Arte: unicum o riproducibile? (Banfi, Benjamin, Goodman)

Arte: unicum o riproducibile?
(Banfi, Benjamin, Goodman)
Simona Chiodo
«Bisogna tuttavia riconoscere che solo un pregiudizio romantico – che mancava
ad esempio all’antichità – può vedere una contraddizione tra l’arte e la produzione
industriale in serie». Con queste parole Antonio Banfi si avvia alla conclusione del saggio L’arte funzionale1 , dedicato alla difesa di tutte quelle forme d’arte
considerate minori, o in ogni caso collaterali, rispetto alle cosiddette belle arti.
La tesi viene argomentata sino a raggiungere illuminazioni per certi versi provocatorie: non è affatto necessario, a voler conservare fino in fondo quell’atteggiamento di apertura ed antidogmaticità che tanto vigorosamente pervade l’intera riflessione estetica banfiana, che la serialità in sé, ossia la possibilità di riproduzione
tecnica di un oggetto d’arte, ne intacchi la qualità artistica, fino a comprometterla
irrimediabilmente. È l’idea stessa di unicum come intrinseca ed imprescindibile
garanzia di artisticità a vacillare.
La questione del possibile rapporto tra arte e riproduzione seriale, meccanica
ed industriale, può essere interpretata come una tra le conseguenze più estreme,
almeno al punto in cui siamo, della reciproca autonomizzazione di estetica ed arte
fra loro. Il passaggio sostanziale si muove da un’idea di arte intesa come attualizzazione di criteri estetici, che fanno capo innanzitutto ai canoni che normano
l’idealità della bellezza, ad un’idea di arte che comincia a disancorarsi sempre più
dal dover essere attualizzazione di un qualunque genere di norma: l’arte non si
identifica più con l’estetica, con il gusto, con un senso definito prima della sua
stessa realizzazione da un preciso orizzonte di astratte, e per questo eterne, regole
di sviluppo.
1
A. Banfi, “L’arte funzionale”, in Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, a cura di
E. Mattioli e G. Scaramuzza, con la collaborazione di L. Anceschi e D. Formaggio, in Opere, Istituto
“A. Banfi”, Reggio Emilia 1988, vol. V, p. 326.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Il dissolvimento del ruolo dominante e risolutivo che l’estetica gioca sull’arte
genera un’ulteriore più generale conseguenza: è la concezione stessa della possibilità di esistenza di valori eterni ed immutabili, sovratemporali e sempre veri per
definizione ad essere minata. Banfi interpreta la morte dell’arte di Hegel come arte
che muore non nella sua dimensione di concreta messa in opera materiale e storica, bensì nella sua assoluta idealità, nel suo stagliarsi al di sopra del tempo e dello
spazio, nel suo circondarsi di un’aura sovrumana ed intoccabile, nel suo sollevarsi
dalla realtà per collocarsi al di sopra di un piedistallo che tende a divinizzarla ed a
cristallizzarla entro un necessario rapporto di identità con la norma estetica astratta
ed ideale.
E con tutto questo, non solo accade che la produzione artistica, una volta sciolta dall’assoluta esclusività di rapporto con l’estetica, possa tornare a dirigersi verso
altre aree di esperienza, verso nuovi, e talvolta del tutto inediti, panorami ed orizzonti (il che, già di per sé, apre alla possibilità di intercettare nei propri percorsi
occasioni di incontro estremamente differenti tra loro e, soprattutto, estremamente
lontane dal mondo dell’arte tradizionalmente ed idealmente inteso). Ci sono altri
anelli logici da considerare. In primo luogo, occorre riconoscere che solo all’interno di una più generale prospettiva di laicizzazione, ovvero di scadimento dalla
specialità alla normalità, dalla cristallizzata esistenza incorruttibile ed eterna dell’opera d’arte alla variegata mescolanza della vita di quest’ultima e del suo senso
più intimo con la materialità e la relatività, è possibile concepire una vicinanza di
qualche tipo, fosse anche solo occasionale e fortuita, con il mondo della meccanicità in senso lato: l’arte è, o meglio è stata, per definizione, quanto di più distante
possa esserci dall’idea di replicazione, di riproducibilità infinita dello stesso oggetto, tanto da divenire illuminato baluardo in contrapposizione a tutto ciò che possa
essere meccanicamente ripetuto o riprodotto, ovvero ergendosi a sana e ancor pura
polarità antitetica ad ogni dimensione alienante o alienata in senso lato.
La cosiddetta arte pura non può che concepirsi come sublime evento astratto da
ogni venatura di concretezza e di contingenza, percorso da una tensione all’eternità
ed all’universalità aspira ad una totale e compiuta realizzazione; per questo, ogni
possibile (e profondamente laica) mescolanza con la mondanità è esclusa, tanto
più qualora questa implichi in qualche modo una relazione con l’idea di accostamento al quotidiano, al punto di assorbirne l’intrinseca possibilità di ripetibilità
dell’evento.
E si arriva per questa via anche alla seconda questione, quella connessa all’idea
di unicum come criterio indiscusso di pregevolezza e di valore artistico. Separare
l’arte dall’estetica significa infatti ridiscutere la pertinenza dell’azione di quest’ultima sulla prima, significa demolire l’esclusività di un rapporto attraverso cui l’estetica possa ergersi ad unica fonte legiferante per la vita dell’arte, determinandone
ogni aspetto ed indirizzandone a priori orientamenti e percorsi espressivi. Il concetto di unicum non è nient’altro, in fondo, che uno fra i molteplici criteri estetici così
fortemente cristallizzati da essere considerati come assoluti e privi di una nascita
storica vera e propria; l’idea di unicum comincia a crollare, o quantomeno ad essere messa fortemente in discussione, contemporaneamente al dissolvimento della
2
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relazione di completa sovrapponibilità tra arte ed estetica fra loro: crolla accompagnandosi all’inesorabile cedimento dell’idea più vasta e fondante della legittimità
di poter concepire una canonica eterna, rigida e per questo tirannica. L’idea di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, in aperto contrasto con tutto questo, diviene
una sfida: è possibile, al punto in cui si è giunti, concepire l’arte anche al di fuori da
ogni criterio dato come essenziale e necessario per la sua stessa vita? È possibile,
in altre parole, generare arte anche laddove per secoli si sia identificato il luogo ad
essa più distante, ossimorico e svilente per la sua stessa possibilità di esistenza?
Identificati questi due ulteriori passaggi concettuali, fondamentali per comprendere il legame tra l’avvenuto tracollo dell’identità fra estetica ed arte ed il
tragitto percorso da quest’ultima in direzione di un marcato e sostanziale avvicinamento al mondo dell’industria, ovvero della riproducibilità seriale, è possibile
proseguire in un tentativo di analisi volto all’emersione di alcune tra le possibili
risposte date a quanto Banfi accennava; la vastità del tema permette di concentrare l’attenzione soltanto su alcune vie teoriche particolari, scelte all’interno di un
vasto quadro sia cronologico, sia geografico, sia concettuale. In ogni caso, non è
certo l’individuazione di una possibile risposta che sciolga il quesito a configurarsi
come deriva a cui pervenire, quanto piuttosto l’opportunità di svelarne l’estrema
complessità, che lo rende non soltanto oggetto di prospettive di riflessione molto
distanti, ma anche occasione di conclusioni sensibilmente differenti.
