In viaggio con Leopardi: La partita sul destino dell`uomo (Italian

LDB
Siamo capaci di reggere lo
spettacolo
dell’infelicità
generale?Diguardarealnulla
incuicimuoviamosenzaper
questo
perderci
nella
vertigine
della
sua
immensità?
L’opera
di
Leopardièunagrandecritica
della civiltà. Può sembrare
che egli stesso favorisca
l’impressione di muoversi
nella direzione indicata da
Rousseau. Eppure c’è ben
altro. Leopardi anticipa
Nietzsche, anticipa il cuore
del pensiero di Nietzsche: il
temadella“mortediDio”.
In viaggio con Leopardi
nasce come una partita a tre
sul
destino
dell’uomo.
LeopardièilGiocatoreNero,
il parricida che vede
l’incapacità del Giocatore
Bianco, cioè della tradizione
dell’Occidente,diarrestarela
frana gigantesca da cui è
travolto.Mainquestepagine
la partita è giocata anche da
un Terzo Giocatore, che in
realtà non “gioca” come gli
altri due ma vede tutto
l’errare e la violenza della
civiltà occidentale. Ed è
all’immensità di questo
vedere che si rivolgono le
pagine
di
Severino,
diventando uno strumento
prezioso di interpretazione
anche del nostro tempo e
dellenostrecosequotidiane.
EMANUELE SEVERINO,
accademico dei Lincei, è
autore di opere fondamentali
tradotte in varie lingue.
Scrive regolarmente sul
“Corriere della Sera”. Tra i
suoi ultimi libri ricordiamo
l’autobiografiaIlmioricordo
degli eterni (Rizzoli 2011),
Capitalismo senza futuro
(Rizzoli 2012), Intorno al
senso del nulla (Adelphi
2013) e La potenza
dell’errare(Rizzoli2013).
Emanuele
Severino
Inviaggiocon
Leopardi
Lapartitasuldestino
dell’uomo
Titolooriginale:Travelingwith
Leopardi
©2015EmanueleSeverino
PubblicatoperlaprimavoltainGran
BretagnadaWilliamHeinemannLtd
nel1949
PubblicatodaViragoPressnel1996
©2015RCSLibriS.p.A.,Milano
Primaedizionedigitale2015da
NuovaedizioneRizzoliNarrativa
marzo2015
ISBN978-88-58-67941-8
Incopertina:ArtDirectorFrancesca
Leoneschi
GraphicDesigner:AndreaCavallini/
theWorldofDOT
www.rizzoli.eu
Quest’operaèprotettadallaLeggesul
dirittod’autore.
Èvietataogniduplicazione,anche
parziale,nonautorizzata.
Istruzioniperlalettura
Il titolo di questo piccolo
libro sarebbe, propriamente,
Partita con il cantore della
morte. Ma potrebbe lasciare
perplessi. Lascia intendere
che il cantore della morte sia
Leopardi. Ma, se il tema
centrale fosse Leopardi, si
potrebbe dire che egli ha
cantato anche altro, oltre alla
morte. E non ha solo
«cantato»,cioèpoetato,maè
statoancheprosatore.
Epoi,apartequest’ordine
di considerazioni, perché
Leopardisarebbe«il»cantore
della morte? Di altri e
grandissimi cantori della
mortesiperdeilconto.Anzi,
non se ne trova uno, di poeti
o scrittori, che in qualche
modo non si riferisca alla
morte. Lo stesso si può dire
delle altre arti. Quando l’arte
figurativa mostra la bellezza,
lofaperfermarla:questosuo
gesto spicca sull’inevitabile
sfondodoveapparecheanche
la bellezza se ne va via. E
quando, agli inizi del XX
secolo, ogni forma di arte
mostra il dissolversi della
bellezza e della forma,
mostrando allo stesso tempo
l’impossibilitàdisottrarlealla
morte, porta in primo piano
ciò che prima aveva lasciato
sullosfondo.Ildissolversidel
mondo, rappresentato dal
suono,èiltemacentraledella
musica, che non ha bisogno
di diventare atonale per
rendere manifesto il divenire
edunqueilmoriredellecose.
Dunque, daccapo, perché
Leopardisarebbe«il»cantore
dellamorte?
Un primo passo in
direzione della risposta
consiste nel rendersi conto
che Leopardi, oltre a trovarsi
al culmine della poesia, si
trova anche al culmine della
storia del pensiero filosofico.
Ma è una risposta che
infastidisce ancora di più
della domanda. Leopardi al
culmine della filosofia? Sì,
recentementeilsuoZibaldone
di pensieri è stato tradotto
negli Stati Uniti. Un grande
successo, sembra. Ma una
delleragioniditalesuccesso,
non secondaria, è stata la
compiaciuta
ammirazione
derivante dal fatto che il
poeta italiano conoscesse
Locke. È ovvio che, quando
di Leopardi diciamo che egli
sta anche al culmine della
filosofia, non lo diciamo per
la sua conoscenza della
filosofia inglese del XVII
secolo.
Nel1990hopubblicatoIl
nulla e la poesia. Alla fine
dell’età
della
tecnica:
Leopardi, e nel 1997 Cosa
arcana
e
stupenda.
L’Occidente e Leopardi.
Intendono rispondere a
domandecomequelleacuici
siamo riferiti qui sopra. E
anche in altre occasioni sono
ritornato su questi temi. In
queste pagine si intende
presentare il nucleo della
questione
che
riguarda
Leopardi. In questo senso è
rivolto a un pubblico più
ampio.
Chi,
leggendo,
sentisse il bisogno di
approfondimentiediulteriori
chiarimenti può consultare
quei due saggi. D’altra parte
le pagine che ora presento li
ripropongono in modo nuovo
e con nuovi spunti. Ma al
pubblico a cui esse
vorrebbero riferirsi va detto
qualcosa di più: alcune
istruzioni, appunto, per la
lettura.
L’opera di Leopardi è una
grande critica della civiltà.
Può sembrare che egli stesso
favorisca l’impressione di
muoversi nella direzione
indicatadaRousseau.Eppure
c’è ben altro. Leopardi
anticipaNietzsche,anticipail
cuore del pensiero di
Nietzsche: il tema della
«morte di Dio». Quando
arriva a questo punto, il
lettorepuòtrovarelacosapiù
omenointeressante.Cheperò
riguarda le opinioni dei
filosofi e dei letterati. Il
mondo va avanti. Ma,
chiediamoci,
va
avanti
indipendentemente
dalle
opinioniumane?Quelledegli
uomini comuni e di quelli
meno comuni che escogitano
le varie tecniche di
sopravvivenza, «materiali» e
«spirituali»?
L’uomo non può agire se
inqualchemodononconosce
il mondo in cui agisce. Le
idee guidano le azioni. Marx
sostiene che le idee derivano
dal modo in cui l’uomo
produce le cose che gli
servono… e per certi tipi di
idee la sua prospettiva può
autorizzarlo a dirlo. Ma per
produrre le cose è pur
necessario sapere qualcosa
riguardo a esse. Per lo meno
che sono disponibili al loro
venir prodotte e distrutte. Il
che, se può sembrare
irrilevante, non è idea da
poco. Anzi, è l’idea sul cui
fondamento
i
mortali
regolano ogni loro azione e
pensiero.
Leopardianticipailcuore
del pensiero di Nietzsche: il
tema della «morte di Dio».
Ora aggiungiamo: la «morte
di Dio» è inevitabile. E
Leopardi, per primo nella
storia dell’Occidente, mostra
questa inevitabilità. Appunto
perquestodiciamocheilsuo
pensiero sta al culmine della
storiadelpensierofilosofico.
L’affermazionecheegliè
il cantore della morte si
riferisce innanzitutto alla
morte patita dagli uomini e
dal loro mondo. Ma c’è
bisogno di «cantarla»? I
mortalilaritengonoevidente.
E allora non è retorica fuori
luogo dire che essa è
«cantata»? La risposta a
questa domanda è affidata
allepaginecheseguono.
Quidiciamochelamorte
dell’uomo ha un senso
radicalmente
diverso
a
seconda che un Dio eterno
esista oppure sia soltanto
un’illusione dei mortali.
Inoltre (ed è l’aspetto
fondamentaledellaquestione;
peraltro
strettamente
intrecciato alla «morte di
Dio»), la morte di cui parla
Leopardi conserva e rende
estremo il significato che la
filosofia,sindalsuoinizio,le
ha conferito: la morte, intesa
comeannullamentodiciòche
muore. Il nulla è il grande
temadellaciviltàoccidentale.
Che è la più attiva e la più
ricca, la più sapiente e
potente,perchélottacontroil
nemico più temibile, che per
giuntaessastessahaevocato:
ilnulla.
Leopardièilcantoredella
morteperché,propriamente,è
ilcantoredelnulla.
A questo punto, le
«istruzioni per la lettura» di
queste pagine possono venir
formulatenelmodoseguente.
La «partita con il cantore
della morte» è giocata
soprattutto da tre giocatori,
per questo è la partita con il
destinodell’uomo.
IlGiocatore Bianco. Egli
è la tradizione della civiltà
occidentale.Ècioèilpensiero
eleopereditaletradizione.Il
Giocatore Bianco ritiene di
avere la capacità di mostrare
che il mondo, in tutti i suoi
aspetti,esisteall’internodiun
Ordine e di un sistema di
Leggi immutabili che si
fondano sul Principio divino
ed eterno di tutte le cose.
Questa convinzione è l’idea
che guida le azioni umane
compiute lungo tutta la
tradizione
dell’Occidente.
Esse possono sì violare
l’Ordine e le Leggi del
mondo, ma alla fine i
trasgressori saranno raggiunti
dallagiustiziadiDio;edessi
stessi agiscono o con la
consapevolezza più o meno
esplicita di trasgredire, o col
dubbio di andare contro la
volontà di Dio. La tradizione
dell’Occidente nasce col
pensiero filosofico dei Greci
ed è potentemente rafforzata
dal
cristianesimo.
Sul
versante dell’idea, ha la sua
ultima e più grande
espressione nella filosofia di
Hegel. Sul versante delle
opere,siconcludeconlacrisi
dello Stato assoluto, che
rappresenta il potere di Dio
sullaTerra.
Il Giocatore Nero, in
queste pagine, è Leopardi.
Dico «in queste pagine»,
perchéseLeopardièilprimo
a incominciare la partita con
il Giocatore Bianco, e a
vincerla, egli si trova però
insieme ad altri (che altrove
hoconsiderato).Moltopochi,
peraltro. Il Giocatore Nero
vince sul piano dei concetti.
Da parte sua, il Giocatore
Bianco, ancora oggi, non si
sente sconfitto: né sul piano
dei concetti, né su quello
delleopere.Questo,anchese
èdiffusaefortelapercezione
che, in ogni campo, lo
spaesamento e il disagio del
mondo siano enormemente
aumentati.
Il
mondo,
visibilmente, «non è più
quellodiunavolta».Leopardi
è capace, insieme a pochi
altri, di scorgere le ragioni
dell’immensa frana di più di
due millenni di civiltà. (Non
si
capisce
alcunché
dell’attuale crisi economica
senonlasiinscriveinquesta
frana.)
Insieme a pochi altri –
Nietzsche e Gentile, per
esempio – Leopardi scorge
quelle ragioni. La tradizione
dell’Occidente è pertanto
un’immensa
vegetazione
essiccata. C’è chi, vedendo
che le foglie sono ancora
attaccateairami,puòcredere
che sia ancora viva. Ma non
sidevenemmenocredereche
l’evento
risolutore
e
chiarificante sarà il gran
colpodiventochefaràcadere
le
foglie.
L’evento
autenticamente risolutore e
chiarificante è sapere perché
l’immensa vegetazione si è
essiccata:
perché
era
inevitabilecheciòaccadesse.
Ilsottosuolodelnostrotempo
– che, come sempre è
accaduto, è un luogo
filosofico – è abitato da quei
pochi di cui abbiamo fatto i
nomi (ma è difficile
aggiungerne altri), cioè da
coloro che conoscono quei
perché.
Si consideri inoltre che il
Giocatore Nero gioca sulla
scacchiera che è stata
costruita dal Giocatore
Bianco. La scacchiera dove
per la prima volta il divenire
delle cose – la morte – è
pensatoevissutocomeilloro
uscire dal nulla e ritornarvi.
In questo senso il Giocatore
Nero, vincendo la partita, è
un parricida. Quella di cui
stiamo parlando è comunque
la scacchiera, evocata per la
prima volta dal pensiero
greco, su cui è stata ed è
giocata
l’intera
storia
dell’Occidente… e ormai
anche dell’Oriente – le
categoriecheatalescacchiera
competono essendo ormai
diventate anche le categorie
fondamentali
dell’Oriente
(che pertanto ha cessato di
essere
la
preistoria
dell’Occidente,cioèdiessere
illuogodoveildivenirenonè
ancora posto in relazione al
nulla).
Mainquestepaginelapartita
è giocata anche da un Terzo
Giocatore.Propriamente,egli
non «gioca» come gli altri
due. Quindi non è un
«giocatore». Non perché il
gioco sia qualcosa di poco
serio,chealuinonsiaddica.
Infatti si può ritenere che la
prima forma di gioco sia la
festa arcaica, dove i mortali
evocano e danno forma a
un’immagine della vita.
L’immaginerispecchialavita
ma, proprio perché è
immagine, li solleva al di
sopra dei pericoli della vita
stessa. In tale immagine i
mortali si sentono soprattutto
aldisopradellamorte,salvi.
Il gioco della festa arcaica è
tutt’altro che un semplice
«divertimento» (anche se in
quest’ultimo può trapelare
l’ecodiquella):èqualcosadi
molto«serio».
Propriamente, il Terzo
Giocatorenonèungiocatore.
Infatti,adifferenzadeglialtri
due che giocano sulla stessa
scacchiera, egli indica lo
Sguardochevedequalcosadi
mai visto dalle sapienze dei
mortali:loSguardo che vede
lagrandeepotentescacchiera
sbriciolarsi, cadere a pezzi,
non appoggiarsi ad alcunché;
essa che è invece il sostegno
su cui si appoggia e di cui si
alimenta tutto l’errare e tutta
la violenza dell’Occidente (e
ormaidelPianeta).Losfacelo
della
scacchiera
è
infinitamente più profondo
della frana della tradizione
occidentale, provocata dal
sottosuolo
abitato
dal
Giocatore Nero, e quindi dal
suo aver vinto la partita col
Bianco. Lo sfacelo della
scacchiera
coinvolge
entrambiiGiocatori.
Il Terzo Giocatore indica
loSguardochevedequalcosa
dimaivistodallasapienzadei
mortali.NonèloSguardo:lo
indica. (Ma tale Sguardo è
presentenelprofondodiogni
uomo.) All’immensità dello
Sguardo si rivolgono i miei
scritti – nei quali esso è
chiamato non di rado
«destino della verità». Essi
sono soltanto il dito che
indica l’Immenso, sono il
linguaggio che tenta di
esprimerlo: di esprimere ciò
che non è in alcun modo un
tentativo, ma già da sempre
sta al di sopra di ogni
tentativodistare.
In questa «partita», è
presenteilditoeillinguaggio
di cui stiamo dicendo, che
dunque
possono
venir
chiamati
il
«Terzo
Giocatore». Egli indica
l’anima
comune
del
GiocatoreBiancoedelNero,
illorogiocare,appunto,sulla
stessa
scacchiera.
Grandissimi giocatori, come
abbagliante è la luce di
Lucifero.
Testimoniano
l’Errore,
il
contenuto
dell’Errare. E il loro gesto è
essenziale, perché senza
l’Errore la Verità è
impossibile.
Il
Terzo
Giocatore si farà avanti a
partitamoltoinoltrata.D’altra
parte si assume il compito di
descriverel’interapartita,ein
questo senso incomincia a
parlare sin dall’inizio. In
seguitoparleràdisestesso.
Va anche detto, in queste
«istruzioni»,cheuncertotipo
di lettore potrebbe sentirsi a
disagioperl’ampiezzachein
queste pagine vien data al
tema della contraddizione
(cap.14ess.).Eglideveperò
tener presente che è la stessa
filosofiaaporrealcentroquel
tema. Se si volesse scrivere
un libro «facile» sul senso
della filosofia, che non
includesse il tema della
contraddizione, non sarebbe
un libro sulla filosofia. Ed è
dalla filosofia che la scienza
eredita tale senso. Inoltre è
Leopardi stesso ad affrontare
sin dall’inizio il tema della
contraddizione e a porlo al
centro del suo pensiero.
Leopardi vince la partita col
Giocatore Bianco perché lo
vede portatore di una
contraddizione fondamentale.
Elosfacelodellascacchiera–
che può apparire soltanto
nello Sguardo del destino
dellaverità–consistenelsuo
essere
la
suprema
contraddizione, infinitamente
più profonda, presente in
entrambiiGiocatori.
D’altra parte esiste tutta
una rosa di concetti il cui
significato si è per lo più
convinti di capire, ma la cui
anima è, appunto, la
contraddizione. Si tratta per
esempio dei concetti di
«lotta», «urto», «odio»,
«dissidio interiore» (dal
«vorrei e non vorrei» di
Zerlina nel Don Giovanni di
Mozart all’esclamazione di
Faust: «Due anime abitano,
ah, nel mio petto!», alla lotta
tra Amore e Morte di cui
parla Freud), «disagio»,
«infelicità». Ed è sempre in
relazione a essi che si
sviluppa il pensiero di
Leopardi
sulla
contraddizione. Il contenuto
dellaqualeèciòchenonpuò
esistere;eil«principiodinon
contraddizione»
esprime
appunto questa impossibilità.
Tuttavia, dopo aver tentato
strenuamente di circoscrivere
lasuaviolazione,Leopardisi
convinceràdidovernegarein
ognicampo questo principio,
e di dover affermare
l’esistenza universale della
contraddizione. Non c’è
bisogno di sottolineare
l’audacia di questa tesi. Ma
profonde sono le sue
ripercussioni sul pensiero di
Leopardi e sulla partita che
egli gioca con la tradizione
dell’Occidente.
Ringrazio infine gli amici di
Rizzoli
per
l’amabile
insistenza con cui mi hanno
convinto dell’opportunità di
ritornareancoraunavoltasul
pensierodiLeopardi.
1
Piangereimorti
«Non vogliamo, fratelli,
lasciarvi nell’ignoranza a
proposito di quelli che sono
morti, perché non siate tristi
come gli altri che non hanno
speranza. Se infatti crediamo
che Gesù è morto e risorto,
cosìancheDio,permezzodi
Gesù,raduneràconluicoloro
chesonomorti.»
Così scrive l’apostolo
Paolo nella Prima lettera ai
Tessalonicesi.
Anche
i
Vangeli esprimono questa
convinzione. Chi piange i
propri morti non sa che
anch’essi risorgono. Come è
risorto Gesù. Quando il
cristianesimo assimilerà la
filosofia greca, aggiungerà
chel’animaumananonèmai
morta: è immortale. Un altro
motivo per non piangere i
nostri morti. Solo il corpo è
andato
distrutto.
Ma
risorgerà. I morti non sono
veramentemorti.Cosìparlail
GiocatoreBianco.
Eppuresipuòreplicare.Il
Giocatore Nero ribatte che è
naturalepiangereimortiche
abbiamo amato. È secondo
natura. Se questa sua replica
fosse vera, si dovrebbe dire
cheilcristianesimoè«contro
natura». Li si piange
istintivamente, egli dice,
«senza ragionare». Il pianto
«è un puro sentimento». Li
piangiamoperché,«seguendo
unsentimentointimo,esenza
ragionare», crediamo «che
essiabbianoperdutolavitae
l’essere». «Dunque noi non
crediamo
naturalmente
all’immortalità dell’animo;
anzi crediamo che i morti
siano morti veramente e non
vivi; e che colui ch’è morto
non sia più». Seguendo la
natura, crediamo che la vita
deimortisiaormainulla.Per
sempre. «Privato della vita e
dell’essere», chi muore è
diventatonulla,nonsarà«mai
più».Sipiangedunqueperlui
perchésicrede,naturalmente,
che questa privazione e
questo «mai più» sia
l’«ultima e irreparabile
disgrazia».
Perchéabbiamomessotra
virgolette molte espressioni
della replica ora richiamata?
Perché essa è di Giacomo
Leopardi. Il Giocatore Nero.
Il cantore della morte. La
replica si legge nelle pagine
4277-79 di quell’opera
gigantesca,
alla
quale
Leopardihalavoratopertutta
la vita, che ormai è
consuetudine
chiamare
Zibaldone. (Noi non lo
faremo.) Alla fine di quelle
pagine Leopardi appunta:
«Recanati. 9 aprile. Lunedì
Santo,1827».Annotadistare
scrivendo cose in cui si
voltano
le
spalle
al
cristianesimo e di scriverle
all’inizio della settimana che
per il mondo cristiano,
all’internodelqualeeglivive,
è«santa».
E come mai, tra i grandi
che hanno pensato la morte
con parole, musiche, figure
allontanandosi
dal
cristianesimo,
proprio
Leopardi? A questa seconda
domanda risponderanno le
pagine che seguono. Qui
limitiamoci
a
dire,
riprendendo quanto già si è
affermato nelle precedenti
«Istruzioni», che egli non
solo è tra i geni più grandi,
come poeta e come filosofo,
ma che la sua filosofia ha la
capacità di portare al
tramonto l’intera tradizione
dell’Occidente.
Decenni
prima di Nietzsche, Leopardi
apre la strada al tempo della
«morte di Dio». Il nostro
tempo. Certo, questa può
sembrare
un’affermazione
troppo
azzardata.
Per
esempio,lereligionieleloro
degenerazioni non sono forse
uno dei fenomeni più visibili
e dunque ben vivi del nostro
tempo?Ma,appunto,sidovrà
sentire che cosa risponde
Leopardi.
È andato annotando tutta
la vita quel che pensava in
campo filosofico, letterario,
religioso, filologico. Alla sua
morte venne rinvenuto un
gruppodimanoscrittidicirca
4500pagine,senzatitolo.Ma
Leopardi aveva sentito il
bisogno di fare un po’
d’ordine in quel materiale
enorme, tanto che nel 1827
aveva steso un indice
intitolato Indice del mio
Zibaldone di pensieri. La
parola«zibaldone»indicasìil
carattere di quei manoscritti,
ma indica anche una vivanda
composta
da
svariati
ingredienti. Qualcuno ha
accostato «zibaldone» a
«zabaione».
Sennonché
Leopardi è capace di
un’ironia sovrana. In modo
altrettanto
sovrano
sa
indirizzarlasudisé.Prendere
sul serio chi fa dell’ironia
sulla propria opera, e l’opera
contiene pietre preziose, è –
mi sembra – segno di cattivo
gusto e di poco spirito. Da
partemia,perevitarealmeno
in
questo
caso
tali
inconvenienti, dirò Pensieri
invece di Zibaldone – come
appunto ho fatto nei miei
scritti dedicati al pensiero di
Leopardi (e nelle citazioni
indicherò Pensieri
con
l’abbreviazioneP).
Ritorniamo alla replica
contenuta nelle pagine 427779 dei Pensieri. Parlando
della natura che ci fa
piangere i nostri morti, la
replica non si confronta con
l’apostolo Paolo. Ma il
riferimento al cristianesimo è
implicito nel suo modo di
rifiutare, si è visto, la tesi
dell’immortalità dell’anima.
Nei Pensieri le numerose
pagine che riguardano il
cristianesimo
hanno
un’importanza
centrale.
Altrettanto centrale la critica
a Platone e alla sua dottrina
dell’immortalità (e anzi
dell’eternità)dell’anima.
La natura, dunque. Un
concetto
complesso,
nell’opera di Leopardi. Nel
passosulcompiantodeimorti
la natura mostra uno dei lati
di questa complessità: la
naturaèilnostrodesideriodi
essere felici. È presente
nell’uomo inteso sia come
genere sia come individuo. E
ognuno la felicità la desidera
perséeperchiama.Amiamo
una
persona
quando
desideriamocheancheleisia
felice. Dunque, quando
accade che muoia, l’istinto
naturale ce la fa piangere
perché crediamo che non
possa più esser felice, «mai
più» felice; e che nemmeno
noi possiamo continuare a
esser felici per la sua
presenza,lasuavita,perquel
che c’è stato tra noi. Se cioè
vogliamo sapere «quel che
passa nell’animo nostro»
quando muore chi amiamo –
quel che naturalmente,
istintivamente vi passa –,
«troveremo che il pensiero
che
principalmente
ci
commuove, è questo: egli è
stato,eglinonèpiù,iononlo
vedròpiù»(P4278).Unanno
dopo Leopardi scrive A
Silvia; due anni dopo Le
ricordanze. Due dei suoi
Canti più alti. Canta il «mai
più» di Silvia e di Nerina.
Canta? Non è stridente il
cantare la morte di due
ragazzecheeglihaamato?La
risposta è negativa. Quando
mostreremo
perché,
ci
troveremo dinanzi a uno dei
temi decisivi del pensiero di
Leopardi.
Va però anche osservato
(qualcheriservalarenderemo
esplicita più avanti) che
Leopardi considera il pianto
per
i
morti
come
atteggiamento
dell’intero
genereumano,laddoveessoè
l’atteggiamento
che
si
riscontra,
come
oggi
sappiamo,inuncertoambito
della storia dell’uomo, degli
ultimi millenni e di certe
regionidellaTerra.Secioèsi
può presumere che ogni
uomo desideri la felicità e il
piacere, ossia che questa sia
la natura di ogni uomo, ciò
non implica che, dinanzi alla
morte di chi è stato amato,
ogniuomocredachel’amato
nontornerà«maipiù»perché
è totalmente «privato della
vita e dell’essere». Sarà il
popolo greco a crederlo,
guidato dai suoi pensatori.
Con i Greci l’uomo
incominciaamorireeaesser
pianto
in
un
modo
assolutamente
nuovo,
inaudito.Elafilosofiagrecaè
ilterrenoincuicrescel’intera
storiadell’Occidente.
Comunque, a parte
l’estrapolazione
che
attribuisce
a
tutti
l’atteggiamento di alcuni di
fronte alla morte, Leopardi
può dire: «Allegano [cioè si
appellano]
in
favore
dell’immortalitàdell’animoil
consensodegliuomini.Ame
par di potere allegare questo
medesimo consenso in
contrario[cioèperdimostrare
ilcontrario]».
Appunto perché la natura
cifapiangereinostrimortie
ce li fa piangere perché per
natura crediamo che essi non
siano più e che noi non li
vedremo mai più. È «il
pensiero della caducità
umana»,cheèilcontrariodel
credere nell’immortalità. Il
compianto dei morti mostra
che il «consenso degli
uomini» è per «il non esser
definitivamente più» di chi è
morto. Non lo piangeremmo
se potessimo pensare tra noi:
«io rivedrò però questo tale
dopo la mia morte». Ma
questo è il sentimento che
nessuno prova, qualsiasi
siano le sue convinzioni
razionali(P4277-79).
Il tema del «mai più»
ritornerà
in
Consalvo.
Morente, chiede «un bacio»
all’amante, prima di esser
lasciatopersempre(«pria/di
lasciarmipersempre,Elvira»,
vv.49-50).Luilalascianella
vita, lei lo lascia nel nulla
della morte. Il tema era già
stato toccato nei primi mesi
del 1821: «Non c’è forse
personatantoindifferenteper
te, la quale salutandoti nel
partireperqualunqueluogo,o
lasciarti in qualsiasi maniera,
edicendoti,noncirivedremo
mai più, per poco d’anima
che tu abbia, non ti
commuova, non ti produca
una sensazione più o meno
trista.L’orroreeiltimoreche
l’uomo ha, per una parte, del
nulla, per l’altra, dell’eterno
[ossia l’orrore e timore
dell’eternità del nulla] si
manifestadapertutto,equel
mai più non si può udire
senza un certo senso […]: è
partito per sempre – per
sempre? Sì: tutto è finito
rispetto a lui: non lo vedrò
mai più: nessuna cosa sua
avrà più niente di comune
colla mia» (P 644-45).
Questo è il sentimento che
ognunoprova,qualsiasisiano
le sue convinzioni razionali.
L’orrore e timore del nulla –
del nulla in cui va
progressivamente cadendo
ogni momento della vita, e
del nulla definitivo della
morte – è orrore e timore
dell’eternità del nulla, della
morte. Il Coro di morti che
apre il Dialogo di Federico
Ruysch e delle sue mummie,
composto
nel
1824,
incominciacosì:
Sola
nel
mondo eterna,
acuisivolve
ogni
creata
cosa,
in te, morte, si
posa
nostra ignuda
natura;
lietano,[…]
la nostra natura – il nostro
desideriodifelicità–checon
la morte è rimasta «ignuda»,
spogliatadell’essere.
(Refrain. La potenza
espressiva del linguaggio di
Leopardi è evidente. Per un
certotipodilettorepuòessere
appagante,
anche
se
sconvolgente. Altri possono
restare indifferenti. Possono
giàaverchiusoquestepagine.
Maperchicontinuaaleggere
è decisivo ripetere che con
Leopardi
non
si
ha
semplicementeachefarecon
uno scrittore e un poeta che
«fa pensare». O meglio: egli
fa pensare non soltanto così
comeunoscrittoreounpoeta
possonofarpensare,macome
il pensatore che riesce a
superare, «in verità», l’intera
tradizione
della
civiltà
occidentale, cioè secondo il
sensochela«verità»possiede
all’interno di tale tradizione.
Se
la
tradizione
dell’Occidente sembra viva,
dicevamo nelle «Istruzioni»,
è viva nello stesso senso in
cui le foglie secche restano
ancora legate ai rami.
Leopardi è il Giocatore Nero
che ha partita vinta sul
Giocatore
Bianco.
Indicheremoneicapitoli4e5
le mosse essenziali di questa
partita.
Non
è
una
esagerazioneaffermarechein
essavienegiocatalasortedel
nostrotempo.Lanostra.)
2
«Inmezzoalnulla»e
«ilnaufragarm’è
dolceinquestomare»
Il sentimento del «mai più»,
per Leopardi, è provato da
ognuno,qualsiasisianolesue
convinzioni razionali. Si è
visto.
Le
convinzioni
razionali,appunto.Chevalore
hanno? E che valore ha la
vocedellanatura?Giacchédi
tutto questo il passo 4277-79
dei Pensieri, da cui abbiamo
preso le mosse nel capitolo
precedente, non parla. Parla
invece della direzione verso
cui effettivamente si dirige il
«consensodegliuomini».Nel
1827 – quando stende quelle
pagine –, della verità, del
valore della ragione e della
natura i Pensieri si sono già
occupatiafondo.
Già nel 1819 Leopardi
scriveva: «Io era spaventato
nel trovarmi in mezzo al
nulla, un nulla io medesimo.
Io mi sentiva come soffocare
considerando e sentendo che
tuttoènulla,solidonulla»(P
85).
Ha ventun anni. Questo
passo complica notevolmente
le
considerazioni
che
abbiamo svolto sin qui.
Soprattutto perché nel 1819
Leopardi
scrive
anche
L’infinito, e l’infinito è
l’«eterno»,l’«immensità»del
«mare» in cui è per lui
«dolce» fare naufragio.
Mentre non è certo «dolce»,
ma spaventoso e soffocante,
fare naufragio «in mezzo al
nulla». Il nulla è la morte,
«sola nel mondo eterna», in
cui «si posa / nostra ignuda
natura».
Possiamo
aggiungere,
sviluppando uno spunto
toccato
nel
capitolo
precedente,
che,
contrariamente a quanto
Leopardiritiene,lamortenon
è sempre stata pensata come
annullamento e come il nulla
cherisultadall’annullamento.
Infatti solo il pensiero greco
incomincia a pensare che
l’altro, ossia ciò che nel loro
divenire le cose diventano, è
l’assolutamente altro dal loro
essere: è il nulla. Prima dei
Greci questo senso radicale
del nulla è ignorato. Se il
corpo vivo di un uomo
diventa un cadavere, tuttavia
sial’unosial’altrosilasciano
vedere e toccare, sono
entrambi cose, essere. Il
cadavereèsolorelativamente
altro dal corpo vivo. Per le
civiltà pregreche il diventar
cadavere è l’inizio di un
viaggio che consente ai
viventi di mantenere rapporti
di diversa natura con chi è
partito. Se piangono i loro
morti, il loro è un pianto
diverso da quello dei Greci,
che nel cadavere credono di
vedere l’annullamento di una
vita, il «mai più», l’esser
«passato per sempre». Ma
ritorniamoalpasso(P85)del
1819.
«Considerandoesentendo
chetuttoènulla»,Leopardisi
sentesoffocare.Nelpassodel
1819 si parla sia di un
«considerare» sia di un
«sentire». C’è il «sentire»:
appartiene alla sfera del
«sentimento intimo», che
abbiamo incontrato sopra; ci
fapiangereinostrimortiedè
prodotto dal desiderio di
felicità per noi e per coloro
che amiamo, quando tale
desiderioèfrustratodallaloro
morte. Ma c’è anche il
«considerare». Questa parola
guarda più alla ragione che
all’istinto. Indica la verità.
Propriamente, anticipa la
grande sequenza che nei
Pensieri
conduce
alla
distruzione del platonismo e
del
cristianesimo,
le
fondamenta della tradizione
dell’Occidente. È come se
Leopardi
anticipasse
i
risultati essenziali della sua
indagine. L’anticipazione va
quindi interpretata alla loro
luce.
«Tutto
è
nulla.»
L’espressione non è da
intendere come un piatto
rifiuto del «principio di non
contraddizione».
La
negazionediquestoprincipio,
in Leopardi, è estremamente
più complessa. È ovvio che
per lui l’essere ancora vivi
nonequivaleall’esseremorti.
Il«maipiù»siriferisceaciò
che ne è della vita quando
muore una persona amata;
non quando essa è viva. La
vita non è la morte. L’essere
nonèilnulla.
Dunque«tuttoènulla»(e
«un nulla io medesimo») nel
senso, appunto, che tutto è
«in mezzo al nulla», ossia
vienedalnullaevanelnulla.
Non è prodotto da un
Demiurgo o da un Dio; e,
finendo, non è accolto da
braccia divine. «Essere»
significa
trovarsi
provvisoriamente «in mezzo
al nulla». «Sentire» e
«considerare» questo è
spaventoso, orrore e timore.
Avvertireilnulladacuiogni
cosa è circondata (l’avvertire
che è «il pensiero della
caducità umana») significa
esser soffocati da questo
stesso nulla. Il nulla soffoca
in quanto è sentito e
considerato; non in quanto è
nulla. In quanto, sentito e
considerato, è soffocante,
orrendo e temibile, il nulla è
«solido».
Se e poiché per Leopardi
la verità scoperta dalla
ragione è questa, cioè «che
tutto è nulla, solido nulla»,
allora la conoscenza della
veritàèlafontedell’angoscia
più profonda in cui l’uomo
può precipitare – la falla che
provoca il naufragio dove
annega ogni speranza, ogni
illusione, ossia ogni felicità.
Infatti
(scrive
l’anno
successivo) «la felicità
consiste nell’ignoranza del
vero»(P 326). Solo voltando
le spalle alla verità si può
averequeltantodifelicitàche
cièconcessa.
Sennonché,
dicevamo,
nello stesso periodo in cui
formula queste tesi, Leopardi
compone L’infinito. È spesso
interpretato come un canto
positivo, che dal tempo
conduce all’eterno. Il poeta
ode la «voce» del vento, là
sul «colle» dove gli è «caro»
rifugiarsi. E lo porta a
confrontarla
(«vo
comparando») con l’«infinito
silenzio»checonducenelsuo
pensiero «l’eterno» («e mi
sovvien l’eterno») e la sua
differenza rispetto a ciò che
muore e che per ora è vivo.
«[…] Così tra questa /
immensitàs’annegailpensier
mio: / e il naufragar m’è
dolceinquestomare».
Ma, dicevamo, non è
certo
«dolce»,
bensì
spaventoso, soffocante e
fonte d’infelicità sapere di
trovarsi «in mezzo al nulla».
Non è dolce annegare nel
nulla. In «annegare» risuona
la parola latina necare,
«uccidere»; mentre annegare
nell’immensità dell’eterno è
uccidere la morte. E, alla
lettera, «naufragio» significa
lo «spezzarsi» (frangere)
della nave. Il naufragio può
essere«dolce»soloselanave
che si spezza è quella del
nulla e della morte, e il
«mare» che ne accoglie i
frammentièl’eterno.
TuttaviaLeopardinonsta
smentendo se stesso. Infatti,
se conoscere la verità
equivale a essere infelici,
allora solo immergendosi
nella
non-verità,
cioè
nell’illusione, l’uomo può
averequelpocodifelicitàche
gli è concessa. E l’illusione
suprema è pensare, con tutta
l’intensità di cui si è capaci,
che l’eterno esiste ed è
infinito e che nell’eterno
l’uomopuòsalvarsidalnulla
a cui la morte conduce:
nell’eterno
è
dolce
naufragare. La dolcezza del
naufragio è tutta percepita
all’interno
dell’illusione.
Leopardi si è allontanato ben
presto dalla fede cristiana
(della cui presenza, peraltro,
le prime pagine dei Pensieri
mostrano segni di grande
interesse). Quando scrive
L’infinito ne è già fuori.
Quindi Leopardi può dire sia
che, in verità, tutto è in
mezzo al nulla sia che,
nell’illusione,
è
dolce
naufragare
nel
mare
dell’infinito.
