LDB Siamo capaci di reggere lo spettacolo dell’infelicità generale?Diguardarealnulla incuicimuoviamosenzaper questo perderci nella vertigine della sua immensità? L’opera di Leopardièunagrandecritica della civiltà. Può sembrare che egli stesso favorisca l’impressione di muoversi nella direzione indicata da Rousseau. Eppure c’è ben altro. Leopardi anticipa Nietzsche, anticipa il cuore del pensiero di Nietzsche: il temadella“mortediDio”. In viaggio con Leopardi nasce come una partita a tre sul destino dell’uomo. LeopardièilGiocatoreNero, il parricida che vede l’incapacità del Giocatore Bianco, cioè della tradizione dell’Occidente,diarrestarela frana gigantesca da cui è travolto.Mainquestepagine la partita è giocata anche da un Terzo Giocatore, che in realtà non “gioca” come gli altri due ma vede tutto l’errare e la violenza della civiltà occidentale. Ed è all’immensità di questo vedere che si rivolgono le pagine di Severino, diventando uno strumento prezioso di interpretazione anche del nostro tempo e dellenostrecosequotidiane. EMANUELE SEVERINO, accademico dei Lincei, è autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue. Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo l’autobiografiaIlmioricordo degli eterni (Rizzoli 2011), Capitalismo senza futuro (Rizzoli 2012), Intorno al senso del nulla (Adelphi 2013) e La potenza dell’errare(Rizzoli2013). Emanuele Severino Inviaggiocon Leopardi Lapartitasuldestino dell’uomo Titolooriginale:Travelingwith Leopardi ©2015EmanueleSeverino PubblicatoperlaprimavoltainGran BretagnadaWilliamHeinemannLtd nel1949 PubblicatodaViragoPressnel1996 ©2015RCSLibriS.p.A.,Milano Primaedizionedigitale2015da NuovaedizioneRizzoliNarrativa marzo2015 ISBN978-88-58-67941-8 Incopertina:ArtDirectorFrancesca Leoneschi GraphicDesigner:AndreaCavallini/ theWorldofDOT www.rizzoli.eu Quest’operaèprotettadallaLeggesul dirittod’autore. Èvietataogniduplicazione,anche parziale,nonautorizzata. Istruzioniperlalettura Il titolo di questo piccolo libro sarebbe, propriamente, Partita con il cantore della morte. Ma potrebbe lasciare perplessi. Lascia intendere che il cantore della morte sia Leopardi. Ma, se il tema centrale fosse Leopardi, si potrebbe dire che egli ha cantato anche altro, oltre alla morte. E non ha solo «cantato»,cioèpoetato,maè statoancheprosatore. Epoi,apartequest’ordine di considerazioni, perché Leopardisarebbe«il»cantore della morte? Di altri e grandissimi cantori della mortesiperdeilconto.Anzi, non se ne trova uno, di poeti o scrittori, che in qualche modo non si riferisca alla morte. Lo stesso si può dire delle altre arti. Quando l’arte figurativa mostra la bellezza, lofaperfermarla:questosuo gesto spicca sull’inevitabile sfondodoveapparecheanche la bellezza se ne va via. E quando, agli inizi del XX secolo, ogni forma di arte mostra il dissolversi della bellezza e della forma, mostrando allo stesso tempo l’impossibilitàdisottrarlealla morte, porta in primo piano ciò che prima aveva lasciato sullosfondo.Ildissolversidel mondo, rappresentato dal suono,èiltemacentraledella musica, che non ha bisogno di diventare atonale per rendere manifesto il divenire edunqueilmoriredellecose. Dunque, daccapo, perché Leopardisarebbe«il»cantore dellamorte? Un primo passo in direzione della risposta consiste nel rendersi conto che Leopardi, oltre a trovarsi al culmine della poesia, si trova anche al culmine della storia del pensiero filosofico. Ma è una risposta che infastidisce ancora di più della domanda. Leopardi al culmine della filosofia? Sì, recentementeilsuoZibaldone di pensieri è stato tradotto negli Stati Uniti. Un grande successo, sembra. Ma una delleragioniditalesuccesso, non secondaria, è stata la compiaciuta ammirazione derivante dal fatto che il poeta italiano conoscesse Locke. È ovvio che, quando di Leopardi diciamo che egli sta anche al culmine della filosofia, non lo diciamo per la sua conoscenza della filosofia inglese del XVII secolo. Nel1990hopubblicatoIl nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, e nel 1997 Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi. Intendono rispondere a domandecomequelleacuici siamo riferiti qui sopra. E anche in altre occasioni sono ritornato su questi temi. In queste pagine si intende presentare il nucleo della questione che riguarda Leopardi. In questo senso è rivolto a un pubblico più ampio. Chi, leggendo, sentisse il bisogno di approfondimentiediulteriori chiarimenti può consultare quei due saggi. D’altra parte le pagine che ora presento li ripropongono in modo nuovo e con nuovi spunti. Ma al pubblico a cui esse vorrebbero riferirsi va detto qualcosa di più: alcune istruzioni, appunto, per la lettura. L’opera di Leopardi è una grande critica della civiltà. Può sembrare che egli stesso favorisca l’impressione di muoversi nella direzione indicatadaRousseau.Eppure c’è ben altro. Leopardi anticipaNietzsche,anticipail cuore del pensiero di Nietzsche: il tema della «morte di Dio». Quando arriva a questo punto, il lettorepuòtrovarelacosapiù omenointeressante.Cheperò riguarda le opinioni dei filosofi e dei letterati. Il mondo va avanti. Ma, chiediamoci, va avanti indipendentemente dalle opinioniumane?Quelledegli uomini comuni e di quelli meno comuni che escogitano le varie tecniche di sopravvivenza, «materiali» e «spirituali»? L’uomo non può agire se inqualchemodononconosce il mondo in cui agisce. Le idee guidano le azioni. Marx sostiene che le idee derivano dal modo in cui l’uomo produce le cose che gli servono… e per certi tipi di idee la sua prospettiva può autorizzarlo a dirlo. Ma per produrre le cose è pur necessario sapere qualcosa riguardo a esse. Per lo meno che sono disponibili al loro venir prodotte e distrutte. Il che, se può sembrare irrilevante, non è idea da poco. Anzi, è l’idea sul cui fondamento i mortali regolano ogni loro azione e pensiero. Leopardianticipailcuore del pensiero di Nietzsche: il tema della «morte di Dio». Ora aggiungiamo: la «morte di Dio» è inevitabile. E Leopardi, per primo nella storia dell’Occidente, mostra questa inevitabilità. Appunto perquestodiciamocheilsuo pensiero sta al culmine della storiadelpensierofilosofico. L’affermazionecheegliè il cantore della morte si riferisce innanzitutto alla morte patita dagli uomini e dal loro mondo. Ma c’è bisogno di «cantarla»? I mortalilaritengonoevidente. E allora non è retorica fuori luogo dire che essa è «cantata»? La risposta a questa domanda è affidata allepaginecheseguono. Quidiciamochelamorte dell’uomo ha un senso radicalmente diverso a seconda che un Dio eterno esista oppure sia soltanto un’illusione dei mortali. Inoltre (ed è l’aspetto fondamentaledellaquestione; peraltro strettamente intrecciato alla «morte di Dio»), la morte di cui parla Leopardi conserva e rende estremo il significato che la filosofia,sindalsuoinizio,le ha conferito: la morte, intesa comeannullamentodiciòche muore. Il nulla è il grande temadellaciviltàoccidentale. Che è la più attiva e la più ricca, la più sapiente e potente,perchélottacontroil nemico più temibile, che per giuntaessastessahaevocato: ilnulla. Leopardièilcantoredella morteperché,propriamente,è ilcantoredelnulla. A questo punto, le «istruzioni per la lettura» di queste pagine possono venir formulatenelmodoseguente. La «partita con il cantore della morte» è giocata soprattutto da tre giocatori, per questo è la partita con il destinodell’uomo. IlGiocatore Bianco. Egli è la tradizione della civiltà occidentale.Ècioèilpensiero eleopereditaletradizione.Il Giocatore Bianco ritiene di avere la capacità di mostrare che il mondo, in tutti i suoi aspetti,esisteall’internodiun Ordine e di un sistema di Leggi immutabili che si fondano sul Principio divino ed eterno di tutte le cose. Questa convinzione è l’idea che guida le azioni umane compiute lungo tutta la tradizione dell’Occidente. Esse possono sì violare l’Ordine e le Leggi del mondo, ma alla fine i trasgressori saranno raggiunti dallagiustiziadiDio;edessi stessi agiscono o con la consapevolezza più o meno esplicita di trasgredire, o col dubbio di andare contro la volontà di Dio. La tradizione dell’Occidente nasce col pensiero filosofico dei Greci ed è potentemente rafforzata dal cristianesimo. Sul versante dell’idea, ha la sua ultima e più grande espressione nella filosofia di Hegel. Sul versante delle opere,siconcludeconlacrisi dello Stato assoluto, che rappresenta il potere di Dio sullaTerra. Il Giocatore Nero, in queste pagine, è Leopardi. Dico «in queste pagine», perchéseLeopardièilprimo a incominciare la partita con il Giocatore Bianco, e a vincerla, egli si trova però insieme ad altri (che altrove hoconsiderato).Moltopochi, peraltro. Il Giocatore Nero vince sul piano dei concetti. Da parte sua, il Giocatore Bianco, ancora oggi, non si sente sconfitto: né sul piano dei concetti, né su quello delleopere.Questo,anchese èdiffusaefortelapercezione che, in ogni campo, lo spaesamento e il disagio del mondo siano enormemente aumentati. Il mondo, visibilmente, «non è più quellodiunavolta».Leopardi è capace, insieme a pochi altri, di scorgere le ragioni dell’immensa frana di più di due millenni di civiltà. (Non si capisce alcunché dell’attuale crisi economica senonlasiinscriveinquesta frana.) Insieme a pochi altri – Nietzsche e Gentile, per esempio – Leopardi scorge quelle ragioni. La tradizione dell’Occidente è pertanto un’immensa vegetazione essiccata. C’è chi, vedendo che le foglie sono ancora attaccateairami,puòcredere che sia ancora viva. Ma non sidevenemmenocredereche l’evento risolutore e chiarificante sarà il gran colpodiventochefaràcadere le foglie. L’evento autenticamente risolutore e chiarificante è sapere perché l’immensa vegetazione si è essiccata: perché era inevitabilecheciòaccadesse. Ilsottosuolodelnostrotempo – che, come sempre è accaduto, è un luogo filosofico – è abitato da quei pochi di cui abbiamo fatto i nomi (ma è difficile aggiungerne altri), cioè da coloro che conoscono quei perché. Si consideri inoltre che il Giocatore Nero gioca sulla scacchiera che è stata costruita dal Giocatore Bianco. La scacchiera dove per la prima volta il divenire delle cose – la morte – è pensatoevissutocomeilloro uscire dal nulla e ritornarvi. In questo senso il Giocatore Nero, vincendo la partita, è un parricida. Quella di cui stiamo parlando è comunque la scacchiera, evocata per la prima volta dal pensiero greco, su cui è stata ed è giocata l’intera storia dell’Occidente… e ormai anche dell’Oriente – le categoriecheatalescacchiera competono essendo ormai diventate anche le categorie fondamentali dell’Oriente (che pertanto ha cessato di essere la preistoria dell’Occidente,cioèdiessere illuogodoveildivenirenonè ancora posto in relazione al nulla). Mainquestepaginelapartita è giocata anche da un Terzo Giocatore.Propriamente,egli non «gioca» come gli altri due. Quindi non è un «giocatore». Non perché il gioco sia qualcosa di poco serio,chealuinonsiaddica. Infatti si può ritenere che la prima forma di gioco sia la festa arcaica, dove i mortali evocano e danno forma a un’immagine della vita. L’immaginerispecchialavita ma, proprio perché è immagine, li solleva al di sopra dei pericoli della vita stessa. In tale immagine i mortali si sentono soprattutto aldisopradellamorte,salvi. Il gioco della festa arcaica è tutt’altro che un semplice «divertimento» (anche se in quest’ultimo può trapelare l’ecodiquella):èqualcosadi molto«serio». Propriamente, il Terzo Giocatorenonèungiocatore. Infatti,adifferenzadeglialtri due che giocano sulla stessa scacchiera, egli indica lo Sguardochevedequalcosadi mai visto dalle sapienze dei mortali:loSguardo che vede lagrandeepotentescacchiera sbriciolarsi, cadere a pezzi, non appoggiarsi ad alcunché; essa che è invece il sostegno su cui si appoggia e di cui si alimenta tutto l’errare e tutta la violenza dell’Occidente (e ormaidelPianeta).Losfacelo della scacchiera è infinitamente più profondo della frana della tradizione occidentale, provocata dal sottosuolo abitato dal Giocatore Nero, e quindi dal suo aver vinto la partita col Bianco. Lo sfacelo della scacchiera coinvolge entrambiiGiocatori. Il Terzo Giocatore indica loSguardochevedequalcosa dimaivistodallasapienzadei mortali.NonèloSguardo:lo indica. (Ma tale Sguardo è presentenelprofondodiogni uomo.) All’immensità dello Sguardo si rivolgono i miei scritti – nei quali esso è chiamato non di rado «destino della verità». Essi sono soltanto il dito che indica l’Immenso, sono il linguaggio che tenta di esprimerlo: di esprimere ciò che non è in alcun modo un tentativo, ma già da sempre sta al di sopra di ogni tentativodistare. In questa «partita», è presenteilditoeillinguaggio di cui stiamo dicendo, che dunque possono venir chiamati il «Terzo Giocatore». Egli indica l’anima comune del GiocatoreBiancoedelNero, illorogiocare,appunto,sulla stessa scacchiera. Grandissimi giocatori, come abbagliante è la luce di Lucifero. Testimoniano l’Errore, il contenuto dell’Errare. E il loro gesto è essenziale, perché senza l’Errore la Verità è impossibile. Il Terzo Giocatore si farà avanti a partitamoltoinoltrata.D’altra parte si assume il compito di descriverel’interapartita,ein questo senso incomincia a parlare sin dall’inizio. In seguitoparleràdisestesso. Va anche detto, in queste «istruzioni»,cheuncertotipo di lettore potrebbe sentirsi a disagioperl’ampiezzachein queste pagine vien data al tema della contraddizione (cap.14ess.).Eglideveperò tener presente che è la stessa filosofiaaporrealcentroquel tema. Se si volesse scrivere un libro «facile» sul senso della filosofia, che non includesse il tema della contraddizione, non sarebbe un libro sulla filosofia. Ed è dalla filosofia che la scienza eredita tale senso. Inoltre è Leopardi stesso ad affrontare sin dall’inizio il tema della contraddizione e a porlo al centro del suo pensiero. Leopardi vince la partita col Giocatore Bianco perché lo vede portatore di una contraddizione fondamentale. Elosfacelodellascacchiera– che può apparire soltanto nello Sguardo del destino dellaverità–consistenelsuo essere la suprema contraddizione, infinitamente più profonda, presente in entrambiiGiocatori. D’altra parte esiste tutta una rosa di concetti il cui significato si è per lo più convinti di capire, ma la cui anima è, appunto, la contraddizione. Si tratta per esempio dei concetti di «lotta», «urto», «odio», «dissidio interiore» (dal «vorrei e non vorrei» di Zerlina nel Don Giovanni di Mozart all’esclamazione di Faust: «Due anime abitano, ah, nel mio petto!», alla lotta tra Amore e Morte di cui parla Freud), «disagio», «infelicità». Ed è sempre in relazione a essi che si sviluppa il pensiero di Leopardi sulla contraddizione. Il contenuto dellaqualeèciòchenonpuò esistere;eil«principiodinon contraddizione» esprime appunto questa impossibilità. Tuttavia, dopo aver tentato strenuamente di circoscrivere lasuaviolazione,Leopardisi convinceràdidovernegarein ognicampo questo principio, e di dover affermare l’esistenza universale della contraddizione. Non c’è bisogno di sottolineare l’audacia di questa tesi. Ma profonde sono le sue ripercussioni sul pensiero di Leopardi e sulla partita che egli gioca con la tradizione dell’Occidente. Ringrazio infine gli amici di Rizzoli per l’amabile insistenza con cui mi hanno convinto dell’opportunità di ritornareancoraunavoltasul pensierodiLeopardi. 