alla morte o alla 880 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza perdita della capacità della parte: finché non vi sia la comunicazione formale del procuratore della parte defunta o divenuta incapace, proseguendo l’iter processuale nello stato anteriore, come se la parte fosse ancora in vita o continuasse ad essere capace, si verifica, appunto, il fenomeno dell’ultrattività della procura ad litem, nonostante il verificarsi dell’evento che, per la norma dell’art. 1722, n. 4, avrebbe dovuto procurarne l’estinzione (vedremo, in seguito, che la regola dell’ultrattività del mandato alla lite è compatibile con il diritto sostanziale). La tassatività delle forme di manifestazione dell’evento previste dall’art. 300 c.p.c., comma 1, è, dunque, confortata dalla natura negoziale della dichiarazione esplicitata in udienza o notificata, la quale è a sua volta argomentata, in primo luogo, per essere nella potestà del difensore il diritto-potere di provocare o meno l’interruzione del processo ed, in secondo luogo, in quanto, allorché il procuratore, valutata la situazione processuale e sostanziale facente capo alla parte colpita dall’evento, entri nella determinazione di denunciare l’evento, la sua è una manifestazione di volontà preordinata a conseguire il fine (e l’effetto) della tutela dell’interruzione. Va, dunque, escluso che la dichiarazione in questione sia di pura scienza. Se lo fosse (ossia, avesse la semplice funzione di mettere al corrente la controparte del fatto menomativo sopravvenuto), la dichiarazione diventerebbe un atto doveroso e dovuto, in quanto il difensore, una volta a conoscenza dell’accadimento, sarebbe tenuto a darne notizia; inoltre, e per conseguenza, verrebbe sottratto al procuratore della parte il potere di valutare la situazione processuale in corso e di manifestare l’evento con la precisa e predeterminata volontà di perseguire per il proprio cliente la tutela della interruzione. Ma ciò contrasta proprio con le ragioni che hanno spinto il legislatore a diversificare la disciplina del perfezionamento della fattispecie interruttiva nell’ipotesi in cui la parte sia costituita in giudizio a mezzo di procuratore ad litem. Infatti, ove questi ritenga che nessun pregiudizio possa derivare alla parte sostanziale dalla prosecuzione del processo (eventualmente concordata con chi è legittimato a costituirsi in giudizio in vece del soggetto colpito dall’evento), proprio in virtù del potere discrezionale di cui legittimamente si avvale, può anche sottacere l’evento, astenendosi dal provocare l’interruzione del processo. Restando, tuttavia, esposto ad una personale responsabilità nei confronti della parte sostanziale, qualora dalla omessa dichiarazione della morte o del fatto esclusivo della capacità di stare in giudizio sia derivato a questa un pregiudizio, tenuto conto che la sentenza deliberata al termine di un processo, che avrebbe potuto essere interrotto, è comunque destinata a produrre i suoi effetti. È per questo che dottrina e giurisprudenza hanno attribuito al difensore la figura di dominus litis, discutendo di sopravvivenza della rappresentanza giudiziale alla morte del mandante ed ipotizzando talvolta una presunzione di conferma tacita del mandato da parte del successore della parte deceduta o di colui che assume la rappresentanza legale della parte divenuta incapace, destinata a venir meno soltanto con la comunicazione dell’intervenuto evento. Come rappresentante tecnico, il difensore, con la costituzione in giudizio, realizza anche e soprattutto la presenza legale della parte nel processo, il Rassegna Forense - 3-4/2014 881 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte quale rimane completamente impermeabile rispetto agli eventi menomativi che colpiscono la parte stessa o il suo rappresentante legale. In altre parole ed in linea di principio, il decesso della parte non pregiudica alcun diritto dei suoi successori, in quanto la presenza in giudizio del procuratore ad litem garantisce ed assicura il rispetto del contraddittorio. Di qui il potere del difensore di proseguire il processo nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo, insuscettibile di ledere il contraddittorio e di pregiudicare o menomare in qualche modo l’esercizio dell’attività tecnica difensiva, che è di esclusiva competenza del procuratore, sul quale graverà, se mai, l’onere (tenuto conto della personale responsabilità di cui si faceva cenno) di dare notizia dell’esistenza e pendenza del processo ai legittimati alla prosecuzione del giudizio per concordare con questi la determinazione di interrompere o meno il processo. L’unico, vero limite, invece, che il procuratore della parte può incontrare nell’esercizio del potere discrezionale di proseguire il processo successivamente all’evento interruttivo è quello del grado di giudizio, in pendenza del quale si è verificato l’accadimento. In altre parole, allorché, la parte abbia conferito procura ad litem per il solo giudizio di primo grado, il difensore, che non avesse dichiarato o notificato l’evento, potrebbe solo ricevere la notifica della sentenza o dell’atto di impugnazione, ma non potrebbe mai né notificare validamente la sentenza né, tantomeno, interporre o costituirsi nel giudizio di gravame. Diversamente, potrebbe attendere e svolgere legittimamente le attività in oggetto e quelle procuratorie in generale, qualora sia munito di procura anche per gli altri gradi di giudizio. Così pure, un ulteriore limite è costituito dalla procura speciale ad impugnare per cassazione, nel senso che il procuratore costituito per i giudizi di merito potrebbe solo ricevere la notifica della sentenza o dell’atto di impugnazione per cassazione, ma non potrebbe né validamente notificare la sentenza, né resistere con controricorso, né, tanto meno proporre ricorso in via principale o incidentale. Passando ora alla seconda fase processuale, che va dalla chiusura della discussione alla pubblicazione della sentenza, il verificarsi dell’evento, pur se notificato dal procuratore, non produce alcun effetto interruttivo, perché la situazione delle parti è cristallizzata al momento iniziale di tale fase e ad essa si riferisce la sentenza. Tuttavia, la notificazione che il procuratore della parte defunta abbia fatto in epoca successiva alla chiusura della discussione, come quella che faccia una volta pubblicata la sentenza e prima che questa sia notificata richiede che ci si interroghi sulla direzione che tale notificazione debba prendere per poter produrre l’effetto suo proprio di determinare la decorrenza del termine breve per l’impugnazione. Ora, l’art. 285 c.p.c., dispone, in via generale, che la notificazione della sentenza, al fine della decorrenza dei termini per l’impugnazione, si fa, su istanza di parte, a norma dell’art. 170 (l’originario testo dell’art. 285 stabiliva che “la notificazione della sentenza... si fa, su istanza di parte, a norma dell’art. 170, commi 1 e 3”; la l. n. 69 del 2009, ha soppresso l’inciso “commi 882 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 1 e 3 “), ossia al procuratore costituito per la parte nel grado di giudizio concluso con la pubblicazione della sentenza. Il primo comma del successivo art. 286, per l’ipotesi che dopo la chiusura della discussione si sia verificata la morte o la perdita della capacità della parte alla quale deve essere notificata la sentenza, dispone che tale notificazione nsi può fare, anche a norma dell’art. 303, comma 2, a coloro ai quali spetta stare in giudizio”, ossia agli eredi della parte defunta, individualmente a ciascuno di loro oppure collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto, o al rappresentante legale della parte divenuta incapace. Le sentenze del 1984 hanno affermato che la forma verbale usata nell’art. 286, comma 1, (“si può fare”) offre alla parte totalmente o parzialmente vittoriosa due alternative per la notificazione della sentenza al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione: o dirigerla alla parte defunta o divenuta incapace, come se fosse ancora in vita o capace, rappresentata dal suo procuratore nel precedente grado del processo, oppure dirigerla agli eredi della controparte defunta o al rappresentate legale della controparte divenuta incapace. È necessario, però, precisare che questa possibilità di scelta sussiste per la parte che si accinge alla notificazione della sentenza solo se non le sia stata intanto notificato dal procuratore dell’altra l’evento che è sopravvenuto a menomarne la capacità di difesa. Di tal che, la notificazione della sentenza non potrebbe sortire l’effetto di far iniziare il decorso del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., quando sia fatta al procuratore dell’altra, una volta che il suo procuratore ne abbia notificato il sopravvenuto effetto menomante. È, dunque, affidata alla scelta della parte vittoriosa l’incidenza o meno della morte o della perdita della capacità della controparte, verificatasi dopo la chiusura della discussione, nel rapporto processuale entrato nello stato di quiescenza dopo la pubblicazione della sentenza, per la notificazione di questa al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione. Se la scelta è fatta in senso positivo, l’incidenza dell’evento nel rapporto processuale si verifica per volontà di quella parte. Se, invece, la scelta è fatta in senso negativo, il rapporto processuale, nel suo riferimento soggettivo resta immutato, quale era al momento della chiusura della discussione: continua ad essere parte, rappresentata dal suo procuratore, il soggetto defunto o divenuto incapace, come se fosse ancora in vita o capace, essendo la sua estinzione o la modifica del suo stato irrilevante nei confronti dell’altra parte. La prospettiva da cui si pone l’art. 328 c.p.c., comma 1, è infine quella del fatto menomante che colpisce la parte mentre è in corso il termine breve per l’impugnazione, perciò dopo che si sia avuta la notificazione della sentenza. Verificatosi l’evento durante la decorrenza del termine breve, questo è interrotto ed il nuovo decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata, la quale rinnovazione può essere fatta agli eredi collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto. L’art. 328, comma 1, non diversifica la disciplina per l’una e l’altra parte, disponendo genericamente che “il termine è interrotto e il nuovo decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata”, mentre il terzo Rassegna Forense - 3-4/2014 883 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte comma (sulla cui attuale operatività, a seguito della modifica dell’art. 327 c.p.c., comma 1, ci si è già interrogati in precedenza) statuisce (o statuiva) espressamente che il termine di un anno “è prorogato per tutte le parti”: la stessa portata deve avere la norma di cui al comma 1. In questo periodo di quiescenza, dunque, l’evento costituisce (diversamente da quanto, come abbiamo visto, avviene nella fase attiva) un elemento genetico strutturalmente completo, che produce effetti d’interruzione o di proroga del termine d’impugnazione in maniera diretta ed esclusiva. Ed in questo senso, è, dunque, corretto affermare che il legislatore ha previsto una differente disciplina per ciascuno dei momenti in cui l’evento si verifichi; discipline che non si sovrappongono e non interferiscono tra loro, sicché, verificatosi l’evento in un dato momento del rapporto processuale e prodottosi l’effetto ricollegato all’evento dalla corrispondente normativa, l’effetto così prodotto permane in tutto il successivo svolgersi del rapporto, senza che su di esso possano influire le altre diverse normative che regolano gli effetti dell’evento verificatosi negli ulteriori momenti del rapporto. Perciò, tornando all’ipotesi in cui l’evento si verifichi durante la fase attiva del processo, l’unica disciplina applicabile è quella dell’art. 300, con la conseguenza che la scelta (esteriorizzazione o meno dell’evento) è nelle mani del procuratore della parte colpita dall’evento e l’effetto che deriverà da questa scelta permarrà per tutto l’ulteriore svolgimento del rapporto processuale. Se egli (unico legittimato) omette la dichiarazione dell’evento in udienza o la notificazione alle altre parti (fino all’udienza di discussione), la posizione giuridica della parte da lui rappresentata resta stabilizzata, rispetto alle altri parti ed al giudice, come se fosse ancora viva o capace, sia nella fase attiva in corso del rapporto, sia nelle successive fasi di quiescenza, dopo la pubblicazione della sentenza, sia di riattivazione del rapporto processuale stesso a seguito e per effetto della proposizione dell’impugnazione. Questa posizione giuridica stabilizzata si modificherà solo se, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiranno gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure, ancora, se il procuratore di tale parte, originariamente munito di valida procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiarerà in udienza o notificherà alle altre parti l’evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sarà notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 300 c.p.c., comma 4. Ed è proprio la stabilizzazione della parte, pur se defunta o divenuta incapace, a comportare nell’ambito del rapporto processuale, verso l’esterno, nei confronti delle altri parti e del giudice, l’ultrattività della procura alla lite. Nel senso che verso l’esterno il procuratore costituito continua a rappresentare la parte, considerata esistente e capace. Tutto ciò si riflette nel rapporto interno tra cliente e procuratore. Alla base di questo v’è, dunque, l’incarico di una prestazione d’opera professionale di carattere pubblicistico, con conferimento del potere di rappresentanza processuale, esteriorizzato nei confronti dei terzi dalla procura alla lite (o alle liti), che permane, nonostante la morte o la perdita di capacità della parte, nella cui posizione subentrano gli eredi o il rappresentante legale. 884 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 7. - Critiche alla teoria dell’ultrattività del mandato. Confutazione. Giunti a questo punto, occorre affrontare (e confutare) le critiche rivolte alla tesi dell’ultrattività del mandato ed alle conseguenze che essa comporta; critiche che si sostanziano, soprattutto: nella valorizzazione della giusta parte, che a seguito del verificarsi dell’evento menomativo, non sarebbe più quella originaria e che andrebbe tutelata nella sua diversa identità; nell’inestensibilità della disciplina dell’art. 300 c.p.c., alle fasi processuali per le quali non è esplicitamente prevista, dovendosi considerare questa disposizione eccezionale e derogatoria alla già menzionata disposizione civilistica dettata in tema di mandato. Quanto al primo rilievo, s’è già dato conto del versante giurisprudenziale che, nel considerare le ipotesi di evento verificatosi tra un grado e l’altro del processo, afferma l’imprescindibilità della nuova realtà soggettiva venutasi a determinare, con la conseguenza che il nuovo grado di giudizio andrebbe instaurato da e contro i soggetti reali. È questo orientamento che, nel porre al centro della questione la regola dell’art. 328 c.p.c., (secondo la quale - lo si ripete - l’evento interruttivo verificatosi dopo la pubblicazione della sentenza conclusiva di una fase di merito incide non più sul processo, bensì sul termine per la proposizione dell’impugnazione) deduce che, in nessun caso, si può prescindere dalla nuova, reale situazione soggettiva delle parti sostanziali interessate attualmente dalla controversia ed al processo. Orientamento che, come s’è visto, è richiamato dal precedente delle Sezioni Unite del 1996, il quale accoglie questa impostazione giurisprudenziale alla luce del principio “chiovendiano” secondo cui le parti, quand’è definito un grado e deve aprirsene un altro, tornano nella situazione in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, ossia prima di dover conoscere la condizione di colui col quale intende contrarre il rapporto processuale. Principio che sarebbe derogato solo nel caso in cui l’evento si sia verificato nella fase attiva del rapporto ed il procuratore non l’abbia dichiarato e che riacquisterebbe, invece, pieno vigore allorché l’evento si verifichi tra un grado e l’altro, con la necessità che il processo di impugnazione vada proposto contro i soggetti “reali”. Il riferimento (seppur sotto forma d’aggettivazione, in ragione del divieto di citare in sentenza il nome di autori) all’illustre processual civilista è ribadito dalla sentenza a Sezioni Unite del 2005 per giungere - come s’è visto - a conclusioni di carattere generale (non limitate, dunque, all’ipotesi in trattazione del minorenne divenuto maggiorenne nel corso del processo) ancor più estreme rispetto alla sentenza del 1996. Tuttavia, oggi le Sezioni Unite nutrono un forte ripensamento circa il fatto che quell’idea dottrinaria del processo possa essere trasferita nella materia in questione per trarne la conseguenza che la parte, ogni volta che si apra una nuova fase processuale (sia essa attiva o di quiescenza), debba ripetere tutti gli stessi accertamenti svolti all’origine dell’instaurazione della causa, per avere la certezza (pur sempre relativa) di avere come proprio interlocutore la parte “reale” del processo. Rassegna Forense - 3-4/2014 885 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte È pur vero che il precetto costituzionale dell’art. 111 (peraltro, invocato da ciascuna delle contrapposte tesi) implica e contiene nel principio del contraddittorio anche quello di giusta parte. Tuttavia, occorre mettersi d’accordo su quale sia effettivamente questa parte. I precedenti che hanno ritenuto nulla o inammissibile l’impugnazione rivolta contro il defunto e notificata presso il suo procuratore comunemente sostengono che giusta non può considerarsi la parte non più in vita, nel cui universum ius sono subentrati i successori, deducendone che l’impugnazione va instaurata e deve svolgersi da e contro i soggetti che siano parti attualmente interessate alla controversia ed al processo. Bisogna, invece, dire, sulla base di quanto finora espresso, che cosa è la parte in senso processuale e cosa è la parte in senso sostanziale, che la giusta parte è quella che ha instaurato e quella contro cui è stato instaurato il giudizio, ossia quelle che lo hanno fondato e costruito, conferendo il loro mandato al difensore per la globale cura della controversia. Parti che, seppur menomate nella loro capacità o nella loro stessa esistenza in vita, continuano a veder tutelate le proprie ragioni, in favore di coloro che saranno i successori, ad opera del loro rappresentate eletto, al quale soltanto è conferito il potere di disvelare al giudice ed alla controparte l’avvenuta verificazione di quella menomazione. Allora, proprio nella logica costituzionale delle “pari condizioni processuali”, appare quanto meno paradossale che colui che è detentore della conoscenza di quell’evento (il difensore) e decida di non svelarlo al giudice ed alla controparte, possa successivamente giovarsi di quella scelta (che potrebbe essere addirittura concordata con i chiamati all’eredità), ottenendo che tutti gli atti rivolti al defunto e presso di lui notificati siano, in buona sostanza ed a prescindere dalle categorie giuridiche, ridotti nel nulla. Il legislatore, probabilmente, non ha più dettagliatamente disciplinato la materia nella prospettiva che la via della dichiarazione o della notificazione dell’evento, ai fini dell’interruzione del processo, dovesse essere quella più comunemente sperimentata. Invece, l’interpretazione del complesso normativo nel senso opposto a quello che si va ora affermando condurrebbe non solo a legittimare il summenzionato paradosso ma, addirittura, ad incentivare il difensore in una scelta difensiva che porti quanto più possibile non solo a tacere ma addirittura a celare l’evento, così da avvantaggiarsene in seguito. A tutto questo occorre aggiungere che non è infondata la protesta di molta parte della dottrina che ha temuto (soprattutto criticando l’arresto delle Sezioni Unite del 2005) la trasformazione degli avvocati da tutori degli interessi sostanziali dei loro clienti ad “attenti e scrupolosi investigatori della capacità processuale della controparte”. Passando, ora, al secondo rilievo (eccezionalità e, dunque, inestensibilità alle fasi processuali per le quali non è prevista della disciplina dell’art. 300), pur senza assumere alcuna posizione in ordine a quella dottrina che predica l’autonomia del diritto processuale da quello sostanziale, occorre notare, nell’affrontare il parallelismo tra diritto sostanziale e diritto processuale, che il principio di ultrattività del mandato ad litem non costituisce affatto 886 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza un’eccezione rispetto alle regole civilistiche concernenti il mandato, bensì segue una logica insita nel sistema sostanziale. A tal riguardo va invocato l’art. 1728 c.c., comma 1, (a mente del quale, quando il mandato s’estingue per morte o incapacità sopravvenuta del mandante, il mandatario che ha iniziato l’esecuzione deve continuarla, se vi è pericolo nel ritardo), che è interpretato nel senso che il mandatario deve continuare l’esecuzione del mandato estinto, agendo quale gestore di negozi, non già soltanto quando vi è un pericolo, ma sempre che a suo criterio, corrispondente a quello del buon padre di famiglia, vi sia l’eventualità di un pregiudizio per l’affare o per la buona riuscita dello stesso; così come, in sostanza, il difensore continua a gestire la lite per la parte defunta o divenuta incapace secondo la sua discrezionale scelta difensiva mirante al buon esito della controversia. Altrettanto, allo stesso fine, deve essere invocata la seconda parte dell’art. 1722, n. 4, la quale stabilisce che il mandato avente per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa non s’estingue per morte, interdizione o inabilitazione del mandante, se l’esercizio dell’impresa è continuato (salvo il diritto di recesso delle parti o degli eredi). Qui valgono i medesimi criteri che mantengono ferma la proposta di contratto fatta dall’imprenditore nonostante la sua morte, interdizione o inabilitazione; ossia, l’impresa obiettivizza gli interessi che si concentrano in essa e li rende (quasi) indipendenti dalle vicende che colpiscono la persona dell’imprenditore. E non è peregrina, al riguardo, la proposta di un autore favorevole alla teoria dell’ultrattività del mandato alla lite, che suggerisce di sostituire alle parole “atti relativi all’esercizio di un’impresa” le parole “atti relativi allo svolgimento del processo”, per verificare la perfetta corrispondenza della menzionata teoria anche alle regole civilistiche. Nella stessa linea si pone anche l’art. 1723 c.c., comma 2, laddove è sancito che il mandato conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi non s’estingue per la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante. Ai fini che ci interessano è pure utile menzionare l’art. 2013 c.c., comma 3, il quale stabilisce che l’efficacia della girata per procura del titolo di credito non cessa per la morte o la sopravvenuta incapacità del girante. Ma la norma fondamentale alla quale fare riferimento è quella contenuta nell’art. 1396 c.c., comma 2, secondo cui le cause di estinzione, diverse dalla revoca della procura, del potere di rappresentanza conferito dall’interessato non sono opponibili ai terzi che le hanno senza colpa ignorate. E, tra le cause di estinzione del potere rappresentativo diverse dalla revoca, vi sono, appunto, la morte o la sopravvenuta incapacità del rappresentato. In conclusione, sembra inutile discutere della limitata efficacia della disposizione dell’art. 300 c.p.c., come conseguenza della sua eccezionalità rispetto al sistema sostanziale: sia perché essa ha una sua specifica ratio e funzione nel corretto e coerente svolgimento del processo, e ciò basta perché tutto il processo possa riceverne beneficio; sia perché essa è perfettamente in linea con il sistema sostanziale che, in particolari ipotesi e per determinati fini, prevede, come s’è visto, dei meccanismi assolutamente analoghi. Altri argomenti militano, poi, a favore della tesi qui affermata. Rassegna Forense - 3-4/2014 887 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte Tenuto conto degli interessi in gioco (quello della parte che non ha subito l’evento, alla prosecuzione del processo ed all’ammissibilità dell’impugnazione; quello della parte colpita dall’evento, alla garanzia del diritto di difesa) il neointrodotto art. 816 sexies c.p.c., (dal d.lgs. n. 40 del 2006, art. 22) stabilisce che, se la parte viene meno per morte o altra causa, ovvero perde la capacità legale, gli arbitri assumono le misure idonee a garantire l’applicazione del contraddittorio ai fini della prosecuzione del giudizio. Essi possono sospendere il procedimento e se nessuna delle parti ottempera alle disposizioni degli arbitri per la prosecuzione del giudizio, gli arbitri possono rinunciare all’incarico. Disposizione, questa, che pone la prosecuzione del giudizio al centro dell’interesse comune delle parti, pur nella salvaguardia del contraddittorio da assicurare con qualsiasi misura dettata dall’arbitro. L’art. 182 c.p.c., nel comma 2, sostituito dalla l. n. 69 del 1969, art. 46, stabilisce che il giudice, quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. Come suggerisce un’attenta dottrina, distinguendo “rilascio” da “rinnovazione” della procura alle liti, la norma sembra considerare due fenomeni distinti: il primo, caratterizzato dalla alterità soggettiva dell’autore della (nuova) procura rispetto a colui che l’aveva (necessariamente ex art. 125 c.p.c., comma 2) rilasciata in origine, così rimediando al successivo venir meno del potere; il secondo, caratterizzato invece dalla permanenza del potere in capo al medesimo soggetto, cui compete il nuovo esercizio soltanto per emendare i vizi dell’atto formato in origine. Pertanto, la tesi dell’ultrattività del mandato trova un’implicita convalida là dove la legge ammette la negotiorum gestio dell’avvocato, tanto da consentire ai nuovi titolari del potere di rilasciare una procura con efficacia anche retroattiva e godere del ponte tra i diversi gradi che l’esercizio difensivo dell’avvocato (intanto fattosi sprovvisto del potere autenticamente rappresentativo per il venir meno della parte originaria) ha già precariamente assicurato. Recuperando ex tunc, in questo modo, e stabilizzando la continuità del potere di rappresentanza in giudizio. A conclusione di questo discorso occorre apporre un’avvertenza. Tutto quanto finora detto e la soluzione adottata non significa certamente che la causa “della parte” si possa trasformare in causa “dell’avvocato”. Al contrario, la soluzione qui accolta carica di maggiore responsabilità il difensore, poiché è vero che la scelta di esteriorizzare o meno l’evento è solo sua e fa capo alla propria, discrezionale scelta professionale (sia essa concordata o non con i successori della parte scomparsa), ma è maggiormente vero che siffatto complesso di legittimazioni e poteri lo pone in una situazione professionalmente e deontologicamente delicatissima nei confronti dei successori stessi. Occorre, infatti, ricordare che uno dei principali obblighi scaturenti dal contratto d’opera professionale è quello d’informazione, il che significa che è implicito al sistema che il procuratore alla lite, verificatosi uno degli eventi dei 888 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza quali s’è finora discorso, è legittimato a ricevere gli atti dei quali s’è detto ed tenuto a compiere di sua iniziativa solo gli atti urgentissimi che siano indispensabili ad evitare decadenze; per il resto, egli ha il preciso obbligo professionale di individuare immediatamente i successori o il rappresentante del suo cliente per informarli dello stato della causa, illustrare la strategia difensiva e ricevere disposizioni in merito. Diversamente, egli è responsabile in via disciplinare ed in via civile per qualsiasi pregiudizio derivante al cliente dalla sua colpevole condotta. In conclusione, va affermato il principio secondo cui: L’incidenza sul processo degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c., (morte o perdita di capacità della parte) è disciplinata, in ipotesi di costituzione in giudizio a mezzo di difensore, dalla regola dell’ultrattività del mandato alla lite, in ragione della quale, nel caso in cui l’evento non sia dichiarato o notificato nei modi e nei tempi di cui all’art. 300 c.p.c., il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento non si sia verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza e riattivazione del rapporto a seguito della proposizione dell’impugnazione. Tale posizione giuridica è suscettibile di modificazione nell’ipotesi in cui, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza o notifichi alle altri parti l’evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sia documentato dall’altra parte (come previsto dalla novella di cui alla l. n. 69 del 2009, art. 46), o notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 300 c.p.c., comma 4. Ne deriva che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, a norma dell’art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale della parte divenuta incapace; b) detto procuratore, qualora gli sia originariamente conferita procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione (ad eccezione del ricorso per cassazione, per la proposizione del quale è richiesta la procura speciale) in rappresentanza della parte che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo ancora in vita e capace; c) è ammissibile l’atto di impugnazione notificato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto diversamente conoscenza dell’evento. 8. - La soluzione del caso in esame. Venendo ora allo ius litigatoris e riassumendo i dati della fattispecie in trattazione, si rileva che: a) la causa sottoposta al giudizio della seconda sezione è iniziata con citazione notificata il 2 marzo 1990, dunque prima delle modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla l. n. 353 del 1990, e successive integrazioni; b) una delle parti è deceduta prima della pubblicazione della sentenza di secondo grado; c) il ricorso per cassazione è stato notificato alla parte deceduta, presso il suo procuratore nel precedente grado; d) il contro- Rassegna Forense - 3-4/2014 889 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Ultrattività del mandato in caso di morte della parte ricorso dei soggetti dichiaratisi eredi del de cujus è stato notificato prima del decorso del termine c.d. lungo per l’impugnazione di legittimità, non risultando notificata la sentenza di appello. Ciò posto, la vicenda avrebbe assunto diversi esiti a seconda che si fosse applicata la regola della sentenza del 1996 o quella della sentenza del 2013. La prima avrebbe attribuito efficacia sanante del ricorso (considerato nullo) al controricorso degli eredi, con efficacia ex nunc (trattandosi, come s’è detto, di processo introdotto prima delle modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla l. n. 353 del 1990); la seconda avrebbe sanzionato d’inammissibilità il ricorso. La tesi oggi accolta risolve in radice ogni problema, posto che il ricorso per cassazione risulta essere stato notificato alla parte deceduta presso il procuratore nominato per il precedente grado di giudizio. Il ricorso stesso è, dunque, ammissibile. Gli atti vanno rimessi alla seconda sezione civile per la decisione in ordine al merito del ricorso. P.Q.M. La Corte, a Sezioni Unite, dichiara ammissibile il ricorso e rimette gli atti alla seconda sezione civile per la decisione in ordine al merito del ricorso stesso. Così deciso in Roma, il 25 marzo 2014. Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2014 890 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 281. Sull’avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della professione. Cass. civ., SS.UU., sentenza 7 luglio 2014, n. 15429 - Primo Pres. f.f. ROVELLI - Pres. sez. ADAMO - Pres. sez. RORDORF - Rel. BANDINI Il ricorso al Consiglio Nazionale Forense non ha effetto sospensivo del provvedimento di sospensione cautelare dell’avvocato dall’esercizio della professione, sicché deve ritenersi legittima la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo per aver svolto l’attività difensiva nonostante la sospensione in via cautelare e a tempo indeterminato dall’esercizio della professione. FATTO L’avvocato P.O. impugnò avanti al Consiglio Nazionale Forense la decisione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca del 30.9.2011-21.5.2012, con la quale gli era stata inflitta la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo professionale, per avere svolto, in data 10.12.2010, attività difensiva avanti al Tribunale di Lucca, nonostante fosse stato sospeso, in via cautelare e a tempo indeterminato, con provvedimento del competente Consiglio dell’Ordine in data 11.10.2010, dall’esercizio dell’attività forense; con il quarto motivo di impugnazione, in particolare, l’avv. P. dedusse che l’esercizio della professione durante la sospensione cautelare non era censurabile, in quanto dovuta ad errore scusabile. Con sentenza n. 195/2013 del 18.7-21.10.2013, il Consiglio Nazionale Forense respinse il ricorso. A sostegno del decisum, per ciò che ancora qui specificamente rileva, il Consiglio Nazionale Forense osservò quanto segue: - il fatto storico per il quale si era proceduto non era mai stato oggetto di contestazione e poteva dunque ritenersi pacificamente ammesso; - l’avv. P. conosceva la sua condizione di sottoposto a sospensione cautelare o, comunque, era stato posto con ogni mezzo nelle condizioni di conoscerla; - in ordine alla dedotta scusabilità dell’errore nel quale il ricorrente sarebbe incorso per non avere avuto la consapevolezza della efficacia immediata della sospensione cautelare, doveva escludersi che l’iscritto all’Albo potesse invocare, come esimente della responsabilità disciplinare, la propria ignoranza delle norme che regolano la sua attività, onde la non conoscenza dei precetti deontologici avrebbe in realtà costituito aggravante della violazione contestata e non certo giustificazione della condotta; - doveva ritenersi l’estrema gravità del comportamento dell’avv. P., che, svolgendo attività processuale in pendenza di sospensione cautelare, aveva pregiudicato (o, quanto meno, avrebbe potuto compromettere) gli interessi del proprio assistito, trattandosi di attività difensiva inficiata da nullità, che in effetti aveva indotto il Giudice della causa a rimettere la stessa sul ruolo dopo averla introitata per la decisione; Rassegna Forense - 3-4/2014 891 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della professione - la sanzione inflitta doveva ritenersi adeguata, trattandosi di comportamento indiscutibilmente grave e lesivo della dignità e del decoro della professione forense. Avverso l’anzidetta sentenza del Consiglio Nazionale Forense, l’avv. P.O. ha proposto ricorso per Cassazione fondato su due motivi, con richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato; ha quindi depositato memoria illustrativa. Gli intimati Consiglio Nazionale Forense, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca e Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di Firenze sono rimasti intimati. DIRITTO 1. Preliminarmente il ricorso va dichiarato inammissibile nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e del Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di Firenze. Infatti, come è stato affermato da queste Sezioni Unite e va qui ribadito, nel giudizio di impugnazione delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense dinanzi alla Corte di Cassazione, contraddittori necessari - in quanto unici portatori dell’interesse a proporre impugnazione e a contrastare l’impugnazione proposta - sono unicamente il soggetto destinatario del provvedimento impugnato, il consiglio dell’ordine locale che ha deciso in primo grado in sede amministrativa ed il Pubblico Ministero presso la Corte di Cassazione, mentre tale qualità non può legittimamente riconoscersi al Consiglio Nazionale Forense, per la sua posizione di terzietà rispetto alla controversia, essendo l’organo che ha emesso la decisione impugnata (cfr., ex plurimis, Cass., SU, nn. 4446/2002; 9075/2003; 18771/2004; 15289/2006; 19513/2008; 1716/2013; 14746/2014). 2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge ex art. 112 c.p.c., nonché vizio di motivazione, deducendo che, con la sentenza impugnata, non era stato esaminato in alcun modo il profilo di doglianza secondo cui esso ricorrente aveva fatto affidamento, in buona fede, su di un provvedimento di un Giudice del Tribunale di Firenze, che aveva riconosciuto l’efficacia sospensiva dell’impugnativa al Consiglio Nazionale Forense contro la sanzione disciplinare. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’irragionevolezza ed eccessività della sanzione inflittagli, assumendo che per l’imputabilità di un’infrazione disciplinare è necessaria la volontarietà dell’atto deontologicamente scorretto e che, in un richiamato procedimento afferente a un diverso incolpato, era stata confermata la sanzione della sospensione dalla professione, nonostante la pluralità delle analoghe infrazioni commesse. 