Quanto si è detto per
mostrare la coerenza del
cantore del nulla non è però
la
sovrapposizione
di
un’ipotesi interpretativa a ciò
che Leopardi effettivamente
dice.Èluistessoadaffermare
in modo esplicito il carattere
illusorio dell’eterno. Ancora
nel 1819, e anzi una
cinquantina di pagine prima
di quella in cui si dice che
«tutto è nulla, solido nulla»,
egli scrive: «Il più solido
piacere di questa vita è il
piacervanodelleillusioni»(P
51).
Ilpiacere,intesonelsenso
più ampio: come ciò che si
provaquandoqualcosapiace.
Il piacere è la stessa felicità
(P 165). Quando la verità si
favedere,ciòcheèsolidoèil
nulla(«solidonulla»)enonvi
è alcunché di più solido del
nulla. Felicità e piacere sono
del tutto assenti. Quando,
invece che nella verità, ci si
trova nell’illusione, quel che
è solido («il più solido») è il
piacere che solo l’illusione
puòdare.Pertantol’esistenza
dell’eterno, in cui è dolce
naufragare e che procura il
maggioredeipiaceri,nonpuò
essereverità,maèillusione.
Nell’Infinitoilcantoredel
nullacantadunquel’illusione
dell’infinito e dell’immensità
dell’eterno. La canta, nel
sensochevisiavvolge,vista
dentro,equindinonpuòdire
chestaavvoltonell’illusione.
Nellamisuraincuistaalsuo
interno, la sente e la vede
come verità. Si è illusi
proprio perché si considera
verità ciò che invece è
illusione. Che l’illusione sia
illusione lo si può sapere
quando se ne esce: quando il
canto finisce e ci si pone
dinanzi alla verità non
illusoria.
E appunto questo accade
nei Pensieri, dove il filosofo
riflette sul cantore. Non è
passato nemmeno un anno
dalla
composizione
dell’Infinitoenelluglio1820
Leopardi rende esplicito il
nucleo della sua «teoria del
piacere»(P165-185).Unisce
«ilsentimentodellanullitàdi
tutte le cose, la insufficienza
di tutti i piaceri a riempirci
l’animo, e la tendenza nostra
verso un infinito che non
comprendiamo», cioè la
capacità dell’infinito di
riempirci l’animo. Certo, noi
non comprendiamo l’infinito;
ma non perché esso esista e
noi siamo incapaci di
penetrarneilmistero.Infattiè
necessario «che tutto esista
limitatamente, e tutto abbia
confini e sia circoscritto» e
che «niente sia eterno» (P
165-66). Come desiderio di
felicità, l’uomo è «desiderio
dell’infinito» e dell’eterno,
dove «in luogo della vista
lavora l’immaginazione, e il
fantastico sottentra al reale.
L’anima s’immagina quello
chenonvede»(P171),«può
figurarsi dei piaceri che non
esistano,efigurarseliinfiniti»
(P 167). È già fuori
discussione, per Leopardi,
che l’eterno e l’infinito non
esistono.Maeglièfilosofoe,
Giocatore Nero, renderà ben
prestoesplicitoilfondamento
diquestasuaconvinzione.
A questo punto diventa
comunque del tutto esplicito
il chiarimento che i Pensieri
danno intorno al senso
dell’Infinito:
«L’anima
s’immagina quello che non
vede, [quello che non esiste
e] che quell’albero, quella
siepe, quella torre gli [le]
nasconde,evaerrandoinuno
spazioimmaginario»(P171).
Un albero, una siepe, una
torre nascondono all’anima
uno
spazio
che
è
immaginario,nonreale,eche
il desiderio dell’infinito
immagina infinito. E infatti
L’infinitodice:
Sempre caro
mi
fu
quest’ermo
colle
e questa siepe,
che da tanta
parte
dell’ultimo
orizzonte
il
guardo
esclude.
Ma sedendo e
mirando,
interminati
spazi di là da
quella,
e
sovrumani
silenzi,
e
profondissima
quiete
io nel pensier
mi fingo; ove
perpoco
il cor non si
spaura.[…]
[…] e mi
sovvien
l’eterno,[…]
Nel canto e nei Pensieri
compaiono le stesse parole:
«siepe», «spazio». Ma, nel
canto,
l’infinito
(gli
«interminati
spazi»,
i
«sovrumani silenzi», la
«profondissimaquiete»,epoi
l’«infinito
silenzio»,
l’«eterno»,l’«immensità»del
mare in cui è «dolce» fare
naufragio) è sentito stando
all’interno dell’illusione del
poeta, e quindi non è sentito
ed espresso come illusione,
ma come verità; invece nei
Pensieri il filosofo vede la
verità
angosciante
e
soffocante, quindi vede
l’illusione
conoscendola
cometale;epertantoconosce
il carattere illusorio e
immaginariodell’infinito.
Lo conferma quanto
Leopardi
dice
(nella
Prefazioneeannotazionealle
dieci canzoni stampate in
Bologna nel 1824) a
propositodell’usocheeglifa
del verbo fingere (che
compareanchenelpenultimo
verso qui sopra riportato, «io
nel pensier mi fingo»): il
poeta riconduce il significato
di fingere a formare,
foggiare. Ossia fingere non
indica l’ingannare e il
nascondere quel che si è. E
infatti, se il desiderio di
felicità porta a immaginare
illusoriamente l’infinito, è
impossibile che stando
all’interno dell’illusione si
sappia e si dica che l’infinito
èunafinzione,unnascondere
la verità angosciante della
finitezza e nullità di ogni
cosa.
All’interno
dell’illusione, «io nel pensier
mi fingo» significa che,
quando la «siepe» non gli fa
vedere
gran
parte
«dell’ultimo
orizzonte»,
allora nel suo pensiero si
formano e si fanno innanzi
quegli spazi e silenzi infiniti.
Quandounosacheessisono
una sua finzione, un suo
nascondersi come stanno le
cose,acostuiilcuorenon«si
spaura». Il cuore gli «si
spaura» quando sono essi,
comeinfinitiedeterni,afarsi
innanzi. Si fanno innanzi nel
ricordo: «e mi sovvien
l’eterno». Quando si ricorda,
si crede che a farsi innanzi
non sia un’illusione, una
finzione (lo si potrà credere
dopo,quandosidubiteràdella
verità del ricordo), ma
qualcosadireale.
«Oveperpoco/ilcornon
sispaura».Lapauradiquesto
impaurirsinonèl’angosciadi
chisisenteinmezzoalnulla.
E inoltre manca ancora un
«poco»perchéquestapaurasi
produca. Essa sta nella
dimensione
del
timore
dell’uomo che viene a
trovarsi di fronte a Dio; al
Rimedio a cui, peraltro,
l’uomo affida dapprima la
propria salvezza. Poi i
pensatori dell’Occidente si
accorgerannoche«ilRimedio
è peggiore del male», ossia è
peggiore
della
morte
annientante.
Quell’espressione
è
di
Nietzsche, ma è innanzitutto
Leopardi a esprimerne il
senso
essenziale.
Considerandoilcristianesimo
(soprattuttonelqualeDioèil
Rimedio) come aspetto
primario del platonismo,
Leopardi vede in esso il
«massimo dei danni» inferti
alla natura, in quanto essa è
desiderioinfinitodifelicità(P
817,marzo1821).
3
Dal«desiderioinfinito
delpiacere»al«fior
gentile»
Apropositodellepagine165-
66 dei Pensieri, nel capitolo
precedente si è detto che per
Leopardi è necessario «che
tutto esista limitatamente, e
tutto abbia confini e sia
circoscritto»eche«nientesia
eterno». Sennonché Leopardi
non scrive: «è necessario».
Scrive: «la natura delle cose
porta che tutto esista
limitatamente,eccetera»e«la
naturadellecoseportaancora
chenientesiaeterno».Esela
«natura»è«desiderioinfinito
dipiacere»,ossiadifelicità,e
quindi è fonte benefica di
illusioni
nonché
della
suprema
illusione
dell’infinito e dell’eterno,
comepuòlanatura«portare»,
cioè implicare che tutto sia
finitoechenientesiaeterno?
La risposta sta nel fatto
che nel linguaggio di
Leopardi la parola «natura»
ha una molteplicità di
significati. Che però non si
confondono.«Lanaturadelle
cose» (quella che «porta che
tutto esista limitatamente, e
tutto abbia confini e sia
circoscritto»eche«nientesia
eterno»)non è la «natura» in
quanto desiderio di felicità.
«Natura delle cose» è una
formula della tradizione
filosofica, usata per indicare
come stanno realmente le
cose, come è necessario che
stiano. (Si dice: in rerum
natura.)
Nell’espressione
«natura delle cose», «natura»
ha un significato opposto a
quello di natura come
desiderio di felicità. La
«naturadellecose»èlaverità
– e la verità è che tutto è
limitato nello spazio e nel
tempo, «circoscritto», e che
quindi niente è eterno. La
verità
è
spaventosa,
angosciante. Il desiderio di
felicità è invece l’illusione:
l’illusione che la felicità si
possa raggiungere, l’illusione
che culmina nel credersi
felici. Nelle stesse pagine
dovesiparladi«naturadelle
cose» si parla anche della
«gran misericordia» della
«natura», che questa volta
significa desiderio di felicità;
inaltreparoleèlanaturache
«non potendo fornirli [gli
uomini e gli altri esseri
viventi]dipiacerirealiinfiniti
[come sarebbe il piacere
derivante
dall’esistenza
dell’eterno in cui l’uomo si
salva dalla morte], ha voluto
supplire[…]colleillusioni,e
di queste è stata loro
liberalissima»(P167).
Più complesso è il
chiarimento del perché la
«natura»piangaquandosente
che non rivedrà «mai più» la
persona amata che è morta
(cfr. cap. 1). Infatti, il «mai
più» è il diventar nulla da
parte di chi muore (P 427779); e invece la «natura»,
come desiderio di felicità e
grandemente misericordiosa,
nasconde con le illusioni di
cuiè«liberalissima»lanullità
del tutto. D’altra parte, si è
visto, la «natura» che piange
è «puro sentimento», che si
esprimealdilàdellaragione,
ossiaaldilàdelluogoincui
si manifesta la verità; sicché
la «natura» che piange non
può essere nemmeno la
«naturadellecose»,ossianon
può essere nemmeno la
verità.
Nel1827,quandoparladi
questa «natura», Leopardi ha
già ampiamente sviluppato
neiPensieriilprincipiochela
«natura» è corrotta dal
sorgere della ragione e del
cristianesimo. Nella civiltà la
«natura» non è più quella
primitiva: è stata alterata da
bisogni che l’uomo, non
accontentandosi di quelli
primari,havolutosoddisfare.
E nel 1825 Leopardi aveva
composto il Dialogo di
Plotino e di Porfirio, sul
suicidio,
dove
viene
introdotta la distinzione tra
«naturaprimitiva»e«seconda
natura».
Dice Porfirio: «Quella
natura primitiva degli uomini
antichi,edellegentiselvagge
e incolte, non è più la natura
nostra:mal’assuefazioneela
ragione hanno fatto in noi
un’altra natura; la quale noi
abbiamo,eavremosempre,in
luogo di quella prima. Non
era naturale all’uomo da
principio il procacciarsi la
mortevolontariamente:mané
anco era naturale il
desiderarla. Oggi e questa
cosa e quella sono naturali;
cioè conformi alla nostra
natura nuova: la quale,
tendendo essa ancora e
movendosi necessariamente,
come l’antica, verso ciò che
apparisce essere il nostro
meglio;fachenoimoltevolte
desideriamo e cerchiamo
quello che veramente è il
maggiorbenedell’uomo,cioè
lamorte.Enonèmeraviglia:
perciocché questa seconda
natura è governata e diretta
nella maggior parte dalla
ragione.Laqualeaffermaper
certissimo, che la morte, non
che sia veramente un male,
come detta la impressione
primitiva; anzi è il solo
rimedio valevole ai nostri
mali, la cosa più desiderabile
agliuomini,elamigliore».
Ebbene,la«natura»dichi
piange sentendo in sé che la
persona amata è diventata
nulla,enonsaràmaipiùcon
lui, è appunto la «seconda
natura». Quando Leopardi
dice che «tutti» piangono la
perditadellapersonaamata,è
coerente con se stesso nella
misura in cui pensa che si
tratti di tutti coloro che
possiedono questa «seconda
natura».Esipuòbenritenere
che lo pensi anche se non lo
scrive, purché si tenga
presente il carattere dei
Pensieri, che sono appunti e
non un testo pronto per la
stampa. Come la logica del
discorso di Porfirio (cioè di
Leopardi) dice che all’inizio
non era naturale per l’uomo
desiderare e darsi la morte,
ma poi lo è diventato nella
«seconda natura», così alla
logica che elabora il
sentimento del «mai più» è
consentito dire che all’inizio
non era naturale piangere la
morte e il «mai più» degli
amati,
ma
poi,
con
l’evocazione greca del nulla,
lo è diventato, e appunto,
anche qui, nella «seconda
natura» di coloro che
crescono
all’ombra
di
quell’evocazione.
La logica implicita di
Leopardi tende allora a
riscattare il tema della
«natura» che piange la morte
dalla critica a cui abbiamo
accennato nel capitolo 2. In
altre parole, se la distinzione
tranaturaprimitivaeseconda
natura viene resa esplicita
ancheinrelazionealtemadel
sentimentochepiangeil«mai
più», allora non è più
possibileobiettareaLeopardi
che è arbitrario estendere
all’intera storia dell’uomo
quella coscienza dell’andare
nelnullaedel«maipiù»che
invece incomincia a sorgere
nel popolo greco a opera dei
suoi pensatori. A questo
punto, dunque, quel pianto si
può intendere come l’effetto
che si produce nell’uomo
quando in lui la «natura»,
corrompendosi e diventando
«seconda natura», non riesce
a coprire e a far tacere
completamente la ragione,
ossia la visione della verità
(cioè della ragione e della
verità greca che regge la
storia
della
civiltà
occidentale).
Ma è presente, negli
scritti di Leopardi, un altro
senso ancora della «natura»,
quello più noto: la «natura»
come «dura nutrice» che «in
unmomentoannulla»l’uomo
eilsuomondo,eche«madre
è di parto e di voler
matrigna», quella che non ha
«alseme/dell’uompiùstima
o cura / che alla formica» e
che il poeta chiama
ironicamente
«amante
natura». Sono espressioni del
grande canto La ginestra
(1836). Nella Palinodia al
marchese Gino Capponi, il
«parto» con cui la natura
matrigna produce le cose è
chiamato il «gioco reo»
dell’«empia madre», che
dopo averle generate le
distrugge, come un fanciullo
che, subito dopo aver
costruito con dei fuscelli un
edificio,lodistrugge.
Questa «natura» è il
processo stesso del divenire
del tutto, dove ogni cosa è
gettata e travolta, nel
processo
incessante
di
produzione e distruzione. Un
processo assolutamente privo
di senso. Poiché ogni cosa
provienedalnullaenelnulla
ritorna, il suo incominciare a
esistere e la fine della sua
esistenza non hanno un
scopo, un senso, non sono
aspetti di un Ordinamento
ignoto. Nascita e morte non
nascondonounmistero.Tutto
è terribilmente chiaro. Non
esiste alcun Ordinamento. Il
nostro trovarci a esistere è
senzaperché.
Sono,
queste,
le
convinzioni di gran parte
della cultura del nostro
tempo.Masonoquasisempre
forme di una fede che si
contrappone
alla
fede
metafisica
e
religiosa.
Leopardi è il primo ad aver
scavato il sottosuolo dove ha
postolefondamentadiquelle
convinzioni, che quindi, solo
in lui e in chi ha la potenza
del suo pensiero, cessano di
essere semplici fedi. Con la
vittoriadelGiocatoreBianco,
il Giocatore Nero rende
solido il terreno dove
muovonoiloroincertipassii
bigottidella«mortediDio».
Leopardi mostra che
nascita e morte non
nascondono alcun mistero e
chenonvièalcunOrdineche
ci si celi e che tuttavia
rimanga nascosto. Il nostro
trovarci a esistere è senza
perché. L’arcano è che non
esiste alcun arcano. È un
arcano nel senso che non
esiste alcun perché che lo
spieghi. Anche l’arcano
dell’universo in cui viviamo
diventerà nulla prima che si
scopra un perché. «Così
questo arcano mirabile e
spaventoso
dell’esistenza
universale, innanzi di essere
dichiarato né inteso, si
dileguerà e perderassi». È la
frase che chiude il Cantico
delgallosilvestre(scrittonel
1824). Altri universi saranno
prodotti e questo arcano li
accompagnerà tutti. «Cosa
arcana e stupenda / oggi è la
vita al pensier nostro»,
cantano i morti a Federico
Ruysch,cioèglicanterebbero
se potessero parlare e avere
un «pensiero». Sono andati
dall’altra parte, ma non
trovano nulla (nemmeno se
stessi). La vita, «al loro»
pensiero è «stupenda» (da
stupor, stupeo) perché li
lascia nel totale stordimento
di chi avrebbe voluto trovare
in essa qualcosa, qualche
significato, ma non trova
nulla.
Non esistendo alcun
Ordinamento eterno, ogni
ordine
essendo
cioè
provvisorio, contingente, non
esiste
nemmeno
una
Coscienza che, assoluta,
dominante, potente, sappia
alcunché
delle
cose
dell’uomo e del mondo. Nel
DialogodellaNaturaediun
Islandese, l’assenza di tale
Coscienza, nella «Natura» in
quanto divenire del tutto, è
potentemente incarnata nella
«forma smisurata di donna»
che l’Islandese incontra in
una regione sconosciuta
dell’Africa:«Videdalontano
unbustograndissimo;cheda
principio immaginò dovere
essere di pietra […] Ma
fattosi più da vicino, trovò
che era una forma smisurata
di donna seduta in terra, col
busto ritto, appoggiato il
dosso e il gomito a una
montagna, e non finta ma
viva;divoltomezzotrabello
e terribile, di occhi e capelli
nerissimi;laqualeguardavalo
fissamente; e stata così un
buono spazio senza parlare,
all’ultimoglidisse:“Chisei?
Che cerchi in questi luoghi
dove la tua specie era
incognita?”».
È la «Natura». «Questi
luoghi» sono essa stessa. Ed
essa non sa nulla dell’uomo.
Dopoillungoeappassionato
discorso dell’Islandese che
confessa alla «Natura» il
motivo per cui l’ha sempre
fuggita e tutta l’infelicità che
da essa gli deriva, la
«Natura» non si scompone e
dicepocheparole:
«Immaginavi tu forse che
ilmondofossefattopercausa
vostra? Ora sappi che nelle
fatture, negli ordini e nelle
operazioni mie, trattone
pochissime, sempre ebbi ed
ho l’intenzione a tutt’altro
che alla felicità degli uomini
o all’infelicità. Quando io vi
offendoinqualunquemodoe
conqualsisiamezzo,ionon
me n’avveggo, se non
rarissime
volte;
come,
ordinariamente, se io vi
dilettoovibenefico,iononlo
so; e non ho fatto, come
credetevoi,quelletalicose,o
non fo quelle tali azioni, per
dilettarvi o giovarvi. E
finalmente, se anche mi
avvenisse di estinguere tutta
lavostraspecie,iononmene
avvedrei».
La «Natura» sta dicendo
appunto
di
essere
incoscienza, nonsenso. Nel
Dialogo il nonsenso dice di
essere
nonsenso,
l’incoscienza dice di essere
incoscienza.
E
tuttavia
lamentarsi della «Natura»,
inveire contro di essa,
rivolgerledomande–comea
volte accade nei Canti – ha
ancora senso. Sanno di non
poter trasformare il nonsenso
insenso;eledomande(«Che
faitulunainciel?dimmiche
fai /silenziosa luna?», «Ove
sei, che più non odo la tua
voce sonar […]?») non
attendonoalcunarisposta.Ma
lamenti, invettive, domande
sonoformedella«forza»con
cui il canto, nell’opera del
genio, «sente la morte
perpetua delle cose e sua
propria» (P 261 – un tema,
questo, che sarà sviluppato
nei capitoli 6-8). Opera del
genio è quella della «nobile
natura».
C’èinfattiancoraunaltro
significato
di
«natura»
(dunque in stretta relazione
con quel tema), che compare
nella Ginestra o il fiore del
deserto.
Il
Vesuvio
(«formidabil
monte
/
sterminator Vesevo») è
l’icona dell’«empia madre»
Natura. Ha reso possibile
sulle sue pendici e ai suoi
piedi la vita degli uomini e
l’hadistrutta.Sullasua«arida
schiena» cresce la ginestra,
«contenta» dei deserti. Ed
essa è l’icona della «Nobil
natura»:
Nobil natura è
quella
che a sollevar
s’ardisce
gli
occhi
mortali
incontra
al comun fato,
e che con
francalingua,
nulla al ver
detraendo,
confessailmal
che ci fu dato
insorte,
eilbassostato
efrale
(vv.111-117)
A proposito di questi versi
centrali del Canto, su cui
ritorneremo più avanti (cfr.
capp. 6-8), qui diciamo
soltanto che evidentemente
questa«natura»nonsolonon
è la natura che «madre è di
parto e di voler matrigna»,
ma non coincide nemmeno
con gli altri significati di
«natura» che abbiamo sopra
rilevato.Essaè«nobile».Non
piange. Ha anzi l’ardimento
di sollevare i suoi occhi
mortali e guardare il «comun
fato». Così come la ginestra
ardisceguardareilvulcanoed
è persino «contenta» del
desertoincuiessasitrova.Il
«comunfato»èil«malcheci
fu dato in sorte»: il «gioco
reo» dell’«empia madre».
«Nobilnatura»:«fiorgentile»
(v. 34). La contentezza del
fiore è in qualche modo
apparentataconildesideriodi
felicità della «natura» che
abbiamo incontrato per
prima.
Eppure
tale
contentezza non coincide
affatto con questo desiderio.
A questo punto la sua
presenza
solleva
molti
problemi.Piùdiquantolasua
evocazione
ne
risolva.
Soprattutto perché la nobile
naturanon«detrae»nullaalla
verità. Per ora diciamo che
essaèilgenio.
Qui si è voluto rilevare
che il linguaggio di Leopardi
controlla questi diversi
significati
della
parola
«natura»:
la
«natura»,
dunque, come desiderio di
felicità, come «natura delle
cose»,
come
«natura
primitiva»e«seconda»,come
«empiamadre»e«giocoreo»
del «divenire», come «nobile
natura». La «natura delle
coseȏchenientesiaeterno,
ossia coincide col «gioco
reo» e senza senso del
divenire. Questo gioco
produce e distrugge tutto,
senza saperlo e senza alcuno
scopo, produce quindi anche
gli esseri viventi, la cui
«natura» è il desiderio di
vivere felici, che però si
corrompe e diventa «seconda
natura». Al culmine della
«seconda natura», la «nobile
natura»delgenio.
4
LapartitatrailMitoe
ilGiocatoreBianco
Da quando abita la Terra,
l’uomo, per vivere, sente di
dover agire: di dover
trasformare sé e il mondo in
cui vive. Altrimenti muore.
Sente di dover diventare
altro. Adamo pecca perché
vuol diventare Dio. Eritis
sicutdii,diceilserpentealui
e alla sua compagna. «Sarete
come dèi.» Non è vero che
morireteseavretemangiatoil
frutto
dell’albero
della
conoscenza del bene e del
male. Morirete se rimarrete
quellochesiete.Ilgiardinodi
delizie è in realtà una
Barriera. Dio la sorveglia. È
luistessolaBarriera.Manon
riesceaimpedirecheAdamo
lapenetri.Locacciaperòdal
paradiso terrestre e si rende
invisibile all’uomo. La
Barriera si ritira e si
ricompone ben al di là
dell’orizzontechegliocchidi
Adamo
riescono
a
raggiungere.
Lavolontàdivivereesige
il diventar altro, il riuscire
cioè, volendo, a ottenere. E,
credendo di ottenere, l’uomo
giunge a convincersi che le
cose, per quanto solidificate
nella Barriera divina, non
sono di per sé assolutamente
ostili al cambiamento, ma a
un certo punto si rendono
disponibiliaessoealleforze
divine e umane che lo
determinano. (Anche divine,
perché Dio, ritirandosi dallo
sguardo dell’uomo, non
rimane poi inerte, ma
interviene
continuamente
nellevicendedelmondo.Elo
fanno anche gli dèi che non
figurano nelle religioni del
Libro.) Il diventar altro delle
cose del mondo visibile si
colloca quindi ben presto sul
tronodell’evidenzasupremae
imprescindibile. La visibilità
del mondo è innanzitutto la
visibilità del diventar altro.
Che qualcosa sia «evidente»
significa, nell’uomo più
antico, che il qualcosa può
esser toccato, fiutato, veduto,
udito,gustato.
Tuttavia, se da un lato la
vita dell’uomo è impossibile
senzailsuodiventaraltro,se
l’assenza del diventar altro è
cioèlamorte,d’altrapartecol
diventar altro la morte si
ripresenta.
Che
cos’è
innanzitutto la morte se non
un
diventar
altro?
Continuando a diventar altro
l’uomo continua a morire:
prima muoiono tutte le fasi
della vita che lui, diventando
altro, si lascia indietro; egli
diventaaltroinmododiverso,
diventa cadavere, con cui i
primitivi riescono in vari
modi a convivere ossia a
considerarlo un modo di
essere ancora vivi, un modo
dipresentarsiaisopravvissuti
da parte di chi ha sottratto la
propriavitaallavisibilità.
Maildiventaraltro,incui
la morte consiste, suscita
l’angoscia. Prima, la morte è
ilnonriuscireadiventaraltro
penetrando la Barriera divina
quanto occorre per vivere.
L’angoscia determinata dal
non riuscire a vivere. Poi la
morte è dovuta all’esservi
riusciti: è appunto il diventar
altro che si libera in seguito
all’arretramento
della
Barriera.
Tuttavia di essa l’uomo,
scavandola e penetrandola, si
è cibato. Mangiando la mela
–cioèlaconoscenzacheDio
volevatenerepersé–Adamo
mangia Dio. Inoltre la
Barriera ha ripristinato la
propria inviolabilità iniziale
collocandosialdilàdelregno
che l’uomo ha ricavato da
essa; che è sì il regno della
vita,madellavitachemuore.
Dopo aver ucciso il
divino per poter vivere,
l’uomo è spinto dunque ad
allearsi al divino per poter
trovare in esso il rimedio
contro l’angoscia per la
morte. Il divino è pertanto
sentito come la potenza
suprema che può sempre
ricostituirsi al di là di ogni
ampliamento del regno
dell’uomo; è sentito come la
dimensione da cui tutto
proviene,equindiancheogni
regnoumano;èsentitoallora
come la dimensione dove
tutto deve fare ritorno e
trovaresalvezzadallamortee
dall’angoscia
per
essa.
Questo sentire si esprime nel
mito.
Ma il tempo del mito
tramonta: irrompe il tempo
della forma originaria e
tradizionale del pensiero
filosofico;iltempodiciòche
stiamo
chiamando
«il
Giocatore Bianco». Egli
gioca dai Greci a Hegel. E
nonintendecertocomegioco
quel che fa. Anche perché
con lui sulla Terra ha inizio
l’evento più decisivo della
storia dell’uomo: la volontà
diverità,lafilosofia.
La vittoria sulla morte è
troppoimportanteperl’uomo
perchésirassegniadaffidarla
allemanidelmito.Perquanto
grandesiastatol’aiutocheha
dato all’uomo nella lotta
contro la morte, il mito
rimanepursempre,agliocchi
del
Giocatore
Bianco,
immaginazione,
fantasia,
illusione. È soltanto la
volontà – fondata infine su
nient’altro che su se stessa –
chelarealtàsiafattainmodo
da soddisfare i desideri
dell’uomo. Assegna alla
realtà i tratti che l’uomo
desidera che essa abbia.
Produce una configurazione
della realtà dimenticando di
essere il produttore di queste
figure. Per questo il mito è
così intimamente legato alla
poesia. «Poesia» proviene
dallaparolagrecapoíesis,che
significa
appunto,
innanzitutto,«produzione».
La filosofia si fa carico
delcompitodelmito:salvare
l’uomo
dalla
morte.
L’angoscia per il diventar
altro, cioè per la morte, è
chiamata da Platone e da
Aristotele tháuma, che
innanzitutto – cioè prima
ancora di «meraviglia» –
significa
«angosciato
stupore». Appunto perché
anche il mito scaturisce da
tháuma, Aristotele dice che
anche chi dimora nel mito,
chi
«ama»
il
mito
(philómythos), è in qualche
modo filosofo (philosóphos).
Malafilosofiaintendelasciar
parlare le cose, non
sovrapporsi a esse con la
fantasia e l’illusione. Intende
che siano le cose stesse a
mostrarsi,
uscendo
dal
nascondimento in cui la
fantasia e l’illusione le
rinchiudono. E intende
lasciare che si mostrino non
in una luce incerta che le
renda ondeggianti e instabili,
ma nella luce ferma e con
stabilità.
Appunto per questo la
filosofia, apparendo sulla
Terra, intende la verità come
a-létheia
(nonnascondimento; ciò che si
nasconde è latente) e come
epi-stéme (lo stare che si
impone «su», epi, ciò che
vorrebbe smuovere il sapere
ilcuicontenutosta).Tradurre
epistémecon«scienza»,come
comunemente accade, è
indebolirne essenzialmente il
significato. E d’altra parte
saràinevitabile,vedremo,che
Leopardi
prenda
esplicitamente
in
considerazione l’epistéme in
quanto tale. Il gigantesco
lavoro della filo-sofia sarà
scoprirequalisonoitrattidel
sapere (sophía, da saphés:
«chiaro», «luminoso») il cui
contenuto sta senza alcun
tremore,echequindinonpuò
essere
alterato,
scosso,
negato, né dagli uomini né
dagli dèi, né dalla potenza e
sapienza
di
un
dio
onnipotente.
La filosofia che compie
questo lavoro, si diceva, è il
GiocatoreBianco.Affinchéil
contenuto del suo sapere sia
inalterabile, incontrovertibile,
non tremante, epistéme
dunque è necessario che tale
sapere si rivolga al tutto, e
cioèchequelcontenutosiail
tutto. Se fosse soltanto una
parte, questa, per quanto
garantita,sarebbepursempre
indifesadall’irruzionedialtre
parti prima ignorate, le quali
potrebbero portare con sé
forme di conoscenza diverse
e capaci di inficiare la
stabilità
della
parte
inizialmente conosciuta. E,
ancora, per potersi rivolgere
al tutto è necessario
conoscere in cosa consista il
carattereperilqualequalcosa
può appartenere al tutto. Si
scoprirà ben presto che tale
carattere è l’essere; e che il
tutto è la dimensione al di là
della quale non c’è alcun
essere, ossia l’al di là della
qualeènulla,l’assolutamente
nulla.
D’altra parte l’epistéme
evoca il nulla anche perché
essa spinge all’estremo il
diventaraltroedaaltro:come
giàsièdetto(cfr.cap.2)èla
filosofia come epistéme della
veritàapensareildiventarda
nulla e il diventar nulla.
Accadequindichelafilosofia
evochil’angosciaestremache
siproducequandolamorteè
il
diventar
nulla.
Propriamente, il tháuma da
cui nasce la filosofia e che
essaintendesuperareèquesta
estrema angoscia che la
filosofia stessa ha prodotto.
Come, nel mito, è la volontà
di diventar altro – per poter
vivere e, non più soffocati
dalla Barriera demonica, per
evitare la morte – a spingere
nelle braccia della morte, di
cui il diventar altro è
l’essenza, così, nell’epistéme
della verità, è la volontà che
la vittoria sulla morte sia il
contenuto di un sapere
incontrovertibile a liberare la
formaestremadellamorte.
Quindi l’epistéme della
verità richiede la forma più
potente
di
rimedio.
L’epistéme si costituisce
come metafisica e ritiene di
essere in grado di mostrare
che il diventar altro sarebbe
impossibile se, al di là di
esso, non esistesse l’Essere
immutabileedeterno,chegià
da sempre e per sempre
contiene e conserva tutto ciò
che nel diventar altro viene
prodotto e distrutto. La
dottrinaplatonicadelleideeè
la
prima
grandiosa
espressione
di
questo
atteggiamento dell’epistéme.
La morte è vinta perché ciò
che più conta per l’uomo è
eternamentesalvoneldivino.
Ma la filosofia richiede il
rimedio più potente perché il
diventar altro, in ogni sua
forma, è da essa inteso come
trattoessenzialedelcontenuto
dell’epistéme, ossia come
l’evidenza incontrovertibile e
assolutamente originaria, la
quale non è il semplice esser
vedute, toccate, udite delle
cose, ma è la manifestazione
dell’unità che raccoglie in sé
quell’esser vedute, toccate,
udite e, insieme, i tratti della
dimensione
affettiva
e
mentale:
l’«esperienza»,
l’unità
dell’«osservabile»,
l’appariredelmondo.
Sipuòdirechequestosia
ilnucleodellasapienzacheil
Giocatore Bianco fa valere
fino al XIX secolo e che
s’irradia nelle diverse forme
di conoscenza e di vita della
civiltàoccidentale.
5
Lapartitatrail
GiocatoreBiancoeil
GiocatoreNero
Abbiamo introdotto la parola
«partita» perché è costruita
sul verbo «partire», che
significail«dividersi»,quindi
l’«allontanarsi»(delle«parti»
l’una dall’altra). Ci si può
dividere e allontanare anche
dalla verità, e mostrare di
essere nell’errore. In questo
sensochi«hapartitavinta»è
la verità. Ma quale verità?
ParlandodeidueGiocatori,ci
riferiamo al modo in cui la
verità è intesa all’interno
della fede nel diventar altro.
Edèall’internodiquestafede
–stiamopermostrare–cheil
Giocatore Nero ha partita
vinta.
Può sembrare strano o
addirittura inverosimile che
un«poeta»abbiapartitavinta
sulla gigantesca sapienza
dellatradizioneoccidentale.E
ancor più inverosimile se si
tien presente che vince la
partitaquandoèpocopiùche
ventenne.Sembrerebbemeno
inverosimile – ma solo per
qualcuno–seciriferissimoa
Nietzsche. D’altra parte
Nietzsche, che mostra di
conoscere Leopardi, rispetto
alla tradizione occidentale
gioca la stessa partita di
Leopardi;eanchesenonpuò
conoscere i Pensieri compie
nella sostanza le loro stesse
mosse(andandopoioltrecon
la dottrina dell’«eterno
ritorno»).
«Io era spaventato nel
trovarmiinmezzoalnulla,un
nulla io medesimo. Io mi
sentiva come soffocare
considerando e sentendo che
tuttoènulla,solidonulla»(P
85).Dicevonelcapitolo3che
questo pensiero del 1819 è
l’anticipazione dei risultati a
cui Leopardi perviene due
anni dopo attraverso la loro
fondazione. La fondazione è
ciò che più conta. È il
momento decisivo, senza il
qualenonc’èfilosofia.
Senza questa fondazione
quel
«considerare»
e
«sentire»èsoltantounafede,
uno stato d’animo, che
magari
presagisce
semplicemente le cattive
condizioni di salute in cui
Leopardi verrà sempre più a
trovarsi lungo la sua breve
vita. Nel 1832 Leopardi
scriveva al filologo e amico
svizzeroLuigiDeSinneruna
celebre lettera, in cui
esclamava che «è stato per
effetto della vigliaccheria
degli uomini, che hanno
bisogno di esser convinti del
pregio dell’esistenza, che si
sonvoluteconsiderarelemie
opinioni filosofiche come
risultato delle mie sofferenze
particolari, e che ci si ostina
ad attribuire alle mie
situazioni materiali ciò che
dev’esser attribuito solo al
mio intelletto [«in base alle
mie ricerche», aveva scritto
pocoprima].Primadimorire
[Avant de mourir], mi
accingo a protestare contro
questa invenzione della
debolezza e della volgarità, e
a pregare i miei lettori di
sforzarsididistruggerelemie
osservazioni e i miei
ragionamenti piuttosto che di
accusarelemiemalattie».
«Osservazioni»
e
«ragionamenti». Nel giugno
1820 (P 140-41) indica il
primo tratto della sua
fondazione. Esso riguarda,
appunto, l’«osservazione» e
indica
l’«osservazione»
originaria: la «fatale e
sensibile evidenza». Evidente
è ciò che non richiede
nient’altro
per
essere
affermato;edèessoastareal
fondamento di ciò che non è
per se stesso evidente.
Ebbene, la «fatale e sensibile
evidenza» è l’evidenza della
«vanità delle cose», cioè la
loro«nullità»,lanullitàchea
esse compete per il loro
venire dal nulla e il loro
ritornarvi.
Il testo si sta riferendo
all’«impossibilità di esser
felice a questo mondo»
(corsivo mio) e pertanto
l’evidente «nullità di tutte le
cose» non può essere la
nullitàdiunaltromondo,che
non può essere sensibile, che
cioè non è «fatale e sensibile
evidenza». Intendo dire che
Leopardi
non
sta
presupponendo
arbitrariamente che tutte le
cose–sensibilienon–siano
vanità e che ciò sia evidente:
chetutte le cose siano vanità
è appunto quanto le sue
osservazioni e i suoi
ragionamenti
intendono
fondare.
In questo testo Leopardi
affermainvececheèevidente
che le cose di questo mondo
sensibile sono vane e nulle,
ossiasporgonoprecariamente
dal
nulla.
«Sensibile»
significa innanzitutto esser
«presente, manifesto in carne
eossa»,epertanto«provato»,
«vissuto»dall’uomo.Ciòche
è «sentito» è evidente:
«certezza e sentimento vivo
della nullità di tutte le cose
[di questo mondo] e della
impossibilità di esser felici a
questo mondo» (ibid.).