Le chiavi interpretative scelte possono essere almeno due: da un lato, l’idea di
riproducibilità tecnica come tentativo, supportato da un qualsiasi mezzo tecnologico, di falsificazione, ovvero di produzione di un falso a partire da un originale;
dall’altro, un accostamento più radicale ed esplicito alla questione della serialità
industriale, dell’oggetto d’arte la cui vita venga concepita direttamente all’interno
di una produzione su vasta scala ed in cui l’arte perda il proprio senso di unicum
per ben due volte, per così dire, sia nel risultato, sia all’origine della sua stessa
ideazione e progettazione.
Nelson Goodman2 suggerisce alcune interessanti riflessioni a proposito della
prima tra le due questioni. Apre così un’attenta analisi dedicata al dilemma della
riproducibilità, ovvero della falsificazione, di una qualsiasi opera d’arte, riportando alcune parole di Aline B. Saarinen 3 : «la domanda più insidiosa: se un falso
fosse eseguito in modo tanto sagace che la sua autenticità rimanesse ancora aperta al dubbio persino dopo l’esame più minuzioso e accurato, costituirebbe o no
un’opera d’arte altrettanto soddisfacente come se fosse inequivocabilmente genuina?»4 . Certo il quesito sollevato è sottile, poiché non si tratta, in questo caso, di un
problema connesso necessariamente alla serialità e quindi alla pensabilità dell’arte
in termini di evento che contemporaneamente abbia luogo in differenti occasioni
date, prendendo vita in più oggetti; qui si è, piuttosto, di fronte alla possibilità
2
Gli studi di Goodman sono indirizzati, oltre che al problema dell’arte e dell’estetica,
all’epistemologia e ai possibili rapporti tra queste due aree di esperienza.
3
Il passo di Aline B. Saarinen è tratto da New York Times Book Review, 30 luglio 1961.
4
N. Goodman, I linguaggi dell’arte, “Introduzione” all’edizione italiana di F. Brioschi, Il
Saggiatore, Milano 1976, p. 89.
3
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di un’unica riproduzione di un’opera la cui originaria creazione possa anche essere estremamente distante nel tempo; si ha a che fare con il quesito introdotto
dal cosiddetto “falso perfetto”, ossia dall’opportunità e capacità, evidentemente
supportata da particolari strumenti e condizioni tecniche, di riprodurre un’opera
così precisamente da confonderla ogni volta con l’originale, per quanta cura possa
accompagnare il tentativo di autentificazione.
Si potrebbe riformulare in questi termini l’enigma: nell’istante in cui si raggiunga un’assoluta sovrapponibilità tecnica tra due oggetti d’arte, di cui l’uno rappresenta l’originale e l’altro una sua copia, esiste ugualmente una differenza tra i
due o, viceversa, il solo criterio di perfezione tecnica, di assoluta identità strutturale conseguita, determina un trasferimento del valore e del pregio artistico anche
a vantaggio della copia, o della falsificazione, dell’opera d’arte originale? È possibile, cioè, concepire l’artisticità come un quid in movimento, di cui possa dotarsi
un qualsiasi perfetto tentativo di copia, oppure esistono altre tracce di artisticità
non trasferibili, ovvero non tecnicamente riproducibili, poiché non legate ad una
questione tecnica ma a criteri di tutt’altro tipo?
Goodman fonda la propria analisi su un esempio concreto: «Supponiamo di
avere di fronte a noi, sulla sinistra, la Lucrezia originale di Rembrandt e, a destra,
una sua imitazione magistrale. Sappiamo, poiché la sua storia è pienamente documentata, che il dipinto alla sinistra è l’originale; e sappiamo, attraverso radiografie,
esami al microscopio e analisi chimiche, che il dipinto alla destra è un falso di recente esecuzione. Per quanto esistano numerose differenze fra i due quadri – per
esempio di paternità, epoca, caratteristiche fisiche e chimiche e valore di mercato
– non vi possiamo scorgere alcuna differenza; e, se fossero spostati mentre dormiamo, non sapremmo identificarli semplicemente guardandoli. Eccoci incalzati
con la domanda: possono esistere differenze estetiche fra i due quadri? e il tono
dell’interlocutore è tale spesso da implicare che la risposta sia, ovviamente, no, che
le uniche differenze esistenti siano esteticamente irrilevanti» 5 .
Insomma, l’ipotesi di Goodman è quella di trovarsi di fronte ad un’operazione
di falsificazione talmente accurata e precisa da escludere di principio, poiché in
ogni caso è la questione teorica introdotta da questa possibilità ad interessarlo, che
si possa mai giungere ad uno scioglimento del problema, riuscendo ad identificare
e distinguere l’originale dalla sua stessa perfetta copia; l’occasione teorica è quindi
la seguente: a quali conclusioni, relative al valore di artisticità di un’opera, conduce un caso di assoluta impossibilità di emersione di differenza estetica tra copia
ed originale, per quanto possa essere un caso soltanto ipotetico e di natura eminentemente teorica? Ovvero: se le condizioni estetiche sono perfettamente sovrapponibili, esistono altri criteri che definiscano confini di artisticità tra i due oggetti
considerati, senza necessariamente rifugiarsi in un’idea di unicum come evento dato una volta per tutte, che di fronte a questa eventualità si svela un criterio assai
poco duttile e fertile?
5
Ibid., pp. 89-90.
4
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E in ogni caso, tra l’altro, l’opportunità di realizzazione del “falso perfetto”,
così come Goodman la intende, non è poi così distante da una realizzazione effettiva e concreta: il supporto tecnologico la rende senz’altro possibile, anche senza
affidarsi a particolarissime capacità riproduttive di un falsario; l’ipotesi teorica,
quindi, si svela ben più reale e assai meno ipotetica di quanto non sembri all’apparenza. Concepire un confronto tra la Lucrezia di Rembrandt ed una sua copia
esteticamente esatta e fedele è quanto di più verosimilmente possibile e reale possa
darsi nell’attualità contemporanea del mondo dell’arte.
Ed ora la conclusione a cui giunge Goodman: «il fatto di non poter distinguere i
due quadri semplicemente guardandoli non ci obbliga a concludere che l’imitazione sia buona quanto l’originale»6 . Immediatamente si anticipa l’opportunità di scovare ed introdurre un criterio selettivo; originale e copia, per quanto identici, non
necessariamente conservano un identico valore: quando Goodman parla di imitazione “buona”, infatti, evidentemente accenna ad una considerazione di tipo valutativo, legata alla pregevolezza dell’opera, ovvero alla sua stessa qualità artistica.
Originale e copia possono essere esteticamente equivalenti e contemporaneamente
artisticamente lontani tra loro.