3. Premesso che, come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare, l’avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della professione è privo dello ius postulandi, tanto che deve ritenersi inammissibile il ricorso al Consiglio Nazionale Forense ove personalmente proposto dall’avvocato sospeso (cfr., ex plurimis, Cass., SU, n. 11213/2008) e che, come pure, con risalente decisione, queste sezioni Unite hanno espressamente precisato, il ricorso al Consiglio Nazionale Forense non ha effetto sospensi892 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza vo del provvedimento di sospensione cautelare dell’avvocato dall’esercizio professionale (cfr., Cass., SU, n. 831/1971), deve osservarsi che il primo motivo di doglianza si incentra sulla dedotta mancata considerazione, da parte della sentenza impugnata, di uno degli elementi di giudizio addotti dall’interessato a sostegno del motivo di gravame incentrato sulla scusabilità dell’errore in cui sarebbe incorso in ordine all’efficacia sospensiva del ricorso al Consiglio Nazionale Forense. 3.1 Peraltro, come già diffusamente esposto nello storico di lite, la sentenza impugnata si è espressamente pronunciata, nei termini già ricordati, su tale specifico motivo di gravame, ritenendone l’inaccoglibilità, dal che discende l’infondatezza del profilo di censura qui svolto e relativo alla pretesa violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. 3.2 Quanto al pur dedotto vizio di motivazione, va tenuto presente che, nel presente giudizio, trova applicazione il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente a seguito della riformulazione dello stesso attuata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convenuto con modificazioni nella L. n. 134 del 2012, considerato che la sentenza impugnata è stata depositata il 21.10.2013. In proposito le Sezioni Unite di questa Corte hanno già avuto modo di affermare i principi secondo cui: - la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, cosicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione; - l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in Rassegna Forense - 3-4/2014 893 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Avvocato sottoposto a sospensione cautelare dall’esercizio della professione causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr., Cass., SU, nn. 8053/2014; 8054/2014; 9032/2014). 3.3 Nel caso di specie il fatto storico non espressamente considerato dalla sentenza impugnata (vale a dire il ricordato provvedimento del Tribunale di Firenze che aveva riconosciuto l’efficacia sospensiva dell’impugnativa al Consiglio Nazionale Forense contro la sanzione disciplinare) è in sé privo del carattere di decisività, non potendo ravvisarsi, quale conseguenza logicamente necessitata dal medesimo e, come tale, comportante un diverso esito del giudizio, il riconoscimento di un errore scusabile in ordine alla legittimità della condotta professionale oggetto di incolpazione. 3.4 Né, attesa la sussistenza sul punto di una motivazione effettiva e non meramente apparente, coerente con le circostanze esaminate e scevra da elementi di illogicità, la mancata espressa considerazione dell’emergenza istruttoria dedotta dal ricorrente può concretizzare un’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé. 3.5 Il motivo all’esame, nei distinti profili in cui si articola, non può pertanto trovare accoglimento. 4. Quanto al secondo motivo, deve rilevarsi che, in sede di impugnazione delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934, n. 36, l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di controllo in sede di legittimità, salvo che si traducano in palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (cfr. Cass., SU, n. 7103/2007). Oltre a ciò, essendo le suddette decisioni soggette all’obbligo di motivazione sancito per ogni provvedimento giurisdizionale dall’art. 111 Cost., esse possono esser censurate dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione anche per difetto di motivazione, nei termini già più sopra precisati a seguito della modificazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; alla luce dei ricordati principi enunciati da queste Sezioni Unite, deve pertanto escludersi che la deduzione di tale vizio possa essere tesa ad ottenere un riesame delle prove e degli accertamenti di fatto, ovvero un sindacato sulla scelta discrezionale del Consiglio in ordine al tipo e all’entità della sanzione, non essendo consentito alla Corte di Cassazione di sostituirsi all’organo disciplinare né nell’enunciazione di ipotesi di illecito nell’ambito della regola generale di riferimento, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, né nell’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni (cfr., ex plurimis, Cass., SU, nn. 130/1999; 148/1999; 4802/2005; 20360/2007). 4.1 La coerente ed esaustiva motivazione della sentenza impugnata, nei termini già esposti, esclude il dedotto profilo di irragionevolezza della decisione assunta, dovendo altresì osservarsi che, a tale specifico riguardo, il sindacato di ragionevolezza non può prendere a parametro di valutazione, come 894 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza preteso dal ricorrente, la sanzione inflitta, in un differente giudizio ed in diverse circostanze fattuali, ancorché per violazioni deontologiche similari, ad altro avvocato. 4.2 Né può censurarsi in questa sede la sanzione inflitta sotto il profilo della sua adeguatezza, in quanto, come è stato costantemente affermato da queste Sezioni Unite e va qui ribadito, in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, il potere di applicare la sanzione adeguata alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale è riservato agli organi disciplinari, cosicché la determinazione della sanzione inflitta all’incolpato dal Consiglio Nazionale Forense non è censurabile in sede di legittimità, salvo il caso di assenza di motivazione (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 326/2003; 1229/2004; 11564/2011; 13791/2012; 9032/2014), ciò che palesemente non ricorre nel caso di specie. 4.3 Anche il secondo motivo non può pertanto essere accolto. 5. Con la memoria illustrativa il ricorrente ha dedotto la violazione del combinato disposto della L. n. 247 del 2012, artt. 52 e 59, deducendo che, in forza di tale normativa, non è più prevista l’irrogazione della sanzione della cancellazione dall’albo professionale; la doglianza è tuttavia inammissibile, non essendo stata svolta con il ricorso per cassazione. 6. In definitiva il ricorso va rigettato, con conseguente assorbimento della richiesta di sospensiva. Non è luogo a provvedere sulle spese, in mancanza di attività difensiva da parte degli intimati. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e del Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di Firenze; rigetta il ricorso nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca; nulla per le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, il 1 luglio 2014. Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 895 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Irretroattività delle norme in materia di sanzioni amministrative 282. Sul criterio generale dell’irretroattività delle norme in materia di sanzioni amministrative. Cass. civ., SS.UU., sentenza 14 luglio 2014, n. 16068 - Primo Pres. f.f. ROVELLI - Pres. sez. SALMÈ - Pres. sez. RORDORF - Rel. AMATUCCI In materia di sanzioni disciplinari a carico degli avvocati, l’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, nel prevedere, con riferimento alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico. Ne consegue che per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative, sicché è inapplicabile lo jus superveniens introdotto con l’art. 56, comma 3, della legge n. 247. FATTO Rilevato che con decisione in data 30.6.2011 il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Catanzaro irrogò all’avv. R.F. S. la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un anno per averlo ritenuto responsabile della violazione degli artt. 5 (obbligo di probità, dignità e decoro), 6 (dovere di lealtà e correttezza), 7 (dovere di fedeltà), 8 (dovere di diligenza), 38 (inadempimento al mandato), 41 gestione di danaro altrui) e 15 (dovere di adempimento previdenziale e fiscale) del codice deontologico per aver gestito in maniera non conforme al titolo la somma di circa Euro 170.000 ricevuta dalla parte assistita, “utilizzandone solo piccola parte per assolvere ad obblighi dei propri clienti e trattenendone invece preponderante parte, senza neanche darne il rendiconto, consegnare alla cliente le note specifiche e le parcelle fiscali e restituire le somme residuali, invece indebitamente trattenute: tutto ciò senza ottemperare all’obbligo di richiedere istruzioni scritte in ordine all’utilizzo delle somme ricevute fiduciariamente in deposito”; che con sentenza n. 6 del 2014 il Consiglio nazionale forense ha respinto il ricorso dell’interessato; che avverso detta sentenza l’avv. R. ricorre per cassazione sulla base di due motivi, con allegata istanza domandando la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata; ritenuto che il ricorso presenta aspetti: - di inammissibilità, in relazione all’inspiegato riferimento alla data dell’1.2.2011 (anziché del 18.5.2010, indicata all’ottava riga di pag. 7 della sentenza) come a quella di “reale notifica” della citazione a giudizio in sede disciplinare, nonché in relazione alla omessa contestazione della ratio decidendi secondo la quale il compimento del termine ad quem della prescrizione 896 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza andava individuato nell’anteriore data di apertura del procedimento disciplinare (5.11.2009); - e di infondatezza quanto alla invocata applicabilità del principio di retroattività della legge più favorevole in ambito diverso da quello penale, essendosi chiarito che “in materia di sanzioni disciplinari a carico degli avvocati, la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 65, comma 5, nel prevedere, con riferimento alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico. Ne consegue che per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative, sicché è inapplicabile lo jus superveniens introdotto con la L. n. 247 cit., art. 56, comma 3” (S.U. n. 11025/2014); che, dunque, l’istanza di sospensione dell’esecuzione della menzionata sentenza del Consiglio nazionale forense non può trovare accoglimento per assoluto difetto di fumus boni iuris. DIRITTO P.Q.M. visto il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 4; rigetta l’istanza. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 17 giugno 2014. Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 897 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Rilevanza delle carenze logiche ed espositive della sentenza impugnata 283. Sulla rilevanza delle carenze logiche ed espositive della sentenza impugnata con riferimento alla decisione giudiziale di compensazione delle spese di lite. Cass. civ., sez. III, sentenza 14 agosto 2014, n. 17960 - Pres. BERRUTI - Rel. ROSSETTI Quando le sentenze di primo e secondo grado mancano di nitore sintattico, chiarezza logica e struttura espositiva, inducendo in tal modo, anche incolpevolmente, le parti a coltivare la lite, le spese del giudizio di legittimità sono compensate integralmente tra le parti. FATTO 1. Nel 2004 la società M.T. s.r.l. convenne dinanzi al Tribunale di Milano la società L. s.p.a. (che in seguito si fonderà per incorporazione nella società U.L. s.p.a.), esponendo che: - aveva stipulato con la L. un contratto di leasing, avente ad oggetto un natante; - in esecuzione di tale contratto aveva pagato una parte del corrispettivo pattuito; - il natante oggetto del contratto doveva essere fornito alla L. dalla società A. s.r.l.; - il natante approntato dalla A. s.r.l. era tuttavia affetto da vizi e difformità rispetto al modello prescelto, sicché essa M.T. si rifiutò di ritirarlo; - il contratto di leasing stipulato con la L. prevedeva una “clausola risolutiva espressa”, in virtù della quale la risoluzione si sarebbe verificata automaticamente nel caso di: (a) risoluzione del contratto di vendita del natante; (b) giustificato rifiuto di ritiro del bene da parte dell’utilizzatore. Chiedeva perciò l’accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto di leasing, e la condanna della L. alla restituzione del corrispettivo percepito. 2. Il Tribunale di Milano, con sentenza 7.9.2006 n. 10021 accolse la domanda e dichiarò risolto il contratto, condannando la L. alla restituzione dei canoni già percepiti. 3. La decisione di primo grado, impugnata dalla L., venne riformata dalla Corte d’appello di Milano con la sentenza 8.4.2008 n. 918. Con tale sentenza la Corte d’appello ha rigettato la domanda della M.T., sul presupposto che nessuna risoluzione (automatica o giudiziale) si fosse verificata: né del contratto di vendita, né di quello di leasing. La Corte d’appello motivò tale decisione osservando che il contratto di leasing prevedeva la possibilità, per l’utilizzatore, di domandare la risoluzione del contratto di vendita solo previo consenso scritto del concedente, nella specie mancato. 4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla M.T. sulla base di 8 motivi. Ha resistito la U.L. (successore della L.) con controricorso. DIRITTO 1. Il primo, secondo e terzo motivo di ricorso. 898 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 1.1. I primi tre motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente, perché tutti incentrati su un presupposto comune: ovvero che nessun contratto di vendita si concluse mai tra la A. (fornitrice del natante) e la L. (acquirente del natante e lessor). Con ciascuno di essi la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3. 1.2. Col primo motivo di ricorso la ricorrente deduce di avere allegato in primo grado che il contratto di vendita tra fornitore (A.) e concedente (L.) non si fosse mai concluso. Dinanzi a questa allegazione, sarebbe stato onere del concedente (L.) dimostrare l’avvenuta conclusione del contratto. Questa prova, però, non era mai stata data. La L., in particolare, non aveva mai provato che il fornitore gli avesse restituito - così come previsto dal contratto ai fini dell’efficacia del contratto di vendita - l’”ordine di acquisto” debitamente firmato. Pertanto la Corte d’appello, rigettando la domanda della M.T. di restituzione dell’acconto pagato al concedente, avrebbe violato sia gli artt. 1457 e 2697 c.c., sia gli artt. 112 e 115 c.p.c. 1.3. Col secondo motivo di ricorso la M.T. lamenta che la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 1326 c.c., ritenendo concluso il contratto di vendita del natante (tra concedente L. e fornitore A.) nonostante mancasse la relativa prova (restituzione al concedente dell’ordine di acquisto firmato dal fornitore). 1.4. Col terzo motivo di ricorso la M.T. lamenta l’erroneità della sentenza impugnata per non avere la Corte d’appello tenuto conto del documento, depositato dalla M.T., dimostrativo che il fornitore (A.) aveva accettato solo tardivamente la proposta di acquisto formulata dal concedente (L.). E poiché la proposta d’acquisto era soggetta a termine essenziale, quella accettazione tardiva era inefficace, e nessun contratto di vendita si era concluso: sicché il contratto di leasing si era risolto per effetto della clausola risolutiva espressa secondo cui la mancata stipula del contratto di vendita avrebbe comportato la risoluzione ipso iure di quello di leasing. 1.5. Tutti i suddetti motivi sono inammissibili. Quelle che dalla M.T. vengono prospettate come altrettante violazioni delle regole sul riparto dell’onere della prova, ovvero sulla clausola risolutiva espressa, od infine sulla conclusione dei contratti, costituiscono in realtà doglianze concernenti un accertamento di fatto: tale è, infatti, lo stabilire se un contratto si sia concluso o meno. Tale accertamento in facto è istituzionalmente riservato al giudice di merito, ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato. Nel caso di specie, la ricorrente M.T. non ha mosso censure alla motivazione con la quale la Corte d’appello ritenne concluso e vincolante il contratto di leasing e, implicitamente, quello di vendita del natante che ne costituiva parte essenziale. Vale la pena aggiungere che, nella parte in cui la M.T. lamenta l’omesso rilievo, da parte della Corte d’appello, della mancata riconsegna dalla A. alla L. del documento (“ordine d’acquisto”) cui le parti avevano pattiziamente subordinato l’efficacia della locazione finanziaria, prospetta in realtà un vizio re- Rassegna Forense - 3-4/2014 899 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Rilevanza delle carenze logiche ed espositive della sentenza impugnata vocatorio, che si sarebbe dovuto far valere con le forme di cui all’art. 395 c.p.c. 3. Il quarto motivo di ricorso. 3.1. Col quarto motivo di ricorso la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3. Espone, al riguardo, che il fornitore del natante (A.) aveva intimato al concedente (L.) una diffida ad adempiere, affinché fosse ritirato il natante stesso presso il cantiere della A. Poiché il relativo termine scadde inutilmente, la vendita doveva considerarsi risolta ipso iure, ex art. 1454 c.c., e con essa anche il leasing, in virtù della clausola risolutiva espressa di cui all’art. 5 del contratto di leasing. 3.2. Il motivo è tanto inammissibile quanto infondato. È inammissibile perché la ricorrente M.T., pur invocando gli effetti dell’art. 5 delle condizioni generali di contratto, non ne ha trascritto integralmente il contenuto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 2560 del 06/02/2007, Rv. 594992). È, in ogni caso, infondato, poiché la diffida della A. alla L. parrebbe intimata il 7 (o l’8) agosto, con termine per il ritiro di natante il 9 successivo: e dunque essa non era efficace, per difetto della fissazione del termine minimo di 15 giorni prescritto dall’art. 1454 c.c. 4. Il quinto motivo di ricorso. 4.1. Col quinto motivo di ricorso la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3. Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe escluso che si fosse verificata una risoluzione del contratto di vendita, sul presupposto che nel contratto di leasing era previsto che la risoluzione potesse essere domandata dal utilizzatore al fornitore solo su autorizzazione scritta del concedente, nella specie mancata. Tuttavia la Corte d’appello non ha considerato che la concedente (L.) aveva ratificato con un comportamento concludente l’operato della utilizzatrice (M.T.) che aveva manifestato la volontà di ritenere risolto il contratto di vendita. Pertanto: - l’utilizzatrice ed il fornitore avevano ritenuto risolto il contratto di vendita; - l’utilizzatrice era rappresentante del concedente, per patto espresso del contratto di leasing; - il concedente ne aveva ratificato l’operato; - ergo, il contratto di vendita si era risolto, e con esso quello di leasing per effetto dell’art. 5 delle condizioni generali del contratto di leasing. La Corte d’appello tuttavia, conclude la ricorrente, non aveva considerato tali circostanze “senza motivazione giustificativa alcuna”. 4.2. Il motivo è inammissibile, per più ragioni. La prima ragione di inammissibilità è che, pur formalmente lamentando un vizio di violazione di legge, la M.T. deduce nella sostanza un vizio di motiva- 900 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza zione (cfr. il ricorso, foglio 23, secondo capoverso), senza far seguire il motivo di ricorso dalla chiara indicazione del fatto controverso, prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis al presente giudizio. La seconda ragione di inammissibilità è che anche in questo caso la M.T. invoca gli effetti di una clausola contrattuale (l’art. 5 del contratto di leasing) senza averne trascritto integralmente il contenuto nel ricorso. La terza ragione di inammissibilità è che la quaestio facti dell’esistenza d’una risoluzione consensuale del contratto dei vendita; della ratifica da parte della L. all’operato della M.T., e della sussistenza d’un potere rappresentativo della prima in capo alla seconda, sono questioni del tutto nuove, prospettate inammissibilmente per la prima volta in questa sede. 5. Il sesto, settimo ed ottavo motivo di ricorso. 5.1. I motivi di ricorso sesto, settimo ed ottavo possono essere esaminati congiuntamente, perché con tutti e tre la M.T. lamenta un vizio di motivazione della sentenza impugnata. 5.2. Col sesto motivo di ricorso la M.T. si duole del fatto che la Corte d’appello abbia dichiarato “inopponibile” al venditore (A.), estraneo al giudizio, gli esiti di quest’ultimo. 5.3. Col settimo motivo di ricorso la M.T. lamenta che la Corte d’appello non avrebbe motivato la propria affermazione secondo cui la risoluzione del contratto di vendita poteva essere domandata dall’utilizzatore solo col consenso scritto del concedente. 5.3. Con l’ottavo motivo di ricorso la M.T. lamenta che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che l’utilizzatore avesse dato spontanea esecuzione al contratto di leasing, nonostante l’inadempimento di controparte, e che quindi nessuna risoluzione per inadempimento si fosse verificata. 5.4. Tutti e tre i motivi sono inammissibili, perché non conclusi dalla “chiara indicazione del fatto controverso”, prescritta a pena d’inammissibilità dall’art. 366 bis c.p.c. 6. Le spese. La circostanza che tanto la sentenza di primo grado, quanto quella di secondo grado, non brillino certo per nitore sintattico, chiarezza logica e struttura espositiva, e che tali carenze possano avere indotto le parti, anche incolpevolmente, a coltivare la lite, costituiscono un giusto motivo ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, (nel testo applicabile ratione temporis al presente giudizio, ovvero nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 21, lett. (a), applicabile ai procedimenti iniziati sino al 1 marzo 2006) per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. la Corte di cassazione: -) rigetta il ricorso; -) compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 28 aprile 2014. Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 901 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Differenza tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio 284. Sulla differenza tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio. Cass. civ., sez. II, sentenza 29 agosto 2014, n. 18450 - Pres. TRIOLA Rel. NUZZO In tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la procura ad litem è un negozio unilaterale col quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il contratto di patrocinio è un negozio bilaterale col quale il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera secondo lo schema del mandato. Pertanto, come presupposto di riconoscimento del compenso per le prestazioni svolte dal difensore nel giudizio, occorre accertare, anche d’ufficio, il valido conferimento della procura, non potendo l’invalidità di questa essere superata dal contratto di patrocinio, che può riferirsi solo ad un’attività extragiudiziaria svolta dal professionista in favore del cliente sulla base di un rapporto interno di natura extraprocessuale. FATTO Con atto di citazione notificato in data 8.7.2005, M.G. F. proponeva appello avverso la sentenza del giudice di Pace di Roma, in data 2.2.2015, che l’aveva condannata al pagamento della somma di Euro 2.550,00, oltre interessi ed accessori nei confronti dell’avvocato Ma.Fa., per l’assistenza e rappresentanza da questi prestata nei confronti della M.G. in un giudizio risarcitorio dalla stessa promosso innanzi al giudice di pace di Roma (R.G. 8114/2000). Il Tribunale di Roma rigettava le eccezioni riproposte con l’atto di appello(nullità per genericità della domanda, difetto dei termini liberi a comparire, nullità della notifica ex art. 143 c.p.c., per difetto delle prescritte ricerche), rilevando che “petitum” e la “causa pretendi” della domanda era individuabile e che era intervenuta sanatoria di dette violazioni processuali a seguito della costituzione della parte convenuta che, fra l’altro, non aveva contestato la inosservanza dei termini di comparizione; riteneva sussistente la prova sul mandato professionale conferito all’Avv. Ma.; dichiarava assorbita ogni questione sulla querela di falso proposta avverso la procura alle liti a margine dell’atto di citazione di detto giudizio risarcitorio, rilevando che ad una procura invalida poteva accompagnarsi sul piano negoziale un contratto di patrocinio valido ed efficace, posto che “l’invalidità della prima non preclude al giudice l’accertamento aliunde dell’esistenza del secondo”; dichiarava inammissibili, ex art. 345 c.p.c., le censure relative alla “notula” formata dall’avv. Ma. nel giudizio risarcitorio innanzi al Giudice di Pace di Roma. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso M.G. F. formulando otto motivi; illustrati da successiva memoria. L’intimato non ha svolto attività difensiva. 902 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza DIRITTO La ricorrente deduce: 1) violazione dell’art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4, non avendo l’Avv. Ma. specificato il fatto che avrebbe dato origine alla pretesa fatta valere in giudizio; ne conseguiva la nullità della citazione per difetto dei requisiti richiesti dall’art. 164 c.p.c. La censura si conclude con il seguente quesito di diritto: “se l’atto di citazione privo dei requisiti di cui all’art. 164 c.p.c., non produce effetti giuridici se la parte cui è diretto solleva subito l’eccezione di nullità”; 2) nullità della notifica eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c., stante l’insufficienza del termine (16 giorni) rispetto alla data di udienza fissata per il 28.3.03, in relazione al perfezionamento delle notifica (12.3.03) ed essendo avvenuta la costituzione del convenuto solo il 25.11.03 quando detto termine era già spirato. Sul punto si chiede l’affermazione del principio: “quando il difetto del termine di costituzione indicato nell’art. 163 bis c.p.c., viene rilevato dopo la sua scadenza, per motivo non imputabile alla parte, il giudizio è nullo, avendo il termine esaurito il proprio scopo”; 3) nullità della notifica per violazione dell’art. 143 c.p.c., posto che nella prima relata di notifica del 7.2.03 si dava atto dell’impossibilità di eseguire la notifica per trasferimento della destinataria e che. nella successiva relata del 22.2.93 si attestava il deposito, ex art. 143 c.p.c., di copia dell’atto da notificare nella casa comunale di Roma, senza alcuna indicazione delle ricerche necessarie ad accertare la nuova residenza del destinatario dell’atto stesso. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., si chiede se “la notifica è valida il ventesimo giorno successivo a quello in cui è stata attuata la formalità del deposito presso la casa comunale essendo stata abolita l’affissione presso il giudice davanti a cui si procede e che la notificazione è nulla se non risultano svolte le ricerche da parte dell’ufficiale giudiziario”; 4) omessa e/o contraddittoria motivazione, laddove il giudice di appello aveva affermato che “nel merito la parte appellante ripropone nell’atto di impugnazione, senza con ciò individuare peraltro puntuali motivi di censura della sentenza di primo grado, le medesime argomentazioni spese dinanzi al giudice di pace”; in realtà le censure erano state svolte ed il Tribunale le aveva elencate ed aveva affermato, nella prima udienza e nelle successive, che l’appellante non aveva riproposto l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza ex artt. 281 e 353 c.p.c., nonostante tali norme non prevedessero la proposizione di detta istanza in udienza. La censura si conclude con la richiesta di affermazione del principio “che la istanza di sospensione della efficacia della sentenza impugnata è validamente proposta nell’atto introduttivo e non necessita di ulteriore conferma in udienza, mentre il giudice deve provvedevi alla prima udienza”; 5) violazione degli artt. 99 e 100 c.p.c., per avere il giudice di appello superato la questione sulla validità della procura alle liti, una volta accertato il conferimento di mandato sostanziale, non considerando che ciò vale per le attività stragiudiziarie, ma non per quelle giudiziarie richiedenti la procura Rassegna Forense - 3-4/2014 903 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Differenza tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio con rappresentanza e, nella specie, il compenso professionale era stato richiesto dall’avv. Ma. solo per lo svolgimento di attività giudiziaria; peraltro, la circostanza da cui il giudice di appello aveva desunto il mandato sostanziale (partecipazione della G. alle operazioni del C.T.U. per una visita medica di accertamento degli esiti derivati da un incidente stradale), non implicava che la parte fosse stata consapevole della instaurazione del giudizio. Al riguardo viene sollecitata l’affermazione del principio secondo cui “le attività giudiziarie comportano oneri per la parte solo se in presenza di regolare procura alle liti e che il mandato per avere effetto in sede stragiudiziale, se contestato, deve avere il supporto della prova fornita dalla parte o comunque ricavata dall’insieme di tutte le prove”; 6) violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e art. 2697 c.c., laddove la sentenza impugnata aveva affermato che il difetto di procura alle liti non invalidava il sottostante mandato e che, ad una procura invalida, poteva accompagnarsi un contratto di patrocinio valido, non considerando che la contestazione della procura si estendeva a tutto il giudizio. La censura si conclude con il quesito: se le attività giudiziarie comportino oneri per la parte solo in presenza di regolare procura alle lite e se il mandato per avere effetto in sede stragiudiziale, ove contestato, deve essere provato dalla parte; 7) violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo al rapporto tra valore della causa ed oneri, avendo l’Avv. Ma. chiesto con riferimento ad un danno di Euro 1.000,00, un importo di Euro 5.500,00 per spese processuali benché fossero state contestate alcune prestazioni professionali (11 udienze invece di 6; due prove invece di una ecc); si punto si chiede “se i compensi per l’assistenza professionale non possono superare la metà del valore dell’incarico, salvo ulteriori indicazioni per importi elevati”; 8) violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 3, in relazione al codice deontologico, per avere l’Avv. Ma. promosso un giudizio “con colpa grave e malafede in quanto l’azione appariva palesemente infondata” (l’assicurazione aveva già pagato il danno fisico; il motorino non era intestato alla G., la causa era stata instaurata senza procura alle liti; la parte assistita non era stata mai informata del giudizio). Il primo motivo è infondato. La sentenza impugnata ha dato conto della piena identificazione dei termini della domanda introduttiva del giudizio sulla base delle valutazioni espresse dal giudice di prime cure; la doglianza non contesta tali valutazioni, limitandosi a riprodurre genericamente la censura svolta in sede di appello e, quindi, sotto tale profilo, la stessa è priva del requisito di specificità. Quanto al secondo e terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, è sufficiente ribadire, in aderenza alla giurisprudenza in materia (Cass. n. 3335/2002), che le dedotte nullità erano rimaste sanate dalla intervenuta costituzione in giudizio della M., non avendo la stessa, peraltro, sollevato alcuna questione sulla inosservanza dei termini a comparire, come si legge in sentenza. La quarta censura è priva di fondamento, avendo il giudice di appello evidenziato che l’appellante M. non aveva riproposto l’istanza di sospensione, ex 904 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza artt. 283 e 351 c.p.c., ritenendo, di conseguenza, con valutazione e immune di vizi logici e giuridici, che la parte avesse rinunciato a tale istanza. Meritano, invece, accoglimento il quinto ed il sesto motivo che, per la loro connessione logica, possono essere trattati congiuntamente. Va, innanzitutto, rammentato che la procura alle liti costituisce il presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale e può essere conferita, con effetti retroattivi, solo nei limiti stabiliti dall’art. 125 c.p.c., il quale prevede che la procura al difensore può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell’atto, purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata (Cass. S.U. n. 10706/2006; Cass. n. 9464/2012). Nella specie la M. ha negato, sin dal giudizio di primo grado, di aver conferito all’avv. Ma.Fa. procura alle liti nel giudizio di risarcimento danni da questi promosso contro l’autore di incidente stradale in danno dell’attrice (giudizio iscritto al n. di R.G. 8114/2000), tanto che, in sede di appello, la stessa ha proposto querela di falso, ex art. 221 c.p.c., assumendo la falsità di detta procura alle liti. Il Tribunale ha superato le questioni sulla regolarità del conferimento della procura ad litem, ravvisando la sussistenza di un contratto “di mandato professionale o di patrocinio”, desunto dalla circostanza che la M. si era sottoposta, in detto giudizio, ad una visita medica e dal fatto che non aveva contestato di aver ricevuto dalla compagnia di assicurazione, per il sinistro in questione, una somma a titolo di risarcitorio. La M., secondo quanto affermato nella sentenza impugnata, “non avrebbe potuto, quindi, ignorare la posizione rivestita nel processo” e gli oneri assunti nei confronti dell’avv. Ma. sicché allo stesso era dovuto il compenso professionale per le prestazioni svolte nel giudizio suddetto. Orbene, a parte l’inadeguatezza della motivazione in ordine alla presunta sussistenza del contratto di patrocinio, in quanto rapportato a circostanze prive del requisito di univocità della prova, deve rilevarsi l’erroneità in diritto di tale motivazione, considerato che, mentre la procura “ad litem” costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio con le forme previste dall’art. 83 c.p.c., il mandato sostanziale costituisce un negozio bilaterale (contratto di patrocinio) con cui il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera professionale in favore della parte, secondo la schema proprio del mandato(Cass. n. 13963/2006; n. 10454/2002). Ne consegue che per l’attività svolta nell’ambito del processo si richiede l’accertamento, anche di ufficio, della validità del conferimento della procura, quale presupposto per il riconoscimento dell’eventuale compenso spettante al difensore per le prestazioni da lui svolte nel giudizio stesso, non potendo la eventuale invalidità della procura alle liti, da conferirsi nelle forme di legge, essere superata, ai fini del riconoscimento di detto compenso professionale, dal contratto di patrocinio che può riferirsi solo ad un’attività extragiudiziaria, svolta dal professionista legale in favore del proprio cliente, sulla base di un rapporto interno, di natura extraprocessuale, con il cliente stesso, rapporto ben distinto, quindi, dal mandato “ad litem”. Rassegna Forense - 3-4/2014 905 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Differenza tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio D’altronde, in difetto di un conferimento di una procura alle liti per la rappresentanza e difesa in giudizio, non insorgendo un rapporto professionale tra patrono e cliente, non è neppure consentito determinare il contento economico del compenso professionale, secondo le norme inderogabili di cui alla L. n. 794 del 1942, in materia di prestazioni giudiziali degli avvocati in sede civile (Cass. n. 28718/2008). Va, infine, rilevato che il settimo e l’ottavo motivo sono inammissibili per il loro carattere di novità, non risultando che le relative questioni siano state sollevate con l’atto di appello. In conclusione, alla stregua di quanto osservato, vanno rigettati i motivi da uno a quattro, nonché il settimo e l’ottavo motivo, mentre in accoglimento del quinto e del sesto motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al Tribunale di Roma, in persona di un diverso giudice, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta i motivi da uno a quattro nonché il settimo e l’ottavo motivo; accoglie il quinto ed il sesto motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Roma in persona di un diverso giudice anche per le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 22 maggio 2014. Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2014. 