1 Piangereimorti «Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, cosìancheDio,permezzodi Gesù,raduneràconluicoloro chesonomorti.» Così scrive l’apostolo Paolo nella Prima lettera ai Tessalonicesi. Anche i Vangeli esprimono questa convinzione. Chi piange i propri morti non sa che anch’essi risorgono. Come è risorto Gesù. Quando il cristianesimo assimilerà la filosofia greca, aggiungerà chel’animaumananonèmai morta: è immortale. Un altro motivo per non piangere i nostri morti. Solo il corpo è andato distrutto. Ma risorgerà. I morti non sono veramentemorti.Cosìparlail GiocatoreBianco. Eppuresipuòreplicare.Il Giocatore Nero ribatte che è naturalepiangereimortiche abbiamo amato. È secondo natura. Se questa sua replica fosse vera, si dovrebbe dire cheilcristianesimoè«contro natura». Li si piange istintivamente, egli dice, «senza ragionare». Il pianto «è un puro sentimento». Li piangiamoperché,«seguendo unsentimentointimo,esenza ragionare», crediamo «che essiabbianoperdutolavitae l’essere». «Dunque noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti siano morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto non sia più». Seguendo la natura, crediamo che la vita deimortisiaormainulla.Per sempre. «Privato della vita e dell’essere», chi muore è diventatonulla,nonsarà«mai più».Sipiangedunqueperlui perchésicrede,naturalmente, che questa privazione e questo «mai più» sia l’«ultima e irreparabile disgrazia». Perchéabbiamomessotra virgolette molte espressioni della replica ora richiamata? Perché essa è di Giacomo Leopardi. Il Giocatore Nero. Il cantore della morte. La replica si legge nelle pagine 4277-79 di quell’opera gigantesca, alla quale Leopardihalavoratopertutta la vita, che ormai è consuetudine chiamare Zibaldone. (Noi non lo faremo.) Alla fine di quelle pagine Leopardi appunta: «Recanati. 9 aprile. Lunedì Santo,1827».Annotadistare scrivendo cose in cui si voltano le spalle al cristianesimo e di scriverle all’inizio della settimana che per il mondo cristiano, all’internodelqualeeglivive, è«santa». E come mai, tra i grandi che hanno pensato la morte con parole, musiche, figure allontanandosi dal cristianesimo, proprio Leopardi? A questa seconda domanda risponderanno le pagine che seguono. Qui limitiamoci a dire, riprendendo quanto già si è affermato nelle precedenti «Istruzioni», che egli non solo è tra i geni più grandi, come poeta e come filosofo, ma che la sua filosofia ha la capacità di portare al tramonto l’intera tradizione dell’Occidente. Decenni prima di Nietzsche, Leopardi apre la strada al tempo della «morte di Dio». Il nostro tempo. Certo, questa può sembrare un’affermazione troppo azzardata. Per esempio,lereligionieleloro degenerazioni non sono forse uno dei fenomeni più visibili e dunque ben vivi del nostro tempo?Ma,appunto,sidovrà sentire che cosa risponde Leopardi. È andato annotando tutta la vita quel che pensava in campo filosofico, letterario, religioso, filologico. Alla sua morte venne rinvenuto un gruppodimanoscrittidicirca 4500pagine,senzatitolo.Ma Leopardi aveva sentito il bisogno di fare un po’ d’ordine in quel materiale enorme, tanto che nel 1827 aveva steso un indice intitolato Indice del mio Zibaldone di pensieri. La parola«zibaldone»indicasìil carattere di quei manoscritti, ma indica anche una vivanda composta da svariati ingredienti. Qualcuno ha accostato «zibaldone» a «zabaione». Sennonché Leopardi è capace di un’ironia sovrana. In modo altrettanto sovrano sa indirizzarlasudisé.Prendere sul serio chi fa dell’ironia sulla propria opera, e l’opera contiene pietre preziose, è – mi sembra – segno di cattivo gusto e di poco spirito. Da partemia,perevitarealmeno in questo caso tali inconvenienti, dirò Pensieri invece di Zibaldone – come appunto ho fatto nei miei scritti dedicati al pensiero di Leopardi (e nelle citazioni indicherò Pensieri con l’abbreviazioneP). Ritorniamo alla replica contenuta nelle pagine 427779 dei Pensieri. Parlando della natura che ci fa piangere i nostri morti, la replica non si confronta con l’apostolo Paolo. Ma il riferimento al cristianesimo è implicito nel suo modo di rifiutare, si è visto, la tesi dell’immortalità dell’anima. Nei Pensieri le numerose pagine che riguardano il cristianesimo hanno un’importanza centrale. Altrettanto centrale la critica a Platone e alla sua dottrina dell’immortalità (e anzi dell’eternità)dell’anima. La natura, dunque. Un concetto complesso, nell’opera di Leopardi. Nel passosulcompiantodeimorti la natura mostra uno dei lati di questa complessità: la naturaèilnostrodesideriodi essere felici. È presente nell’uomo inteso sia come genere sia come individuo. E ognuno la felicità la desidera perséeperchiama.Amiamo una persona quando desideriamocheancheleisia felice. Dunque, quando accade che muoia, l’istinto naturale ce la fa piangere perché crediamo che non possa più esser felice, «mai più» felice; e che nemmeno noi possiamo continuare a esser felici per la sua presenza,lasuavita,perquel che c’è stato tra noi. Se cioè vogliamo sapere «quel che passa nell’animo nostro» quando muore chi amiamo – quel che naturalmente, istintivamente vi passa –, «troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato,eglinonèpiù,iononlo vedròpiù»(P4278).Unanno dopo Leopardi scrive A Silvia; due anni dopo Le ricordanze. Due dei suoi Canti più alti. Canta il «mai più» di Silvia e di Nerina. Canta? Non è stridente il cantare la morte di due ragazzecheeglihaamato?La risposta è negativa. Quando mostreremo perché, ci troveremo dinanzi a uno dei temi decisivi del pensiero di Leopardi. Va però anche osservato (qualcheriservalarenderemo esplicita più avanti) che Leopardi considera il pianto per i morti come atteggiamento dell’intero genereumano,laddoveessoè l’atteggiamento che si riscontra, come oggi sappiamo,inuncertoambito della storia dell’uomo, degli ultimi millenni e di certe regionidellaTerra.Secioèsi può presumere che ogni uomo desideri la felicità e il piacere, ossia che questa sia la natura di ogni uomo, ciò non implica che, dinanzi alla morte di chi è stato amato, ogniuomocredachel’amato nontornerà«maipiù»perché è totalmente «privato della vita e dell’essere». Sarà il popolo greco a crederlo, guidato dai suoi pensatori. Con i Greci l’uomo incominciaamorireeaesser pianto in un modo assolutamente nuovo, inaudito.Elafilosofiagrecaè ilterrenoincuicrescel’intera storiadell’Occidente. Comunque, a parte l’estrapolazione che attribuisce a tutti l’atteggiamento di alcuni di fronte alla morte, Leopardi può dire: «Allegano [cioè si appellano] in favore dell’immortalitàdell’animoil consensodegliuomini.Ame par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario[cioèperdimostrare ilcontrario]». Appunto perché la natura cifapiangereinostrimortie ce li fa piangere perché per natura crediamo che essi non siano più e che noi non li vedremo mai più. È «il pensiero della caducità umana»,cheèilcontrariodel credere nell’immortalità. Il compianto dei morti mostra che il «consenso degli uomini» è per «il non esser definitivamente più» di chi è morto. Non lo piangeremmo se potessimo pensare tra noi: «io rivedrò però questo tale dopo la mia morte». Ma questo è il sentimento che nessuno prova, qualsiasi siano le sue convinzioni razionali(P4277-79). Il tema del «mai più» ritornerà in Consalvo. Morente, chiede «un bacio» all’amante, prima di esser lasciatopersempre(«pria/di lasciarmipersempre,Elvira», vv.49-50).Luilalascianella vita, lei lo lascia nel nulla della morte. Il tema era già stato toccato nei primi mesi del 1821: «Non c’è forse personatantoindifferenteper te, la quale salutandoti nel partireperqualunqueluogo,o lasciarti in qualsiasi maniera, edicendoti,noncirivedremo mai più, per poco d’anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista.L’orroreeiltimoreche l’uomo ha, per una parte, del nulla, per l’altra, dell’eterno [ossia l’orrore e timore dell’eternità del nulla] si manifestadapertutto,equel mai più non si può udire senza un certo senso […]: è partito per sempre – per sempre? Sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia» (P 644-45). Questo è il sentimento che ognunoprova,qualsiasisiano le sue convinzioni razionali. L’orrore e timore del nulla – del nulla in cui va progressivamente cadendo ogni momento della vita, e del nulla definitivo della morte – è orrore e timore dell’eternità del nulla, della morte. Il Coro di morti che apre il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, composto nel 1824, incominciacosì: Sola nel mondo eterna, acuisivolve ogni creata cosa, in te, morte, si posa nostra ignuda natura; lietano,[…] la nostra natura – il nostro desideriodifelicità–checon la morte è rimasta «ignuda», spogliatadell’essere. (Refrain. La potenza espressiva del linguaggio di Leopardi è evidente. Per un certotipodilettorepuòessere appagante, anche se sconvolgente. Altri possono restare indifferenti. Possono giàaverchiusoquestepagine. Maperchicontinuaaleggere è decisivo ripetere che con Leopardi non si ha semplicementeachefarecon uno scrittore e un poeta che «fa pensare». O meglio: egli fa pensare non soltanto così comeunoscrittoreounpoeta possonofarpensare,macome il pensatore che riesce a superare, «in verità», l’intera tradizione della civiltà occidentale, cioè secondo il sensochela«verità»possiede all’interno di tale tradizione. Se la tradizione dell’Occidente sembra viva, dicevamo nelle «Istruzioni», è viva nello stesso senso in cui le foglie secche restano ancora legate ai rami. Leopardi è il Giocatore Nero che ha partita vinta sul Giocatore Bianco. Indicheremoneicapitoli4e5 le mosse essenziali di questa partita. Non è una esagerazioneaffermarechein essavienegiocatalasortedel nostrotempo.Lanostra.) 2 «Inmezzoalnulla»e «ilnaufragarm’è dolceinquestomare» Il sentimento del «mai più», per Leopardi, è provato da ognuno,qualsiasisianolesue convinzioni razionali. Si è visto. Le convinzioni razionali,appunto.Chevalore hanno? E che valore ha la vocedellanatura?Giacchédi tutto questo il passo 4277-79 dei Pensieri, da cui abbiamo preso le mosse nel capitolo precedente, non parla. Parla invece della direzione verso cui effettivamente si dirige il «consensodegliuomini».Nel 1827 – quando stende quelle pagine –, della verità, del valore della ragione e della natura i Pensieri si sono già occupatiafondo. Già nel 1819 Leopardi scriveva: «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tuttoènulla,solidonulla»(P 85). Ha ventun anni. Questo passo complica notevolmente le considerazioni che abbiamo svolto sin qui. Soprattutto perché nel 1819 Leopardi scrive anche L’infinito, e l’infinito è l’«eterno»,l’«immensità»del «mare» in cui è per lui «dolce» fare naufragio. Mentre non è certo «dolce», ma spaventoso e soffocante, fare naufragio «in mezzo al nulla». Il nulla è la morte, «sola nel mondo eterna», in cui «si posa / nostra ignuda natura». Possiamo aggiungere, sviluppando uno spunto toccato nel capitolo precedente, che, contrariamente a quanto Leopardiritiene,lamortenon è sempre stata pensata come annullamento e come il nulla cherisultadall’annullamento. Infatti solo il pensiero greco incomincia a pensare che l’altro, ossia ciò che nel loro divenire le cose diventano, è l’assolutamente altro dal loro essere: è il nulla. Prima dei Greci questo senso radicale del nulla è ignorato. Se il corpo vivo di un uomo diventa un cadavere, tuttavia sial’unosial’altrosilasciano vedere e toccare, sono entrambi cose, essere. Il cadavereèsolorelativamente altro dal corpo vivo. Per le civiltà pregreche il diventar cadavere è l’inizio di un viaggio che consente ai viventi di mantenere rapporti di diversa natura con chi è partito. Se piangono i loro morti, il loro è un pianto diverso da quello dei Greci, che nel cadavere credono di vedere l’annullamento di una vita, il «mai più», l’esser «passato per sempre». Ma ritorniamoalpasso(P85)del 1819. «Considerandoesentendo chetuttoènulla»,Leopardisi sentesoffocare.Nelpassodel 1819 si parla sia di un «considerare» sia di un «sentire». C’è il «sentire»: appartiene alla sfera del «sentimento intimo», che abbiamo incontrato sopra; ci fapiangereinostrimortiedè prodotto dal desiderio di felicità per noi e per coloro che amiamo, quando tale desiderioèfrustratodallaloro morte. Ma c’è anche il «considerare». Questa parola guarda più alla ragione che all’istinto. Indica la verità. Propriamente, anticipa la grande sequenza che nei Pensieri conduce alla distruzione del platonismo e del cristianesimo, le fondamenta della tradizione dell’Occidente. È come se Leopardi anticipasse i risultati essenziali della sua indagine. L’anticipazione va quindi interpretata alla loro luce. «Tutto è nulla.» L’espressione non è da intendere come un piatto rifiuto del «principio di non contraddizione». La negazionediquestoprincipio, in Leopardi, è estremamente più complessa. È ovvio che per lui l’essere ancora vivi nonequivaleall’esseremorti. Il«maipiù»siriferisceaciò che ne è della vita quando muore una persona amata; non quando essa è viva. La vita non è la morte. L’essere nonèilnulla. Dunque«tuttoènulla»(e «un nulla io medesimo») nel senso, appunto, che tutto è «in mezzo al nulla», ossia vienedalnullaevanelnulla. Non è prodotto da un Demiurgo o da un Dio; e, finendo, non è accolto da braccia divine. «Essere» significa trovarsi provvisoriamente «in mezzo al nulla». «Sentire» e «considerare» questo è spaventoso, orrore e timore. Avvertireilnulladacuiogni cosa è circondata (l’avvertire che è «il pensiero della caducità umana») significa esser soffocati da questo stesso