Per ora basti quest’indicazione interpretativa per proseguire la lettura della ricerca di Goodman, analizzando più a fondo, a questo punto, quale sia la natura
della particolare differenza di “bontà” artistica tra copia ed originale. Pare che il
criterio rintracciato a questo proposito sia di natura sostanzialmente storica: esistono particolari condizioni che hanno accompagnato la nascita e la creazione dell’opera d’arte originale e che sono ad esempio legate alle caratteristiche di un’epoca
ben determinata, al contesto sociale, all’area geografica di produzione, ai materiali
utilizzati, alle modalità tecniche di realizzazione, alla personalità dell’artista, ovvero alla sua stessa formazione culturale ed artistica in particolare, alla sua vita, agli
eventi che l’hanno segnata, alla sua stessa esperienza del mondo ed alle sue stesse
intenzionalità creative ed operative.
L’opera d’arte originale possiede una “storia di produzione” che la copia non
potrà mai avere: per quanto sia possibile una sovrapponibilità, per così dire, estetica, la storia di un’opera resta un dato non trasferibile, un vero e proprio caso di
unicum dato una volta per tutte. Il fatto è che questo ulteriore passaggio consente
a Goodman di avviarsi verso una successiva importante riflessione, che ha a che
fare con l’importanza sostanziale della possibilità di corretta attribuzione di una
qualsiasi opera; ogni atto di attribuzione svela infatti un atto di interpretazione artistica, per cui non è affatto indifferente, in termini valutativi ed esegetici, che si
possa o meno risalire alla paternità effettiva di un quadro: la paternità genera di per
se stessa una particolare lettura interpretativa, l’autenticità possiede un’essenziale
significanza artistica.
Sempre per via dell’esempio concreto citato in precedenza, Goodman chiarisce questo nodo teorico: «A parte il caso della contraffazione, è importante che
un’opera originale sia il prodotto di questo o di quell’artista, o scuola o periodo?
6
Ibid., pp. 96-97.
5
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Supponiamo che io possa facilmente distinguere due quadri, ma non dire chi li ha
dipinti se non facendo ricorso a qualche ausilio strumentale, per esempio una radiografia. Il fatto che il quadro sia o non sia di Rembrandt implica qualche differenza
estetica?»7 . La risposta è sì, non solo perché ogni atto interpretativo è generato
a partire da un’operazione preliminare di attribuzione, ma anche perché, come più
attentamente Goodman chiarisce e sottolinea, la capacità di individuare la paternità
di un’opera sviluppa una più generale e compiuta conoscenza della produzione di
un artista, della sua poetica e del suo stile; per questo ogni corretta attribuzione
implica differenza estetica (o meglio, artistica, in questo caso): «L’eventualità che
io impari ad operare correttamente tale discriminazione – che io scopra caratteristiche proiettabili che differenziano i Rembrandt in generale dai non-Rembrandt –
dipende in gran parte dall’insieme di esempi disponibile come base. Pertanto sapere se quel quadro appartiene all’una o all’altra classe è importante perché io possa
apprendere come distinguere i dipinti di Rembrandt dagli altri. In altre parole, la
mia presente (o futura) incapacità di determinare la paternità di un quadro senza
far uso di apparecchiature scientifiche non implica che la paternità non implichi per
me alcuna differenza estetica; in quanto la conoscenza della paternità, non importa
in che modo sia ottenuta, può contribuire materialmente a sviluppare la mia capacità di determinare senza ricorrere a siffatte apparecchiature se un certo quadro,
compreso questo in una circostanza successiva, sia o non sia di Rembrandt» 8 .
Goodman conclude, quindi, sostenendo a gran voce la significanza artistica
dell’autenticità: la falsificazione di un’opera d’arte si configura ora come un oggetto che pretende, senza alcuna possibilità di effettiva riuscita, di possedere la
stessa storia di produzione dell’originale. E a questo proposito ritorna con maggiore evidenza un punto essenziale già osservato: il criterio di differenziazione e
di demarcazione non è mai per Goodman di natura estetica, non fa mai capo, cioè,
ad una vera e propria norma tradizionalmente estetica, relativa a tutto ciò che sia
7
Ibid., p. 97.
Ibid. Si prosegue con un interessantissimo ulteriore esempio, questa volta tratto da un caso
storico effettivo: «Per inciso, in questi termini si può risolvere un enigma alquanto sorprendente.
Quando Van Meegeren vendeva i suoi quadri come Vermeer, riuscì a ingannare gran parte degli
esperti più qualificati; e la sua frode fu scoperta solo in seguito alla sua confessione. Oggi anche un
dilettante un po’ informato si chiede sbalordito come giudici competenti abbiano potuto scambiare
un Van Meegeren per un Vermeer, tanto sono ovvie le differenze. Che cosa è accaduto? Certo
il livello generale della sensibilità estetica non sarà cresciuto tanto rapidamente, al punto che un
dilettante di oggi possa avere un occhio più acuto che non un esperto di vent’anni fa. Semmai,
la migliore informazione ora disponibile rende più facile la discriminazione. Messo di fronte a un
singolo quadro sconosciuto per volta, l’esperto doveva stabilire se esso era abbastanza simile ai
Vermeer già noti per poter essere del medesimo artista. E ogni volta che un Van Meegeren veniva
aggiunto al corpus di quadri accettati come Vermeer, i criteri di accettazione ne erano di conseguenza
modificati; e lo scambio di ulteriori Van Meegeren per Vermeer diventava inevitabile. Ora invece, non
soltanto i Van Meegeren sono stati tolti dalla classe di Vermeer, ma è stata anche istituita una classe
di Van Meegeren. Avendo davanti a noi queste due classi, le differenze caratteristiche diventano così
cospicue che distinguere altri Van Meegeren dai Vermeer non presenta grandi difficoltà. L’esperto
di ieri avrebbe potuto benissimo evitare i suoi errori se avesse avuto a disposizione per un confronto
pochi Van Meegeren noti. E il dilettante di oggi può benissimo essere sorpreso a scambiare per un
Vermeer un’opera di scuola del tutto inferiore».
8
6
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connesso con la percezione, con l’apparenza formale e con la fruizione visiva di
un’opera; il valore di un quadro non viene scandito attraverso ciò che si vede, viceversa viene determinato da ciò che si conosce al di là di ciò che si mostra, al di là
dei soli veicoli di manifestazione espressiva. Insomma, si dichiara l’insufficienza
di criteri esclusivamente estetici in vista della comprensione di un qualsiasi oggetto
d’arte. Il vero limen è di tutt’altra natura, è un limen storico. E questo implica che
la classificazione artistica sia costantemente sottoposta ad un rinnovo incessante,
determinato a sua volta da un repertorio di conoscenze e di esperienze destinato
necessariamente (e fortunatamente) ad un progressivo ed incessante mutamento ed
arricchimento; occorre, in altre parole, concludere che spostare la delimitazione dei
confini di artisticità da una norma estetica ad una norma storica produce variabilità
e relatività: non si ha più a che fare con aprioristici assiomi, bensì con condizioni
storicamente identificabili e pertanto interpretabili solo attraverso un’attenta ricerca che potrà soltanto tendere al raggiungimento di posizioni definitive, senza mai
di fatto produrre valutazioni perentorie e risolutive, ma essendo piuttosto destinata,
per statuto genetico, a proseguire il proprio percorso pur velandosi in ogni istante
di provvisorietà e di precarietà ed accompagnandosi altresì alla costante coscienza
di questo particolare statuto ontologico che la caratterizza.