906 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 285. Sul contenuto dell’esposto o della segnalazione nei confronti dell’avvocato al competente Consiglio dell’ordine forense. Cass. pen., sez. I, sentenza 23 settembre 2014, n. 41749 - Pres. ZAMPETTI - Rel. MAZZEI L’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense contenente accuse di condotte deontologicamente rilevanti, tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciante, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso il diritto di critica, sub specie di esposto, di cui all’art. 51 c.p., per il quale valgono i limiti ad esso connaturati, occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorché erroneamente) convinto di quanto afferma; tali limiti, se rispettati, escludono la sussistenza del delitto di diffamazione (esclusa, nella specie, la responsabilità di un imputato che aveva inoltrato un esposto al Consiglio dell’ordine degli avvocati nel quale scriveva che la condotta professionale dell’avvocato era stata improntata a fare di tutto perché la società legalmente rappresentata dall’imputato iniziasse cause al solo fine di assicurare compensi allo stesso avvocato, senza alcun risultato positivo). FATTO 1. Il Tribunale di Sulmona, con sentenza del 21 marzo 2013, resa nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento di precedente decisione dello stesso Tribunale del 26 maggio 2011, giusta sentenza di questa Corte di cassazione in data 4 ottobre 2012, ha confermato la decisione del Giudice di pace di Sulmona, emessa il 23 luglio 2010, con la quale G.M. era stato condannato alla pena di Euro cinquecento di multa per il delitto di diffamazione, di cui all’art. 595, commi primo e secondo, cod. pen., in danno di C. V., con assegnazione alla persona offesa, costituitasi parte civile, di una provvisionale, immediatamente esecutiva, di Euro diecimila. Secondo il tenore della contestazione criminosa, il G. aveva offeso l’onore e la reputazione dell’avvocato C.V. mediante l’inoltro di un esposto al Consiglio dell’ordine degli avvocati presso il Tribunale di Sulmona, in data 29 agosto 2007, nel quale scriveva che la condotta professionale del C. era stata improntata a fare di tutto perché la società Ecoprogetti s.r.l., legalmente rappresentata dal G., iniziasse cause al solo fine di assicurare compensi allo stesso avvocato, senza alcun risultato positivo; inoltre, con l’avvento dell’avvocato S. M., nominato al posto del C., e già destinatario di precedente esposto del G. al Consiglio dell’Ordine in data 14 dicembre 2006, c’era stata, secondo la testuale espressione utilizzata nella segnalazione del 29 agosto 2007, “la botta finale” in danno del G., perché, come riconosciuto per iscritto dal terzo legale officiato, l’avvocato Sc.Ro., i predetti C. e S. avevano attuato una “collusione retributiva” (altra espressione testuale dell’esposto) per gonRassegna Forense - 3-4/2014 907 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Contenuto dell’esposto o della segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense fiare le rispettive parcelle nei confronti della Ecoprogetti e condurla al fallimento. La Corte di cassazione, nella sentenza di annullamento del 4 ottobre 2012, ha ritenuto integrato l’elemento oggettivo del reato e, tuttavia, ha rilevato che il Tribunale di Sulmona, nella sentenza di appello del 26 maggio 2011, pur essendo stato espressamente sollecitato sul punto col quarto motivo di impugnazione, non aveva preso in considerazione l’eventuale ricorrenza della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., o della causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p., entrambe ignorate anche nella decisione di primo grado del 23 luglio 2010; ha, quindi, rinviato gli atti al Tribunale di Sulmona perché eliminasse la rilevata lacuna argomentativa, riesaminando il fatto con riguardo alla possibile ricorrenza delle predette esimenti nell’esposto presentato dall’Imputato al Consiglio dell’ordine forense per denunciare condotte del professionista ritenute deontologicamente scorrette, in quanto legittima espressione del diritto di critica nei limiti enunciati dalla giurisprudenza di legittimità. Il Tribunale di Sulmona, giudice del rinvio, a sostegno della decisione di conferma della sentenza di condanna, dopo aver richiamato i limiti connaturati al diritto di critica (fondamento delle accuse o convinzione, sia pure erronea, dell’accusatore della veridicità di quanto affermato), ha ritenuto che il G. non avesse dato la prova, a lui spettante, né della verità dei fatti esposti a carico del C., né della sua incolpevole convinzione della veridicità di quanto denunciato. 2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il G. tramite i difensori, avvocati Dario Visconti e Vincenzina Buonajuto, i quali articolano quattro motivi. 2.1. Il primo motivo denuncia mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere il Tribunale omesso di prendere in considerazione i fatti storici, che si assumono incontroversi, documentati nel corso del processo, e in particolare: a) l’effettivo rapporto professionale intercorso tra l’avvocato C. e l’imputato; b) le parcelle professionali particolarmente elevate presentate dal professionista (circa diecimila Euro) per una causa che sarebbe stata male impostata fin dall’inizio; c) il non puntuale adempimento degli obblighi professionali da parte del C. al punto che il G. gli aveva revocato la procura; d) la conoscenza della situazione economica dell’impresa rappresentata dall’imputato, da parte del professionista, intenzionato a richiederne il fallimento pur di riscuotere le sue esose parcelle. Tali fatti sarebbero stati documentati con la produzione e acquisizione dei seguenti atti: e) atto di citazione nel confronti degli eredi Gi., redatto il 3 settembre 1999 dall’avvocato C., in qualità di procuratore dell’impresa Ecoprogetti s.r.l.; f) sentenza del Tribunale civile di Sulmona, in data 21 aprile 2005, di rigetto della suddetta domanda, dalla quale emergerebbe, secondo il ricorrente, la negligente prestazione professionale dell’avvocato C. nei suoi confronti (la domanda nei confronti degli eredi Gi. formulava l’esorbitante richiesta di cinque miliardi a titolo di risarcimento del danno, al solo fine - secondo il G. - di far lievitare il valore della causa e consentire al professionista 908 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza di pretendere onorari più elevati, e sarebbe stata respinta per mancanza dei requisiti giuridici essenziali); g) ricorso per decreto ingiuntivo proposto dal C., in data 1 giugno 2005, nei confronti della società Ecoprogetti, rappresentata dal G., per competenze professionali ascendenti ad Euro 26.866, di cui Euro 9.936 solo per la suddetta causa persa contro gli eredi G.; h) ricorso per decreto ingiuntivo, recante la data del 18 febbraio 2006, proposto dall’avvocato S.M., subentrato al C., per richiedere alla medesima Ecoprogetti onorali professionali assommanti ad Euro 63.255 oltre accessori di legge, di cui Euro 11.548 imputabili alla sola memoria conclusiva nel suddetto procedimento civile contro gli eredi Gi.; i) opposizione del G., assistito dal nuovo avvocato, Sc.Ro., ai decreti ingiuntivi ottenuti dagli avvocati C. e S. Nell’opposizione ai decreti ingiuntivi era stato lo stesso redattore, avvocato Sc., ad usare l’espressione “collusione retribuiva” a proposito dei rapporti tra i due precedenti avvocati in danno del G., evidenziando che la richiesta di provvisoria esecuzione dei decreti opposti preludeva alla presentazione di istanza di fallimento nei confronti della società debitrice, Ecoprogetti s.r.l. Tutta la suddetta documentazione, pur risultando acquisita fin dal processo di primo grado davanti al Giudice di pace di Sulmona, unitamente agli esposti del 14 dicembre 2006 e del 29 agosto 2007, era stata completamente ignorata dal giudice di rinvio, sebbene rilevante per accertare la ricorrenza dei presupposti della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 c.p., o della causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p., la cui omessa considerazione aveva determinato l’annullamento della prima sentenza di appello. Parimenti obliterate dal giudice di merito erano state le dichiarazioni rese dall’avvocato Sc. all’ufficiale del commissariato di Avezzano, delegato dal pubblico ministero, in merito al significato dell’espressione “collusione retribuiva”, utilizzata dallo stesso professionista per stigmatizzare l’operato dei colleghi predecessori nell’assistenza legale del G., i quali, a suo avviso, avrebbero richiesto all’attuale ricorrente somme esorbitanti e non corrispondenti alle tariffe professionali, considerato anche l’esito delle cause. Il G., pertanto, nel rappresentare sia pure con linguaggio colorito tutte le predette circostanze al competente Consiglio dell’ordine forense di Sulmona, non avrebbe fatto altro che esercitare il suo legittimo diritto di critica dell’operato dei professionisti cui si era affidato, tanto più censurabile per la consapevolezza degli stessi legali di poter determinare, con le loro esose richieste, il fallimento della società Ecoprogetti che avevano rappresentato in giudizio. Trattandosi, inoltre, di fatti storici neppure contestati dalla persona offesa, era evidente che il G., se anche avesse errato nel l’attribuire all’avvocato C. un comportamento deontologicamente scorretto, lo avrebbe fatto per errore e non dolosamente, nella convinzione di essere stato effettivamente vittima di un comportamento ingiusto da parte del professionista. E, in proposito, il ricorrente richiama l’esito del procedimento per calunnia iscritto nei suoi confronti sulla base del precedente esposto del 14 dicembre 2006 presentato contro l’avvocato S. M.: tale procedimento era stato definito, su conforme richiesta del pubblico ministero, con decreto di archiviazione, non avendo il G. mosso accuse di commissione di reati nei confronti Rassegna Forense - 3-4/2014 909 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Contenuto dell’esposto o della segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense dell’avvocato S., ma solo prospettato fatti di rilevanza disciplinare circa l’opera professionale prestata dal legale nei suoi confronti, e comunque difettando l’elemento psicologico del reato. 2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge per erronea applicazione dell’art. 51 c.p., di cui ricorrerebbero, nel caso in esame, tutti i presupposti non esaminati dal Tribunale: la verità del fatti rappresentati nell’esposto; l’interesse pubblico sotteso alla denuncia presentata al Consiglio dell’ordine degli avvocati, organo competente a sanzionare i comportamenti deontologicamente scorretti; la continenza formale e sostanziale delle espressioni usate, seppure colorite, ma non gravemente infamanti o inutilmente umilianti nei confronti del professionista. 2.3. Il terzo motivo lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p., dovendo il G. considerarsi parte del procedimento disciplinare da lui richiesto con l’esposto del 29 agosto 2007 nei confronti dell’avvocato C., come da giurisprudenza di legittimità (citata sentenza n. 19248 del 2013); d’altronde, non sarebbe conforme a giustizia che una stessa frase, inserita in un atto giudiziario o ricorso amministrativo, non sia punibile come diffamatoria, mentre lo sarebbe solo perché inclusa in un esposto correttamente indirizzato all’autorità competente a promuovere il procedimento disciplinare e, quindi, preposta alla tutela di interessi pubblici. 2.4. Il quarto motivo denuncia violazione di legge penale sostanziale e processuale per inosservanza dei principi direttivi fissati nella sentenza di annullamento con rinvio della quinta sezione di questa Corte di cassazione, richiedente l’esame dei dati probatori già acquisiti, del tutto omesso nella generica motivazione adottata dal giudice del rinvio, al fine di verificare la possibile ricorrenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 c.p., ovvero della causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p. DIRITTO 1. Il primo e il quarto motivo del ricorso sono fondati. 1.1 La sentenza emessa nel giudizio di rinvio è, innanzitutto, giuridicamente errata, laddove respinge l’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza di condanna per diffamazione, poiché il ricorrente non avrebbe fornito la prova di avere legittimamente esercitato il suo diritto di critica dell’operato professionale della persona offesa. Nell’ordinamento processuale penale, invero, non è previsto un onere di prova a carico dell’imputato, modellato sui principi propri del processo civile, ma è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale l’imputato è tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di giustificazione, il caso fortuito, la forza maggiore, il costringimento fisico e l’errore di fatto (Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013, dep. 10/05/2013, Weng, Rv. 255916; conforme, tra le molte, con specifico riguardo all’Invocata applicazione di una causa di giustificazione: Sez. 1, n. 717 del 15/04/1988, dep. 21/01/1989, Zirafi, Rv. 180232). 910 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza La sentenza impugnata, inoltre, elude l’indicazione della pronuncia di annullamento a colmare la lacuna argomentativa in punto di eventuale ricorrenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 c.p., o dall’art. 598 c.p., limitandosi al generico rilievo che l’imputato non avrebbe provato la verità dei fatti rappresentati nel suo esposto al Consiglio dell’Ordine in data 29 agosto 2007 ovvero la sua incolpevole convinzione della veridicità di quanto denunciato. Al riguardo, dalla lettura della sentenza appellata si evince la produzione difensiva, fin dal primo grado del giudizio, degli atti pertinenti all’assistenza prestata al G. dall’avvocato C. nel processo civile richiamato nell’esposto del 29 agosto 2007, e l’acquisizione d’ufficio di copia degli atti presenti nel fascicolo iscritto presso il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Sulmona sulla base del medesimo esposto. Proprio sulla ritenuta completezza di tale compendio documentale era fondata l’ordinanza del Giudice di pace che aveva respinto la richiesta di esame testimoniale, ex art. 507 c.p.p., dell’avvocato Sc.Ro., il quale, per primo, aveva qualificato il rapporto tra i due precedenti difensori del G., entrambi richiedenti e beneficiari di decreti ingiuntivi nei confronti dell’impresa rappresentata dall’imputato per cospicue somme di denaro a titolo di onorari e spese, come un sodalizio finalizzato alla “collusione retribuiva”, espressione testualmente mutuata dal G. nell’esposto presentato al Consiglio dell’ordine. La denuncia del ricorrente alla competente autorità disciplinare non era, pertanto, svestita e il giudice del rinvio, nel doveroso riesame del caso in funzione dell’accertamento dell’eventuale ricorrenza degli estremi della causa di giustificazione, non avrebbe dovuto omettere di valutare la documentazione prodotta e acquisita di ufficio, per stabilire se da essa emergessero elementi idonei a corroborare le censure esposte dal G. o, comunque, a determinare nell’imputato la convinzione di aver subito comportamenti professionali deontologicamente scorretti e meritevoli di essere sanzionati. E questo in conformità della giurisprudenza richiamata nella stessa sentenza di annullamento, secondo la quale “l’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense contenente accuse di condotte deontologicamente rilevanti, tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciarne, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso il diritto di critica, sub specie di esposto, di cui all’art. 51 c.p., per il quale valgono i limiti ad esso connaturati, occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorché erroneamente) convinto di quanto afferma; tali limiti, se rispettati, escludono la sussistenza del delitto di diffamazione” (Sez. 5, n. 28081 del 15/04/2011, dep. 15/07/2011, Tarante, Rv. 250406; conformi: n. 3565 del 2008, Rv. 238909). L’omessa verifica, da parte del giudice del rinvio, dell’eventuale legittimo esercizio del diritto di critica dell’operato del professionista nell’esposto presentato dal G. al Consiglio dell’ordine, sulla base dell’erronea attribuzione all’imputato dell’onere probatorio della causa di giustificazione che sarebbe rimasto inadempiuto, integra quindi il vizio di motivazione denunciato col primo motivo nonché l’inosservanza dell’indicazione contenuta nella sentenza di annullamento, come da quarto motivo di ricorso, reiterando il già rilevato Rassegna Forense - 3-4/2014 911 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Contenuto dell’esposto o della segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense vizio del provvedimento annullato per mancato esame del compendio probatorio acquisito In funzione della possibile ricorrenza della causa di giustificazione o di non punibilità. 1.2. La fondatezza delle predette censure assorbe il secondo motivo con riguardo all’osservanza, nel caso di specie, dei limiti di continenza previsti per il legittimo esercizio, anche solo putativo, del diritto di critica ai sensi dell’art. 51 c.p., comma 1, o dell’art. 59 c.p., comma 4, supponendo tale verifica l’esame delle risultanze probatorie illegittimamente omesso, come si è detto. 1.3. Patimenti fondato, infine, è il terzo motivo di ricorso, poiché il Tribunale ha anche trascurato di considerare l’eventuale ricorrenza della causa di non punibilità ex art. 598 c.p., pur richiamata come oggetto di doverosa verifica nella sentenza rescindente di questa Corte in data 4 ottobre 2012, sulla base dell’interpretazione estensiva della suddetta esimente nella più recente giurisprudenza di legittimità (c.f.r, sul punto, Sez. 5, n. 33453 del 08/07/2008, dep. 14/08/2008, Boschi Benedetti, Rv. 241393; Sez. 5, n. 44148 del 25/09/2008, dep. 26/11/2008, Santulli, Rv. 241806; Sez. 5, n. 19248 del 9/04/2013, dep. 3/05/2013, Russo, quest’ultima espressamente richiamata dal ricorrente). 2. Segue, a norma dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. d), l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata con la trasmissione degli atti allo stesso Tribunale di Sulmona diversamente composto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale monocratico di Sulmona in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 23 settembre 2014. Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2014. 912 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 286. Sull’astensione dalle udienze degli avvocati 1. Cass. pen., SS.UU., sentenza 29 settembre 2014, n. 40187 - Pres. SANTACROCE - Rel. FRANCO L’adesione del difensore all’astensione collettiva di categoria configura non una mera libertà, ma l’esercizio di un vero e proprio diritto avente fondamento costituzionale. FATTO 1. Il Tribunale di Ferrara, con sentenza del 17 aprile 2008, dichiarò L.A. colpevole dei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, commessi quale amministratore di fatto della E.M. 2000 s.r.l., dichiarata fallita il (omissis), e A.R. colpevole del reato di bancarotta fraudolenta documentale, commesso in concorso con il L., nella qualità di amministratrice di diritto della suddetta società; e ciò per avere, da un lato, distratto beni e danaro della società (mai consegnati alla curatela, né da questa reperiti) per complessivi Euro 133.845,63, e, da un altro lato, occultato i libri e le scritture contabili della società, o comunque per averli tenuti in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. Rileva qui ricordare che, in vista dell’udienza del 5 luglio 2007, nella quale era prevista la deposizione di una teste di accusa, il difensore di fiducia dell’imputato L.A., avv. G.M., aveva fatto pervenire in cancelleria a mezzo fax una dichiarazione di adesione all’astensione proclamata dalle Camere penali con richiesta di rinvio dell’udienza. Il Tribunale, all’udienza, respinse l’istanza, nominò al difensore non comparso un sostituto ex art. 97 c.p.p., comma 4, e dispose ugualmente l’escussione della teste, per il motivo: - che la teste aveva affrontato un viaggio da Bari per partecipare all’udienza; - che l’assunzione della testimonianza appariva “improcrastinabile ai fini di giusti1 Nota redazionale a cura dell’Ufficio studi del Consiglio Nazionale Forense: Stando alle SS.UU. il caso in rassegna è disciplinato dal combinato disposto degli artt. art. 392 e 467 c.p.p., secondo cui non può essere rinviata la deposizione testimoniale quando vi è fondato motivo di ritenere che il teste non potrà essere esaminato nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento. Poiché nel caso di specie risulta che non sussistevano le condizioni indicate dall’art. 392 c.p.p. - non essendo stato accertato né motivato, che la teste non avrebbe potuto più essere esaminata per infermità o altro grave impedimento, essendosi invece ritenuto nei primi gradi di giudizio che occorreva acquisire la deposizione testimoniale per evitare alla teste il grave disagio di ritornare da Bari a Ferrara, grave disagio che però, secondo le SS. UU. non integra la fattispecie delineata dall’art. 392 cod. proc. penale - la statuizione del Tribunale di Ferrara di rigettare l’istanza di rinvio del difensore, confermata dalla Corte di appello, è illegittima per violazione di legge, ledendo il diritto del difensore di astenersi e il diritto di difesa e al contradditorio degli imputati. Ne consegue nullità assoluta, riconducibile all’art. 178, comma 1, lett. c) e 179 c.p.p., rilevabile anche di ufficio in ogni grado e stato del procedimento. Principi di diritto affermati: 1) Il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati (pubblicato in G.U. 4 gennaio 2008, n. 3) è fonte di rango secondario o regolamentare, vincolante erga omnes. Alle disposizioni in esso contenute è soggetto anche il giudice, in forza dell’art. 101, comma 2, Cost. 2) Al giudice spetta il compito di accertare se l’adesione all’astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate dalle competenti disposizioni primarie e secondarie. Rassegna Forense - 3-4/2014 913 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati zia, non potendosi costringere la teste a ricomparire in altra udienza neppure coattivamente, in quanto una tale misura apparirebbe verosimilmente vessatoria e contraria ai fondamentali diritti delle parti”; - che la testimonianza era necessaria e non si poteva garantire la presenza della teste in altra udienza, sicché l’atto appariva urgente ed indifferibile. La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 17 luglio 2012, ridusse le pene confermando nel resto la sentenza di primo grado. In particolare, rigettò l’eccezione della difesa relativa al mancato rinvio dell’udienza del 5 luglio 2007, per il motivo: - che il giudice, nel valutare la richiesta del difensore di rinvio per adesione ad una astensione di categoria, “non deve tenere conto delle norme del codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura circa la disciplina delle modalità dell’astensione collettiva”; - che “invero, l’art. 4 del codice di autoregolamentazione indica le ragioni per cui il difensore non può astenersi, e non, invece, quelle che, sole, possano consentire al Tribunale di dichiarare di doversi procedere”; - che nella specie il Tribunale aveva “operato una comparazione, logicamente motivata, tra il diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva, e le esigenze di giustizia, rappresentate dalla necessità di procedere all’audizione di una teste... che aveva affrontato un lungo viaggio da Bari per essere sentita in dibattimento e che, se il processo fosse stato rinviato, avrebbe dovuto... affrontare altri due lunghi viaggi”; - che dunque, il Tribunale aveva “indicato fondate ragioni di giustizia che imponevano la celebrazione del processo in quell’udienza”. 2. Contro tale sentenza ha proposto personalmente ricorso per cassazione L.A., deducendo i seguenti sei motivi: 1) Violazione dell’art. 420 ter c.p.p., per essere stata rigettata la richiesta di rinvio dell’udienza del 3 maggio 2007, formulata per impedimento del difensore. In particolare, censura la motivazione nella parte in cui ha ritenuto l’impedimento non assoluto per la possibilità di spostarsi con mezzi pubblici, senza considerare la notevole distanza da percorrere. 2) Violazione dell’art. 420 ter c.p.p., per essere stata illegittimamente rigettata la richiesta di rinvio dell’udienza del 5 luglio 2007 per adesione del difensore all’astensione proclamata dalle Camere penali. Dopo aver ricordato la motivazione adottata dalla Corte di appello per giustificare il mancato rinvio, eccepisce la violazione dell’art. 4 del codice di autoregolamentazione perché l’audizione di una teste (che peraltro non si era presentata nelle tre udienze precedenti) non rientra in alcuna delle situazioni ostative all’astensione ivi contemplate (imminente prescrizione, decorrenza dei termini di custodia cautelare, presenza di detenuti ecc), né poteva aversi riguardo alla disponibilità di una testimone. Pertanto erroneamente è stata respinta l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per violazione del diritto di difesa, sacrificando illegittimamente “un diritto costituzionalmente garantito (sotto forma del diritto dell’associazione)”, superabile solo “quando vi sia un interesse dello Stato come quello relativo alla prescrizione del reato”. 3) Erronea applicazione dell’art. 507 c.p.p., per essere state rigettate le richieste di prova avanzate all’udienza del 6 marzo 2008 nonché quella relativa all’escussione del teste R.B. 914 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 4) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al punto e) dei motivi di appello; erronea applicazione della L. Fall., artt. 216 e 223. Deduce che nessuno dei testi (le cui deposizioni passa in rassegna) ha reso dichiarazioni atte a dimostrare l’esistenza dei beni di cui si presume la distrazione e che l’attività sociale è cessata nel 2002, per cui non sussisteva obbligo di tenuta delle scritture dopo detta data. 5) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla partecipazione di L.A. alla gestione della società. Richiama alcune prove documentali, le dichiarazioni dei testi e alcuni passaggi della deposizione del teste Z. per confutarne la veridicità, l’esattezza o la rilevanza. 6) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al punto g) dei motivi di appello, ed erronea applicazione dell’art. 62 bis c.p., e L. Fall., art. 219. Lamenta, in particolare, che le attenuanti generiche sono state negate per l’assenza dell’imputato al procedimento di primo grado e che l’attenuante speciale del danno di speciale tenuità di cui alla L. Fall., art. 219, è stata negata pur non essendovi alcuna certezza in ordine all’effettiva entità degli ammanchi. 3. La Quinta Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 21 novembre 2013, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, sottolineando la rilevanza preliminare del secondo motivo, relativo al rigetto della richiesta di rinvio dell’udienza del 5 luglio 2007, per adesione del difensore all’astensione dichiarata dalle Camere penali. Osserva che la questione di diritto proposta con tale motivo consiste, essenzialmente, nello stabilire se il giudice, nel valutare la richiesta di rinvio per adesione del difensore all’astensione, sia tenuto o meno all’osservanza del Codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura circa la disciplina delle modalità di astensione collettiva. Secondo i giudici del merito, invero, l’art. 4 di tale codice - che disciplina le prestazioni indispensabili in materia penale - “indica le ragioni per cui il difensore non può astenersi, e non, invece, quelle che, sole, possano consentire al Tribunale di dichiarare di doversi procedere”. Conseguentemente, è stato riconosciuto al giudice il potere di individuare altre situazioni, oltre quelle contemplate dal codice, che legittimano la prosecuzione del giudizio nonostante l’adesione del difensore all’astensione. L’ordinanza ricorda come in giurisprudenza si sia venuto affermando l’orientamento secondo cui tale adesione non integra un legittimo impedimento ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., in quanto non si ricollega a situazioni oggettive ed indipendenti dalla volontà del soggetto “impedito”, ma costituisce una libera scelta del difensore e rappresenta una forma di esercizio di una libertà sindacale riconosciuta a tutti i soggetti dell’ordinamento. Da questa premessa è stata tratta la conseguenza che il rinvio dell’udienza comporta la sospensione del corso della prescrizione per tutta la durata del rinvio e non per soli sessanta giorni; che restano sospesi i termini di durata massima della custodia cautelare; che il difensore non comparso non ha diritto alla notifica dell’ordinanza di fissazione della nuova udienza. La Sezione rimettente ricorda poi come il Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze, adottato dall’Avvocatura il 4 aprile 2007 in adempimento dell’obbligo previsto dalla L. 12 giugno 1990, n. 146, come Rassegna Forense - 3-4/2014 915 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati modificata dalla L. 11 aprile 2000, n. 83, ha introdotto una serie di prescrizioni e adempimenti a carico degli avvocati al fine di assicurare un ordinato svolgimento della protesta e di garantire, nei processi penali, l’assistenza legale nelle situazioni di maggiore criticità. Il rispetto di tali condizioni costituisce la condizione perché la mancata comparizione del difensore sia ritenuta legittima. Tuttavia, secondo la Sezione, se il rispetto delle condizioni e dei limiti posti dal detto codice rappresenta un requisito per la legittimità dell’astensione, la normativa introdotta dopo la sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale ha lasciato intatto il potere del giudice di regolare lo svolgimento del processo secondo i canoni dell’ordinamento processuale. La giurisprudenza ha invero ritenuto che le disposizioni del codice vincolano i soli associati e non anche il giudice procedente, il quale, nel valutare le circostanze che rendono urgente la trattazione di un processo, impedendo l’accoglimento dell’istanza di rinvio per astensione, può compiere un autonomo bilanciamento degli interessi in gioco. A questo proposito l’ordinanza di rimessione valorizza le affermazioni della citata sentenza costituzionale, n. 171 del 1996, relative sia all’impossibilità di configurare l’astensione degli avvocati come esercizio del diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost., trattandosi di una “libertà” riconducibile al diverso diritto di associazione di cui all’art. 18 Cost.; sia alla necessità di tutelare anche altri valori costituzionali, ed in particolare i diritti fondamentali dei destinatari della funzione giurisdizionale (diritto di azione e difesa di cui all’art. 24 Cost.) ed i principi generali posti a tutela della giurisdizione. Dunque, le disposizioni vigenti e l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza sembrano asseverare l’affermazione per cui “il codice di autoregolamentazione non esaurisce il novero delle situazioni potenzialmente idonee a fondare la potestà valutativa del giudice di fronte a situazioni create dall’adesione del difensore all’astensione proclamata dall’associazione di riferimento, dovendosi tener conto, da parte del giudice, delle altre situazioni, non catalogabili a priori, idonee ad incidere su diritti costituzionalmente rilevanti, da bilanciare col diritto del difensore all’esplicazione della propria libertà sindacale”. La Sezione rimettente ricorda che è però recentemente intervenuta l’ordinanza emessa dalle Sezioni Unite nell’ambito del proc. R.G. n. 11751/2012 (sentenza n. 26711 del 30/05/2013), la quale ha parlato, con riferimento al Codice di autoregolamentazione, di “normativa secondaria alla quale occorre conformarsi”, senza peraltro precisare se ad essa debba “conformarsi” il difensore oppure anche il giudice e mostrando di ritenere che il codice suddetto, essendo approvato dalla Commissione di Garanzia istituita dalla L. n. 83 del 2000, è destinato a realizzare il “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati”, di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 1. Secondo l’ordinanza di rimessione rimane perciò aperto il problema se analoga potestà di contemperamento sia riservata al giudice di fronte a interessi, diritti e situazioni - frequenti a verificarsi - non contemplati dal suddetto codice, quali, a titolo di esempio, la ragionevole durata del processo (ormai assurta a rango costituzionale), la coesistenza di situazioni confliggenti (imputati con interessi contrapposti), la persistenza di misure cautelari non custodiali ma comunque incidenti su un diritto fondamentale (la libertà di loco- 916 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza mozione) o - come nel caso di specie - il grave disagio di un teste chiamato a testimoniare da città lontana rispetto al luogo di svolgimento del processo. Secondo l’ordinanza di rimessione, dunque, permane la necessità di definire “l’esatto ambito di operatività e cogenza” della normativa emanata in attuazione della L. n. 146 del 1990, sicché la relativa questione è stata rimessa alle Sezioni Unite. 4. Con decreto in data 3 gennaio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali fissando per la trattazione l’odierna udienza. DIRITTO 1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite è stata così individuata dall’ordinanza di rimessione: “Se, anche dopo l’emanazione del codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, permanga il potere del giudice - in caso di adesione del difensore all’astensione proclamata dall’associazione di categoria - di disporre la prosecuzione del giudizio in presenza di esigenze di giustizia non contemplate dal codice suddetto”. L’ordinanza, peraltro, propone altresì la connessa questione su quale sia “l’esatto ambito di operatività e cogenza” della normativa emanata in attuazione della L. n. 146 del 1990, e cioè se le norme del detto codice di autoregolamentazione abbiano o meno valore di normativa secondaria avente efficacia erga omnes e, quindi, vincolante anche per il giudice. 2. Sulle questioni sottoposte alle Sezioni Unite negli ultimi decenni vi sono state, sia in giurisprudenza sia in dottrina, plurime e differenti opinioni e soluzioni, dovute peraltro soprattutto alla diversità dei contesti normativi succedutisi nel tempo. Appare quindi indispensabile ricordare preliminarmente, sia pure sommariamente, l’evoluzione normativa in materia. 2.1. Nella vigenza del codice Rocco, caratterizzato da una disciplina di impronta marcatamente inquisitoria, la mancata presenza del difensore non rientrava tra le cause obbligatorie di sospensione o rinvio del dibattimento. Il principio seguito era che “l’impedimento del difensore, anche se provato, non rende obbligatorio il rinvio, poiché l’imputato può provvedere alla nomina di altro difensore o essere assistito da quello di ufficio” (Sez. 4, n. 5556 del 04/03/1985, Gavioli, Rv. 169604; Sez. 4, n. 8618 del 12/04/1984, Biancardi, Rv. 166136; Sez. 2, n. 6868 del 17/12/1982, dep. 1983, De Sivo, Rv. 160009). Al difensore, inoltre, era anche radicalmente preclusa qualsiasi possibilità di optare per l’astensione dalla propria attività di assistenza nel processo, quand’anche si trattasse di una scelta per fini “rivendicativi” o di denuncia di violazione di diritti della difesa. La giurisprudenza era costante nell’escludere che l’adesione all’astensione di categoria potesse pregiudicare il regolare svolgimento del processo e nell’affermare che “lo sciopero della categoria professionale degli avvocati e dei procuratori esercita la propria influenza limitatamente alla categoria stessa e non determina alcuna sospensione dell’attività giurisdizionaie, né tanto meno la nullità del dibattimento, per violazione dell’art. 185 c.p.p., svoltosi in assenza del difensore di fiducia Rassegna Forense - 3-4/2014 917 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati che abbia aderito allo sciopero”, ove l’imputato sia stato regolarmente assistito dal difensore d’ufficio (Sez. 5, n. 16015 del 21/10/1977, Arzano, Rv. 137510; Sez. 1, n. 2517 del 10/05/1989, dep. 1990, Zeno, Rv. 183435). Anzi, tale condotta risultava riconducibile ad un “abbandono” della difesa, rilevante ai sensi dell’art. 131 del previgente codice, e quindi punibile con sanzione disciplinare interdittiva irrogata dalla sezione istruttoria della Corte di appello nel cui distretto aveva sede l’autorità giudiziaria procedente; e per parte della dottrina tale “assenza qualificata” era anche riconducibile alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 333 c.p. (poi abrogato dalla L. 12 giugno 1990, n. 146). 