L’affermazione di questa
«evidenza» è costante negli
scritti di Leopardi. Nel
Dialogo di Timandro e di
Eleandro,peresempio,scritto
nel 1824, si legge: «Nessuna
cosacredosiapiùmanifestae
palpabile, che l’infelicità
necessaria di tutti i viventi»;
«necessaria»
perché
è
immediatamente
connessa
alla
manifestazione
e
palpabilità della nullità di
tuttelecosedelmondo.
Fino a questo punto,
d’altraparte–edèimportante
ribadirlo – il Giocatore Nero
è completamente d’accordo
col Giocatore Bianco. È anzi
dal suo inizio greco che la
tradizione
filosofica
dell’Occidente (il Giocatore
Bianco) afferma l’evidenza
originaria del diventare non
essere e dal non essere, da
parte degli enti. Il Giocatore
Nero avrà partita vinta
partendo
dalle
stesse
premessedelsuoavversario.
Va anche detto che,
all’interno della fede nel
diventaraltro,questoaccordo
è inevitabile. Ma questa è
un’affermazione che nessuno
dei due Giocatori può
pronunciare, appunto perché
per essi il diventar altro è
l’«evidenza» indubitabile e
innegabile, non è una fede.
Chesiaunafede,soltantouna
fede, lo dice il Terzo
Giocatore, che per ora sta
limitandosi a raccontare la
storiadellapartitatraglialtri
due.
Ladifferenza–estrema–
chesussistetraquest’altridue
Giocatori sta nel fatto che
quello Bianco ritiene che il
diventar nulla e da nulla
sarebbe impossibile (cioè in
se stesso contraddittorio) se
non esistesse un Essere
immutabile(ilmondosarebbe
impensabile se non esistesse
Dio); quello Nero, invece,
mostracheildiventarnullae
da nulla sarebbe impossibile
se un Essere immutabile
esistesse (impensabile, il
mondo,seDioesistesse).
Leopardi ha ragione
nell’individuare nell’Idea di
Platone la forma più
caratteristica
dell’Essere
immutabile.
Sin
dalle
primissime
pagine
dei
Pensieri
la
chiama
«prototipo», cioè «modello
primario»; pochi anni dopo è
indicata come il «tipo
assoluto,
universale,
immutabile,
necessario,
naturale, preesistente» (P
1187). Preesistente: che
esiste già prima (in quanto
immutabile,
necessario,
eterno) dell’incominciare a
esistere da parte delle cose
cheesconodalnulla–eche,
se è conosciuto dall’uomo, è
il
contenuto
di
una
conoscenza «innata». L’Idea
èilmodelloacuilecosedel
mondo
debbono
necessariamenteadeguarsi.
Ora, l’«esperienza» è
costituita
«dalle
nostre
sensazioni». In P 1339 (che
conlepagine1340-42,scritte
nel1821,formaedesprimeil
nucleo della mossa vincente
del ventitreenne Giocatore
Nero) si afferma che
l’esperienza «deriva» dalle
nostresensazioni.Masitratta
del «derivare» per il quale
l’esperienza
è
appunto
l’insieme, l’unità delle nostre
sensazioni. L’esperienza e le
sensazioni sono l’evidenza
originaria e indubitabile. Le
«sensazioni» infatti, per
Leopardi, non sono semplici
dati di senso privi di
coscienza: sono la coscienza
dellaloroindubitabilità.
«Nostre maestre», esse
«c’insegnano» qualcosa di
essenziale e di decisivo.
«C’insegnano che le cose
stanno così, perché così
stanno, e non perché così
debbanoassolutamentestare»
(P1339-40),ossialodebbono
perché i loro prototipi glielo
impongono. Nell’esperienza
le cose si presentano cioè in
un certo modo. L’esperienza
mostra la voce, il volto, la
gioventù e la primavera di
Silvia.Mostrachecosìstanno
le cose. Ma non mostra che
così debbano assolutamente
stare.Anzi,mostrachequella
voce,quelvolto,lagioventùe
la primavera sono passati.
«[…] Ahi come, / come
passata sei, / cara compagna
dell’età mia nova, / mia
lacrimata speme!» Sono
passati come sono venuti.
L’esperienza mostra che
Silvia ha incominciato a
essereecheprimanonera,e
pertanto ha incominciato a
essere venendo dal nulla di
ciòche,nellasuadeterminata
individualità,
è
stata;
l’esperienza inoltre mostra
che Silvia ha cessato di
essere, non è più ed è
diventata nulla. Non sarà
«mai più». E l’evidenza
dell’esperienza non può
esseresmentita.
MaseesistesseunEssere
eterno, se l’Idea esistesse, se
esistesse il «tipo assoluto,
universale,
immutabile,
necessario,
naturale,
preesistente», cioè esistente
primaedopol’esistenzadelle
cose del mondo, allora
esisterebbe il modello al
quale è necessario che tali
cose si adeguino, ossia il
modello per il quale le cose
stanno così perché così
debbonoassolutamentestare.
In
tal
modo,
l’ammaestramento
dell’«esperienza» e delle
«sensazioni»,
che
è
l’evidenza indubitabile – e
che è evidenza indubitabile
anche per Platone e per il
pensiero dell’Occidente in
generale – verrebbe a essere
smentito, negato. Se le cose
stanno così perché l’Idea
impone loro di essere come
stanno, esse non sono più un
venire dal nulla e un
ritornarvi, ma sono un venire
dagli ordini del preesistente
edeternoOrdinamentodivino
secondo il quale il mondo
esiste, e un ritornare a tale
Ordinamento.
L’esistenza
dell’Idea e di ogni Eterno
trasforma in ente il nulla da
cui gli enti sporgono
provvisoriamente,
cioè
cancella il divenire, il
diventaraltro.
Ma
l’evidenza
del
diventar altro non può essere
smentita.
Dunque
quell’Ordinamento non può
esistere. Dunque nessun
Essere eterno può esistere.
«In somma, il principio delle
cose […] è il nulla». E,
ormai,ilnullaèilprincipiodi
tutte le cose. «Certo è che,
distrutte le forme Platoniche
preesistenti alle cose, è
distrutto Iddio» (P 1340).
Leopardi fonda la necessità
della «morte di Dio»
sessant’anni prima che venga
mostrata dallo Zarathustra di
Nietzsche, e mostrata con un
andamento
concettuale
analogoaquellodiLeopardi.
Propriamente, all’inizio
del Pensiero che termina
affermando la distruzione di
Dio,iltestodice:«Insomma,
il principio di tutte le cose, e
diDiostesso,èilnulla».Ma
il fatto che al termine di
questo stesso Pensiero, cioè
dopo una trentina di righe,
Leopardi scriva che, distrutte
le Idee platoniche, «è
distrutto Iddio» non è
un’incredibilecontraddizione.
Il Dio a cui si riferisce
all’iniziononèinfattiilDioa
cui si riferisce alla fine. (E
non mi sembra una
circostanza
del
tutto
estrinseca che all’inizio
Leopardi scriva «Dio» e
inveceallafine«Iddio».)
Giànel1820,infatti,inun
altro grande gruppo di
Pensieri,
dedicato
al
cristianesimo,
Leopardi
scrive:«Lanaturaèlostesso
che Dio» (P 393). Sta
riferendosi alla natura come
«desiderio
infinito
del
piacere»,ossiacomeimpulso
acoprirelaveritàangosciante
della nullità e vanità delle
cose. Al di là di ciò che il
cristianesimo crede di sapere
del suo Dio, il Dio del
cristianesimo è, in verità,
quell’umano
desiderio
infinito. Tale desiderio
proibisce ad Adamo di
conoscerelaverità;glidicedi
non conoscerla, se non vuole
morire. Si tratta di una delle
interpretazioni più originali e
profondedelcristianesimo.
Ma intanto è chiaro che,
in P 1341-42, mostrando
l’inesistenza di ogni Essere
eterno,
Leopardi
sta
mostrando che il nulla è il
principioanchedel«desiderio
infinito di felicità», ossia di
questo«Dio»cheèlanatura.
Qui sta dicendo che, nel
divenire, il principio da cui
provengono tutte le cose,
quindi anche la naturadesiderio-Dio,èilnulla.Alla
fine di questo Pensiero,
invece, quando sostiene che
la «distruzione» delle Idee
platoniche preesistenti è la
«distruzione»
di
Dio,
Leopardi intende affermare
che le Idee e il Dio come
Essere eterno non sono mai
esistiti,echela«distruzione»
di cui egli sta parlando è
l’accertamento
dell’impossibilità di tale
esistenza. La morte di Dio
non è cioè un processo, un
realedivenireincuidapprima
Dio esiste e poi non esiste
più; ma l’accertamento che
l’Essere eterno è solo il
contenutodiunaimmensaed
erroneaillusione.
Il genio filosofico di
Leopardi
conduce
l’Occidente
di
fronte
all’impossibilità di negare la
nullità e la vanità delle cose.
Conduce inevitabilmente allo
spettacolo spaventoso della
verità, ossia a ciò che in
generesitememache–privi
di quel genio, e avendo del
resto «bisogno di esser
convinti
del
pregio
dell’esistenza» – si può
credere che non esista, come
tuttora avviene negli epigoni
dellatradizioneoccidentale.È
quel genio a mostrare che la
vera
e
insuperabile
condizione umana, al di là
delle illusioni, è la nullità
della vita: «Io era spaventato
nel trovarmi in mezzo al
nulla, un nulla io medesimo.
Io mi sentiva come soffocare
considerando e sentendo che
tuttoènulla,solidonulla».
6
Ilfilosofo,ilpoeta;
loroseparazioneeloro
unità
Il Giocatore Nero ha partita
vinta giocando sulla stessa
scacchiera di quello Bianco.
Non si tratta di una
concessione, quasi che il
GiocatoreNeroabbiaunasua
propria scacchiera alla quale
abbia
provvisoriamente
rinunciato: il Giocatore
Bianco, infatti, ha preparato
la scacchiera su cui gioca
l’intera storia dell’Occidente
e ormai del Pianeta. È il
Bianco, infatti, ad aver
evocatoquellaformaestrema
del diventar altro che è il
diventar nulla e da nulla, e
che, rigorosamente pensata,
conduce inevitabilmente ad
affermare che il nulla è il
principio di tutte le cose. In
altre parole, è il Bianco ad
aver evocato l’epistéme della
verità,nellaqualesiafferma,
per la prima volta, quella
forma estrema del diventar
altro che ancora essa
consideracomeindubitabilee
fondamentaleevidenza.
Leopardi, dopo aver
richiamato un passo di
DiogeneLaerzio,dovesidice
cheperSocrate«vièunsolo
bene, l’epistéme, e un solo
male, il non sapere [ten
amathían]»,
commenta:
«Oggidì possiamo dire tutto
l’opposto,
e
questa
considerazione può servire a
definire la differenza che
passa tra l’antica e la
moderna sapienza» (P 231,
settembre 1820.) Possiamo
diretuttol’opposto,nelsenso
che, avendo avuto partita
vinta sul Giocatore Bianco,
dobbiamo dirlo. E «tutto
l’opposto»èchevièunsolo
bene, il non sapere (amathía), e un solo male,
l’epistéme (máthos): la
conoscenza della verità. È
questaconoscenzaafarsìche
il Giocatore Nero, appena vi
perviene, «si senta come
soffocare considerando e
sentendo che tutto è nulla,
solidonulla».
In questa fase della sua
riflessione–nellafasecioèin
cui Leopardi, come vedremo,
considerasolounodeifattori
della situazione in cui ci si
può trovare conoscendo la
verità – egli giunge a far
pronunciare da Eleandro, nel
Dialogo di Timandro e di
Eleandro, la condanna più
radicale della filosofia in
quanto conoscenza della
verità.EleandroèilGiocatore
Nerochecondannasestesso.
Dice: «Dunque s’ingannano
grandemente quelli che
dicono e predicano che la
perfezionedell’uomoconsiste
nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono
dalle opinioni false e
dall’ignoranza,echeilgenere
umano allora finalmente sarà
felice, quando ciascuno o il
più
degli
uomini
conosceranno il vero». Sarà
invece necessario affermare
che le verità della filosofia
«debbano essere ignorate o
dimenticate da tutti: perché
sapute, e ritenute nell’animo,
non possono altro che
nuocere. Il che è quanto dire
che la filosofia si debba
estirpare dal mondo» e che
«l’ultima conclusione che si
ricava dalla filosofia vera e
perfetta,siè,chenonbisogna
filosofare.Dalches’inferisce
che
la
filosofia,
primieramente, è inutile,
perchéaquestoeffettodinon
filosofare [ossia: per arrivare
a non filosofare] non fa di
bisogno esser filosofo;
secondariamente
è
dannosissima, perché quella
ultimaconclusione[ossiache
è dannosissima] non vi si
impara se non alle proprie
spese,eimparatachesia,non
si può mettere in opera, non
essendo in arbitrio degli
uomini dimenticare le verità
conosciute […]. In somma la
filosofia,
sperando
e
promettendo a principio [in
unprimotempo]dimedicare
i nostri mali, in ultimo si
riduce a desiderare invano di
rimediareasestessa».
Il nome «Eleandro»
significa «colui che nutre
pietà» (o il «nutrir pietà»,
eleéin) per l’uomo (anér).
Avendopietà,tentadievitare
che gli uomini conoscano la
verità. (È lo schema del
Grande
Inquisitore
di
Dostoevskij, dove Ivan è in
qualche modo un alleato del
Giocatore
Nero.)
Propriamente, ha pietà per la
gente comune; e Leopardi
condanna la Rivoluzione
francese in quanto volontà
che la Dea ragione – quindi,
in sostanza, la filosofia –
divenga la Dea delle masse.
Eleandro-Leopardi crede che
la filosofia dell’Illuminismo
apra
la
strada
al
disincantamento al quale egli
è pervenuto. Leopardi scrive
erendenotalaveritàsoltanto
aidottidelsuotempo,versoi
qualinonsisenteindoveredi
nutrire troppi sentimenti di
pietà.
Eppure, come abbiamo
incominciato a dire sopra, in
questo capitolo, Eleandro
esprime solo una fase della
riflessione di Leopardi sulla
verità: solo uno dei fattori
della situazione in cui ci si
può trovare conoscendo la
verità.
Nel canto La ginestra
compare la «nobil natura»
(cfr. cap. 3). E in posizione
centrale,vv.111-117,giacché
la ginestra è la stessa nobile
natura.
Nobil natura è
quella
Che a sollevar
s’ardisce
gli
occhi
mortali
incontra
al comun fato,
e che con
francalingua,
nulla al ver
detraendo,
confessailmal
che ci fu dato
insorte,
eilbassostato
efrale;[…]
Compare,qui,unanaturache
«s’ardisce». Per Eleandro
inveceèpietà,nonardimento,
nascondere
la
verità
all’uomo. All’opposto, la
nobile natura ha l’ardimento
disollevaregliocchisulfato
comune,ilmaledatoinsorte
all’uomo, guardando la
verità: «nulla al ver
detraendo»,senzanascondere
alcunchédiciòchediessafa
piùmale.Eguardarelaverità
è il compito della filosofia.
Allanobilenaturacompetedi
essere filosofo, anche se non
lecompetesoltantoquesto.
Essendo
nobile,
la
filosofia non è dunque, come
invece afferma Eleandro, né
«inutile»,né«dannosissima»,
né «si riduce a desiderare
invano di rimediare a se
stessa». Eleandro, d’altra
parte, parla della filosofia
considerandola nel suo
isolamento,nelsuononesser
accompagnata da nient’altro;
e in questo senso il discorso
di Eleandro è ineccepibile.
Ma se la nobile natura non
può non pensare la vera
filosofia, essa non è soltanto
questopensare.
Leopardi sa bene che
nobilis è riconducibile a
nosco e che quindi indica
coluialqualespettadiessere
noto, riconosciuto, visibile,
celebrato. Alla nobile natura
spetta di essere riconosciuta
perché, innanzitutto, conosce
la verità: vede il «comun
fato»:
l’inimicizia
(La
ginestra,v.126)chel’«empia
natura» (v. 148) ha per
l’uomo (l’empia natura,
nemica sia della nobile
natura, sia della natura in
quanto desiderio infinito di
felicità). Vede quindi la
stoltezza(v.138)dellaguerra
tra
gli
uomini,
che
dimenticano la comune
nemica, «e tutti abbraccia /
converoamor»(v.132).Non
l’amoreelapietàdichicrede
nell’esistenza di un Dio
eterno da cui può esser
salvato. Se la pietà di
Eleandroglifadirecheperla
gente
è
estremamente
dannoso conoscere la verità,
la nobile natura pensa invece
chelaconoscenzadellaverità
(il«veracesaper»,v.151)da
parte dei popoli possa
ricostruire
in
essi
quell’originario
atteggiamento di solidarietà
che consente loro di
difendersi per qualche tempo
dall’ostilità
dell’«empia
natura». Quando questo
avverrà,alloralagiustiziaela
pietà avranno un senso
diverso da quello da esse
mostratoquandononsivuole
vedere la nullità di ogni cosa
(«e giustizia e pietade, altra
radice/avrannoallorchenon
superbefole»,vv.153-54).
Ma, ancora una volta, il
pensiero di Leopardi non si
sta contraddicendo, perdendo
il controllo delle proprie
affermazioni. All’opposto,
esso è straordinariamente
rigoroso.
Primo:
Leopardi
consideral’atteggiamentoche
nell’Infinito ha una delle sue
più
alte
espressioni,
l’atteggiamento dell’anima
che si rifugia nell’illusione
(l’illusione che l’uomo si
possa salvare dal nulla), vi si
chiude, si isola dalla verità
terribile, e quindi, non
potendo nemmeno sapere
alcunché del suo essere
illusione e di questo suo
rifugiarsi e chiudersi in essa,
vive e sente come realtà
l’infinito
e
l’eterno.
L’illusione in cui l’anima si
chiudeèlapoesia,ilcanto.E
Leopardi non si limita a
considerareilcanto,macanta
nelmodopiùalto.(Etuttavia,
considerando
questo
atteggiamento, Leopardi sta
al di sopra di esso: è il
filosofare che comprende il
sensodelpoetareedelcanto.)
Secondo:
Leopardi
considera
l’atteggiamento
opposto, come accade nel
Dialogo di Timandro e di
Eleandro; dove, appunto, si
considerailpurofilosofare(si
considerailconsiderare),cioè
la filosofia chiusa in sé e
separata dalla poesia, dal
canto.
Terzo:Leopardiconsidera
l’unità dei due atteggiamenti
cui nelle prime due
considerazioni ha guardato
separando l’uno dall’altro.
Uno dei culmini di questo
guardare a tale unità è La
ginestraoilfioredeldeserto.
Laginestraèuncanto.Canta
l’unità del canto, ossia
dell’illusione, e della verità.
La nobile natura è questa
unità. Anche nei Pensieri
questa unità è ampiamente e
benprestopresente.Espesso
l’andamentodiquestiappunti
ha la grandezza di un canto.
Sitrattadicapireperchéein
che senso l’unità del canto e
della conoscenza della verità
non
sia
un’inguaribile
contraddizione.
NellaGinestralapoesiaè
poesia dell’unità della poesia
e della visione della verità.
Nella poesia di questa unità
c’èlapoesiachecontienetale
unità,echeèlosplendoredel
canto La ginestra, e c’è la
poesia cantata. La poesia
cantata è appunto la ginestra,
ilfioredeldeserto.
Qui su l’arida
schiena
del formidabil
monte
sterminator
Vesevo,
la
qual
null’altro
allegra arbor
néfiore
tuoi
cespi
solitari intorno
spargi,
odorata
ginestra,
contenta dei
deserti.[…]
(vv.1-7)
«Qui», è la prima parola del
canto.Lapuòdirechisitrova
lì,dovesitrovalaginestra.E
lì si trova il cantore. Lo dice
eglistesso:
Sovente
a
questerive,
che, desolate,
abruno
veste il flutto
indurato, e par
cheondeggi,
seggo la notte;
[…]
(vv.158-61)
Einquestostarenotturnodel
cantoresirispecchialarovina
cheavvolgeilfioregentile:
[…] Or tutto
intorno
Una
ruina
involve,
dove tu siedi,
o fior gentile,
[…]
(vv.32-34)
Ilcantorevedesestessonella
ginestra. Anche perché egli
vede se stesso nella nobile
natura, la quale «tutti
abbraccia/converoamor»e
porgeloroaiuto(vv.132-35),
così come, dice il cantore
rivolgendosialfioregentile,
[…]equasi
i danni altrui
commiserando,
alcielo
di dolcissimo
odor mandi un
profumo
che il deserto
consola.[…]
(vv.34-37)
Il deserto è l’uomo. L’empia
natura (di cui il Vesuvio
«sterminatore» è l’icona) lo
ha reso un deserto. La
ginestra lo consola col suo
profumo. Il cantore è la
nobile natura; essa è il
cantore, è cioè la ginestra. Il
profumoèilcantodelfiore;il
profumo è la poesia.
Cantando la ginestra, La
ginestracantalapoesia.Maè
una poesia che viene cantata
dalla nobile natura e quindi
non detrae nulla alla verità:
poesia che sta unita alla
verità. La nobile natura è
questaunità.Leopardichiama
«genio» questa vivente unità.
La ginestra è un’opera del
genio.
Certo, la presenza della
ragione nell’uomo introduce
inluiunacontraddizione:egli
desidera la felicità, vuole
illudersi, ma la ragione,
mostrandogli la verità, gli
mostra che la felicità è
impossibile;
tuttavia
è
inevitabile che nell’opera del
genio la visione della verità
sia unita all’illusione: a
quell’illusione che è la
potenzaconcuil’operacanta
laverità.
7
Lucidellamorteedel
canto
Sedici anni prima della
Ginestra, Leopardi aveva
scritto: «Hanno questo di
proprioleoperedigenio,che
quando anche rappresentino
al vivo la nullità delle cose,
quando anche dimostrino
evidentemente e facciano
sentire l’inevitabile infelicità
della vita, quando anche
esprimano le più terribili
disperazioni, tuttavia a
un’animagrande,chesitrovi
ancheinunostatodiestremo
abbattimento,
disinganno,
nullità […], servono sempre
di consolazione» (P 259,
ottobre
1820).
La
consolazionedelfiorechecol
suo profumo «il deserto
consola». Infatti un’opera è
del genio quando in essa «lo
stesso
conoscere
l’irreparabile vanità e falsità
diognibelloediognigrande
è una certa bellezza e
grandezza
che
riempie
l’anima»(P 260). Tale opera
è quella dell’arte e della
filosofia(P 1189). Il genio e
l’«animagrande»checapisce
lasuaoperavedonochetutto
è preda del nulla, ma la
potenza con cui lo vedono li
trattiene,
sia
pure
provvisoriamente, al di fuori
delnulla.
L’«anima» che capisce
l’opera del genio è «grande»
perché è essa stessa genio.
Nel Pensiero del 1820 si
guardaallasalvezzadeigeni,
e anche per loro, per i pochi,
l’unica salvezza possibile è
breve:nellaGinestrasipensa
untempofuturoincuil’opera
del genio possa diventare
palese a tutti («Così fatti
pensieri / quando fien, come
fur,palesialvolgo»,vv.14546);maancheperlaginestra,
che è la nobile natura del
genio, la salvezza è breve:
«anche tu presto alla crudel
possanza / soccomberai del
sotterraneo foco» (vv. 30001).
Le opere del genio
«dimostrano evidentemente e
fanno sentire» il nulla e
l’infelicità: alla crudele
«possanza» del fuoco, cioè
dell’annullamento,
oppongonola«forza»concui
rendono palpabile e fanno
sentire quel fuoco. «Il
sentimento del nulla è il
sentimentodiunacosamorta
emortifera»(P 261). Il nulla
uccideilsentimentoconcuiè
avvertito.
È
appunto
«mortifero»;edopoaverreso
indifferente e insensibile chi
lo sente, lo annulla.
(«Giacché non è piccolo
effetto della cognizione del
gran nulla, né poco penoso,
l’indifferenza e insensibilità
che [tale cognizione] inspira
ordinarissimamente, e deve
naturalmente inspirare, sopra
lo stesso nulla», ibid.).
Leopardi chiama «noia»
questosentimentomortifero.
Ma nel genio il
sentimento del nulla è vivo,
potente, e allora «la sua
vivacitàprevale»sullanullità
di ciò che tale vivacità fa
sentire: «l’anima riceve vita,
senonaltropasseggiera,dalla
stessa forza con cui sente la
morte perpetua delle cose e
suapropria»(ibid.).Quelche
«veduto nella realtà delle
cose accora e uccide
l’anima», veduto invece
nell’opera del genio «apre il
cuoreeravviva»(P260).Ciò
chesifavederenellarealtàè
laverità,elaveritàfavedere
il nulla di ciò che è reale.
Questa
visione
uccide
l’anima,larendeinsensibilee
indifferente. Ma la forza con
cuiilgenioesprimelavisione
della verità fa sì che tale
visione apra il cuore e lo
ravvivi, faccia sentire vivi,
capacidiresisterealnulla.
E il genio si sente ben
vivo nella cura appassionata
chehaperilsuolavoroeper
il suo mostrare la nullità di
ogni cosa e sua propria. È la
cura
estremamente
appassionatachehaLeopardi
per il proprio modo di
esprimere quella nullità. Egli
stesso, nel rilevare quanto
«studiosamente» il genio la
esprima (ibid.), rinvia alle
pagine 214-15 del suo
manoscritto, dove egli parla
disé,eallargandoildiscorso
a«tuttigliscrittori»ea«tutti
ifilosofi»che,«dipingendola
disperazione
e
lo
scoraggiamento totale della
vita», hanno la potenza del
genio, si chiede: «Ebbene?
Contuttalalorodisperazione
passata, con tutto che
scrivendo
sentissero
vivamentelanaturaelaforza
di quelle acerbe verità e
passioni che esprimevano
[…], e per conseguenza
sentissero e avessero quasi
perlemaniilnulladellecose,
tuttavia si prevalevano [si
servivano] del sentimento
stesso di questo nulla per
mendicar gloria […], e col
desiderio
della
morte
vivamente
sentito,
e
vivamente espresso, non
cercavano altro che di
procurarsialcunipiaceridella
vita».
Che l’anima riceva vita
dalla forza con cui sente la
morte delle cose e la propria
nonèperòunasituazioneche
siproducesoltantonell’opera
del genio. Qui si produce nel
modo più potente, perché
dopol’irruzionedellaragione
nell’uomoilgenioproducele
illusioni più potenti. Ma vi
sono altri modi, che
riguardano tutti coloro che
soffrono. Il Pensiero 140-41
(scritto qualche mese prima
di P 259-60) dice per
esempio: «Il dolore o la
disperazione che nasce dalle
grandi passioni e illusioni o
da qualunque sventura della
vita, non è paragonabile
all’affogamento che nasce
dalla certezza e dal
sentimento vivo della nullità
di tutte le cose». Questo
«affogamento» (che è il
soffocamentodicuiparlainP
85) è ben peggiore di quel
dolore. (Tale dolore nasce
dalle grandi illusioni, nel
senso che si produce quando
a esse subentra la delusione.)
Infatti quel dolore «ha più
della vita» – possiede
maggiormente il carattere
dellavita–,«èpienodivita»,
mentre l’altro dolore, che
consiste
in
quell’«affogamento»,«ètutto
morte». Tanto che, rispetto a
esso, la morte stessa «è cosa
piùviva».Mentreesso«èpiù
sepolcrale, senz’azione senza
movimento senza calore, e
quasisenzadolore».Anchein
questo caso, quindi, il dolore
che nasce dalla sventura, e
che quindi vede in modo più
o meno esplicito la nullità di
ciò che si ama, riceve vita
dalla forza con cui sente la
morte.Poichélanobilenatura
vede e sente con maggior
forza la morte, tale natura
(che può esistere solo se la
ragione l’ha corrotta) è la
maggior sofferente. Ma c’è
quell’altro
dolore
«più
sepolcrale» «e quasi senza
dolore»cheèla«noia».
D’altra
parte,
se
conoscerelanullità dituttoè
conoscenzadellaverità,allora
– e Leopardi lo rende
esplicito – anche la stessa
«forza» con cui l’anima del
genio conosce la verità è
illusione, ossia opera della
naturacomedesiderioinfinito
di piacere, di vita felice; e,
perottenereciòchedesidera,
ildesideriodeveilludersi.Da
quando la ragione ha fatto
irruzione in questa natura, la
nobile natura è la forma più
alta di tale desiderio. In essa
l’illusione è unita alla verità
nonperchél’unapossaessere
(contraddittoriamente) l’altra,
maperchélapotenzaconcui
il genio esprime la verità,
cioè la vittoria del nulla su
tutto, gli dà l’illusione di
poter vincere il nulla e in
qualche modo di essere
eterno.
Lanobilenaturadelfiore
del deserto continua a
esprimere la propria finitezza
e non eternità. Il suo canto
contiene alcuni dei momenti
più alti della lirica di ogni
tempo.Peresempioilgrande
notturno dove il poeta,
sedendo
sulle
«rive»
«desolate» del vulcano
guardailcielo.
Un «crescendo», dove il
fuoco«indurato»dellalavasi
scioglie e si rispecchia,
sempre più vasto, nel
«purissimo azzurro» (vv.
158-185): «Veggo dall’alto
fiammeggiar le stelle» che
agli occhi «sembrano un
punto,/esonoimmense»,«e
quando miro / quegli ancor
più senz’alcun fin remoti /
nodi di stelle», ai quali non
solo l’uomo e la Terra, ma
perfino l’«aureo sole» e le
nostrestellesonosconosciuti,
«al pensier mio che sembri,
allora,oprole/dell’uomo?».
Certo, questa prole è
nulla,malapoesia,checanta
l’infinito fiammeggiare delle
stelle,riesceacontenereinsé
quell’infinito e a mantenersi
in qualche modo al di sopra
deltempo.IlcantoL’infinito,
dovelapoesianonviveunita
alla filosofia, si illude che
l’infinito sia il contenuto
reale a cui essa si rivolge.
Nella Ginestra, dove invece
la poesia vive unita alla
verità, e pertanto alla
filosofia, il canto evoca ed è
esso stesso l’infinito, nel
sensochel’infinitoèlaforma
del canto, l’«aura» che è
propriadelpoetico(P 136) e
cheavvolgelaveritàterribile
delsuocontenutoreale.
Prima di dare inizio al
canto
della
Ginestra,
Leopardiriportaunpassodel
Vangelo
dell’apostolo
Giovanni: «E gli uomini
vollero piuttosto le tenebre
che la luce» (III, 19). Ma ne
rovesciailsenso.Lacitazione
è dolentemente ironica. Per
Giovanni la «luce» (phos) è
Cristo, che però riesce infine
a vincere la morte; Leopardi,
invece,hamostratoormaiche
la luce è quell’unità di verità
e di poesia che si produce
nella nobile natura del genio,
dove la verità è la vittoria
definitiva della morte e del
nulla. Il fuoco del vulcano è
l’immagine della morte. Il
fiore gentile sta sull’«arida
schiena»dellamorte.Ciòche
perGiovanniè«laluce»,per
Leopardisono«letenebre».
Certo,anchequelfuocoè
«luce»: «sinistra face» (v.
284). Essa si rispecchia
nell’uomo e nell’uomo
diventatonobilenatura:c’èil
«peregrino», il viandante che
vede e in cui si rispecchia
l’aggirarsi del fuoco sinistro
tralevuoterovinediPompei;
e ci sono le opere del genio
che
«raccendono
l’entusiasmo»(P260).
Riaccendono
l’«essere
ispiratidaldio»,iltrovarsiin
qualche
modo
dinanzi
all’eterno e all’infinito.
Accendereprovienedallatino
candere, «essere abbagliante,
splendente», e questa è
appunto la proprietà della
«luce». L’opera del genio
rimette in luce il trovarsi in
qualche modo dinanzi al
divino,eternoeinfinito.
Sisonocioèpresentatitre
sensi della «luce», che si
implicano a vicenda: la luce
delfuocoannientante(laluce
terribile della verità); il
rispecchiarsi di esso nella
coscienza dell’uomo, che
tenta di difendersene con le
illusioni procacciategli dalla
natura (in quanto desiderio
infinito del piacere); il
rispecchiarsi di tale fuoco
nella potenza con cui viene
espressonell’operadelgenio.
Lo «scheletro» della città
distrutta dal vulcano viene
dissepolto:
e dal deserto
foro
diritto infra le
file
dei
mozzi
colonnati
il
peregrino
lunge
contempla il
bipartitogiogo
e la cresta
fumante,
che alla sparsa
ruina
ancor
minaccia.
E nell’orror
della secreta
notte
per li vacui
teatri per li
templi
deformi e per
lerotte
case, ove i
parti
il
pipistrello
asconde,
come sinistra
face
che per vòti
palagi
atra
s’aggiri,
correilbaglior
della funerea
lava,
che di lontan
perl’ombre
rosseggia e i
lochi intorno
intornotinge.
(vv.274-88)
Iprimiduesensidella«luce»
sonoquinominati:ilbagliore
dellalavaeilsuodiffondersi,
oltre che nelle rovine della
città,
nell’attonita
contemplazione
del
«peregrino». Il terzo senso
della «luce», qui, non è
nominato,maèilnominante,
la luminosa potenza della
poesia che nell’atto in cui
mostra l’orrore dell’oscurità
notturna dove spicca il fuoco
annientante sembra sollevarsi
su di esso, diffondendo una
luce diversa. La stessa dei
versi158-85,chesisollevaal
di sopra del pur infinito
«fiammeggiare»,
nel
«purissimoazzurro»,distelle
e di «quegli ancor più
senz’alcun fin remoti / nodi
quasidistelle»,«cuidilontan
fa specchio il mare», e il
cantore vede «tutto di
scintille in giro / per lo vòto
serenbrillareilmondo».
Il«purissimoazzurro»eil
«vòto seren» guardano da
lontano «la mesta landa» su
cui siede il cantore; e il
«sereno» è «vuoto», il vuoto
del nulla, e non può
rasserenare l’uomo, perché
quel brillare del mondo è la
proiezionesultuttodelfuoco
annientante del vulcano; o
questo fuoco è il prender
forma sulla Terra del fuoco
cosmico (il «fuoco e le
«fiamme» annientanti di cui
parla il Frammento apocrifo
di Stratone da Lampsaco).
Nell’incessante produzione e
distruzione di cose e mondi,
dove solo la morte e il nulla
sono l’eterno, quella serenità
è la totale indifferenza
dell’«empia natura» per la
sortedell’uomo.
Nel canto, l’annientante
fiammeggiare del tutto è
nominato. E tuttavia il canto
nominante ha l’ardimento di
sollevare gli occhi e di tener
fermo lo sguardo sul
nominato («Nobil natura è
quella / che a sollevar
s’ardisce / gli occhi mortali
incontra/alcomunfato»):
Sovente
a
questerive,
che, desolate,
abruno
veste il flutto
indurato, e par
cheondeggi,
seggo la notte;
e su la mesta
landa
in purissimo
azzurro
veggodall’alto
fiammeggiarle
stelle,
cuidilontanfa
specchio
ilmare,etutto
di scintille in
giro
per lo vòto
serenbrillareil
mondo.
E poi che gli
occhi a quelle
luciappunto,
(vv.158-67)
Sesiconsiderailmodoincui,
nel canto, la luce annientante
è guardata, allora essa è
sovrastata dalla luce del
canto:ilpurissimoazzurro,il
fiammeggiare e brillare delle
stelleedelmondoeilsereno
lascianosottodisélapropria
forma minacciosa e sono
tratti dell’entusiasmo del
canto, la luce della sua
potenza. E nel canto
l’immagine della «sinistra
face»chenellanottecorretra
irestidiPompeinonhanulla
di sinistro, ma «par che
ingrandisca l’anima del
lettore, la innalzi e la
soddisfaccia di sé stessa e
della propria disperazione
[…],el’animaricevevita,se
non altro passeggiera, dalla
stessa forza con cui sente la
morte perpetua delle cose e
suapropria»(P261).
8
Lapotenzadella
nobilenatura
A questo punto della partita
tra il Giocatore Bianco e
quelloNero(doveilTerzo,in
sostanza, si è fatto sentire
quasi solo per descriverla),
c’èforsebisognodidissipare
un malinteso che potrebbe
sorgereapropositodiquanto
si è detto nel capitolo
precedente sulla «nobile
natura» e sull’«opera del
genio».
Varibaditocioè,secene
fossebisogno,cheilpensiero
di Leopardi non ha nulla da
spartire con l’atteggiamento
dell’«anima bella» che, dice
HegelnellaFenomenologia,è
quel «rifiuto dell’azione nel
mondo» che del resto «porta
alla perdita di sé». Non ha
nulla a che vedere col
rifugiarsi nell’«opera d’arte»,
nel sentimento «estetico» o
«intimistico»,
o
nell’«umanesimo», dove si
crede ingenuamente di poter
prescindere dalle forze che
agiscono nel mondo, come
quelle delle armi, della
politica, dell’economia, della
scienza moderna, della
tecnica.Ciònonsignificache
le anime belle stiano dalla
partedelGiocatoreBianco:le
si può trovare sia al suo
seguito sia al seguito del
Nero. In altre parole,
Leopardi le tiene lontane da
sé nel modo più fermo. Il
pensiero di Leopardi è la
dottrina della volontà di
potenza. Risulta soprattutto
da quanto si è richiamato sin
qui a proposito della lotta
dell’uomo contro il nulla, e
da qualche precisazione che
verràoraintrodotta.