L’arte diventa arte, si potrebbe concludere facendo un passo oltre, solo attraverso un atto interpretativo, ovvero solo attraverso un giudizio, di cui ora si riconosce
la natura profondamente umana e quindi vacillante ed instabile. L’arte è arte poiché
lo si decide per via di sostegni teorici e percettivi molto spesso eteronomi, essenzialmente di natura storica e culturale. Ogni determinazione logica ed assiomatica
è scalzata da una fragilissima esegesi che innanzitutto, ancor prima di dichiarare le
proprie possibilità e le proprie virtù, si rende cosciente dei propri limiti intrinseci e
li evidenzia, facendo della propria debolezza il proprio illuminante baluardo ed il
proprio punto di forza.
D’altro canto, occorre osservare che non tutte le forme d’arte possono essere
oggetto di contraffazione. Esistono, secondo Goodman, due possibili vie espressive: l’una fa capo a tutte quelle arti di cui ogni copia, come visto, rappresenta
un falso, per quanto perfetto e verosimile da un punto di vista estetico; l’altra, invece, abbraccia ogni creazione costitutivamente infalsificabile, poiché dotata di un
sistema notazionale a tal punto esattamente riproducibile e trasferibile da non poter
condurre ad alcuna differenza rintracciabile tra originale e copia, neppure di natura
storica.
«Nella musica», sostiene Goodman, «diversamente dalla pittura non esistono
falsificazioni di un’opera nota. Esistono, in verità, composizioni che falsamente
pretendono di essere di Haydn, come ci sono quadri che falsamente pretendono di
essere di Rembrandt; ma non possono esistere falsificazioni della London Symphony, diversamente che per la Lucrezia. Il manoscritto di Haydn non è un esemplare
della partitura più autentico di una copia a stampa uscita stamane dalla tipografia,
e l’esecuzione di ieri sera non è meno autentica della première. Le copie della
partitura possono variare per accuratezza, ma tutte le copie accurate, anche quando
fossero falsificazioni del manoscritto di Haydn, sono esemplari egualmente au7
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tentici della partitura. Le esecuzioni possono variare per correttezza e qualità, e
anche per una sorta più esoterica di autenticità; ma tutte le esecuzioni corrette sono
esemplari egualmente autentici dell’opera» 9 .
La musica è, cioè, un’arte allografica, poiché si fonda su un sistema di codificazione simbolica che stabilisce una volta per tutte le norme che ne garantiscono
l’autenticità ogni qualvolta si incorra in una sua copia, ovvero in una sua successiva
esecuzione: è possibile conservare la medesima autenticità dell’originale a condizione della scrupolosa messa in atto di ogni criterio originariamente stabilito ed a
condizione di una completa sovrapponibilità notazionale dei due linguaggi artistici
separatamente generati. Il primo caso, invece, corrisponde alla definizione di arte
autografica: ogni copia non è nient’altro che una falsificazione, una vera e propria
contraffazione che non potrà mai aspirare ad un’identità di valore artistico con l’originale, mancandole ineluttabilmente la storia di produzione di quest’ultimo, di
cui non potrà mai appropriarsi.
Ancora una volta, illuminante l’esempio relativo a Rembrandt: «Conta soltanto
quella che potremmo chiamare identità di compitazione: la corrispondenza esatta
quanto a sequenze di lettere, spazi e segni di punteggiatura [. . . ] Nella pittura,
al contrario, dove manca un alfabeto analogo di caratteri, nessuna delle proprietà
pittoriche – nessuna delle proprietà che il quadro possiede in quanto tale – è distinta
dalle altre come costitutiva; nessun tratto può essere trascurato come contingente,
nessuna deviazione come insignificante. L’unico modo per accertare se la Lucrezia
che abbiamo davanti è autentica consiste pertanto nello stabilire il fatto storico che
si tratta dell’oggetto materialmente prodotto da Rembrandt» 10 .
A questo punto è possibile trarre qualche conclusione. Quale tipo di traccia
è possibile individuare, in tutto quanto osservato, a proposito della relazione tra
autenticità e valore artistico? Come già evidenziato, innanzitutto si deve riconoscere che sebbene esistano espressioni d’arte in cui lo statuto di unicum si conservi
ancora come custode di autenticità e di significanza artistica, ugualmente, anche in
quest’occasione, si incorre in due differenti alleggerimenti ontologici della portata
di senso dell’esclusività e dell’unicità assoluta: ora, in ogni caso, viene demolito
un approccio puramente estetico nella determinazione di artisticità; ora, come visto
da ultimo, occorre ammettere che il criterio di unicum può continuare a vivere solo
per la valutazione di alcune particolari forme d’arte poiché, per il resto, il criterio
di autenticità non determina affatto alcun innalzamento od abbassamento di qualità
artistica, rivelandosi semplicemente non pertinente e per questo inapplicabile.
Ma è possibile portare all’emersione un terzo elemento particolarmente interessante: sostenere che esiste una differenza necessaria tra originale e copia nel
caso delle arti autografiche non significa affatto, per quanto possa sembrare implicito, concludere che l’incolmabilità di qualità artistica sia inevitabilmente a favore
dell’originale ed a svantaggio della copia. In altri termini, non è affatto scontato
che la copia non possa essere artisticamente superiore all’originale. Sarà differente
9
10
Ibid., p. 99.
Ibid., p. 102.
8
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dall’originale, poiché avrà una storia di produzione peculiare e propria, ma non per
questo si dovrà concludere che la propria intrinseca artisticità non sia nient’altro
che una nuova e sbiadita copia di quella dell’opera da cui prende vita, e di certo non si dovrà procedere nell’analisi e nella valutazione dei due oggetti in virtù
di un banale criterio cronologico, che stabilisca che l’oggetto più antico, fonte di
ispirazione dell’oggetto successivamente prodotto, sia per questo più pregevole.
Il limen storico, cioè, rappresenta sì un efficace criterio di demarcazione tra
un’opera d’arte originale ed ogni sua possibile copia, ma non è ugualmente in grado di rivestire anche il ruolo di strumento di valutazione artistica, o quantomeno
non è di per sé sufficiente a farlo; non solo, quindi, il criterio estetico non è affatto
soddisfacente ed adeguato, determinando l’opportunità di introdurre una matrice di
indagine di tipo storico, ma anche quest’ultima griglia di analisi si rivela incompleta. O meglio: una contraffazione può aspirare ad un livello di artisticità superiore
rispetto all’originale a cui fa riferimento poiché può possedere, a sua volta, una
più pregevole storia di produzione, si potrebbe forse concludere, ovvero può dotarsi di tutta una serie di elementi strutturali, espressivi, poetici ed altro ancora
qualitativamente superiori a quelli che caratterizzano l’originale.