2.2. La situazione mutò profondamente con l’entrata in vigore del “codice Vassalli” ed il passaggio all’attuale sistema processuale, imperniato sui principi di parità delle parti ed effettività del contraddittorio, successivamente consacrati anche nell’art. 111 Cost. Venne così introdotto l’obbligo di sospendere o rinviare il dibattimento in caso di assenza del difensore dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato (art. 486 c.p.p., comma 5, poi abrogato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, e in sostanza sostituito dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che estese l’applicazione dell’istituto del legittimo impedimento del difensore alla fase dell’udienza preliminare). Inoltre, i principi ispiratori del codice del 1988 (parità tra accusa e difesa, effettività del contraddittorio, immutabilità e libertà di autodeterminazione della difesa) determinarono una disciplina significativamente diversa dell’abbandono (e del rifiuto) di difesa. L’art. 105 dell’attuale codice di rito individua la competenza esclusiva del consiglio dell’ordine forense per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari; sancisce la completa autonomia del procedimento disciplinare rispetto al procedimento penale in cui è avvenuto l’abbandono; e prevede che, quando l’abbandono è motivato con la violazione dei diritti della difesa ed il consiglio dell’ordine lo ritenga giustificato, la sanzione non è applicata anche se il giudice escluda che la violazione si sia verificata: laddove invece, nel sistema precedente era escluso che tale motivazione potesse costituire una causa di giustificazione della condotta del difensore. Di questa impostazione radicalmente diversa risentì ovviamente anche la giurisprudenza della Corte di cassazione. Alcune decisioni, in particolare, ritennero che l’assenza del difensore causata dall’adesione all’astensione di categoria costituisse un’ipotesi di legittimo impedimento, idonea a determinare il rinvio dell’udienza (Sez. 1, n. 3113 del 08/07/1991, Lo Iacono, Rv. 188390). In dottrina, peraltro, si osservò che questa interpretazione era determinata, più che da un consapevole inquadramento della fattispecie nel nuovo istituto del legittimo impedimento, dall’esigenza di affermare la legittimità dell’astensione quale forma di salvaguardia degli interessi della categoria forense a fronte del persistere di opinioni che negavano la legittimità del fenomeno e ne affermavano invece la rilevanza disciplinare (come abbandono di difesa ex art. 105 c.p.p.) ed anche penale (negata peraltro da Sez. 6, n. 1895 del 09/01/1997, Sorrentino, Rv. 207546, per la mera adesione all’agitazione, non integrata da ulteriori comportamenti positivi idonei ad influire sul regolare svolgimento del “servizio 918 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza giustizia”). In ogni modo, la qualificazione dell’astensione come legittimo impedimento venne ribadita da successive decisioni, affermandosi esplicitamente che “l’esercizio di un diritto tutelato costituzionalmente, come il diritto di sciopero, qualora comporti l’astensione dalle udienze, costituisce legittimo impedimento del difensore ai sensi dell’art. 486 c.p.p., comma 5, e determina necessariamente il rinvio del dibattimento” (Sez. 3, n. 8533 del 24/08/1993, Capaci, Rv. 195162, che sottolineò anche come il contrario indirizzo della sent. 10/05/1989, Zeno, cit., fosse stato elaborato prima dell’entrata in vigore del nuovo codice e del riconoscimento per il difensore di una autonoma causa di legittimo impedimento). Altre pronunce, invece, esclusero l’applicabilità delle disposizioni sul legittimo impedimento, ma non misero comunque in discussione la legittimità dell’astensione dalle udienze, preoccupandosi piuttosto di valutarne ed inquadrarne gli effetti sui termini di custodia cautelare. In particolare, si affermò che “l’astensione dalle udienze diffusamente attuata dai difensori in applicazione di uno stato di agitazione sindacale costituisce una causa di privazione dell’imputato di quell’assistenza difensiva che la legge esige che, se non legalmente ovviabile, impone la sospensione o il rinvio del procedimento, ma giustifica tuttavia la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b), ... onde evitare che la mancata assistenza legale risulti comunque premiata dal decorrere dei termini” (Sez. 1, n. 2851 del 24/06/1991, Egizio, Rv. 188342; Sez. 6, n. 3223 del 20/11/1990, dep. 1991, Papajanni, Rv. 187019). Con un’altra serie di pronunce, poi, si ammise che il giudice, ravvisando motivi di urgenza nella trattazione del processo a causa dell’imminente maturare della prescrizione, e nell’impossibilità di sospendere il corso della stessa, potesse rigettare l’istanza di rinvio per adesione all’astensione e nominare all’imputato un difensore di ufficio; in quanto in questa situazione era legittimamente applicato dal giudice “il principio del bilanciamento di interessi, dando prevalenza a quello dello Stato, diretto ad evitare l’estinzione del reato per prescrizione, rispetto a quello del difensore dell’imputato, concernente il pur legittimo esercizio dei diritti personali di libertà, in particolare di quello di astenersi dal partecipare alle udienze... a fronte della impossibilità di sospensione del corso della prescrizione del reato, limitata ai casi tassativamente indicati nell’art. 159 c.p.” (Sez. 4, n. 6604 del 17/12/1992, dep. 1993, Montagnoli, Rv. 195252). 2.3. In questo contesto - caratterizzato dal riconoscimento della legittimità dell’astensione ma anche dalla preoccupazione per le implicazioni processuali in mancanza di una specifica normativa - intervenne una prima volta la Corte costituzionale con la sentenza n. 114 del 1994. La questione esaminata aveva ad oggetto, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 159 c.p., nella parte in cui non prevedeva la sospensione della prescrizione nel caso di sospensione o rinvio del dibattimento per l’astensione dalle udienze del difensore ovvero, in subordine, nella parte in cui non prevedeva la possibilità di adottare un provvedimento di sospensione della prescrizione, sulla falsariga di quanto disposto, per i termini di custodia cautelare, dall’art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b). La questione venne dichiarata manifestamente inammissibile sia per la duplicità Rassegna Forense - 3-4/2014 919 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati di soluzioni alternative prospettate, sia anche e soprattutto perché era stata sollecitata una pronuncia additiva in malam partem (tale essendo stata considerata l’aggiunta di una nuova causa di sospensione della prescrizione), in contrasto col principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. La sentenza assume comunque particolare importanza perché conteneva, da un lato, l’auspicio che situazioni patologiche come quella descritta nell’ordinanza di rimessione fossero sanate dal legislatore e, da un altro lato, l’invito all’interprete a considerare, anche a questi fini, le norme dettate in tema di sciopero dei servizi pubblici essenziali dalla L. n. 146 del 1990. In particolare, la Corte richiamò la diversa questione dell’impedimento del difensore dovuto a concorrenti impegni professionali e ricordò che un soddisfacente punto di equilibrio era stato raggiunto dalla soluzione individuata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4708 del 27/03/1992, Fogliani, Rv. 190828, secondo la quale l’impegno professionale, per poter assurgere a legittimo impedimento rilevante ex art. 486 c.p.c., comma 5, doveva non solo essere prontamente comunicato, ma anche adeguatamente motivato e documentato in relazione alla essenzialità e non sostituibilità del difensore nell’altro processo: e ciò al fine di far esercitare, al giudice cui si chiede il rinvio, “il poteredovere di valutare e comparare le esigenze difensive e quelle pubbliche, affinché non si realizzino né impunità né anticipate liberazioni pericolose per la sicurezza collettiva né pretestuosi ritardi nella definizione dei processi”. La Corte quindi osservò che invece rimaneva del tutto privo di qualsiasi analogo bilanciamento il diverso caso dell’assenza, non del singolo difensore, ma di tutti i difensori, in dipendenza dalla loro adesione alle manifestazioni di protesta deliberate dagli organismi di categoria, sicché manifestazioni connotate da particolare durata e livello partecipativo avrebbero potuto paralizzare la funzione giurisdizionale, con grave compromissione di principi anche di rango costituzionale. In conclusione, la Corte costituzionale rilevò che “se il legislatore ha avvertito la necessità di dettare, proprio in funzione della salvaguardia di beni costituzionalmente tutelati, norme sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ricomprendendo fra questi anche l’amministrazione della giustizia (v. L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 1), non v’è ragione per cui debbano restare esenti da specifiche previsioni forme di protesta collettiva che, al pari dello sciopero, sono in grado di impedire il pieno esercizio di funzioni che assumono, come quella giurisdizionale, un risalto primario nell’ordinamento dello Stato”. 2.4. Nel periodo successivo alla sentenza costituzionale n. 114 del 1994, la giurisprudenza di legittimità, pur continuando a ricondurre l’astensione nell’alveo del legittimo impedimento, sottolineò più volte la necessità per il giudice di operare un bilanciamento tra l’interesse difensivo all’astensione e l’interesse pubblico alla immediata trattazione del processo “quando sussistano ragioni obiettive che la impongano (imminente operatività di cause estintive del reato, prossima scadenza di termini di custodia cautelare e simili)” (v. Sez. 1, n. 9922 del 07/09/1995, Esposito, Rv. 202538); anche se qualche pronuncia si orientò nel senso di riconoscere senz’altro la sussistenza del legittimo impedimento per il solo fatto dell’adesione all’astensione (“allo sciopero di categoria”), purché prontamente comunicata al giudice procedente (cfr., 920 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza ad es., Sez. 3, n. 8338 del 01/07/1994, Riccio, Rv. 198701; Sez. 1, n. 856 del 29/11/1995, dep. 1996, Milano, Rv. 203501, secondo cui la necessità di una tempestiva comunicazione è dovuta al fatto che l’astensione non è vincolante per il singolo associato, che rimane libero di aderirvi o meno). 2.5. In questa situazione di incertezza giurisprudenziale, in cui, da un lato, perdurava l’inerzia del legislatore e, da un altro lato, si accresceva la frequenza e l’intensità partecipativa delle astensioni proclamate dalle associazioni forensi, la Corte costituzionale intervenne una seconda volta con la sentenza (additiva di principio) n. 171 del 1996, la quale, dopo avere constatato l’inefficacia dell’invito rivolto al legislatore con la precedente pronuncia - cui era anzi seguito un deterioramento ed un crescente allarme per il ripetersi di astensioni non regolamentate, con conseguente disagio e pregiudizio per l’amministrazione della giustizia e, dunque, per i diritti fondamentali della persona che in essa trovano tutela - passò “dal monito ai fatti” e dichiarò l’illegittimità costituzionale non già di norme del codice di rito (pure impugnate da numerose ordinanze di rimessione), ma di alcune disposizioni della legge n. 146 del 1990, regolativa dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. La sentenza ribadì innanzitutto che il pieno riconoscimento della libertà di associazione e della libertà sindacale e la garanzia espressa del diritto di sciopero (nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti) sono valori fondanti del nostro ordinamento, e consentono di individuare “un’area, connessa alla libertà di associazione, che è oggetto di salvaguardia costituzionale ed è significativamente più estesa rispetto allo sciopero”: in questa area rientrano “le astensioni collettive dal lavoro volte a difendere interessi di categoria, non soltanto economici, e a garantire un corretto esercizio della libera professione”. L’astensione degli avvocati, quindi, pur non potendo essere ricondotta nell’alveo del diritto di sciopero tutelato ex art. 40 Cost., costituisce una incisiva manifestazione della dinamica associativa volta alla tutela di quella forma di lavoro autonomo e, di conseguenza, ricade nel favor libertatis che ispira la prima parte della Costituzione e non può “essere ridotta a mera facoltà di rilievo costituzionale”. La salvaguardia di questi “spazi di libertà dei singoli e dei gruppi” - precisò la Corte - non esclude però la necessità di tutelare altri valori di rango costituzionale, quali i diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale (diritti di azione e difesa ex art. 24 Cost.) ed i principi generali posti a tutela della giurisdizione. La stessa L. n. 146 del 1990, nel definire i servizi pubblici essenziali, “fa riferimento non tanto a prestazioni determinate oggettivamente, quanto al nesso teleologia) tra queste e gli interessi e beni costituzionalmente protetti” (diritto alla vita, alla salute, alla libertà e sicurezza, alla libertà di circolazione, ecc); e, coerentemente con questa impostazione, individua, tra i servizi pubblici essenziali, “l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione” (L. n. 146, art. 1, comma 2, lett. a)). Ne deriva che “quando la libertà degli avvocati e procuratori si eserciti in contrasto con la tavola di valori sopra richiamata, essa non può non arretrare per la forza prevalente di quelli”. La Corte quindi concordò con la soluzione fino ad allora adottata, in mancanza di Rassegna Forense - 3-4/2014 921 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati una specifica disciplina normativa, da una parte della giurisprudenza di legittimità - e consistente nel bilanciamento degli interessi in gioco, onde privilegiare i valori costituzionali a scapito della “libertà sindacale” - perché conforme ad una interpretazione adeguatrice delle disposizioni normative in vigore. Osservò, tuttavia, che, da una parte, non poteva costituire una risposta soddisfacente la nomina di un difensore d’ufficio all’esito del bilanciamento, se non altro per le criticità derivanti dall’eventuale adesione anche del sostituto all’astensione di categoria. Da un’altra parte, la L. n. 146 del 1990, pur finalizzata a garantire i servizi pubblici essenziali ed i beni fondamentali della persona ad essi sottesi, ometteva di disciplinare “situazioni che - al pari dello sciopero - possono determinare lesioni non rimediabili a detti beni”: il che poneva un problema “non più eludibile di legittimità costituzionale della legge”, in quanto, per disciplinare le astensioni dei difensori, non poteva procedersi ad un’interpretazione estensiva o analogica dei meccanismi ivi previsti per l’astensione dal lavoro dei lavoratori subordinati (personale di cancelleria ecc). Secondo la Corte, quindi, era necessaria una più ampia disciplina, idonea a regolare anche le astensioni collettive non qualificabili come esercizio del diritto di sciopero, quanto meno in relazione alla necessità di un congruo preavviso e di un ragionevole limite di durata (“peraltro già previsti da codici di autoregolamentazione recentemente adottati da vari organismi professionali che, tuttavia, non hanno efficacia generale”), nonché all’individuazione delle prestazioni essenziali da eseguire durante l’astensione e delle misure in caso di inosservanza. Sulla base di queste considerazioni, la sentenza n. 171 del 1996 dichiarò l’illegittimità costituzionale della L. n. 146 del 1990, art. 2, commi 1 e 5, “nella parte in cui non prevede, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non prevede altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza”. 3. Tralasciando le altre implicazioni dogmatiche e pratiche di tale sentenza - sia per la sua natura di additiva di principio, sia per la collocazione dell’astensione nell’ambito della libertà di associazione, sia per l’inquadramento dello sciopero come species di un più ampio genus cui ricondurre le manifestazioni del conflitto collettivo, sia per le ricadute dei principi affermati all’interno del processo penale - rileva qui ricordare l’influenza da essa avuta, da un lato, sull’attività della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, istituita in forza della L. n. 146 del 1990, art. 12, e, da un altro lato, sul legislatore ordinario. 3.1. La Commissione di garanzia (ricondotta generalmente tra le autorità amministrative indipendenti), a seguito della sentenza n. 171 del 1996 operò, per così dire, una svolta in senso “interventista” (a volte vivacemente contestata dagli organismi rappresentativi dell’avvocatura), considerando ormai il fenomeno delle astensioni forensi come rientrante nel campo di applicazione della L. n. 146 del 1990, ed esercitando quindi, in attesa di un intervento legislativo, i poteri che tale legge le attribuiva per disciplinare le astensioni col- 922 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza lettive riconducigli allo sciopero, se esercitate nel settore dei servizi pubblici essenziali. Si sono quindi succedute, tra il 1996 ed il 2000, una serie di delibere (che qui è superfluo ricordare) di invito a revocare astensioni collettive ritenute illegittime e, soprattutto, di valutazione negativa di astensioni attuate in contrasto con la legge e la sentenza costituzionale (specie per mancato rispetto del termine di preavviso, o per eccessiva durata dell’astensione o per mancata garanzia sulle udienze con imputati detenuti). Inoltre la Commissione, esercitando anche nei confronti degli avvocati il potere, previsto dall’art. 13 della legge, di valutazione sulla “idoneità dei codici di autoregolamentazione deliberati dagli organismi di categoria”, espresse parere negativo su quelli adottati dall’Organismo unitario dell’avvocatura (delibera 11 luglio 1996) e dall’Unione delle Camere penali (delibera 12 giugno 1997), per la mancanza di predeterminazione della durata dell’astensione, di un adeguato impianto sanzionatorio, di meccanismi idonei ad impedire l’uso strumentale dell’astensione per far decorrere i termini di prescrizione e di custodia cautelare. Le iniziative della Commissione furono spesso accompagnate da vivaci reazioni negative degli organismi rappresentativi dell’avvocatura, come l’iniziale negazione della competenza della Commissione da parte del Consiglio Nazionale Forense (delibera 21 giugno 1996) e l’inserimento, all’interno di uno dei codici di autoregolamentazione, poi ritenuti inidonei, della previsione di una commissione ad hoc per la vigilanza sulle astensioni di categoria. La situazione, già di per sé problematica, era aggravata dalla sostanziale inapplicabilità di gran parte delle disposizioni della L. n. 146 del 1990, chiaramente “modellate” sulle astensioni dei lavoratori subordinati (soprattutto in ordine alle procedure di individuazione delle prestazioni indispensabili ed all’apparato sanzionatorio). 3.2. Il legislatore ordinario intervenne finalmente con la L. 11 aprile 2000, n. 83, che introdusse sostanziali modifiche ed integrazioni alla L. n. 146 del 1990, nella direzione indicata dalla Corte costituzionale. Fra le altre, sono di fondamentale importanza le disposizioni contenute nella L. n. 146, nuovo art. 2 bis, il quale dispone, innanzitutto, che l’astensione collettiva dalle prestazioni dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria, è esercitata - se incidente sulla funzionalità dei servizi pubblici essenziali di cui all’art. 1 della legge - “nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili” di cui al medesimo art. 1. Si tratta delle prestazioni che - come accade per l’esercizio del diritto di sciopero (art. 2) - devono essere individuate allo scopo di contemperare l’astensione con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati e, quindi, di assicurare, in caso di conflitto collettivo, l’effettività dei diritti medesimi “nel loro contenuto essenziale” (cfr. art. 1, comma 2). A tal fine, l’art. 2 bis prevede che la Commissione di garanzia promuove l’adozione, da parte degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, “di codici di autoregolamentazione che realizzino, in caso di astensione collettiva, il contemperamento con i diritti” di cui all’art. 1: qualora poi tali codici manchino, o non siano valutati dalla Commissione idonei a garanti- Rassegna Forense - 3-4/2014 923 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati re le predette finalità, la Commissione “delibera la provvisoria regolamentazione”, sentite le parti interessate. L’ultima parte dell’art. 2 bis, comma 1, quindi, da un lato, individua il contenuto minimo dei codici di autoregolamentazione (termine di preavviso non inferiore a dieci giorni, indicazione della durata e delle motivazioni dell’astensione collettiva), che devono comunque assicurare, in ogni caso, un livello di prestazioni compatibili con le finalità predette; dall’altro lato, delinea un sistema di sanzioni pecuniarie, a carico delle organizzazioni di categoria in solido con i singoli professionisti e lavoratori autonomi, per la violazione dei codici di autoregolamentazione (con un rinvio al successivo art. 4). Infine, in via transitoria, il comma 2 prevede che la Commissione di garanzia deliberi la provvisoria regolamentazione (anche) nell’ipotesi di mancata adozione dei codici di autoregolamentazione, decorsi sei mesi dall’entrata in vigore della legge. In questo modo, il contemperamento tra gli interessi di rilevanza costituzionale in gioco e l’individuazione delle prestazioni indispensabili da assicurare in ogni caso nei servizi pubblici essenziali, durante le astensioni dal lavoro non riconducibili allo sciopero, viene rimessa dalla legge in primo luogo al codice di autoregolamentazione predisposto dagli organismi rappresentativi di categoria, il quale, peraltro, deve non solo contenere necessariamente disposizioni sul preavviso minimo di dieci giorni e sulla durata, ma deve anche assicurare, “in ogni caso”, un livello di prestazioni compatibili con la finalità della legge. Questa idoneità allo scopo è oggetto di una specifica valutazione da parte della Commissione di garanzia: in caso di ritenuta inidoneità, ovvero di mancata predisposizione del codice, la legge demanda alla Commissione il compito di disciplinare la materia con una “regolamentazione provvisoria”. Si è notato che, in questo modo, la L. n. 83 del 2000, ha armonizzato la disciplina delle varie tipologie di astensioni dal lavoro nei servizi pubblici essenziali. Infatti, nello sciopero dei lavoratori subordinati, l’individuazione delle prestazioni indispensabili è rimessa “in prima battuta” a disposizioni adottate in sede di contrattazione collettiva (accordi tra le imprese erogatrici e le organizzazioni sindacali rappresentative dei lavoratori), che peraltro devono anch’esse ottenere una valutazione di idoneità da parte della Commissione di garanzia, la quale, anche in questo caso, è tenuta ad adottare una “regolamentazione provvisoria” in caso di inidoneità o mancanza degli accordi. Nel caso di astensione degli avvocati (o di altri professionisti o lavoratori autonomi) manca il rapporto bilaterale datore di lavoro-lavoratore, che inerisce profondamente allo sciopero in senso proprio, e quindi manca una controparte specifica con la quale siglare un accordo bilaterale, venendo piuttosto in rilievo una figura “terza” - perché del tutto estranea al conflitto che porta l’avvocato ad astenersi - quale quella dell’utente del servizio. In questo tipo di astensione, pertanto, la funzione assolta dai contratti collettivi per il lavoro subordinato, viene svolta dai codici di autoregolamentazione. 4. Nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della L. n. 83 del 2000, non cessarono le marcate contrapposizioni tra Commissione di garanzia e gli organismi di rappresentanza delle categorie forensi. La Commissione dichiarò inidonea anche una nuova versione, lievemente modificata, del codice di autoregolamentazione già presentato dai predetti organismi nel 924 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 1997. Questi ultimi preferirono non interloquire sulla proposta di individuazione delle prestazioni indispensabili formulata dalla Commissione: proposta che, ai sensi della novellata L. n. 146, art. 13, lett. a), costituisce l’avvio del procedimento di formazione della regolamentazione provvisoria demandata alla Commissione nell’ipotesi in cui il codice di autoregolamentazione manchi o sia ritenuto inidoneo. Finalmente, con deliberazione del 4 luglio 2002, pubblicata sulla G.U. del 23 luglio 2002, la Commissione adottò la regolamentazione provvisoria dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria. Pur trattandosi di disposizioni ormai superate dalla successiva entrata in vigore del codice varato dagli organismi di categoria e ritenuto idoneo dalla Commissione, può essere interessante ricordare due profili di quella disciplina. In particolare, l’art. 2, comma 2 (sul punto poi profondamente modificato dal vigente codice di autoregolamentazione), stabiliva che, nel procedimento penale, il difensore che non intendeva aderire all’astensione era tenuto a comunicare prontamente tale sua decisione all’autorità giudiziaria procedente e agli altri difensori costituiti: ponendo quindi una sorta di “presunzione di adesione” in contrasto con quell’orientamento giurisprudenziale che invece faceva gravare sul difensore aderente all’astensione un preciso onere di pronta comunicazione al giudice procedente (v., ad es., Sez. 1, n. 936 del 16/02/1998, Natale, Rv. 209900, secondo cui occorreva anche che il difensore fosse presente in udienza per evitare oneri di avvisi). L’art. 2, comma 4, invece, escludeva l’operatività di tale presunzione “per le udienze che possono celebrarsi anche in assenza del difensore”; il che presupponeva evidentemente la possibilità di astenersi anche nelle udienze camerali, ponendosi quindi in contrasto con un orientamento giurisprudenziale all’epoca consolidato, che negava l’ammissibilità dell’astensione nelle udienze a partecipazione non necessaria. 5. La disciplina delle astensioni collettive degli avvocati passò finalmente alla fase “fisiologica” con la delibera del 13 dicembre 2007, pubblicata sulla G.U. del 4 gennaio 2008, con la quale la Commissione di garanzia valutò idoneo il codice di autoregolamentazione adottato dagli organismi rappresentativi della categoria, allegato alla delibera stessa. La motivazione della delibera appare significativa, sia per le indicazioni sulla complessità del cammino percorso per superare la regolamentazione provvisoria, sia soprattutto per la valutazione compiuta dalla Commissione sui pareri (obbligatori, ai sensi della L. n. 146, art. 13, ma non vincolanti) formulati dalle associazioni degli utenti e dei consumatori. In particolare, l’Assoutenti aveva segnalato l’opportunità di prevedere nel codice - in linea con quanto affermato da alcune decisioni della Corte di cassazione (cfr., ad es., Sez. 1, n. 10955 del 10/06/1999, Volpe, Rv. 214371; Sez. 1, n. 936 del 16/02/1998, Natale, Rv. 209900, cit.) - un obbligo per l’avvocato di comunicare al cliente, in via diretta e preventiva, la propria adesione all’astensione. Il suggerimento fu però disatteso dalla Commissione per la ragione che la questione avrebbe potuto trovare più adeguata soluzione nell’ambito delle norme deontologiche, essendo relativa “al rapporto fiduciario che intercorre tra professionista e cliente”. Rassegna Forense - 3-4/2014 925 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati La Commissione fondò la valutazione positiva del codice di autoregolamentazione sull’avvenuto rispetto degli obblighi di legge in tema di preavviso e di idonea comunicazione (l’astensione deve essere comunicata almeno 10 giorni prima al presidente della corte di appello e ai dirigenti degli uffici giudiziari interessati, nonché al Ministro della Giustizia, alla Commissione di garanzia, ecc: art. 2, comma 1); in tema di determinazione della durata massima e di previsione di intervalli temporali tra un’astensione e l’altra (l’astensione non può superare gli otto giorni consecutivi, né più astensioni possono andare oltre gli otto giorni in un mese solare, ferma la necessità di un intervallo di almeno quindici giorni tra l’una e l’altra: art. 2, comma 4); ed in tema di individuazione delle prestazioni indispensabili nei procedimenti penali, civili, amministrativi e tributari durante l’astensione (artt. 4, 5 e 6). Di particolare importanza, in questa sede, è l’art. 4, relativo alle prestazioni indispensabili in materia penale, il quale, da un lato (lett. a), dispone che l’astensione non è consentita quanto all’assistenza al compimento di atti di perquisizione e sequestro, alle udienze di convalida dell’arresto e del fermo ed a quelle afferenti misure cautelari, agli interrogatori di garanzia, all’incidente probatorio (ad eccezione dei casi in cui non si verta in ipotesi di urgenza), al giudizio direttissimo, al compimento di atti urgenti ex art. 467 c.p.p., “nonché ai procedimenti e processi concernenti reati la cui prescrizione maturi durante il periodo di astensione, ovvero, se pendenti nella fase delle indagini preliminari, entro trecentosessanta giorni, se pendenti in grado di merito, entro centottanta giorni, se pendenti nel giudizio di legittimità, entro novanta giorni”; dall’altro lato (lett. b), l’art. 4, esclude l’astensione nei procedimenti o processi con imputati “in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420 ter, comma 5 (introdotto dalla L. n. 479 del 1999) del codice di procedura penale, che si proceda malgrado l’astensione del difensore. In tal caso il difensore di fiducia o di ufficio, non può legittimamente astenersi ed ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale”. Altrettanto rilevante è l’art. 3, sugli “effetti dell’astensione”, il quale innanzitutto (comma 1) prevede una modalità alternativa di comunicazione all’autorità procedente dell’adesione all’astensione: in particolare, la mancata comparizione dell’avvocato - per poter essere considerata in adesione ad una legittima astensione collettiva “e dunque considerata legittimo impedimento del difensore” - deve essere dichiarata (personalmente o tramite sostituto) all’inizio dell’udienza o dell’atto di indagine preliminare, oppure comunicata almeno due giorni prima della data stabilita “con atto scritto trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero, oltreché agli altri avvocati costituiti”. Ove tali formalità siano rispettate, “l’astensione costituisce legittimo impedimento anche qualora avvocati del medesimo procedimento non abbiano aderito all’astensione stessa. La presente disposizione si applica a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi i difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile” (art. 3, comma 2). Il comma 3, prevede poi che “nel caso in cui sia possibile la separazione o lo stralcio per le parti assistite da un legale che non intende aderire all’astensione, questi, conformemente alle regole deontologiche, deve farsi 926 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza carico di avvisare gli altri colleghi interessati all’udienza o all’atto di indagine preliminare quanto prima, e comunque almeno due giorni prima della data stabilita, ed è tenuto a non compiere atti pregiudizievoli per le altre parti in causa”. L’art. 3, comma 4, chiarisce, conclusivamente, che il diritto di astensione può essere esercitato in ogni stato e grado del procedimento, sia dal difensore di fiducia sia da quello d’ufficio. 6. Anche dopo l’entrata in vigore, con la sua pubblicazione sulla G.U. del 4 gennaio 2008, del codice di autoregolamentazione del 2007, rimasero aperte diverse questioni, tra cui quella della natura giuridica dell’astensione, la cui soluzione peraltro è stata notevolmente influenzata dalle implicazioni con il tema della prescrizione del reato. 6.1. Si è già ricordato che, all’indomani dell’entrata in vigore del “codice Vassalli”, la giurisprudenza di legittimità si era per lo più orientata a ricondurre l’astensione degli avvocati nell’alveo del legittimo impedimento previsto dall’allora vigente art. 486 c.p.p., comma 5, talora avvertendo la necessità di operare un bilanciamento tra l’interesse difensivo all’astensione e l’interesse pubblico alla immediata trattazione del processo, con particolare riferimento al maturare della prescrizione per effetto dei rinvii conseguenti all’astensione. Questo orientamento venne ribadito anche dopo la sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale, la quale aveva ritenuto necessario, in mancanza di una disciplina normativa, un contemperamento giudiziale tra gli opposti interessi. Nella giurisprudenza di legittimità, quindi, si affermò il principio che “se l’astensione dalle udienze in adesione allo sciopero proclamato dalle organizzazioni della categoria professionale rientra tra le cause di legittimo impedimento del difensore, il giudice è sempre tenuto tuttavia ad operare un bilanciamento fra l’interesse difensivo e l’interesse pubblico alla immediata trattazione del processo, e deve affermare la prevalenza dell’uno o dell’altro tenendo conto delle situazioni contingenti, quali l’esistenza di imminenti cause estintive, l’esaurimento prossimo dei termini di fase della custodia cautelare e simili” (cfr. Sez. 2, n. 3795 del 03/02/1997, Quintini, Rv. 207558; Sez. 1, n. 5740 del 14/10/1997, Ancler, Rv. 208925). D’altra parte, ancor prima di queste decisioni, il legislatore - intervenendo esplicitamente (come si legge nella relazione al disegno di legge) al fine di rimediare alla “incongruenza del computo dei periodi di astensione dalle udienze dei difensori nei termini di prescrizione del reato e di custodia cautelare”, come “segnalato” dalla sentenza n. 114 del 1994 della Corte costituzionale - con la L. 8 agosto 1995, n. 332, modificò l’art. 159 c.p., inserendo, tra le cause di sospensione della prescrizione, anche l’ipotesi in cui la sospensione dei termini di custodia cautelare fosse stata imposta da una particolare disposizione di legge (con un implicito richiamo, quindi, alla mancata comparizione del difensore presa in considerazione dall’art. 304 c.p.p.). Tuttavia, secondo l’orientamento giurisprudenziale all’epoca dominante, la nuova causa di sospensione della prescrizione introdotta nel 1995, imperniata sulla sospensione dei termini di custodia di cui all’art. 304 c.p.p., doveva ritenersi operante soltanto nei procedimenti con detenuti (cfr., ad es., Sez. 3, n. 10205 del 19/06/1998, Auricchio, Rv. 211863; Sez. 5, n. 12643 del 16/1/2001, Lavecchia, Rv. 218344). Il che spiega il persistere dell’indirizzo Rassegna Forense - 3-4/2014 927 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati giurisprudenziale volto a bilanciare il “legittimo impedimento da astensione” con l’interesse pubblico alla immediata trattazione di un processo prossimo a prescriversi. 6.2. Questo orientamento fu abbandonato solo a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite, che affermarono il diverso principio che la sospensione o il rinvio del dibattimento per impedimento dell’imputato o del difensore, o su loro richiesta (salvo che quest’ultima sia stata determinata da esigenze di acquisizione della prova o di beneficiare di termini a difesa) determina comunque la sospensione della prescrizione, anche se l’imputato non sia sottoposto a misura cautelare (Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220509). In sostanza, in questa sentenza, l’astensione continua ad essere considerata come un legittimo impedimento, ma viene al contempo ricondotta tra le fattispecie determinanti la sospensione della prescrizione, ricorrendo un’ipotesi di sospensione del procedimento penale imposta da una particolare disposizione di legge. Nella medesima prospettiva, altre pronunce successivamente ribadirono la sospensione della prescrizione nei casi di cui all’art. 304 c.p.p., anche in assenza di misure cautelari, continuando però a qualificare - “quasi in forma tralatizia”, come rilevato dalla dottrina l’astensione come legittimo impedimento: cfr. Sez. 6, n. 24603 del 03/04/2003, Cuozzo, Rv. 226008; Sez. 3, n. 16022 del 05/03/2004, Granata, Rv. 228968. Quest’ultima decisione, peraltro, affermò anche un altro importante principio (Rv. 228969) - poi ripreso da numerosissime pronunce successive - sulla durata della sospensione del corso della prescrizione, sostenendo che tale sospensione, se “collegata al rinvio od alla sospensione del dibattimento disposti nei casi previsti dalla legge, va commisurata alla effettiva durata del rinvio dell’udienza disposto dal giudice: quindi nel caso di impedimento a comparire del difensore, motivato dall’adesione all’astensione dalle udienze proclamata dalla categoria, l’effetto sospensivo deve essere determinato non in base alla durata dello sciopero, ma al tempo resosi di conseguenza necessario per gli adempimenti tecnici imprescindibili per garantire il recupero dell’ordinario corso della giustizia, atteso che tutte le parti processuali condividono con il giudice che dispone il rinvio la responsabilità dell’ordinato andamento del processo, nel corretto bilanciamento tra garanzia dei diritti di difesa e funzionalità del processo penale”. 6.3. I termini della questione cambiarono necessariamente con l’ulteriore modifica dell’art. 159 c.p., ad opera della L. 5 dicembre 2005, n. 251. Il vigente art. 159, comma 1, n. 3, individua, tra le cause di sospensione della prescrizione, le ipotesi della sospensione del procedimento o del processo per ragioni di impedimento (delle parti o dei difensori) e le ipotesi di sospensione del procedimento o del processo su richiesta (dell’imputato o del difensore), differenziando peraltro nettamente i due casi: solo nel primo (sospensione per impedimento), infatti, la sospensione della prescrizione opera nel limite di sessanta giorni dal termine dell’impedimento. È così divenuto di centrale rilevanza, agli effetti del calcolo della prescrizione del reato, stabilire se la causa di rinvio del procedimento o del processo è dovuta ad un “impedimento” ovvero ad una “richiesta” del difensore. 