nulla. Il nulla soffoca in quanto è sentito e considerato; non in quanto è nulla. In quanto, sentito e considerato, è soffocante, orrendo e temibile, il nulla è «solido». Se e poiché per Leopardi la verità scoperta dalla ragione è questa, cioè «che tutto è nulla, solido nulla», allora la conoscenza della veritàèlafontedell’angoscia più profonda in cui l’uomo può precipitare – la falla che provoca il naufragio dove annega ogni speranza, ogni illusione, ossia ogni felicità. Infatti (scrive l’anno successivo) «la felicità consiste nell’ignoranza del vero»(P 326). Solo voltando le spalle alla verità si può averequeltantodifelicitàche cièconcessa. Sennonché, dicevamo, nello stesso periodo in cui formula queste tesi, Leopardi compone L’infinito. È spesso interpretato come un canto positivo, che dal tempo conduce all’eterno. Il poeta ode la «voce» del vento, là sul «colle» dove gli è «caro» rifugiarsi. E lo porta a confrontarla («vo comparando») con l’«infinito silenzio»checonducenelsuo pensiero «l’eterno» («e mi sovvien l’eterno») e la sua differenza rispetto a ciò che muore e che per ora è vivo. «[…] Così tra questa / immensitàs’annegailpensier mio: / e il naufragar m’è dolceinquestomare». Ma, dicevamo, non è certo «dolce», bensì spaventoso, soffocante e fonte d’infelicità sapere di trovarsi «in mezzo al nulla». Non è dolce annegare nel nulla. In «annegare» risuona la parola latina necare, «uccidere»; mentre annegare nell’immensità dell’eterno è uccidere la morte. E, alla lettera, «naufragio» significa lo «spezzarsi» (frangere) della nave. Il naufragio può essere«dolce»soloselanave che si spezza è quella del nulla e della morte, e il «mare» che ne accoglie i frammentièl’eterno. TuttaviaLeopardinonsta smentendo se stesso. Infatti, se conoscere la verità equivale a essere infelici, allora solo immergendosi nella non-verità, cioè nell’illusione, l’uomo può averequelpocodifelicitàche gli è concessa. E l’illusione suprema è pensare, con tutta l’intensità di cui si è capaci, che l’eterno esiste ed è infinito e che nell’eterno l’uomopuòsalvarsidalnulla a cui la morte conduce: nell’eterno è dolce naufragare. La dolcezza del naufragio è tutta percepita all’interno dell’illusione. Leopardi si è allontanato ben presto dalla fede cristiana (della cui presenza, peraltro, le prime pagine dei Pensieri mostrano segni di grande interesse). Quando scrive L’infinito ne è già fuori. Quindi Leopardi può dire sia che, in verità, tutto è in mezzo al nulla sia che, nell’illusione, è dolce naufragare nel mare dell’infinito. Quanto si è detto per mostrare la coerenza del cantore del nulla non è però la sovrapposizione di un’ipotesi interpretativa a ciò che Leopardi effettivamente dice.Èluistessoadaffermare in modo esplicito il carattere illusorio dell’eterno. Ancora nel 1819, e anzi una cinquantina di pagine prima di quella in cui si dice che «tutto è nulla, solido nulla», egli scrive: «Il più solido piacere di questa vita è il piacervanodelleillusioni»(P 51). Ilpiacere,intesonelsenso più ampio: come ciò che si provaquandoqualcosapiace. Il piacere è la stessa felicità (P 165). Quando la verità si favedere,ciòcheèsolidoèil nulla(«solidonulla»)enonvi è alcunché di più solido del nulla. Felicità e piacere sono del tutto assenti. Quando, invece che nella verità, ci si trova nell’illusione, quel che è solido («il più solido») è il piacere che solo l’illusione puòdare.Pertantol’esistenza dell’eterno, in cui è dolce naufragare e che procura il maggioredeipiaceri,nonpuò essereverità,maèillusione. Nell’Infinitoilcantoredel nullacantadunquel’illusione dell’infinito e dell’immensità dell’eterno. La canta, nel sensochevisiavvolge,vista dentro,equindinonpuòdire chestaavvoltonell’illusione. Nellamisuraincuistaalsuo interno, la sente e la vede come verità. Si è illusi proprio perché si considera verità ciò che invece è illusione. Che l’illusione sia illusione lo si può sapere quando se ne esce: quando il canto finisce e ci si pone dinanzi alla verità non illusoria. E appunto questo accade nei Pensieri, dove il filosofo riflette sul cantore. Non è passato nemmeno un anno dalla composizione dell’Infinitoenelluglio1820 Leopardi rende esplicito il nucleo della sua «teoria del piacere»(P165-185).Unisce «ilsentimentodellanullitàdi tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo», cioè la capacità dell’infinito di riempirci l’animo. Certo, noi non comprendiamo l’infinito; ma non perché esso esista e noi siamo incapaci di penetrarneilmistero.Infattiè necessario «che tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini e sia circoscritto» e che «niente sia eterno» (P 165-66). Come desiderio di felicità, l’uomo è «desiderio dell’infinito» e dell’eterno, dove «in luogo della vista lavora l’immaginazione, e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello chenonvede»(P171),«può figurarsi dei piaceri che non esistano,efigurarseliinfiniti» (P 167). È già fuori discussione, per Leopardi, che l’eterno e l’infinito non esistono.Maeglièfilosofoe, Giocatore Nero, renderà ben prestoesplicitoilfondamento diquestasuaconvinzione. A questo punto diventa comunque del tutto esplicito il chiarimento che i Pensieri danno intorno al senso dell’Infinito: «L’anima s’immagina quello che non vede, [quello che non esiste e] che quell’albero, quella siepe, quella torre gli [le] nasconde,evaerrandoinuno spazioimmaginario»(P171). Un albero, una siepe, una torre nascondono all’anima uno spazio che è immaginario,nonreale,eche il desiderio dell’infinito immagina infinito. E infatti L’infinitodice: Sempre caro mi fu quest’ermo colle e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove perpoco il cor non si spaura.[…] […] e mi sovvien l’eterno,[…] Nel canto e nei Pensieri compaiono le stesse parole: «siepe», «spazio». Ma, nel canto, l’infinito (gli «interminati spazi», i «sovrumani silenzi», la «profondissimaquiete»,epoi l’«infinito silenzio», l’«eterno»,l’«immensità»del mare in cui è «dolce» fare naufragio) è sentito stando all’interno dell’illusione del poeta, e quindi non è sentito ed espresso come illusione, ma come verità; invece nei Pensieri il filosofo vede la verità angosciante e soffocante, quindi vede l’illusione conoscendola cometale;epertantoconosce il carattere illusorio e immaginariodell’infinito. Lo conferma quanto Leopardi dice (nella Prefazioneeannotazionealle dieci canzoni stampate in Bologna nel 1824) a propositodell’usocheeglifa del verbo fingere (che compareanchenelpenultimo verso qui sopra riportato, «io nel pensier mi fingo»): il poeta riconduce il significato di fingere a formare, foggiare. Ossia fingere non indica l’ingannare e il nascondere quel che si è. E infatti, se il desiderio di felicità porta a immaginare illusoriamente l’infinito, è impossibile che stando all’interno dell’illusione si sappia e si dica che l’infinito èunafinzione,unnascondere la verità angosciante della finitezza e nullità di ogni cosa. All’interno dell’illusione, «io nel pensier mi fingo» significa che, quando la «siepe» non gli fa vedere gran parte «dell’ultimo orizzonte», allora nel suo pensiero si formano e si fanno innanzi quegli spazi e silenzi infiniti. Quandounosacheessisono una sua finzione, un suo nascondersi come stanno le cose,acostuiilcuorenon«si spaura». Il cuore gli «si spaura» quando sono essi, comeinfinitiedeterni,afarsi innanzi. Si fanno innanzi nel ricordo: «e mi sovvien l’eterno». Quando si ricorda, si crede che a farsi innanzi non sia un’illusione, una finzione (lo si potrà credere dopo,quandosidubiteràdella verità del ricordo), ma qualcosadireale. «Oveperpoco/ilcornon sispaura».Lapauradiquesto impaurirsinonèl’angosciadi chisisenteinmezzoalnulla. E inoltre manca ancora un «poco»perchéquestapaurasi produca. Essa sta nella dimensione del timore dell’uomo che viene a trovarsi di fronte a Dio; al Rimedio a cui, peraltro, l’uomo affida dapprima la propria salvezza. Poi i pensatori dell’Occidente si accorgerannoche«ilRimedio è peggiore del male», ossia è peggiore della morte annientante. Quell’espressione è di Nietzsche, ma è innanzitutto Leopardi a esprimerne il senso essenziale. Considerandoilcristianesimo (soprattuttonelqualeDioèil Rimedio) come aspetto primario del platonismo, Leopardi vede in esso il «massimo dei danni» inferti alla natura, in quanto essa è desiderioinfinitodifelicità(P 817,marzo1821). 3 Dal«desiderioinfinito delpiacere»al«fior gentile» Apropositodellepagine165- 66 dei Pensieri, nel capitolo precedente si è detto che per Leopardi è necessario «che tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini e sia circoscritto»eche«nientesia eterno». Sennonché Leopardi non scrive: «è necessario». Scrive: «la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente,eccetera»e«la naturadellecoseportaancora chenientesiaeterno».Esela «natura»è«desiderioinfinito dipiacere»,ossiadifelicità,e quindi è fonte benefica di illusioni nonché della suprema illusione dell’infinito e dell’eterno, comepuòlanatura«portare», cioè implicare che tutto sia finitoechenientesiaeterno? La risposta sta nel fatto che nel linguaggio di Leopardi la parola «natura» ha una molteplicità di significati. Che però non si confondono.«Lanaturadelle cose» (quella che «porta che tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini e sia circoscritto»eche«nientesia eterno»)non è la «natura» in quanto desiderio di felicità. «Natura delle cose» è una formula della tradizione filosofica, usata per indicare come stanno realmente le cose, come è necessario che stiano. (Si dice: in rerum natura.) Nell’espressione «natura delle cose», «natura» ha un significato opposto a quello di natura come desiderio di felicità. La «naturadellecose»èlaverità – e la verità è che tutto è limitato nello spazio e nel tempo, «circoscritto», e che quindi niente è eterno. La verità è spaventosa, angosciante. Il desiderio di felicità è invece l’illusione: l’illusione che la felicità si possa raggiungere, l’illusione che culmina nel credersi felici. Nelle stesse pagine dovesiparladi«naturadelle cose» si parla anche della «gran misericordia» della «natura», che questa volta significa desiderio di felicità; inaltreparoleèlanaturache «non potendo fornirli [gli uomini e gli altri esseri viventi]dipiacerirealiinfiniti [come sarebbe il piacere derivante dall’esistenza dell’eterno in cui l’uomo si salva dalla morte], ha voluto supplire[…]colleillusioni,e di queste è stata loro liberalissima»(P167). Più complesso è il chiarimento del perché la «natura»piangaquandosente che non rivedrà «mai più» la persona amata che è morta (cfr. cap. 1). Infatti, il «mai più» è il diventar nulla da parte di chi muore (P 427779); e invece la «natura», come desiderio di felicità e grandemente misericordiosa, nasconde con le illusioni di cuiè«liberalissima»lanullità del tutto. D’altra parte, si è visto, la «natura» che piange è «puro sentimento», che si esprimealdilàdellaragione, ossiaaldilàdelluogoincui si manifesta la verità; sicché la «natura» che piange non può essere nemmeno la «naturadellecose»,ossianon può essere nemmeno la verità. Nel1827,quandoparladi questa «natura», Leopardi ha già ampiamente sviluppato neiPensieriilprincipiochela «natura» è corrotta dal sorgere della ragione e del cristianesimo. Nella civiltà la «natura» non è più quella primitiva: è stata alterata da bisogni che l’uomo, non accontentandosi di quelli primari,havolutosoddisfare. E nel 1825 Leopardi aveva composto il Dialogo di Plotino e di Porfirio, sul suicidio, dove viene introdotta la distinzione tra «naturaprimitiva»e«seconda natura». Dice Porfirio: «Quella natura primitiva degli uomini antichi,edellegentiselvagge e incolte, non è più la natura nostra:mal’assuefazioneela ragione hanno fatto in noi un’altra natura; la quale noi abbiamo,eavremosempre,in luogo di quella prima. Non era naturale all’uomo da principio il procacciarsi la mortevolontariamente:mané anco era naturale il desiderarla. Oggi e questa cosa e quella sono naturali; cioè conformi alla nostra natura nuova: la quale, tendendo essa ancora e movendosi necessariamente, come l’antica, verso ciò che apparisce essere il nostro meglio;fachenoimoltevolte desideriamo e cerchiamo quello che veramente è il maggiorbenedell’uomo,cioè lamorte.Enonèmeraviglia: perciocché questa seconda natura è governata e diretta nella maggior parte dalla ragione.Laqualeaffermaper certissimo, che la morte, non che sia veramente un male, come detta la impressione primitiva; anzi è il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più desiderabile agliuomini,elamigliore». Ebbene,la«natura»dichi piange sentendo in sé che la persona amata è diventata nulla,enonsaràmaipiùcon lui, è appunto la «seconda natura». Quando Leopardi dice che «tutti» piangono la perditadellapersonaamata,è coerente con se stesso nella misura in cui pensa che si tratti di tutti coloro che possiedono questa «seconda natura».Esipuòbenritenere che lo pensi anche se non lo scrive, purché si tenga presente il carattere dei Pensieri, che sono appunti e non un testo pronto per la stampa. Come la logica del discorso di Porfirio (cioè di Leopardi) dice che all’inizio non era naturale per l’uomo desiderare e darsi la morte, ma poi lo è diventato nella «seconda natura», così alla logica che elabora il sentimento del «mai più» è consentito dire che all’inizio non era naturale piangere la morte e il «mai più» degli amati, ma poi, con l’evocazione greca del nulla, lo è diventato, e appunto, anche qui, nella «seconda natura» di coloro che crescono all’ombra di quell’evocazione. La logica implicita di Leopardi tende allora a riscattare il tema della «natura» che piange la morte dalla critica a cui abbiamo accennato nel capitolo 2. In altre parole, se la distinzione tranaturaprimitivaeseconda natura viene resa esplicita ancheinrelazionealtemadel sentimentochepiangeil«mai più», allora non è più possibileobiettareaLeopardi che è arbitrario estendere all’intera storia dell’uomo quella coscienza dell’andare nelnullaedel«maipiù»che invece incomincia a sorgere nel popolo greco a opera dei suoi pensatori. A questo punto, dunque, quel pianto si può intendere come l’effetto che si produce nell’uomo quando in lui la «natura», corrompendosi e diventando «seconda natura», non riesce a coprire e a far tacere completamente la ragione, ossia la visione della verità (cioè della ragione e della verità greca che regge la storia della civiltà occidentale). Ma è presente, negli scritti