Il criterio storico, perciò, non tanto si rivela insufficiente in senso lato, quanto
piuttosto si dimostra essere limitativo ed inefficace quando sia semplicemente legato a considerazioni di tipo cronologico e, ancor più, quando sia connesso a pregiudizi valutativi che tendano a spostare aprioristicamente sull’originale, in quanto
tale, ogni più alto merito artistico, estetico e concettuale. La storia non può, da
sola, tanto più quando intesa come successione di eventi di cui l’ultimo deve la
propria esistenza ed il proprio intimo statuto ontologico al precedente, determinare
il senso artistico di un’opera dirigendone l’interpretazione lungo binari teorici già
tracciati prima della sua stessa comprensione.
Citando Goodman, «dobbiamo fare attenzione a non confondere l’autenticità
con il merito artistico. Il fatto che la distinzione tra falso e originale sia importante
esteticamente non implica [. . . ] che l’originale sia superiore al falso. Un dipinto
originale può essere meno convincente di una copia ispirata; un originale mutilato
può aver perso gran parte del suo pregio primitivo; una stampa ottenuta da un cliché
molto consumato può essere esteticamente assai più lontana dalle prime stampe di
una buona riproduzione fotografica. Analogamente, un’esecuzione scorretta, che
di conseguenza non è più a stretto rigore un esemplare di un certo quartetto, può
nondimeno – o perché le modificazioni migliorano la versione del compositore o
per la sensibilità dell’interpretazione – valere più di un’esecuzione corretta» 11 .
Si è progressivamente giunti, attraverso successive tappe e successivi traguardi concettuali, ad un sensibile indebolimento dell’idea di unicum e dell’idea di
assoluta significatività dell’autenticità. A questo punto, è possibile introdurre un
ulteriore salto teorico, che fa capo, questa volta, ad un quesito per certi versi ancora più ardito: è legittimo concepire l’esistenza dell’arte anche qualora si passi da
una semplice copia ad un vero e proprio tentativo di produzione seriale, in cui a
11
Ibid., pp. 104-105.
9
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
priori, per così dire, si demolisce sin dalle radici l’opportunità di vita di un unicum
qualsiasi, di un qualsivoglia originale?
E, paradossalmente, questo salto teorico corrisponde ad un salto cronologico
da compiersi a ritroso, che individua un fertilissimo nucleo di elaborazione e di
ricerca nella Parigi degli anni Trenta. Nel 1936 Walter Benjamin 12 pubblica il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica 13 , aprendo le porte
a prospettive concettuali rivoluzionarie. Sovvertendo alcune delle sue stesse posizioni precedentemente sostenute, Benjamin argomenta a favore di una radicale
apertura nei confronti dell’ingresso dell’industria e della tecnologia all’interno del
mondo dell’arte. In questo senso si avvicina, per certi versi, ad alcune riflessioni di
Bertolt Brecht e di Eduard Fuchs: il primo accoglie con entusiasmo la possibilità
di interazione tra arte e tecnologia, considerandola come esemplare occasione di
superamento di una ristretta visione aristocratica che allontana ogni forma d’arte
da una fruizione di massa; l’attivo impiego della macchina in favore dell’uomo è
senz’altro possibile e non è per nulla inevitabile, viceversa, che la meccanicizzazione coinvolga la vita umana in un alienante processo di spersonalizzazione e di
passività. Fuchs ripropone, ancora una volta, il tema dell’auspicabile lotta contro
l’aristocraticizzazione dell’arte, difendendo strenuamente un’arte per certe caratteristiche semmai più povera, ma in ogni caso ben più largamente diffondibile proprio grazie al supporto delle tecniche industriali di riproduzione. L’arte popolare
comincia ad invadere il territorio esclusivo ed invalicabile dell’arte bella e dell’arte
classica.
In effetti, le riflessioni di Brecht e di Fuchs già individuano quale sia il nodo
teorico della riflessione di Benjamin: ridiscutere il rapporto tra arte e riproduzione
tecnica seriale ha sempre al proprio centro l’obiettivo di indirizzare la produzione
artistica tutta ad un panorama di fruizione enormemente più vasto, prendendo coscienza di tale ineliminabile necessità connessa alla struttura stessa di una società
sempre più massificata, con margini di possibilità fruitiva, sia economica, sia culturale, sempre più ampi e sempre più mobili. Lo spostamento di pubblico, ossia
il rapido passaggio da un pubblico estremamente elitario e ristretto ad un pubblico
ben più vasto e variegato, implica l’urgenza di reperimento di nuovi veicoli comunicativi e di nuovi supporti materiali per la circolazione degli oggetti d’arte; ed
implica, inoltre, nuovi stimoli esercitati su chi l’arte la produce, così da cominciare
ad introdurre inedite forme espressive, concepite per essere accessibili ad un pubblico meno omologato e che, del resto, attinge a sfere di sensibilità estetica e ad
aree di esperienza più ricche e poliformi.
Eppure l’idea di riproducibilità tecnica non è del tutto nuova, per quanto lo sia
nel suo stato più attuale e moderno; ha attraversato, nel corso della storia, alcune
significative tappe, che hanno a loro volta contribuito alla generazione di piccole o
12
Walter Benjamin si formò a Berna e successivamente si trasferì a Parigi; collaborò inoltre con
la Scuola di Francoforte.
13
Il saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” venne pubblicato nel 1936
all’interno della rivista Zeitschrift für Sozialforschung, diretta da Adorno, Horkheimer e Marcuse,
oltre che dallo stesso Benjamin.
10
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
grandi rivoluzioni all’interno della vita dell’arte. «In linea di principio», afferma
Benjamin, «l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini
ha sempre potuto essere rifatta da uomini. Simili riproduzioni venivano realizzate
dagli allievi per esercitarsi nell’arte, dai maestri per diffondere le opere, infine da
terzi semplicemente avidi di guadagni. La riproduzione tecnica dell’opera d’arte
è invece qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate
spesso lontane l’una dall’altra, e tuttavia con una crescente intensità» 14 .
Ecco le tappe più significative individuate da Benjamin a questo proposito:
innanzitutto la fusione ed il conio di epoca greca, attraverso cui era possibile riprodurre e moltiplicare monete e terrecotte; poi la silografia, introdotta dall’arte
cinese a partire dal 500 d.C., con cui divenne riproducibile la grafica e con essa
la scrittura, prima dell’introduzione della stampa a caratteri mobili; l’arte medievale introdusse successivamente le tecniche dell’acquaforte e della puntasecca ed
infine, nel corso del 1800, la litografia raggiunse un livello di precisione molto più
alto, sostituendo, nella maggior parte dei casi, le tecniche precedenti.
Ma al di là dell’evoluzione storica delle tecniche riproduttive, è ancor più interessante riflettere sulla radice concettuale vera e propria che Benjamin rintraccia
dietro ad ogni possibile tentativo di contrastarle o, quantomeno, di ribadire con
forza, di fronte ad esse, il valore dell’autenticità: si tratta del rito, della dimensione
simbolica a cui aspira ogni oggetto artistico od anche semplicemente estetico. Benjamin non esplicita del tutto il senso di questa intuizione; si potrebbe supporre che
nel rito l’idea di autenticità si innalzi a simbolo, trasferendo su un piano astratto
l’aspirazione all’eterno che ogni espressione d’arte porta inevitabilmente con sé;
in questo senso, il rito sublima un contenuto concreto, rintracciando nell’idea di
unicum irriproducibile l’istante stesso in cui prende vita una via attraverso cui la
forza creativa dell’uomo rompa ogni vincolo che la leghi alla mondanità corruttibile, elevando se stessa ed il proprio creatore ad universi ben più rassicuranti e
sensibilmente meno fragili ed instabili.