Per non morire soffocato
dalla
Barriera
che
inizialmente lo circonda, si è
detto, l’uomo deve diventar
altro e far diventar altro il
mondo. Ma in tal modo egli
evoca daccapo la morte, alla
quale credeva di essere
sfuggito, in quanto essa
appartiene all’essenza del
diventar altro. Ed evoca la
forma estrema della morte:
quellachesiproducequando
il diventar altro è pensato e
vissutocomeildiventarnulla
(cfr. cap. 4. Un quadro,
questo ora richiamato, che è
piùvolteconsideratoneimiei
scritti,machenoncostituisce
ancora l’essenza del Terzo
Giocatore: potrebbe infatti
venir tratteggiato anche dagli
altridue).
Lalottacontrolamorteè
l’agire originario dell’uomo.
Ogni altro agire ne è una
conseguenza. Secondo uno
dei modi centrali in cui
Leopardiladefinisce,lalotta
contro la morte è la «natura»
come desiderio infinito di
piacere, cioè di vita, giacché
per esser desiderata essa non
dev’essere vita infelice ma,
appunto,piacere.Elavolontà
di vita è volontà di potenza:
per vivere, sia pure una vita
breve, è necessario avere
potenza sulla morte, sulle
forze che a essa conducono;
insomma è necessario agire.
L’uomo è essenzialmente un
essere pratico. Ogni tipo
d’uomo lo è. Anche l’uomo
religioso,
contemplativo,
metafisico,chesirivolgeesi
allea alla suprema potenza di
Diovedendoinluilasalvezza
dallamorte.
Ma «la ragione è nemica
dellanatura»(P15).Leopardi
incomincia ad affermare
questo principio già nei
primissimi
Pensieri
(osservando, a tal proposito:
«Gran verità, ma bisogna
ponderarle bene»). «La
ragione è nemica di ogni
grandezza; la ragione è
nemicadellanatura;lanatura
è grande, la ragione è
piccola». Non perché la
ragionerimpiccioliscaciòche
è grande, ma perché vede la
piccolezza di tutto, cioè
l’incapacità di ogni cosa di
esseregrandeediresistereal
nulla;mentrelanatura,cheè
«dominata dalle illusioni»,
ingrandisceilpiccoloeriesce
a far sì che le «imprese», le
azioni,
siano
grandi.
«Esempio: l’impresa di
Alessandro: tutta illusione»
(ibid.).
Dunque è già uomo
pratico il Giocatore Bianco.
Quello Nero gli obietta di
adottare però una pratica che
in fondo risulta incapace di
vincerelamorte.IlGiocatore
Nero non ritiene di poterla
vincere, ma afferma che, per
quelpococheèconsentito,si
puòviveresoloadottandouna
pratica diversa da quella
sostenuta dal suo avversario.
Affidando cioè non a Dio
l’agire
salvifico,
ma
all’uomo, e affidandogli,
come forma suprema, più
efficace e ultima dell’agire,
non
l’azione
religiosa,
morale, politica, economica,
tecnica, in quanto guidate
dalla ragione, ma l’azione
poetica, peraltro a sua volta
unita alla ragione. «Poesia»,
ripetiamo, proviene dalla
parola greca poíesis, che
innanzitutto
significa
«produzione». Si agisce solo
sesiproduceciòchetieneper
un poco lontana la morte.
Dopo il fallimento di ogni
altra forma di azione,
Leopardivedenelcantodella
poesia, cioè nell’opera del
genio, l’ultima difesa contro
ilnulla.
Questo
discorso
fa
comprendere, tra l’altro,
come «il cristianesimo debba
averresol’uomoinattivo»(P
253). Nel cristianesimo,
«l’uomo considera questa
terracomeunesilioenonha
cura se non di una patria
situatanell’altromondo»,e«i
popoli abituati, massime il
volgo,allasperanzadibenidi
un’altravita,divengonoinetti
per questa, o, se non altro,
incapaci di quei grandi
stimoli che producono le
grandi
azioni»:
«il
cristianesimo ha contribuito
non poco a distruggere il
bello, il grande, il vivo, il
vario di questo mondo,
riducendo
gli
uomini
dall’operare al pensare» e
facendo diventare il mondo
«monotonoemorto»(P25354).
Tutte le forme di azione
che falliscono sono quelle
guidate dalla ragione o con
essa compromesse: dalla
ragione che per essere
autenticamente se stessa
riesce infine a spogliarsi di
ogni illusione. Ma, così
spoglia,èinevitabilecheessa
veda la nullità e vanità di
ogni cosa. Il Giocatore Nero
l’hamostrato.Cosìspoglia,la
ragione spinge nella «noia»,
nel «sentimento del nulla»
(«sentimento di una cosa
morta e mortifera», P 261),
che
è
«sepolcrale,
senz’azionesenzamovimento
senza calore, e quasi senza
dolore»(P141).
Senza azione, senza
movimento, senza calore!
Leopardi sa bene che le
intenzioni della ragione sono
ben diverse. La ragione ha
sempre inteso essere pratica,
ragione che guida l’agire
dell’uomo e delle cose verso
un progresso senza fine.
Leopardi lo sa bene; come
costante è la sua critica alle
«magnifiche
sorti
e
progressive» del suo secolo
(«secol superbo e sciocco»,
La ginestra, vv. 51-53). Ma
eglimostrache,nonostantele
intenzioni,laragionenonpuò
essere pratica, ma, dovendo
infine giungere a vedere il
nulladituttelecose,conduce
a uno stato senza azione,
senza movimento, senza
calore,chenonlottacontrola
mortemadeponenelsepolcro
delnulla.
Dachelaragionepenetra
e si fa strada nel desiderio
infinito di piacere, ossia nel
mondo delle illusioni, è
impossibile che essa non
giunga fino in fondo e non
scopra
lo
spettacolo
angosciante
del
nulla.
«Oggidì non si può non
sapere» (P 214). (Leopardi
ritienecioècheladistruzione
di Dio trapeli in qualche
modo sin dall’inizio della
filosofia
moderna.
E
l’irruzione della ragione,
come ogni altra cosa ed
evento, è senza perché.)
Prima dell’avvento della
ragione il rimedio contro
l’angoscia per la morte è,
appunto, il dominio delle
illusioni. Esse sono piene di
vita,diazione,dimovimento,
dicalore.Tuttavia,manmano
che la ragione si fa largo in
esse, quel dominio perde
forza, sebbene Leopardi
sottolinei spesso la capacità
delle illusioni di riprendersi
(sia pure per breve tempo) il
terrenoperduto.
Ma nel tempo della
ragione dispiegata, l’unico
rimedio contro l’angoscia
della morte è la potenza con
cui tale dispiegamento viene
espresso. La potenza di
questa espressione non può
essere data cioè dal
linguaggio
scientificomatematico, che per la sua
«precisione» non può che
mettere in evidenza la
finitezza e contingenza,
quindilanullità,diciòdicui
parla. «Tutto il preciso non è
naturale» (P 585), non può
cioèappartenerealla«natura»
intesacomedesiderioinfinito
di piacere. Come il
cristianesimo non ha cura se
non
dell’altro
mondo,
lasciando inattivi gli uomini
in questo, così i filosofi,
specialmente
moderni,
lasciano l’uomo nell’inerzia
perché lo mettono nelle
braccia
della
ragione.
«Assuefatti all’esattezza e
precisione matematica, tanto
usuale e di moda oggidì,
considerano e misurano la
natura con queste norme,
credono che il sistema della
natura debba corrispondere a
questi principii, e non
credono naturale quello che
non
è
preciso
e
matematicamente
esatto:
quando anzi per lo contrario,
sipuòdirtuttoilprecisonon
è naturale» (P 584-85).
Leopardi non intende affatto
sostenere che il non preciso
sia reale: reale è proprio il
preciso, non è altro che il
preciso; ma proprio per
questo la conoscenza di esso
paralizza,rendeinattivi.«Preciso» proviene dal latino
prae-caedere, «tagliar via»:
ciò che è pre-ciso è tagliato
via dall’illusione dell’infinito
e dell’eterno, la quale spinge
invece all’agire, alla grande
azione.
La
potenza
dell’espressione della nullità
dellecoseèdatainvecedalla
poesia, dal suo «ardimento»
nell’andar oltre la precisione
del linguaggio scientifico. È
innanzitutto per questo
ardimento che la nobile
natura del genio «a sollevar
s’ardisce / gli occhi mortali
incontra / al comun fato».
Leopardi non nega che la
ragion pratica abbia la
capacità di mettere a
disposizione
dell’uomo
grandiquantitàdioggettiedi
strumenti che per qualche
tempoglirendonomigliorela
vita e allontanano la morte:
sostienechelaragionechesta
al fondamento della vita
miglioratanonpuòinfinedei
conti non scorgere la nullità
della vita e di ogni suo
miglioramento,enonpuònon
sapere che quello che si
potrebbe chiamare il suo
paradiso – il paradiso della
scienza e della tecnica – è
destinatoatrovarsianch’esso
nelle
condizioni
dello
scheletro della città distrutta
dalvulcano.
È a questo punto che la
nobile natura, unendo la
ragione alla poesia (avendo
l’ardire di non detrarre
alcunchéallaverità)diventae
sa di diventare la suprema
forma di volontà di potenza:
la nobile natura è la ginestra
che col suo profumo consola
il deserto, pur sapendo che
«presto»
soccomberà
anch’essa alla potenza del
fuoco
annientante
(La
ginestra, vv. 300-01). E
nobile natura non sarà
soltanto il genio, privilegiato
rispettoatuttiglialtri(cioèal
«volgo»), ma anche tutti gli
altri, che giungendo a
comprendere le parole del
genio, e da lui amati e
amandolo, sono anch’essi
divenuti «anime grandi», al
plurale, cioè selve, «selve
odorate» di ginestre (ibid.,
297-98).
D’altra parte, la poesia a
cui si rivolge Leopardi (pur
sapendo che ormai la si è
perduta ma che la nobile
natura deve in qualche modo
far rivivere), non è la poesia
«romantica»,
«spiritualistica», bensì la
poíesis che innanzitutto è
produzione, azione, vigore:
quella dell’antico poeta
cantorecheincital’esercitoa
combattere e a vincere e dà
spicco all’esultanza dopo la
vittoriaeallapaceraggiunta.
Lapoesiacheinnanzitutto
richiedeil«vigoredelcorpo».
Leopardiparlapiùvoltedella
propria fragilità fisica, e
impreca contro coloro che
imputano a essa la propria
filosofia. Eppure riconosce
sostanzialmente di avere la
forza fisica che gli consente
diessereilfioredeldesertoe
chedifferiscedaquellacheè
riscontrabile in lui dal punto
di vista medico («Uom di
povero stato e membra
inferme»,Laginestra,v.87).
Per questo egli può
immedesimarsi nel «corpo»
di cui parla Tristano nel
Dialogo di Tristano e di un
amico:
«Il corpo è l’uomo;
perché (lasciando tutto il
resto) la magnanimità, il
coraggio, le passioni, la
potenza di fare, la potenza di
godere,tuttociòchefanobile
e viva la vita [dunque, oggi,
innanzitutto il profumo della
ginestra], dipende dal vigore
delcorpo,esenzaquellonon
haluogo.Unochesiadebole
di corpo, non è uomo, ma
bambino;anzipeggio;perché
lasuasorteèdistareavedere
glialtrichevivono».
La poesia è inseparabile
dal corpo. In questo modo si
comprende come Tristano
possa dire di essere
spiritualmente morto («così
morto
come
sono
spiritualmente»), chiudendo
una sequenza (che anticipa il
finale della Ginestra) dove
egli dichiara la propria forza
di fronte al «destino»: «E di
piùvidicofrancamente,ch’io
non mi sottometto alla mia
infelicità, né piego il capo al
destino,ovengosecoapatti,
comefannoglialtriuomini,e
ardiscodesiderarelamorte,e
desiderare sopra ogni cosa,
contantoardore e con tanta
sincerità, con quanta credo
fermamente che non sia
desiderataalmondosenonda
pochissimi.[…]Tropposono
maturo alla morte, troppo mi
pare assurdo e incredibile di
dovere,cosìmortocomesono
spiritualmente,cosìconchiusa
in me da ogni parte la favola
della vita, durare ancora
quaranta o cinquant’anni,
quanti mi sono minacciati
dallanatura».
Le espressioni che ho
messo in corsivo indicano
appunto una forza che è
insieme del corpo e del
profumo della ginestra. E il
dirsi
«spiritualmente»
«morto»èriconoscerenonla
propria debolezza, ma la
morte di quella «spiritualità»
(così
frequentemente
considerata e combattuta nei
Pensieri) che promette
illusoriamente una qualche
formadivittoriasullamorte.
9
Ilsuicidio
Che Porfirio, discepolo di
Plotino,auncertopuntodella
sua vita abbia meditato di
uccidersi,echeilsuomaestro
l’abbia
dissuaso,
è
storicamente accertato. Ma
nel Dialogo di Plotino e di
Porfirio i due filosofi
rappresentano le due forze
chesicombattononell’animo
della nobile natura (più volte
Leopardi parla, nei Pensieri,
del
proprio
ricorrente
desiderio di uccidersi) e che
allafinesiuniscono(Porfirio
non si uccide e Plotino
riconosce le ragioni di
Porfirio)manonsieliminano,
cioè non eliminano la radice
della loro contrapposizione.
Che è quel contrapporsi di
ragione e natura dove esse si
trovano sì unite dalla nobile
natura, ma in un equilibrio
che
è
continuamente
minacciato dal prevalere
dell’unaodell’altra.
Plotino chiede a Porfirio
di aprirgli il suo animo: in
nome del «tanto amore che
noi ci portiamo insieme da
tanto tempo». E che l’amore
sia illusione, e in certo senso
lapiùprofonda,legatacom’è
al sentimento dell’infinito (P
1017-18), è uno dei tratti
dominanti nelle opere di
Leopardi. Plotino invita
Porfirio a porsi sul piano
dell’illusione. E questo sarà
l’atteggiamentoconclusivodi
Plotino e del dialogo.
Porfirio, infatti, non ribatterà
più.
Ma intanto, all’inizio del
dialogo, Porfirio risponde
ponendosi invece sul piano
della ragione che ormai è
giunta «non solamente [a]
conoscere, ma [a] vedere,
gustare, toccare la vanità di
ogni cosa». Rifiuta le
illusioni. Il desiderio di
uccidersi, quindi, non è
dovuto a qualche «sciagura»
chel’abbiacolpito.«Nessuna
cosaèpiùragionevolechela
noia»,laquale«nascesempre
dalla vanità delle cose» e,
solo essa, «non è mai vanità,
non inganno; mai non è
fondata in sul falso». A sua
volta, Plotino finirà con
l’accettare tutto ciò che
Porfirio gli mostra come
inevitabilmente
implicato
dallaragione,maagiràperfar
ritornare
le
illusioni
nell’anima del discepolo, in
modo che esse prevalgano
sullaragione.
Non è il caso di cercar
corrispondenze tra il Plotino
storico e quello del dialogo.
Quellostoricoè,ovviamente,
una grande incarnazione del
Giocatore Bianco, ossia di
chi,daunlato,comeSocrate
vede nell’epistéme della
verità il solo bene, e l’unico
male nell’amathía, nel non
sapere, ossia nell’illusione; e
dall’altro lato pensa che
l’epistème mostri l’esistenza
dell’Eterno che salva l’uomo
dal nulla. È ovviamente
un’incarnazione
del
Giocatore Bianco anche
Porfirio, che invece, nel
Dialogo,
impersona
la
ragione
che,
dapprima
separatadalleillusioni,lascia
infine che esse abbiano a
prevalere.
Nel Dialogo, Porfirio
rifiuta la critica platonica del
suicidio,
basata
sull’inevitabilità
della
punizione
del
suicida
nell’aldilà. Tale rifiuto era
stato sviluppato nei Pensieri,
ma
in
relazione
al
cristianesimo. Nelle opere
pubblicate, viene evitata la
critica
diretta
del
cristianesimo. C’è di mezzo
la Censura dello Stato della
Chiesa.
Se
l’infelicità
dell’uomo è evidente – dice
Porfirio –, tuttavia il «fato»,
che ne è l’autore, lascia
all’uomo,come«medicina»e
«rimedio», la morte e la
capacità di darsela lui stesso.
Ma Platone gli toglie anche
quest’unico rimedio e gli fa
«temere più il porto che la
tempesta». In tal modo egli
«havintoincrudeltà,nonpur
la natura [in quanto «empia
madre»] e il fato, ma ogni
tiranno più fiero, e ogni più
spietato carnefice, che fosse
almondo».EPorfiriogridaa
Platone: «La natura, il fato e
la fortuna ci flagellano di
continuo sanguinosamente,
con istrazio nostro e dolore
inestimabile: tu accorri e
[impedendoci di uscire col
suicidio da questo strazio] ci
annodi
strettamente
le
braccia,eincateniipiedi».
Plotino risponde che a
preoccuparlo non è tanto la
proibizione platonica del
suicidio, ma la proibizione
operata dalla «natura» stessa:
«l’uccidersi di propria mano
senza necessità, è contro
natura […], è l’atto più
contrario a natura», per la
contraddizione che sussiste,
cioè per la «ripugnanza che
uno si vaglia [si valga] della
vita a spegnere essa vita, che
l’essere ci serva al non
essere».
Plotino
apre
all’inizio la dimensione
dell’amore,
cioè
dell’illusione,manonintende
dimenticare la ragione.
Richiama anzi, pur senza
nominarlo
esplicitamente,
uno dei temi fondamentali
esplorati da Leopardi nei
Pensieri: quello relativo al
«principio
di
non
contraddizione».
Ma va anche osservato
che, mentre Porfirio si era
riferito alla «natura» in
quanto «empia madre» che
rende l’uomo infelice (e che
compare verso la fine dei
Pensieri), Plotino richiama
invecela«natura»che,daun
lato (e sin dall’inizio dei
Pensieri), è desiderio infinito
di piacere e, dall’altro, è
l’ambito in cui, appunto, è
escluso ogni «principio
contraddittorio», quale è
innanzitutto l’odio per se
stessi, il non voler essere.
Cosa, questa, «che non può
stare in natura» (P 56). E su
questo versante i Pensieri
(1597) dichiarano per lungo
tempoche«tuttonellanatura
è armonia, ma soprattutto
niente
in
essa
è
contraddizione».
Porfirio
replica
nuovamente e mostra in che
senso
debbano
essere
mantenuti entrambi i concetti
di natura (secondo quanto
abbiamo anticipato nel
capitolo 3). La natura, come
desiderio di felicità e odio
della morte, è anche odio
dell’infelicità. Non può esser
quindi contro natura fuggire
l’inevitabile infelicità della
vitatogliendosidalmondo.E
infatti se l’uomo si è
incivilito, lo ha potuto fare
andando contro natura, ossia
sviluppandolaragionecontro
la «natura primitiva». Ma
incivilendosi è diventato
infelice. «Ora, se è lecito
all’uomo incivilito, e vivere
contronatura,econtronatura
essere così misero; perché
non gli sarà lecito morire
contro natura?» Vivendo
contro
natura,
l’uomo
incivilito ha assunto una
«natura
nuova»,
una
«seconda natura». Dunque è
contro la «natura primitiva»
l’uccidersi; ma, uccidendosi,
l’uomo incivilito non va
contro la sua «seconda
natura», da cui è ormai
avvoltoepenetrato.
Plotino è d’accordo.
«Così è veramente, Porfirio
mio.»Sulpianodellaragione
ildiscorsodiPorfirioèanche
perluiinconfutabile.Nelsuo
ultimo
e
conclusivo
intervento,
infatti,
egli
«prega» Porfirio; a proposito
del suo disegno di uccidersi
lo prega di affidarsi
all’illusione: «piuttosto alla
natura che alla ragione». Ma
riferendosi alla «natura
primitiva», la intende come
«madre
nostra
e
dell’universo». Unisce cioè
(conungestocheperaltrogià
serpeggia nelle parole di
Porfirio) la «natura» come
desiderio di felicità alla
«natura» che nella Ginestra
sarà
chiamata
«empia
madre».Aprimavistaquesto
discorso è sorprendente.
Pregando Porfirio di dare
ascolto alla natura e non alla
ragione, aggiunge infatti: «E
dicoaquellanaturaprimitiva,
a quella madre nostra e
dell’universo; la quale se
bene non ha mostrato di
amarci e se bene ci ha fatti
infelici, tuttavia […] si è
sforzata ella di medicare la
nostra
infelicità
con
occultarcene,
o
con
trasfigurarcene, la maggior
parte».
Tuttavia,
quando
compone queste pagine,
Leopardi ha già scritto il
DialogodellaNaturaediun
Islandese,dovelanaturadice
dinonconoscereciòcheessa
produce.
Non
conosce
l’uomo. Non conosce la
«natura» come desiderio
infinito di piacere. D’altra
parteanchequesta«natura»è
unasuacreatura,unacreatura
dell’inconsapevole «madre
nostra»,ossiadelgiocosenza
perchédeldivenire.
In questo senso Plotino
può unire l’«empia madre»
alla sua creatura, che per
quantoleèpossibilesisforza
di allontanare da sé
l’infelicità
che
necessariamente la avvolge
proprio in quanto è creatura
delnulla,destinataalnulla.Il
divenire
è
«empio»,
«nemico» dell’uomo non
perché abbia l’intenzione di
rendere l’uomo infelice, ma
perché non ha alcuna
intenzione,nonhaalcunudito
che gli consenta di intendere
il desiderio dell’uomo di
essere felice. Nella sventura
l’uomo può attribuire delle
intenzioniaciòcheproducee
distrugge tutte le cose senza
alcuna intenzione e alcun
perché. Ma è l’uomo che
patiscelasventuraecheresta
deluso dopo aver operato
questa attribuzione: non la
nobile natura. O anche: è la
nobile natura quando ricade
nelle illusioni che, diverse
dall’illusione in cui consiste
la potenza del suo canto,
restanosmentitedallarealtàe
a loro subentra la delusione,
che in quanto conseguenza
resa possibile dall’essersi
illusièasuavoltaillusione.
Questo secondo è forse il
caso dell’abbozzo, lasciato
incompiuto, dell’inno Ad
Arimane, il dio del male,
secondo il mazdeismo: «Re
delle cose, autor del mondo,
arcana / malvagità, sommo
potereesomma/intelligenza,
eterno / dator de’ mali e
reggitor del moto» (il
rovesciodelDiocristianoche
«move il sole e l’altre
stelle»). Sia pure in forma
rovesciata,
l’eterna
intelligenza malvagia si
mantiene
pur
sempre
all’interno dell’errore del
platonismo che anticipa in sé
il divenire delle cose, ossia
trasforma in un prototipo
delle cose il nulla da cui è
tuttavia evidente che le cose
provengono (cfr. cap. 5).
Leopardi non può non averlo
compreso. Il canto ad
Arimane è rimasto infatti
incompiuto.
Plotino ha «pregato»
Porfirio di desistere dal suo
intento.Oragliricordachele
illusioni hanno bisogno di
pocoperritornare.Illasciarsi
prendere da esse è errore,
riconosce
Plotino:
«veramente errore, e non
meno grande che palpabile»,
che «pur si commette di
continuo; e non dagli stupidi
solamente e dagl’idioti, ma
dagl’ingegnosi, dai dotti, dai
saggi; e si commetterà in
eterno[…].Ecrediame,che
non è fastidio della vita, non
disperazione, non senso della
nullitàdellecose,dellavanità
delle cure, della solitudine
dell’uomo, non odio del
mondoedisemedesimo,che
possa durare assai: benché
queste
disposizioni
dell’animo
siano
ragionevolissime e le lor
contrarie irragionevoli [altra
conferma dell’accordo tra
Plotino e Porfirio intorno al
contenuto della verità]. Ma
contuttociò, passato un poco
ditempo;mutataleggermente
la disposizion del corpo; a
pocoapoco;espessevoltein
un subito, per cagioni
menomissime e appena
possibili a notare; rifassi il
gusto della vita, nasce or
questa or quella speranza
nuova, e le cose umane
ripigliano
quella
lor
apparenza, e mostransi non
indegne di qualche cura».
Comelacuraperchisiamae
che soffrirebbe per il nostro
esserci tolta la vita. Così
brevedanonaverbisognodi
essereaccorciatadanoi.
10
Ilsuicidioeil
cristianesimo
Nel Dialogo, rivolgendosi a
Platone che proibisce il
suicidio, Porfirio grida: «Tu
haivintodicrudeltà[…]ogni
tiranno più fiero, e ogni più
spietato carnefice». Ma
Leopardi sta guardando
soprattuttoaldilàdellespalle
di Platone: ha in mente il
cristianesimo. Non lo può
dire pubblicamente. Ma nei
Pensieri è esplicito. A
proposito del modo in cui si
configura il rapporto tra
religioneesuicidioneltipodi
civiltà in cui egli si trova a
vivere, scrive: «Se la
Religione non è vera, s’ella
non è se non un’idea
concepita dalla nostra misera
ragione, quest’idea è la più
barbara cosa che possa esser
natanellamentedell’uomo:è
il parto mostruoso della
ragione il più spietato; è il
massimo dei danni di questa
nostra capitale nemica, dico
la ragione», che «mette il
colmo
alla
disperata
disperazione dell’infelice» (P
816-17). La «natura» rende
infelicel’uomo,maglilascia
lapossibilitàditogliersidalla
vita e dall’infelicità; la
ragione
«corrompe»
il
«sistema» primitivo della
natura e il risultato è una
natura corrotta che proibisce
ilsuicidio.
La
«Religione»
appartiene
alla
natura
corrotta. Leopardi lo mostra
inP 420-32. Ma in relazione
al passo P 816-17, qui sopra
riportato,
si
osservi
innanzitutto
che
la
«Religione»
è
il
cristianesimo. Il passo infatti
si era aperto considerando la
«nostra condizione oggidì»,
che è «peggiore di quella dei
bruti» perché la Religione,
dovelanaturaècorrottadalla
ragione, proibisce il suicidio.
E, nella nostra condizione
oggi, la «Religione» non può
esserecheilcristianesimo.
In secondo luogo, le
prime righe appena lette di
quel passo non esprimono
un’ipotesi: il «se» significa
«poiché»;
poiché
il
cristianesimo non è vero,
poiché esso non è che
un’idea, eccetera. Vera è
infatti la ragione. È la
ragione, ma non certo il
cristianesimo,adaffermarela
nullità di tutte le cose. Il
cristianesimo crede nella
verità di ciò che per la
ragione è illusione. Il
cristianesimo è illusione.
D’altrondeilpassodicecheil
cristianesimo è «un’idea
concepita dalla nostra misera
ragione». In quanto illusione,
ilcristianesimostadallaparte
dellanatura(einciòstailsuo
aspetto positivo); ma non è
più natura primitiva, bensì,
come si è detto, natura
corrotta
dalla
ragione.
Corrompendo la natura, la
ragione
concepisce
quell’«idea»,
«la
più
barbara», nella quale il
cristianesimoconsiste.
Il passo 816-17 dice
dunque che, poiché il
cristianesimo non è vero e
poiché esso è un’idea
concepita dalla ragione, esso
è il parto più spietato e
mostruoso e il massimo dei
danni. La critica del
Giocatore
Nero
al
cristianesimo non è di non
esser vero. Anzi. Il
cristianesimo è «mostruoso»
perché in esso l’illusione
della natura, che rifiuta la
morte ma lascia che l’uomo
sialiberodiuccidersi,nonsa
opporsi all’irruzione della
ragione; e d’altra parte si
presenta come ragione che
proibisce
il
suicidio
minacciando un’infinita pena
futura per chi lo compia.
Leopardi giustifica in vari
modi la dipendenza del
cristianesimo dalla ragione,
ma si può dire storicamente
accertato che ben presto il
cristianesimo si è innestato
sul tronco della filosofia
greca e che il riferimento a
Platone, nel Dialogo di
Plotino e di Porfirio, è
tutt’altrocheimproprio.
È esistita sì una «vera e
primitiva
forza
del
Cristianesimo», «quel primo
fuoco febbrile della nuova
dottrina» (P 338), che per
Leopardi
coincide
innanzitutto con la figura di
Gesù, che «ravvivò il mondo
illanguidito dal sapere» (P
337)eincuilanaturasifece
in qualche modo sentire. Ma
era una natura attivata e in
certo modo partorita dal
sapere («dai lumi»): non
partorita dal non sapere e
dalla
natura
(«non
dall’ignoranza
e
dalla
natura»,ibid.).Perquesto,«la
vita e la forza ch’ei [cioè il
cristianesimo]
diede
al
mondo, fu come la forza che
un corpo debole e malato
[ossia «il mondo illanguidito
dalsapere»]riceveda’liquori
spiritosi,forzanonsolamente
effimera, ma nociva e
produttrice
di
maggior
debolezza» (ibid.). Una
«forza» diversa, quindi, dalla
«forza» con cui l’opera del
genio sente la morte di tutte
lecose,ossiadalla«forza»da
cui «l’anima riceve vita» (P
261).
Il cristianesimo può
apparirecomeilmassimodei
dannisoloperchiconoscela
verità. Se egli spera che le
illusioni, dunque anche
l’illusione cristiana, tornino
in lui «a rifiorire» (come
Plotino crede che possa
accadere nell’animo di
Porfirio),eglinonèancorala
nobile natura, che si illude
solamente con la potenza del
proprio canto. È nell’opera
della nobile natura del genio
che il cristianesimo può
apparireautenticamentecome
ilmassimodeidanni.
Perchicredeinvececheil
cristianesimo sia verità, le
cose stanno in modo
completamente diverso. Egli
non può sapere che il
cristianesimo è il massimo
dei danni perché gli
impedisce di togliersi la vita.
Per lui il suicidio è una
tentazione da respingere.
Inoltre, dopo aver detto che
«l’uomo era più felice prima
chedopoilCristianesimo»,in
P 431 (scritto circa un anno
prima di P 816-17) si
aggiunge: «Ma oggidì non
essendo più possibile tornare
allostatodiciviltàantica,pel
maggiore incremento della
ragione, sostengo che il più
felice possibile in questa vita
è lo stato di vero e puro
cristianesimo». «Vero e puro
cristianesimo» è appunto
quello di chi, illudendosi,
crede che la verità sia
contenuta nella Rivelazione
divina. In lui il cristianesimo
è, senza che egli possa
saperlo, la natura in quanto
ancora in qualche modo
capace di occultare la verità
autentica e angosciante della
ragione; e dove d’altra parte
lanaturaèqualcosacheglisi
presenta come ragionevole.
(Rationabile obsequium, dice
ineffettil’apostoloPaolo;eil
pensiero
filosofico,
soprattutto di Tommaso
d’Aquino, intenderà mostrare
l’armonia di ragione e fede
cristiana.)
Lanobilenaturadelgenio
sta comunque al di sopra
dell’alternativa che è venuta
alla luce: quella tra il
cristianesimocome«massimo
dei danni» e il cristianesimo
come lo stato «più felice in
questa vita». (Non sembra
cheLeopardiabbiasviluppato
il discorso in questa
direzione, ma lo sviluppo è
implicito.) La nobile natura
del fiore del deserto è sì,
anch’essa, una unione di
ragione e natura (anche nel
cristianesimo si produce
un’aggregazione di queste
dueoppostepotenze),ma,siè
visto(capp.6-8),nelfioredel
desertolanaturaèlapotenza
dell’illusione poetica, il
«profumo» che consola il
deserto. E che quindi è del
tutto estraneo a quella forma
disperata di «consolazione»
incuiconsisteilsuicidio.
D’altra parte, anche la
nobilenaturaèilmodoincui,
dopol’irruzionedellaragione
nellanatura,quest’ultimapuò
far sentire in maniera ancora
più più potente la propria
voce,
avvicinandosi
maggiormente al poeta
antico, che rivolge il proprio
canto al popolo per
accrescere in lui il desiderio
divita,dipotenza,difelicità,
e dunque presentandogli le
proprie opere come destinate
a esser godute per l’eternità.
(«L’immaginazione e le
grandi illusioni onde gli
antichi erano governati, e
l’amor della gloria che in lor
bolliva, li facea sempre
mirare alla posterità e
all’eternità, e cercare in ogni
loro opera la perpetuità, e
procurarsemprel’immortalità
loro e delle opere loro» P
3435.) L’opera del genio
entusiasma, dà vita, «apre il
cuore e ravviva», conduce il
più lontano dalla noia, ossia
dalla
condizione
fondamentaledelsuicidio.
È
dunque
dovuto
all’originalità
dell’interpretazione data da
Leopardi del cristianesimo il
passodeiPensierichestiamo
perriportare.Apparentemente
sconcertante e incompatibile
col contesto che abbiamo
messo in luce, il passo apre
l’importante
gruppo
di
Pensieri(393-435)scrittonel
dicembre 1820 e dedicato
soprattutto al racconto della
Genesi: «Il mio sistema
intorno alle cose e agli
uomini e l’attribuir ch’io fo
tuttooquasituttoallanatura,
e pochissimo o nulla alla
ragione, ossia all’opera
dell’uomo o della creatura,
non
si
oppone
al
Cristianesimo» (P 393,
corsivo mio). In breve, il
senso
è
il
seguente
(prevedibilecomunque,enon
sconcertante, se si tiene
presente quanto si è detto
nellepagineprecedenti):aldi
làdellapropriafedediessere
verità,eanzilaveritàsomma
–aldilàdellaconfigurazione
del cristianesimo che esso
generalmente assume ai
propri occhi –, è tuttavia ben
visibile, per chi voglia
guardare,qualcosadibenpiù
profondo. La proibizione di
DioadAdamodimangiareil
frutto della conoscenza del
bene e del male è cioè la
stessa «misericordia» che la
natura, in quanto desiderio
infinito di piacere, ha per
l’uomo.Èlastessavolontàdi
salvezza da parte dell’uomo.
Impedendogli di mangiare
quel frutto, la natura, così
intesa, compie il massimo
sforzo per impedire che
l’uomo,conoscendoilbenee
il male, conoscendo cioè la
verità, ne veda l’orrore e
divenga
infelice,
massimamente infelice. Dio
(ilcuiprincipio,comeditutte
le cose, è il nulla) è pieno di
misericordia.
Subito dopo il passo
riportato all’inizio di questo
capoverso,iltestodiceinfatti:
«La natura è lo stesso che
Dio». Nel suo significato più
profondo, il Dio del
cristianesimo non è l’Essere
eterno e perfetto costruito
dalla ragione. Questo Dio
razionale, che per Leopardi
ha
la
più
compiuta
espressione nell’Idea di
Platone, rende impossibile la
produzione e creazione delle
cose, il divenire, e quindi è
impossibile.Nonpuòesistere
nulla di eterno. Tutto è «in
mezzo al nulla». Il Dionatura,
invece,
vuol
nascondere ad Adamo questa
verità devastante. Lo stesso
infinito desiderio che l’uomo
ha del piacere e della felicità
avvolge l’uomo nell’illusione
salvifica.Maauncertopunto
egli ha invece voluto
conoscere ed è stato cacciato
de paradiso voluptatis,
dall’illusione del piacere e
della felicità; Leopardi
sottolinea che con tale
voluptas «s’intende voluttà e
felicità terrena, contro quello
che si vuol sostenere che
all’uomo non sia destinata
naturalmente se non se una
felicità spirituale e d’un’altra
vita» (P 395): la voluptas è,
appunto, la natura dell’uomo
come desiderio infinito di
piacere. La voluptas è Dio,
cioè il senso autentico di ciò
che nel testo biblico è
chiamato«Dio».
D’altra
parte
–
osserviamo – a sapere tutto
questo dell’essenza profonda
del cristianesimo non può
essere questa essenza stessa;
altrimenti essa conoscerebbe
il rapporto che sussiste tra la
natura e la ragione,
conoscerebbe la ragione,
sarebbe ragione, e sapendo
quel che l’uomo non deve
sapere, saprebbe quel che
essastessanondevesapere.
11
Laconoscenzain
Adamoenella
filosofia
Vaanchechiaritoilsensoche
la morte può avere per
Adamo quando Dio minaccia
didarglielaqualoraegliabbia
a mangiare il frutto della
conoscenza del bene e del
male.Leopardinonsiaccosta
esplicitamente a questo
problema. Ma, anche qui, la
sua risposta è implicita. (Per
scorgerla non c’è bisogno di
una sapienza diversa da
quella che il Giocatore
Bianco e quello Nero
posseggono. Basta la loro. Il
Terzo Giocatore può starsene
ancoraindisparteaosservare
e narrare come si svolge la
partita tra i due. A proposito
della morte minacciata da
Dio, il problema riguarda
infattientrambi.)
Dio può minacciare
Adamo della punizione
suprema solo in quanto è
certo che Adamo, pur non
avendola mai sperimentata,
conoscachecosasialamorte.
Bisogna che Adamo sappia
che la morte è il male più
temibileechequindilatema.
E deve anche sapere che la
vita che egli sta vivendo è il
massimo bene. Conosce
allorailbeneeilmaleprima
di aver mangiato il frutto
della conoscenza del bene e
delmale?Diolominacciadel
massimomaleedellaperdita
del massimo bene e lui
capiscelaminaccia;nondice
di non avere capito le parole
di Dio. Che cosa allora può
venire a sapere di più
mangiando quel frutto?
Leopardi può rispondere a
questa domanda. Più difficile
che il racconto biblico della
caduta sia in grado di fare
altrettanto.