di Leopardi, un altro senso ancora della «natura», quello più noto: la «natura» come «dura nutrice» che «in unmomentoannulla»l’uomo eilsuomondo,eche«madre è di parto e di voler matrigna», quella che non ha «alseme/dell’uompiùstima o cura / che alla formica» e che il poeta chiama ironicamente «amante natura». Sono espressioni del grande canto La ginestra (1836). Nella Palinodia al marchese Gino Capponi, il «parto» con cui la natura matrigna produce le cose è chiamato il «gioco reo» dell’«empia madre», che dopo averle generate le distrugge, come un fanciullo che, subito dopo aver costruito con dei fuscelli un edificio,lodistrugge. Questa «natura» è il processo stesso del divenire del tutto, dove ogni cosa è gettata e travolta, nel processo incessante di produzione e distruzione. Un processo assolutamente privo di senso. Poiché ogni cosa provienedalnullaenelnulla ritorna, il suo incominciare a esistere e la fine della sua esistenza non hanno un scopo, un senso, non sono aspetti di un Ordinamento ignoto. Nascita e morte non nascondonounmistero.Tutto è terribilmente chiaro. Non esiste alcun Ordinamento. Il nostro trovarci a esistere è senzaperché. Sono, queste, le convinzioni di gran parte della cultura del nostro tempo.Masonoquasisempre forme di una fede che si contrappone alla fede metafisica e religiosa. Leopardi è il primo ad aver scavato il sottosuolo dove ha postolefondamentadiquelle convinzioni, che quindi, solo in lui e in chi ha la potenza del suo pensiero, cessano di essere semplici fedi. Con la vittoriadelGiocatoreBianco, il Giocatore Nero rende solido il terreno dove muovonoiloroincertipassii bigottidella«mortediDio». Leopardi mostra che nascita e morte non nascondono alcun mistero e chenonvièalcunOrdineche ci si celi e che tuttavia rimanga nascosto. Il nostro trovarci a esistere è senza perché. L’arcano è che non esiste alcun arcano. È un arcano nel senso che non esiste alcun perché che lo spieghi. Anche l’arcano dell’universo in cui viviamo diventerà nulla prima che si scopra un perché. «Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi». È la frase che chiude il Cantico delgallosilvestre(scrittonel 1824). Altri universi saranno prodotti e questo arcano li accompagnerà tutti. «Cosa arcana e stupenda / oggi è la vita al pensier nostro», cantano i morti a Federico Ruysch,cioèglicanterebbero se potessero parlare e avere un «pensiero». Sono andati dall’altra parte, ma non trovano nulla (nemmeno se stessi). La vita, «al loro» pensiero è «stupenda» (da stupor, stupeo) perché li lascia nel totale stordimento di chi avrebbe voluto trovare in essa qualcosa, qualche significato, ma non trova nulla. Non esistendo alcun Ordinamento eterno, ogni ordine essendo cioè provvisorio, contingente, non esiste nemmeno una Coscienza che, assoluta, dominante, potente, sappia alcunché delle cose dell’uomo e del mondo. Nel DialogodellaNaturaediun Islandese, l’assenza di tale Coscienza, nella «Natura» in quanto divenire del tutto, è potentemente incarnata nella «forma smisurata di donna» che l’Islandese incontra in una regione sconosciuta dell’Africa:«Videdalontano unbustograndissimo;cheda principio immaginò dovere essere di pietra […] Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna, e non finta ma viva;divoltomezzotrabello e terribile, di occhi e capelli nerissimi;laqualeguardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimoglidisse:“Chisei? Che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?”». È la «Natura». «Questi luoghi» sono essa stessa. Ed essa non sa nulla dell’uomo. Dopoillungoeappassionato discorso dell’Islandese che confessa alla «Natura» il motivo per cui l’ha sempre fuggita e tutta l’infelicità che da essa gli deriva, la «Natura» non si scompone e dicepocheparole: «Immaginavi tu forse che ilmondofossefattopercausa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendoinqualunquemodoe conqualsisiamezzo,ionon me n’avveggo, se non rarissime volte; come, ordinariamente, se io vi dilettoovibenefico,iononlo so; e non ho fatto, come credetevoi,quelletalicose,o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta lavostraspecie,iononmene avvedrei». La «Natura» sta dicendo appunto di essere incoscienza, nonsenso. Nel Dialogo il nonsenso dice di essere nonsenso, l’incoscienza dice di essere incoscienza. E tuttavia lamentarsi della «Natura», inveire contro di essa, rivolgerledomande–comea volte accade nei Canti – ha ancora senso. Sanno di non poter trasformare il nonsenso insenso;eledomande(«Che faitulunainciel?dimmiche fai /silenziosa luna?», «Ove sei, che più non odo la tua voce sonar […]?») non attendonoalcunarisposta.Ma lamenti, invettive, domande sonoformedella«forza»con cui il canto, nell’opera del genio, «sente la morte perpetua delle cose e sua propria» (P 261 – un tema, questo, che sarà sviluppato nei capitoli 6-8). Opera del genio è quella della «nobile natura». C’èinfattiancoraunaltro significato di «natura» (dunque in stretta relazione con quel tema), che compare nella Ginestra o il fiore del deserto. Il Vesuvio («formidabil monte / sterminator Vesevo») è l’icona dell’«empia madre» Natura. Ha reso possibile sulle sue pendici e ai suoi piedi la vita degli uomini e l’hadistrutta.Sullasua«arida schiena» cresce la ginestra, «contenta» dei deserti. Ed essa è l’icona della «Nobil natura»: Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con francalingua, nulla al ver detraendo, confessailmal che ci fu dato insorte, eilbassostato efrale (vv.111-117) A proposito di questi versi centrali del Canto, su cui ritorneremo più avanti (cfr. capp. 6-8), qui diciamo soltanto che evidentemente questa«natura»nonsolonon è la natura che «madre è di parto e di voler matrigna», ma non coincide nemmeno con gli altri significati di «natura» che abbiamo sopra rilevato.Essaè«nobile».Non piange. Ha anzi l’ardimento di sollevare i suoi occhi mortali e guardare il «comun fato». Così come la ginestra ardisceguardareilvulcanoed è persino «contenta» del desertoincuiessasitrova.Il «comunfato»èil«malcheci fu dato in sorte»: il «gioco reo» dell’«empia madre». «Nobilnatura»:«fiorgentile» (v. 34). La contentezza del fiore è in qualche modo apparentataconildesideriodi felicità della «natura» che abbiamo incontrato per prima. Eppure tale contentezza non coincide affatto con questo desiderio. A questo punto la sua presenza solleva molti problemi.Piùdiquantolasua evocazione ne risolva. Soprattutto perché la nobile naturanon«detrae»nullaalla verità. Per ora diciamo che essaèilgenio. Qui si è voluto rilevare che il linguaggio di Leopardi controlla questi diversi significati della parola «natura»: la «natura», dunque, come desiderio di felicità, come «natura delle cose», come «natura primitiva»e«seconda»,come «empiamadre»e«giocoreo» del «divenire», come «nobile natura». La «natura delle cose»èchenientesiaeterno, ossia coincide col «gioco reo» e senza senso del divenire. Questo gioco produce e distrugge tutto, senza saperlo e senza alcuno scopo, produce quindi anche gli esseri viventi, la cui «natura» è il desiderio di vivere felici, che però si corrompe e diventa «seconda natura». Al culmine della «seconda natura», la «nobile natura»delgenio. 4 LapartitatrailMitoe ilGiocatoreBianco Da quando abita la Terra, l’uomo, per vivere, sente di dover agire: di dover trasformare sé e il mondo in cui vive. Altrimenti muore. Sente di dover diventare altro. Adamo pecca perché vuol diventare Dio. Eritis sicutdii,diceilserpentealui e alla sua compagna. «Sarete come dèi.» Non è vero che morireteseavretemangiatoil frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Morirete se rimarrete quellochesiete.Ilgiardinodi delizie è in realtà una Barriera. Dio la sorveglia. È luistessolaBarriera.Manon riesceaimpedirecheAdamo lapenetri.Locacciaperòdal paradiso terrestre e si rende invisibile all’uomo. La Barriera si ritira e si ricompone ben al di là dell’orizzontechegliocchidi Adamo riescono a raggiungere. Lavolontàdivivereesige il diventar altro, il riuscire cioè, volendo, a ottenere. E, credendo di ottenere, l’uomo giunge a convincersi che le cose, per quanto solidificate nella Barriera divina, non sono di per sé assolutamente ostili al cambiamento, ma a un certo punto si rendono disponibiliaessoealleforze divine e umane che lo determinano. (Anche divine, perché Dio, ritirandosi dallo sguardo dell’uomo, non rimane poi inerte, ma interviene continuamente nellevicendedelmondo.Elo fanno anche gli dèi che non figurano nelle religioni del Libro.) Il diventar altro delle cose del mondo visibile si colloca quindi ben presto sul tronodell’evidenzasupremae imprescindibile. La visibilità del mondo è innanzitutto la visibilità del diventar altro. Che qualcosa sia «evidente» significa, nell’uomo più antico, che il qualcosa può esser toccato, fiutato, veduto, udito,gustato. Tuttavia, se da un lato la vita dell’uomo è impossibile senzailsuodiventaraltro,se l’assenza del diventar altro è cioèlamorte,d’altrapartecol diventar altro la morte si ripresenta. Che cos’è innanzitutto la morte se non un diventar altro? Continuando a diventar altro l’uomo continua a morire: prima muoiono tutte le fasi della vita che lui, diventando altro, si lascia indietro; egli diventaaltroinmododiverso, diventa cadavere, con cui i primitivi riescono in vari modi a convivere ossia a considerarlo un modo di essere ancora vivi, un modo dipresentarsiaisopravvissuti da parte di chi ha sottratto la propriavitaallavisibilità. Maildiventaraltro,incui la morte consiste, suscita l’angoscia. Prima, la morte è ilnonriuscireadiventaraltro penetrando la Barriera divina quanto occorre per vivere. L’angoscia determinata dal non riuscire a vivere. Poi la morte è dovuta all’esservi riusciti: è appunto il diventar altro che si libera in seguito all’arretramento della Barriera. Tuttavia di essa l’uomo, scavandola e penetrandola, si è cibato. Mangiando la mela –cioèlaconoscenzacheDio volevatenerepersé–Adamo mangia Dio. Inoltre la Barriera ha ripristinato la propria inviolabilità iniziale collocandosialdilàdelregno che l’uomo ha ricavato da essa; che è sì il regno della vita,madellavitachemuore. Dopo aver ucciso il divino per poter vivere, l’uomo è spinto dunque ad allearsi al divino per poter trovare in esso il rimedio contro l’angoscia per la morte. Il divino è pertanto sentito come la potenza suprema che può sempre ricostituirsi al di là di ogni ampliamento del regno dell’uomo; è sentito come la dimensione da cui tutto proviene,equindiancheogni regnoumano;èsentitoallora come la dimensione dove tutto deve fare ritorno e trovaresalvezzadallamortee dall’angoscia per essa. Questo sentire si esprime nel mito. Ma il tempo del mito tramonta: irrompe il tempo della forma originaria e tradizionale del pensiero filosofico;iltempodiciòche stiamo chiamando «il Giocatore Bianco». Egli gioca dai Greci a Hegel. E nonintendecertocomegioco quel che fa. Anche perché con lui sulla Terra ha inizio l’evento più decisivo della storia dell’uomo: la volontà diverità,lafilosofia. La vittoria sulla morte è troppoimportanteperl’uomo perchésirassegniadaffidarla allemanidelmito.Perquanto grandesiastatol’aiutocheha dato all’uomo nella lotta contro la morte, il mito rimanepursempre,agliocchi del Giocatore Bianco, immaginazione, fantasia, illusione. È soltanto la volontà – fondata infine su nient’altro che su se stessa – chelarealtàsiafattainmodo da soddisfare i desideri dell’uomo. Assegna alla realtà i tratti che l’uomo desidera che essa abbia. Produce una configurazione della realtà dimenticando di essere il produttore di queste figure. Per questo il mito è così intimamente legato alla poesia. «Poesia» proviene dallaparolagrecapoíesis,che significa appunto, innanzitutto,«produzione». La filosofia si fa carico delcompitodelmito:salvare l’uomo dalla morte. L’angoscia per il diventar altro, cioè per la morte, è chiamata da Platone e da Aristotele tháuma, che innanzitutto – cioè prima ancora di «meraviglia» – significa «angosciato stupore». Appunto perché anche il mito scaturisce da tháuma, Aristotele dice che anche chi dimora nel mito, chi «ama» il mito (philómythos), è in qualche modo filosofo (philosóphos). Malafilosofiaintendelasciar parlare le cose, non sovrapporsi a esse con la fantasia e l’illusione. Intende che siano le cose stesse a mostrarsi, uscendo dal nascondimento in cui la fantasia e l’illusione le rinchiudono. E intende lasciare che si mostrino non in una luce incerta che le renda ondeggianti e instabili, ma nella luce ferma e con stabilità. Appunto per questo la filosofia, apparendo sulla Terra, intende la verità come a-létheia (nonnascondimento; ciò che si nasconde è latente) e come epi-stéme (lo stare che si impone «su», epi, ciò che vorrebbe smuovere il sapere ilcuicontenutosta).Tradurre epistémecon«scienza»,come comunemente accade, è indebolirne essenzialmente il significato. E d’altra parte saràinevitabile,vedremo,che Leopardi prenda esplicitamente in considerazione l’epistéme in quanto tale. Il gigantesco lavoro della filo-sofia sarà scoprirequalisonoitrattidel sapere (sophía, da saphés: «chiaro», «luminoso») il cui contenuto sta senza alcun tremore,echequindinonpuò essere alterato, scosso, negato, né dagli uomini né dagli dèi, né dalla potenza e sapienza di un dio onnipotente. La filosofia che compie questo lavoro, si diceva, è il GiocatoreBianco.Affinchéil contenuto del suo sapere sia inalterabile, incontrovertibile, non tremante, epistéme dunque è necessario che tale sapere si rivolga al tutto, e cioèchequelcontenutosiail tutto. Se fosse soltanto una parte, questa, per quanto garantita,sarebbepursempre indifesadall’irruzionedialtre parti prima ignorate, le quali potrebbero portare con sé forme di conoscenza diverse e capaci di inficiare la stabilità della parte inizialmente conosciuta. E, ancora, per potersi rivolgere al tutto è necessario conoscere in cosa consista il carattereperilqualequalcosa può appartenere al tutto. Si scoprirà ben presto che tale carattere è l’essere; e che il tutto è la dimensione al di là della quale non c’è alcun essere, ossia l’al di là della qualeènulla,l’assolutamente nulla. D’altra parte l’epistéme evoca il nulla anche perché essa spinge all’estremo il diventaraltroedaaltro:come giàsièdetto(cfr.cap.2)èla filosofia come epistéme della veritàapensareildiventarda nulla e il diventar nulla. Accadequindichelafilosofia evochil’angosciaestremache siproducequandolamorteè il diventar nulla. Propriamente, il tháuma da cui nasce la filosofia e che essaintendesuperareèquesta estrema angoscia che la filosofia stessa ha prodotto. Come, nel mito, è la volontà di diventar altro – per poter vivere e, non più soffocati dalla Barriera demonica, per evitare la morte – a spingere nelle braccia della morte, di cui il diventar altro è l’essenza, così, nell’epistéme della verità, è la volontà che la vittoria sulla morte sia il contenuto di un sapere incontrovertibile a liberare la formaestremadellamorte. Quindi l’epistéme della verità richiede la forma più potente di rimedio. L’epistéme si costituisce come metafisica e ritiene di essere in grado di mostrare che il diventar altro sarebbe impossibile se, al di là di esso, non esistesse l’Essere immutabileedeterno,chegià da sempre e per sempre contiene e conserva tutto ciò che nel diventar altro viene prodotto e distrutto. La dottrinaplatonicadelleideeè la prima grandiosa espressione di questo atteggiamento dell’epistéme. La morte è vinta perché ciò che più conta per l’uomo è eternamentesalvoneldivino. Ma la filosofia richiede il rimedio più potente perché il diventar altro, in ogni sua forma, è da essa inteso come trattoessenzialedelcontenuto dell’epistéme, ossia come l’evidenza incontrovertibile e assolutamente originaria, la quale non è il semplice esser vedute, toccate, udite delle cose, ma è la manifestazione dell’unità che raccoglie in sé quell’esser vedute, toccate, udite e, insieme, i tratti della dimensione affettiva e mentale: l’«esperienza», l’unità dell’«osservabile», l’appariredelmondo. Sipuòdirechequestosia ilnucleodellasapienzacheil Giocatore Bianco fa valere fino al XIX secolo e che s’irradia nelle diverse forme di conoscenza e di vita della civiltàoccidentale. 