In ogni caso, una seconda considerazione è particolarmente significativa: il rito
connette l’idea di autenticità all’idea di attualizzazione della bellezza, poiché quest’ultima, rivestendo il ruolo di linfa vitale che spinga l’arte all’idealità, diviene a
sua volta cifra di autenticità, del resto inconcepibile al di fuori di essa; e la bellezza, inoltre, assume anch’essa i connotati di vero e proprio rito, trasformandosi in
oggetto di culto profano.
Diviene più comprensibile, alla luce di queste considerazioni, quale dirompente rivoluzione si introduca con l’affacciarsi, nel mondo dell’arte, di tecniche
di riproducibilità pienamente efficaci e soddisfacenti nell’assolvimento della loro
stessa funzione: la fotografia, in particolare, minaccia di condurre ad una vera e
propria frantumazione della ragion d’essere dell’idea stessa di autenticità, poiché
non è più concepibile, in questo caso, neppure parlare di rilevanza estetica od artistica di un qualsivoglia unicum. Ecco la conseguenza: «la riproducibilità tecnica
14
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini,
Einaudi, Torino 1966, p. 20.
11
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima
dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. L’opera d’arte riprodotta
diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta
alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una
serie di stampe; la questione della stampa autentica non ha senso» 15 .
Ma la vera rivoluzione sta in un’ulteriore conseguenza a tutto quanto messo in
atto, poiché nell’istante stesso in cui «il criterio dell’autenticità nella produzione
dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della
sua fondazione nel rituale s’insinua la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il
suo fondarsi sulla politica»16 .
In realtà, al di là del particolare tipo di passaggio che Benjamin identifica, in
questa sede preme evidenziare l’intimo senso e l’intima significanza del solo fatto
che sia avvenuto un passaggio: l’evento rappresentato dalla possibilità concreta di
riprodurre un’opera in infinite copie incide profondamente sul significato di artisticità e genera una crisi davvero sostanziale di ogni criterio già dato come custode
di senso e di valore. Se si ammette la possibilità di riproducibilità tecnica, occorre necessariamente rifondare su nuove basi le condizioni che fanno dei prodotti
umani oggetti d’arte, passando dalla convinzione che una di queste condizioni risieda nell’idea di unicità ed autenticità, alla constatazione che l’arte possa prender
vita anche al di fuori di essa, generandosi in territori del tutto distanti da quelli tradizionalmente percorsi, che si rivelano ora fertilissime alcove di produzione
artistica.
Unicità ed autenticità sono strettamente connesse: in un certo qual modo la
prima è garanzia della seconda, nel senso che nell’individuazione di un oggetto
come unicum diviene possibile conferire ad esso assoluta originalità e, soprattutto,
assoluta verità, ovvero capacità di diventare anche, ed in senso pieno, autorevole
testimone storico di un’epoca ben definita, della produzione di un particolare artista
e della sua stessa poetica. L’assenza di unicità crea assenza di autenticità, poiché
“anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento:
l’hic et nunc dell’opera d’arte”17 . È proprio l’hic et nunc la chiave essenziale che,
secondo Benjamin, custodisce il concetto dell’autenticità di ogni opera d’arte: la
possibilità di individuare un unico evento, temporale e spaziale, in cui l’arte prenda
vita, non soltanto la mette a riparo da qualunque tentativo di falsificazione, a cui
mancherà sempre e comunque, come sottolineava Goodman, l’effettiva storia di
creazione e produzione dell’oggetto originario; esiste un secondo importante privilegio: l’arte assume per caratteristiche intrinseche e genetiche uno statuto ontologico di assoluta specialità, al punto da escludere a priori che possa anche soltanto
15
Ibid., pp. 26-27.
Ibid., p. 27. In effetti, la questione legata alla funzionalità politica dell’arte è di grande interesse
per Benjamin, che chiude con queste parole la premessa scritta per il proprio saggio: «I concetti che
in quanto segue vengono introdotti per la prima volta nella teoria dell’arte si distinguono da quelli
correnti per il fatto di essere del tutto inutilizzabili ai fini del fascismo. Per converso, essi sono
utilizzabili per la formulazione di esigenze rivoluzionarie nella politica culturale».
17
Ibid., p. 22.
16
12
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
considerarsi pensabile la duplicazione o la moltiplicazione di un’opera, il cui più
sublime senso risiede precisamente nella coscienza dell’impossibilità di poter mai
ripetere la magia della sua stessa creazione. Il vero capolavoro, in fondo, non può
che darsi una ed una sola volta soltanto.
La riproducibilità tecnica non fa che svilire l’intimo senso dell’autenticità stessa, indebolendo con forza la possibilità di identificare un qualsivoglia hic et nunc,
che smarrisce inesorabilmente la propria effettiva esistenza; e con esso, altrettanto
inesorabilmente, perde la propria efficacia il valore che l’opera possiede come testimone storico, fondato com’è sull’autenticità; ed ancora, «ciò che così prende a
vacillare è precisamente l’autorità della cosa» 18 .
Il senso attribuito a quest’ultimo concetto, ovvero a quello di “autorità”, è di
grande interesse. Occorre seguire ancora qualche passo della riflessione di Goodman per poterlo focalizzare con più precisione: «Ciò che viene meno è insomma
quanto può essere riassunto con la nozione di aura; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’aura dell’opera d’arte. Il processo è
sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito
della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento
unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire
incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano ad un violento rivolgimento che investe ciò che
viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi
attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità» 19 .
Ecco che si tocca il nucleo più profondo della riflessione di Benjamin: il concetto di perdita dell’aura. È un concetto affine a quello già toccato di laicizzazione,
di immersione mondana dell’arte: si tratta di un vigoroso spostamento di punto di
vista che determina una percezione dell’arte del tutto diversa, non più intoccabile e
collocata in una sorta di universo sovrumano, bensì profondamente intrecciata alla
vita in ogni sua possibile manifestazione, profondamente umana, insomma. Ma c’è
dell’altro. Più che altrove, perdita dell’aura per Benjamin significa prioritariamente
dare il via ad un sensibile processo di democratizzazione, avvertita, quest’ultima,
come uno dei più importanti ed auspicabili esiti della rivoluzione artistica contemporanea, volti a trasformare radicalmente il rapporto tra oggetto d’arte e pubblico;
modalità di diffusione, di circolazione e di fruizione cambiano, segnate da un unico
denominatore comune: la tensione ad abbracciare zone d’ombra sempre più vaste
e a creare vie di percezione artistica ben più accessibili, in cui non solo il pubblico
possa reperire nuovi ausili e sostegni per avvicinarsi all’opera d’arte, ma in cui anche quest’ultima trasformi il proprio modo di darsi al mondo, accostandosi molto
più fortemente ad esso, in favore di una più appagante fruizione ed in favore della
propria stessa vita.