Leopardi può rispondere
dicendo che Adamo sa già,
prima di mangiare il frutto
proibito, che la morte è il
male più grande per chi può
morire. E sa già che da ogni
maleequindianchedaquello
massimo è libero Dio, che è
immortale.Quandomangiail
fruttoproibito,vieneinvecea
sapere che tutto viene dal
nulla e vi ritorna, tutto è
destinato alla morte, anche
Dio: il nulla è il «principio»
anche di Dio. Prima della
caduta, l’uomo ha una
conoscenza
«naturale»:
«l’uomo
sapeva
già
abbastanza per natura» (cioè
peroperadi«Dio»)«tuttociò
che gli conveniva sapere. La
colpa dell’uomo fu volerlo
sapereperoperasua,cioènon
più per natura, ma per
ragione, e conseguentemente
saper più di quello che gli
conveniva[…].Questoenon
altro fu il peccato di
superbia»: «nell’aver voluto
sapere quello che non
dovevano e impiegare alla
cognizione un mezzo e
un’opera propria, cioè la
ragione,inluogodell’istinto»
(P396-97).
La caduta dell’uomo non
consiste
dunque
nel
«decadimento della ragione»
(P 398), nella «ribellione
della carne allo spirito» (P
433), ma «nell’incremento»,
nel rafforzamento della
ragione e dello spirito, e
nell’indebolimento
della
carne.Equestorafforzamento
e indebolimento non sono
stati illusori, ma reali. Il
serpente dice alla donna che
lei e il suo compagno,
conoscendo, non moriranno,
ma saranno come Dio (eritis
sicutdii).ELeopardiosserva
che se, col peccato, essi
diventano preda della morte,
tuttavia
essi
riescono
veramenteaconoscereilbene
e il male, e a essere dunque
«come Dio». «Dunque
l’uomo restò veramente
simile per la [quanto alla]
ragione, restò più sapiente
assai di quando era stato
creato» (P 398). Dopo aver
riportato le parole di Dio:
«Ecco, Adamo è divenuto
come uno di noi [quasi unus
ex nobis factus est],
conoscendo il bene e il
male», Leopardi osserva che
«sebben l’uomo ottenne
precisamente quello che il
serpente aveva promesso a
Eva, cioè la scienza del bene
e del male, non però questa
accrebbe la sua felicità, anzi
ladistrusse»(ibid.).Anchese
il testo non lo dice, Leopardi
sottintendecheilDioalquale
Adamo è riuscito a diventar
simile (quasi unus ex eo)
attraverso la conoscenza non
può essere il Dio che è la
stessa natura in quanto
desiderio infinito del piacere
e che quindi non può essere
ragione.IlDioallacuialtezza
Adamohasaputoportarsièil
Dio che egli conosce sin da
quando è stato creato. È
l’Onnipotente.
Peccando,
Adamoèdiventatofilosofo.
A
proposito
di
quest’ultima affermazione,
possono essere opportuni
alcuni chiarimenti sul modo
in cui Leopardi intende lo
sviluppo storico del pensiero
filosofico. Innanzitutto, la
filosofia è certamente, sin
dall’inizio, la pura ragione
che mostra il carattere
illusorio, la non verità della
vita,diogniformadellavita.
Primadellafilosofialavitaè
esistere stando all’interno del
mito. Appunto perché la
filosofia è sin dall’inizio
negazionedelleillusioni,essa
puòpartorireilcristianesimo.
«Laragioneprimadiarrivare
a quell’estremo al quale è
giunta oggidì [cioè alla
situazioneincuilaragione,a
differenza di quanto accade
nella nobile natura, intende
tenersi
assolutamente
separata
dall’illusione],
doveva
naturalmente
spaventarsi di se stessa; e
vedendosi sparir dagli occhi
la realtà delle cose e quindi
venirsiadistruggerelavitae
il mondo, doveva considerar
se stessa come assurda, e
concludere che ci doveva
essere qualche verità ignota
[cioè un contenuto come
quello
proposto
dalla
rivelazionecristiana]laquale
dasse alle cose quella realtà
ch’essa non poteva più
scoprire né ammettere» (P
429). Già la ragione antica,
dunque, si vede sparire
davanti agli occhi la realtà
dellecose,vedecioèlanullità
dituttelecose.Malaragione
antica è anche la filosofia di
Platone, cioè l’affermazione
piùpotentedellarealtàeterna
delle idee, l’affermazione di
quell’eternità originaria che
costituisce il fondamento
della realtà delle cose e della
quale, tuttavia, il Giocatore
Nero
ha
mostrato
l’impossibilità(cfr.cap.5).
Ma nemmeno qui si è in
presenza
di
una
contraddizione in cui egli
sarebbecaduto.Anchesenon
prende esplicitamente in
considerazione il problema
che stiamo analizzando,
Leopardi sta cioè, di fatto,
mettendoinluceunatensione
– che infine è un’antinomia,
unacontraddizione–laquale
esiste non nel suo pensiero,
ma all’interno della forma
iniziale della tradizione
filosofica, ossia all’interno
della
filosofia
greca.
Vediamo.
Rivolgendosi alla vita –
all’esistenzaumananeltempo
delmito–lafilosofianevede
il carattere illusorio, la non
verità. Quel che la vita crede
di essere non è. È nulla.
Questo esser nulla differisce
però dall’esser nulla di tutte
le cose che la ragione scorge
vedendo che tutte sporgono
provvisoriamente dal nulla e
dunque vedendosele anche in
questo senso sparir davanti
agli occhi. Tuttavia, come
appunto si dice in P 429,
anchenell’altrosenso(quello
nel quale la ragione rifiuta il
mito)laragionesivedesparir
dagli occhi la realtà delle
cose.
Intendo dire che, nei
Pensieri, il Giocatore Nero
considera esplicitamente una
delle due mosse che il
Giocatore Bianco compie per
riprendersidallo«spaventodi
sé stesso» nel vedersi
responsabilediquelladuplice
forma di annullamento e
sparizione delle cose. Il
Giocatore Nero considera
cioèesplicitamentesoltantola
produzione del cristianesimo
da parte della ragione
spaventata di se stessa.
L’altra mossa del Giocatore
Bianco (peraltro presupposta
dallaprima)èl’affermazione,
da parte della ragione,
dell’esistenza del Principio
eternoedivinodacuituttele
coseprovengonoeincuitutte
ritornano.
La
filosofia,
allontanando da sé il mito,
incomincia
con
questa
affermazione. Separate dal
Principio,lavitaelecoseda
cui essa è composta sono
nulla (nel duplice senso qui
soprarilevato);ma,inquanto
unitealloroPrincipioeterno,
la loro realtà è salvata dal
nulla. Il mondo delle Idee
eterne di Platone può esser
considerato come la forma
paradigmatica
di
tale
Principio. E appunto in
questo modo lo intende
Leopardi.Malagrandezzadi
Leopardi,inquantoGiocatore
Nero,consistenelmostrareil
fallimento di questa volontà
disalvarelecosedelnulla.Se
dunqueLeopardipuòpensare
che,
nonostante
l’affermazione dell’esistenza
del mondo eterno delle Idee,
la filosofia di Platone – in
quanto
filosofia,
cioè
negazione delle illusioni del
mito–siaannullamentodelle
cose,cisipuòspiegarecome
Leopardi possa giungere a
vedere
nella
filosofia
moderna «quell’estremo al
quale è giunta oggidì» la
ragione. «Paragonando la
filosofia
antica
colla
moderna, si trova che questa
è tanto superiore a quella,
principalmente perché i
filosofi antichi volevano tutti
insegnare
e
fabbricare
[insegnare e fabbricare,
appunto,l’Eterno]:laddovela
filosofia moderna non fa
ordinariamente altro che
disingannare e atterrare.» «I
filosofi moderni, sempre
togliendo,
niente
sostituiscono. E questo è il
vero modo di filosofare […]
perché
in
effetto
la
cognizione del vero non è
altro che lo spogliarsi degli
errori» (P 2709-10, maggio
1823). E il toglier sempre
dalle cose del mondo senza
sostituir niente è vedere in
modo sempre più chiaro la
loro nullità. Il vedere che
getta nella disperazione e
nellanoia.Ma–osserviamo–
anche qui Leopardi rende
esplicitosolounodeiduelati
della tradizione filosofica e,
certo, quello destinato a farsi
largo e ad affermarsi. Infatti,
anche la filosofia moderna
fino a Hegel non intende
rinunciare al Principio eterno
delmondoepertantointende
salvare le cose dal nulla:
affermandoilloroesserunite
a tale Principio. Nel mito di
Adamo, interpretato da
Leopardi,
l’uomo
vuol
diventare Dio in quanto
eterno e pertanto vuol
distruggerlo, «atterrarlo», ed
è «disingannato» rispetto a
ciò che Dio vuole fargli
credere; ma in realtà apre gli
occhi e vede quel che la sua
natura (ossia Dio come
desideriodifelicità)gliaveva
nascosto: vede la verità
angosciantedellamorteedel
nulla. E in questo senso già
lui è filosofo. Nel proprio
inconscio,ilraccontobiblicocristianodelpeccatooriginale
afferma, per Leopardi, quello
stesso stato di cose che egli
vederealizzarsinellafilosofia
moderna.
Nel 1820 Leopardi aveva
scritto – anticipando il tema
dell’unitàdipoesiaefilosofia
nell’opera del genio – che,
per evitare l’esito a cui
conducelafilosofiamoderna,
l’unica
«rigenerazione»
possibile dipende da una
«ultrafilosofia,
che
conoscendo
l’intiero
e
l’intimo delle cose [cioè
«nulla al ver detraendo»] ci
ravvicini alla natura», ossia
unisca la verità alla potenza
dell’illusione poetica. E
l’«ultrafilosofia» non può
essere nemmeno, ripetiamo,
l’unionedellafilosofiaedella
religione, perché se «la
filosofia indipendente dalla
religione, in sostanza, non è
altro che la dottrina della
scelleraggine ragionata» (P
125), dal momento che non
puòesserecheladottrinadel
purodesideriodipiacere,cioè
del puro egoismo, della pura
volontàdipotenza,tuttaviala
filosofia, unita alla religione,
non è il fiore gentile che
consola il deserto nell’unico
modo
autenticamente
efficace,
ma
è
una
consolazione che insieme
produce il «massimo dei
danni».
12
L’etàdellemacchine
«Ferrate vie», «moltiplici
commerci», «i mercati e le
officine».
È
cioè
enormemente cresciuta la
potenza delle macchine e dei
rapporti economici che esse
rendono possibili: «Tanto la
possa / infin qui de’
lambicchiedellestorte,/ele
macchinealcieloemulatrici/
crebbero, e tanto cresceranno
altempo/cheseguirà».Sono
espressioni
che
nella
Palinodia al marchese Gino
Capponi
indicano
il
progressivo affermarsi della
tecnica nel secolo XIX. Nel
quale, per Leopardi, ci si
illude di potersi opporre allo
sviluppo dove la ragione
raggiunge il suo inevitabile
compimento.
Raggiungendolo,
essa
pervienealpurodisincanto:si
separa
totalmente
dall’incantamento
della
natura
(l’incantamento
«mostruoso» e tuttavia a suo
modo salvifico che «oggidì»
si fa ancora sentire nel
cristianesimo) e non è altro
che visione della nullità di
tutte le cose e genitrice della
noia. Il secolo XIX (che si
crede «aureo») si illude di
poter prendere una strada
diversa,
quella
del
«progresso».Siilludedipoter
guardare con sufficienza chi
siannoia.
Eppurela«noia»nonèun
semplice stato d’animo. La
parola stessa è densa di
significato,moltodipiùdella
parola «nausea» (Sartre), o
della parola «angoscia»
(Kierkegaard,
Heidegger):
«noia» è riconducibile a in
odio habere. Dal punto di
vista delle istanze della
ragione significa l’avere in
odio l’incantamento (operato
dallanatura)chedàallecose,
chesononulla,l’apparenzadi
esser reali; dal punto di vista
delle istanze della natura
significa invece odio per la
ragione che atterra e
disinganna, distruggendo ciò
che, solo, può rendere felice
la vita: l’incanto delle
illusioni che fanno credere
all’uomo di poter vivere una
vitareale.
In relazione alla storia
della ragione il pensiero di
Leopardisiconfiguradunque
nel modo seguente: nel suo
sviluppo, la ragione è
destinata a diventare dottrina
della noia che avvolge e
soffoca
l’uomo,
infine
annientandolo. Ma il secolo
XIXsiilludedipotervoltare
le spalle a questo processo.
Intende essere la forma più
radicale di dottrina della
volontà di potenza: crede di
poteressereragionecapacedi
guidare e dominare lo
sviluppo del mondo. E la
ragione può farlo perché è
diventata soprattutto ragione
scientifico-matematica,
ragionetecnica.
Nel
proprio
secolo
Leopardi vede dunque l’età
della tecnica. «Età dell’oro»
dice ironicamente nella
Palinodia.
«Età
delle
macchine», la chiama nella
Proposta di premi fatta
dall’AccademiadeiSillografi,
altro scritto satirico. Nel
qualesidiceperòcheilXIX
secolo può esser chiamato
«etàdellemacchine,nonsolo
perché gli uomini di oggidì
procedonoevivonoforsepiù
meccanicamente di tutti i
passati, ma eziandio per
rispetto al grandissimo
numero delle macchine
inventate di fresco e
accomodate[…]atantiecosì
vari esercizi, che oramai non
gliuominimalemacchine,si
può dire, trattano le cose
umane e fanno le opere della
vita», tanto da non far
sembrareutopicounfuturoin
cui «gli uffici e gli usi delle
macchine»
abbiano
a
«comprendere oltre le cose
materiali,anchelespirituali».
È chiaro che la potenza
dellaragionetecnicanonèla
potenza della natura, la
potenza cioè delle illusioni.
La potenza della ragione
tecnica è piuttosto il punto
piùaltoacuipuòspingersila
potenza della ragione che,
«spaventata di sé stessa»,
ossia della nullità del tutto
che essa è riuscita a vedere,
aveva pensato di liberarsi
dallo spavento evocando il
Principioeternodacuituttele
cose procedono e in cui tutte
ritornano. La potenza tecnica
infatti – dove le macchine
possono gestire non solo le
cose materiali ma anche
quelle spirituali – non può
essere nemmeno la potenza
che risulta dall’unione della
ragione alla rivelazione
cristiana.
Tanto meno quella della
tecnica può essere la potenza
della nobile natura che
competeallaginestra.Ilcanto
La ginestra è in proposito
potentemente esplicito. Il
fuoco del vulcano – la «dura
nutrice» – può annullare da
un momento all’altro la vita
dell’uomo. Dunque può
«annichilare in tutto» la
civiltà del secolo «superbo e
sciocco». Le sorti di questo,
checrededipoterrealizzareil
«progresso», sono «dipinte»
nel deserto che il fuoco
annientantehafattoattornoa
sé («Dipinte in queste rive /
son dell’umana gente / le
magnifiche
sorti
e
progressive»). La potenza
dell’etàdellatecnicaèdipinta
neldeserto.Ècioèundeserto.
Nelqualeessapuòguardaree
specchiarsievederesestessa:
«Quimiraequitispecchia,/
secolsuperboesciocco».Nel
desertol’etàdellatecnicapuò
vedere lo «scheletro» a cui
essa è destinata. Quello di
Pompei non è soltanto il
«sepolto
scheletro»
di
un’antica città distrutta dalla
«duranutrice»:èloscheletro
dell’età della tecnica. E il
grande e terribile notturno
della Ginestra, dove la
«sinistra face» si aggira e
corre tra le rovine della città
(cfr. cap.8), può esser riletto
come il bagliore funereo che
siaggiraecorretralerovine
della
ragione
tecnica.
Illumina lo scheletro della
potenzatecno-scientifica.
Tuttavia, se il fuoco del
vulcano ha fatto il deserto
attorno a sé, il fiore del
desertoviveancoraeconsola
il deserto. Per il Giocatore
Nero la potenza del canto,
ossia dell’unità di ragione e
poesia,
è
capace
di
sopravvivere ancora, sia pure
per poco, alla potenza della
ragione tecnica; anche se i
«mondi» (Palinodia, v. 88),
le città che ritengono di non
aver nulla da temere dal
vulcano,
ignorano
completatamente il fiore
gentile o ne possono irridere
l’impotenza. È, questa, la
sfida che il Giocatore Nero
rivolge alla tecnocrazia, alla
convinzione cioè che la
tecnica sia la forma suprema
di civiltà oltre la quale
l’uomo non può spingersi.
Una sfida, comunque, molto
menoutopicadiquantopossa
sembrare,sesitienecontodi
quanto si è detto nel capitolo
8.
Il Giocatore Nero mette
anticipatamente in luce quel
che l’età della tecnica del
XIX secolo non era ancora
riuscita a scorgere: che,
nonostante ogni sicurezza e
potenza date all’uomo dal
progresso
del
sapere
scientifico, la Natura, in
quanto «empia madre» di
ogni
produzione
e
distruzione, può distruggere
ogni sicurezza e potenza e di
fatto le distrugge. È quanto
oggi il sapere scientifico
riconosce più o meno
esplicitamente
quando
esclude che le proprie leggi
abbiano una verità definitiva
echedefinitivasialapotenza
daessoraggiunta.
Anche nella Palinodia, e
anche qui potentemente,
viene in luce la mancanza di
ogni perché rispetto a quanto
accade
nella
storia
dell’universo. Come nel
Dialogo
la
Natura,
indolentemente,
dice
all’Islandese di non sapere
quali conseguenze abbiano le
proprie azioni per l’uomo,
così la Palinodia chiama
«gioco
reo»
l’immane
processo di produzione e
distruzione delle cose. Non
esistono ragioni che lo
producano e che l’uomo
possa comprendere («gioco
reo, la cui ragion gli è
chiusa») e tuttavia distrugge
l’uomo (e pertanto è «reo»).
Non esiste una ragione del
«gioco» che non sia a sua
voltagioco,perchéaltrimenti
essa sarebbe Ragione divina
edeterna(quell’Eternodicui
il Giocatore Nero ha ormai
mostrato l’impossibilità). Il
«gioco» è senza perché,
terribile «capriccio» di un
«fanciullo» che distrugge
l’oggetto da lui appena
costruito.Inquestosuogioco
imperscrutabile
la
natura
crudel,
fanciullo
invitto,
il
suo
capriccio
adempie,
e
senzaposa
distruggendo e
formando si
trastulla.
(vv.170-72)
L’impossibilità
di
una
Ragione eterna che abbia a
contenere in se stessa il
perché
del
gioco
è
l’impossibilità di trovare
qualcosa in ciò da cui la
formazione
delle
cose
proviene e in ciò a cui la
distruzione conduce. Poiché
tutte le cose sono «in mezzo
alnulla»,ilnulladacuitutte
provengono e in cui tutte
ritornano non può contenere
alcunché, è assolutamente
nulla, dunque non può
contenere nemmeno alcuna
spiegazione
del
loro
improvviso
venire
all’esistenza e del loro
uscirne.
L’età della tecnica si
illude di dominare il mondo,
ma è completamente in balìa
di questo gioco. Per quanto
sia «d’alto artificio» e per
quanto la sua opera sia
elaborata «con dotta man»,
non può nemmeno essa
riscattare
l’uomo
dalle
«miserie estreme» del suo
stato mortale e la natura lo
ferisce,«edentroilfere/edi
fuor da ogni lato» fino a che
egli «giace / alfin dall’empia
madre oppresso e spento»
(vv. 173-97). La tecnica è
impotente perché è anch’essa
uno degli edifici prodotti e
distrutti dal gioco della
natura.Èunodiquestiedifici
perché è il culmine della
ragione quale dottrina della
volontà di potenza; e la
ragione irrompe anch’essa
senzaalcunperchénell’uomo
(cioè nella natura come
desiderio infinito di piacere),
gettatavi a caso dal gioco
della«duranutrice».
Elaragione,facendoluce
attorno a sé, finisce col
vedere la nullità di tutto;
quindi col distruggere la
volontàdipotenza.Distrugge
se stessa in quanto dottrina
della volontà di potenza. Da
ultimo distrugge se stessa in
quantotale,perchédiventalo
sguardo che odia la pretesa
delle cose di essere reali, e
abbandona l’uomo alla noia,
al«sentimentomortifero»che
uccidendo l’uomo uccide
anche la ragione. In questo
senso, la ragione è un’alleata
dellapropria«empiamadre»,
perché «ferisce» e spegne
l’uomo stando al suo stesso
interno. Nella Palinodia non
losidiceinmodoesplicitoe
si mette in risalto, oltre alle
avversità che colpiscono il
mortale dall’esterno, la sua
interna decadenza fisica: la
«forza / ostil, distruggitrice»,
cheferiscel’uomo,«edentro
il fere / e di fuor da ogni
lato».
13
Gliitalianiela
filosofia
Il Giocatore Nero ha avuto
partita vinta. Ma è la vittoria
della desolazione. Se non
esiste alcun Eterno, cade
anche ogni fondamento della
moraledegliindividuiedegli
Stati. Tutto questo è
inevitabile, data la premessa
da cui entrambi i Giocatori
procedono: la convinzione
chel’annullamentodellecose
e il loro uscire dal nulla sia
l’evidenza sovrana. Leopardi
mostra i molteplici aspetti di
questa desolazione, ritenendo
tuttavia che essa abbia già
avvolto le società. Tra gli
aspetti
sociali
della
desolazione (studiati a fondo
nei Pensieri), Leopardi dà
spiccoaquellicheriguardano
lasocietàitaliana.
IlDiscorsosopralostato
presente
dei
costumi
degl’Italiani, forse composto
nel 1824 (ma pubblicato
postumo), intende mostrare
che, dopo la Rivoluzione
francese, l’Italia «è di
costumi notabilmente diversa
dagli altri popoli civili». «Le
altre nazioni civili, cioè
principalmente la Francia,
l’Inghilterra e la Germania,
hanno
un
principio
conservatore della morale e
quindi della società, che
benché paia minimo, e quasi
vile rispetto ai grandi
principii morali e d’illusione
che si sono perduti, pure è
d’un grandissimo effetto.» Il
Discorso
si
riferisce
soprattutto a coloro che sono
«forniti del necessario alla
vita col mezzo delle fatiche
altrui», e che non avendo
«bisogniprimi»,cioèprimari,
hanno però il bisogno «di
trovare
qualche
altra
occupazione che riempia la
lorovita»,«ilvuotodellavita
cagionatodallamancanzade’
bisogni primi». Nel Discorso
si ritiene che tale bisogno
facciaaumentareirapportitra
gli individui, ossia che per
esso (o anche per esso) le
societàdivengano«strette».
In tali società ognuno
considera necessaria alla
propria felicità la stima degli
altri e per ottenerla mostra a
sua volta di stimarli. Questo
sentimentoèl’ambizione,che
nei tempi moderni ha
prodotto
il
sentimento
dell’onore:«un’illusioneesso
stesso», però «potentissima»
nei popoli civili diversi
dall’italiano. L’onore o
«stima
dell’opinione
pubblica» è appunto quel
«principio» «minimo» e
«quasivile»,dicuisièdetto
qui sopra, che però è capace
di «rimpiazzare i principii
morali» che anche gli
stranieri hanno perduto e a
«servire di legame» alla
società. «Gli uomini politici
di quelle nazioni si
vergognano di fare il male
come di comparire in una
conversazione con una
macchia sul vestito o con un
panno logoro e lacero.»
«Stimano una buona battuta
di spirito o un bell’abito né
più né meno di una buona
azione.»Staperòdifattoche
ilbonton,inquestenazioni,è
«non solo il più forte, ma
l’unico fondamento che resti
a’ buoni costumi» e alla
tenutasociale.
Tutto questo, anche se è
pocacosadifronteallegrandi
illusioni degli antichi, manca
agli italiani (si parla sempre
di quelli che non hanno
bisognodilavorarepervivere
mahannobisognodiriempire
il vuoto della vita, però
qualche pagina dopo dice
che: «il popolaccio italiano è
il più cinico de’ popolacci»).
Gli italiani non hanno
nemmeno questo poco. È
vero che essi, sul piano
morale, sono «filosofi, cioè
ragionevoli e geometri»
quanto e «forse più» degli
altri popoli. Ma la nazione
italianadelXIXsecolononè
una società «stretta», nel
sensosopraindicato:siaperil
clima, che spinge a vivere
all’aperto piuttosto che
passare il tempo nelle
«conversazioni» dove lo
«spirito» resta sollecitato («il
passeggio, gli spettacoli, e le
Chiese sono le principali
occasioni di società che
hannogl’italiani»),siaperché
l’Italianonèunanazionema
uninsiemedinazioni.
Non essendo «società
stretta»,l’Italiaèprivadiciò
che, si è visto, di tale società
è conseguenza: ambizione,
sensodell’onore,bonton.Ma
ilmotivodifondochespiega
la differenza degli italiani
viene espresso nel Discorso
dicendo che se, da un lato, è
certissimo che «l’Italia in
fattodiscienzafilosoficaedi
cognizionematuraeprofonda
dell’uomo e del mondo è
incomparabilmente inferiore
alla Francia, all’Inghilterra,
alla Germania», dall’altro è
anche
certissimo
che
«gl’italiani nella pratica sono
mille volte più filosofi del
maggior filosofo che si trovi
in qualunque delle dette
nazioni». Il motivo? Hanno
intuìtolanullitàdellecose,la
vanità delle illusioni e della
vita, l’infelicità che la
accompagna, l’inevitabilità
quindichesiridadituttoedi
tutti.Lesuddettenazionisono
ancora delle illuse, anche se
la loro illusione è cosa
«minima» e «quasi vile»
rispetto alle grandi illusioni.
Nelle loro «conversazioni»,
perquantospiritualieelevate,
nonsonriusciteacapirequel
che
il
cinismo
del
«popolaccio» italiano ha ben
intuìto«nellapratica».
Il Discorso sviluppa
un’ampia
analisi
della
mancanza di «società stretta»
inItalia,manonindica(come
non li indicava il canto
All’Italia)imotivichehanno
condotto a questa singolare
capacità intuitiva degli
italiani e quindi allo stato di
disfacimento della loro
società. Probabilmente è
sottintesa: molto più di altri
popoli, essi hanno visto e
sperimentato più storia, più
mutazioni di assetti politici,
più vanità di ciò che era
riuscito a imporsi, più
vicinanza alla corruzione del
sacro.Questa–osserviamo–
che pur compete agli italiani
che non hanno bisogno di
provvedere ai propri bisogni,
è pur sempre un’intuizione,
un esser «filosofi nella
pratica»,
non
«nell’intelletto». È filosofia
in
senso
improprio.
L’implicazione necessaria tra
l’andare nel nulla da cui si è
venuti e l’impossibilità di
ogni Eterno e di ogni Legge
eterna
è
infatti
una
dimensione che, e non solo
nei primi decenni del secolo
XX, è del tutto inaccessibile
alleélitescheinItaliaenelle
altre nazioni non hanno
bisogno di lavorare (e a
maggior
ragione
è
inaccessibile ai «popolacci»
di ogni nazione che invece
occupano la loro vita per
soddisfare questo bisogno).
Tale dimensione rimane cioè
ancora un «sottosuolo»
rispetto alle forme visibili e
dominantidellastessacultura
filosofica e scientifica del
XXIsecolo,ilcuirifiutodelle
fondamenta della tradizione
occidentale è altrettanto
dogmatico della maggior
partedelleformeculturaliche
invece intendono tener ferme
talifondamenta.
Sulla base di questo
significato polisemico della
parola«filosofo»,ilDiscorso
puòdirechelaconnessionedi
«società stretta», ambizione,
senso dell’onore, rispetto
dell’opinione pubblica, fa sì
che «niuna cosa, ancorché
menomissima, è disposto un
italiano di mondo a
sacrificare
all’opinione
pubblica». E «italiani di
mondo» sono «quelli che
partecipano di quella poca
vita che in Italia si trova»
(«passeggiano, vanno agli
spettacoli e divertimenti, alla
messaeallapredica,allefeste
sacre e profane»). «Non si
può
negare
che
filosoficamente
e
geometricamente parlando,
essi non abbiano assai più
ragione de’ francesi e degli
altri che pensano e operano
diversamente, e che per
conseguenza in questa parte
essi non sieno, quanto alla
pratica,assaipiùfilosofi.»In
una
«totale
mancanza
d’industria, e d’ogni sorta di
attività», «senza prospettiva»
e«senzascopo»,edunque,in
generale, senza «società
stretta»
(nel
Discorso
Leopardi non insiste sulla
circostanza che la mancanza
di «società stretta» è in gran
parte dovuta alla divisione
politica dell’Italia del suo
tempo),la«vitadegl’italiani»
è priva di «uno de’
grandissimieprincipalimezzi
che restano oggi agli uomini
per non avvedersi affatto
dellanullitàdellecoseloroo
per non sentirla, benché
conoscendola, per non essere
nella pratica persuasi della
total frivolezza delle loro
occupazioni». La società
rende cioè possibile che, pur
conoscendo la nullità delle
cose, non la si senta e in
qualche modo, e in certi
momenti o tempi, ci si
continui a illudere e a dar
pesoepregioallavita.Magli
italiani non hanno società e
quindisono«filosofi».
D’altra parte il carattere
polisemicodiquestoconcetto
di «filosofia» tende a essere
riconosciutoeridottoinpassi
come questo: «Ed ecco che
gl’italiani sono dunque nella
pratica, e in parte eziandio
nell’intelletto, molto più
filosofi di qualunque filosofo
straniero, poiché essi sono
tantopiùaddomesticati,eper
così dire convivono e sono
immedesimati con quella
opinione e cognizione che è
lasommadituttalafilosofia,
cioè la cognizione della
vanitàd’ognicosa,esecondo
questacognizione,cheinessi
è piuttosto opinione o
sentimento, sono al tutto e
praticamente disposti assai
più dell’altre nazioni». La
«cognizione» è la filosofia
autenticadelGiocatoreNero.
È
contenuto
o
atto
dell’«intelletto». E differisce
dall’«opinioneosentimento».
Leopardi sostiene cioè che
«intelletto» e «sentimento»
possono avere lo stesso
contenuto,cheinquestocaso
è «la somma di tutta la
filosofia»:lanullitàdituttele
cose. E implicitamente
sostiene che se modi diversi
di aver presente lo stesso
contenutofannosìcheinessi
tale contenuto non sia lo
stesso, tuttavia è pur
necessario che questi diversi
contenutiabbianoqualcosain
comune, e che questo
qualcosa sia lo stesso nei
diversi modi di averlo
presente. E se esso è il vero,
la verità è presente in modi
diversi che però sporgono da
unabasecomune.
Dunque
«gl’italiani
ridono della vita: ne ridono
assai più, e con più verità e
persuasione
intima
di
disprezzo e freddezza» degli
altri popoli. Sì che, in Italia,
prima
ancora
del
«popolaccio», sono le «classi
superiori» a essere «le più
ciniche» rispetto a quelle
delle
altre
nazioni.
«Incalcolabiliidanni»causati
daquestocinismo,sebbeneil
cinismo sia l’abito «più
conveniente a uno spirito al
tutto
disingannato
e
intimamente e praticamente
filosofo». Tutto questo non
significa che i difetti degli
italiani siano assenti negli
altri popoli, ma che negli
italiani sono «dominanti» e
più«dannosi».
Il Giocatore Nero prende
lamaggioredistanzapossibile
dalle élites del proprio
popolo, alle quali pur
appartiene; ma è insieme
inevitabilecheegliinqualche
modo si trovi rispecchiato
nella vocazione filosofica
degliitalianievedainessila
matrice dei tratti di Eleandro
e di Tristano. D’altra parte è
consapevole di aver vinto la
partitadecisivaenonpuònon
pensare che, se all’estero
sono apparse le grandi
filosofie che portano alle
forme
più
potenti
dell’epistéme messa in opera
dalGiocatoreBianco,tuttavia
le mosse che hanno fatto
vincerelui,ilGiocatoreNero,
sono qualcosa di unico, di
mai prima apparso nella
storia del pensiero filosofico;
e non può non vedere che
questoeventounicoapparein
Italia. Dal dirlo apertamente
lo
trattiene
forse
l’interpretazione che egli dà
della filosofia moderna, già
capace di mostrare la nullità
del mondo in cui l’uomo
vive. Ma egli non può non
scorgere che altro è la
filosofia come messa in
questione e infine negazione
delle
opinioni
comuni
dell’uomo (e, certamente,
questo la filosofia moderna
riesce a essere), altro è la
filosofia che, in base
all’evidenza del ritornare nel
nulla da cui le cose
provengono,
mostra
l’impossibilità di ogni Eterno
e di ogni fondamento eterno
della morale individuale e
sociale(e,questo,lafilosofia
modernanonriesceaesserlo,
e all’estero dovrà attendere
Nietzsche per riprendere e
sviluppare le mosse di
Leopardi).
Restainfineunproblema,
cheLeopardinonaffrontama
che forse spiega uno dei
motivi per cui egli non ha
pubblicato il Discorso sopra
lo stato presente dei costumi
degl’Italiani (uno dei motivi,
diciamo, insieme a quelli
chiaramente
intuibili
a
proposito di uno scritto che
può
sembrare
una
denigrazione). Si tratta del
problema della perdurante
coesistenza delle condizioni
che hanno condotto alla
miseria e al cinismo degli
italiani,daunlato,edall’altro
della potenza e superiorità
della loro lingua, così
decisamente affermate e
analizzate nei Pensieri.
Questo, anche se «il secolo
del cinquecento è il vero e
solosecoloaureodellanostra
lingua e della nostra
letteratura[…],anziinquesto
pregiosuperinonsolotuttigli
altri secoli italiani, ma anche
tutti i migliori secoli delle
letterature straniere» (P 69095). La lingua italiana «è la
più simile alle antiche, e al
carattere antico» (P 1003).
Lingua, dunque, delle grandi
e nobili illusioni. Come può
essereancoraparlata(siapure
noncomenel«secoloaureo»)
dalpopolochepiùdituttigli
altri quelle illusioni le ha
completamenteperdute?
14
Feliceinfelice:l’uomo
Rifiutandoilmito,lafilosofia
si presenta come epistéme
della verità (cfr. cap. 4),
conoscenza
assolutamente
nonsmentibileedefinitiva.E
l’epistémedellaveritàponeal
proprio fondamento, oltre
all’evidenza del divenire
dell’essere,ciòcheAristotele
chiama«ilprincipiopiùsaldo
ditutti».Taleprincipiononsi
appoggia su un più
fondamentale sapere; ogni
altro sapere può essere vero
solo se è implicato da tale
principio e pertanto solo se
non ne è la negazione. Più
tardi, questo principio verrà
chiamato «principio di non
contraddizione».
Se ne danno molte
formulazioni.
Nella
formulazione
aristotelica
suona così: «È impossibile
cheallostesso[ente]competa
e non competa di essere lo
stesso [ente] secondo lo
stessorispetto».(Peresempio
è impossibile che a una
superficie competa e non
competa
contemporaneamente
di
essere
bianca.)
Anche
Leopardi lo formula in modi
diversi. Per esempio, in P
4129 ne dà la formulazione
latina: non potest idem simul
esse et non esse («è
impossibile che lo stesso
[ente] sia e non sia»). Il
rapportodellafilosofiaconil
«principio
di
non
contraddizione» si costituisce
nella
dimensione
più
profonda
del
pensare.
Leopardi lo esplora sin
dall’inizio
delle
sue
riflessioni. Si può dire anzi
che
tale
esplorazione
costituisca il loro percorso
essenziale.
D’altra parte, per il
«principio
di
non
contraddizione» – che è
principio dell’ente in quanto
ente, ossia di ogni ente –
l’ente è ciò che, in quanto
ente, può uscire dal non
essere e ritornarvi: può
oscillaretrailnullael’essere,
e l’ente che ha questa
proprietà (gli enti immutabili
non l’hanno) è, per
l’Occidente,
l’evidenza
suprema che dunque, si è
detto,insiemeal«principiodi
non contraddizione» (che
invece regola ogni ente)
costituisce il fondamento
dell’epistémedellaverità.
Infatti, se è impossibile
chelostessoente(idem)siae
non sia (esista e non esista,
siabiancoenonsiabianco),è
però possibile che lo stesso
enteprimanonsiaepoisia,o
prima sia e poi non sia
(questo essere e non essere è
cioè possibile in tempi
diversi, secondo «rispetti
diversi»). E questo essere e
nonesseredeglientinonsolo
è possibile, ma, per
l’epistéme della verità (e poi
perl’interaciviltàoccidentale
e,ormai,perl’interoPianeta),
è supremamente evidente e
innegabile che gli enti che
appaiono nel mondo sono
appunto questo oscillare tra
l’essereeilnulla.
Prima di indicare i tratti
dell’esplorazione,condottada
Leopardi, del rapporto tra
l’evidenza del divenire e il
principio
di
non
contraddizione,siosserviche
quest’ultimo è «principio» in
sensodiversodaquelloperil
quale il «Principio» è
l’Eterno, cioè il Dio che il
GiocatoreBiancoaffermaedi
cui
Leopardi
mostra
l’impossibilità. E a Leopardi
questa diversità è del tutto
chiara. Il «principio di non
contraddizione» è infatti
fondamento del sapere; il
Principio eterno è invece
fondamento dell’essere. Il
Giocatore Bianco ritiene di
poter mostrare che sul
fondamento del «principio di
non
contraddizione»
è
necessario
affermare
l’esistenza del Principio
eterno. Il Giocatore Nero
riesce a mostrare che
l’esistenza di un qualsiasi
Principio eterno implica la
negazioneditale«principio»,
ossia è impossibile, e che
quindi il Principio di tutte le
cose è il nulla. E riesce a
mostrarlo assumendo come
fondamento, da un lato,
l’evidenza del divenire, cioè
il «principio di non
contraddizione» in quanto
principio degli enti il cui
oscillaretral’essereeilnulla
è supremamente evidente (e
cheancheilGiocatoreBianco
riconosce
come
supremamente evidente), e
dall’altrolatoassumendotale
«principio» come ciò in base
al quale è necessario
escludere che l’esistenza
dell’Eterno trasformi in un
ente il nulla da cui gli enti
vengono e in cui vanno (cfr.
cap.5).