5 Lapartitatrail GiocatoreBiancoeil GiocatoreNero Abbiamo introdotto la parola «partita» perché è costruita sul verbo «partire», che significail«dividersi»,quindi l’«allontanarsi»(delle«parti» l’una dall’altra). Ci si può dividere e allontanare anche dalla verità, e mostrare di essere nell’errore. In questo sensochi«hapartitavinta»è la verità. Ma quale verità? ParlandodeidueGiocatori,ci riferiamo al modo in cui la verità è intesa all’interno della fede nel diventar altro. Edèall’internodiquestafede –stiamopermostrare–cheil Giocatore Nero ha partita vinta. Può sembrare strano o addirittura inverosimile che un«poeta»abbiapartitavinta sulla gigantesca sapienza dellatradizioneoccidentale.E ancor più inverosimile se si tien presente che vince la partitaquandoèpocopiùche ventenne.Sembrerebbemeno inverosimile – ma solo per qualcuno–seciriferissimoa Nietzsche. D’altra parte Nietzsche, che mostra di conoscere Leopardi, rispetto alla tradizione occidentale gioca la stessa partita di Leopardi;eanchesenonpuò conoscere i Pensieri compie nella sostanza le loro stesse mosse(andandopoioltrecon la dottrina dell’«eterno ritorno»). «Io era spaventato nel trovarmiinmezzoalnulla,un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tuttoènulla,solidonulla»(P 85).Dicevonelcapitolo3che questo pensiero del 1819 è l’anticipazione dei risultati a cui Leopardi perviene due anni dopo attraverso la loro fondazione. La fondazione è ciò che più conta. È il momento decisivo, senza il qualenonc’èfilosofia. Senza questa fondazione quel «considerare» e «sentire»èsoltantounafede, uno stato d’animo, che magari presagisce semplicemente le cattive condizioni di salute in cui Leopardi verrà sempre più a trovarsi lungo la sua breve vita. Nel 1832 Leopardi scriveva al filologo e amico svizzeroLuigiDeSinneruna celebre lettera, in cui esclamava che «è stato per effetto della vigliaccheria degli uomini, che hanno bisogno di esser convinti del pregio dell’esistenza, che si sonvoluteconsiderarelemie opinioni filosofiche come risultato delle mie sofferenze particolari, e che ci si ostina ad attribuire alle mie situazioni materiali ciò che dev’esser attribuito solo al mio intelletto [«in base alle mie ricerche», aveva scritto pocoprima].Primadimorire [Avant de mourir], mi accingo a protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità, e a pregare i miei lettori di sforzarsididistruggerelemie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che di accusarelemiemalattie». «Osservazioni» e «ragionamenti». Nel giugno 1820 (P 140-41) indica il primo tratto della sua fondazione. Esso riguarda, appunto, l’«osservazione» e indica l’«osservazione» originaria: la «fatale e sensibile evidenza». Evidente è ciò che non richiede nient’altro per essere affermato;edèessoastareal fondamento di ciò che non è per se stesso evidente. Ebbene, la «fatale e sensibile evidenza» è l’evidenza della «vanità delle cose», cioè la loro«nullità»,lanullitàchea esse compete per il loro venire dal nulla e il loro ritornarvi. Il testo si sta riferendo all’«impossibilità di esser felice a questo mondo» (corsivo mio) e pertanto l’evidente «nullità di tutte le cose» non può essere la nullitàdiunaltromondo,che non può essere sensibile, che cioè non è «fatale e sensibile evidenza». Intendo dire che Leopardi non sta presupponendo arbitrariamente che tutte le cose–sensibilienon–siano vanità e che ciò sia evidente: chetutte le cose siano vanità è appunto quanto le sue osservazioni e i suoi ragionamenti intendono fondare. In questo testo Leopardi affermainvececheèevidente che le cose di questo mondo sensibile sono vane e nulle, ossiasporgonoprecariamente dal nulla. «Sensibile» significa innanzitutto esser «presente, manifesto in carne eossa»,epertanto«provato», «vissuto»dall’uomo.Ciòche è «sentito» è evidente: «certezza e sentimento vivo della nullità di tutte le cose [di questo mondo] e della impossibilità di esser felici a questo mondo» (ibid.). L’affermazione di questa «evidenza» è costante negli scritti di Leopardi. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro,peresempio,scritto nel 1824, si legge: «Nessuna cosacredosiapiùmanifestae palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi»; «necessaria» perché è immediatamente connessa alla manifestazione e palpabilità della nullità di tuttelecosedelmondo. Fino a questo punto, d’altraparte–edèimportante ribadirlo – il Giocatore Nero è completamente d’accordo col Giocatore Bianco. È anzi dal suo inizio greco che la tradizione filosofica dell’Occidente (il Giocatore Bianco) afferma l’evidenza originaria del diventare non essere e dal non essere, da parte degli enti. Il Giocatore Nero avrà partita vinta partendo dalle stesse premessedelsuoavversario. Va anche detto che, all’interno della fede nel diventaraltro,questoaccordo è inevitabile. Ma questa è un’affermazione che nessuno dei due Giocatori può pronunciare, appunto perché per essi il diventar altro è l’«evidenza» indubitabile e innegabile, non è una fede. Chesiaunafede,soltantouna fede, lo dice il Terzo Giocatore, che per ora sta limitandosi a raccontare la storiadellapartitatraglialtri due. Ladifferenza–estrema– chesussistetraquest’altridue Giocatori sta nel fatto che quello Bianco ritiene che il diventar nulla e da nulla sarebbe impossibile (cioè in se stesso contraddittorio) se non esistesse un Essere immutabile(ilmondosarebbe impensabile se non esistesse Dio); quello Nero, invece, mostracheildiventarnullae da nulla sarebbe impossibile se un Essere immutabile esistesse (impensabile, il mondo,seDioesistesse). Leopardi ha ragione nell’individuare nell’Idea di Platone la forma più caratteristica dell’Essere immutabile. Sin dalle primissime pagine dei Pensieri la chiama «prototipo», cioè «modello primario»; pochi anni dopo è indicata come il «tipo assoluto, universale, immutabile, necessario, naturale, preesistente» (P 1187). Preesistente: che esiste già prima (in quanto immutabile, necessario, eterno) dell’incominciare a esistere da parte delle cose cheesconodalnulla–eche, se è conosciuto dall’uomo, è il contenuto di una conoscenza «innata». L’Idea èilmodelloacuilecosedel mondo debbono necessariamenteadeguarsi. Ora, l’«esperienza» è costituita «dalle nostre sensazioni». In P 1339 (che conlepagine1340-42,scritte nel1821,formaedesprimeil nucleo della mossa vincente del ventitreenne Giocatore Nero) si afferma che l’esperienza «deriva» dalle nostresensazioni.Masitratta del «derivare» per il quale l’esperienza è appunto l’insieme, l’unità delle nostre sensazioni. L’esperienza e le sensazioni sono l’evidenza originaria e indubitabile. Le «sensazioni» infatti, per Leopardi, non sono semplici dati di senso privi di coscienza: sono la coscienza dellaloroindubitabilità. «Nostre maestre», esse «c’insegnano» qualcosa di essenziale e di decisivo. «C’insegnano che le cose stanno così, perché così stanno, e non perché così debbanoassolutamentestare» (P1339-40),ossialodebbono perché i loro prototipi glielo impongono. Nell’esperienza le cose si presentano cioè in un certo modo. L’esperienza mostra la voce, il volto, la gioventù e la primavera di Silvia.Mostrachecosìstanno le cose. Ma non mostra che così debbano assolutamente stare.Anzi,mostrachequella voce,quelvolto,lagioventùe la primavera sono passati. «[…] Ahi come, / come passata sei, / cara compagna dell’età mia nova, / mia lacrimata speme!» Sono passati come sono venuti. L’esperienza mostra che Silvia ha incominciato a essereecheprimanonera,e pertanto ha incominciato a essere venendo dal nulla di ciòche,nellasuadeterminata individualità, è stata; l’esperienza inoltre mostra che Silvia ha cessato di essere, non è più ed è diventata nulla. Non sarà «mai più». E l’evidenza dell’esperienza non può esseresmentita. MaseesistesseunEssere eterno, se l’Idea esistesse, se esistesse il «tipo assoluto, universale, immutabile, necessario, naturale, preesistente», cioè esistente primaedopol’esistenzadelle cose del mondo, allora esisterebbe il modello al quale è necessario che tali cose si adeguino, ossia il modello per il quale le cose stanno così perché così debbonoassolutamentestare. In tal modo, l’ammaestramento dell’«esperienza» e delle «sensazioni», che è l’evidenza indubitabile – e che è evidenza indubitabile anche per Platone e per il pensiero dell’Occidente in generale – verrebbe a essere smentito, negato. Se le cose stanno così perché l’Idea impone loro di essere come stanno, esse non sono più un venire dal nulla e un ritornarvi, ma sono un venire dagli ordini del preesistente edeternoOrdinamentodivino secondo il quale il mondo esiste, e un ritornare a tale Ordinamento. L’esistenza dell’Idea e di ogni Eterno trasforma in ente il nulla da cui gli enti sporgono provvisoriamente, cioè cancella il divenire, il diventaraltro. Ma l’evidenza del diventar altro non può essere smentita. Dunque quell’Ordinamento non può esistere. Dunque nessun Essere eterno può esistere. «In somma, il principio delle cose […] è il nulla». E, ormai,ilnullaèilprincipiodi tutte le cose. «Certo è che, distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio» (P 1340). Leopardi fonda la necessità della «morte di Dio» sessant’anni prima che venga mostrata dallo Zarathustra di Nietzsche, e mostrata con un andamento concettuale analogoaquellodiLeopardi. Propriamente, all’inizio del Pensiero che termina affermando la distruzione di Dio,iltestodice:«Insomma, il principio di tutte le cose, e diDiostesso,èilnulla».Ma il fatto che al termine di questo stesso Pensiero, cioè dopo una trentina di righe, Leopardi scriva che, distrutte le Idee platoniche, «è distrutto Iddio» non è un’incredibilecontraddizione. Il Dio a cui si riferisce all’iniziononèinfattiilDioa cui si riferisce alla fine. (E non mi sembra una circostanza del tutto estrinseca che all’inizio Leopardi scriva «Dio» e inveceallafine«Iddio».) Giànel1820,infatti,inun altro grande gruppo di Pensieri, dedicato al cristianesimo, Leopardi scrive:«Lanaturaèlostesso che Dio» (P 393). Sta riferendosi alla natura come «desiderio infinito del piacere»,ossiacomeimpulso acoprirelaveritàangosciante della nullità e vanità delle cose. Al di là di ciò che il cristianesimo crede di sapere del suo Dio, il Dio del cristianesimo è, in verità, quell’umano desiderio infinito. Tale desiderio proibisce ad Adamo di conoscerelaverità;glidicedi non conoscerla, se non vuole morire. Si tratta di una delle interpretazioni più originali e profondedelcristianesimo. Ma intanto è chiaro che, in P 1341-42, mostrando l’inesistenza di ogni Essere eterno, Leopardi sta mostrando che il nulla è il principioanchedel«desiderio infinito di felicità», ossia di questo«Dio»cheèlanatura. Qui sta dicendo che, nel divenire, il principio da cui provengono tutte le cose, quindi anche la naturadesiderio-Dio,èilnulla.Alla fine di questo Pensiero, invece, quando sostiene che la «distruzione» delle Idee platoniche preesistenti è la «distruzione» di Dio, Leopardi intende affermare che le Idee e il Dio come Essere eterno non sono mai esistiti,echela«distruzione» di cui egli sta parlando è l’accertamento dell’impossibilità di tale esistenza. La morte di Dio non è cioè un processo, un realedivenireincuidapprima Dio esiste e poi non esiste più; ma l’accertamento che l’Essere eterno è solo il contenutodiunaimmensaed erroneaillusione. Il genio filosofico di Leopardi conduce l’Occidente di fronte all’impossibilità di negare la nullità e la vanità delle cose. Conduce inevitabilmente allo spettacolo spaventoso della verità, ossia a ciò che in generesitememache–privi di quel genio, e avendo del resto «bisogno di esser convinti del pregio dell’esistenza» – si può credere che non esista, come tuttora avviene negli epigoni dellatradizioneoccidentale.È quel genio a mostrare che la vera e insuperabile condizione umana, al di là delle illusioni, è la nullità della vita: «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tuttoènulla,solidonulla». 