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Divinità - Ligeia
Simona Friuli
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Si incontrarono in una piccola città che stava andando in rovina sulle sponde del fiume: c’erano la
piazza e lo strozzatoio di case ingrigite, c’era la veletta nera di Ligeia abbassata sulla stranezza
incandescente dello sguardo e le sue dita bianche e lunghe che si intrattenevano con il manico d’osso del
parasole. La pioggia, annacquando i sampietrini, non produceva alcun suono; un cane macilento
zoppicava attorno alla fontana. Una teofania lugubre che, nella storia degli Dei assemblati dall’uomo,
non si sarebbe mai più ricreata. Era sottile, alta molto più di lui. I capelli lo sconvolsero tanto che non
riuscì a spiegarsi il loro significato: balzavano fuori dalla salda tana del cappello nero, elegante, guarnito
di piume, dardeggiando tra le sue labbra, quando le baciò la mano. Era insolita, singolare, forse per il
modo che aveva di guardarlo, e di tenersi in piedi, regale, contro il silenzio virulento della città; si
fingeva inanimata quanto la pietra eppure, di nascosto, era mostruosamente più viva. L'Uomo, scrittore,
non la paragonò agli animali feroci, di cui non le mancava l'impeto, ma a una nova che brucia nel suo
nucleo cangiante e doppio – una stella di sesta grandezza. La portò a casa, dalla chiesa in cui la sua
bianca figura – abbandonò il nero di cui abitualmente vestiva – aveva una perfetta cornice, in una
carrozza che a stento sembrava contenerla. Non osò toccarla o sollevare il velo nuziale; fu lei a farlo per
lui. I suoi occhi lo resero pazzo: ferocemente grandi, materia fusa, sciolta, tanto erano liquidi; occhi
temporaleschi, così li avrebbero detti i poeti – gli ricordò le iridi di un cieco rapace da circo; una bestia
che conteneva, nell’iride, l'intero Zodiaco. Con ossequioso fervore consumarono la loro prima notte di
nozze; Ligeia, sazia come una divinità pagana a cui era stato appena tributato un sacrificio, accarezzava
languida e curiosa l'anello che l'Uomo le aveva donato: una cordierite metamorfica viola e poi azzurro
cocente, se orientata verso il sole. La cordierite: il sòlarsteinn dei Vichinghi. Cosa pensasse la sua Sfinge,
mai riuscì a indovinarlo. Mostrò da subito un ardore ossessivo e ingordo per la lettura: non la vide mai
senza un libro accanto. C’era qualcosa di mostruoso in quel suo voler conoscere: terra, cielo, letteratura
tutto era divorato con medesimo appetito, cotto nel calderone in perenne ebollizione del suo intelletto.
L'Uomo tentò di seguirla in quella fame saziata tra candele stillanti e pagine affilate che sapevano di
cose morte; ma non era alla sua altezza. Ligeia sollevava il volto squadrato verso di lui, appollaiato fedele
dietro le sue spalle - si era ridotto a un grazioso smeriglio?
Gli parlava per bocca di filosofi andati in polvere, dissezionando la Vita Eterna, mostrandogli contorte
sagome vizze, ritratte nella scialuppa tombale dell'Ultimo Viaggio, grovigli di linee e spigoli da cui
l'Uomo si ritraeva turbato.
«Non si muore mai veramente.» profetizzava Ligeia, solenne come un sacerdote dalla gabbia del pulpito;
Uno sfarfallio di falena, l'azzurrina fragilità delle tempie pulsanti, era quella di chi si prepara all’Addio.
Lo Sposo si scopriva schiavo della sua conoscenza, quanto degli occhi che sfolgoravano nel buio della
camera da letto. Sprazzi della sua bianca carne morbida affioravano dai panneggi disfatti delle lenzuola;
non poteva credere che fosse umana. E quando la teneva al suo fianco, tra le coltri strappate, le serrava il
volto tra le mani; studiava il mistero insondabile degli occhi, incredulo di non potervi leggere l'ora. La
loro mobile e occulta liquidità lo ossessionava. Li misurò con strumenti innominabili, torturando le
ciglia, obbligando Ligeia, che non si lamentò mai, a tener aperte le palpebre fino alle lacrime. Erano gli
occhi il suo nucleo segreto: non l'avrebbe mai conosciuta se prima non avesse compreso il suo sguardo.
Che fosse materia siderale, come il suo cuore? La idolatrava. Credeva che il Fato, marionettista da fiera,
avesse infuso vita in un simulacro e che a lui, scienziato accidentale, fosse stato riservato il compito di
inciderla, aprirla, liberarla dalla sua prigione umana, restituendola a stelle ed empirei, guadagnandosi la
sua benevolenza. Ma di tagliarla non gli riuscì mai, né la polvere d'oro dell'idolo rimase sulle sue dita
profane. E quando Ligeia morì, l'Uomo andò in frantumi: senza le torce del suo sguardo la conoscenza
in cui lei lo aveva guidato non era che palude; il mondo un delirio vuoto. Vegliò il cadavere per tre
giorni e tre notti pregandola, inginocchiato accanto al catafalco, di non abbandonarlo; le dita premute
sui coperchi infernali che avevano sigillato i suoi occhi. Non ci fu un cane altrettanto accorato, ululante
sulla tomba del padrone. Lo avrebbe ricordato, avrebbe ricordato la sovrumana portata della sua
adorazione, lì dov'era andata? La immaginava regnare tenendo incatenati ai suoi piedi serafini alati: era
tornata, divina, lì dove nascono gli esseri di pura luce. Che fosse morta era inammissibile. L'Uomo
tentò di spremere dalle labbra della defunta parole d'amore; Ligeia restò muta, egli non credette
comunque.
Tempo non più.
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