L’esplorazione compiuta
da Leopardi del senso del
«principio
di
non
contraddizione»–sièdetto–
è il tratto essenziale del suo
pensiero. Ne esprime la
parabola complessiva. Egli
tien fermo che, se qualcosa
implica la negazione di
questo
principio,
tale
qualcosa è l’assurdo più
radicale, l’impossibile, il
nulla, ciò che assolutamente
nonpuòesistere.
Tuttavia
i
Pensieri
credono,quasisindall’inizio,
di poter mostrare per quale
motivo
è
necessario
affermare che l’assurdo,
l’impossibile, esiste. Ciò che
non può esistere esiste.
Dapprima mostrano che
l’assurdo esiste all’interno di
un àmbito particolare della
totalità delle cose: l’uomo;
poi mostrano che l’assurdo
esiste in ogni cosa, cioè che
ognicosaèunassurdo.
Quali
contraccolpi
produca sullo stesso pensiero
di
Leopardi
questa
progressiva
dominazione
dell’assurdo verrà indicato
piùavanti.Oravannosentitii
motiviperiqualineiPensieri
questa dominazione viene
affermata.
E viene affermata, si è
detto, quasi sin dall’inizio.
Ciòsignificache,all’inizio,i
Pensieri
escludono,
aristotelicamente, che l’ente
in
quanto
ente
sia
contraddittorio. Infatti, se
Leopardi si allontana ben
presto
dalla
tradizione
filosofica
e
religiosa
dell’Occidente, la rigida
educazione cattolica in cui
crescenellacasapaternasifa
sentire ancora nelle prime
pagine dei Pensieri. Nelle
quali,delresto,ilrapportotra
il «principio di non
contraddizione»
e
la
dimensione
metafisica
(soprattuttoquelladeldivino)
compare nel modo più
autentico, giacché si afferma
l’esistenza
di
quella
dimensione perché altrimenti
il «principio di non
contraddizione» resterebbe
negato.
E infatti in quelle pagine
si afferma quella certa
dimensione metafisica che è
l’immortalità
dell’anima
perché altrimenti la realtà
umana
sarebbe
contraddittoria. «Una delle
grandi prove dell’immortalità
dell’anima è la infelicità
dell’uomo
[…],
l’impossibilità di appagare i
propri desideri»: «la nostra
esistenza non è finita dentro
questo spazio temporale»,
perchéilsuofinirquisarebbe
«una contraddizione formale
coldesideriodiesistere»edi
essere felice. Sapendosi
ridotto a questa vita, l’uomo
la detesta fino a uccidersi.
«L’uccidersidell’uomoèuna
gran prova della sua
immortalità»(P 40). L’uomo
è essenzialmente desiderio di
felicità;manellavitapresente
è infelice; se quindi non
esistesse un’altra vita l’uomo
sarebbe
una
natura
contraddittoria. Ma ancora in
P 375 si afferma che «nella
natura non si trovano
contraddizioni»–nellanatura
in quanto «natura primitiva».
In P 40 la ragione è sì già
vista come antitetica alla
«naturaprimitiva»,tuttaviala
ragione è allo stesso tempo
quel «principio di non
contraddizione»
che,
spingendo
il
pensiero
all’affermazione
dell’immortalità dell’anima,
liberalanaturadall’assurdo.
Ma, poco dopo la stesura
di P 40, la ragione viene
presentata,neiPensieri,come
la visione della nullità delle
cose. Leopardi sta per dire
che «tutto è nulla» (P 85).
Intanto, in P 56, non si dice
più che l’infelicità dell’uomo
implica
l’immortalità
dell’anima perché altrimenti
la realtà umana (in quanto
desiderio di felicità) sarebbe
contraddittoria;
ma
si
rovescia il discorso, e cioè si
dice che l’uomo è una realtà
contraddittoria perché il suo
desiderio di felicità è in
contraddizione con la sua
infelicità. «Tutti gli esseri»
hanno «cura di conservare la
propria esistenza» e l’esserne
soddisfatti;«el’odiarlaonon
soddisfarsene»
è
«un
principio contraddittorio; il
quale non può stare in
natura». «Ora vediamo»,
ossia è evidentissimo, che
nell’uomo «è tanta la
scontentezza dell’esistenza,
che non solo si oppone
all’istintodellaconservazione
di lei, ma giunge a troncarla
volontariamente», cosa «che
non può stare in natura se
non corrotta totalmente»
(corsivi miei). E ciò che
corrompelanatura(inquanto
«natura primitiva») è la
ragione. Irrompendo nella
natura e unendosi a lei, la
ragioneproduceun«principio
contraddittorio», un luogo –
la realtà umana – in cui
l’assurdo, cioè la negazione
del «principio di non
contraddizione», esiste. Noi
non siamo più capaci di
quella felicità che solo la
natura può darci, «da che
abbiamo conosciuto il vòto
delle cose e le illusioni e il
niente»dellafelicitàstessa,e
questa conoscenza è appunto
la ragione che, accadendo,
rende non solo possibile, ma
reale, nell’uomo, l’assurdo,
l’impossibile,ciòcheessendo
in se stesso contraddittorio è
l’impossibile.
Inmargine.Puòsembrare
chesoloinapparenza,dunque
in modo arbitrario, Leopardi
sia giunto a questo risultato.
Egli afferma che con
l’accadimentodellaragioneil
«principio contraddittorio»
diventareale–riescea«stare
innatura»–perchél’uomoè,
essenzialmente, desiderio di
essere e di esser felice, e ciò
nonostante l’uomo è infelice
e desidera di non esser più e
siuccide.Èfeliceeinfelice.
Sipuòalloraobiettareche
questodiscorsodimenticauna
delle clausole fondamentali
del principio di non
contraddizione:
l’impossibilitàcheallostesso
convengalostessosecondolo
stesso rispetto. Non si nega
questo
principio
(dice
l’obiezione)sesiaffermache
questa superficie è (stata)
bianca ieri e non è bianca
oggi: appunto perché tale
affermazione afferma sì che
questa superficie è e non è
bianca, ma non afferma che
lo sia «secondo lo stesso
rispetto»: il «rispetto», il
«riferimento» che in questo
caso è il tempo. Nello stesso
modo (continua l’obiezione),
anche ammesso che l’uomo
sia essenzialmente desiderio
di esistere e di felicità – e
quindi è sempre questo
desiderio –, tuttavia l’uomo
non è sempre infelice, come
lo stesso Leopardi riconosce
quando afferma che nello
stato naturale le illusioni
possono
rendere
felice
l’uomo, e che, anche dopo la
sventura, l’infelicità, la
delusione più profonda, le
illusioni «tornano a rifiorire»
e basta poco perché ciò
accada. L’uomo non è cioè
felice e infelice nello stesso
tempo. Non c’è dunque un
«principio contraddittorio»,
un assurdo, che divenga
realtà.
Leopardi ignora questa
obiezione. Quindi nemmeno
le risponde. Eppure essa non
riesce a colpire così
facilmente. Leopardi può
tener fermo cioè il suo
discorso
sulla
realtà
dell’assurdo. Infatti, se
l’uomo è felice e infelice in
tempidiversi,tuttaviaènello
stessotempocheeglisitrova
adaverelapossibilitàreale,la
reale capacità di diventare
felice e infelice. Aristotele
chiama «potenza» questa
possibilità, onde si dice che
l’uomoè,inpotenza,felicee
infelice, e lo è nello stesso
tempo. Richiamando qui in
breve quanto altrove ho
determinatamenteconsiderato
(cfr.
per
esempio
Fondamento
della
contraddizione), va rilevato
chel’essere in potenza felice
è il non essere in potenza
infelice:
propriamente,
l’«essere in potenza felice»
sta all’«essere in potenza
infelice» così come «bianco»
sta a «nero», sicché come è
impossibile che la stessa
superficie sia nello stesso
tempo bianca e nera così è
impossibilechel’uomosiain
potenza felice e infelice,
perché è nello stesso tempo
che egli si trova ad avere
questa duplice e opposta
capacità.
Leopardi
e
l’intero
pensiero
dell’Occidente
credono che tale capacità si
trasformi in realtà, ossia che
l’essere effettivamente felice
e infelice siano il risultato di
undivenire dove la felicità e
l’infelicità dell’uomo escono
dal loro non essere ancora
reali (perché erano ancora
soltanto la capacità di
realizzarsi) e dopo esser
diventatirealisenevannonel
loro non esser più reali. Ma
Leopardi scorge, sia pure da
lontano(perchénonconsidera
l’obiezione
qui
sopra
indicata),chelacompresenza
di felicità e infelicità
nell’uomo è il diventar reale
dell’assurdo,
l’esistenza
dell’impossibile.
Si aggiunga che Leopardi
usa come sinonimi i termini
«contraddizione»
e
«contraddittorio». Quando
parla,cioè,delfarsirealtàda
parte dell’impossibile in cui
la contraddizione consiste, si
riferisce
al
contenuto
contraddittorio
della
contraddizione in quanto atto
del contraddirsi. Atto che è
reale (e in questa realtà
nemmeno Leopardi scorge
alcunché di scandaloso),
giacché
il
contraddirsi
dell’uomo esiste; ma il
«principio
di
non
contraddizione»
richiede
l’inesistenza del contenuto
contraddittorio, impossibile,
del contraddirsi, e invece
Leopardi afferma (in un
primo tempo) l’esistenza di
tale contenuto, in relazione a
quell’àmbito
circoscritto
dell’essere che è la realtà
umana. (Poi estenderà tale
affermazione a ogni àmbito
dell’essere.)
15
Natura«saviae
coerente»,ilpiacere,la
«contraddizionein
natura»
Come ogni cosa, la ragione
accade senza «perché». Ma
esiste il perché del suo
accadere senza «perché».
Tale esistente perché è
l’evidenza stessa del venire
dal nulla e dell’andarvi, da
parte delle cose: è perché
questo andare e venire è
considerato come l’evidenza
assolutamente innegabile (ed
è così considerato sin
dall’inizio
della
storia
dell’Occidente) che non può
esistere alcun «perché»
capacediindicareilPrincipio
da cui le cose provengono e
incuiritornano.
Ma esiste anche un
motivo (un perché) specifico
per cui la ragione irrompe
senza «perché» nella natura.
La ragione, infatti, mostra la
nullitàditutto,lanullitàdella
natura,espingeciòcheesiste
anonessere;maselaragione
fosseimplicatadallanatura–
se l’uomo fosse per essenza
ragione, cioè conoscenza
della verità –, la natura, in
quanto essere e volontà di
essere, implicherebbe il
proprio non essere, sarebbe
essa, in quanto tale, un
«principio contraddittorio».
Dunqueèsenza«perché»che
l’uomo venga a essere
ragione, conoscenza della
verità.Ciòchenonpuòessere
necessariamente implicato
dalla natura e che dunque è
opera del caso non sono
infatti le conoscenze prive di
verità (quali le illusioni della
natura, quelle che Adamo
possedeva anche prima di
peccare),malaconoscenzain
quanto conoscenza della
verità. La natura, in quanto
natura, che è «tanto savia e
coerenteintuttoilresto»,non
può essere così «pazza e
contraddittoria» nell’uomo,
facendogli conoscere ciò di
cui egli «non doveva per
nessun conto accorgersi»,
ossia «della sua assoluta e
necessaria infelicità in questa
vita», sì che «l’essersene
accorto è contro natura,
ripugna ai suoi principi» (P
66), rende reale ciò che è in
se stesso contraddittorio e
impossibile. «Nella natura
non
si
trovano
contraddizioni»(P375).
Questa natura «savia e
coerente», che in nessun
modo può esser «pazza e
contraddittoria» è l’esistenza
stessa, considerata in quanto
tale, quindi senza ciò che è
«contro» di essa (ossia la
ragione). «Ella stessa ama la
vita,eprocuraintuttiimodi
la vita […]. Perciocch’ella
esiste e vive. Se la natura
fosse morte [se implicasse la
ragione, che, mostrando la
morte, è “mortifera”], ella
non sarebbe. Esser [e] morte
son termini contraddittori.
S’ellatendesseinalcunmodo
alla morte, se in alcun modo
la
proccurasse,
ella
tenderebbe e procurerebbe
contro se stessa […]. Quello
che noi chiamiamo natura
non è principalmente altro
che l’esistenza, l’essere, la
vita,sensitivaononsensitiva,
delle cose» (P 3813, ottobre
1823).
A proposito del modo in
cui Leopardi afferma che
essere e morte sono termini
contraddittori, si ribadisca
che «morte» significa per lui
(come per l’intero sviluppo
dellaciviltàoccidentale)«non
essere», «annientamento»,
l’esser diventato nulla da
parte di ciò che «mai più»
tornerà a essere. Leopardi
vede che la morte è «contro
natura», nel senso che è
contro natura il suo essere
conosciuta dall’uomo, il
quale pur appartiene alla
natura. Per il Leopardi dei
Pensieri 3813, 375, 66, la
morte-annientamento,
in
quanto tale (in quanto tale,
ossia non in quanto
conosciuta) non è in alcun
modo «contro natura», cioè
qualcosadicontraddittorio.E
nonsoloperLeopardi,maper
l’interopensieroeperl’intero
agire dell’Occidente, dove la
morte-annientamento è anzi
intesa–stiamocontinuandoa
ripeterlo –, come la suprema
evidenza,
la
realtà
supremamenteevidente.
Nello
sviluppo
dei
Pensieri, la realtà della
contraddizione
nell’uomo
viene ampiamente chiarita
come contraddizione della
società (si veda Cosaarcana
e stupenda. L’Occidente e
Leopardi, X). «Il dir società
stretta [cioè costruita ad arte
dalla ragione e, quindi,
diversa dalla coesistenza
naturaledipiùindividuidella
stessa specie], massime
umana, è contraddizione» (P
3788). Nonostante questa
specie di ampliamento, che
più che all’individuo guarda
all’associarsi degli individui,
la dimensione in cui la
contraddizioneèrealerimane
circoscrittaallarealtàumana.
Eppure tale ampliamento
contribuisce a spingere il
pensiero di Leopardi verso
una direzione dove la realtà
dell’assurdo non compete
all’essere in quanto essere
umano, cioè in quanto essere
che è invaso dalla ragione,
maall’essereinquantoessere
(anche se dapprima si tratta
dell’essere umano, ma,
appunto, nel suo non venire
invasodallaragione).
Se la morte che annienta
lavitanonèinquantotale(in
quanto tale, e non in quanto
conosciuta) «contro natura»,
ossia non è qualcosa di
contraddittorio, tuttavia nel
Pensiero 4043 si dice che,
essendo l’uomo sempre
infelice
(«occupato
o
divertito»,cioè«disoccupato»
che sia), «la vita è per se
stessa un male», cosicché il
suo sentirsi e conoscersi
meno è il minor male, e anzi
«il non vivere […] è
semplicemente un bene, […]
preferibile di per sé e
assolutamente alla vita». Ma
la vita è la natura: l’abbiamo
risentitoquisopra;lanaturaè
«savia e coerente», non va
contro se stessa. Sembra che
inP4043–esipotrebbedire
all’improvviso, se non si
tenesse conto dell’intensità e
ampiezza dei Pensieri sulla
realtà della contraddizione
nellasocietà–siincomincia
negarlo.
Eppure nemmeno in
questo caso Leopardi sta
smentendo se stesso. Sta
invece incominciando a
rivolgersi alla natura, intesa
noncomedesiderioinfinitodi
piacere,macome«giocoreo»
chenonpuòessereenonpuò
produrre altro che male. La
vita che è male di P4043,si
può dire dunque, è la natura,
considerata appunto come
creata da tale gioco. Il
concetto di natura come
desiderioinfinitodipiaceree
le conseguenze di tale
concetto permangono, ma di
lì a poco, in un Pensieroche
fa esplicito riferimento a P
4043, il piacere riceve una
configurazione nuova, che
noncancellalaprecedentema
le aggiunge qualcosa che
rafforza la configurazione
della vita come male: «Il
piacere non è che un
abbandono e un oblio della
vita, e una specie di sonno e
dimorte.Ilpiacereèpiuttosto
una privazione o una
depressionedisentimentoche
un sentimento, e molto meno
un sentimento vivo. Egli è
quasi
un’imitazione
dell’insensibilità e della
morte, un accostarsi più che
si possa allo stato contrario
alla vita e alla privazione di
essa, perché la vita per sua
natura è dolore […] Dunque
la vita è un male e un
dispiacere per sé, perché la
privazionediessainquantosi
può è naturalmente piacere.
Infatti la vita è naturalmente
uno stato violento, poiché
naturalmente priva del suo
sommo e naturale bisogno,
desiderio, fine, e perfezione
cheèlafelicità»(P4074).
Qui rimane fermo che la
natura
«primitiva»
e
«assoluta»,considerataperse
stessa, non è contraddittoria
(«nella natura non si trovano
contraddizioni»); e che a
renderla contraddittoria è
l’accadimento per il quale la
ragione
fa
irruzione
nell’uomo come individuo e
come essere sociale. Ma la
natura, considerata come
creatura del «gioco» della
produzione e distruzione
senzaperché–ossiadelgioco
in cui soltanto la morte è
eterna –, è male, dispiacere,
dolore: «Sola nel mondo
eterna, a cui si volve / Ogni
creata cosa, / in te, morte, si
posa/nostraignudanatura;/
lieta no, ma sicura /
dall’antico dolor […]», cioè
dal dolore che essa è in
quanto creata dal gioco del
divenire. È in un breve
Pensiero (P 4087), l’unico
scrittol’11maggio1824,che
viene introdotta in modo
esplicito la novità radicale,
quella che segna questo
ulteriore senso della natura,
presente sino alla fine negli
scritti di Leopardi: la natura
come creatura e aspetto
dell’«empia madre». La
novità è determinata da un
approfondimento
della
portata e del senso della
contraddizione.
Appunto
questo
approfondimento
andràorachiarito.
Il Pensiero 4087 suona
così: «Non è forse cosa che
tanto consumi e abbrevi o
renda nel futuro infelice la
vita, quanto i piaceri. E da
altra parte la vita non è fatta
cheperilpiacere,poichénon
èfattasenonperlafelicità,la
quale consiste nel piacere, e
senza di esso è imperfetta la
vita, perché manca del suo
fine, ed è una continua pena,
perch’ella è naturalmente e
necessariamente un continuo
e non mai interrotto bisogno
difelicitàcioèdipiacere.Chi
mi sa spiegare questa
contraddizione in natura?»
(corsivomio).
La vita è desiderio di
piacere mai soddisfatto,
quindièdolore;mailpiacere
stesso produce dolore, rende
infelice la vita. Anche quel
modo di chiudere la
riflessione
è
insolito.
Leopardi sta accorgendosi
della svolta che il proprio
pensiero sta operando. Ora,
infatti, non si dice più che la
natura è contraddittoria in
quantocorrottadallaragione,
macheècontraddittoriainse
stessa: «Chi mi sa spiegare
questa contraddizione in
natura?». E in qualche modo
la domanda si ripresenta nel
DialogodellaNaturaediun
Islandese
(«Io
soglio
prendere
non
piccola
ammirazione»:
l’«ammirazione»
come
stupore provato di fronte
all’incomprensibile),
che
Leopardi compone pochi
giorni dopo la stesura di P
4087. Proviamo a sondare la
portatadiquestopasso.
16
«L’orribilemistero
dellecoseedella
esistenzauniversale»
Il
piacere,
la
felicità,
consuma, abbrevia, rende in
futuroinfelicelavita.Iltesto
di P 4087 non sta parlando,
banalmente,
delle
conseguenze degli stravizi
che alcuni, pochi, possono
permettersi. Il «piacere» è il
«desiderio infinito» del
piacere, sempre inteso,
sappiamo, nel senso più
ampio, che è innanzitutto la
soddisfazione dei bisogni
primari dell’uomo, la quale,
una volta ottenuta, diventa
desiderio
di
soddisfare
bisogni ulteriori, e così
all’infinito. (D’altra parte,
«quellichenonhannobisogni
sono ordinariamente molto
piùbisognosidicolorochene
hanno», perché «uno de’
grandissimi e principalissimi
bisognidell’uomoèquellodi
occuparelavita»,P4075).
Si può aggiungere che
piacere e felicità sono
illusione, e all’illusione tiene
dietroladelusione,esebbene
basti poco perché le illusioni
«rifioriscano», tuttavia è
proprio questo continuo
alternarsi di illusione e
delusione a consumare il
piacere e la felicità, a
distruggere la vita. La vita è
dunquedistruzionedellavita;
la vita è non vita. L’essere è
distruzione
dell’essere;
l’essere è non essere. La
natura in quanto natura è
contronatura.Esitrattadella
natura umana in quanto
natura, non in quanto invasa
dalla ragione: della natura in
quanto creatura e aspetto
dell’«empia madre». Nel
DialogodellaNaturaediun
Islandese,questoledice:«Sei
carnefice della tua propria
famiglia, de’ tuoi figliuoli e,
perdircosì,deltuosanguee
delle tue viscere»: sangue e
viscere che quindi non
possono che essere esse
stesse
contro
di
sé,
contraddizioni (impossibilità
di essere realtà) che sono
realtà.
Che le cose stiano in
questo modo è d’altra parte
dovuto, per Leopardi, alla
convinzione (in lui ereditata
dall’inizio e dall’intero
percorso
filosoficoontologico dell’Occidente)
che la produzione e
distruzione delle cose, in cui
consiste l’opera del carnefice
della propria famiglia, sia
l’evidenza più innegabile. La
produzione-distruzione è il
divenire del mondo e una
volta che lui, in quanto
Giocatore Nero, ha mostrato
l’impossibilità di un Eterno
che sia causa e scopo del
divenire, allora ogni cosa è
necessariamente nel divenire
eneltempo,epertantoèessa,
il principio della propria
distruzione,ilfondamentodel
proprio non essere: è il
principiodelproprioesseree
–
poiché
essa
è
necessariamente un divenire,
un
diventar
altro,
e
diventandoaltrovadistrutta–
alcontempoèilprincipiodel
propriononessere:èenonè.
Edaccapononsipuòdire
cheprimasiaepoinonsia,sì
chelacontraddizionesarebbe
evitata:nonlosipuòdireper
quanto già si è rilevato nel
passoInmarginedelcapitolo
precedente. Giacché, anche a
proposito di una cosa che
prima è, la fede nel divenire
deveaffermareche,inquesto
suo esser prima, essa è
capace di essere, ossia è «in
potenza» il continuare a
essere e, insieme e nello
stesso tempo, è «in potenza»
il non esser più; e, si è
richiamato in quel passo,
l’essere in potenza due
opposti è qualcosa di
contraddittorio,
di
impossibile.
Leopardi
percepisce in qualche modo
questa
contraddizione
(contraddittorietà)ehaquindi
benmotivodichiedere:«Chi
mi sa spiegare questa
contraddizioneinnatura?».
Stando all’interno della
fede
dell’Occidente
nell’esistenza del divenire,
nessuno può spiegargliela.
Glielo può spiegare il Terzo
Giocatore, ma conducendolo
al di fuori di quella fede nel
divenire che il Giocatore
Nero è il primo e comunque
tra i pochi che nel modo più
rigoroso si rifiutano di
considerare come fede ma
assumono come la verità
supremamente evidente che
implica l’inesistenza di ogni
Eterno.EinfattisoloilTerzo
Giocatore può considerare
come «fede» quel divenire e
quel diventar altro che nella
sua forma ontologica (cioè
come venire e andare nel
nulla)èevocatodalGiocatore
Bianco (alleato, in questa
evocazione, al Giocatore
Nero), e che nella sua forma
preontologica incomincia da
quandol’uomoiniziaavivere
sullaTerra.
Il passo P 3813 («La
natura è vita. Ella è
esistenza», eccetera) che
abbiamoriportatonelcapitolo
precedente non resta dunque
smentito da tutte queste
considerazioni;essodefinisce
uno dei due lati della
«contraddizione in vita» che
ora è venuta alla luce: il lato
per il quale la natura è vita,
essere, esistenza, vuole se
stessa. In essa (ossia in
quanto primo lato) «essere e
morte
son
termini
contraddittori», dunque non
tendeallamorte,nonècontro
se stessa. O di tale passo è
smentitalapretesadidefinire
in modo completo la natura.
IlPensiero4087indical’altro
lato, radicalmente opposto al
primo, e cioè indica che
nonostantel’identitàdinatura
e di essere, la natura (ogni
cosa)hainsé,insieme,lapiù
radicale negazione di se
stessa. P 4087 indica cioè
l’intera – e inspiegabile –
«contraddizioneinnatura».
Ciò che Leopardi sta
portando alla luce diventa
completamente esplicito in P
4099-101. Alla domanda che
chiude P 4087 («Chi mi sa
spiegare
questa
contraddizioneinnatura?»)le
prime righe di P 4099
rispondono esplicitamente
indicando il concetto con cui
«non si può meglio spiegare
l’orribilemisterodellecosee
della esistenza universale»
(corsivo mio). Dove, già in
partenza, il testo dice che,
ora, in questione non è
l’essereinquantoumano,ma
l’essereinquantoessere,cioè
la totalità dell’essere; in
questionesono,appunto,«le»
cose
e
l’«esistenza
universale»:
«Non si può meglio
spiegare l’orribile mistero
delle cose e della esistenza
universale» (vedi il mio
DialogodellaNaturaediun
Islandese, massime in fine)
che
dicendo
essere
insufficientieanchefalsi,non
sololaestensione,laportatae
le forze [della ragione], ma i
principi stessi fondamentali
della nostra ragione. Per
esempio quel principio,
estirpato il quale cade ogni
nostro
discorso
e
ragionamento e ogni nostra
proposizione, e la facoltà
istessa di poterne fare e
concepire dei veri, dico quel
principio non può una cosa
insieme essere e non essere,
pare assolutamente falso
quando si considerino le
contraddizioni palpabili che
sonoinnatura».
Questo principio – il
«principio
di
non
contraddizione» appunto – è
orasmentitononsoloineda
una regione particolare
dell’essere (quella umana, la
naturacomedesiderioinfinito
dipiacere),mainogniessere:
la totalità dell’essere (la
natura come «esistenza
universale»,
gioco
del
divenire) lo smentisce. Le
contraddizioni esistenti «in
natura» – ossia in ogni parte
del gioco del divenire in cui
l’«esistenza
universale»
consiste – sono infatti
«palpabili».
La
loro
«palpabilità» è la loro
evidenza
assolutamente
innegabile.
E
poiché
l’esistenza
delle
contraddizioni del divenire
possiede
un’evidenza
assolutamente innegabile, il
principio
di
non
contraddizione
è
«assolutamentefalso».
Questa tesi, covata sin
quasi dai primi Pensieri, ora
esplode. Le sue ripercussioni
sul gioco del Giocatore Nero
sonogigantesche.Informain
un certo senso rovesciata e
siapureattraversolanebbia,
il Giocatore Nero sta
intravedendo il Luogo che il
Terzo Giocatore vede e
indica (cioè il «destino della
verità», cfr. Istruzioni per la
lettura).
Il Giocatore Nero dice:
l’esistenza
della
contraddizione del divenire è
evidente; dunque il principio
dinoncontraddizioneèfalso.
Il Terzo Giocatore dice altro.
Ora limitiamoci a un cenno
senza
indicarne
il
fondamento. Egli dice: per
quanto a prima vista la cosa
possa sembrare inaccettabile,
l’esistenza del divenire,
inteso come diventar altro e
diventare
da
nulla
ridiventando nulla, non è
affatto evidente, non è
«palpabile»: non è ed è
impossibile che sia un
contenuto dell’«esperienza»,
un che di «osservabile», un
contenuto «fenomenologico»
quale è impossibile che
appaia;
quindi
la
contraddizione del divenire –
la quale si manifesta, nel
Terzo Giocatore, al di fuori
della nebbia che avvolge il
GiocatoreNero–nonimplica
lafalsitàdellanegazionedella
contraddizione, ma conferma
l’inesistenza del divenire. In
breve:ilTerzoGiocatoredice
che, non potendoci essere
esperienza dell’esistenza del
divenire, la contraddittorietà
del divenire non implica
l’esistenzadelcontenutodella
contraddizione, ma è il
sintomodell’impossibilitàdel
divenire.
E si avverta che per il
TerzoGiocatorelanegazione
autentica
della
contraddizione non è, come
già si è rilevato, il «principio
di non contraddizione».
Infattiquestoprincipio(cheè
principio dell’ente in quanto
tale) pensa l’ente andandogli
incontro con la convinzione
che l’ente può essere un ente
che diviene. Ma il Terzo
Giocatore
mostra
che
l’esistenza del divenire
(inteso come diventar altro e
daaltro)nonpuòapparire.È
quindi allo stesso tempo
impossibile che gli enti che
divengono appaiano nel loro
esser regolati dal «principio
di non contraddizione», il
quale,apropositoditalienti,
afferma da un lato che
quando un ente è è
impossibile che esso sia e
insieme non sia, e dall’altro
lato afferma la necessità che
essoprimasiaepoinonsia.
Il testo di P 4099-101
continua ribadendo che:
«L’essere effettivamente, e il
non potere in alcun modo
essere felice, e ciò per
impotenza
innata
e
inseparabile
dall’esistenza
[…]sonodueveritàtantoben
dimostrate e certe intorno
all’uomo e a ogni vivente,
quanto possa esserlo verità
alcuna secondo i nostri
principii e la nostra
esperienza».
L’«essere
effettivamente» è l’essere
comecreaturedivenienti,cioè
prodotteedistrutte;equestaè
«verità secondo la nostra
esperienza», la «palpabilità»
del divenire. Il non poter
essere
felici
è
la
contraddizione che avvolge
l’«essere
effettivamente».
Contraddizione che a sua
volta è «verità», ossia esiste
veramente:siaperchéèasua
volta «palpabile», sia perché
èinbaseaipropri«principii»,
ossia, da ultimo, in base al
«principo
di
non
contraddizione» che l’uomo
può
vedere
nella
contraddizione
ciò
che
dev’essere rifiutato. E d’altra
parte, proprio perché vede
l’evidente esistenza della
contraddizione, l’uomo vede
la contraddizione tra la
contraddizione esistente e il
«principio
di
non
contraddizione», il principio,
tuttavia, «estirpato il quale
cade ogni nostro discorso e
ragionamento».
Il testo aggiunge che se
«l’essere, unito all’infelicità,
e unitovi necessariamente e
per propria essenza, è cosa
contraria dirittamente a se
stessa» – se «l’essere dei
viventi è in contraddizione
naturale
essenziale
e
necessaria con se medesimo»
–, d’altra parte non si tratta
solodiquestacontraddizione,
ma della contraddizione
dell’«esistenza universale:
«Del resto e in generale è
certissimo che nella natura
delle cose si scuoprono mille
contraddizioni […]; e tanto
evidentipernoiquantoloèla
veritàdellaproposizioneNon
può una cosa a un tempo
essere e non essere. Onde ci
bisogna rinunziare alla
credenza o di questa o di
quelle. E in ambo i modi
rinunzieremo alla nostra
ragione». Posto anche –
sembra dire il testo – che in
base al principio di non
contraddizione si debba
rinunciare o all’evidente
esistenzadellacontraddizione
o all’evidenza di tale
principio (ma, osserviamo,
comeèpossibilerinunciarea
tale principio se è esso a far
compiere questa rinuncia?),
«in
ambo
i
modi
rinunzieremo alla nostra
ragione».Èinfattipursempre
la ragione a vedere che non
solo le cose del mondo, ma
tutte le cose divengono, sono
nulla perché sono «in mezzo
alnulla».
17
L’oscuritàcheavvolge
la«vettadella
contemplazione»
Le vicende del pensiero
filosofico non riguardano un
mondo «astratto», di cui la
«realtà» abbia ben poco a
risentire. Esse guidano la
storiaconcretadell’Occidente
e ormai del Pianeta. Le
categorie filosofiche, al cui
interno si dispongono i
pensieri
e
le
opere
dell’Occidente,sonodivenute
le
categorie
dell’intero
Pianeta. Per esempio il
comunismo marxista e il
capitalismo,impensabilialdi
fuori del loro contesto
filosofico, e da ultimo
riconducibili,comeognialtra
categoria,alsensogrecodella
poiesis e dunque al senso
greco della cosa come
oscillazione tra l’essere e il
nulla.
Il Giocatore Bianco e il
Giocatore Nero esprimono i
due grandi tempi della storia
occidentale. Il Giocatore
Nero,propriamente,haaperto
la strada al secondo di questi
due tempi. Nonostante la
visibilità del fanatismo
religioso, che del resto è una
forma
di
negazione
dell’altezza raggiunta dal
divino lungo la tradizione
dell’Occidente, i popoli
stanno
progressivamente
allontanandosi dalla fede che
esista un Essere immutabile,
eterno, divino, e che esso sia
il Rimedio contro la morte.
La filosofia fa da battistrada,
ma il tramonto degli
immutabili è percepibile in
campo
politico-sociale,
economico,
scientifico,
artistico,
giuridico,
nei
costumi
morali
degli
individuiedellemasse.
Tuttavia il pensiero di
Leopardi perviene a un esito
analogo a quello dove alcuni
decenni più tardi giungerà il
pensiero di Nietzsche; e lo
stesso discorso si potrebbe
fareperilpensierodiGentile.
Nonstoriferendomi,ora,alla
grande analogia relativa alla
distruzione di ogni verità
definitiva e di ogni eterno,
compiuta da questi tre
pensatori (che dunque sono
treincarnazionidelGiocatore
Nero), ma all’esito, appunto,
di questa distruzione. A
questo esito e allo sguardo
che è capace di decifrarlo si
rivolgono questo capitolo e i
dueseguenti.
Nietzsche chiama «vetta
dellacontemplazione»–ossia
il punto più alto al quale il
pensiero può portarsi – la
propria dottrina dell’«eterno
ritorno delle stesse cose». A
differenza di Leopardi,
Nietzsche non pensa il
divenire (che è la totalità
dell’essere) come produzione
e distruzione casuale di
mondi e stati di cose sempre
diversi, ma come l’eterno
ritornodiquell’insiemefinito
di cose che casualmente si
sono prodotte e sono andate
distrutte(sivedaL’anellodel
ritorno).
Heidegger
ha
osservato che questa vetta
«rimane avvolta in dense
nuvole: non soltanto per noi,
ma anche per il pensiero più
grave di Nietzsche»; «è
avvolta in un’oscurità di
fronteacuipersinoNietzsche
dovette
indietreggiare
spaventato».
I motivi autentici di
questo spavento non sono
quelli indicati da Heidegger,
o quelli che Nietzsche stesso
ha presumibilmente indicato,
ma sono dovuti a qualcosa
chenessunodeiduenéalcun
altro abitatore dell’Occidente
possono aver visto, sebbene
nonsipossaescludereche,in
qualche modo, esso trapeli
dalle parole di Nietzsche.
Sono dovuti alla circostanza
cheèpropriol’estremorigore
col quale Nietzsche mostra
l’inevitabilità della morte di
ogni Eterno a condurre con
necessitàaquell’Eternocheè
l’Eterno ritorno delle stesse
cose.Rigorosamentepensato,
il concetto del divenire
distrugge se stesso. La fede
nell’esistenza del divenire,
inteso grecamente come
poíesis – e ormai dominante
ogni pensiero e opera
dell’uomo – distrugge se
stessa. (Qui non è possibile
giustificare
questa
affermazione, e si rinvia al
saggio qui sopra citato e a
quelli
che
riguardano
l’attualismogentiliano.)
Orbene, l’analogia di cui
abbiamo incominciato a
parlare qui sopra consiste
appuntonellacircostanzache
anche, e prima di tutti,
Leopardi
perviene
alla
propria
«vetta
della
contemplazione»deldivenire,
e che anch’egli, di fronte a
essa, arretra spaventato. Ma
anchequiilmotivoprofondo
di questo spavento non è
quello indicato da Leopardi;
sebbene,forse,essotrapeliin
ciò che egli vede come
spaventoso. Ciò che per lui è
spaventoso («spaventevole»)
è la contraddizione (ossia la
contraddittorietà)diciòcheè
reale: la contraddizione
dell’essere, l’esistenza di ciò
che non può esistere,
l’esistenzadell’assurdo(della
quale Leopardi indica tutta
una molteplicità di aspetti e
modi).
«Contraddizione
evidente
e
innegabile
nell’ordine delle cose e nel
modo
della
esistenza,
contraddizione spaventevole
[corsivomio];manonperciò
menvera:misteriogrande,da
non potersi mai spiegare, se
non negando (giusta il mio
sistema) ogni verità o falsità
assoluta, e rinunziando in
certomodoanchealprincipio
dicognizionenonpotestidem
simul esse et non esse» (P
4129, aprile 1825), «è
impossibilechelostessosiae
insiemenonsia».
La
vetta
della
contemplazione,qui,secondo
Leopardi, è la negazione di
questo principio: la necessità
di negarlo perché è l’«ordine
dellecose»,l’esistenzastessa
(cioè il divenire) ad apparire
evidentemente
come
contraddittoria:
«contraddizione evidente e
innegabile». L’«oscurità» di
questa vetta è estrema
(«misterio
grande»)
e
spaventosa.