6 Ilfilosofo,ilpoeta; loroseparazioneeloro unità Il Giocatore Nero ha partita vinta giocando sulla stessa scacchiera di quello Bianco. Non si tratta di una concessione, quasi che il GiocatoreNeroabbiaunasua propria scacchiera alla quale abbia provvisoriamente rinunciato: il Giocatore Bianco, infatti, ha preparato la scacchiera su cui gioca l’intera storia dell’Occidente e ormai del Pianeta. È il Bianco, infatti, ad aver evocatoquellaformaestrema del diventar altro che è il diventar nulla e da nulla, e che, rigorosamente pensata, conduce inevitabilmente ad affermare che il nulla è il principio di tutte le cose. In altre parole, è il Bianco ad aver evocato l’epistéme della verità,nellaqualesiafferma, per la prima volta, quella forma estrema del diventar altro che ancora essa consideracomeindubitabilee fondamentaleevidenza. Leopardi, dopo aver richiamato un passo di DiogeneLaerzio,dovesidice cheperSocrate«vièunsolo bene, l’epistéme, e un solo male, il non sapere [ten amathían]», commenta: «Oggidì possiamo dire tutto l’opposto, e questa considerazione può servire a definire la differenza che passa tra l’antica e la moderna sapienza» (P 231, settembre 1820.) Possiamo diretuttol’opposto,nelsenso che, avendo avuto partita vinta sul Giocatore Bianco, dobbiamo dirlo. E «tutto l’opposto»èchevièunsolo bene, il non sapere (amathía), e un solo male, l’epistéme (máthos): la conoscenza della verità. È questaconoscenzaafarsìche il Giocatore Nero, appena vi perviene, «si senta come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solidonulla». In questa fase della sua riflessione–nellafasecioèin cui Leopardi, come vedremo, considerasolounodeifattori della situazione in cui ci si può trovare conoscendo la verità – egli giunge a far pronunciare da Eleandro, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, la condanna più radicale della filosofia in quanto conoscenza della verità.EleandroèilGiocatore Nerochecondannasestesso. Dice: «Dunque s’ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezionedell’uomoconsiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dall’ignoranza,echeilgenere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o il più degli uomini conosceranno il vero». Sarà invece necessario affermare che le verità della filosofia «debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. Il che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo» e che «l’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta,siè,chenonbisogna filosofare.Dalches’inferisce che la filosofia, primieramente, è inutile, perchéaquestoeffettodinon filosofare [ossia: per arrivare a non filosofare] non fa di bisogno esser filosofo; secondariamente è dannosissima, perché quella ultimaconclusione[ossiache è dannosissima] non vi si impara se non alle proprie spese,eimparatachesia,non si può mettere in opera, non essendo in arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute […]. In somma la filosofia, sperando e promettendo a principio [in unprimotempo]dimedicare i nostri mali, in ultimo si riduce a desiderare invano di rimediareasestessa». Il nome «Eleandro» significa «colui che nutre pietà» (o il «nutrir pietà», eleéin) per l’uomo (anér). Avendopietà,tentadievitare che gli uomini conoscano la verità. (È lo schema del Grande Inquisitore di Dostoevskij, dove Ivan è in qualche modo un alleato del Giocatore Nero.) Propriamente, ha pietà per la gente comune; e Leopardi condanna la Rivoluzione francese in quanto volontà che la Dea ragione – quindi, in sostanza, la filosofia – divenga la Dea delle masse. Eleandro-Leopardi crede che la filosofia dell’Illuminismo apra la strada al disincantamento al quale egli è pervenuto. Leopardi scrive erendenotalaveritàsoltanto aidottidelsuotempo,versoi qualinonsisenteindoveredi nutrire troppi sentimenti di pietà. Eppure, come abbiamo incominciato a dire sopra, in questo capitolo, Eleandro esprime solo una fase della riflessione di Leopardi sulla verità: solo uno dei fattori della situazione in cui ci si può trovare conoscendo la verità. Nel canto La ginestra compare la «nobil natura» (cfr. cap. 3). E in posizione centrale,vv.111-117,giacché la ginestra è la stessa nobile natura. Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con francalingua, nulla al ver detraendo, confessailmal che ci fu dato insorte, eilbassostato efrale;[…] Compare,qui,unanaturache «s’ardisce». Per Eleandro inveceèpietà,nonardimento, nascondere la verità all’uomo. All’opposto, la nobile natura ha l’ardimento disollevaregliocchisulfato comune,ilmaledatoinsorte all’uomo, guardando la verità: «nulla al ver detraendo»,senzanascondere alcunchédiciòchediessafa piùmale.Eguardarelaverità è il compito della filosofia. Allanobilenaturacompetedi essere filosofo, anche se non lecompetesoltantoquesto. Essendo nobile, la filosofia non è dunque, come invece afferma Eleandro, né «inutile»,né«dannosissima», né «si riduce a desiderare invano di rimediare a se stessa». Eleandro, d’altra parte, parla della filosofia considerandola nel suo isolamento,nelsuononesser accompagnata da nient’altro; e in questo senso il discorso di Eleandro è ineccepibile. Ma se la nobile natura non può non pensare la vera filosofia, essa non è soltanto questopensare. Leopardi sa bene che nobilis è riconducibile a nosco e che quindi indica coluialqualespettadiessere noto, riconosciuto, visibile, celebrato. Alla nobile natura spetta di essere riconosciuta perché, innanzitutto, conosce la verità: vede il «comun fato»: l’inimicizia (La ginestra,v.126)chel’«empia natura» (v. 148) ha per l’uomo (l’empia natura, nemica sia della nobile natura, sia della natura in quanto desiderio infinito di felicità). Vede quindi la stoltezza(v.138)dellaguerra tra gli uomini, che dimenticano la comune nemica, «e tutti abbraccia / converoamor»(v.132).Non l’amoreelapietàdichicrede nell’esistenza di un Dio eterno da cui può esser salvato. Se la pietà di Eleandroglifadirecheperla gente è estremamente dannoso conoscere la verità, la nobile natura pensa invece chelaconoscenzadellaverità (il«veracesaper»,v.151)da parte dei popoli possa ricostruire in essi quell’originario atteggiamento di solidarietà che consente loro di difendersi per qualche tempo dall’ostilità dell’«empia natura». Quando questo avverrà,alloralagiustiziaela pietà avranno un senso diverso da quello da esse mostratoquandononsivuole vedere la nullità di ogni cosa («e giustizia e pietade, altra radice/avrannoallorchenon superbefole»,vv.153-54). Ma, ancora una volta, il pensiero di Leopardi non si sta contraddicendo, perdendo il controllo delle proprie affermazioni. All’opposto, esso è straordinariamente rigoroso. Primo: Leopardi consideral’atteggiamentoche nell’Infinito ha una delle sue più alte espressioni, l’atteggiamento dell’anima che si rifugia nell’illusione (l’illusione che l’uomo si possa salvare dal nulla), vi si chiude, si isola dalla verità terribile, e quindi, non potendo nemmeno sapere alcunché del suo essere illusione e di questo suo rifugiarsi e chiudersi in essa, vive e sente come realtà l’infinito e l’eterno. L’illusione in cui l’anima si chiudeèlapoesia,ilcanto.E Leopardi non si limita a considerareilcanto,macanta nelmodopiùalto.(Etuttavia, considerando questo atteggiamento, Leopardi sta al di sopra di esso: è il filosofare che comprende il sensodelpoetareedelcanto.) Secondo: Leopardi considera l’atteggiamento opposto, come accade nel Dialogo di Timandro e di Eleandro; dove, appunto, si considerailpurofilosofare(si considerailconsiderare),cioè la filosofia chiusa in sé e separata dalla poesia, dal canto. Terzo:Leopardiconsidera l’unità dei due atteggiamenti cui nelle prime due considerazioni ha guardato separando l’uno dall’altro. Uno dei culmini di questo guardare a tale unità è La ginestraoilfioredeldeserto. Laginestraèuncanto.Canta l’unità del canto, ossia dell’illusione, e della verità. La nobile natura è questa unità. Anche nei Pensieri questa unità è ampiamente e benprestopresente.Espesso l’andamentodiquestiappunti ha la grandezza di un canto. Sitrattadicapireperchéein che senso l’unità del canto e della conoscenza della verità non sia un’inguaribile contraddizione. NellaGinestralapoesiaè poesia dell’unità della poesia e della visione della verità. Nella poesia di questa unità c’èlapoesiachecontienetale unità,echeèlosplendoredel canto La ginestra, e c’è la poesia cantata. La poesia cantata è appunto la ginestra, ilfioredeldeserto. Qui su l’arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo, la qual null’altro allegra arbor néfiore tuoi cespi solitari intorno spargi, odorata ginestra, contenta dei deserti.[…] (vv.1-7) «Qui», è la prima parola del canto.Lapuòdirechisitrova lì,dovesitrovalaginestra.E lì si trova il cantore. Lo dice eglistesso: Sovente a questerive, che, desolate, abruno veste il flutto indurato, e par cheondeggi, seggo la notte; […] (vv.158-61) Einquestostarenotturnodel cantoresirispecchialarovina cheavvolgeilfioregentile: […] Or tutto intorno Una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, […] (vv.32-34) Ilcantorevedesestessonella ginestra. Anche perché egli vede se stesso nella nobile natura, la quale «tutti abbraccia/converoamor»e porgeloroaiuto(vv.132-35), così come, dice il cantore rivolgendosialfioregentile, […]equasi i danni altrui commiserando, alcielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola.[…] (vv.34-37) Il deserto è l’uomo. L’empia natura (di cui il Vesuvio «sterminatore» è l’icona) lo ha reso un deserto. La ginestra lo consola col suo profumo. Il cantore è la nobile natura; essa è il cantore, è cioè la ginestra. Il profumoèilcantodelfiore;il profumo è la poesia. Cantando la ginestra, La ginestracantalapoesia.Maè una poesia che viene cantata dalla nobile natura e quindi non detrae nulla alla verità: poesia che sta unita alla verità. La nobile natura è questaunità.Leopardichiama «genio» questa vivente unità. La ginestra è un’opera del genio. Certo, la presenza della ragione nell’uomo introduce inluiunacontraddizione:egli desidera la felicità, vuole illudersi, ma la ragione, mostrandogli la verità, gli mostra che la felicità è impossibile; tuttavia è inevitabile che nell’opera del genio la visione della verità sia unita all’illusione: a quell’illusione che è la potenzaconcuil’operacanta laverità. 7 Lucidellamorteedel canto Sedici anni prima della Ginestra, Leopardi aveva scritto: «Hanno questo di proprioleoperedigenio,che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia a un’animagrande,chesitrovi ancheinunostatodiestremo abbattimento, disinganno, nullità […], servono sempre di consolazione» (P 259, ottobre 1820). La consolazionedelfiorechecol suo profumo «il deserto consola». Infatti un’opera è del genio quando in essa «lo stesso conoscere l’irreparabile vanità e falsità diognibelloediognigrande è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima»(P 260). Tale opera è quella dell’arte e della filosofia(P 1189). Il genio e l’«animagrande»checapisce lasuaoperavedonochetutto è preda del nulla, ma la potenza con cui lo vedono li trattiene, sia pure provvisoriamente, al di fuori delnulla. L’«anima» che capisce l’opera del genio è «grande» perché è essa stessa genio. Nel Pensiero del 1820 si guardaallasalvezzadeigeni, e anche per loro, per i pochi, l’unica salvezza possibile è breve:nellaGinestrasipensa untempofuturoincuil’opera del genio possa diventare palese a tutti («Così fatti pensieri / quando fien, come fur,palesialvolgo»,vv.14546);maancheperlaginestra, che è la nobile natura del genio, la salvezza è breve: «anche tu presto alla crudel possanza / soccomberai del sotterraneo foco» (vv. 30001). Le opere del genio «dimostrano evidentemente e fanno sentire» il nulla e l’infelicità: alla crudele «possanza» del fuoco, cioè dell’annullamento, oppongonola«forza»concui rendono palpabile e fanno sentire quel fuoco. «Il sentimento del nulla è il sentimentodiunacosamorta emortifera»(P 261). Il nulla uccideilsentimentoconcuiè avvertito. È appunto «mortifero»;edopoaverreso indifferente e insensibile chi lo sente, lo annulla. («Giacché non è piccolo effetto della cognizione del gran nulla, né poco penoso, l’indifferenza e insensibilità che [tale cognizione] inspira ordinarissimamente, e deve naturalmente inspirare, sopra lo stesso nulla», ibid.). Leopardi chiama «noia» questosentimentomortifero. Ma nel genio il sentimento del nulla è vivo, potente, e allora «la sua vivacitàprevale»sullanullità di ciò che tale vivacità fa sentire: «l’anima riceve vita, senonaltropasseggiera,dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e suapropria»(ibid.).Quelche «veduto nella realtà delle cose accora e uccide l’anima», veduto invece nell’opera del genio «apre il cuoreeravviva»(P260).Ciò chesifavederenellarealtàè laverità,elaveritàfavedere il nulla di ciò che è reale. Questa visione uccide l’anima,larendeinsensibilee indifferente. Ma la forza con cuiilgenioesprimelavisione della verità fa sì che tale visione apra il cuore e lo ravvivi, faccia sentire vivi, capacidiresisterealnulla. E il genio si sente ben vivo nella cura appassionata chehaperilsuolavoroeper il suo mostrare la nullità di ogni cosa e sua propria. È la cura estremamente appassionatachehaLeopardi per il proprio modo di esprimere quella nullità. Egli stesso, nel rilevare quanto «studiosamente» il genio la esprima (ibid.), rinvia alle pagine 214-15 del suo manoscritto, dove egli parla disé,eallargandoildiscorso a«tuttigliscrittori»ea«tutti ifilosofi»che,«dipingendola disperazione e lo scoraggiamento totale della vita», hanno la potenza del genio, si chiede: «Ebbene? Contuttalalorodisperazione passata, con tutto che scrivendo sentissero vivamentelanaturaelaforza di quelle acerbe verità e passioni che esprimevano […], e per conseguenza sentissero e avessero quasi perlemaniilnulladellecose, tuttavia si prevalevano [si servivano] del sentimento stesso di questo nulla per mendicar gloria […], e col desiderio della morte vivamente sentito, e vivamente espresso, non cercavano altro che di procurarsialcunipiaceridella vita». Che l’anima riceva vita dalla forza con cui sente la morte delle cose e la propria nonèperòunasituazioneche siproducesoltantonell’opera del genio. Qui si produce nel modo più potente, perché dopol’irruzionedellaragione nell’uomoilgenioproducele illusioni più potenti. Ma vi sono altri modi, che riguardano tutti coloro che soffrono. Il Pensiero 140-41 (scritto qualche mese prima di P 259-60) dice per esempio: «Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose». Questo «affogamento» (che è il soffocamentodicuiparlainP 85) è ben peggiore di quel dolore. (Tale dolore nasce dalle grandi illusioni, nel senso che si produce quando a esse subentra la delusione.) Infatti quel dolore «ha più della vita» – possiede maggiormente il carattere dellavita–,«èpienodivita», mentre l’altro dolore, che consiste in quell’«affogamento»,«ètutto morte». Tanto che, rispetto a esso, la morte stessa «è cosa piùviva».Mentreesso«èpiù sepolcrale, senz’azione senza movimento senza calore, e quasisenzadolore».Anchein questo caso, quindi, il dolore che nasce dalla sventura, e che quindi vede in modo più o meno esplicito la nullità di ciò che si ama, riceve