928 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza A seguito di questo ulteriore mutamento normativo, si è venuta progressivamente affermando la tesi che nega radicalmente che l’astensione del difensore dalle udienze sia riconducibile nell’ambito del legittimo impedimento, essendo del tutto libera la scelta del difensore di aderire o meno all’astensione proclamata dagli organismi di categoria. Si osserva che se è vero che l’astensione ha ormai ricevuto una chiara copertura costituzionale nell’ambito della libertà di associazione, è anche vero che si tratta pur sempre di una opzione di natura volontaria, rimessa alle valutazioni soggettive del difensore e basata su criteri di opportunità di fatto. Si è quindi in presenza di una situazione del tutto diversa da quella della “assoluta impossibilità” di comparire o, comunque, di partecipare all’udienza che, a norma dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5, e art. 484 c.p.p., comma 2 bis, definisce la figura del “legittimo impedimento” del difensore quale causa di rinvio della udienza e di conseguente sospensione del processo. Anche se non sono mancate in dottrina opinioni contrarie (nel senso che l’assolutezza dell’impedimento dovrebbe essere intesa non in termini letterali, “bensì come impossibilità per il difensore di comparire in udienza senza patire l’irrimediabile lesione di un proprio, concorrente diritto costituzionalmente garantito”), questo indirizzo, volto ad escludere che l’astensione dalle udienze possa essere ricondotta nell’alveo del legittimo impedimento, appare ormai del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità. Se prima della sentenza costituzionale n. 171 del 1996 alcune pronunce contrarie al legittimo impedimento tendevano talora a considerare la “libera scelta del difensore” come un abbandono di difesa giustificato come esercizio di un diritto costituzionalmente garantito (cfr. Sez. 1, n. 2646 del 26/04/1996, Di Paolo, Rv. 205175), la giurisprudenza successiva ha seguito l’inquadramento operato dalla Corte costituzionale nell’ambito della libertà di associazione. L’orientamento ormai consolidato, quindi, parte dal riconoscimento della piena legittimazione dell’astensione dei difensori nell’ambito delle regole e dei limiti fissati “direttamente dal legislatore o dalle fonti ed istituzioni alle quali la legge rinvia”, ed osserva che il rispetto di queste regole e questi limiti determinerà l’accoglimento della richiesta del difensore di differimento dell’udienza, ma in tal caso “la ragione del rinvio sarà pur sempre l’esercizio di un diritto di libertà, che è cosa del tutto diversa dal rinvio determinato da un impedimento”; con la conseguenza che si verterà nella seconda ipotesi prevista dall’art. 159 c.p., n. 3. Ossia, l’adesione all’astensione costituisce un legittimo motivo per chiedere ed ottenere di non trattare il processo, ma non costituisce un impedimento a comparire, sicché il giudice non è tenuto a differire l’udienza entro i sessanta giorni e l’intero periodo di rinvio andrà considerato ai fini della sospensione della prescrizione (in questo senso, Sez. 2, n. 20574 del 12/02/2008, Rosano, Rv. 239890; Sez. 5, n. 44924 del 14/11/2007, Marras, Rv. 237914; Sez. 5, n. 33335 del 23/04/2008, Inserra, Rv. 241387; Sez. 1, n. 25714 del 17/06/2008, Arena, Rv. 240460; Sez. 5, n. 18071 del 08/02/2010, Piacentino, Rv. 247142; Sez. 4, n. 10621 del 29/01/2013, M., Rv. 256067). Alcune decisioni hanno fondato questa soluzione anche richiamando l’art. 4 del vigente codice di autoregolamentazione il quale vieta l’astensione qualora l’imputato si trovi in stato di custodia cau- Rassegna Forense - 3-4/2014 929 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati telare o di detenzione e “chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che si proceda malgrado l’astensione del difensore” - osservando che in questo modo il legislatore secondario sembra aver considerato l’astensione dalle udienze come non riconducibile ad un legittimo impedimento a comparire poiché, diversamente, il richiamo all’art. 420 ter c.p.p., comma 5, sarebbe stato superfluo (v. Sez. 5, n. 21963 del 07/05/2008, Del Duca, n. m.; Sez. 2, n. 44391 del 29/10/2008, Palumbo, n. m.). Peraltro, l’astensione del difensore non comporta la sospensione della prescrizione qualora si sia in presenza di più fatti idonei a legittimare il rinvio dell’udienza, perché in tal caso “occorre dare la prevalenza al fatto non dipendente dall’imputato o dal suo difensore” (Sez. 2, n. 41027 del 20/10/2011, Tarantino, n.m., in un caso in cui il difetto di notifica al coimputato impediva la trattazione del processo cumulativo; Sez. 2, n. 11559 del 09/02/2011, De Rinaldis, Rv. 249909, in un caso di rinvio del dibattimento per la contemporanea adesione del difensore e del giudice all’astensione indetta dalle rispettive categorie). È stato da molti osservato che tale consolidato orientamento giurisprudenziale ha ormai completamente “sterilizzato”, agli effetti del calcolo della prescrizione, il decorso del tempo decorrente dal giorno dell’udienza rinviata per astensione al giorno dell’udienza successiva. Ciò comporta che il divieto di astensione nei processi prossimi a prescriversi, nelle varie articolazioni di cui all’art. 4 del codice di autoregolamentazione, possa apparire in qualche modo “superato” e non più sorretto dalla originaria giustificazione. La questione esula dall’oggetto del presente giudizio, nel quale appare invece interessante ricordare che nella recente giurisprudenza di questa Corte sono stati frequenti i casi di rigetto di richieste di rinvio per astensione in riferimento a reati il cui termine di prescrizione maturava entro 90 giorni, fondati sul rilievo che il divieto è imposto da una norma di diritto oggettivo tuttora vigente (art. 4 del codice di autoregolamentazione), della quale non sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la disapplicazione: cfr., ad es., Sez. 3, n. 7620 del 28/01/2010, Settecase, Rv. 246197; Sez. 6, n. 39238 del 12/07/2013, Cartia, Rv. 256336. Quest’ultima pronuncia non solo richiama esplicitamente la “natura regolamentare” dell’art. 4 citato, ma afferma che la disciplina speciale del codice di autoregolamentazione prevale sulla disciplina codicistica dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, sia perché posta dalla fonte competente a “costituire il limite originario della legittimità dell’esercizio del diritto all’astensione collettiva degli avvocati dalle udienze”, e sia comunque perché “l’autolimitazione, rispetto alla disciplina codicistica della prescrizione, risponde a specifiche scelte della categoria professionale perfettamente adeguate, e quindi congrue, ai principi costituzionali in materia di giustizia, primo tra tutti quello della ragionevole durata del processo”, sicché non sarebbe ipotizzarle una disapplicazione della norma secondaria. Opinione questa non pienamente collimante con quanto sostenuto dalla Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane in una nota del 7 giugno 2012 inviata alla Commissione di garanzia, nella quale, preso atto del “diritto vivente”, si esprime la necessità di riformare il vigente codice di autoregolamenta- 930 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza zione sia quanto alla qualificazione di “legittimo impedimento” ivi conferita all’astensione, sia quanto ai divieti di astenersi nei processi prossimi alla prescrizione, trattandosi di un’autolimitazione che “non ha oggi più alcuna ragione giustificatrice”. 7. Venendo ora più specificamente all’esame delle questioni sottoposte alle Sezioni Unite, va preliminarmente ricordato che il rispetto dei presupposti fissati dal codice di autoregolamentazione “costituisce la precondizione per la sussistenza del diritto che si afferma voler esercitare” (cfr. Sez. 6, n. 39238 del 12/07/2013, Cartia, Rv. 256336, cit.) - In particolare, l’art. 3 del vigente codice prevede specifiche modalità di presentazione della dichiarazione di astensione, il cui rispetto è necessario, affinché la mancata comparizione sia considerata in adesione all’astensione (e quindi, stando al codice, “legittimo impedimento”). L’astensione, difatti, come già ricordato, deve essere “dichiarata (personalmente o tramite sostituto) all’inizio dell’udienza o dell’atto di indagine preliminare”, oppure, in alternativa, deve essere “comunicata prima con atto trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero oltreché agli altri avvocati costituiti, almeno due giorni prima della data stabilita”. In questo processo l’avv. G.M., difensore dell’imputato L.A., comunicò al Tribunale di Ferrara la propria dichiarazione di adesione all’astensione indetta dall’Unione delle Camere Penali facendola pervenire alla cancelleria del giudice procedente a mezzo telefax, con contestuale richiesta di rinvio. Occorre pertanto valutare la ritualità di questa presentazione, dal momento che la giurisprudenza non è pacifica sull’ammissibilità di una presentazione via fax di un’istanza di rinvio per astensione. Alcune sentenze si sono pronunciate nel senso dell’inammissibilità, perché la trasmissione via fax di tale istanza non costituisce una forma valida di comunicazione ai sensi dell’art. 121 c.p.p., in quanto non garantirebbe la verifica dell’autenticità della sua provenienza (Sez. 1, n. 3138 del 20/01/1998, Monti, n. m.; Sez. 1, n. 6528 del 11/05/1998, Sileno, Rv. 210711); altre, nel senso diametralmente opposto dell’ammissibilità di una comunicazione via fax, non richiedendo tale comunicazione forme particolari (Sez. 2, n. 28141 del 06/05/2004, Paolini, Rv. 229718). Sull’analoga questione dell’utilizzo del telefax, da parte del difensore, per la comunicazione di richieste di rinvio per impedimento dovuto a concomitanti impegni professionali, sono rinvenibili attualmente, nella giurisprudenza di legittimità, tre diversi orientamenti. Un primo indirizzo esclude l’ammissibilità dell’istanza di rinvio inviata via fax, perché l’art. 121 c.p.p., stabilisce l’obbligo per le parti di presentare le memorie e le richieste rivolte al giudice mediante deposito in cancelleria, mentre il ricorso al telefax è riservato ai funzionari di cancelleria ai sensi dell’art. 150 c.p.p., (in tal senso, Sez. 5, n. 46954 del 14/10/2009, Giosuè, Rv. 245397; Sez. 4, n. 21602 del 23/01/2003, Giuliano, Rv. 256498; Sez. 6, n. 28244 del 30/01/2013, Bagheri, Rv. 256894; Sez. 3, n. 7058 del 11/02/2014, Vacante, Rv. 258443, che ribadisce il principio anche con riferimento all’invio di istanze tramite posta elettronica certificata). In senso contrario, si è invece affermato che è viziata da nullità assoluta, insanabile e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado Rassegna Forense - 3-4/2014 931 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati del processo, la sentenza emessa senza che il giudice si sia pronunciato sull’istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire, trasmessa via fax, atteso che tale modalità di trasmissione deve ritenersi consentita alla luce dell’evoluzione del sistema di comunicazioni e notifiche, non ostandovi il dato letterale dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5, il quale si limita a richiedere che l’impedimento sia “prontamente comunicato”, senza indicare le modalità (cfr. Sez. 3, n. 11268 del 06/11/1996, D’Andrea, Rv. 207030; Sez. 5, n. 32964 del 24/04/2008, Pezza, Rv. 241167; Sez. 3, n. 10637 del 20/01/2010, Barila, Rv. 246338; Sez. 5, n. 43514 del 16/11/2010, Graci, Rv. 249280; Sez. 5, n. 21987 del 16/01/2012, Balasco, Rv. 252954). In un senso in parte diverso, si è affermato che l’istanza inviata a mezzo fax non è inammissibile o irricevibile, ma la sua mancata delibazione non comporta alcuna violazione del diritto di difesa, “in quanto la scelta di un mezzo tecnico non autorizzato per il deposito espone il difensore al rischio dell’intempestività con cui l’atto stesso può pervenire a conoscenza del destinatario”, sicché la parte ha l’onere di accertarsi del regolare arrivo del fax e del suo tempestivo inoltro al giudice procedente (Sez. 3, n. 9162 del 29/10/2009, dep. 2010, Goldin, Rv. 246207; Sez. 2, n. 9030 del 05/11/2013, dep. 2014, Stucchi, Rv. 258526). Nel caso in esame, trattandosi di istanza di rinvio per adesione del difensore all’astensione di categoria, deve trovare applicazione - in base ai criteri di specialità e di competenza - la norma posta dalla fonte speciale e competente a regolare la specifica materia, ossia, attualmente, dall’art. 3, del vigente codice di autoregolamentazione, il quale prevede che l’atto contenente la dichiarazione di astensione sia “trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero”. Appare evidente che con questa locuzione la norma abbia esplicitamente previsto, oltre al tradizionale deposito, anche la trasmissione nella cancelleria o segreteria con qualsiasi mezzo tecnico idoneo - quale normalmente il telefax - ad assicurare la provenienza della comunicazione dal difensore e l’arrivo della stessa nella cancelleria o nella segreteria. D’altra parte - anche a prescindere da tale specifica norma - questa soluzione appare imposta non solo da una interpretazione letterale (perché non è previsto il rispetto di formalità particolari, potendo la comunicazione e il deposito avvenire con qualsiasi mezzo e forma, mentre quando siano richieste forme vincolate, il legislatore lo ha previsto espressamente, come per l’art. 162 c.p.p.: cfr. Sez. 3, n. 10637 del 20/01/2010, Barillà, cit.), ma anche da una interpretazione adeguatrice (perché maggiormente conforme ai principi costituzionali del diritto di difesa e del contraddittorio), e comunque da una interpretazione sistematica meno legata a risalenti schemi formalistici e più rispondente alla evoluzione del sistema delle comunicazioni e notifiche (cfr. art. 148 c.p.p., comma 2 bis; D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24) nonché alle esigenze di semplificazione e celerità richieste dal principio della ragionevole durata del processo. È altresì significativa l’evoluzione delle forme di comunicazione e notificazione (anche a mezzo di posta elettronica certificata) previste nel processo civile, pur se ritenute non estensibili al processo penale (Sez. 3, n. 7058 del 11/02/2014, Vacante, Rv. 258443). 932 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Del resto, quanto alla esigenza di autenticità della provenienza e della ricezione di questa forma di comunicazione, le Sezioni Unite hanno già rilevato - a proposito dell’art. 148 c.p.p., comma 2 bis, - che il telefax è “uno strumento tecnico che da assicurazioni in ordine alla ricezione dell’atto da parte del destinatario, attestata dallo stesso apparecchio di trasmissione mediante il cosiddetto OK o altro simbolo equivalente” (Sez. U, n. 28451 del 28/04/2011, Pedicone, Rv. 250121), specificando anche che “la mancata individuazione, in sede normativa, dei mezzi tecnici idonei ad assicurare la effettiva conoscenza dell’atto... è evidentemente legata all’esigenza di non rendere necessario il continuo aggiornamento legislativo degli strumenti utilizzabili, né in qualche modo obbligatorio il loro utilizzo, tenuto conto della evoluzione scientifica e dell’effettivo grado di diffusione di nuovi mezzi tecnici di trasmissione”. Inoltre, le indicazioni automaticamente impresse sul documento ricevuto dall’ufficio sono idonee ad assicurare l’autenticità della provenienza dal difensore (peraltro facilmente controllabile dall’ufficio in caso di dubbio); e la norma vigente consente che la dichiarazione sia fatta anche tramite sostituto, senza speciali formalità. Quanto alla paventata possibilità che il difensore invii indiscriminatamente e subdolamente istanze di rinvio a mezzo fax ad un qualsiasi numero di fax dell’ufficio procedente (Sez. 2, n. 9030 del 05/11/2013, dep. 2014, Stucchi, cit.), è sufficiente osservare - a parte ogni altra considerazione - che dall’art. 3 del vigente codice di autoregolamentazione deriva la regola - del resto da ritenersi implicita nel sistema anche senza la presenza di questa disposizione - che la trasmissione a mezzo fax della dichiarazione di astensione, per essere valida ed efficace, va fatta ad un numero di fax della cancelleria del giudice o della segreteria del pubblico ministero procedenti, e non a qualsiasi numero di fax dell’ufficio giudiziario. Il medesimo art. 3 poi dispone che la dichiarazione di astensione, se non effettuata, personalmente o tramite sostituto, all’inizio dell’udienza o dell’atto preliminare, va depositata o trasmessa almeno due giorni prima della data stabilita, il che sembra escludere - per questo tipo di richiesta di rinvio - la preoccupazione - emergente da molte delle decisioni dianzi citate - che il fax pervenga all’ultimo momento, senza che vi sia il tempo per portarlo alla conoscenza del giudice. Alla luce della norma speciale attualmente in vigore, pertanto, la dichiarazione del difensore di astensione fatta pervenire a mezzo fax alla cancelleria del giudice procedente, deve ritenersi ricevibile ed ammissibile. Alla medesima conclusione peraltro deve pervenirsi anche nel caso di specie, in cui, riguardando la dichiarazione di astensione l’udienza del 5 luglio 2007, era applicabile, ratione temporis, non la suddetta norma del vigente codice di autoregolamentazione, ma l’art. 3, comma 2, della regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione di garanzia il 4 luglio 2002 e pubblicata sulla G.U. del 23 luglio 2002, il quale, al contrario della disciplina attuale, disponeva che “nell’ambito del procedimento penale, il difensore che non intenda aderire all’astensione proclamata, deve comunicare prontamente tale sua decisione all’autorità procedente ed agli altri difensori costituiti”. Come si è già ricordato, la normativa secondaria vigente all’epoca poneva Rassegna Forense - 3-4/2014 933 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati una sorta di presunzione di adesione alla protesta di categoria e non imponeva alcun onere di comunicazione al difensore che vi aderisse. Nella specie, pertanto, sarebbe stata sufficiente la sola mancata presenza del difensore all’udienza (in mancanza di previa sua contraria comunicazione). L’avv. L., peraltro, comunicò ugualmente la sua volontà di aderire all’astensione con fax pervenuto alla Cancelleria del Tribunale il giorno prima dell’udienza ed esaminato dal giudice. Correttamente, quindi, il Tribunale ha ritenuto ammissibile l’istanza di rinvio e l’ha esaminata nel merito. È appena il caso di rilevare che la soluzione non muterebbe nemmeno qualora, per una qualche ragione, si volesse ritenere non applicabile nella specie il suddetto art. 3, comma 2, della regolamentazione provvisoria. In tal caso si dovrebbe invero applicare per analogia l’art. 420 ter c.p.p., il quale richiede che il legittimo impedimento a comparire sia “prontamente comunicato”; e, per le considerazioni dianzi svolte, deve preferirsi l’interpretazione secondo cui tale comunicazione, per la quale non sono previste speciali formalità, possa avvenire anche mediante telefax pervenuto nella cancelleria del giudice procedente. Nella specie, poi, il Tribunale di Ferrara ha ritenuto che la comunicazione, effettuata il giorno prima dell’udienza, fosse comunque tempestiva, tanto che l’ha esaminata nel merito. 8. Giurisprudenza e dottrina sono state (e, in parte, ancora sono) divise sulla natura giuridica ed il fondamento costituzionale da riconoscere all’astensione forense (e, in genere, all’astensione di altre categorie di prestatori d’opera autonomi). Anche dopo le modifiche introdotte con la L. n. 83 del 2000, la legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali distingue nettamente, da un punto di vista letterale, il “diritto di sciopero” dei lavoratori subordinati dalla “astensione collettiva” dei lavoratori autonomi, professionisti, piccoli imprenditori, pur considerando anche quest’ultima tra le situazioni in grado di incidere sui servizi pubblici essenziali, con la conseguente necessità di contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente garantiti, al fine di assicurarne il godimento almeno nel loro contenuto essenziale. Secondo l’opinione prevalente, pertanto, il tenore testuale dell’art. 2 bis non consentirebbe di ricondurre il fenomeno nell’alveo del diritto di sciopero. Si è ricordato che la sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale affermò che le astensioni collettive dal lavoro “volte a difendere interessi di categoria, non soltanto economici, e a garantire un corretto esercizio della libera professione” rientrano in “un’area, connessa alla libertà di associazione, che è oggetto di salvaguardia costituzionale ed è significativamente più estesa rispetto allo sciopero”. Secondo tale sentenza, pertanto, se è vero che “l’astensione forense da ogni attività defensionale non può configurarsi come diritto di sciopero e non ricade sotto la specifica protezione dell’art. 40”, è anche vero che essa costituisce “manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di quella forma di lavoro autonomo” e, come tale, “non può essere ridotta a mera facoltà di rilievo costituzionale”, ma ricade nel “favor libertatis, il quale ispira la prima parte della Costituzione e si pone come fondamentale criterio regolatore di tale ambito di rapporti, garantendo la 934 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza libertà di ogni formazione sociale e postulando, nel contempo, la concorrente tutela degli altri valori di rango costituzionale”. Dopo questa sentenza alcune opinioni dottrinali, facendo leva anche sulla lettera della novellata legge sullo sciopero, hanno qualificato l’astensione forense non come un diritto, ma come una mera libertà nei confronti dello Stato, riconducibile appunto alla libertà di associazione di cui all’art. 18 Cost. (con la conseguenza, per alcuni, che il suo esercizio escluderebbe solo l’addebito sotto il profilo penalistico, ma non l’azione di inadempimento). Nell’ambito di questo filone interpretativo sembrerebbe porsi anche un orientamento giurisprudenziale secondo il quale dovrebbe distinguersi tra il “diritto di sciopero”, specificamente tutelato dall’art. 40 Cost., ed una mera “libertà di astensione”, riconducibile al diverso ambito del diritto di associazione di cui all’art. 18 Cost., con la conseguenza che il giudice avrebbe, nel singolo processo, il potere di bilanciare i valori e gli interessi in conflitto e quindi “di far recedere la “libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali primari” (in questo senso, a quanto sembra, Sez. 2, n. 22353 del 19/04/2013, Di Giorgio, Rv. 255937; Sez. 2, n. 46686 del 06/12/2011, Bencivenga, n. m.; Sez. 2, n. 18613 del 16/04/2010, Bau, n. m.). Si tratta però di una opinione non condivisibile, dovendo preferirsi l’interpretazione, del resto ormai assolutamente prevalente in dottrina, secondo cui anche l’astensione dei lavoratori autonomi deve essere qualificata come diritto, con la conseguente esclusione di ogni illecito, qualora esso venga esercitato nel rispetto delle disposizioni della legge e dei codici di autoregolamentazione. Si è infatti esattamente osservato in dottrina che l’intera operazione di contemperamento tra alcune manifestazioni di conflitto collettivo ed alcuni diritti costituzionalmente tutelati, realizzata dalla L. n. 146 del 1990, si fonda su un necessario presupposto logico e giuridico, costituto dal riconoscimento dell’astensione collettiva come esercizio di un vero e proprio diritto, e non di una mera libertà. Il legislatore in tanto ha potuto contemperare l’esercizio di determinate astensioni collettive dalle prestazioni dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori con un catalogo di diritti costituzionalmente garantiti della persona, in quanto ha ritenuto che anche le prime configurino situazioni giuridiche comparabili con i secondi. In sostanza, l’impianto della L. n. 146 del 1990, ed in particolare l’art. 2 bis, si basa sulla premessa del riconoscimento di un diritto costituzionalmente garantito di astensione collettiva dal lavoro per tutti i soggetti compresi nel suo campo di applicazione, in quanto, senza questa implicita ammissione del comune rilievo quali diritti di rango costituzionale, l’operazione di contemperamento tra contrapposte situazioni giuridiche non avrebbe potuto essere realizzata. In particolare, non sarebbe stato possibile, senza un comune radicamento costituzionale, inserire manifestazioni di conflitto collettivo, diverse dallo sciopero di cui all’art. 40 Cost., in una legge che, proprio per consentire il contemporaneo esercizio di diritti per certi aspetti inconciliabili, ma insopprimibili, impone il principio del loro reciproco contemperamento. Anzi, si è espresso il dubbio sulla legittimità costituzionale di una disciplina che prevedesse che uno dei termini del contemperamento potesse essere privo di riferimento costituzionale. Rassegna Forense - 3-4/2014 935 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati Vero è che le opinioni non sono tutte concordi nella individuazione dello specifico principio costituzionale che funge da base al diritto di astensione. Secondo l’opinione di gran lunga più diffusa, che si richiama anche all’interpretazione seguita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 171 del 1996, il fondamento costituzionale dell’astensione risiederebbe nella garanzia della libertà di associazione di cui all’art. 18 Cost., sicché l’adesione all’astensione costituirebbe esercizio di facoltà insite nel diritto costituzionale di libera associazione. È questa, del resto, l’interpretazione seguita dalla assolutamente prevalente giurisprudenza di legittimità. Questa opinione, peraltro, non è andata esente da rilievi da una parte della dottrina costituzionalistica, che ha lamentato una utilizzazione anomala della libertà di associazione ed un profondo mutamento sul piano ermeneutico dei confini e dei tratti caratteristici della fattispecie prevista dall’art. 18 Cost., ricordando che l’essenza dell’associarsi è cosa diversa dall’agire secondo i dettami dell’associazione e che restano fuori dell’ambito della garanzia costituzionale i comportamenti posti in essere dagli associati, anche se funzionali al raggiungimento dei fini sociali. Da una parte, sia pure minoritaria, della dottrina si sono pertanto continuate a prospettare opinioni diverse sul riferimento costituzionale del diritto di astensione, quale quella secondo cui, nonostante il tenore letterale della novella legislativa, anche i lavoratori autonomi e gli altri soggetti di cui all’art. 2 bis sarebbero divenuti titolari del diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost.; o quella secondo cui il riferimento andrebbe ricercato, per le varie categorie professionali, nell’art. 39 Cost., inteso non come dichiarazione di mera libertà sindacale, ma come affermazione integrale della libertà di azione sindacale; o quella secondo cui, almeno per alcune fra le eterogenee figure di lavoratori autonomi contemplate dall’art. 2 bis, dovrebbe aversi riguardo alla libertà, costituzionalmente garantita, di iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost. (con il divieto di svolgerla in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana). Quel che rileva ai fini del quesito qui esaminato è peraltro la qualificazione dell’astensione forense non già come una mera libertà, bensì come esercizio di un vero e proprio diritto avente un sicuro fondamento costituzionale: soluzione questa che - per le ragioni dianzi esplicitate - deve mantenersi ferma quand’anche non si volesse - contrariamente alla assolutamente prevalente giurisprudenza della Corte di cassazione - ravvisare tale fondamento nell’art. 18 Cost., ma (anche) in diversi principi costituzionali. Va pertanto pienamente confermato il principio recentemente enunciato dalla sentenza delle Sez. U, n. 26711 del 30/05/2013, Ucciero, Rv. 255346, la quale ha inequivocamente qualificato l’astensione collettiva dalla attività giudiziaria da parte degli avvocati come “un diritto, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo”. 9. Strettamente connessa, ed anzi pregiudiziale alla soluzione dello specifico quesito individuato dall’ordinanza di rimessione, è la questione della natura giuridica e dell’efficacia (vincolante erga omnes o meno) del codice di autoregolamentazione valutato idoneo dalla Commissione di garanzia (e della regolamentazione provvisoria). 936 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza A questo proposito occorre distinguere nettamente il periodo precedente l’entrata in vigore della L. n. 83 del 2000, dal periodo successivo. 9.1. Nel sistema originario della legge n. 146 del 1990, imperniato sullo sciopero dei lavoratori subordinati, l’individuazione delle prestazioni indispensabili era rimessa ai (soli) contratti collettivi valutati idonei dalla Commissione di garanzia: i codici di autoregolamentazione - pur conosciuti nell’esperienza anteriore alla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali - venivano presi in considerazione come strumenti meramente “eventuali” dall’art. 2 (vecchio testo) della legge, il quale, demandando ai codici stessi la previsione delle sanzioni da applicare in caso di violazione, confermava chiaramente la loro natura ed efficacia meramente endoassociativa. In particolare, quanto ai codici di autoregolamentazione varati in quel periodo dagli organismi rappresentativi della categoria forense, l’opinione consolidata era che essi davano luogo ad un mero impegno unilaterale nei confronti dell’utenza, utilizzabile dal giudice nell’attività di bilanciamento degli opposti interessi ovvero in sede disciplinare, con riferimento alla violazione di regole deontologiche. Questa tesi, del resto, aveva ricevuto l’avallo dalla sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale, la quale aveva espressamente osservato che una nuova ed adeguata regolamentazione legislativa era “ormai indilazionabile” - “anche in riferimento all’astensione collettiva dal lavoro non qualificabile, per l’assenza dei suoi tratti tipici, come esercizio del diritto di sciopero” e che fosse finalizzata alla salvaguardia dei principi e valori costituzionali, anche con la specificazione, da parte del legislatore, delle “prestazioni essenziali da adempiere durante l’astensione, le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza” - anche perché i “codici di autoregolamentazione recentemente adottati da vari organismi professionali... non hanno efficacia generale”. In tal modo, peraltro, la Corte costituzionale chiaramente sembrava auspicare che la invocata nuova disciplina legislativa prevedesse che la regolamentazione delle prestazioni essenziali durante l’astensione dei lavoratori autonomi fosse posta da fonti di diritto oggettivo, aventi appunto “efficacia generale”. Anche la consolidata giurisprudenza di legittimità era nel senso che le “disposizioni fissate in un codice di autoregolamentazione possono avere efficacia vincolante per la categoria di soggetti che hanno contribuito alla creazione della fonte normativa, in funzione dello scopo di porsi alcuni limiti all’esercizio concreto di un fondamentale diritto”, ma non sono vincolanti per il giudice che “rimane soggetto ai vincoli che derivano dall’ordinamento processuale” (Sez. 5, n. 3047 del 21/01/1999 Nava, Rv. 212952 - richiamata anche dall’ordinanza di rimessione - la quale però si riferiva appunto al codice di autoregolamentazione adottato all’epoca dell’Unione delle Camere penali e poi dichiarato non idoneo dalla Commissione di garanzia e quindi mai entrato in vigore come fonte di diritto oggettivo). 9.2. La situazione era destinata evidentemente a mutare radicalmente dopo l’entrata in vigore della legge n. 83 del 2000, ed in particolare a seguito della emanazione ed entrata in vigore, dapprima, della regolamentazione provvisoria emanata dalla Commissione e, in seguito, dei codici di autorego- Rassegna Forense - 3-4/2014 937 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati lamentazione “muniti” della valutazione di idoneità, ai sensi della L. n. 146 del 1990, nuovo art. 2 bis. Tuttavia, nella giurisprudenza di legittimità si sono formati su questo punto due diversi indirizzi interpretativi. Un primo indirizzo ha continuato, anche di recente, ad affermare - quasi tralaticiamente, richiamando difatti la giurisprudenza anteriore alla L. n. 83 del 2000, e la sentenza costituzionale n. 171 del 1996, ossia principi che si riferivano ad un contesto normativo affatto differente - che il giudice, nel valutare l’accoglibilità di una richiesta di rinvio dell’udienza per adesione del difensore all’astensione di categoria, “non è legato dai principi fissati dall’avvocatura per autodisciplinare l’astensione medesima (Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati pubblicato in G.U. n. 3 del 4 gennaio 2008), ma deve autonomamente procedere al bilanciamento degli interessi in gioco in quanto il codice di autoregolamentazione è un atto che vincola i soli associati” (Sez. 2, n. 22353 del 19/04/2013, Di Giorgio, Rv. 255937, con riferimento, quindi, proprio al codice di autoregolamentazione attualmente in vigore; conf. Sez. 2, n. 24533 del 29/05/2009, Frediani, Rv. 244785). Un secondo, più cospicuo e recente indirizzo è quello affermato dalla già citata sentenza delle Sezioni Unite n. 26711 del 30/05/2013, Ucciero, la quale ha espressamente osservato che le norme del codice di “Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati”, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, hanno “valore di normativa secondaria”, e vanno pertanto obbligatoriamente applicate dal giudice. La sentenza Ucciero - dopo aver richiamato la sentenza costituzionale n. 171 del 1996, e l’inquadramento ivi contenuto dell’astensione forense quale “manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo”, nonché la sua inclusione fra i diritti “di libertà dei singoli e dei gruppi che ispira l’intera prima parte della Costituzione, e la sua qualificazione come un vero e proprio “diritto, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo” - ha ricordato che proprio “allo scopo di soddisfare le esigenze di bilanciamento tra le istanze contrapposte additate dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale, la L. n. 146 del 1990, è stata appositamente novellata ad opera della L. n. 83 del 2000, con l’introduzione dell’art. 2 bis che ha appunto previsto, per l’astensione collettiva da parte di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori, l’adozione di appositi codici di autoregolamentazione destinati a realizzare il contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all’art. 1 della stessa legge, previa verifica di idoneità da parte della apposita Commissione di garanzia”. Ha quindi ricordato che, sulla base delle nuove disposizioni, il nuovo codice di autoregolamentazione adottato nel 2007 è stato valutato idoneo dalla Commissione il 13 dicembre 2007 e quindi pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Ha infine concluso che, in questo quadro di riferimento normativo, “il codice di che trattasi assume valore di normativa secondaria alla quale occorre conformarsi”. Questo indirizzo è stato poi seguito da numerose pronunce delle sezioni semplici. Così, la sentenza della Sez. 6, n. 39871 del 12/07/2013, Notarianni, 938 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Rv. 256444, nel rigettare una istanza di rinvio per astensione in un procedimento di sequestro preventivo, ha ribadito i principi espressi dalla sentenza Ucciero, stabilendo che il divieto di astenersi nelle udienze “afferenti misure cautelari”, di cui all’art. 4, lett. a), del codice di autoregolamentazione, deve ritenersi comprensivo anche dei procedimenti relativi a misure cautelari reali, sulla base di una interpretazione che trovava conferma nella coerenza sul punto tra la normativa secondaria (più dettagliata) e quella primaria della L. n. 146 del 1990. Analogamente, la sentenza Sez. 6, n. 51524 del 12/07/2013, Cartia, Rv. 256336, ha fondato il rigetto di una istanza di rinvio per astensione sull’art. 4, comma 1, lett. a), del codice di autoregolamentazione, nella parte in cui non consente l’astensione nei giudizi di legittimità in cui la prescrizione dei reati vada a maturare nei novanta giorni successivi. La sentenza afferma che proprio il valore di normativa secondaria, che deve attribuirsi al codice valutato idoneo, impone di escludere la legittimità della dichiarazione di adesione nei casi di divieto ivi contemplati, poiché in tali casi la dichiarazione di astensione non trova “copertura” e si risolve “in una iniziativa individuale, come tale non rilevante perché inidonea a costituire esercizio del diritto all’astensione collettiva dalle udienze”. La sentenza ha anche osservato che l’ormai avvenuta “sterilizzazione” del corso della prescrizione per l’intero periodo di differimento potrebbe indurre a considerare inopportuno il suddetto divieto di astensione, ma ha ritenuto che tale vigente norma regolamentare non fosse illegittima, e non andasse quindi disapplicata, essendo peraltro congrua rispetto al principio della ragionevole durata del processo. Un richiamo adesivo al principio della sentenza Ucciero sul “valore di normativa secondaria” riconosciuto al codice di autoregolamentazione, è contenuto anche in altre più recenti decisioni, che hanno basato sui divieti di cui all’art. 4 del codice il rigetto di richieste di rinvio formulate sia in udienze “afferenti misure cautelari” (Sez. 6, n. 39979 del 19/09/2013, Cellamare; Sez. 2, n. 47145 del 17/09/2013, Figliuzzi; Sez. 2, n. 38684 del 17/09/2013, Di Puppo; Sez. 6, n. 17 del 18/09/2013, dep. 2014, Q.S., tutte n. m.), sia in processi per reati destinati a prescriversi entro i successivi novanta giorni (Sez. 2, n. 51412 del 18/09/2013, Verardi, n. m.). Allo stesso modo, la sentenza della Sez. 2, n. 13227 del 20/02/2014, Colucci, n. m., ha rigettato una richiesta di rinvio per astensione per il mancato rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), del codice di autoregolamentazione, in quanto la dichiarazione di astensione era stata trasmessa in cancelleria fuori dal termine di due giorni prima della data stabilita e non era stata comunicata agli altri avvocati costituiti, né vi era comunque dichiarazione impegnativa di avere assolto a tale obbligo anche con forme diverse da quelle scritte. Da ultimo, il principio è stato confermato anche dalla sentenza della Sez. 6, n. 1826 del 24/10/2013, dep. 2014, S., Rv. 258336 - relativa, specificamente, al diritto di astensione del difensore dalle udienze camerali, in cui la sua partecipazione non è obbligatoria - la quale ha ribadito il valore di normativa secondaria del codice in vigore, ricordando che l’attuale assetto delle fonti normative in materia di rinvio dell’udienza per astensione del difensore prevede che la stessa trovi appunto la sua regolamentazione nella legge sullo Rassegna Forense - 3-4/2014 939 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati sciopero nei servizi essenziali e nella suddetta fonte regolatrice di natura sublegislativa (la sentenza, in particolare, a differenza di quelle appena richiamate, non ha fatto riferimento ai divieti ed alle prescrizioni del codice per rigettare istanze di rinvio, ma ha applicato una norma dello stesso ritenendo che essa implicitamente consentisse l’astensione in una ipotesi fino ad allora esclusa dalla giurisprudenza). 