Si tratta tuttavia di
scorgere,aldilàdiquantoil
Giocatore Nero riconosce
come spaventoso, ciò che
produce in lui uno spavento
essenzialmente più profondo.
Egli è capace di reggere lo
spettacolo della infelicità
universale: «Non gli uomini
solamente, ma il genere
umano fu e sarà sempre
infelice di necessità. Non il
genere umano solamente ma
tutti gli animali. Non gli
animali soltanto ma tutti gli
altriesserialloromodo.Non
gli individui, ma le specie, i
generi, i regni, i globi, i
sistemi, i mondi» (P 4175,
aprile 1826). Egli avrà
l’ardimento di Tristano e
della nobile natura «che a
sollevar s’ardisce / gli occhi
mortali incontra / al comun
fato,echeconfrancalingua,
nulla al ver detraendo, /
confessailmalchecifudato
in sorte». Ma già sei anni
prima, sappiamo, aveva
scritto: «Io era spaventato
[corsivo mio] nel trovarmi in
mezzo al nulla, un nulla io
medesimo. Io mi sentiva
come soffocare considerando
e sentendo che tutto è nulla,
solidonulla».
Si tratta dunque di
mettereinluceinchesensoil
Giocatore Nero può essere
avvolto da uno spavento
essenzialmente più profondo.
Egli non dà alcun esplicito
aiuto per capirlo. E non può
darlo perché altrimenti,
vedremo,
dovrebbe
abbandonare se stesso e
lasciare la parola al Terzo
Giocatore,
che
incomincerebbe la sua partita
(cfr.capp.18-20).
Intanto va notato che la
stesura dei Pensieri rallenta
man mano che Leopardi va
pubblicando le Operette
morali.Inoltre,nei Pensierii
riferimenti espliciti alla
«contraddizione
spaventevole», di cui si parla
nell’aprile1825,diventanoin
seguito rari. D’altra parte
passa quasi un anno da P
4099-101 a P 4129. Passa
ancora un altro anno prima
che i Pensieri ritornino
esplicitamente sul tema della
«contraddizione
spaventevole». È infatti in P
4169 (marzo 1826) che si
parladella«spaventevole,ma
vera
proposizione
e
conchiusione di tutta la
metafisica»:chel’esistenzadi
ciò che esiste produce
necessariamente l’inesistenza
dell’esistente, che l’essere
dell’enteèilprincipiodelnon
essere dell’ente. Questa
contraddizione
«spaventevole»
è
la
«conchiusione di tutta la
metafisica». È la «vetta della
contemplazione». La vetta è
raggiunta da tempo, e infatti
Leopardi si limita a
constatarne
l’aspetto
spaventoso e in sostanza ad
affermare
che
questa
constatazione
è
la
conclusionedelpensare.
Si capisce allora come,
giunto
a
quella
«conchiusione», egli decida,
pubblicando le Operette
moralieiCantidal1826(Al
conte Carlo Pepoli) alla
Ginestra, di ripercorrere
l’intero arco del suo
«sistema» (così egli lo
chiama). Ma per un verso ne
maschera la radicalità, per
l’altro unisce alla filosofia la
potenza del grande stile, cioè
del canto (una potenza che
delrestoèspessogiàpresente
nella«prosa»deiPensieri).E
sipuòanchecapireperchénel
Leopardi delle Operette
morali Nietzsche abbia visto
il «maggior prosatore» del
XIX secolo – prosatore, non
filosofo –, traendo però da
questa
«prosa»
ampie
tematiche
del
proprio
filosofare, e dunque facendo
tortoaLeopardifilosofo.Del
quale Nietzsche era ben in
grado di scorgere il volto
sottolamaschera.
Ma, ancora, si può capire
perchéilsensodelleOperette
morali e dei Canti sia
fortemente
ambiguo.
Giacché, da un lato, l’intento
delloroautoreèdipresentarli
ailettoriindipendentementee
separatamente dai Pensieri,
dall’altro sono appunto
quest’ultimi a conferire alle
Operettemorali e ai Cantila
potenza e densità concettuale
chelorospetta.Nonèuncaso
che un mese dopo la stesura
di P 4087, del maggio 1824,
in cui chiede chi gli sappia
spiegare come possa darsi la
«contraddizione in natura»
(cfr.cap.15),Leopardiscriva
il dialogo dove Eleandro,
dopo aver affermato che la
filosofia è «dannosissima», e
da «estirpare dal mondo» e
che le sue verità debbono
essere
«ignorate
o
dimenticatedatutti»(cfr.cap.
7), aggiunge: «se ne’ miei
scrittiioricordoalcuneverità
dure e triste, o per sfogo
dell’animo
o
per
consolarmene col riso, e non
per altro; io non lascio
tuttavia negli stessi libri di
deplorare, sconsigliare e
riprendere lo studio di quel
misero e freddo vero […]:
laddove, per lo contrario,
lodoedesaltoquelleopinioni,
benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti e
magnanimi […]; quelle
immaginazioni, belle e felici,
ancorché vane, che danno
pregioallavita».
18
Checosaspaventail
GiocatoreNeroela
primamossadelTerzo
Giocatore
Non è un caso che Eleandro
parli come abbiamo sentito
alla fine del capitolo
precedente, perché «quel
misero e freddo vero» a cui
eglisiriferisceèappuntociò
che ai suoi occhi debbono
sembrare le considerazioni
svolte nei Pensieri. Eleandro
sta esaltando quell’unità di
filosofia e di poesia che
costituirà l’essenza della
nobile natura del fiore del
deserto.
Dimenticata
dev’essere
la
filosofia
separata dalla poesia, non la
loro unione. Che anche per
Eleandro
dev’esser
salvaguardata. Egli riconosce
infattidi«ricordare»neisuoi
scrittileverità«dureetriste»,
e di dichiarar «false» e
«vane» quelle «opinioni» e
«immaginazioni»
che
rafforzano la vita rendendo
«nobile»,
«forte»
e
«magnanimo»
l’uomo.
Riconosce
il
carattere
filosoficodeisuoiscritti.Ciò
chepuòrisultaredannosoper
illettore,Eleandro(Leopardi)
lotienepersé,chiusoneisuoi
Pensieri. Soprattutto quando
il danno è diventato estremo
perché la verità è giunta a
mostrare la «spaventevole»
esistenzadellacontraddizione
dovel’essereinquantoessere
è il principio del proprio
annullamento e non essere.
Nelle Operette e nei Canti
questa
estrema
contraddizione è presente
soloinmodoindiretto.
Tale contraddizione, poi,
èmassimamentediversadalla
contraddizione
dialettica
hegeliana. La contraddizione
dialetticaèilcontraddirsidel
pensiero in quanto intelletto
astrattocheseparalecose–o
«determinazioni» – dal loro
contesto. La contraddizione
dialettica è l’errare della
conoscenza, non è la
contraddittorietà dell’essere
in quanto essere. E altro è
considerare come errare il
contraddirsi del pensiero,
altro è affermare che sono le
cose stesse a essere in se
stessecontraddittorie.Altroè
considerare
la
pazzia
dell’uomo folle, altro è
affermare, come Leopardi
appunto giunge a fare, che la
pazziaènellecosestesse.La
negazione del «principio di
non contraddizione» alla
quale Leopardi perviene è
quindimassimamentediversa
anche dall’opposizione di
forze che agiscono nello
stessoente,comeperesempio
lo scontro tra due opposte
tendenze della volontà o
dell’istinto all’interno dello
stesso individuo, oppure
come l’opposizione di amore
e odio (eros, neíkos o
thánatos)
secondo
la
psicoanalisi di Freud, o
secondo la metafisica di
Empedocle, alla quale Freud
sirichiamaesplicitamente.
Per il Terzo Giocatore,
dissipare l’oscurità che nel
pensiero di Leopardi avvolge
la
«vetta
della
contemplazione» del divenire
– cioè la contraddizione
«spaventevole» – è la prima
mossa di questa sua partita.
Non è ancora la mossa
fondamentale. Tuttavia è
questa prima mossa che ora
vamessainluce.
Si tratta di comprendere,
insieme al Terzo Giocatore,
che quanto è autenticamente
spaventoso
per
la
sopravvivenza del Giocatore
Nero è che, se l’essere in
quanto tale, cioè ogni ente, è
contraddittorio,
allora
l’immane distruzione da lui
compiuta
dell’intera
tradizione occidentale resta
essa stessa distrutta. Il
Giocatore Nero distrugge se
stesso. (Ma ciò non significa
nemmeno che, per questo, il
Giocatore Bianco abbia
partita vinta. Il Terzo
Giocatore glielo impedisce.
Comevedremo.)
Nel capitolo 5 si è
mostrato perché il Giocatore
Nero è vincente rispetto a
quello Bianco. Egli mostra
che se esistesse un Dio
eterno, e dunque un
«Prototipo» delle cose del
mondo – delle cose, cioè, il
cui venire dal nulla e andare
nel nulla è assolutamente
evidenteeinnegabile–,allora
il nulla da cui esse
provengonoeincuiritornano
sarebbe trasformato in un
ente che partecipa della
positività del Prototipo. Il
nulladacuilecosevengonoe
in cui vanno diventerebbe
infatti un suddito del
Prototipo eterno: un suddito
che segue le Regole del
mondonellequaliilPrototipo
eterno fa sentire il proprio
dominio, e questo suddito le
segue sia prima di diventare
l’essere delle cose, sia dopo
aver finito di esserlo. Se
esiste l’Eterno, il nulla
dovrebbe esserne il suddito.
Maèimpossibile che il nulla
sia un suddito, che sottostia
alla Legge di tutte le cose
presenti,passate,future,nella
quale il Prototipo consiste. Il
nullanonsotto-stàperchénon
èuno«stare».Seesistesseun
Eterno, dunque, il nulla
sarebbeunente,ilnonessere
sarebbe essere. A questo
punto il Giocatore Bianco
soccombeperchésialuisiail
Giocatore
Nero
sono
assolutamente
convinti
dell’impossibilitàchel’essere
sia non essere: sono
assolutamente
convinti
dell’inviolabilitàdelprincipio
di
non
contraddizione.
Quando vince questa partita,
ilGiocatoreNerononèinfatti
ancora
pervenuto
all’affermazione
della
contraddittorietà di tutte le
cose.
Ma a un certo punto il
Giocatore Nero si convince
chelarealtàdelmondo,lacui
esistenza è assolutamente
evidente,
smentisce
il
«principio
di
non
contraddizione». Ritiene di
poter rilevare che è la realtà
stessaamostrarechel’essere
ènonessere,chelostessoèe
insiemenonè.Èquicheegli
distrugge la propria vittoria
sul Giocatore Bianco. Infatti,
come può il Giocatore Nero
ancora negare l’esistenza di
ogniEternoinbasealrilievo
che, se l’Eterno esistesse, il
non essere sarebbe identico
all’essere, e cioè che il
«principio
di
non
contraddizione
resterebbe
violato»? Negando questo
principio, egli nega il
fondamento della propria
vittoriasull’avversario.
È in questo modo (cioè
dicendoquelchediconoidue
capoversi precedenti) che il
Terzo Giocatore dissipa
l’oscurità che avvolge la
«vetta della contemplazione»
del Giocatore Nero e mostra
il tratto che propriamente
deve
farlo
arretrare
spaventato.
Il
Terzo
Giocatore
osserva inoltre che ogni
forma
di
pensiero
occidentale,
affermando
l’evidenza del divenire,
afferma necessariamente la
differenza tra il punto di
partenza e il punto di arrivo
del divenire stesso. Se si
pensa che la legna divenga
cenere,osesistacostruendo
una casa, si è convinti che la
legna, prima di bruciare, non
ècenere,echeimaterialicon
cuisicostruisceunacasanon
sono la casa ormai costruita.
Ma questa convinzione è un
modo di affermare il
«principio
di
non
contraddizione». Anche tutti
coloro che, lungo la storia
dell’Occidente, si pongono a
guardia del divenire delle
cose e ritengono che per
salvaguardarlo si debba
negaretaleprincipio,inrealtà
lo affermano. La loro
negazione di esso è soltanto
un’intenzione.
Eancora:ilmodoincuiil
Terzo Giocatore dissipa
l’oscurità che nel pensiero di
Leopardi avvolge la «vetta
della contemplazione» del
divenire–lavettaconsistente
nell’affermazione
della
contraddittorietà di tutte le
cose – è determinato dalla
circostanza che quel pensiero
è il Giocatore Nero.
Intendiamo dire che questo
dissipare non può ridursi
all’obiezione di carattere
formale che può esser rivolta
ancheatutticoloroche,senza
essere il Giocatore Nero,
affermanolacontraddittorietà
diognicosa:l’obiezionecioè
che, se ogni ente è
contraddittorio, allora anche
tale affermazione è un ente
contraddittorio, ossia è e non
èsiffattaaffermazione.
D’altra parte Leopardi
può replicare dicendo che
l’unico
ente
non
contraddittorio è appunto
questa affermazione e il
«sistema» da essa implicato.
In effetti, Leopardi continua
fino alla fine a sostenere la
verità e quindi la non
contraddittorietà del proprio
«sistema». Per esempio,
ancoranellugliodel1826,in
P 4185, mostra ciò che è in
grado di escludere un certo
tratto concettuale che «pare
affattocontraddittorionelmio
sistemasopralafelicità».
Ma
anche
questa
prospettiva,cheanticipacerte
configurazioni della logica
contemporanea,
sostiene
qualcosa di contraddittorio.
Infatti,selatotalitàdeglienti
si divide in una dimensione
contraddittoria e in una non
contraddittoria (la quale
affermalacontraddittorietàdi
quella prima dimensione),
allora la dimensione non
contraddittoria non potrà
avere alcuna relazione con
quella contraddittoria, perché
tale relazione si riferirebbe a
qualcosa che è e non è, e
quindi la relazione stessa
sarebbe e non sarebbe. Il
«sistema» di Leopardi non
può avere pertanto nemmeno
quella relazione con la
dimensione contraddittoria,
che consiste nel conoscerla,
perché
conoscerebbe
qualcosa che è e non è e
quinditale«sistema»sarebbe
unconoscereenonconoscere
quelqualcosa.
Tuttavia, come si è detto,
non è a questo tipo di
difficoltà che il Terzo
Giocatore
intende
primariamente
rivolgersi
quandosiriferisceaciòcheè
autenticamente spaventoso
per il Giocatore Nero, e del
quale
quest’ultimo
ha
mostratodinonaccorgersi.
D’altra parte l’analogia
tra il pensiero di Leopardi e
quellodiNietzsche,dicuisiè
parlato nella prima parte del
capitolo precedente, va
tuttaviaprecisata.
Il pensiero di Nietzsche
arriva
alla
dottrina
dell’eterno
ritorno.
Considerandoquestadottrina,
ilTerzoGiocatorerilevache,
identificando il divenire e la
totalitàdell’essere,ilpensiero
di Nietzsche mostra, senza
rendersene conto, che il
divenire implica quell’Eterno
che invece tale pensiero
intende
radicalmente
escludere,
e
intende
escluderlo proprio mediante
ladottrinadell’eternoritorno.
Il Terzo Giocatore porta alla
luce che il pensiero di
Nietzsche mostra, senza
rendersene
conto,
la
contraddittorietà,
cioè
l’impossibilità del divenire.
Infatti, da un lato, tale
pensiero mostra col rigore
massimo (quello che si può
esercitare sul fondamento
della convinzione che il
divenireèl’evidenzasuprema
e che le cose che esistono
sono
unicamente
cose
divenienti e «Dio è morto»)
che nessun Eterno esiste;
dall’altro lato tale pensiero
giungeadaffermarequelnon
diveniente che è l’Eterno
Ritorno, e daccapo vi giunge
inevitabilmente, cioè con
altrettanto rigore. Nietzsche
nonsenerendeconto,main
veritàciòdifronteacuiilsuo
pensiero arretra spaventato è
il
trapelare
della
contraddittorietàdeldivenire.
Anche Leopardi, e ben
primadiNietzsche,pensache
iltuttocoincidaconlatotalità
del divenire. «Tutto è nulla»,
cioè, perché tutto viene dal
nulla e vi ritorna. Ma a
differenza di Nietzsche egli
giunge
ad
affermare
esplicitamente che tutte le
cose sono contraddittorie. È
questo
il
significato
dell’affermazioneche«tuttoè
male» (P 4174). E a questa
densità di significato si
riferisce«ilmalchecifudato
insorte»,chelanobilenatura
hal’ardimentodiguardare.
NelpensierodiNietzsche
è
l’inevitabile
dottrina
dell’eternoritornoafarsìche
la distruzione di ogni eterno
abbia
a
implicare
inevitabilmente (anche se al
dilàdiciòdicuitalepensiero
riesce a essere consapevole)
la
contraddittorietà
del
concettodidivenire.Noncosì
nel pensiero di Leopardi,
dove l’esplicita affermazione
dellacontraddittorietàdiogni
cosavieneagiustapporsialla
distruzionedeglieterni,ecioè
dove questa distruzione non
richiede
necessariamente
quell’affermazione, ma anzi
puòreggersisolonellamisura
in cui la esclude. Fermo
restando che il «sistema» di
Leopardi ha la pretesa di
poter mostrare che quella
distruzione è inscindibile dal
rilevamento
della
contraddittorietà di tutte le
cose. E, sappiamo, questo
rilevamento è la convinzione
che tale contraddittorietà sia
«evidente»: «Nessuna cosa
credo sia più manifesta e
palpabile, che l’infelicità
necessaria di tutti i viventi»,
dice Eleandro; ma due anni
dopo, si è visto, P 4175
afferma che «infelice di
necessità» è ogni cosa. Quel
che Eleandro non dice e non
vuol dire in modo esplicito è
che l’«infelicità necessaria»
consiste nella necessità che
ogni cosa diveniente sia il
principio
della
propria
distruzione, ossia è la
negazione del «principio»
fondamentaledellaragione,il
«principio
di
non
contraddizione». La stessa
reticenza è riscontrabile
anche nelle altre opere
pubblicate.
Il passo avanti di
Nietzsche rispetto a Leopardi
è dunque dato dalla dottrina
dell’eternoritorno.Maquesta
dottrina, si è detto, porta al
dissolversi del concetto di
divenire.Finoaquestopunto
il Terzo Giocatore lascia che
siano gli stessi abitatori della
fede
nell’esistenza
del
divenire
a
mostrare,
consapevolmente o no, la
contraddittorietà dello stesso
divenire. Porta soltanto alla
luceciòcheessinonpossono
riconoscere.
19
IlterzoGiocatore,il
destino,ilnonapparire
deldiventaraltro
SièdettonelleIstruzioniper
la lettura che il Terzo
Giocatore, a differenza degli
altri due che giocano sulla
stessascacchiera,vedechela
scacchiera
è
l’Errare.
L’Errare
estremo.
Essenzialmente più profondo
di ogni «peccato originale».
Lascacchieranonsiappoggia
ad alcunché ed è l’Errare
estremo; e nondimeno è il
sostegnosucuisiappoggiae
di cui si alimenta tutto
l’errare e la violenza della
civiltà occidentale e ormai di
tuttalaTerra.
Ma il Terzo Giocatore
può vedere l’Errare solo in
quantovedelaVerità.Nonla
«Verità»
affermata
dal
GiocatoreBiancoenegatada
quello Nero, ma il senso
inaudito
della
Verità.
Propriamente,
il
Terzo
Giocatore è il testimone del
vedersi della Verità. Egli, si
diceva in quelle Istruzioni, è
il dito che indica l’Immenso,
il linguaggio che tenta di
esprimerlo. Tale linguaggio,
aggiungevamo, tenta di
indicare ciò che non è un
tentativo,mastaaldisopradi
ogni tentativo di stare.
Appunto per questo lo
chiamiamo «de-stino della
Verità»(intendendodunqueil
«de» del prefisso come
indicante non un moto da
luogo,
ma
una
intensificazione,
come
accade, per esempio, in «deamare»e«de-vincere»).
Il destino è l’innegabile,
l’assolutamente innegabile.
Non può essere smentito né
da uomini né da dèi. Nessun
Onnipotente può piegarlo. È
infattiaffermato(losimostra
neimieiscritti)anchedatutte
le forze e sapienze che
intendono negarlo e piegarlo.
Giacché è esso a sorreggerle,
a esserne il fondamento. Il
destinoèlaverità.
Da più di due secoli,
certo,
l’Occidente
è
negazione di ogni verità
definitivaediogniEterno.È
negazione
a
partire
innanzitutto dal proprio
sottosuolo filosofico, abitato
dalle poche incarnazioni del
GiocatoreNero.Diessesista
considerando, in queste
pagine, Leopardi. Il Terzo
Giocatore può indicare il
destino della verità perché il
destino – come stiamo per
mettere in luce – mostra la
nonveritàdellabaseapartire
dalla quale l’Occidente
giungeallanegazionediogni
verità definitiva e di ogni
Eterno; ossia mostra la non
verità della fede che
l’esistenza del divenire sia
l’evidenza assolutamente non
smentibile.
Stiamo parlando cioè del
rovesciamento più profondo
rispetto
al
centro
dell’Occidente–anzi,rispetto
alcentrodiciòincuil’uomo
crededacheegliapparesulla
Terra – il centro costituito
appunto
dalla
fede
nell’evidenza del diventar
altro.
Non si dovrà dire, allora,
che l’uomo è lo scontro tra
questasuafede,dovelaTerra
si mostra nel suo essere
isolata dal destino, e
l’appariredeldestino?
Qui si aggiunga soltanto
questa definizione formale: il
destinoèl’appariredell’esser
sé e non altro da sé degli
essenti in quanto tali,
l’apparire che è il Luogo la
cui
negazione
è
autonegazione e dove l’esser
sé appare nel suo esser
necessariamente implicante
l’eternità di ogni essente,
ossia dell’essente in quanto
tale, l’eternità dunque che
non spetta soltanto a un
Eternoprivilegiatoedivino,il
quale sia convinto della
nullità originaria di tutto il
resto anche quando egli si
propone di trarre fuori dal
nullaqualcosadiesso.
L’eternitàdiogniessente!
Di ogni cosa, relazione, stato
del mondo e dell’anima, di
ogni attimo, del contenuto di
ogniistante,delpiacereedel
dolore,
e
del
loro
superamento. L’eternità che i
mortali credono impossibile
perché credono evidente che
le cose del mondo o tutte le
cose siano prede o figlie del
nulla.
La cultura non solo
filosofico-scientifica
dell’Occidentecontrapponele
cose che si possono
«osservare, «sperimentare»,
«constatare», «percepire in
carne e ossa» – le cose che
sono«fenomenologicamente»
affermabili:
le
cose
«palpabili», dice Leopardi –
alle cose che invece si
mostrano all’interno del
fantasticare,dell’immaginare,
del supporre, del presagire,
del
pensiero
separato
dall’esperienza. Per esempio,
che ora sia giorno o che
questi libri abbiano colori
diversi sono cose del primo
tipo; che tra gli dèi
dell’Olimpo vi sia Apollo,
invece, del secondo. (Fermo
restando che anche le nostre
fantasie sono osservabili, ma
non lo sono le cose che nel
fantasticare a volte si crede
che esistano nello stesso
modo in cui esistono questa
giornata o questi libri, o che
comunque a volte non si
crede nel loro carattere
fantastico.)
Se lungo la storia
dell’Occidente
possono
essere insorti dubbi intorno
all’esistenza di cose ritenute
in
un
primo
tempo
osservabili, tuttavia nessun
dubbioèmaisortointornoal
divenire (diventar altro) delle
cose. Il divenire – abbiamo
continuato a ripetere – è
l’evidenza
assolutamente
innegabile. L’eleatismo ha
certamente
affermato
l’illusorietà del divenire, ma
ha creduto che, all’interno
dell’illusione che avvolge i
mortali,
ciò
che
è
supremamente osservabile ed
evidenteèchelecoseescono
dal nulla e vi ritornano. Ma
anche
nella
preistoria
dell’Occidentesicredecheil
diventaraltrodellecosesiala
suprema
evidenza.
Ne
parlano le teogonie, le
cosmogonie, le metamorfosi.
Il peccato di Adamo è un
voler diventar altro. Ogni
preistoria
è
preistoria
dell’Occidente.Inessanonsi
pensaancorailsensoradicale
dell’«essere»edel«nulla»(il
senso che viene portato alla
lucedall’Occidente),equindi
ildiventaraltroedaaltronon
èancoraildiventarnullaeda
nulla, e tuttavia il diventar
altroedaaltro,dapartedelle
cose, è la cova in cui matura
il
senso
radicale
(«ontologico»)cheilpensiero
dell’Occidente
conferisce
all’altro da cui le cose
provengonoeincuivanno.
Seguiremooraquestafase
della partita tra il Terzo
Giocatoreegliabitatoridella
fede nel diventar altro e da
altro,dapartedellecose.Alla
loro testa stanno ormai gli
abitatori dell’Occidente. E il
Giocatore Bianco, prima, e
poi il Giocatore Nero – che
ora considereremo come
espressione di tutte le sue
incarnazioni – guidano gli
abitatori
dell’Occidente.
Indicheremo
con
l’espressione Giocatori del
diventar altro l’immensa
falange degli abitatori della
fede nel diventar altro e da
altro, in quanto guidata dal
Giocatore Bianco e dal
Giocatore Nero (in quanto
guidati
dall’anima
dell’Occidente).
Terzo
Giocatore
–
(rivolgendosiaiGiocatoridel
diventar altro) – Voi siete
giunti ad affermare che le
cose(alcuneotutte)vengono
dalnullaealnullaritornano;
echequestolorodivenireèla
supremaevidenza.
Giocatori del diventar
altro – C’è bisogno di
ripeterlo? Comunque sarebbe
preferibile dire che si
trasformano,perchélacenere,
peresempio,nonhaprimadi
sé il nulla, ma la legna che
verràbruciata(etuttociòche
esiste prima della cenere); e
la legna, a sua volta, non ha
dopo di sé il nulla, ma la
cenere (e il calore, e tutte
quelle altre forme di energia
che si producono con la
combustione della legna e
quelle che continuano a
esistere). La scienza dice che
la quantità di energia
dell’universorimanecostante,
maassumeformediverse.
Terzo Giocatore – Sì. E
l’esempio della legna che
diventa cenere è ottimo per
indicare la morte di tutte le
cose.Maprimachelacenere
venisseaprodursi,cheneera
di essa? Esisteva già? E
quando la legna sarà
diventata cenere, che ne è di
essa?Esisteancora?
Giocatori del diventar
altro – Ovviamente no. Non
venirci a chiedere quello che
insegniamodaduemillennie
mezzo.
Terzo
Giocatore
–
Dunque, dire che la cenere
non esiste già prima di
prodursi e che la legna non
esiste più quando è diventata
cenere, significa dire che,
prima di prodursi, la cenere,
in quanto cenere, è ancora
nulla, e che, dopo esser
diventata cenere, la legna, in
quanto legna, è ormai nulla.
(Dico «la cenere in quanto
cenere»e«lalegnainquanto
legna», perché invece – se
vogliamo tener conto della
legge di conservazione
dell’energia –, in quanto la
legna e la cenere sono una
certaquantitàdienergia,esse
non diventano nulla e non
esconodalnulla).
Maorachiedo:quandola
legna (in quanto legna) è
diventata nulla, continua
forse a essere osservabile,
sperimentabile, constatabile?
Continua forse, cioè, ad
apparire così come appariva
prima di diventar cenere?
Della legna ci si ricorda,
certo,quandoessaèdiventata
cenere; ma nel ricordo essa
appare forse così come
appariva prima di bruciare e
morire?
Giocatori del diventar
altro–Certamenteno!
TerzoGiocatore–Eforse
dobbiamo dire che, prima, la
legnadiventanullaepoinon
appare più come appariva
prima; o che prima non
appare più come appariva
prima e poi diventa nulla? In
modo che, daccapo, ci
sarebbe un tempo in cui è
diventata nulla, ma appare
ancora con tutti i tratti che
essa mostrava prima di
annullarsi; o un tempo in cui
essa non appare più come
appariva prima, ma non è
ancoradiventatanulla?
Giocatori del diventar
altro – Se vuoi dire che
l’annullarsi della legna è
insiemeilsuononapparirpiù
come appariva prima di
annullarsi, e viceversa, allora
ti rispondiamo di sì, che cioè
è necessario sostenere questa
simultaneità, e che è
necessario
rispondere
negativamente a queste tue
ultimedomande.
Terzo Giocatore – Certo,
se si crede che le cose si
annullinoènecessariocredere
che, nella misura in cui esse
si annullano, esse non siano
più
osservabili,
sperimentabili, constatabili
cosìcomeloeranoprima.
Se si crede che le cose si
annullino, è necessario
credere che, nella misura in
cui si annullano, esse escano
dall’esperienza, cioè escano
dalla totalità di ciò che è
sperimentato. Sperimentare è
sperimentare un ente: è
impossibile sperimentare ciò
cheormaièniente.
Giocatori del diventar
altro – Vediamo dove vuoi
arrivare.
TerzoGiocatore–Voglio
innanzitutto ricordare quel
che voi sostenete: che
l’andare nel nulla e l’uscirne
è l’evidenza suprema, il
supremamente osservabile,
constatabile, sperimentabile,
palpabile. E che sul
fondamento
di
questa
convinzione cresce l’intera
storiadell’Occidente.
Ora, poiché abbiamo
convenuto che il nulla che la
legna diventa non è
sperimentabile, ne segue che
nonpuòesseresperimentabile
nemmeno
l’annullamento
della legna e di tutte le cose
che si annullano e, ognuna a
suomodo,diventanocenere.
Inaltritermini,quandola
legna
brucia
appare
indubbiamenteunvariare,ma
se non appare che il variare
conduce al nulla delle cose
che vanno variando, allora
non si può nemmeno
affermare che il loro variare
siailloroannullamento.
Vedochenonrispondete.
Continuerò
allora,
concludendocosì.
Poiché ciò che si annulla
esce dall’esperienza nella
misura in cui si annulla, è
impossibile che l’esperienza
attesti che ne sia di ciò che
secondo voi è andato nel
nulla. L’esperienza tace della
sorte di ciò che è uscito da
essa, così come la volta del
cielo tace della sorte del sole
dopoiltramonto.
Solo in un secondo
momentol’uomodelleorigini
parla del suo «tramonto» nel
nostro senso. Dapprima egli
assiste a quella che per lui è
la morte del sole. Quando il
soleseneva,ilmondointero
sparisce. La notte è il
cadavere del giorno, cioè
dellavita.Benpiùspaventoso
dei cadaveri in cui ci si
imbattedigiorno.Quandopoi
imortalisiabituanoalritorno
del sole, all’alba, allora essi
chiamano «tramonto» quella
morte.
Mainveceditantecose,e
tra esse molte gli stanno a
cuore,
sperimenta
che,
quando non si mostrano più
con i tratti che prima
mostravano, non ritornano
più, non hanno più le loro
albe.
Chiama
allora
«cadavere» il corpo più o
meno amato. Una parola,
questa, connessa alla parola
«cadere»:ilcaderedichinon
sirialza«maipiù».
E quanto ho detto del
presunto annullamento delle
cose (ossia del tramonto del
sole) va ripetuto del loro
presunto uscire dal nulla.
Come la volta del cielo non
può che tacere intorno alla
sorte del sole dopo il
tramonto, così essa non può
dire alcunché di quel che ne
siadelsoleprimacheessosi
faccia vedere alle prime luci
dell’alba. Accade pertanto
chedellecosechenasconosi
giungaadirechesonouscite
dalnullaperchéprimanonsi
eranomaiviste:quasichechi
le vede nascere abbia la
capacità di sperimentare gli
infiniti tempi passati (e
comunque la totalità del
passato), scorgendo che in
essi ciò che è «nato» proprio
non c’era, non è mai stato,
ossiaeranulla.
Con le considerazioni svolte,
il Terzo Giocatore sta
indicando un Luogo mai
esplorato dai mortali. Essi
sono convinti che, sia nella
sua forma preontologica sia
in quella ontologica, il
diventar altro sia evidente,
sommamente sperimentabile.
MailTerzoGiocatoremostra
che
questa
millenaria
convinzione implica essa
stessalanegazionediciòche
sostiene,cioèriconoscecheil
diventaraltroedaaltrononè
evidenza, non appartiene
all’esperienza. Ciò significa
che il diventar altro è il
contenuto di una teoria
costruita sulla base della
delusione provocata dal
mancato ritorno di ciò che
non appare più. (Ma quale
uomo
ha
sperimentato
l’infinità dei tempi futuri, e
comunque la totalità del
futuro,cosìdapotersostenere
che quanto è tramontato non
ritorneràmaipiù?)
Una teoria non afferma
qualcosa che si mostra
nell’esperienza, ma interpreta
l’esperienza.Affermarecheil
diventar altro e da altro e il
diventar nulla e da nulla è il
sommamente sperimentabile
significa dunque negare
sommamente
quell’esperienza che si vuole
salvaguardare;
significa
affermare l’apparire di ciò
che non appare e il non
apparire di ciò che appare.
Come se di giorno si
affermasse che è notte e di
notte che è giorno. (Leopardi
giunge sì ad affermare che
tutte
le
cose
sono
contraddittorie, ma non può
ammetterecheciòcheappare
ed è evidente – e per lui ciò
che appare ed è evidente è
l’infelicità e contraddittorietà
di tutte le cose – non appaia.
Eppure, pur non potendo
rendersene conto, è costretto
adammetterlo.)
Certo, appare il variare
dello spettacolo in cui
l’esperienzaconsiste;manon
appare l’annullamento, e il
venire dal nulla, da parte di
ciòchevaviaviaoccupando
la
scena
dell’apparire.
Appare, come prima fase
della variazione, la legna nel
camino prima di essere
bruciata, poi appare il suo
primo fiammeggiare, e poi le
diverse fasi di esso, il suo
ridursi, il suo spegnersi
lasciando che sia soltanto la
cenere a occupare la scena.
Ma, ripetiamo: poiché non
puòapparirechetalifasi,non
apparendo
più
come
apparivano
quando
occupavano la scena, siano
diventate nulla, ne consegue
che non può nemmeno
apparireilloroannullamento,
ossial’annullamentodiquesti
stati dell’essere, di questi
essenti; e nemmeno può
apparire il loro uscire dal
nulla.
20
Ilnullaeildestino
Si è detto che nel destino
della verità appare che ogni
essente è se stesso – così
continuailTerzoGiocatore–
e non è altro da sé. A
differenza del «principio di
non contraddizione», questo
essere sé non solo non è un
dogma, ma non è nemmeno
un principio che (come
appuntoaccadenel«principio
di non contraddizione»)
regola un essere sé di enti di
cui si crede che appaia ciò
chenonpuòapparire,ossiail
loro uscire dal nulla e
ritornarvi. Non è un dogma
perché
appare
unito
all’autonegazione della sua
negazione (si veda in
proposito
La
struttura
originaria, Tautotes, Essenza
delnichilismo).
Qui ci si deve limitare a
una metafora, dicendo che
l’essere sé che appare nel
destinodellaveritàècomeun
bersaglio che non può essere
colpito perché ogni freccia
scagliata contro di esso
colpisce se stessa, senza
quindi riuscire a colpire il
bersaglio.
(Agli
scritti
richiamati e agli altri a essi
connessi si rinvia per
comprendereperchésialecito
esprimere
con
questa
metafora l’essere sé che
appare nel destino, e per
comprendere
il
senso
concretodiquantosegue.)
Ma
l’esser-sé-e-non-
altro-da-sé degli essenti che
appaiono nel destino implica
con necessità l’eternità di
ogni
essente.
(Questo
implicare con necessità
significa che la negazione
dell’eternità di tutto è
negazionedell’esseresédegli
essenti che appare nel
destino,nelbersagliochenon
puòessercolpito.)Conqueste
parole si sta indicando il
cuoredeldestino.
E il cuore, mostrandosi,
mostra un senso inaudito
dell’uomo, il suo senso
autentico. L’uomo è l’eterno
apparire del destino della
verità: l’eterno apparire
dell’eternitàdiogniessente.
Sia pure per cenni,
indichiamo perché tutto
questovieneaffermato.
Imortalicredonochelecose
escano dal nulla e vi
ritornino. Sono guidati dal
GiocatoreBiancoedalNero.
Ma se un essente va nel
nulla, il risultato del suo
annullamento
non
è
semplicemente il nulla, il
puronulla.
Infatti il nulla, cometale,
pensato
cioè
indipendentemente
dall’essente che si annulla,
nonèilnullaincuil’essente
è giunto. Pensare il nulla in
quanto nulla non è pensare il
nullainquantoèciòincuiil
qualsiasiessentesièperduto.
Pensareilnullanonèpensare
Silviacheèdiventatanulla.
È dunque necessario
affermare che un qualsiasi
essente,annullandosi,diventa
ilnulla-di-questo-essente.
E il nulla da cui un
qualsiasi essente proviene
non è, daccapo, il puro nulla
–
pensato
cioè
indipendentemente
dall’essente che da esso
proviene –, ma è il nulla-diquesto-essente.
La fede che un essente
qualsiasi vada nel nulla e ne
provenga è dunque la fede
cheesistauntempo(ilfuturo
e il passato di quell’essente)
in cui tale essente è nulla.
L’espressione
nulla-diquesto-essente
significa
infatti che questo essente è
nulla. Questa fede identifica
l’essenteeilnulla.