vita dalla forza con cui sente la morte.Poichélanobilenatura vede e sente con maggior forza la morte, tale natura (che può esistere solo se la ragione l’ha corrotta) è la maggior sofferente. Ma c’è quell’altro dolore «più sepolcrale» «e quasi senza dolore»cheèla«noia». D’altra parte, se conoscerelanullità dituttoè conoscenzadellaverità,allora – e Leopardi lo rende esplicito – anche la stessa «forza» con cui l’anima del genio conosce la verità è illusione, ossia opera della naturacomedesiderioinfinito di piacere, di vita felice; e, perottenereciòchedesidera, ildesideriodeveilludersi.Da quando la ragione ha fatto irruzione in questa natura, la nobile natura è la forma più alta di tale desiderio. In essa l’illusione è unita alla verità nonperchél’unapossaessere (contraddittoriamente) l’altra, maperchélapotenzaconcui il genio esprime la verità, cioè la vittoria del nulla su tutto, gli dà l’illusione di poter vincere il nulla e in qualche modo di essere eterno. Lanobilenaturadelfiore del deserto continua a esprimere la propria finitezza e non eternità. Il suo canto contiene alcuni dei momenti più alti della lirica di ogni tempo.Peresempioilgrande notturno dove il poeta, sedendo sulle «rive» «desolate» del vulcano guardailcielo. Un «crescendo», dove il fuoco«indurato»dellalavasi scioglie e si rispecchia, sempre più vasto, nel «purissimo azzurro» (vv. 158-185): «Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle» che agli occhi «sembrano un punto,/esonoimmense»,«e quando miro / quegli ancor più senz’alcun fin remoti / nodi di stelle», ai quali non solo l’uomo e la Terra, ma perfino l’«aureo sole» e le nostrestellesonosconosciuti, «al pensier mio che sembri, allora,oprole/dell’uomo?». Certo, questa prole è nulla,malapoesia,checanta l’infinito fiammeggiare delle stelle,riesceacontenereinsé quell’infinito e a mantenersi in qualche modo al di sopra deltempo.IlcantoL’infinito, dovelapoesianonviveunita alla filosofia, si illude che l’infinito sia il contenuto reale a cui essa si rivolge. Nella Ginestra, dove invece la poesia vive unita alla verità, e pertanto alla filosofia, il canto evoca ed è esso stesso l’infinito, nel sensochel’infinitoèlaforma del canto, l’«aura» che è propriadelpoetico(P 136) e cheavvolgelaveritàterribile delsuocontenutoreale. Prima di dare inizio al canto della Ginestra, Leopardiriportaunpassodel Vangelo dell’apostolo Giovanni: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce» (III, 19). Ma ne rovesciailsenso.Lacitazione è dolentemente ironica. Per Giovanni la «luce» (phos) è Cristo, che però riesce infine a vincere la morte; Leopardi, invece,hamostratoormaiche la luce è quell’unità di verità e di poesia che si produce nella nobile natura del genio, dove la verità è la vittoria definitiva della morte e del nulla. Il fuoco del vulcano è l’immagine della morte. Il fiore gentile sta sull’«arida schiena»dellamorte.Ciòche perGiovanniè«laluce»,per Leopardisono«letenebre». Certo,anchequelfuocoè «luce»: «sinistra face» (v. 284). Essa si rispecchia nell’uomo e nell’uomo diventatonobilenatura:c’èil «peregrino», il viandante che vede e in cui si rispecchia l’aggirarsi del fuoco sinistro tralevuoterovinediPompei; e ci sono le opere del genio che «raccendono l’entusiasmo»(P260). Riaccendono l’«essere ispiratidaldio»,iltrovarsiin qualche modo dinanzi all’eterno e all’infinito. Accendereprovienedallatino candere, «essere abbagliante, splendente», e questa è appunto la proprietà della «luce». L’opera del genio rimette in luce il trovarsi in qualche modo dinanzi al divino,eternoeinfinito. Sisonocioèpresentatitre sensi della «luce», che si implicano a vicenda: la luce delfuocoannientante(laluce terribile della verità); il rispecchiarsi di esso nella coscienza dell’uomo, che tenta di difendersene con le illusioni procacciategli dalla natura (in quanto desiderio infinito del piacere); il rispecchiarsi di tale fuoco nella potenza con cui viene espressonell’operadelgenio. Lo «scheletro» della città distrutta dal vulcano viene dissepolto: e dal deserto foro diritto infra le file dei mozzi colonnati il peregrino lunge contempla il bipartitogiogo e la cresta fumante, che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell’orror della secreta notte per li vacui teatri per li templi deformi e per lerotte case, ove i parti il pipistrello asconde, come sinistra face che per vòti palagi atra s’aggiri, correilbaglior della funerea lava, che di lontan perl’ombre rosseggia e i lochi intorno intornotinge. (vv.274-88) Iprimiduesensidella«luce» sonoquinominati:ilbagliore dellalavaeilsuodiffondersi, oltre che nelle rovine della città, nell’attonita contemplazione del «peregrino». Il terzo senso della «luce», qui, non è nominato,maèilnominante, la luminosa potenza della poesia che nell’atto in cui mostra l’orrore dell’oscurità notturna dove spicca il fuoco annientante sembra sollevarsi su di esso, diffondendo una luce diversa. La stessa dei versi158-85,chesisollevaal di sopra del pur infinito «fiammeggiare», nel «purissimoazzurro»,distelle e di «quegli ancor più senz’alcun fin remoti / nodi quasidistelle»,«cuidilontan fa specchio il mare», e il cantore vede «tutto di scintille in giro / per lo vòto serenbrillareilmondo». Il«purissimoazzurro»eil «vòto seren» guardano da lontano «la mesta landa» su cui siede il cantore; e il «sereno» è «vuoto», il vuoto del nulla, e non può rasserenare l’uomo, perché quel brillare del mondo è la proiezionesultuttodelfuoco annientante del vulcano; o questo fuoco è il prender forma sulla Terra del fuoco cosmico (il «fuoco e le «fiamme» annientanti di cui parla il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco). Nell’incessante produzione e distruzione di cose e mondi, dove solo la morte e il nulla sono l’eterno, quella serenità è la totale indifferenza dell’«empia natura» per la sortedell’uomo. Nel canto, l’annientante fiammeggiare del tutto è nominato. E tuttavia il canto nominante ha l’ardimento di sollevare gli occhi e di tener fermo lo sguardo sul nominato («Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra/alcomunfato»): Sovente a questerive, che, desolate, abruno veste il flutto indurato, e par cheondeggi, seggo la notte; e su la mesta landa in purissimo azzurro veggodall’alto fiammeggiarle stelle, cuidilontanfa specchio ilmare,etutto di scintille in giro per lo vòto serenbrillareil mondo. E poi che gli occhi a quelle luciappunto, (vv.158-67) Sesiconsiderailmodoincui, nel canto, la luce annientante è guardata, allora essa è sovrastata dalla luce del canto:ilpurissimoazzurro,il fiammeggiare e brillare delle stelleedelmondoeilsereno lascianosottodisélapropria forma minacciosa e sono tratti dell’entusiasmo del canto, la luce della sua potenza. E nel canto l’immagine della «sinistra face»chenellanottecorretra irestidiPompeinonhanulla di sinistro, ma «par che ingrandisca l’anima del lettore, la innalzi e la soddisfaccia di sé stessa e della propria disperazione […],el’animaricevevita,se non altro passeggiera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e suapropria»(P261). 8 Lapotenzadella nobilenatura A questo punto della partita tra il Giocatore Bianco e quelloNero(doveilTerzo,in sostanza, si è fatto sentire quasi solo per descriverla), c’èforsebisognodidissipare un malinteso che potrebbe sorgereapropositodiquanto si è detto nel capitolo precedente sulla «nobile natura» e sull’«opera del genio». Varibaditocioè,secene fossebisogno,cheilpensiero di Leopardi non ha nulla da spartire con l’atteggiamento dell’«anima bella» che, dice HegelnellaFenomenologia,è quel «rifiuto dell’azione nel mondo» che del resto «porta alla perdita di sé». Non ha nulla a che vedere col rifugiarsi nell’«opera d’arte», nel sentimento «estetico» o «intimistico», o nell’«umanesimo», dove si crede ingenuamente di poter prescindere dalle forze che agiscono nel mondo, come quelle delle armi, della politica, dell’economia, della scienza moderna, della tecnica.Ciònonsignificache le anime belle stiano dalla partedelGiocatoreBianco:le si può trovare sia al suo seguito sia al seguito del Nero. In altre parole, Leopardi le tiene lontane da sé nel modo più fermo. Il pensiero di Leopardi è la dottrina della volontà di potenza. Risulta soprattutto da quanto si è richiamato sin qui a proposito della lotta dell’uomo contro il nulla, e da qualche precisazione che verràoraintrodotta. Per non morire soffocato dalla Barriera che inizialmente lo circonda, si è detto, l’uomo deve diventar altro e far diventar altro il mondo. Ma in tal modo egli evoca daccapo la morte, alla quale credeva di essere sfuggito, in quanto essa appartiene all’essenza del diventar altro. Ed evoca la forma estrema della morte: quellachesiproducequando il diventar altro è pensato e vissutocomeildiventarnulla (cfr. cap. 4. Un quadro, questo ora richiamato, che è piùvolteconsideratoneimiei scritti,machenoncostituisce ancora l’essenza del Terzo Giocatore: potrebbe infatti venir tratteggiato anche dagli altridue). Lalottacontrolamorteè l’agire originario dell’uomo. Ogni altro agire ne è una conseguenza. Secondo uno dei modi centrali in cui Leopardiladefinisce,lalotta contro la morte è la «natura» come desiderio infinito di piacere, cioè di vita, giacché per esser desiderata essa non dev’essere vita infelice ma, appunto,piacere.Elavolontà di vita è volontà di potenza: per vivere, sia pure una vita breve, è necessario avere potenza sulla morte, sulle forze che a essa conducono; insomma è necessario agire. L’uomo è essenzialmente un essere pratico. Ogni tipo d’uomo lo è. Anche l’uomo religioso, contemplativo, metafisico,chesirivolgeesi allea alla suprema potenza di Diovedendoinluilasalvezza dallamorte. Ma «la ragione è nemica dellanatura»(P15).Leopardi incomincia ad affermare questo principio già nei primissimi Pensieri (osservando, a tal proposito: «Gran verità, ma bisogna ponderarle bene»). «La ragione è nemica di ogni grandezza; la ragione è nemicadellanatura;lanatura è grande, la ragione è piccola». Non perché la ragionerimpiccioliscaciòche è grande, ma perché vede la piccolezza di tutto, cioè l’incapacità di ogni cosa di esseregrandeediresistereal nulla;mentrelanatura,cheè «dominata dalle illusioni», ingrandisceilpiccoloeriesce a far sì che le «imprese», le azioni, siano grandi. «Esempio: l’impresa di Alessandro: tutta illusione» (ibid.). Dunque è già uomo pratico il Giocatore Bianco. Quello Nero gli obietta di adottare però una pratica che in fondo risulta incapace di vincerelamorte.IlGiocatore Nero non ritiene di poterla vincere, ma afferma che, per quelpococheèconsentito,si puòviveresoloadottandouna pratica diversa da quella sostenuta dal suo avversario. Affidando cioè non a Dio l’agire salvifico, ma all’uomo, e affidandogli, come forma suprema, più efficace e ultima dell’agire, non l’azione religiosa, morale, politica, economica, tecnica, in quanto guidate dalla ragione, ma l’azione poetica, peraltro a sua volta unita alla ragione. «Poesia», ripetiamo, proviene dalla parola greca poíesis, che innanzitutto significa «produzione». Si agisce solo sesiproduceciòchetieneper un poco lontana la morte. Dopo il fallimento di ogni altra forma di azione, Leopardivedenelcantodella poesia, cioè nell’opera del genio, l’ultima difesa contro ilnulla. Questo discorso fa comprendere, tra l’altro, come «il cristianesimo debba averresol’uomoinattivo»(P 253). Nel cristianesimo, «l’uomo considera questa terracomeunesilioenonha cura se non di una patria situatanell’altromondo»,e«i popoli abituati, massime il volgo,allasperanzadibenidi un’altravita,divengonoinetti per questa, o, se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi azioni»: «il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello, il grande, il vivo, il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall’operare al pensare» e facendo diventare il mondo «monotonoemorto»(P25354). Tutte le forme di azione che falliscono sono quelle guidate dalla ragione o con essa compromesse: dalla ragione che per essere autenticamente se stessa riesce infine a spogliarsi di ogni illusione. Ma, così spoglia,èinevitabilecheessa veda la nullità e vanità di ogni cosa. Il Giocatore Nero l’hamostrato.Cosìspoglia,la ragione spinge nella «noia», nel «sentimento del nulla» («sentimento di una cosa morta e mortifera», P 261), che è «sepolcrale, senz’azionesenzamovimento senza calore, e quasi senza dolore»(P141). Senza azione, senza movimento, senza calore! Leopardi sa bene che le intenzioni della ragione sono ben diverse. La ragione ha sempre inteso essere pratica, ragione che guida l’agire dell’uomo e delle cose verso un progresso senza fine. Leopardi lo sa bene; come costante è la sua critica alle «magnifiche sorti e progressive» del suo secolo («secol superbo e sciocco», La ginestra, vv. 51-53). Ma eglimostrache,nonostantele intenzioni,laragionenonpuò essere pratica, ma, dovendo infine giungere a vedere il nulladituttelecose,conduce a uno stato senza azione, senza movimento, senza calore,chenonlottacontrola mortemadeponenelsepolcro delnulla. Dachelaragionepenetra e si fa strada nel desiderio infinito di piacere, ossia nel mondo delle illusioni, è impossibile che essa non giunga fino in fondo e non scopra lo spettacolo angosciante del nulla. «Oggidì non si può non sapere» (P 214). (Leopardi ritienecioècheladistruzione di Dio trapeli in qualche modo sin dall’inizio della filosofia moderna. E l’irruzione della ragione, come ogni altra cosa ed evento, è senza perché.) Prima dell’avvento della ragione il rimedio contro l’angoscia per la morte è, appunto, il dominio delle illusioni. Esse sono piene di vita,diazione,dimovimento, dicalore.Tuttavia,manmano che la ragione si fa largo in esse, quel dominio perde forza, sebbene Leopardi sottolinei spesso la capacità delle illusioni di riprendersi (sia pure per breve tempo) il terrenoperduto. Ma nel tempo della ragione dispiegata, l’unico rimedio contro l’angoscia della morte è la potenza con cui tale dispiegamento viene espresso. La potenza di questa espressione non può essere data cioè dal linguaggio scientificomatematico, che per la sua «precisione» non può che mettere in evidenza la finitezza e contingenza, quindilanullità,diciòdicui parla. «Tutto il preciso non è naturale» (P 585), non può cioèappartenerealla«natura» intesacomedesiderioinfinito di piacere. Come il cristianesimo non ha cura se non dell’altro mondo, lasciando inattivi gli uomini in questo, così i filosofi, specialmente moderni, lasciano l’uomo nell’inerzia perché lo mettono nelle braccia della ragione. «Assuefatti all’esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di moda oggidì, considerano e misurano la natura con queste norme, credono che il sistema della natura debba corrispondere a questi principii, e non credono naturale quello che non è preciso e matematicamente esatto: quando anzi per lo contrario, sipuòdirtuttoilprecisonon è naturale» (P 584-85). Leopardi non intende affatto sostenere che il non preciso sia reale: reale è proprio il preciso, non è altro che il preciso; ma proprio per questo la conoscenza di esso paralizza,rendeinattivi.