9.3. Questa conclusione sembra messa in dubbio dall’ordinanza di rimessione la quale sostiene che questa normativa primaria e secondaria non esaurirebbe la regolamentazione della materia, con la conseguenza che residuerebbe per il giudice un potere di autonoma valutazione in situazioni non espressamente contemplate dal codice di autoregolamentazione con la possibilità di bilanciare il diritto all’astensione del difensore con altri diritti costituzionalmente rilevanti. Sembrerebbe che l’ordinanza di rimessione ritenga anche che, qualora il giudice consideri necessario tale bilanciamento, il vigente codice di autoregolamentazione non avrebbe nei suoi confronti valore vincolante con l’ulteriore conseguenza della natura sostanzialmente endoassociativa delle norme del codice (orientamento questo, ancora di recente sostenuto, fra le altre, anche dalle citate sentenze Sez. 2, n. 22353 del 19/04/2013, Di Giorgio, e Sez. 2, n. 24533 del 29/05/2009, Frediani). Ritengono le Sezioni Unite che questa interpretazione debba essere senz’altro disattesa e che vada invece pienamente confermato il principio, già enunciato dalla sentenza Ucciero, che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia nel 2007, pubblicato sulla G.U. nel 2008 ed attualmente in vigore (così come, parimenti, la regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione nel 2002) contiene una normativa di valore secondario, o regolamentare, che ha efficacia obbligatoria per tutti i soggetti dell’ordinamento, ed in primo luogo, quindi, nei confronti del giudice, il quale è tenuto a rispettarla ed applicarla. Il legislatore primario, dopo aver posto con legge la normativa generale sulla astensione dal lavoro di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori in caso di interferenza con pubblici servizi essenziali, ha previsto che la normativa secondaria e di dettaglio, di rango regolamentare, sia attribuita alla competenza di una specifica fonte, appositamente creata (costituita, appunto, dai codici di autoregolamentazione, adottati dalla categoria professionale, ritenuti idonei dalla Commissione di garanzia e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale ovvero, in mancanza degli stessi o della dichiarazione di idoneità, dalla regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione). Si tratta dunque di norme poste dalla speciale fonte normativa alla quale le norme di rango legislativo sulla produzione hanno attribuito la specifica competenza a porre la disciplina secondaria della materia, e pertanto a tutti gli effetti di vere e proprie norme che fanno parte del “diritto oggettivo”. In altre parole, si tratta di norme che rientrano nell’ambito delle norme di “legge” cui si riferisce l’art. 101 Cost., comma 2, ed alle quali il giudice, proprio in forza di tale disposizione costituzionale, è sicuramente “soggetto” (pur essendo soggetto solo ad esse). 940 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Le norme del vigente codice di autoregolamentazione (come quelle della regolamentazione provvisoria), del resto, presentano tutte le caratteristiche che, nel nostro ordinamento, contraddistinguono le norme poste da fonti di diritto oggettivo. In primo luogo, invero, per esse trova applicazione il principio iura novit curia, come peraltro è confermato da tutte le sentenze dianzi citate che hanno applicato d’ufficio le norme del codice per rigettare richieste di rinvio per astensione da udienze afferenti misure cautelari o reati destinati a prescriversi entro i 90 giorni (nonostante l’ormai avvenuta “sterilizzazione” della prescrizione per l’intero periodo di rinvio). La violazione di dette norme, poi, può costituire oggetto di ricorso per cassazione per violazione di legge (ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), e dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e l’eventuale annullamento andrà appunto pronunciato per violazione di legge, e non per vizio di motivazione. Inoltre, le disposizioni del codice di autoregolamentazione (e della regolamentazione provvisoria) vanno sicuramente interpretate secondo i criteri ermeneutici fissati per le leggi dall’art. 12 preleggi, e non secondo le regole interpretative valevoli per gli atti normativi e gli accordi collettivi di diritto privato. Ciò del resto è confermato non solo da tutto il complesso sistema normativo specificamente creato dal legislatore primario, ma anche dal tenore testuale della L. n. 83 del 2000. Si è esattamente osservato che nel settore del lavoro autonomo, in mancanza di altre fonti di disciplina, la generale obbligatorietà dei codici è la condicio sine qua non perché il meccanismo introdotto dal legislatore possa dar vita ad una disciplina vincolante per l’intera categoria dei lavoratori (autonomi, professionisti, piccoli imprenditori) interessati. Tale risultato è stato raggiunto dalla L. n. 83 del 2000, rendendo operativo anche nei confronti dei codici di autoregolamentazione valutati idonei dalla Commissione di garanzia l’obbligo legale di osservanza delle relative prescrizioni. In particolare, questa operazione legislativa si è incentrata sul disposto della L. n. 146 del 1990, art. 2, comma 3, che prescrive a tutti i soggetti coinvolti nello sciopero di effettuare le prestazioni indispensabili, nonché di rispettare le modalità, le procedure e le altre misure previste dal medesimo art. 2, comma 2. L’art. 2, comma 2, è stato poi espressamente richiamato - ed in tal modo reso applicabile anche ai lavoratori autonomi ed alle loro associazioni - sia dall’art. 2 bis, che impone anche a tali soggetti il suo rispetto, sia dall’art. 4, comma 4, secondo periodo, che sanziona nei loro confronti la sua inosservanza. L’art. 2 bis, infatti, stabilisce che resta fermo “quanto previsto dall’art. 2, comma 3”, così operando la detta estensione ai lavoratori autonomi ed alle loro associazioni dell’obbligo, sancito da questa norma, di effettuare le prestazioni indispensabili e di rispettare le altre previsioni dell’art. 2, comma 2. Quest’ultima disposizione, inoltre, contiene un esplicito riferimento ai codici di autoregolamentazione, il che ha determinato un profondo mutamento della loro efficacia rispetto alla normativa precedente, nella quale, in mancanza di espliciti richiami, non era possibile attribuire ai codici di autoregolamentazione del lavoro subordinato una generale obbligatorietà, che ora invece discende comunque dall’art. 2, comma 3, e dal suo richiamo all’art. 2, comma 2. Rassegna Forense - 3-4/2014 941 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati Si è quindi conclusivamente e correttamente sostenuto che la obbligatorietà generale dei codici di autoregolamentazione deriva dal rinvio, contenuto nella L. n. 146 del 1990, art. 2 bis, all’art. 2, comma 3, il quale a sua volta richiama l’art. 2, comma 2, oggi comprensivo anche di un espresso riferimento ai codici di autoregolamentazione. Questa vincolatività ex lege è poi confermata dalle misure sanzionatorie che, ai sensi dell’art. 4, comma 4, secondo periodo, si applicano sia “in caso di violazione dei codici di autoregolamentazione di cui all’art. 2 bis”, sia “in ogni altro caso di violazione dell’art. 2, comma 3”. Del resto, proprio in virtù della vincolatività ex lege dei codici, questa disposizione dell’art. 4 non prevede mere sanzioni endo-sindacali, bensì sanzioni amministrative pecuniarie, deliberate dalla Commissione di garanzia ed applicate con ordinanza ingiunzione della Direzione provinciale del lavoro. L’efficacia erga omnes viene generalmente ammessa dalla dottrina anche sulla base di considerazioni prettamente sistematiche. Si evidenzia che, nel sistema normativo, l’art. 2 bis, ha il ruolo di norma sulla produzione, e in particolare di norma sulla fonte secondaria di disciplina delle misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 1, mentre i codici di autoregolamentazione assumono appunto il ruolo di fonte secondaria regolativa delle dette misure, svolgendo la parallela funzione assolta per il lavoro subordinato dai contratti collettivi. È pure vero che i codici non avrebbero di per sé efficacia erga omnes (come ritenuto dalla sentenza costituzionale n. 171 del 1996 in riferimento alla precedente normativa), ma la previsione della delibera di idoneità, coniugata con il nuovo riconoscimento in capo alla Commissione di garanzia del potere normativo (espresso dalla provvisoria regolamentazione), permette di ritenere che proprio la delibera di idoneità attribuisca ai codici efficacia generale. E difatti, se si prescinde dall’efficacia generalizzata di un codice dichiarato idoneo, più non si comprende la previsione che, in alternativa ad un codice idoneo, ha rimesso alla Commissione di garanzia il potere di regolamentazione provvisoria. L’opinione pacificamente concorde - e che va qui condivisa - è dunque nel senso che il nuovo assetto normativo consente di riconoscere al codice dichiarato idoneo (ed alla regolamentazione provvisoria) un ruolo di fonte normativa subprimaria e quindi in grado di porre norme vincolanti per tutti i soggetti dell’ordinamento e, in primo luogo, per il giudice. Si tratta in particolare di fonte posta per effetto di uno speciale procedimento diretto specificamente ad individuare le regole di contemperamento del diritto di astensione con i diritti costituzionali degli utenti, nel quale è decisiva la finale valutazione di idoneità della Commissione di garanzia. Si è anche osservato, infine, che il risultato della generale vincolatività prescinde dall’ampiezza del consenso su cui le fonti collettive si fondano, dal momento che “il legislatore ha ritenuto di astenersi dall’introdurre meccanismi di controllo dei conflitti basati sulla selezione dei soggetti legittimati a definire le regole negoziali o a proclamare gli scioperi”. In conclusione, alle norme poste dalla regolamentazione provvisoria e dal codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo e pubblicato deve ricono- 942 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza scersi forza e valore di norme di diritto oggettivo di rango secondario o regolamentare. 10. Dopo avere accertato che in capo al difensore è configurabile un vero e proprio diritto all’astensione costituzionalmente tutelato (qualora siano rispettate le specifiche norme primarie e secondarie in materia) e non una mera libertà, e che le norme del codice di autoregolamentazione, dichiarato idoneo e pubblicato (o quelle della regolamentazione provvisoria) sono norme di diritto oggettivo vincolanti erga omnes, occorre ora esaminare la questione se, pur dopo l’entrata in vigore delle suddette fonti secondarie con cui è stato effettuato in via generale il contemperamento, continui a permanere in capo al giudice un potere di autonomo bilanciamento degli interessi e dei valori in gioco ed un potere di rifiutare eventualmente, a seguito di tale valutazione, il rinvio nonostante una regolare dichiarazione di astensione del difensore ed il rispetto delle norme del codice di autoregolamentazione. 10.1. Come si è già ricordato, questo potere di bilanciamento del giudice era generalmente ritenuto sussistente da giurisprudenza e dottrina nella vigenza della normativa anteriore alla disciplina introdotta dalla legge n. 83 del 2000. Si riconosceva, infatti, che l’adesione all’astensione poneva un problema - ancor prima al legislatore che al giudice - di “bilanciamento di interessi”, soprattutto per il “nodo cruciale” della prescrizione, che all’epoca non aveva ancora trovato una condivisa e definitiva soluzione giurisprudenziale. La stessa sentenza costituzionale n. 171 del 1996 aveva affermato che allo stato della normativa all’epoca vigente ed in mancanza della auspicata specifica regolamentazione normativa, anche mediante codici di autoregolamentazione - era da privilegiare (anche se non risolveva il problema per l’eventualità dell’adesione all’astensione dei difensori d’ufficio nominati) l’interpretazione che riconosceva “al giudice il potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere la “libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali primari”. La sentenza, peraltro, non mancava di sottolineare che, per la salvaguardia dei valori e principi costituzionali, era indispensabile che fosse il legislatore ad individuare “anche le prestazioni essenziali da adempiere durante l’astensione, le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza”, spettando appunto “al legislatore di definire in modo organico le misure atte a realizzare l’equilibrata tutela dei beni coinvolti”. Negli anni novanta del secolo scorso - non essendosi all’epoca ancora affermato un orientamento giurisprudenziale volto ad individuare una causa di sospensione ex lege della prescrizione, in virtù del combinato disposto dell’art. 159 c.p., e art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b), - nella giurisprudenza di cassazione si faceva frequentemente ricorso al principio del bilanciamento di interessi, soprattutto per impedire il maturare della prescrizione, “dandosi la prevalenza a quello dello Stato, diretto ad evitare l’estinzione del reato per prescrizione, rispetto a quello del difensore dell’imputato, diretto al legittimo esercizio dei diritti personali di libertà, in particolare di quello di astenersi dal partecipare alle udienze” (v., ad es., Sez. 4, n. 6604 del 17/12/1992, Montagnoli, Rv. 195252; Sez. 6, n. 2156 del 17/12/1996, dep. 1997, Galletto, Rv. 207265; Sez. 1, n. 5740 del 14/10/1997, Ancler, Rv. 208925; Sez. 3, n. 466 Rassegna Forense - 3-4/2014 943 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati del 11/03/1999, Savarese, Rv. 213092; Sez. 5, n. 3047 del 21/01/1999 Nava, Rv. 212952, che ritenne il giudice non vincolato dal parametro temporale della prescrizione entro 45 giorni successivi all’udienza fissato allora dal codice di autoregolamentazione dichiarato non idoneo dalla Commissione di garanzia). In un caso particolare, si ritenne che il rigetto - peraltro anteriore all’entrata in vigore della legge n. 83 del 2000 - era giustificato dal fatto che era stata già disposta una udienza della corte di assise in trasferta per l’esame di un teste a domicilio ai sensi dell’art. 502 c.p.p., in quanto spettava “al giudice ogni motivata decisione, che tenga conto e bilanci gli interessi in giuoco, evidentemente costituiti anche da quelli - processuali e logistici - della giustizia” (Sez. 1, 13/12/2001, dep. 2002, Agate, n. m.). 10.2. Con riferimento a dichiarazioni di astensione formulate dopo l’entrata in vigore della legge n. 83 del 2000, e durante la vigenza della provvisoria regolamentazione emanata dalla Commissione di garanzia con delibera del 4 luglio 2002, in un processo in cui il difensore di un imputato libero aveva dichiarato di aderire all’astensione, mentre i difensori dei coimputati detenuti avevano sollecitato la trattazione del processo, venne rifiutato il rinvio richiamando la necessità, sulla scorta dei principi della sentenza costituzionale n. 171 del 1996, di un bilanciamento giudiziale tra l’”esercizio della libertà di astensione collettiva” e gli altri valori costituzionali, anche in relazione al principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., che esalta il rilievo speciale conferito ai processi con imputati in stato di detenzione, dal momento che è “incomprimibile il diritto dell’imputato detenuto ad una rapida definizione del processo; diritto che quindi fa aggio sulla libertà degli avvocati di astenersi collettivamente dalle udienze” (Sez. 3, n. 17269 del 21/03/2007, Musaj, Rv. 237322). Va però rilevato che questa decisione si fonda, oltre che su tali considerazioni generali, anche e soprattutto sulla necessità di rispettare l’art. 4, comma 1, lett. b), della regolamentazione provvisoria, che prevedeva la celebrazione del processo ove lo richiedesse l’imputato in stato di detenzione malgrado l’astensione del suo difensore, di fiducia o d’ufficio, “ipotesi questa da ritenersi comprensiva della richiesta, di analogo contenuto, fatta dal difensore dell’imputato detenuto”. L’affermazione che la mera “libertà” degli avvocati di astenersi “trova un limite in altri valori costituzionali, fra i quali rientra la ragionevole durata del processo”, è stata poi ripresa da successive decisioni (cfr. Sez. 2, n. 46686 del 06/12/2011, Bencivenga, n. m., in riferimento ad una astensione in una udienza camerale d’appello con rito abbreviato). Sempre con riferimento all’epoca di vigenza della fonte secondaria costituita dalla regolamentazione provvisoria, è stato ritenuto legittimo il rigetto di una istanza di rinvio per astensione per il motivo che il processo si sarebbe prescritto entro sei mesi, ipotesi questa non contemplata dalla regolamentazione provvisoria, e ciò perché (riprendendo testualmente le argomentazioni della sentenza Nava, che invece si riferiva al codice di autoregolamentazione “ante riforma” dichiarato non idoneo) il giudice “non è legato ai principi fissati dall’avvocatura per autodisciplinare l’astensione medesima, ma deve autonomamente considerare l’interesse a non lasciar prescrivere i reati da giudi- 944 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza care tenendo conto delle molteplici variabili che condizionano un simile giudizio” (Sez. 2, n. 24533 del 29/05/2009, Frediani, Rv. 244785). Anche in altra occasione venne ritenuta irrilevante la “presunzione di astensione” fissata dall’art. 3 della regolamentazione provvisoria del 2002, per il motivo che questa disposizione imponeva all’avvocato “non aderente” di comunicare tale sua decisione per fini organizzativi, ma “nulla invece essa dispone, né potrebbe disporre, circa la rilevanza che assume la pura e semplice assenza del difensore, in occasione di astensione collettiva, nei procedimenti camerali” (Sez. 6, n. 14396 del 19/02/2009, Leoni, Rv. 243263). Questa tesi della non vincolatività per il giudice di detta disposizione della regolamentazione provvisoria e della presunzione di astensione ivi fissata, venne ripresa anche da Sez. 2, n. 10834 del 26/01/2011, Adaggio, n. m., che ritenne “irrilevante la preventiva comunicazione delle Camere penali al presidente del tribunale, attesa la natura individuale dell’adesione alla programmata astensione”, e ripropose anche la qualificazione dell’astensione come legittimo impedimento. 10.3. Più di recente, in riferimento ad istanze di rinvio per astensione formulate nella vigenza dell’attuale codice di autoregolamentazione, in relazione alla questione del permanere di un potere del giudice di compiere un autonomo bilanciamento di interessi, possono distinguersi nella giurisprudenza della Corte di cassazione due diversi indirizzi interpretativi. Da un lato, invero, alcune decisioni hanno ribadito la necessità per il giudice di operare un bilanciamento dei contrapposti interessi. In un caso di rigetto, da parte del giudice del merito, della richiesta di rinvio per adesione all’astensione del difensore di una imputata non sottoposta a misura detentiva, ma alla sola misura cautelare coercitiva di cui all’art. 282 ter c.p.p., sono stati di nuovo richiamati i principi espressi dalla sentenza costituzionale n. 171 del 1996 e si è affermata ancora la necessità di riconoscere al giudice “il potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere la “libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali primari”, ribadendo che il giudice non è vincolato dal codice di autoregolamentazione pubblicato in G.U. (Sez. 2, n. 22353 del 19/04/2013, Di Giorgio, Rv. 255937). Peraltro, dopo queste affermazioni, la sentenza osserva che “l’imputata si trovava pur sempre sottoposta ad una misura coercitiva - sebbene non detentiva - e, quindi, essendo limitato un suo diritto costituzionalmente protetto (art. 16 Cost.), era interesse primario lo svolgimento del processo”, mentre era irrilevante che l’art. 4 del codice di autoregolamentazione vieti l’astensione nei soli processi con imputati detenuti, perché correttamente il giudice, nel bilanciare gli interessi in gioco, aveva dato la prevalenza all’interesse dell’imputata, sottoposta a misura coercitiva, ad un celere processo, essendo invece irrilevante che l’imputata non avesse chiesto espressamente di procedere nonostante l’astensione del suo avvocato, e ciò in quanto “il processo non è una materia disponibile”, così come non sono disponibili i diritti costituzionali inviolabili, quale la libertà di circolazione. Sotto un altro profilo si è ritenuto che la dichiarazione di astensione del difensore della parte civile non legittima il rinvio, in presenza di una contraria volontà manifestata dal difensore dell’imputato, sebbene l’art. 3, comma 2, Rassegna Forense - 3-4/2014 945 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati del vigente codice di autoregolamentazione stabilisca che l’astensione costituisce legittimo impedimento anche qualora avvocati del medesimo procedimento non abbiano aderito ad essa, specificando che tale disposizione si applica a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi i difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile. Si è invero affermato che questa disposizione (alla quale viene riconosciuto il valore di normativa secondaria) non può essere interpretata nel senso della prevalenza della dichiarazione di astensione del difensore della parte civile sulla contraria volontà espressa, tramite il proprio difensore, dall’imputato, dovendo invece essere privilegiato l’interesse dell’imputato ad una celere definizione del procedimento, anche in virtù del principio della ragionevole durata del processo (Sez. 6, n. 43213 del 12/07/2013, Arangio, Rv. 257205). A ben vedere, tuttavia, in queste due sentenze l’affermazione del potere del giudice di operare un autonomo bilanciamento di interessi sembra fatto più come tralaticia ripetizione di formule tratte da sentenze risalenti che come enunciazione di un principio effettivamente utilizzato per la decisione. In realtà si è trattato non di bilanciamento tra valori costituzionali confliggenti, ma della scelta di una interpretazione - fra le varie possibili - estensiva ed adeguatrice (a norme o principi costituzionali) delle norme secondarie in materia. Così, la sentenza Arangio ha solo interpretato l’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione - il quale dispone che la regola, secondo cui l’astensione costituisce legittimo impedimento anche quando gli altri difensori non vi abbiano aderito, si applica anche con riferimento ai difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile - nel senso che però prevale in ogni caso l’eventuale contraria volontà formalmente espressa dall’imputato di procedere, in considerazione del suo interesse ad una celere definizione del procedimento. Analogamente, anche la sentenza De Giorgio, nonostante le non condivisibili (e superate) affermazioni di principio, ha in realtà interpretato l’art. 4, lett. b), del codice - che vieta l’astensione nei procedimenti con imputati in stato di custodia cautelare o di detenzione - nel senso che esso si applichi anche ai casi di imputati soggetti alla misura coercitiva non detentiva di cui all’art. 282 ter c.p.p. (peraltro violando poi il medesimo art. 4, il quale richiede, per escludere l’astensione, che l’imputato detenuto o in stato di custodia cautelare, chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che si proceda malgrado l’astensione del difensore). 10.4. Altre recenti decisioni, invece, aderiscono ad una diversa impostazione di principio. Così, già la citata sentenza delle Sezioni Unite Ucciero aveva tenuto a sottolineare che proprio per soddisfare le esigenze di bilanciamento tra diversi interessi e valori costituzionali indicati dalla sentenza costituzionale n. 171 del 1996, il legislatore, con la L. n. 83 del 2000, aveva previsto l’adozione di specifiche fonti di diritto oggettivo, aventi valore di normativa secondaria, costituite da appositi codici di autoregolamentazione destinati a realizzare il “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 1”, previa verifica di idoneità da parte della apposita Commissione di garanzia. 946 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Particolare rilievo presenta, anche sotto questo profilo, la già ricordata sentenza della Sez. 6, n. 1826 del 24/10/2013, dep. 2014, S., la quale, dopo aver riaffermato il principio che “con la dichiarazione di astensione dalle udienze il difensore esercita un diritto, che il giudice deve riconoscere, purché il suo esercizio avvenga nel rispetto della legge” e ribadito la “sussistenza di un vero e proprio diritto al rinvio quale diretta conseguenza dell’esercizio del diritto costituzionale di libertà di associazione del difensore”, ha sottolineato una serie di rilevanti proposizioni - tutte pienamente condivisibili e certamente operanti nell’attuale sistema normativo - specificando: che se è vero che questo diritto di libertà deve essere bilanciato con i diritti fondamentali degli altri soggetti interessati dalla funzione giudiziaria nonché con i principi costituzionali del buon andamento dell’amministrazione della giustizia, è anche vero che “un tale bilanciamento risulta oggi effettuato a monte dal legislatore”; che proprio per soddisfare le esigenze di questo bilanciamento è intervenuto il legislatore, sollecitato dalla Corte costituzionale, con la L. n. 83 del 2000, prevedendo anche l’adozione di codici di autoregolamentazione, dichiarati idonei dalla Commissione di garanzia; che pertanto attualmente l’esercizio del diritto di astensione “resta subordinato ad una serie di regole e limiti, che sono stabiliti dalla legge, integrata dai codici di autoregolamentazione che siano valutati conformi alla legge stessa” ed idonei; che “una volta che tali regole risultano osservate, il giudice non può che accogliere la richiesta di differimento dell’udienza formulata dal difensore che dichiari di aderire all’astensione collettiva, a condizione che sia stata proclamata a norma di legge”; che del resto vi sono altri istituti in grado di assicurare tutela ai principi e ai diritti suscettibili di essere lesi dagli effetti dell’astensione e dal conseguente diritto al rinvio (dato che: il rinvio dell’udienza determina la sospensione della prescrizione per l’intero periodo necessario per gli adempimenti occorrenti per il recupero dello svolgimento del processo; si esclude il diritto del difensore ad avere la notifica del provvedimento di differimento; l’astensione rende operante anche la causa di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare; il codice di autoregolamentazione esclude l’astensione nei processi per reati la cui prescrizione maturi durante il periodo di astensione o nei termini ivi indicati); che, pertanto, nell’attuale sistema normativo i diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione giudiziaria, espressione dei principi e dei valori costituzionali del buon andamento dell’amministrazione giudiziaria, risultano fortemente tutelati nella comparazione con la libertà di astensione. In questo indirizzo, poi, sembra possano farsi rientrare anche le recenti sentenze dianzi ricordate che hanno rigettato richieste di rinvio per la prossima prescrizione del reato, applicando senz’altro l’art. 4 del codice vigente e così implicitamente escludendo che permanga ancora la possibilità di un autonomo giudizio di bilanciamento, nel quale, stante l’ormai avvenuta sterilizzazione della prescrizione, avrebbe potuto forse, in qualche caso, trovare prevalenza il diritto costituzionale all’astensione. 10.5. Quest’ultima linea interpretativa deve senz’altro essere qui condivisa e confermata. La disciplina normativa della materia relativa alla astensione collettiva dei difensori è attualmente interamente contenuta in norme di dirit- Rassegna Forense - 3-4/2014 947 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati to oggettivo poste da fonti legislative e dalle competenti fonti di livello secondario o regolamentare, sicché non può residuare spazio (se non in ipotesi veramente eccezionali ed in limiti molto ristretti) per il riconoscimento di un autonomo potere giudiziale di bilanciamento dei valori costituzionali in possibile contrasto, e per ritenere ancora pienamente applicabile il principio - affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in un contesto normativo totalmente diverso, caratterizzato dalla mancanza di disciplina - che riconosceva al giudice un potere discrezionale di bilanciamento. Già da tempo, del resto, si era evidenziato che le gravi criticità emerse subito dopo l’entrata in vigore del “codice Vassalli” e che avevano determinato e giustificato tale potere di bilanciamento attribuito al giudice erano state via via superate negli anni successivi. L’elemento decisivo è comunque rappresentato dall’intervento legislativo costituito dalla L. n. 83 del 2000, e dalla ormai piena operatività del sistema normativo da questa delineato con la creazione delle fonti secondarie competenti (codici di autoregolamentazione dichiarati idonei dalla Commissione di garanzia e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale ovvero regolamentazioni provvisorie). In questo sistema il contemperamento tra l’astensione collettiva dei lavoratori autonomi, professionisti, piccoli imprenditori ed il godimento dei diritti costituzionalmente tutelati degli utenti dei servizi pubblici essenziali è ormai disciplinato - come per il diritto di sciopero - dalla legge, attraverso l’individuazione delle prestazioni “indispensabili” (perché idonee ad assicurare l’effettività del godimento dei diritti “nel loro contenuto essenziale”) che devono essere comunque garantite in ogni caso di conflitto collettivo. Tale individuazione è rimessa dalla legge alla contrattazione collettiva quanto allo sciopero e ai codici di autoregolamentazione quanto all’astensione dei lavoratori autonomi, e - solo ove questi manchino o siano ritenuti inidonei dalla Commissione di garanzia - alla regolamentazione provvisoria emanata dalla Commissione stessa. Dunque, nel sistema attuale - strutturato proprio seguendo le indicazioni della sentenza costituzionale n. 171 del 1996 - le situazioni che richiedono un bilanciamento tra i confliggenti diritti costituzionali sono state in via generale previste dalle norme legislative e secondarie competenti in materia, le quali hanno già provveduto al bilanciamento. Il che appare appunto conforme alla suddetta sentenza costituzionale, che aveva auspicato l’intervento del legislatore anche per l’esigenza che in una materia così delicata, come le agitazioni sindacali di lavoratori non dipendenti nei servizi pubblici essenziali, le interferenze ed i conflitti tra i contrapposti valori costituzionali in gioco siano regolati “a monte” da norme certe, generali ed astratte e non rimesse a mutevoli valutazioni discrezionali in relazione ai singoli casi concreti. Così, ad esempio, il bilanciamento con l’esigenza che il servizio essenziale giustizia non resti paralizzato e con le esigenze organizzative, logistiche e di buon andamento della amministrazione giudiziaria, è effettuato innanzitutto dall’art. 2 del codice, il quale dispone che la proclamazione dell’astensione, “con l’indicazione della specifica motivazione e della sua durata”, deve essere comunicata almeno dieci giorni prima agli uffici giudiziari interessati, al Ministro, alla Commissione di Garanzia e al Consiglio Nazionale forense; che va 948 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza fatta anche comunicazione al pubblico “con modalità tali da determinare il minimo disagio per i cittadini” e da rendere nota l’iniziativa il più tempestivamente possibile; che fra proclamazione ed astensione non possono intercorrere più di sessanta giorni; che ciascuna proclamazione deve riguardare un unico periodo di astensione; che l’astensione non può superare otto giorni consecutivi non festivi; che in ogni mese solare non può comunque essere superata la durata di otto giorni; che in ogni caso fra due astensioni successive deve intercorrere un intervallo di almeno quindici giorni. Queste regole possono essere derogate solo nel caso in cui l’astensione sia proclamata “in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori” (art. 2, comma 7, della legge e art. 2, comma 3, del codice). Il bilanciamento con le esigenze organizzative e logistiche è poi effettuato anche dall’art. 3, comma 1, del codice, il quale prevede che la mancata comparizione dell’avvocato all’udienza, o all’atto di indagine, “o a qualsiasi altro atto o adempimento per il quale sia prevista la sua presenza, ancorché non obbligatoria”, affinché sia considerata in adesione all’astensione regolarmente proclamata ed effettuata, e dunque considerata legittimo impedimento, deve essere alternativamente: a) dichiarata personalmente, o tramite sostituto, all’inizio dell’udienza o dell’atto di indagine preliminare; ovvero b) comunicata con atto scritto trasmesso o depositato alla cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero, oltreché agli altri avvocati costituiti, almeno due giorni prima della data stabilita. Il medesimo art. 3 provvede anche al bilanciamento con il diritto di difesa e di azione e con i contrapposti interessi delle altre parti processuali, disponendo, al comma 2, che la dichiarazione di astensione regolarmente manifestata costituisce legittimo impedimento anche qualora avvocati del medesimo procedimento non abbiano aderito all’astensione stessa, e che tale disposizione si applica a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi i difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile; ed, al comma 3, che, nel caso in cui sia possibile la separazione o lo stralcio per le parti assistite da difensore che non aderisce all’astensione, questi, conformemente alle regole deontologiche forensi, deve farsi carico di avvisare gli altri colleghi interessati all’udienza o all’atto di indagine preliminare quanto prima, e comunque almeno due giorni prima della data stabilita, ed è tenuto a non compiere atti pregiudizievoli per le altre parti in causa. Il bilanciamento con il fondamentale diritto di libertà di indagati ed imputati, nonché con le esigenze di urgenza, di celerità e di effettività (e ragionevole durata) del processo, è operato dall’art. 4 del codice che, come già ricordato, prevede, alla lettera a), che l’astensione non è consentita in relazione agli atti di perquisizione e sequestro; alle udienze di convalida dell’arresto e del fermo; a quelle afferenti misure cautelari; agli interrogatori di garanzia di cui all’art. 294 c.p.p.; all’incidente probatorio ad eccezione dei casi in cui non si verta in ipotesi di urgenza, come ad esempio di accertamento peritale complesso; al giudizio direttissimo; al compimento degli atti urgenti di cui all’art. 467 c.p.p. (specie con riferimento alle prove non rinviabili); e, alla lettera b), che l’astensione è esclusa Rassegna Forense - 3-4/2014 949 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati “nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420 ter c.p.p., comma 5, che si proceda malgrado l’astensione del difensore. In tal caso il difensore di fiducia o d’ufficio, non può legittimamente astenersi ed ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale”. L’interesse fondamentale dello Stato di evitare la prescrizione dei reati (che aveva determinato in passato la gran parte dei bilanciamenti ad opera del giudice), è stato ormai contemperato con il diritto all’astensione dall’art. 4, lett. b), del codice, secondo cui l’astensione non è consentita nei procedimenti e processi concernenti reati la cui prescrizione maturi durante il periodo di astensione, ovvero entro 360, 180 o 90 giorni se pendenti rispettivamente nella fase delle indagini preliminari, o in grado di merito o nel giudizio di legittimità. Del resto, come già ricordato, questa esigenza è attualmente ampiamente soddisfatta - a prescindere da tale disposizione - anche dal pacifico orientamento secondo cui il corso della prescrizione rimane sospeso per l’intero periodo compreso tra l’udienza rinviata per l’astensione e quella successiva. Inoltre, in caso di rinvio per astensione in un processo con imputati sottoposti a custodia cautelare, è anche pacifica l’operatività della sospensione dei relativi termini, ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 1, lett. b), (Sez. 5, n. 3920 del 22/09/1997, Gaglione, Rv. 208826; Sez. 1, n. 1036 del 14/02/2000, Mazzocca, Rv. 215376; nonché, da ultimo, Sez. 1, n. 12697 del 15/01/2008, Schiavone, Rv. 239357, secondo cui la sospensione va commisurata all’effettiva durata del rinvio disposto dal giudice; Sez. 5, n. 19646 del 19/04/2011, Ambrosino, Rv. 250178, secondo cui non è necessaria un’esplicita ordinanza dispositiva della sospensione dei termini custodiali). 