Il Giocatore Nero giunge
a sostenere che l’identità
dell’essere (ente, essente) e
del niente è evidente,
«palpabile»,
perché
è
evidente l’uscire dal nulla e
l’andare nel nulla. Ma il
Terzo Giocatore ha mostrato
che questa «evidenza» è una
«teoria»incuivienenegatoil
contenutocheautenticamente
appare.Ora,illinguaggioche
testimoniaildestino(ilTerzo
Giocatore) mostra che questa
teoria non è soltanto
un’interpretazione che in
futuro potrebbe risultare
fondata, ma è la negazione
dell’innegabile essere sé che
appare nel destino della
verità: è la pretesa di colpire
ilbersaglioinviolabile.
Questa
«teoria»
è
l’essenza del nichilismo. Il
Giocatore Nero incomincia a
conferireataleessenzalasua
formapiùrigorosa.
Esplicitamente,
il
nichilismoaffermal’evidenza
dello sporgere provvisorio
delle cose dal nulla, il loro
esserne preda e l’essenziale
infelicità dell’uomo, ma
esclude perentoriamente che
il nulla da cui le cose
provengonoeincuivannosia
identico all’essere che loro
compete durante il tempo in
cui riescono a sporgere dal
nulla.
L’affermazione
dell’evidenza del diventar
altro esclude che l’ente sia
niente.
Esclude
la
contraddittorietà dell’ente. È
per questa esclusione che va
adeguatamente inteso (cfr.
cap.21) il discorso col quale
il Giocatore Nero afferma la
contraddittorietà di ogni cosa
e la presenza del nulla
nell’esserestesso.
Ma va anche rilevato che
seilnichilismo,affermandoil
diventar dell’essere, ha
l’intenzione
di
non
identificarel’essereeilnulla,
tuttavia la fede che l’essere
diviene
implica
necessariamente – come si è
mostrato
–
l’identità
dell’essere (ossia delle cose,
deglienti)edelnulla.
È abissalmente difficile
smascherare l’essenza del
nichilismo,proprioperché,da
millenni, essa sta sotto gli
occhi,sottosemprepiùocchi,
vicinissima, ossia perché è
ciòchel’Occidenteconsidera
come
l’assoluta
e
assolutamente
innegabile
evidenza:ilritornarenelnulla
dacuisiproviene.
Nella sua concretezza,
l’esser sé che appare nel
destino della verità è invece
l’impossibilità che gli essenti
escano dal nulla e vi
ritornino.
Questa
impossibilità è il senso
autenticodell’eternitàdiogni
essente.
IlGiocatoreNeroafferma
che la contraddittorietà di
tutte le cose e quindi
l’identità di essere e non
essere sono evidentemente
sperimentabiliechequindiil
«principio
di
non
contraddizione» è falso. Il
Terzo Giocatore mostra che
l’esser sé che appare nel
destino,
e
pertanto
l’opposizione di essere e
nulla, è l’autenticamente
innegabileecheèimpossibile
che l’identità di essere e non
essere sia qualcosa di
evidentemente
sperimentabile, qualcosa che
appare.
Ripercorriamo il nostro
cammino
prolungandolo
anche,conalcunicenni,oltre
iltrattocostituitodallapartita
colGiocatoreNero.
La filosofia nasce come
volontà di indicare la
conoscenza che non possa
essere in alcun modo
smentita:
la
verità
incontrovertibile, definitiva.
Dopo due millenni e mezzo
sembra che la filosofia abbia
rinunciato a questo compito,
adottando sempre più i
metodi ipotetico-sperimentali
della conoscenza scientifica.
Se però si è capaci di
giungere al nucleo essenziale
comune a ogni filosofia del
nostrotempo,sipuòscorgere
chelafilosofianonripropone,
dopo un lungo giro, lo
scetticismo ingenuo. Sin
dall’inizio la filosofia pensa
che il divenire, cioè la
temporalità e caducità delle
cose del mondo, sia
l’evidenzaeveritàimmediata,
indubitabile.Sulla base della
fede in questa evidenza, dai
GreciaHegel,lametafisica–
il Giocatore Bianco – ritiene
di poter affermare l’esistenza
di un Ente (o Ordinamento)
perfetto, immutabile, eterno,
e pertanto l’esistenza di una
verità immutabile ulteriore
alla verità del divenire. Nel
suo nucleo essenziale la
filosofiadelnostrotempo–il
Giocatore Nero (cioè le sue
rare incarnazioni) – mostra
che se quell’Ente perfetto e
questa
ulteriore
verità
esistessero non potrebbe
esistereildiveniredellecose,
che tuttavia, e anche per la
metafisica del Giocatore
Bianco,
è
l’evidenza
immediata e indiscutibile.
Infatti, nel divenire, ciò che
ancora non è (ossia è ancora
nulla) incomincia a essere, e
quando non è più diventa
nulla;pertantounEnteouna
verità immutabile sarebbero
la Legge di ogni futuro e
passato,
la
quale
anticiperebbe
(e
conserverebbe)insétuttociò
che diviene e che dunque, in
quanto
anticipato
(e
conservato), non potrebbe
essere un nulla. Sulla base
dellafedeneldivenirequesto
risultato è inevitabile. (Lo
mostro concretamente in più
modi, a partire dal 1978, in
alcune mie pubblicazioni
comeGliabitatorideltempo,
Il nulla e la poesia, Cosa
arcana e stupenda, L’anello
del
ritorno
e
nell’«Introduzione»
a
L’attualismo.)
Si è mostrato che,
tuttavia, il Terzo Giocatore
indica la dimensione che sta
essenzialmente al di là della
vicenda che conduce a
quell’inevitabile risultato. In
tale dimensione – nel
«destino della verità» – non
solo
appare
che
la
convinzione che il diventar
altrosial’evidenzaimmediata
e indubitabile; è, appunto,
soltanto una fede, ma appare
anchechecrederechelecose
divengano altro da ciò che
esse sono, e divengano da
altro, è credere nella
contraddizione più profonda:
nella più profonda Follia;
quella che d’altra parte
dominalastoriadell’uomo.
Il pensiero filosoficoontologico
dell’Occidente
costituisce la forma più
rigorosa
di
questa
contraddizione, perché, in
esso, l’altro (da cui le cose
provengono e in cui vanno)
viene
inteso
come
quell’assolutamente altro che
è il non-essere (il nulla) di
ciò che diventa altro e da
altro. Nel destino della verità
appare pertanto la radicale
inconsistenza della fede sulla
cui base è inevitabile che la
filosofia del nostro tempo
giunga a negare ogni verità
incontrovertibile e ogni Ente
eterno.
Si può così comprendere
perché il Terzo Giocatore,
indicando il destino, possa
riferirsi nuovamente alla
verità
assolutamente
incontrovertibile e chiamarla
«destino». Il suo contenuto è
radicalmente diverso da tutto
ciò che lungo la storia
dell’uomoèstatointesocome
«verità». Infatti, poiché
crederechel’essente(ciòche
è) sia stato nulla e torni a
esserlo è credere nella
contraddizione più profonda,
è allora necessario che ogni
essente sia eterno: ogni
essente, e non soltanto un
Ente privilegiato rispetto a
tuttociòche,diversodalui,è
abbandonatoalnulla.
La struttura originaria del
destino
è
l’apparire
dell’esser-sé-e-non-altro-dasé, da parte dell’essente in
quanto essente, cioè di ogni
essente (pertanto anche da
parte di quell’essente che è
l’apparire degli essenti), a
qualsiasi «mondo» esso
appartenga. Le tesi che
sostengono la «relatività
ontologica» (alla Quine) o
sono forme di scetticismo
ingenuo (che pretende di
salvare se stesso dalla
«relatività»),osonoontologie
assolute che presumono di
poter indicare il carattere
relativo di ogni ontologia.
Ma, si è mostrato, l’esser-sée-non-altro-da-sé che appare
nella struttura originaria del
destino è anche radicalmente
diverso dal «principio di
identità»
e
di
«non
contraddizione» che si sono
presentatilungolastoriadella
filosofia e delle scienze
naturali
e
logicomatematiche, e quasi sempre
presenti con la pretesa di
avere valore assoluto. Quei
«princìpi» affermano infatti
che,soloquandoèesintanto
cheè,unente(inquantotale)
èsestessoenonèaltrodasé;
giacché quando esso non è,
ossia quando è nulla, un ente
non è nemmeno se stesso e
non-altrodasé.
Nella struttura originaria
appare invece che credere
nell’esistenza di un tempo in
cuiun(qualsiasi)essentenon
èancoraenonèpiùsignifica
credere nell’esistenza di un
tempo in cui un essente,
diventato nulla, è nulla.
(L’affermazione «la giornata
di ieri è diventata nulla»
differisce
infatti
dall’affermazione: «il nulla è
diventato nulla»; entrambe
queste affermazioni sono
contraddizioni,
ma
contraddizioni diverse perché
la giornata di ieri non è un
nulla.I«principidiidentitàe
di non contraddizione»
apparsi lungo la storia della
cultura occidentale sono
pertanto
affermazioni
contraddittorie). Il senso
autentico del nichilismo
(essenzialmente più radicale
del modo in cui Nietzsche e
Heidegger intendono il
nichilismo) è la fede che gli
essenti divengano altro
sporgendo provvisoriamente
dalnulla.
L’impossibilità che un
essente sia nulla implica con
necessità l’eternità di ogni
essente.Maimplicaancheun
senso essenzialmente nuovo
del tempo e pertanto del
variare del mondo. La
convinzione che il passaggio
dal non essere all’essere e
viceversa
sia
evidenza
immediataeindubitabile–un
contenuto di esperienza, o
«fenomenologico»
–
è
soltantounafede(perchésesi
crede che cose e eventi
divengano nulla, si crede
anchecheessinoncontinuino
ad apparire nell’esperienza
così come apparivano prima
didiventarnulla,echequindi
essi escano dall’esperienza
nella misura in cui si
annientano).
L’esperienza
nonpuòessereilfondamento
in base al quale si afferma
che essi sono diventati nulla.
Tale affermazione, quindi,
non solo è soltanto una fede,
ma è a sua volta una fede
contraddittoria. L’«uomo» a
cui si riferiscono le diverse
forme storiche di civiltà è
questa fede, che dapprima si
presenta
nella
sua
configurazione preontologica
epoiinquellaontologicadel
pensiero filosofico, e quindi
dell’intera civiltà occidentale
eormaidelPianeta.
Ora si aggiunga che –
poiché ogni essente è eterno
ed è impossibile che l’uscire
dal nulla e l’annientamento
degli
essenti
appaia
nell’esperienza – il variare
dell’esperienza non può
essere che il comparire e lo
scompariredeglieterni,ossia
è il loro entrare e uscire dal
cerchio
(eterno)
dell’apparire.
Questo cerchio non è nel
tempo,maincludeiltempo,è
l’apparire di tutto ciò che
diciamo
«passato»,
«presente»,«futuro».Sièper
lo più convinti che la
coscienza umana compaia
solo a un certo punto
dell’evoluzione e che si
spengamoltoprimadellafine
dell’universo; ma questa
convinzione può sussistere
solo in quanto essa si fonda
sull’appariredellatotalitàdei
tempi all’interno della quale
si intende collocare la
coscienza umana. E tale
apparire non solo include il
tempo,maanchetuttelecose
ritenute esistenti al di là
dell’apparire, giacché di esse
di può affermare che stanno
al di là dell’apparire solo se
inqualchemodoappaiono.
Taleapparireèappuntoil
cerchio in cui entrano ed
escono gli eterni, variando il
suo contenuto. La variazione
non è il diventar altro degli
essenti. L’apparire in cui
consistequestocerchioeterno
è l’apparire stesso della
struttura
originaria
del
destino. Essa è appunto
l’apparire dell’essere sé di
ogniessenteepertantoanche
e innanzitutto degli essenti
che appaiono, e che
compaiono e scompaiono. In
questo cerchio consiste
l’essenza
più
profonda
dell’uomo
–
peraltro
contrastata ed emarginata
dalla fede che cose ed eventi
siano un diventar altro (e un
diventarnullaedanulla).
Sièdettoa)chel’essente
nonèl’altrodasé(nonesiste
identitàtraessoeilsuoaltro
– quindi non può diventare
altro),eb)checiòcheappare
esiste. Ma nella struttura
originaria del destino questi
duetrattinonsonoundogma,
perché appaiono nel loro
esser ciò la cui negazione
negasestessa.
Infatti l’identità di questa
lampada e di questo libro è
negazione della struttura
originaria del destino solo se
la loro differenza appare.
Pertanto la negazione della
loro differenza si fonda
sull’apparire della loro
differenza: tale negazione
nega
se
stessa.
Analogamente, la negazione
dell’esistenza di questa
lampada è negazione della
strutturaoriginariadeldestino
solo se in tale negazione
questalampadaappare:anche
qui tale negazione si fonda
sull’apparire dell’esistenza di
questa lampada, e pertanto
nega se stessa. (Questo
discorso, d’altra parte, non è
una «fondazione» di a) e b):
come il Terzo Giocatore
mostra nei suoi scritti, che la
negazione di a) e b) sia
autonegazione
è
una
individuazione, o un insieme
di individuazioni di a), ossia
èunmodospecificoincuisi
presenta il non esser altro da
sé – sicché quest’ultimo è
incontrovertibile solo in
quanto appare nel suo
includeretalemodo).
Nel
cerchio
eterno
dell’apparire
entra,
in
posizione dominante, la fede
chelecosedivenganoaltro–
echela«natura»el’«uomo»
abbiano una storia. Il Terzo
Giocatore chiama «Terra»
l’insieme
degli
essenti
(natura, uomini, dèi) che
sopraggiungono in quel
cerchio. La forma originaria
della fede è innanzitutto la
persuasione che la storia del
diventar altro sia la regione
con
cui
l’uomo
ha
sicuramente a che fare: la
persuasione che isola la
Terradallaveritàdeldestino.
La Terra isolata contrasta
pertanto il destino e lo
emargina:nonpuòriusciread
annientarlo,maattirasudisé
il linguaggio, lo vuole tutto
per sé e non gli lascia
testimoniare la verità del
destino. I «mortali» sono gli
abitatoridellaTerraisolata.
Molto in margine. Quanto è
stato accennato intorno alla
strutturaoriginariadeldestino
è altrove determinatamente
considerato
dal
Terzo
Giocatore. (Si veda in
particolare La struttura
originaria, Studi di filosofia
della prassi, Essenza del
nichilismo,TautoteseIntorno
al senso del nulla.) Vi sono
poileulteriorideterminazioni
deldestinochevannooltreil
trattodistradaincuiilTerzo
Giocatore gioca e chiude la
partitaincuimostralaFollia
delle grandi mosse del
Giocatore Nero e quindi
anche del Giocatore Bianco.
Determinazioni
che
conducono molto lontano.
Quanto segue è «molto in
margine» non perché abbia
un’importanza minore, ma
solo
perché
tali
determinazioni vanno molto
oltre il tratto di strada che
costituisce il tema di questo
saggio. Se ne può quindi
omettere la lettura qualora
non si voglia uscire da quel
tema.
Una
di
tali
determinazioni, per esempio,
è il senso autentico della
volontà:poichéogniessenteè
eterno,impossibileènonsolo
il diventar altro, ma anche la
volontà quale è intesa
all’interno della Terra isolata
daldestino–intesacioècome
forza capace di far diventar
altro le cose. La volontà è
impossibile perché vuole
l’impossibile.Ciòcheaccade
(appare), quando la volontà
crede di ottenere ciò che ha
voluto,
è
quindi
necessariamente altro da ciò
cheessacredediottenere.
Altro esempio: poiché
ogni essente è eterno, esiste
una relazione necessaria tra
un essente qualsiasi e ogni
altroessente;maselavolontà
avesse potuto prendere
decisioni diverse da quelle
che essa ha di fatto prese (se
cioè esistesse il cosiddetto
«libero
arbitrio),
non
potrebbeesserciunarelazione
necessaria tra quell’essente
cheèladecisionepresaetutti
glialtriessenti).Tuttociòche
accade è cioè necessario che
accada (si veda in proposito
Destinodellanecessità).
E, terzo esempio, il
contrasto tra destino e Terra
isolata è destinato a essere
oltrepassato.
È
infatti
necessario che nessuno degli
essentichesopraggiungono–
e l’isolamento della Terra è
un essente siffatto – arresti
definitivamente
il
sopraggiungere. (Che il
contenuto
di
questa
affermazione sia necessario
significachelasuanegazione
implica necessariamente la
negazione della struttura
originaria del destino. Quel
contrasto è oltrepassato,
perché
altri
essenti
sopraggiungono nel cerchio
dell’apparire del destino; ma
insieme è conservato, perché
ogni essente, quindi anche il
suo apparire, è eterno).
Nessuno degli essenti che
sopraggiungonopuòarrestare
definitivamente
il
sopraggiungere,
diciamo,
perché
l’apparire
della
strutturaoriginariadeldestino
e di tutte le determinazioni
che
essa
implica
necessariamente è la verità
dell’essente
in
quanto
essente, e pertanto tale
apparire è il «predicato»
necessario di ogni essente,
ossia è ciò senza di cui
nessun
essente
(quindi
nemmeno la Terra) potrebbe
apparire nel cerchio della
struttura originaria (tale
apparire è lo sfondo eterno
che accoglie la Terra); ma se
un essente, sopraggiungendo,
arrestasse definitivamente il
sopraggiungere della Terra,
incomincerebbe ad apparire
un nesso necessario tra tale
essente e lo sfondo;
sennonché è impossibile che
un
nesso
necessario
incominciadapparireetanto
menoaessere;dunquenessun
sopraggiungentepuòarrestare
definitivamente
il
sopraggiungere, e pertanto è
oltrepassato;
e
poiché
l’oltrepassante è a sua volta
un
sopraggiungente,
il
sopraggiungereèinfinito.
Anche l’isolamento della
Terra – che è il fondamento
dellafedeneldiventaraltroe
diventar nulla, ossia della
fede nell’esistenza del dolore
e della morte – è quindi
necessariamente oltrepassato.
Dunque oltrepassato da una
Terra che salva da esso e
nella quale tutto ciò che
sopraggiunge
manifesta
sempre più concretamente la
salvezza.
La
«Gloria»
autentica è questo infinito
dispiegamento, nello sguardo
del destino, della Terra che
salva. D’altra parte il
dispiegamento può essere
infinito solo in quanto è
necessario che il destino non
sia soltanto la costellazione
infinita dei cerchi che
accolgonolaTerra,maanche
giàdasemprel’appariredella
totalità degli essenti, della
totalitàchelungoilcammino
infinito della Gloria va
apparendo in quei cerchi e
che tuttavia continua a
trascendere tutto ciò che di
essa in quei cerchi va
apparendo.
È
infatti
necessario che i cerchi del
destinosianounamolteplicità
infinita e che a essi
corrisponda ciò che nella
Terraisolataèintesocomela
molteplicità degli individui
umani.Edènecessariochela
morte, che non può essere
annientamento, sia un evento
cheappareall’internodiogni
cerchio
(all’interno
dell’essenza di ogni esser
uomo), e in ogni cerchio
appare come il compimento
della Terra isolata e il
dispiegamento infinito della
Terra che salva. Ogni uomo
muoreall’internodisestesso.
Muore
come
volontà
all’internodisécomecerchio
dell’apparire del destino (si
vedaLaGloria,Oltrepassare
eLamorteelaterra).
Oltrepassare la Terra
isolata è oltrepassare la
struttura dell’errore. Al
culminediquestastruttura,la
tecnica guidata dalla scienza
moderna è la forma più
coerente
alla
fede
nell’esistenza del diventare
nulla e uscirne e del far
diventarenullaefarneuscire.
Oggi si comprende che la
potenza della tecnica sussiste
solo
in
quanto
è
accompagnata
dal
riconoscimento
pubblico
dellasuaesistenza;manonsi
avverte
che
tale
riconoscimento è a sua volta
il contenuto di una fede.
All’interno di questa fede lo
scopo della tecnica è
destinatoadiventareloscopo
di tutte le forze della
tradizione
(capitalismo,
comunismo, cristianesimo,
islam,
totalitarismi,
democrazia, eccetera) che
oggi intendono servirsi della
tecnica come mezzo. La
tradizione è destinata al
tramonto. Lo scopo della
tecnica
è
l’incremento
indefinito della capacità di
realizzare scopi. Poiché il
Giocatore Bianco rimprovera
allatecnicadivolerfaretutto
ciò che si può fare,
dimenticando che esistono
Limiti inviolabili («divini»),
latecnicapuòrisponderesolo
se
non
si
appoggia
semplicemente sul sapere
scientifico
(che
oggi
riconosce tuttavia il proprio
carattere ipotetico), ma sul
sottosuolo essenziale della
filosofia del nostro tempo,
cioè sulla dimensione abitata
dalGiocatoreNero(cioèdalle
sue diverse configurazioni),
che mostra l’impossibilità di
ogni Limite e di ogni
Ordinamento immutabile (si
veda, La filosofia futura,
Declino del capitalismo, La
tendenza fondamentale del
nostrotempo,Ildestinodella
tecnica, Capitalismo senza
futuro). L’essenza della
filosofia del nostro tempo
conferisce alla tecnica la
potenza che a quest’ultima
può competere all’interno
della fede nel diventar altro.
Tuttavia,
nemmeno
all’interno della Terra isolata
la tecnica ha l’ultima parola:
il linguaggio che testimonia
la verità del destino è
destinato a diventare il
linguaggiodeipopoli.Inessi,
prima
del
tramonto
dell’isolamentodellaTerra,è
cioè destinata ad apparire la
consapevolezza che il loro
agire – il quale è del resto
inevitabile prima di quel
tramonto–èl’alienazionepiù
profondadellaverità.
D’altraparteillinguaggio
è una forma del voler far
diventar altro le cose. Anche
il linguaggio che testimonia
la verità del destino è una
forma siffatta. Il linguaggio
vuole che certi eventi
(soprattutto visibili e udibili)
divenganosegnidicose,cioè
altro da ciò che essi sono; e
che le cose divengano dei
designatiecioèdaccapoaltro
da ciò che esse sono. Nel
linguaggio che testimonia il
destino, la cosa che tale
linguaggio vuol far diventare
(ha fede che diventi) un
designato, cioè altro da sé, è
il destino stesso. Il tramonto
della Terra isolata è pertanto
il tramonto del linguaggio.
Nel tempo del contrasto tra
destino e Terra isolata, il
destino appare avvolto dalla
parola, ma in questo caso la
storicità della parola non
implica la storicità e dunque
la smentibilità del suo
contenuto,perchéildestinoè
l’unica parola la cui
negazione è autonegazione:
l’unico innegabile (si veda
Oltreillinguaggio).
Ma ritorniamo, per
chiudere queste pagine, alla
partitacolGiocatoreNero.
21
«Cosachenonècosa»
«Tutto è nulla», dice
Leopardi. «Tutto è eterno»,
dice il Terzo Giocatore,
testimoniandoildestinodella
verità. La distanza del
Giocatore Nero dal destino è
infinita: la distanza del
Giocatore Nero e del
cadavere del Giocatore
Bianco che egli si è caricato
sullespalle.
Già dicendo che «tutto è
nulla», Leopardi afferma che
ciòchenonèunnullaènulla,
ossia che l’essere è nulla.
«Un nulla io medesimo»: un
nulla io che, essendo un io,
nonsonounnulla.Giàquesto
Pensiero del 1819 potrebbe
far presagire l’affermazione
della contraddizione di ogni
essere, alla quale giungono i
Pensieri qualche anno dopo.
Non più che un presagio,
tuttavia, perché tutto è nulla
nel senso che sporge
provvisoriamentedalnulla.
Riprendendo uno spunto
già apparso nel capitolo 16,
chiediamoci:maseauncerto
punto Leopardi giunge ad
affermare
che
la
contraddizione (intesa come
contraddittorietà, non come
atto del contraddirsi) esiste,
che cioè esiste il non essere
dell’essere, e che tutto è
contraddizione, e afferma
questaesistenzaperchéessaè
«evidente»,
«palpabile»,
questa contraddizione non è
forse, allora, la stessa che il
destino nega? Non è forse la
stessa contraddizione a venir
intesa come necessariamente
esistentedalGiocatoreNeroe
come
necessariamente
inesistente
dal
Terzo
Giocatore?
Ma,
allora,
Leopardi non è forse riuscito
a scoprire la contraddizione
abissale del divenire, cioè
dellosporgereprovvisoriodal
nulla(lacontraddizionechei
mortali ignorano e che
soltantoildestinopuòvedere
e negare) – salvo poi a
considerarla come esistente,
anzi come l’unico esistente,
perché è convinto di vederla
esistente? E non si dovrà
aggiungere che egli è ancora
troppo vicino ai cadaveri
degli Eterni della tradizione
dell’Occidente (degli Eterni
da lui stesso annientati),
perchéeglipossapensareche
la contraddizione suprema –
l’identità di essere e nulla –,
presente nel divenire delle
cose, abbia a implicare quel
trattoinauditocheèl’eternità
diogniesseree,appunto,non
abbia a implicare l’esistenza
della contraddizione, come
invece egli ha effettivamente
pensato?
La risposta è negativa.
No,Leopardinonèriuscitoa
scoprire la contraddizione
abissale del divenire – quella
che
per
lui
sarebbe
necessariamente
esistente,
mentre
sarebbe
necessariamente inesistente
perilTerzoGiocatore.Nonla
scopre, anche se si dovrà
inoltre
dire
che
la
contraddizione che per
Leopardièesistenteèunodei
punti più avanzati fino ai
quali il nichilismo può
spingersi
senza
dover
imbattersi nella propria
Follia, nell’impossibilità di
ciò che esso afferma. Per
chiarirequesteaffermazioniil
testo di P 4174-4175 è
particolarmentesignificativo.
«Infelici» non sono
soltanto i viventi, ma anche
«tutti gli altri esseri al loro
modo» (P 4175): «tutto è
male» (P 4174): «Non v’è
altro bene che il non essere;
non v’ha altro di buono che
quel che non è; le cose che
non son cose». Tuttavia, «in
metafisica», ossia dal punto
di vista che va oltre ogni
confine, «il tutto esistente
[…] non è che un neo, un
bruscolo»: «L’esistenza è
un’imperfezione,
un’irregolarità,
una
mostruosità»; ma questa
imperfezione
è
una
«piccolissima cosa», e anzi
«il
tutto
esistente
è
infinitamente piccolo a
paragone dell’infinità vera,
perdircosì,delnonesistente,
delnulla»(P4174).
Per ogni cosa, «non v’è
altrobenecheilnonessere»,
il non esser cosa, l’esser
«cosachenonècosa».(Tutto
èinfeliceperchéè«inmezzo
alnulla»,ossiaaognicosasi
deve dire addio «per
sempre», «non tornerà mai
più»,P2243;peròlacosache
seneèandatapersemprenel
nulla ha raggiunto il suo
bene, «lieta no, ma sicura /
dall’anticodolor».)InP4174
sidicedunquechel’«infinità
vera» del non esistente, del
nulla, finirà con l’includere
tutto l’esistente, quando esso
sarà tutto diventato nulla:
quando l’esistente sarà non
esistente,quandolacosasarà
non cosa, la totalità
dell’essere sarà nulla. Nel
«silenzio nudo» e nella
«quiete altissima» del nulla
«questo arcano mirabile e
spaventoso
dell’esistenza
universale […] si dileguerà e
perderassi»(Canticodelgallo
silvestre). La morte a cui si
rivolge il Coro di morti nel
DialogodiFedericoRuysche
delle sue mummie diventa
così la morte dell’esistenza
universale: «Sola nel mondo
eterna» e infinita, e
l’esistenzatuttasarà«lietano,
masicura/dall’anticodolor.»
Il Pensiero 4174, dell’aprile
1826, non è dunque
un’eccezione,
ma
una
prospettiva che il Giocatore
Nero ha già acquisito da
tempo e in cui si è collocato
stabilmente.
È tenendo presenti queste
mossedelGiocatoreNeroche
si è in grado di rispondere, e
appunto negativamente, alle
domande che sono state
formulate in precedenza:
appunto perché l’«infinità
vera del nulla» include il
nulla ditutto ciò che è stato,
includel’esserdiventatonulla
dell’essere (l’esser diventato
nulla da parte dell’essere).
Per il Giocatore Nero la
«verità» è il diventar nulla
che conduce all’inclusione
dell’esistenza
universale
(ossia
della
totalità
dell’essere) nella «infinità
vera del non esistente, del
nulla». Ossia per lui il
prodursi di tale inclusione,
dove l’essere diventa non
essere,
non
è
la
contraddizione abissale dove
il diventar nulla implica
necessariamente che l’essere
sia nulla, non è la
contraddizione che è negata
daldestinodellaverità,nonè
la
contraddizione
(del
nichilismo)chesoloildestino
può scorgere. All’opposto, il
diventar nulla è l’unico
«bene»
perché
è
il
superamento di tutte le
contraddizioni, e appunto per
questol’infinitàdelnulla,che
verrà a includere l’esistenza
universale,è«vera»rispettoa
quel «punto acerbo» che non
è più soltanto la vita (come
nel Dialogo qui sopra
richiamato), ma l’esistenza
universale: un «punto»
rispettoall’infinito.
Infatti per il Giocatore
Nero la contraddizione è un
male che affligge soltanto
l’esistenza, il suo contenuto,
non il nulla, l’esser nulla
dell’esistenza. Non riuscendo
a
vedere
che
la
contraddizione
autenticamente abissale è
credere
che
l’esistenza
(l’essere) divenga, sporga
provvisoriamente dal nulla e
vi sia quindi un tempo
(passato e futuro di ciò che
esiste provvisoriamente) in
cuil’essereènulla,allora,per
scorgere che il divenire di
tutte le cose (il divenire,
peraltro, che per lui è
evidentemente
esistente)
implica che esse siano e non
siano, ha bisogno di
considerare qualcosa d’altro
dal loro divenire in quanto
tale, per esempio l’irruzione
della ragione nel desiderio
infinito di piacere, o il
rapporto tra l’infelicità di
tutte le cose e il loro essere
(«l’essere, unito all’infelicità,
e unitovi necessariamente e
per propria essenza, è cosa
contraria dirittamente a se
stessa»,P4099).
In relazione all’«infinità
vera del nulla», dunque, la
contraddizionedelnonessere
dell’essere, quella che per
Leopardi
è
veramente
esistente, non è la stessa di
quella che il destino nega
(non
è
la
stessa
contraddizione a venir intesa
come
necessariamente
esistentedalGiocatoreNeroe
come
necessariamente
inesistente
dal
Terzo
Giocatore: Leopardi non è
riuscito a scoprire la
contraddizione abissale che i
mortali ignorano e che
soltantoildestinopuòvedere
e negare). In altri termini, il
Giocatore Nero dice che
l’esistenzaènullaintendendo
che essa esce dal nulla e vi
ritorna:nondiceche,proprio
perché si crede che
l’esistenzaescadalnullaevi
ritorni, proprio per questo si
pensa e si crede che
l’esistenza sia nulla e che
questo
sporgere
provvisoriamentedalnullasia
pertanto la contraddizione
estrema.
Lo mostra il modo in cui
egli, si è visto, mette in luce
l’esistenza
della
contraddizione di tutte le
cose. Per esempio, la natura
«misericordiosa» nasconde la
verità, ma la ragione irrompe
nella natura e allontana,
indebolisce la misericordia
fino a cancellarla: invasa
dalla ragione, la natura
(l’esistenza) è contro se
stessa. Oppure: la vita è
desiderio di piacere, ma è
dolore. Oppure: la vita è
desiderio di piacere, ma il
piacereènegazionedellavita
(«un abbandono e un oblio
della vita», «stato contrario
alla vita», cfr. cap. 15).
Oppure:
«L’essere
effettivamente,eilnonpotere
in alcun modo essere felice»
(«due verità […] ben
dimostrate»)implicanochela
stessa cosa sia e non sia (P
4099-101,cfr.cap.16).
Sono
esempi
di
contraddizioni
che,
certamente, per Leopardi
scaturiscono dal diventar
altro, dall’andare delle cose
nel nulla da cui provengono,
ma che, appunto, riguardano
l’esistenza,lecosedivenienti,
l’esistenza del divenire.
Proprio per questo la
contraddizione esistente non
è dovuta al loro andare nel
nulla, ma al loro venire
all’essere. È il loro essere a
produrre la contraddizione:
«L’esistenza
è
un’imperfezione,
un’irregolarità,
una
mostruosità»: l’imperfezione,
l’irregolarità, la mostruosità
della
contraddizione,
dell’impossibile, dell’assurdo
fattisi realtà. Cosicché, per
ognicosa,«nonv’èaltrobene
che il non essere», il non
esser cosa, l’esser «cosa che
nonècosa»,ilnonessercosa
che è l’«infinità vera del non
esistente,delnulla»(P4174).
Il pensiero di Leopardi
passa vicinissimo alla «cosa
che non è cosa» che è
implicata dal divenire, la
nomina, ma la nomina senza
trasalire, senza scorgere,
appunto,che«cosachenonè
cosa» è l’assolutamente
impossibile, necessariamente
implicato
dal
divenire.
Afferma invece che «il non
essere», inteso come «cosa
che non è cosa», è l’unico
bene («non v’è altro bene»).
A trattenerlo e a chiuderlo in
questa cecità vi sono due
millenni e mezzo di filosofia
ediciviltà,edietroaessiv’è
l’intera storia dell’uomo. E
ancora: come pretendere che,
dopo la grande partita vinta
col Giocatore Bianco, egli
abbia anche la forza di
trasformarsi
nel
Terzo
Giocatore e giungere a
riveder le stelle e dire che
proprio il diventar altro
implical’esser«cosachenon
è cosa», cioè l’assolutamente
impossibile, che proprio per
questo tutte le cose sono
eterne?
Tuttavia
Leopardi,
identificando il non essere
(delle cose) e l’esser «cosa
chenonècosa»,èinqualche
modoinprocintodivoltareil
capoversolestelle.Masenza
saperlo. Il Terzo Giocatore,
infatti, ha già mostrato che il
risultato dell’annullamento
nonèilpuronulla,ilnullain
quantotale,maèl’essernulla
da parte della cosa che è
diventata nulla. Questo
risultato non è il nulla che è
nulla, bensì è la cosa che è
nulla,ilnon-nullacheènulla:
è appunto la cosa che non è
cosa,ilnonesseredellacosa.
La contraddizione abissale
deldivenirestasottogliocchi
diLeopardi,inqualchemodo
egli l’ha snidata, ma senza
saperlo, quindi non la vede.
Crede anzi che sia l’unico
«bene».
Nonlapuòvedere,carico
com’è della fede che
l’annullamento delle cose
uscitedalnullasial’evidenza
assolutamentenonsmentibile.
Egli è in qualche modo in
procinto di voltare il capo
verso le stelle, perché questa
imminenza rimane congelata.
Nonvoltailcapoperchénon
gli è possibile negare
l’evidenzadeldiventaraltroe
affermarel’eternitàditutto.E
d’altra parte è in procinto di
voltarlo: sia perché le
contraddizioni dell’esistenza,
che egli scorge, le intende
come
conseguenza
dall’andare nel nulla da cui
l’esistenza proviene; sia
perché – lo si è appena
rilevato–vedecheilnullain
cui le cose vanno e da cui
vengono è il loro nulla, vede
che il non essere, implicato
dal divenire, è identico
all’esser «cosa che non è
cosa».
Pensare l’assurdo come
esistente e il nulla dellecose
significaportarsiinunodegli
estremi avamposti fino ai
qualil’essenzadelnichilismo
puòspingersirimanendotale:
oltre di essi questa essenza
entrerebbe in un territorio
dove sarebbe costretta a
svanire.
Non
potrebbe
nemmeno riconoscere la
propriaFollia,perchésarebbe
ildestinoamostrarla,giacché
solo il destino potrebbe
mostrarlaconverità.
Perquestosipuòdireche
se il Giocatore Nero è
infinitamente lontano dal
Terzo Giocatore, del Terzo
Giocatore egli è anche un
interlocutore privilegiato. Gli
èinqualchemodovicino.Chi
è sceso nelle estreme
profondità della Terra si è
allontanato dal Cielo. Ma, se
avesse proseguito ancora, e
avesse quindi rovesciato il
capo, le stelle avrebbe infine
potuto giungere a rivederle,
lasciandocadereaterralesue
vesti nere e lasciando
apparire il destino della
verità, che eternamente
appare.
Indice
Istruzioniperlalettura
1.Piangereimorti
2.«Inmezzoalnulla»e«il
naufragarm’èdolcein
questomare»
3.Dal«desiderioinfinitodel
piacere»al«fior
gentile»
4.LapartitatrailMitoeil
GiocatoreBianco
5.LapartitatrailGiocatore
BiancoeilGiocatore
Nero
6.Ilfilosofo,ilpoeta;loro
separazioneeloro
unità
7.Lucidellamorteedelcanto
8.Lapotenzadellanobile
natura
9.Ilsuicidio
10.Ilsuicidioeilcristianesimo
11.LaconoscenzainAdamoe
nellafilosofia
12.L’etàdellemacchine
13.Gliitalianielafilosofia
14.Feliceinfelice:l’uomo
15.Natura«saviaecoerente»,
ilpiacere,la
«contraddizionein
natura»
16.«L’orribilemisterodelle
coseedellaesistenza
universale»
17.L’oscuritàcheavvolgela
«vettadella
contemplazione»
18.Checosaspaventail
GiocatoreNeroela
primamossadelTerzo
Giocatore
19.IlterzoGiocatore,il
destino,ilnonapparire
deldiventaraltro
20.Ilnullaeildestino
21.«Cosachenonècosa»