18
19
Ibid., p. 23.
Ibid.
13
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Tutto questo in Benjamin assume quasi sempre tratti velatamente od esplicitamente politici, nel senso che l’arte, in ogni caso, così come del resto accade in
qualsiasi altra forma di veicolo comunicativo, porta con sé l’emersione di problemi di più vasta scala e struttura, coinvolgendo socialità, cultura, potere, umanità
in senso lato: «è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la sempre maggiore importanza delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose,
spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la
ricezione della sua riproduzione» 20 .
Ed il senso di “più vicine”, a ben guardare, è connesso anche alla semplice possibilità di riprodurre fotograficamente immagini di opere d’arte, cosicché sia loro
concessa una penetrazione, seppure fortemente mediata e quindi parziale, laddove
mai, prima d’ora, l’arte abbia potuto (e voluto) spingersi: «Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto ad
una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effige, nella riproduzione. E inequivocabilmente la riproduzione, quale viene proposta dai
giornali illustrati o dai settimanali, si differenzia dall’immagine diretta, dal quadro. L’unicità e la durata s’intrecciano strettissimamente in quest’ultimo, quanto
la labilità e la ripetibilità nella prima. La liberazione dell’oggetto dalla sua guaina,
la distruzione dell’aura sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità
per ciò che nel mondo è dello stesso genere è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è
unico»21 .
Benjamin propone un esempio illuminante per chiarire quale sia la modalità
attraverso cui arte e tecnologia incrociano i loro rispettivi percorsi a favore di un
allargamento fruitivo. La fotografia, in particolare, oltre ad essere un’arte entro
certe condizioni ed intenzionalità, può divenire prezioso strumento di indagine artistica, fornendo vie di accesso ad essa più accurate e precise, nonché assicurando
ai risultati ottenuti una più immediata, agile ed economica via di diffusione; l’obiettivo può svelare particolari aspetti altrimenti irraggiungibili, può far luce su
dettagli diversamente trascurati, può consentire una simultanea visione di più punti, piani, livelli che in condizioni normali escluderebbero l’uno la vista dell’altro;
può, inoltre, godere del supporto di meccanismi di ingrandimento, riduzione, modificazione della luce e dei contrasti, che permettono di accedere a punti di vista altrimenti non scrutabili. In altre parole, la tecnologia diviene compatibile con la vita
dell’arte quando si accorda con gli intenti conoscitivi che tentano di comprenderla, trasformandosi in sostegno e rafforzamento degli stessi canali percettivi umani
(o, talvolta, introducendone alcuni del tutto nuovi). In questo senso, ogni tipo di
ausilio tecnico riproduttivo può introdurre una copia dell’originale, per quanto on20
Ibid., p. 25.
Ibid. Conclude poco oltre l’autore: «L’adeguazione della realtà alle masse e delle masse alla
realtà è un processo di portata illimitata sia per il pensiero sia per l’intuizione».
21
14
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
tologicamente differente dall’originale, «in situazioni che all’originale stesso non
sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella
forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione
per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in
un auditorio oppure all’aria aperta può venir ascoltato in una camera» 22 .
Altra straordinaria apertura tocca il cinema. Certo, si è distanti dalla particolarissima ed esclusiva atmosfera del teatro: là si conserva l’hic et nunc, il segno
più evidente dell’intatta autenticità, la cifra immediatamente percepibile di un’aura
che continua a sopravvivere indisturbata, grazie ad una linfa vitale che le deriva da
attori che in un tempo preciso e determinato, in uno spazio preciso e determinato,
animano un dramma che ogni volta non può che costituire un evento unico ed irripetibile, assoluto ed inafferrabile. Qui, invece, nel cinema, dramma ed attore smarriscono la propria aura, così come smarriscono un pubblico che contribuisca ogni
volta, ed ogni volta in maniera unica ed irripetibile, a trasformare l’interpretazione
artistica dell’opera messa in scena.
Nel cinema l’hic et nunc scompare irrimediabilmente. Eppure è arte. Non esiste un tempo che si dia una volta per tutte, non esiste uno spazio che lo accompagni costantemente e coerentemente; il vero oggetto d’arte, ossia l’opera compiuta,
non è altro che il risultato di ritagli e sovrapposizioni, giustapposizioni e profonde
modificazioni che ogni singolo frammento di pellicola subisce. L’hic et nunc, se
proprio è da doversi rintracciare, sta in quell’oggetto infine realizzato e riprodotto
in infinite copie, non certo nelle sue fasi di preparazione, in cui persino la recitazione subisce forti deformazioni, compressioni, dilatazioni che determinano la
frammentazione dell’unità del personaggio, nonché della sua stessa storia.
Eppure, tutto questo processo di demolizione di unicità lavora per l’arte, per
quanto apparentemente (e classicamente) paradossale: «Da tempo gli studiosi specializzati hanno riconosciuto che nello spettacolo cinematografico “si ottengono
quasi sempre i maggiori risultati quando si recita il meno possibile [. . . ] Lo sviluppo più recente” è definito nel 1932 da Arnheim come un modo di fare che “tratta
l’attore alla stregua di un attrezzo, che viene scelto in base a determinate caratteristiche e [. . . ] sistemato al posto giusto”. A ciò va connesso intimamente un altro
elemento. L’attore che agisce sul palcoscenico, si identifica in una parte. Ciò è
spessissimo negato all’interprete cinematografico. La sua prestazione non è mai
unitaria, è bensì composta di numerose singole prestazioni» 23 . In particolare: «All’interprete può venir imposto di trasalire in seguito a un colpo bussato alla porta. È
possibile che questo trasalimento non venga eseguito secondo quanto è desiderato.
Allora il regista può ricorrere all’espediente, una volta che l’interprete si trovi di
nuovo nello studio, di fargli sparare alle spalle, senza che egli lo sappia, un colpo
d’arma da fuoco. Lo spavento dell’interprete può venir ripreso istantaneamente e
poi venir montato nel film. Nulla mostra in modo più drastico come l’arte sia sfuggita al regno della bella apparenza, cioè a quel regno che per tanto tempo è stato
22
23
Ibid., p. 22-23.
Ibid., p. 33.
15
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
considerato l’unico in cui essa potesse fiorire» 24 .
Non che l’arte ottenuta da accorgimenti esplicitamente “falsi” non sia arte,
quindi (e, del resto, ogni arte, per quanto classica e tradizionale, si appoggia ad
espedienti di natura più o meno evidentemente tecnica e ben poco connessi a forme
di autentica e pura ispirazione). Si tratta semplicemente di altro genere di arte, con
regole differenti, proprie, che reclamano a gran voce necessità di accoglimento e
spazio di vita, nonché legittimazione e pieno riconoscimento come arte vera ed
altrettanto dignitosa.