10.6. Il legislatore, primario e secondario, ha pertanto già posto un sistema idoneo ad operare esaurientemente il bilanciamento del diritto all’astensione con gli altri diritti e valori costituzionali primari, nel tempo individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, quali, ad esempio, quelli del diritto di libertà, del diritto di difesa e di azione, del buon andamento della amministrazione della giustizia, dell’interesse dello Stato ad evitare la prescrizione dei reati, nonché quello generale delle “esigenze di giustizia” e della ragionevole durata del processo (chiaramente ritenuto dal legislatore non idoneo di per se solo, a giustificare una valutazione discrezionale del giudice e ad escludere o limitare l’esercizio del diritto costituzionale del difensore all’astensione). Il legislatore, quindi, seguendo le indicazioni della Corte costituzionale, ha voluto superare la fase transitoria - caratterizzata dalla mancanza di una adeguata disciplina normativa che aveva determinato a volte forti contrapposizioni ed aveva giustificato l’attribuzione al giudice del potere discrezionale di bilanciamento tra valori costituzionali - assegnando alle fonti competenti in materia la funzione di bilanciamento prima provvisoriamente svolta dal giudice. Queste considerazioni si basano anche sulla constatazione che il sistema di bilanciamento individuato dalla legge non è rimasto lettera morta e che, 950 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza specialmente dopo l’entrata in vigore del codice di autoregolamentazione del 2007 dichiarato idoneo, esso ha dato buoni risultati, grazie anche alla circostanza che si è generalmente avuta la presenza di due elementi fondamentali, e precisamente, da un lato, il senso di responsabilità e di realismo degli organismi di categoria dell’avvocatura e, dall’altro lato, l’attenta e continua attività di vigilanza e di intervento della Commissione di garanzia. Non si può infatti negare che le astensioni degli avvocati possono arrecare notevoli disagi non solo al funzionamento dell’apparato giudiziario, ma anche ad un grande numero di utenti e di soggetti terzi. I due suddetti elementi, pertanto, appaiono veramente indispensabili per il buon funzionamento del delicato sistema di bilanciamento dei contrapposti valori costituzionali, col conseguente superamento delle incerte e variabili soluzioni della fase precedente. Negli ultimi cinque anni, dal 2009 al 2013, la Commissione di garanzia ha svolto circa una novantina di interventi preventivi di “indicazione immediata” delle violazioni della normativa vigente, ai sensi della L. n. 146 del 1990, art. 13, comma 1, lett. d). Con questi provvedimenti la Commissione, non appena ricevuta la delibera di proclamazione dell’astensione delle udienze, ha indicato “immediatamente” le violazioni delle disposizioni della legge e del codice di autoregolamentazione relative alla fase precedente all’astensione (solitamente riguardanti il preavviso minimo, la durata massima e l’intervallo minimo tra successive proclamazioni); ed ha invitato l’organismo proclamante, a seconda dei casi, a revocare immediatamente l’astensione ovvero a differirla, riformulandola in modo conforme alla normativa. Circa una ventina di delibere hanno aperto il procedimento diretto a valutare il comportamento del Consiglio dell’Ordine (nella persona del Presidente), quale rappresentante degli avvocati, finalizzato all’eventuale irrogazione delle sanzioni pecuniarie di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 4. Solitamente questi procedimenti sono stati aperti dopo che le indicazioni immediate offerte con gli interventi preventivi sono rimaste, in tutto o in parte, prive di riscontro. In molti casi, a fronte di plurime agitazioni proclamate a breve distanza di tempo dal medesimo Consiglio dell’Ordine per le quali erano state emesse delibere di intervento urgente, la Commissione ha poi applicato i principi generali sulla connessione aprendo quindi un ridotto numero di procedimenti di valutazione del comportamento. Vi sono poi state, in quel periodo, sedici delibere di valutazione del comportamento dell’organismo di categoria che aveva proclamato l’astensione, le quali, per la larghissima parte, hanno “valutato negativamente” il comportamento e quindi hanno irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi della L. n. 146, art. 4, comma 4, da adottare poi con ordinanzaingiunzione emessa dalla competente Direzione territoriale del lavoro. Solo in due casi è stata disposta l’archiviazione del procedimento, ed in un altro caso si sono ritenuti insussistenti i motivi per giungere ad una valutazione negativa. Tra le violazioni più spesso sanzionate vi sono state il mancato rispetto degli obblighi di preavviso e di durata massima. Il punto di maggiore criticità è dato dal fatto che queste violazioni vengono frequentemente giustificate Rassegna Forense - 3-4/2014 951 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati dagli organismi che proclamano l’astensione con il richiamo alla L. n. 146 del 1990, art. 2, comma 7, il quale prevede che le disposizioni in tema di preavviso e di durata massima “non si applicano nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”. L’art. 2, comma 3, del codice di autoregolamentazione ribadisce che le norme in tema di preavviso e di durata possono non essere rispettate nei soli casi in cui l’astensione è proclamata ai sensi della L. n. 146, citato art. 2, comma 7, (la disposizione, quindi, è più restrittiva del previgente art. 2, comma 3, della regolamentazione provvisoria, il quale parlava di proclamazione “in difesa dell’ordine costituzionale ovvero per gravi attentati ai diritti fondamentali dei cittadini e alle garanzie essenziali del processo”). Questa disposizione è stata a volte erroneamente interpretata in modo eccessivamente esteso da alcuni organismi locali. Nelle delibere di apertura del procedimento di valutazione del comportamento, fra le motivazioni alla base dell’astensione, possono leggersi, ad esempio, quelle dell’aggravarsi della situazione organizzativa del tribunale; o di gravi carenze nell’impianto elettrico e di prevenzione degli incendi; o della mancanza o insufficiente funzionamento dell’impianto di climatizzazione; o del decesso di un avvocato per malore cardiaco in mancanza di un presidio medico presso il tribunale; o delle precarie condizioni di stabilità dell’edificio o della mancanza dei canoni di salubrità; o della carenza di organico del personale e dei magistrati e della proposta del Governo di riforma delle sedi giudiziarie. Queste motivazioni addotte per giustificare il non rispetto delle norme sul preavviso e la durata massima sono state però fino ad ora tutte giustamente censurate e sanzionate dalla Commissione di garanzia. Nelle delibere di valutazione negativa è stato ripetutamente affermato che la deroga concerne i soli scioperi proclamati “allorché siano minacciati i valori fondanti del nostro sistema di governo democratico e di libertà individuali e collettive”, situazione non configurabile, ad esempio, quando l’astensione intenda denunciare l’incostituzionalità e il conseguente “grave pregiudizio per i diritti fondamentali dei cittadini” connessi a progetti di modifica legislativa delle circoscrizioni giudiziarie, potendo tali doglianze essere fatte valere con gli ordinari rimedi giurisdizionali. Analoghe considerazioni possono valere per l’ipotesi di agitazioni (in genere locali) di protesta contro specifici provvedimenti dell’autorità giudiziaria, contro i quali sono esperibili i normali rimedi giurisdizionali. Allo stesso modo, si è affermato che la deroga riguarda il caso “di effettiva verificazione di gravi eventi lesivi di danno, che mettano fisicamente a repentaglio la sicurezza dei lavoratori”, sicché la deroga non si estende “alle situazioni di fatto antecedenti a un evento di danno, nemmeno quando queste abbiano determinato la generica messa in pericolo della incolumità e della sicurezza dei lavoratori”, situazioni di fatto che non sono sfornite di tutela, o alla situazione di inadeguatezza della sede del tribunale che si protragga da anni e non può quindi considerarsi “evento” o “accadimento”, precisando però che la deroga è invece estensibile, oltre agli eventi di danno, a quelli di pericolo “grave, attuale e non altrimenti evitabile”, idonei ad integrare un vero e proprio “stato di necessità”, con conseguente “inevitabilità” dell’azione di astensione. 952 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza La Commissione ha altresì esattamente messo in rilievo in diverse delibere che le esimenti di cui alla L. n. 146 del 1990, art. 2, comma 7, “costituiscono deroghe tassative alle regole ordinarie che disciplinano le astensioni dal lavoro e, come tali, sono soggette a una stretta interpretazione e non possono essere derogate da atti di livello inferiore, quali i codici di autodisciplina o le regolamentazioni provvisorie” (e difatti nel vigente codice di autoregolamentazione non è stata più riprodotta la deroga prevista nella previgente regolamentazione provvisoria). In questi casi, e in particolare quando vi sia stato l’intervento preventivo di “indicazione immediata” da parte della Commissione, non può ritenersi che siano state rispettate le condizioni per una regolare e valida proclamazione dell’astensione e, di conseguenza, che sia sorto il diritto costituzionale dell’avvocato di astenersi. L’art. 3, comma 1, del codice di autoregolamentazione infatti dispone che, affinché la mancata comparizione dell’avvocato possa essere considerata legittimo impedimento, deve, tra l’altro, consistere in una “adesione all’astensione regolarmente proclamata ed effettuata”. Non essendosi in presenza di un diritto costituzionale per assenza dei suoi presupposti, non vi è alcuna necessità di bilanciamento con altri diritti costituzionali ed il giudice dovrà considerare ingiustificata la mancata presenza, salve le sanzioni di competenza della Commissione. Nemmeno dovrebbero esservi incertezze e difformità interpretative sulla sussistenza delle condizioni che giustifichino una deroga perché la Commissione di garanzia, almeno fino ad oggi, è sempre intervenuta con urgenza (di solito lo stesso giorno della proclamazione o in quello successivo) emanando il provvedimento (comunicato a tutti gli uffici giudiziari interessati) con la “indicazione immediata” delle violazioni alle norme sul preavviso e sulla durata, con invito a revocare immediatamente l’astensione o a riformularla. 10.7. Alla luce dell’attuale sistema normativo, dunque, appare difficile che possano residuare diritti o valori costituzionali diversi ed ulteriori rispetto a quelli considerati dalla legge o dal codice di autoregolamentazione, tali da poter ancora giustificare l’esercizio di un potere discrezionale del giudice volto a limitare il diritto costituzionale di libertà del difensore di astenersi. D’altra parte, se si ritiene che la presenza di uno dei suddetti valori costituzionali possa continuare a giustificare un bilanciamento giudiziale per rigettare una richiesta di rinvio nonostante la regolamentazione attuata dalla fonte secondaria competente, dovrebbe coerentemente ammettersi che il bilanciamento possa anche portare ad accogliere l’istanza di rinvio in contrasto con una norma del codice (ad esempio, in un caso di prossima prescrizione, considerando ormai non più compromesso l’interesse dello Stato), così determinandosi in pratica il ritorno ad una situazione di incertezza e di variabilità delle soluzioni concrete che il legislatore del 2000, seguendo l’indicazione della Corte costituzionale, ha sicuramente voluto superare. Di conseguenza, deve confermarsi il principio già enunciato dalle più recenti decisioni dianzi ricordate, secondo cui il difensore ha un diritto costituzionalmente garantito all’astensione, mentre il giudice ha il compito di accertare che siano rispettati i limiti, le prescrizioni e le modalità fissati dalla legge Rassegna Forense - 3-4/2014 953 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati n. 146 del 1990 e dal codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo dalla Commissione e pubblicato sulla G.U. (o, in mancanza, dalla regolamentazione provvisoria), ed allorché tale accertamento abbia esito positivo deve accogliere la richiesta di differimento formulata dal difensore. Ciò peraltro non significa che al giudice sia totalmente preclusa qualsiasi valutazione. Il giudice, infatti, deve comunque accertare che l’astensione sia stata regolarmente proclamata e che la dichiarazione del difensore di adesione all’astensione e la sua richiesta di rinvio siano conformi alle suddette disposizioni della L. n. 146 del 1990, e del codice di autoregolamentazione. Inoltre, se è vero che il sistema delle legge n. 146 del 1990 e dei codici di autoregolamentazione non prevede espressamente un autonomo potere di bilanciamento in capo al giudice nel singolo caso, è anche vero che il giudice ovviamente conserva, come in qualsiasi altra ipotesi, il compito di dare alle suddette disposizioni normative la corretta interpretazione, anche mediante una esegesi sistematica o adeguatrice, facendo appunto in modo che il risultato della interpretazione sia il più possibile conforme ai principi e valori costituzionali di cui si sta discutendo. In altre parole, questi principi costituzionali potrebbero essere utilizzati per bilanciare i diversi interessi in modo indiretto, dando alle disposizioni del codice una interpretazione più conforme ai principi stessi, sempre però nella misura in cui tale interpretazione adeguatrice non si ponga in contrasto con lettera della disposizione o con la ratio della soluzione normativa. È questa, ad esempio, la via seguita dalla ricordata sentenza della Sez. 6, n. 39871 del 12/07/2013, Notarianni, che ha interpretato la locuzione “misure cautelari” contenuta nell’art. 4, lett. a), del codice nel senso che essa comprende anche le misure cautelari reali. Certo, in questa sede non potrebbe nemmeno a priori escludersi - in via ipotetica - che si possano presentare situazioni in cui riemerga il potere di bilanciamento in capo al giudice, come nell’ipotesi in cui, per una qualche ragione, venisse meno la vigenza di codici di autoregolamentazione e di regolamentazioni provvisorie, e si ripresentasse la situazione di carenza normativa nella quale era intervenuta la sentenza costituzionale n. 171 del 1996. E forse nemmeno potrebbe escludersi che - sempre ipoteticamente - si verifichino ipotesi eccezionali in cui emergano valori costituzionali che non possano, nemmeno indirettamente, farsi rientrare tra quelli già presi in considerazione dalla normativa primaria e secondaria e che potrebbero essere irrimediabilmente pregiudicati dall’esercizio del diritto di astensione. In questi casi, potrebbe pensarsi che, in riferimento a tali ulteriori valori, si riproponga una situazione di mancanza e inadeguatezza normativa considerata dalla suddetta sentenza costituzionale e che, in passato, aveva giustificato l’attribuzione al giudice del potere di bilanciamento. Dovrebbe comunque trattarsi di valori costituzionali che non siano stati tenuti presenti, neppure indirettamente, dalla fonte secondaria competente al fine di contemperamento, il che in concreto appare appunto molto difficile, anche perché i casi finora esaminati dalla giurisprudenza di legittimità appaiono tutti rientrare nell’ambito dei valori e principi costituzionali per i quali le fonti secondarie hanno già effettuato il bilanciamento o essere comunque risolvibili, in un modo o nell’altro, mediante l’interpretazione delle disposizioni di dette fonti. Dovrebbe comunque trattarsi 954 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza di veri e propri ulteriori diritti o valori costituzionali (non riconducibili a quelli per i quali è già normativamente avvenuto il bilanciamento), mentre non potrebbero ritenersi sufficienti, ad esempio, generiche ragioni di opportunità, o vaghe “esigenze di giustizia” non contemplate dal codice, o il fine di evitare “il grave disagio ad un teste chiamato a testimoniare da città lontana” o la lesione di “interessi logistici della giustizia” nell’ipotesi di udienza in trasferta per l’esame (che sia ripetibile) di un teste. In queste ipotesi mancherebbe un vero e proprio valore costituzionale da far prevalere sul diritto costituzionale all’astensione, e comunque i casi in cui l’astensione non è consentita per la necessità di assumere un atto o una prova urgenti sono già previsti dall’art. 4 del codice che richiama l’art. 467 c.p.p., che a sua volta richiama i casi previsti dall’art. 392. Non potrebbe quindi comunque condividersi la tesi dell’ordinanza di rimessione che sembra ritenere rilevanti non veri e propri valori costituzionali ma addirittura semplici disagi o difficoltà del servizio giudiziario o dei soggetti interessati. Del resto è normale che uno sciopero o una astensione collettiva che interessi servizi pubblici essenziali possa creare disagi agli utenti ed intralci all’organizzazione, ma ciò non sarebbe sufficiente ad escludere o limitare l’esercizio del diritto costituzionale che si svolga nel rispetto delle norme di diritto oggettivo. 11. In conclusione, vanno affermati i seguenti principi di diritto. “Il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, con deliberazione del 13 dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 3 del 4 gennaio 2008 (così come la previgente Regolamentazione provvisoria dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria, adottata dalla Commissione di garanzia con deliberazione del 4 luglio 2002, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 23 luglio 2002), costituisce fonte di diritto oggettivo contenente norme aventi forza e valore di normativa secondaria o regolamentare, vincolanti erga omnes, ed alle quali anche il giudice è soggetto in forza dell’art. 101 Cost., comma 2”. “Il bilanciamento tra il diritto costituzionale dell’avvocato che aderisce all’astensione dall’attività giudiziaria e i contrapposti diritti e valori costituzionali dello Stato e dei soggetti interessati al servizio giudiziario, è stato realizzato, conformemente alle indicazioni della sentenza costituzionale n. 171 del 1996, in via generale dal legislatore primario con la L. n. 146 del 1990 (come modificata e integrata dalla L. n. 83 del 2000) e dalle suddette fonti secondarie alle quali è stata dalla legge attribuita la competenza in materia, mentre al giudice spetta normalmente il compito di accertare se l’adesione all’astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate dalle competenti disposizioni primarie e secondarie, previa loro corretta interpretazione”. 12. In questo processo, il difensore aveva comunicato la sua adesione all’astensione collettiva regolarmente proclamata chiedendo il rinvio dell’udienza del 5 luglio 2007. Il Tribunale di Ferrara rigettò l’istanza di rinvio per la ragione che la teste del P.M. aveva affrontato un viaggio da Bari per essere presente in udienza e che “l’assunzione della testimonianza appariva improcrastinabile ai fini di giustizia, non potendosi costringere la teste a ri- Rassegna Forense - 3-4/2014 955 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Astensione dalle udienze degli avvocati comparire in altra udienza neppure coattivamente, in quanto una tale misura apparirebbe verosimilmente vessatoria e contraria ai fondamentali diritti delle parti avendo la teste dimostrato una disponibilità alle esigenze della giustizia che non possono peraltro essere portate oltre una soglia minima di ragionevolezza”. La Corte di appello, a sua volta, ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di primo grado sia perché l’art. 4 del codice di autoregolamentazione non era vincolante per il giudice ma solo per l’avvocatura, sia perché sul diritto di astensione dovevano prevalere “le esigenze di giustizia, rappresentate dalla necessità di procedere all’audizione di una teste che aveva affrontato un lungo viaggio da Bari per essere sentita in dibattimento” e che, se il processo fosse stato rinviato, avrebbe dovuto affrontare altri due lunghi viaggi. Va innanzitutto ricordato quanto già dianzi osservato, e cioè che, in relazione all’epoca in cui è avvenuta la dichiarazione di astensione, non trovava applicazione il codice di autoregolamentazione approvato dalla Commissione il 13 dicembre 2007 e pubblicato nella G.U. del 4 gennaio 2008, bensì la regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione di garanzia il 4 luglio 2002 e pubblicata nella G.U. del 23 luglio 2002. Ciò però non produce in pratica conseguenze sulla presente decisione, perché, come già rilevato, anche la regolamentazione provvisoria è una fonte secondaria di diritto oggettivo contenente norme efficaci erga omnes e vincolanti per il giudice. La disciplina posta dalla regolamentazione provvisoria, almeno per gli aspetti rilevanti in questo processo, era poi identica a quella del successivo codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo. In particolare, era identico il testo dell’art. 4, lett. a), nella parte in cui esclude il diritto di astenersi nel caso di “compimento degli atti urgenti di cui all’art. 467 c.p.p.”. Ora, l’art. 467 prevede che il presidente, a richiesta di parte, dispone l’assunzione delle prove non rinviabili nei casi previsti dall’art. 392 c.p.p. Quest’ultimo, per quanto concerne in particolare la raccolta di deposizioni testimoniali nelle ipotesi che possono interessare il presente giudizio, prevede “l’assunzione di una testimonianza di una persona, quando vi è fondato motivo di ritenere che la stessa non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento”. Nella specie, dalle stesse sentenze di merito risulta che non sussistevano le condizioni per escludere il diritto del difensore all’astensione e disattendere la richiesta di rinvio, dal momento che non è stato accertato (né motivato) che la teste non avrebbe potuto più essere esaminata “per infermità o altro grave impedimento”, ma si è solo ritenuto di dover evitare alla stessa il “grave disagio” di ritornare da Bari a Ferrara, grave disagio che sicuramente non integra una situazione di “impedimento”, e tanto meno di “grave impedimento”. La statuizione del Tribunale (confermata dalla Corte di appello) di rigettare la richiesta di rinvio è quindi illegittima per violazione di legge, e precisamente dell’art. 4, comma 1, lett. a), della regolamentazione provvisoria pubblicata nella G.U. del 23 luglio 2002 e della L. n. 146 del 1990, art. 2 bis, e, conseguentemente, per lesione del diritto del difensore di astenersi e del diritto di difesa ed al contraddittorio degli imputati. Non essendo stato consentito al difensore di fiducia di partecipare all’udienza di audizione della teste e di con- 956 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza trointerrogarla, nonostante la sua legittima richiesta di rinvio (attuata in ottemperanza alle prescrizioni delle norme speciali regolatrici della materia), si è determinata una nullità assoluta, riconducibile all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), e all’art. 179 c.p.p., rilevabile anche di ufficio in ogni grado e stato del procedimento. Va dunque accolto il secondo motivo, restando assorbiti gli altri motivi. Di conseguenza vanno annullate senza rinvio la sentenza impugnata nonché quella emessa il 17 aprile 2008 dal Tribunale di Ferrara e va disposta la trasmissione degli atti al predetto Tribunale di Ferrara per il giudizio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e quella del Tribunale di Ferrara in data 17 aprile 2008 e dispone trasmettersi gli atti al predetto Tribunale per il giudizio. Così deciso in Roma, il 14 marzo 2014. Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 957 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Esercizio abusivo di una professione 287. Sull’esercizio abusivo di una professione. Cass. pen., sez. V, sentenza 2 ottobre 2014, n. 50345 - Pres. MARASCA - Rel. DEMARCHI ALBENGO Integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta dell’imputato, il quale, pur avendo conseguito l’abilitazione statale, aveva provveduto all’autenticazione della sottoscrizione del mandato difensivo prima di aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale. FATTO 1. G.S. è stata condannata alla pena di mesi sei di reclusione dal tribunale di Monza, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto ritenuta responsabile dei seguenti reati: a) dell’art. 348 c.p., per aver abusivamente esercitato la professione di avvocato; b) del medesimo articolo per aver assunto mandato professionale ad assistere F.A.; c) dell’art. 476 per aver formato un falso decreto di archiviazione; d) dell’art. 640, perché, con artifici e raggiri consistiti nel presentarsi quale avvocato a F.A., si procurava l’ingiusto profitto rappresentato dal corrispettivo da costui versato in relazione all’attività professionale asseritamente prestata; e) del reato di cui all’articolo 485 perché falsificava la firma di F.A. in calce all’atto di nomina di difensore di fiducia a lei conferito. 2. La corte d’appello di Milano dichiarava non doversi procedere in ordine ai capi a) ed e) di cui sopra perché estinti per intervenuta prescrizione. Confermava nel resto la sentenza di condanna, rideterminando la pena in mesi quattro di reclusione (in aumento di quella inflitta con sentenza del gip del tribunale di Monza del 25 settembre 2007). 3. Contro la predetta sentenza propone ricorso per cassazione l’imputata per i seguenti motivi: 1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 348 c.p., art. 110 c.p.p., e art. 39 disp. att. c.p.p.; sotto tale profilo-: sostiene che l’autenticazione del mandato difensivo non costituisca atto tipico della professione forense, se ad esso non segue lo svolgimento di attività processuale. In subordine, ritiene che la fattispecie sia assorbita, quale elemento necessario (l’artifizio), nel reato di truffa. 2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 476 e 482 c.p., nonché artt. 516 e 522 c.p.p.; sostiene la ricorrente che il reato di cui all’art. 476 sia reato proprio e che, nel caso di specie, proprio per il fatto di non essere titolare della funzione forense, il fatto dovrebbe essere qualificato come falsità materiale commessa da privato (art. 482 c.p.). In subordine, sostiene la incapacità del falso di trarre in inganno soggetti estranei 958 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza all’ordinamento giudiziario, essendo l’atto diretto a persona “addetta all’ordinamento”. 3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’articolo 640 del codice penale e 192 c.p.p.; sostiene la ricorrente che non vi sia stato danno per il F., in quanto a lui è stato consegnato l’importo complessivo di Euro 5.000,00 e tali somme non potevano non essere giustificate se non proprio in ragione delle attività legittime svolte nel suo interesse dell’imputato. 4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 89 c.p., per omessa concessione dell’invocata attenuante dell’infermità mentale. DIRITTO 1. Il ricorso è parzialmente fondato con riferimento al secondo motivo di ricorso. Il primo motivo è destituito di fondamento; invero, integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita l’abilitazione statale, provveda all’autenticazione della sottoscrizione del mandato difensivo prima di aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale (Sez. 6, n. 27440 del 19/01/2011, Sgambati, Rv. 250531); poco importa che nel caso trattato dalla sentenza richiamata l’imputato avesse poi svolto attività giudiziaria, dal momento che la predetta pronuncia non aveva collegato la responsabilità al successivo uso del mandato, ma all’atto in sé. Per comprenderlo è sufficiente riportare un passo della motivazione, che così recita: «La sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e dà conto, con motivazione adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene. È indubbio che l’autenticazione della sottoscrizione del mandato difensivo, così deve essere qualificato l’atto che viene qui in rilievo, è atto tipico della professione forense e, in quanto tale, riservato a chi legittimamente tale professione può esercitare (art. 39 disp. att. c.p.p.). L’art. 348 c.p. è norma penale in bianco, che presuppone l’esistenza di norme giuridiche diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali prescrivano una speciale abilitazione dello Stato ed impongano l’iscrizione in uno specifico albo. Ne consegue che è abusivo l’esercizio della professione di avvocato da parte di colui che, pur avendo conseguito l’abilitazione statale, non sia iscritto all’albo professionale, considerato che tale iscrizione è imposta da norma cogente quale condizione inderogabile per l’esercizio della professione (r.d.l. n. 1578 del 1933, art. 1). Lo Sgambati, nel momento in cui (24/3/2004) pose in essere l’atto tipico innanzi citato, non era ancora iscritto nell’albo professionale, iscrizione intervenuta solo il 2 aprile successivo, e non poteva, quindi, assumere il titolo di avvocato né esercitare le relative funzioni. La condotta posta in essere dall’imputato, pur nella sua oggettiva marginalità, della quale il giudice di merito ha tenuto conto nel determinare il trattamento sanzionatorio, integra il reato contestato». 2. D’altronde, l’esercizio abusivo della professione legale, ancorché riferito allo svolgimento dell’attività riservata al professionista iscritto nell’albo degli avvocati, non implica necessariamente la spendita al cospetto del giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta, sicché il reato si perfeziona per il solo fatto che l’agente curi pratiche legali dei clienti o predi- Rassegna Forense - 3-4/2014 959 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Esercizio abusivo di una professione sponga ricorsi anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato (Sez. 5, Sentenza n. 646 del 06/11/2013, Rv. 257955). 3. Il secondo motivo di ricorso, invece, merita accoglimento; la motivazione della corte d’appello sul punto è oscura e non appagante; in ogni caso la sentenza conferma la condanna per il reato di cui all’art. 476, che presuppone la qualifica di pubblico ufficiale del suo autore. Nel caso di specie, l’imputata, non avendo la qualifica millantata, difettava di un presupposto fondamentale del reato. Il fatto, dunque, deve essere riqualificato come falsità materiale commessa dal privato ai sensi dell’art. 482 c.p.; non vi è violazione del principio di correlazione, atteso che la contestazione in fatto era specifica, né vi è violazione dei diritti della difesa, atteso che la riqualificazione giuridica in tal senso è stata sollecitata proprio dalla parte. Consegue, all’accoglimento del ricorso, l’annullamento della sentenza in parte qua ed il rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, che dovrà evidentemente subire una diminuzione, attesa la minore pena edittale prevista per tale reato. 4. Non può essere accolta, invece, la censura relativa all’assorbimento del reato in quello di cui all’art. 640, in quanto gli artifici utilizzati consistevano non tanto nell’assumere il mandato difensivo, quanto piuttosto nel presentarsi quale avvocato. 5. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato, atteso che per escludere il danno a carico della persona offesa non è sufficiente che questa abbia ricevuto alcune somme di denaro, dovendosi altresì provare che quanto ricevuto era non inferiore a quello che egli avrebbe potuto recuperare se la G. fosse stata effettivamente un avvocato ed avesse proceduto giudizialmente. D’altronde, la stessa corte d’appello, con valutazione di merito non sindacabile in cassazione, ha ritenuto sussistente un danno conseguente alla mancata difesa nei procedimenti penali. Infine, si deve osservare che il riferimento ai Euro 5.000 ricevuti dalla G. sia tutt’altro che certo, dal momento che in sentenza si afferma che l’assegno di Euro 2.500,00 era stato sottratto ad un terzo ed abusivamente riempito e quindi non vi è prova che sia stato regolarmente incassato dalla persona offesa, dovendosi anzi presumere il contrario. 6. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile in quanto diretto a censurare una valutazione di merito che i giudici di primo e secondo grado hanno condotto con motivazione più che sufficiente e priva di vizi logici evidenti. 7. Ne consegue che il ricorso deve essere accolto, limitatamente al reato di cui all’art. 476 c.p., da riqualificarsi ai sensi dell’art. 482 c.p., con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. 8. Considerato che la sentenza di condanna, nella parte di accertamento, della responsabilità, passa in giudicato, dovendosi solo più quantificare la sanzione, l’eventuale decorso della prescrizione in data successiva alla presente sentenza non assumerà più alcun rilievo. 960 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza P.Q.M. riqualificato il fatto di cui al capo B del procedimento numero 10.633-07 nel reato di cui all’art. 482 c.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Rigetta nel resto. Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2014. Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 961 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Applicabilità della normativa sulla liquidazione degli onorari e diritti dell’avvocato 288. Sull’applicabilità della normativa sulla liquidazione degli onorari e diritti dell’avvocato anche alle prestazioni stragiudiziali, anche in materia penale. Cass. civ., sez. II, sentenza 16 ottobre 2014, n. 21954 - Pres. BURSESE - Rel. SAN GIORGIO La normativa sulla liquidazione degli onorari e diritti dell’avvocato, anche se prevista per le prestazioni giudiziali civili, si applica anche per le prestazioni stragiudiziali, anche penali, a condizione che ci sia strumentalità o complementarietà rispetto all’attività processuale. Nel caso di specie, si trattava di un professionista che, curando gli interessi della parte in un giudizio di separazione, aveva posto in essere non solo procedure di natura civile, come l’esecuzione/rilascio di un immobile, ma anche di natura penale, come la predisposizione di una querela. FATTO 1.- O.E.S. ricorre contro l’ordinanza, depositata il 23 giugno 2008, con la quale il Tribunale di Cagliari, su ricorso l. n. 794 del 1942, ex art. 28, dell’avv. C.M., che aveva chiesto la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti per l’attività professionale svolta in favore della stessa O. in una serie di procedure (ex art. 710 c.p.c., di esecuzione - rilascio di un immobile e pagamento dell’assegno di mantenimento -, di divorzio), nonché per la predisposizione di una querela, tutte volte ad ottenere la modifica e l’attuazione delle obbligazioni sorte in capo al coniuge Co.Lu. nell’ambito del procedimento di separazione personale, ritenuto che le notule fossero state redatte con l’osservanza della tariffa professionale, che i compensi richiesti rientrassero nei limiti di legge e che fossero proporzionati alla natura e complessità delle cause ed ai risultati conseguiti, liquidò in favore della professionista la somma complessiva di Euro 10610, 00 e la ulteriore somma di Euro 250,00 per la predisposizione della querela, oltre agli interessi legali dalla pronuncia della ordinanza fino al saldo, ponendo a carico della O. le spese del procedimento. 2. - Il ricorso si basa su due motivi. L’intimata non si è costituita nel giudizio. DIRITTO 1. - Con il primo motivo si deduce violazione degli artt. 149, 162, 164 e 291 c.p.c., l. n. 794 del 1942, art. 29, art. 24 Cost., in relazione all’art. 111 Cost., Sostiene la ricorrente che il Tribunale di Cagliari, stante la mancata costituzione della signora O. e la notifica del ricorso effettuata oltre il termine di comparizione indicato nel decreto di fissazione dell’udienza, avrebbe dovuto pronunciare la nullità del ricorso introduttivo per mancato rispetto del termine dilatorio di comparizione, con lesione del diritto di difesa, e disporne la rinno- 962 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza vazione, ai sensi degli artt. 162, 164 e 291 c.p.c. Il procedimento sarebbe, quindi, affetto da nullità. Ciò in quanto il plico contenente il ricorso dell’avv. C. l. n. 794 del 1942, ex art. 28, e il decreto di fissazione dell’udienza per il 6 marzo 2008, per la cui notifica il Presidente del Tribunale aveva fissato la data del 17 gennaio 2008, era stato ritirato dalla O. all’ufficio postale di (OMISSIS) in data 22 gennaio 2008, stante l’assenza della stessa dalla sua residenza il precedente 15 gennaio. La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie ratione temporis: «La notifica del ricorso l. n. 194 del 1942, ex art. 29, effettuata oltre il termine indicato nel decreto di fissazione udienza, determina la nullità del ricorso. La mancata pronuncia della nullità dell’atto introduttivo del giudizio determina la nullità dell’intero procedimento e dell’ordinanza adottata». 2. - La censura è infondata. Alla stregua della stessa ricostruzione della vicenda processuale de qua operata dalla ricorrente, dopo che il Presidente del Tribunale aveva fissato per la comparizione delle parti l’udienza del 6 marzo 2008, e per la notificazione del ricorso e del decreto di comparizione il termine del 17 gennaio 2008, la signora O. aveva ritirato la raccomandata, spedita il 12 gennaio 2008, presso l’ufficio postale di (OMISSIS), dove era stata depositata il 16 gennaio 2008, per essere stata assente la stessa dalla sua residenza il 15 gennaio. La O. non era comparsa né si era costituita in giudizio all’udienza del 6 marzo 2008, mentre l’avv. C. aveva depositato il ricorso notificato, chiedendo termine per il reperimento ed il deposito dell’avviso di ricevimento. La causa era stata, quindi, rinviata all’udienza del 3 aprile 2008. Tale rinvio avrebbe consentito alla O. di costituirsi nel giudizio, ciò che non avvenne. Pertanto nessuna lesione del diritto di difesa, né delle altre norme evocate nel ricorso, è stata consumata. 3. - Con il secondo motivo si lamenta violazione della l. n. 794 del 1942, artt. 28, 29 e 30, in relazione all’art. 111 Cost. Avrebbe errato il Tribunale di Cagliari nell’utilizzare la procedura camerale di cui alla l. n. 794 del 1942, artt. 29 e 30, per la liquidazione degli onorari e diritti di avvocato e procuratore in favore dell’avv. C. oltre che per le procedure giudiziali civili, anche per quelle in materia penale e per gli atti di precetto e procedure esecutive stragiudiziali in cui la professionista aveva assistito l’attuale ricorrente, in relazione alle quali la legge escluderebbe la predette procedura sommaria. La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: «Il procedimento l. 13 giugno 1942, n. 492, ex artt. 28, 29 e 30, è applicabile solo per la liquidazione di onorari di avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile e non è applicabile per la liquidazione di compensi per atti di precetto, per procedure esecutive e per prestazioni professionali in materia penale». 