Non è casuale l’attenzione particolarmente rilevante che Benjamin dedica al
cinema: gli consente un ulteriore passo, che ha a che fare con il contributo che l’arte, e soprattutto questo nuovo tipo di arte germogliata attorno alle propaggini del
mondo della tecnica e della tecnologia, può offrire alla conoscenza ed alla scienza.
Il punto è che la focalizzazione che il cinema mette in atto sulla realtà può rivelarsi ben più sfaccettata, multiforme e complessa di quella di un quadro o di una
rappresentazione teatrale; i punti di vista si moltiplicano, così come angolazioni,
sguardi, prospettive; ed ancora, si introduce, quantomeno in potenza, una maggiore
opportunità di penetrazione analitica, sorretta dall’occasione di poter ingrandire a
piacere il più piccolo ed apparentemente insignificante dettaglio, facendo luce su
ripieghi, risvolti e sfumature altrimenti assai poco accessibili. Si tratta, in sintesi, di accresciuta capacità di analisi (e di analizzabilità del risultato); tutto questo
comporta «una tendenza a promuovere la vicendevole compenetrazione tra l’arte e
la scienza. Infatti, di un atteggiamento chiaramente circoscritto nell’ambito di una
determinata situazione – come di un muscolo in un corpo – è difficile dire che cosa sia più affascinante: il suo valore artistico o la sua applicabilità scientifica. Una
delle funzioni rivoluzionarie del cinema sarà quella di far riconoscere l’identità dell’utilizzazione artistica e dell’utilizzazione scientifica della fotografia, che prima in
genere divergevano»25 . La maggiore analiticità propria della via d’espressione artistica, quindi, non ne svilisce certo portata e valore: senza rinunciare a nulla di
tutto ciò, accade che possa intrecciare una produttiva relazione con la scienza, offrendole nuove aperture sul mondo e nuovi spiragli interpretativi. Scienza ed arte
possono collaborare l’una con l’altra senza dover perdere, reciprocamente, qualcosa di sé e della propria specificità: la scienza non è in minor grado scienza, l’arte
non è in minor grado arte. Risultato, questo, che si aggiunge ai numerosi esiti affini
a cui, in alcuni casi, si è già avuto modo di far cenno. Sembra che la relazione tra
le due polarità tradizionalmente contrapposte ed incomunicabili, se si escludono
24
Ibid., p. 34.
Ibid., p. 41. Aggiunge Benjamin: «Mentre il cinema, mediante i primi piani di certi elementi dell’inventario, mediante l’accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali,
mediante l’analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell’obiettivo, aumenta da un lato
la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esperienza, riesce dall’altro anche a garantirci un margine di libertà enorme e imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre
metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo
ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere
tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine».
25
16
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
rare infrazioni ed eccezioni, sia destinata ad un progressivo rafforzamento a partire dall’istante stesso in cui l’arte si affranca dall’esclusivo rapporto con l’estetica,
invadendo con forza sempre crescente territori del tutto nuovi ed assai lontani dal
propri consueti confini.
Ed ora, un passo indietro. Si era partiti da una frase di Banfi, di grande provocazione. Si è riflettuto su alcuni spunti teorici offerti dalle ricerche di Goodman e
di Benjanim: l’uno orientato a rifondare e limitare la validità del criterio di unicità
in applicazione alla valutazione artistica, sottolineando, tra l’altro, come si debba
necessariamente superare una focalizzazione puramente estetica per la comprensione di un qualsiasi oggetto d’arte, abbracciando piuttosto norme e strumenti di
indagine di tipo storico; l’altro, con una singolare capacità di sguardo sul futuro e
di apertura ad esso, volto a dichiarare l’irrimediabilità della perdita dell’aura nell’evoluzione artistica contemporanea, affiancando a tutto questo una riflessione sulla
positività di tale occorrenza, specie se proiettata sulle questioni relative a fruizione,
pubblico ed accessibilità dell’arte. Benjamin tocca anche alcuni tra gli enigmi più
strettamente connessi alla produzione industriale, sostenendo, ad esempio, l’inevitabile debordamento dal senso di unicum di alcune espressioni artistiche generate
già come tecnicamente riproducibili, come la fotografia. Si concentra, in ogni caso, sulla questione della riproduzione come strumento divulgativo, da un lato, ed
analitico, dall’altro.
Banfi, per certi aspetti, sembra proseguire. Tocca arditamente soglie ancor
più lontane, totalmente immerse nel mondo della riproduzione seriale di tipo industriale, di cui dichiara il valore e l’occorrenza al di là dei più immediati ritorni
funzionali per la comprensione e per la diffusione di forme artistiche più tradizionali e consuete: «l’artisticità investe la macchina come tale, per riguardo alla sua
funzione, nell’autonomia delle sue parti, nelle caratteristiche strumentali dei suoi
prodotti»26 . Prende vita una vera e propria rivoluzione: «È dunque per la prima
volta tutto il mondo della macchina – relegato dal romanticismo borghese nei bassifondi dell’utilitarietà – che afferma non solo la sua potenza, ma la sua umana
creatrice significazione attraverso l’interpretazione artistica» 27 .
Non soltanto, quindi, la macchina si fa strumento e supporto per la creazione
artistica, ma diviene essa stessa portatrice di artisticità, entrando a far pienamente
parte della vita dell’arte e generandone nuove ramificazioni. L’unicum non è più
criterio legittimo di demarcazione artistica: l’arte può sorgere indifferentemente al
suo interno o molto al di fuori di esso, non determinando per questo la necessità
di dover definire soglie gerarchiche che separino i diversi generi artistici a seconda
della loro provenienza originaria e, per così dire, genetica. L’autenticità, d’altro
canto, si sposta dall’unicum ad altro: è autentica ogni opera in cui si realizzi una
particolarissima, speciale sintesi tra io e mondo, si potrebbe supporre che Banfi,
infine, suggerirebbe. È autentica una certa forma ed una certa intensità di forza
espressiva, qualunque canale comunicativo la veicoli.
26
27
A. Banfi, “Arte e socialità”, in op. cit., pp. 268-269.
Ibid., p. 269.
17
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
È il caso di concludere ricordando le parole con cui si chiude il saggio relativo
al rapporto tra arte e funzionalità. Dopo aver provocato, dichiarando l’intrinseca
pregiudizialità che in verità anima ogni idea di supposta contraddizione tra arte,
da un lato, e produzione industriale in serie, dall’altro, Banfi conclude: «Il pezzo
unico, sul mercato artigianale, ha un valore morale e materiale che spesso poco ha a
che fare col suo pregio artistico. E il lavoro industriale può garantire un progetto di
grande perfezione, una materia adatta, una forma raffinata di accorgimenti tecnici,
una sensibilità al variare e al diffondersi delle esigenze e dei gusti. Può soprattutto
assicurare all’artisticità un sempre più largo campo, una sempre più immediata
presenza liberatrice della vita, a tutta la vita di tutti, da sé ed in sé consacrantesi,
così che l’umanità vi si riconosca e vi si celebri, così che la benedizione dell’arte
accompagni ogni nostro lavoro e ogni nostro riposo, ogni nostra solitudine e ogni
nostro umano rapporto come la serena e fecondante luce del sole» 28 .
28
Ibid., p. 326.
18