4. - La censura è immeritevole di accoglimento. Rassegna Forense - 3-4/2014 963 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Applicabilità della normativa sulla liquidazione degli onorari e diritti dell’avvocato Secondo l’orientamento di questa Corte, la procedura camerale prevista dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, artt. 29 e 30, per la liquidazione degli onorari e diritti di avvocato e procuratore, pur dettata solo per le prestazioni giudiziali civili, è ammessa anche per le prestazioni stragiudiziali, allorché esse siano in funzione strumentale o complementare all’attività propriamente processuale (v. Cass., sentt. n. 28718 del 2008, n. 13847 del 2007). Nella specie, risulta di tutta evidenza che le prestazioni professionali rese dall’avv. C. in favore della signora O. nelle procedure ulteriori rispetto a quelle strettamente civilistiche fossero preordinate allo svolgimento della principale attività processuale, come sottolineato dal Tribunale, che le aveva configurate come volte tutte ad ottenere la modifica e l’attuazione delle obbligazioni sorte in capo al coniuge della O., Luciano Co., nell’ambito del procedimento di separazione personale. Ne consegue la correttezza della liquidazione, operata dal Tribunale di Cagliari a favore della professionista, degli onorari e diritti per l’assistenza prestata alla attuale ricorrente in tutta la serie delle predette procedure. 5. - Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Non vi è luogo a provvedimenti sulle spese del presente giudizio, non avendo la parte intimata svolto alcuna attività difensiva. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 maggio 2014. Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2014. 964 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 289. Sul diritto al compenso da parte dell’avvocato. Cass. civ., sez. VI, ordinanza 27 ottobre 2014, n. 22737 - Pres. BIAN- Rel. SCALISI CHINI L’avvocato che impegna il proprio tempo e le proprie competenze professionali nell’esame di un atto giudiziario, anche in assenza di un successivo conferimento di incarico formale, ha diritto ad essere compensato secondo il tariffario forense (nella specie, alcuni incaricati di una società si erano recati presso lo studio del professionista e al fine di esaminare un atto di citazione per una causa già pendente dinanzi al Tribunale; non si era trattato di un mero colloquio informativo ma erano stati sottoposti all’attenzione dell’avvocato atti giudiziari ancora in possesso in copia dell’avvocato e prodotti in giudizio, al fine di ottenere un parere ed in vista di un futuro mandato professionale). FATTO Rilevato che il Consigliere designato, Dott. A. Scalisi, ha depositato ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., la seguente proposta di definizione del giudizio: Preso atto che la società F.I. srl proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo 752/08 emesso dal Giudice di Pace di Pisa con il quale veniva ingiunta alla società F.I. la somma di Euro 738,20 oltre interessi e spese per prestazioni professionali asseritamente fornite alla ricorrente. La società F.I. chiedeva la revoca del DI. in quanto contestava che all’avv. C.A. fosse mai stato conferito alcun mandato professionale né che mai la stessa avesse effettuato prestazioni professionali in favore della stessa. Il Giudice di Pace, con sentenza n. 2305/09 rigettava l’opposizione. Avverso tale sentenza proponeva appello la società F.I. srl lamentando essenzialmente l’erroneità e la contraddittorietà della motivazione per aver ritenuto come provato l’incarico professionale all’avvocato C. da parte del legale rappresentante della società F.I. Il Tribunale di Pisa con sentenza n. n. 863 del 2012, rigettava l’appello e confermava la sentenza impugnata. Secondo il Tribunale di Pisa la decisione del Giudice di Pace andava confermata posto che era stato evidenziato come alcuni incaricati della F.I. in data 5 luglio 2004 si recarono presso lo studio del legale C. al fine di far esaminare allo stesso un atto di citazione per una causa già pendente dinnanzi al Tribunale di Pisa. Successivamente seguiva una missiva da parte del legale alla F.I. srl con la quale l’avvocato C. invitava la società a prendere contatti con lo studio legale al fine di formalizzare l’incarico professionale. Per quanto, poi, non sia effettivamente seguito il conferimento formale dell’incarico non vi era dubbio che il professionista aveva impegnato il proprio tempo e le proprie competenze professionali. Rassegna Forense - 3-4/2014 965 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Diritto al compenso da parte dell’avvocato La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dalla società F.I. con ricorso affidato a due motivi. L’avv. C. in questa fase non ha svolto attività giudiziale. Considerato che: 1.- La società Immobiliare srl lamenta: a) Con il primo motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e dell’art. 360, n. 3, per vizio di ultra petizione su fatto controverso e decisivo. Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa non avrebbe tenuto presente che la stessa attrice aveva dichiarato di avere svolta solamente attività prodromica all’incarico chiedendo poi compenso per attività giudiziale che non si mai effettuata. b) Con il secondo motivo la violazione dell’art. 360, n. 5, per omesso esame circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Secondo la ricorrente il Tribunale di Pisa non avrebbe prestato alcuna attenzione alle diverse prospettazioni fatte dall’avv. C. omettendo un accurato esame delle diverse ricostruzioni della stessa, in particolare sul fatto controverso dell’affidamento dell’incarico dell’accettazione dello stesso e dell’attività che nel caso di avvenuta accettazione non risulta sia stata svolta dalla controparte. 1.1.- Entrambi i motivi, che vanno esaminati congiuntamente per l’innegabile connessione che esiste tra gli stessi, sono infondati e non solo perché si risolvono nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze istruttorie non proponibile nel giudizio di legittimità se, come nel caso in esame, la valutazione effettuata dal Giudice del merito non presenta vizi logici o giuridici, ma, anche perché il Tribunale non ha omesso di valutare tutti i dati e/o, comunque, i dati essenziali, acquisiti agli atti del giudizio. In particolare il Giudice di Pace prima e il Tribunale dopo hanno avuto modo di chiarire che in data 5 luglio 2004 incaricati della F.I. si recavano presso lo studio del legale C. al fine di fare esaminare un atto di citazione per una causa già pendete dinanzi al Tribunale di Pisa. E, di più, il Tribunale ha avuto modo di chiarire che non si trattò di un mero colloquio informativo ma vennero sottoposti all’attenzione del legale atti giudiziali ancora in possesso in copia dell’Avvocato C. e prodotti in giudizio, al fine di ottenere un parere ed in vista di un futuro mandato professionale. Emerge con chiarezza, dunque, la sussistenza di un rapporto professionale tra la società F.I. e il legale C. e il conferimento di un incarico, dalla società F.I. al legale C., avente ad oggetto un parere professionale in merito ad una causa già pendente presso il Tribunale di Pisa. Pertanto correttamente il Tribunale ha ritenuto che il professionista avendo impegnato il proprio tempo e le proprie competenze professionali andava compensato secondo il tariffario forense. In definitiva, si propone il rigetto del ricorso. Tale relazione veniva comunicata al PM ed ai difensori delle parti costituite. Il Collegio, condivide argomenti e proposte contenute nella relazione ex art. 380 bis c.p.c., alla quale non sono stati mossi rilievi critici. Evidenzia, altresì, che il ricorso difetta, comunque, di autosufficienza dato che il ricorren- 966 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza te, pur facendo riferimento ad una prova testimoniale ha omesso di indicare i capitoli di prova non ammessi funzionali alla dimostrazione della propria difesa. In definitiva, il ricorso va rigettato: Non occorre provvedere alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione dato che l’avv. C., regolarmente intimato, in questa fase non ha svolto attività giudiziale. Il Collegio, ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 settembre 2014. Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 967 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato 290. Sull’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato. Cass. civ., SS.UU., sentenza 25 novembre 2014, n. 25012 - Primo Pres. f.f. ROVELLI - Pres. sez. LUCCIOLI - Rel. GIUSTI L’art. 45 del Codice deontologico forense consente all’avvocato di pattuire con il cliente, purché in forma scritta, compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, alla condizione che i compensi siano proporzionati all’attività svolta (confermata la sanzione nei confronti di un avvocato che aveva sottoscritto un patto di quota lite a garanzia del pagamento dei corrispettivi professionali svolti, con il quale il cliente si obbligava, appena ottenuto il risarcimento, a corrispondergli il 30% di quanto incassato, atteso che la percentuale del compenso risultava sproporzionata rispetto al complessivo risarcimento ed in relazione ad una controversia dall’esito ben prevedibile e di non così rilevante difficoltà). FATTO 1. - L’avvocato S.C. è stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trento per violazione dell’art. 38, della legge professionale forense (approvata con il r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, nella l. 22 gennaio 1934, n. 36) e degli artt. 5, 6 e 45 del codice deontologico forense, perché, in data 27 settembre 2008, otteneva dal proprio assistito Sa.Zi., nato in (OMISSIS), la sottoscrizione di una scrittura privata denominata “patto di quota lite”, e successivamente tentava di farne valere il contenuto. In detta scrittura privata si legge che: il signor Sa.Zi. dichiara di non avere redditi e di stipulare per tale motivo il patto di quota lite a garanzia del pagamento dei corrispettivi professionali dell’avv. S.; l’avv. S. si impegna ad anticipare i costi delle cause per conto del signor Sa.Zi. con riserva di recuperarli appena ottenuto il risarcimento; l’avv. S. si impegna a svolgere l’attività di assistenza e di difesa del signor Sa.Zi. con professionialità e competenza, a non richiedere anticipazioni in denaro a titolo di spese, diritti ed onorari di causa e contributi, promuovendo ogni procedura penale, civile e amministrativa necessaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti dal signor Sa.Zi. nel sinistro stradale avvenuto in data (OMISSIS). Nella scrittura privata si prevede che il signor Sa.Zi., appena ottenuto il risarcimento anche parziale a titolo provvisionale, si obbliga, con l’avv. S. C., a corrispondergli il 30% di quanto incassato, oltre alla rifusione dei costi tutti anticipati (prima e dopo la sottoscrizione del patto). A tal fine, lo stesso Sa. conferisce all’avv. S. espressamente ed irrevocabilmente il potere di riscuotere le somme di denaro per suo conto, trattenendo quanto di sua spettanza a titolo di competenze, diritti ed onorari nella misura concordata del 30%; e il Sa. si impegna a non sollevare alcun tipo di eccezione al momento del pagamento. 968 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Nella scrittura privata si prevede infine che il documento viene redatto in unico originale e trattenuto dall’avv. S.; e che, in caso di revoca del mandato, il Sa. è obbligato al pagamento del 30% a titolo di penale. All’epoca di stipulazione della scrittura privata - precisa il capo di incolpazione - il Sa. viveva in Italia in condizioni di clandestinità, era privo di documenti identificativi, era invalido al 95% in conseguenza del sinistro stradale, era incarcerato per effetto di precedenti condanne penali e, pertanto, in condizioni psicofisiche gravemente menomate, con conseguenti obiettive difficoltà rispetto ad una compiuta e completa comprensione, verosimilmente anche sotto il profilo linguistico, del contenuto del documento sottopostogli ai fini della sottoscrizione. L’avvocato è stato quindi incolpato di violazione dei fondamentali doveri di fedeltà, probità, dignità e decoro, lealtà e correttezza per avere richiesto compensi sproporzionati rispetto all’attività svolta. La vicenda è stata portata all’attenzione del Consiglio dell’ordine dal legale fiduciario della Compagnia di assicurazioni che era tenuta al risarcimento verso il Sa.. La Compagnia aveva ricevuto dall’avvocato S. - al quale era stato nel frattempo revocato il mandato, essendo stato nominato in sua sostituzione altro difensore - una diffida a corrispondere direttamente a lui la somma di Euro 240.000, pari alla percentuale del 30% della somma di Euro 800.000 accordata quale provvisionale, in forza del ricordato patto di quota lite. 2. - Il Consiglio dell’ordine di Trento, con decisione in data 24 gennaio 2012, ha riconosciuto la responsabilità dell’incolpato e gli ha irrogato la sospensione dall’esercizio della professione per due mesi. Il Consiglio ha rilevato che, al momento della sottoscrizione del patto, non esisteva oggettivamente alcuna aleatorietà in ordine al punto della responsabilità (non essendovi margini di incertezza sulla colpa del conducente del motoveicolo assicurato sul quale viaggiava come trasportato il Sa.Zi.) ed alta quantificazione del danno, quantificazione che non sarebbe potuta scendere al di sotto dell’importo del massimale, pari ad Euro 1.500.000. Di qui il giudizio di manifesta sproporzione della percentuale pattuita del 30% e ciò, sempre a giudizio del Consiglio, anche tenendo conto di tutta l’attività stragiudiziale pregressa svolta dall’avvocato S. per la regolarizzazione della posizione del Sa. 3. - Il Consiglio nazionale forense, con sentenza in data 18 marzo 2014, in parziale accoglimento del ricorso ed a parziale modifica della decisione impugnata, ha applicato all’avvocato S. C. la meno grave sanzione disciplinare della censura. 3.1. - Il Consiglio nazionale forense ha condiviso l’affermazione di responsabilità disciplinare cui è pervenuto il Consiglio dell’ordine. Ricostruita l’evoluzione della disciplina in materia (dall’art. 2333 c.c., che vietava i patti di quota lite, alla l. 4 agosto 2006, n. 248, di conversione del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, che ha abrogato ogni divieto di compenso parametrato al raggiungimento degli obiettivi perseguiti), il CNF ricorda che, da ultimo, è intervenuta la l. 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), la quale, all’art. 13, da un lato ha reintrodotto il principio in base al quale «sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene Rassegna Forense - 3-4/2014 969 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato oggetto della prestazione o della ragione litigiosa», e dall’altro ha previsto la validità della pattuizione con cui si determini il compenso al difensore «a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione». Secondo il Consiglio nazionale forense, la percentuale può essere rapportata al valore dei beni o degli interessi litigiosi, ma non al risultato, in tal senso dovendo interpretarsi l’inciso "si prevede possa giovarsene", che evoca un rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo della prestazione professionale. Questa interpretazione - secondo il CNF - ha dalla sua, oltre che la conformità al dato letterale, anche la coerenza con la ratio del divieto, dal momento che accentua il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuendo la portata dell’eventuale commistione di interessi quale si avrebbe se il compenso fosse collegato, in tutto o in parte, all’esito della lite, con il rischio così della trasformazione del rapporto professionale da rapporto di scambio a rapporto associativo. Il patto di quota lite - precisa il CNF - non può tradursi in una illegittima ed illecita cessione della res litigiosa: interpretazione, questa, che, coerente con la ratio della normativa del 2006 e del codice deontologico, trova oggi una conferma, autentica e retrospettiva, nella citata l. n. 247 del 2012. Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il patto di quota lite integra un contratto aleatorio in quanto il compenso varia in funzione dei benefici ottenuti in conseguenza dell’esito favorevole della lite e il suo tratto caratterizzante è dato, appunto, dal rischio, perché il risultato da raggiungere non è certo nel quantum né, soprattutto, nell’an. Il nuovo testo dell’art. 45 del codice deontologico forense, conseguente alla disciplina introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, applicabile ratione temporis, sotto la rubrica «accordi sulla definizione del compenso», consente bensì all’avvocato e al patrocinatore di determinare il compenso parametrandolo ai risultati perseguiti, ma fermo il divieto di cui all’art. 1261 c.c., e fermo restando che, nell’interesse del cliente, tali compensi debbono essere comunque proporzionati all’attività svolta. Secondo il Consiglio nazionale forense, il rispetto della proporzionalità della pretesa costituisce canone deontologico che deve improntare la condotta dell’avvocato. Nemmeno con la più benevole prognosi ex ante può immaginarsi che, nel caso di specie, fosse proporzionato un compenso pari al 30% della res litigiosa, soprattutto in un giudizio dall’alea assai ridotta. L’eccessività sta nell’abnorme percentuale del compenso rispetto al complessivo risarcimento in relazione ad una controversia dall’esito ben prevedibile e di non così rilevante difficoltà. In punto di sanzione, il CNF, nell’applicare, in luogo della disposta sospensione, la minor grave sanzione della censura, ha fatto leva: sul fatto che «una indubbia attività l’avvocato S. aveva svolto anche e soprattutto per la regolarizzazione della presenza del cliente in Italia, pervenendo a risultati indubbiamente positivi per il Sa.Zi.»; sul tardivo «ravvedimento operoso» che vi è stato, attraverso la composizione stragiudiziale della questione; e sulla incensuratezza disciplinare dell’incolpato. 4. - Per la cassazione della sentenza del CNF l’avvocato S. ha proposto ricorso, con atto notificato il 5 maggio 2014, sulla base di un motivo. 970 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede. All’udienza di discussione il difensore del ricorrente ha depositato brevi osservazioni per iscritto sulle conclusioni del pubblico ministero. DIRITTO 1. - Con l’unico mezzo (violazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 12, comma 1, e art. 38, comma 1, convertito in legge, con modificazioni dalla l. 22 gennaio 1934, n. 36, e art. 45 del codice deontologico forense), il ricorrente osserva che, con il prescrivere che gli accordi sulla definizione del compenso siano proporzionati all’attività svolta, l’art. 45 del codice deontologico non ha individuato in astratto una quota oltre la quale il patto sarebbe da ritenere tout court eccessivo e la sua stipulazione illecita sotto l’aspetto disciplinare, ma ha invece optato per una valutazione in concreto dell’incongruità della quota in esito al confronto tra l’obiettivo raggiunto e l’attività svolta. Ad avviso dell’avvocato S., la proporzione ovvero la sproporzione del compenso, ai fini del giudizio sulla liceità o illiceità deontologica della condotta, va valutata necessariamente ex post e sarebbe arbitrario pretendere di accertarla, come ha ritenuto il CNF, ex ante, già al momento del conferimento dell’incarico. Il rapporto andrebbe instaurato «da un lato tra il valore economico dato dall’applicazione della quota pattuita al risultato ottenuto e dall’altro dall’attività profusa dal legale per giungere all’esito favorevole: soltanto dal raffronto di questi dati concreti sarebbe possibile esprimere il giudizio di valore (congruità/incongruità)». Valutare ex ante l’eccessività della quota mediante un giudizio di c.d. prognosi postuma significherebbe pretendere di preconizzare la complessità di una vertenza prima che essa abbia avuto inizio (o, quanto meno, si sia conclusa). Secondo il ricorrente, la natura aleatoria del patto di quota lite nulla avrebbe a che vedere con la questione centrale, cioè quella se la sproporzione della quota possa essere apprezzata ex ante. Il ricorrente censura la valutazione di abnormità della percentuale pattuita: il complessivo risarcimento, l’esito prevedibile del giudizio e la non così rilevante difficoltà dell’attività resasi necessaria sono dati di fatto che il CNF ha ricavato a posteriori alla luce d’un esito e di un’attività che altro difensore ha ottenuto e ha svolto. 2. - Il motivo è infondato. Il legislatore del 2006 (d.l. n. 223 del 2006, art. 2, convertito nella l. n. 248 del 2006), nel disporre l’abolizione del divieto previsto dall’art. 2233 c.c., comma 3, e nell’ammettere pattuizioni, purché redatte in forma scritta, di compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, ha previsto la necessità di adeguare le norme deontologiche alle nuove regole. L’art. 45 del codice deontologico forense - nel testo modificato con la delibera dell’organismo di autogoverno dell’avvocatura del 18 gennaio 2007, conseguente alla riforma legislativa del 2006 - consente all’avvocato di pattuire «con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi Rassegna Forense - 3-4/2014 971 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Illecito disciplinare commesso dall’avvocato che chiede un compenso sproporzionato perseguiti», alla condizione, tuttavia, «che i compensi siano proporzionati all’attività svolta». La possibilità di pattuire tariffe speculative si accompagna quindi all’introduzione di particolare cautele sul piano deontologico, tese a prevenire il rischio di abusi commessi a danno del cliente e a precludere la conclusione di accordi iniqui. La proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimangono l’essenza comportamentale richiesta all’avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a fui spettante. La norma dell’art. 45 del codice deontologico riproduce infatti la previsione contenuta nell’art. 43, punto II, dello stesso codice, che vieta all’avvocato di «richiedere compensi manifestamente sproporzionati all’attività svolta». L’aleatorietà dell’accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l’equità: se, cioè, la stima effettuata dalle parti era, all’epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio. A questo criterio si è attenuto il Consiglio nazionale forense, il quale - con congruo e motivato apprezzamento - ha rilevato la manifesta eccessività e l’iniquità del compenso, attesa l’“abnorme percentuale” dello stesso in rapporto al risarcimento in una controversia «dall’esito ben prevedibile e di non così rilevante difficoltà», non essendovi oggettivamente alcuna incertezza né in ordine al punto della responsabilità del danneggiante né in ordine alla quantificazione del danno (che non sarebbe potuto scendere al di sotto dell’importo del massimale assicurato). In questo contesto, correttamente il giudice disciplinare ha eseguito il controllo di proporzionalità del patto di quota lite, che precede il compimento dell’attività, includendo nel proprio ambito valutativo il rischio sostanziale e processuale connesso al risultato favorevole. A fronte di una decisione che in modo chiaro precisa le ragioni della manifesta irragionevolezza del patto, la censura finisce in realtà con il richiedere una nuova - non consentita in questa sede - valutazione dei fatti su cui riposa il congruo apprezzamento del giudice disciplinare. 3. - Il ricorso è rigettato. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è respinto, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della l. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di 972 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 novembre 2014. Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2014.30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 novembre 2014. Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2014. Rassegna Forense - 3-4/2014 973 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Irrilevanza disciplinare delle condotte antecedenti l’iscrizione all’albo 291. Sulla irrilevanza disciplinare delle condotte antecedenti l’iscrizione all’albo. Cass. civ., SS.UU., sentenza 1° dicembre 2014, n. 25369 - Primo Pres. f.f. SANTACROCE - Pres. sez. SALMÈ - Pres. sez. RORDORF - Rel. MAZZACANE L’esercizio del potere disciplinare nei confronti degli avvocati, ai sensi dell’art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, tutela il prestigio dell’ordine forense in presenza di comportamenti idonei a screditarne l’autorevolezza e la credibilità, tenuti dagli iscritti in violazione dei doveri professionali, sicché non hanno rilevanza disciplinare le condotte antecedenti l’iscrizione all’albo, a prescindere dalla loro rilevanza penale e dalla capacità di determinare “strepitus fori” nel periodo d’iscrizione. FATTO La dottoressa C.P., iscritta all’albo dei praticanti avvocati di Pescara, ricorreva avverso la delibera del COA di Pescara del 14-7-2011 con la quale le era stata inflitta la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione forense per mesi dodici per avere riportato una condanna definitiva ad anni tre e mesi dei di reclusione per ti reato di estorsione, e quindi per aver avuto una condotta ritenuta contraria ai doveri di probità, dignità e decoro cui sono tenuti sia gli avvocati sia i praticanti anche nella sfera privata. Il COA di Pescara chiedeva il rigetto del ricorso in quanto infondato. Il CNF con sentenza del 26-10-2013 ha rigettato il ricorso. Il CNF in particolare, premesso che l’azione disciplinare nei confronti degli avvocati per fatti oggetto di procedimento penale è obbligatoria ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 44, in ragione dello speciale “vulnus” che l’esposizione penale cagiona al prestigio dell’Ordine forense ed alla credibilità del professionista, ha affermato che l’azione disciplinare può essere esercitata dal COA anche in relazione a fatti risalenti ad epoca anteriore all’iscrizione dell’avvocato al relativo albo professionale, allorché il “vulnus” derivante da tali fatti sia ancora percepibile nel periodo di iscrizione, così fondando il potere disciplinare; ha quindi ritenuto che nella fattispecie, ancorché i fatti commessi dalla dottoressa C. oggetto del procedimento penale risalissero ad epoca anteriore alla sua iscrizione come praticante nell’apposito registro tenuto dal COA di Pescara, tuttavia, alla data dell’iscrizione la ricorrente era già stata condannata dal Tribunale di Chieti, ed il procedimento penale era ancora pendente in grado di appello, con la conseguenza che il “vulnus” continuava ad essere attuale. Per la cassazione di tale sentenza la C. ha proposto un ricorso basato su di un unico motivo; nessuno dei soggetti intimati ha svolto attività difensiva in questa sede. 974 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza DIRITTO Con l’unico motivo formulato la ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 38 e ss., e art. 44 e ss., eccesso di potere e difetto di giurisdizione. La C. rileva che ai sensi dell’art. 44, del r.d.l. ora richiamato l’azione disciplinare deve essere promossa nei confronti dell’avvocato nei cui confronti venga iniziato un procedimento penale, cosicché tale potere disciplinare non compete al COA qualora un procedimento penale venga promosso nei confronti di un soggetto non iscritto all’albo professionale; nella fattispecie, invero, i fatti addebitati all’esponente risalivano all’anno 2000, ed il procedimento penale era iniziato nel 2001, epoca in cui la ricorrente non era ancora in possesso della laurea in Giurisprudenza, cosicché nei suoi confronti non avrebbe potuto essere promosso un procedimento disciplinare. La C. assume poi che l’interpretazione offerta da parte del CNF alla sentenza delle S.U. di questa Corte 1-2-2010 n. 2223 è errata, avendo sostenuto che secondo tale pronuncia il potere e la giurisdizione disciplinare sarebbero esercitabili anche per fatti commessi dall’iscritto molti anni e prima della sua iscrizione all’albo, qualora il “vulnus” ricada nel periodo di appartenenza all’Ordine; la sentenza suddetta ha in realtà ritenuto legittimo l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dell’iscritto per fatti commessi prima della sua iscrizione all’albo in quanto il relativo procedimento penale aveva avuto inizio dopo l’iscrizione all’albo e, di conseguenza, il “vulnus” era ricaduto nel periodo di appartenenza all’Ordine; nella fattispecie, invece, il procedimento penale a carico della ricorrente era iniziato nell’anno 2001, allorquando l’esponente era una semplice cittadina e non era iscritta all’albo professionale; pertanto il COA non aveva alcun potere di iniziare nei suoi confronti un procedimento disciplinare. Il motivo è fondato. La sentenza impugnata si basa sul presupposto, affermato anche dalla sentenza delle S.U. di questa Corte 1-2-2010 n. 2223, che l’azione disciplinare può essere esercitata nei confronti degli avvocati anche in relazione a fatti di rilevanza penale risalenti ad epoca anteriore all’iscrizione dell’avvocato al relativo albo professionale, allorché il “vulnus” che l’esposizione penale cagiona al prestigio dell’Ordine forense ed alla credibilità della professione sia ricaduto nel periodo di iscrizione all’albo, così fondando il potere disciplinare. Tale convincimento non può essere condiviso. Invero l’esercizio del potere disciplinare da parte dei COA nei confronti degli avvocati trova il suo fondamento nell’esigenza di una tutela del prestigio dell’Ordine forense in presenza di comportamenti posti in essere dai suddetti professionisti idonei a screditarne l’autorevolezza e la credibilità, comportamenti quindi contrari ai doveri di probità, di buona condotta e di deontologia professionale che gli avvocati sono tenuti a rispettare nell’esercizio della professione; al riguardo occorre rilevare che il r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 38, prevede la sottoposizione a procedimento disciplinare degli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”, con la conseguente irrilevanza al riguardo di comportamenti che, pur se idoRassegna Forense - 3-4/2014 975 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Irrilevanza disciplinare delle condotte antecedenti l’iscrizione all’albo nei a determinare uno “strepitus fori” nel periodo di iscrizione all’albo da parte del professionista resosi colpevole di detti comportamenti, sono ininfluenti ai fini disciplinari in quanto risalenti ad epoca antecedente alla iscrizione all’albo, e dunque estranei ai presupposti fondanti l’esercizio del potere disciplinare; sotto tale profilo, quindi, si ritiene di dissentire dalla richiamata pronuncia di questa Corte a Sezioni Unite, che in effetti non ha esaminato specificatamente tale decisiva questione. Nella fattispecie, pertanto, essendo pacifico che i fatti di rilevanza penale ascritti alla C., che hanno poi determinato una sua condanna passata in giudicato ad anni sei e mesi tre di reclusione per il delitto di estorsione, sono risalenti ad un periodo antecedente alla sua iscrizione all’albo dei praticanti avvocati, deve escludersi la sussistenza del potere del COA di Pescara di sottoporre a procedimento disciplinare l’attuale ricorrente, e di infliggerle la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per mesi dodici. In definitiva, quindi, il ricorso deve essere accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata; non essendo poi necessari ulteriori accertamenti di fatto, e decidendo la causa nel merito, occorre conseguentemente annullare la delibera del 14-7-2011 del COA di Pescara. Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla natura peculiare della controversia, per compensare interamente le spese dell’intero giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, annulla la delibera del 14-7-2011 del COA di Pescara, e compensa interamente tra le parti le spese dell’intero giudizio. Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2014. Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2014. 976 Rassegna Forense - 3-4/2014 Parte Seconda - Giurisprudenza 292. Sulla condotta dell’avvocato che consiglia al cliente di non avanzare pretese economiche. Cass. civ., sez. I, sentenza 10 dicembre 2014, n. 26059 - Pres. VITRONE - Rel. CAMPANILE Deve ritenersi insussistente una responsabilità, per violazione dei doveri professionali, in capo all’avvocato il quale segua una strategia processuale consistente nella proposizione di una domanda di divorzio, per mancata consumazione, nei confronti del coniuge dell’assistita, rinviando poi ad un giudizio successivo la proposizione di un assegno per il suo mantenimento. FATTO 1 - Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Palermo ha rigettato il gravame proposto da S.C. avverso la sentenza del Tribunale di Palermo, depositata in data 27 gennaio 2005, con la quale era stata giudicata infondata la domanda dalla predetta avanzata nei confronti dell’avv. F.S., avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno, per violazione dei doveri professionali, in relazione al consiglio di detto professionista di avanzare domanda di divorzio, per mancata consumazione, nei confronti del coniuge B.S., rinviando a un giudizio successivo la proposizione della domanda di un assegno per il proprio mantenimento. 1.1 - La corte territoriale ha rilevato che il consiglio dato dal professionista alla cliente di non avanzare pretese economiche contestualmente alla domanda di divorzio non era di per sé incongruo, atteso che la necessità di accertamenti peritali (effettivamente eseguiti nel corso di quel giudizio) era ostativa a una separata ed immediata pronuncia sull’“an”, che costituiva il prioritario interesse della S. Il giudizio, infatti, si era concluso senza opposizione da parte del convenuto, mentre le questioni di natura economica - per altro proponibili autonomamente, con possibilità di ottenere la decorrenza dell’assegno dal momento della domanda - avrebbero di certo ritardato la pronuncia relativa allo "status". 1.2 - È stata rimarcata l’irrilevanza dei profili concernenti la responsabilità del professionista per non aver evidenziato, nel primo giudizio, l’addebitabilità al marito del fallimento del matrimonio, ed è stata, infine, dichiarata l’inammissibilità dell’appello proposto in via incidentale dal F. in merito al regolamento delle spese processuali. 1.3 - Per la cassazione di tale decisione la S. propone ricorso, affidato a due motivi, cui l’avv. F. resiste con controricorso. DIRITTO 2 - Con il primo motivo si denuncia violazione della l. n. 898 del 1970, art. 4 laddove consente la pronuncia di una sentenza relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio e la prosecuzione del giudizio per la definizione delle questioni di natura patrimoniale. Rassegna Forense - 3-4/2014 977 Giurisprudenza della Corte di Cassazione Condotta dell’avvocato che consiglia al cliente di non avanzare pretese economiche 2.1 - Con la seconda censura, denunciandosi violazione dell’art. 2236 cod. civ., si sostiene che la corte territoriale avrebbe erroneamente escluso la responsabilità del professionista in relazione alla scelta sopra indicata, valorizzando le sollecitazioni - inidonee a tal fine - della stessa cliente. 3 - I motivi, per i quali sono stati indicati validi quesiti di diritto, vanno esaminati congiuntamente, in quanto intimamente correlati. Essi risultano in parte inammissibili, ed in parte infondati. 3.1 - Deve in primo luogo constatarsi come l’attribuzione alla corte territoriale dell’affermazione dell’impossibilità giuridica di ottenere una sentenza non definitiva sullo “status” non trova riscontro nella motivazione della decisione impugnata, che ha posto in evidenza, da un lato, l’opportunità della scelta di non compromettere la celerità del procedimento, che costituiva il preminente interesse della cliente, introducendo temi di natura economica, comportanti attività istruttoria non scindibile da quella inerente alla specifica ragione posta alla base del divorzio, dall’altro la possibilità (con richiamo alla decisione di questa Corte n. 1031 del 1998) di avanzare separatamente la domanda di assegno. 3.2 - La Corte di appello, quindi, non ha affermato che, ai sensi della l. n. 898 del 1970, art. 4 non fosse possibile ottenere una pronuncia non definitiva, ma ha semplicemente ritenuto che i relativi tempi non fossero compatibili con una pronuncia definitiva, certamente ottenibile in un giudizio non appesantito da temi di natura economica, che, per altro, avrebbero provocato una differente “reazione difensiva” da parte del B. 4 - Al di là della evidenziata inammissibilità, precisato che manca qualsiasi riferimento, nel ricorso, a un eventuale mancato assolvimento degli oneri di natura informativa facenti capo al professionista, deve osservarsi che, alla luce dell’affermata - e non contestata - possibilità di proporre in via separata la domanda di assegno, non sussiste la dedotta responsabilità del professionista per aver scelto una strategia processuale ritenuta, secondo l’apprezzamento del giudice del merito sorretto da adeguata motivazione, e del resto non censurata, confacente agli interessi della stessa cliente. 5 - In considerazione della delicatezza del tema trattato, inerenti a scelte di natura discrezionale del difensore, va disposta la compensazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese relative al presente giudizio di legittimità. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 giugno 2014. Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2014. 978 Rassegna Forense - 3-4/2014