«Preciso» proviene dal latino prae-caedere, «tagliar via»: ciò che è pre-ciso è tagliato via dall’illusione dell’infinito e dell’eterno, la quale spinge invece all’agire, alla grande azione. La potenza dell’espressione della nullità dellecoseèdatainvecedalla poesia, dal suo «ardimento» nell’andar oltre la precisione del linguaggio scientifico. È innanzitutto per questo ardimento che la nobile natura del genio «a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato». Leopardi non nega che la ragion pratica abbia la capacità di mettere a disposizione dell’uomo grandiquantitàdioggettiedi strumenti che per qualche tempoglirendonomigliorela vita e allontanano la morte: sostienechelaragionechesta al fondamento della vita miglioratanonpuòinfinedei conti non scorgere la nullità della vita e di ogni suo miglioramento,enonpuònon sapere che quello che si potrebbe chiamare il suo paradiso – il paradiso della scienza e della tecnica – è destinatoatrovarsianch’esso nelle condizioni dello scheletro della città distrutta dalvulcano. È a questo punto che la nobile natura, unendo la ragione alla poesia (avendo l’ardire di non detrarre alcunchéallaverità)diventae sa di diventare la suprema forma di volontà di potenza: la nobile natura è la ginestra che col suo profumo consola il deserto, pur sapendo che «presto» soccomberà anch’essa alla potenza del fuoco annientante (La ginestra, vv. 300-01). E nobile natura non sarà soltanto il genio, privilegiato rispettoatuttiglialtri(cioèal «volgo»), ma anche tutti gli altri, che giungendo a comprendere le parole del genio, e da lui amati e amandolo, sono anch’essi divenuti «anime grandi», al plurale, cioè selve, «selve odorate» di ginestre (ibid., 297-98). D’altra parte, la poesia a cui si rivolge Leopardi (pur sapendo che ormai la si è perduta ma che la nobile natura deve in qualche modo far rivivere), non è la poesia «romantica», «spiritualistica», bensì la poíesis che innanzitutto è produzione, azione, vigore: quella dell’antico poeta cantorecheincital’esercitoa combattere e a vincere e dà spicco all’esultanza dopo la vittoriaeallapaceraggiunta. Lapoesiacheinnanzitutto richiedeil«vigoredelcorpo». Leopardiparlapiùvoltedella propria fragilità fisica, e impreca contro coloro che imputano a essa la propria filosofia. Eppure riconosce sostanzialmente di avere la forza fisica che gli consente diessereilfioredeldesertoe chedifferiscedaquellacheè riscontrabile in lui dal punto di vista medico («Uom di povero stato e membra inferme»,Laginestra,v.87). Per questo egli può immedesimarsi nel «corpo» di cui parla Tristano nel Dialogo di Tristano e di un amico: «Il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere,tuttociòchefanobile e viva la vita [dunque, oggi, innanzitutto il profumo della ginestra], dipende dal vigore delcorpo,esenzaquellonon haluogo.Unochesiadebole di corpo, non è uomo, ma bambino;anzipeggio;perché lasuasorteèdistareavedere glialtrichevivono». La poesia è inseparabile dal corpo. In questo modo si comprende come Tristano possa dire di essere spiritualmente morto («così morto come sono spiritualmente»), chiudendo una sequenza (che anticipa il finale della Ginestra) dove egli dichiara la propria forza di fronte al «destino»: «E di piùvidicofrancamente,ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino,ovengosecoapatti, comefannoglialtriuomini,e ardiscodesiderarelamorte,e desiderare sopra ogni cosa, contantoardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderataalmondosenonda pochissimi.[…]Tropposono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere,cosìmortocomesono spiritualmente,cosìconchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant’anni, quanti mi sono minacciati dallanatura». Le espressioni che ho messo in corsivo indicano appunto una forza che è insieme del corpo e del profumo della ginestra. E il dirsi «spiritualmente» «morto»èriconoscerenonla propria debolezza, ma la morte di quella «spiritualità» (così frequentemente considerata e combattuta nei Pensieri) che promette illusoriamente una qualche formadivittoriasullamorte. 9 Ilsuicidio Che Porfirio, discepolo di Plotino,auncertopuntodella sua vita abbia meditato di uccidersi,echeilsuomaestro l’abbia dissuaso, è storicamente accertato. Ma nel Dialogo di Plotino e di Porfirio i due filosofi rappresentano le due forze chesicombattononell’animo della nobile natura (più volte Leopardi parla, nei Pensieri, del proprio ricorrente desiderio di uccidersi) e che allafinesiuniscono(Porfirio non si uccide e Plotino riconosce le ragioni di Porfirio)manonsieliminano, cioè non eliminano la radice della loro contrapposizione. Che è quel contrapporsi di ragione e natura dove esse si trovano sì unite dalla nobile natura, ma in un equilibrio che è continuamente minacciato dal prevalere dell’unaodell’altra. Plotino chiede a Porfirio di aprirgli il suo animo: in nome del «tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo». E che l’amore sia illusione, e in certo senso lapiùprofonda,legatacom’è al sentimento dell’infinito (P 1017-18), è uno dei tratti dominanti nelle opere di Leopardi. Plotino invita Porfirio a porsi sul piano dell’illusione. E questo sarà l’atteggiamentoconclusivodi Plotino e del dialogo. Porfirio, infatti, non ribatterà più. Ma intanto, all’inizio del dialogo, Porfirio risponde ponendosi invece sul piano della ragione che ormai è giunta «non solamente [a] conoscere, ma [a] vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa». Rifiuta le illusioni. Il desiderio di uccidersi, quindi, non è dovuto a qualche «sciagura» chel’abbiacolpito.«Nessuna cosaèpiùragionevolechela noia»,laquale«nascesempre dalla vanità delle cose» e, solo essa, «non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso». A sua volta, Plotino finirà con l’accettare tutto ciò che Porfirio gli mostra come inevitabilmente implicato dallaragione,maagiràperfar ritornare le illusioni nell’anima del discepolo, in modo che esse prevalgano sullaragione. Non è il caso di cercar corrispondenze tra il Plotino storico e quello del dialogo. Quellostoricoè,ovviamente, una grande incarnazione del Giocatore Bianco, ossia di chi,daunlato,comeSocrate vede nell’epistéme della verità il solo bene, e l’unico male nell’amathía, nel non sapere, ossia nell’illusione; e dall’altro lato pensa che l’epistème mostri l’esistenza dell’Eterno che salva l’uomo dal nulla. È ovviamente un’incarnazione del Giocatore Bianco anche Porfirio, che invece, nel Dialogo, impersona la ragione che, dapprima separatadalleillusioni,lascia infine che esse abbiano a prevalere. Nel Dialogo, Porfirio rifiuta la critica platonica del suicidio, basata sull’inevitabilità della punizione del suicida nell’aldilà. Tale rifiuto era stato sviluppato nei Pensieri, ma in relazione al cristianesimo. Nelle opere pubblicate, viene evitata la critica diretta del cristianesimo. C’è di mezzo la Censura dello Stato della Chiesa. Se l’infelicità dell’uomo è evidente – dice Porfirio –, tuttavia il «fato», che ne è l’autore, lascia all’uomo,come«medicina»e «rimedio», la morte e la capacità di darsela lui stesso. Ma Platone gli toglie anche quest’unico rimedio e gli fa «temere più il porto che la tempesta». In tal modo egli «havintoincrudeltà,nonpur la natura [in quanto «empia madre»] e il fato, ma ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice, che fosse almondo».EPorfiriogridaa Platone: «La natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo sanguinosamente, con istrazio nostro e dolore inestimabile: tu accorri e [impedendoci di uscire col suicidio da questo strazio] ci annodi strettamente le braccia,eincateniipiedi». Plotino risponde che a preoccuparlo non è tanto la proibizione platonica del suicidio, ma la proibizione operata dalla «natura» stessa: «l’uccidersi di propria mano senza necessità, è contro natura […], è l’atto più contrario a natura», per la contraddizione che sussiste, cioè per la «ripugnanza che uno si vaglia [si valga] della vita a spegnere essa vita, che l’essere ci serva al non essere». Plotino apre all’inizio la dimensione dell’amore, cioè dell’illusione,manonintende dimenticare la ragione. Richiama anzi, pur senza nominarlo esplicitamente, uno dei temi fondamentali esplorati da Leopardi nei Pensieri: quello relativo al «principio di non contraddizione». Ma va anche osservato che, mentre Porfirio si era riferito alla «natura» in quanto «empia madre» che rende l’uomo infelice (e che compare verso la fine dei Pensieri), Plotino richiama invecela«natura»che,daun lato (e sin dall’inizio dei Pensieri), è desiderio infinito di piacere e, dall’altro, è l’ambito in cui, appunto, è escluso ogni «principio contraddittorio», quale è innanzitutto l’odio per se stessi, il non voler essere. Cosa, questa, «che non può stare in natura» (P 56). E su questo versante i Pensieri (1597) dichiarano per lungo tempoche«tuttonellanatura è armonia, ma soprattutto niente in essa è contraddizione». Porfirio replica nuovamente e mostra in che senso debbano essere mantenuti entrambi i concetti di natura (secondo quanto abbiamo anticipato nel capitolo 3). La natura, come desiderio di felicità e odio della morte, è anche odio dell’infelicità. Non può esser quindi contro natura fuggire l’inevitabile infelicità della vitatogliendosidalmondo.E infatti se l’uomo si è incivilito, lo ha potuto fare andando contro natura, ossia sviluppandolaragionecontro la «natura primitiva». Ma incivilendosi è diventato infelice. «Ora, se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contronatura,econtronatura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire contro natura?» Vivendo contro natura, l’uomo incivilito ha assunto una «natura nuova», una «seconda natura». Dunque è contro la «natura primitiva» l’uccidersi; ma, uccidendosi, l’uomo incivilito non va contro la sua «seconda natura», da cui è ormai avvoltoepenetrato. Plotino è d’accordo. «Così è veramente, Porfirio mio.»Sulpianodellaragione ildiscorsodiPorfirioèanche perluiinconfutabile.Nelsuo ultimo e conclusivo intervento, infatti, egli «prega» Porfirio; a proposito del suo disegno di uccidersi lo prega di affidarsi all’illusione: «piuttosto alla natura che alla ragione». Ma riferendosi alla «natura primitiva», la intende come «madre nostra e dell’universo». Unisce cioè (conungestocheperaltrogià serpeggia nelle parole di Porfirio) la «natura» come desiderio di felicità alla «natura» che nella Ginestra sarà chiamata «empia madre».Aprimavistaquesto discorso è sorprendente. Pregando Porfirio di dare ascolto alla natura e non alla ragione, aggiunge infatti: «E dicoaquellanaturaprimitiva, a quella madre nostra e dell’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia […] si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte». Tuttavia, quando compone queste pagine, Leopardi ha già scritto il DialogodellaNaturaediun Islandese,dovelanaturadice dinonconoscereciòcheessa produce. Non conosce l’uomo. Non conosce la «natura» come desiderio infinito di piacere. D’altra parteanchequesta«natura»è unasuacreatura,unacreatura dell’inconsapevole «madre nostra»,ossiadelgiocosenza perchédeldivenire. In questo senso Plotino può unire l’«empia madre» alla sua creatura, che per quantoleèpossibilesisforza di allontanare da sé l’infelicità che necessariamente la avvolge proprio in quanto è creatura delnulla,destinataalnulla.Il divenire è «empio», «nemico» dell’uomo non perché abbia l’intenzione di rendere l’uomo infelice, ma perché non ha alcuna intenzione,nonhaalcunudito che gli consenta di intendere il desiderio dell’uomo di essere felice. Nella sventura l’uomo può attribuire delle intenzioniaciòcheproducee distrugge tutte le cose senza alcuna intenzione e alcun perché. Ma è l’uomo che patiscelasventuraecheresta deluso dopo aver operato questa attribuzione: non la nobile natura. O anche: è la nobile natura quando ricade nelle illusioni che, diverse dall’illusione in cui consiste la potenza del suo canto, restanosmentitedallarealtàe a loro subentra la delusione, che in quanto conseguenza resa possibile dall’essersi illusièasuavoltaillusione. Questo secondo è forse il caso dell’abbozzo, lasciato incompiuto, dell’inno Ad Arimane, il dio del male, secondo il mazdeismo: «Re delle cose, autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potereesomma/intelligenza, eterno / dator de’ mali e reggitor del moto» (il rovesciodelDiocristianoche «move il sole e l’altre stelle»). Sia pure in forma rovesciata, l’eterna intelligenza malvagia si mantiene pur sempre all’interno dell’errore del platonismo che anticipa in sé il divenire delle cose, ossia trasforma in un prototipo delle cose il nulla da cui è tuttavia evidente che le cose provengono (cfr. cap. 5). Leopardi non può non averlo compreso. Il canto ad Arimane è rimasto infatti incompiuto. Plotino ha «pregato» Porfirio di desistere dal suo intento.Oragliricordachele illusioni hanno bisogno di pocoperritornare.Illasciarsi prendere da esse è errore, riconosce Plotino: «veramente errore, e non meno grande che palpabile», che «pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno[…].Ecrediame,che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullitàdellecose,dellavanità delle cure, della solitudine dell’uomo, non odio del mondoedisemedesimo,che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevolissime e le lor contrarie irragionevoli [altra conferma dell’accordo tra Plotino e Porfirio intorno al contenuto della verità]. Ma contuttociò, passato un poco ditempo;mutataleggermente la disposizion del corpo; a pocoapoco;espessevoltein un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto della vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella lor apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura». Comelacuraperchisiamae che soffrirebbe per il nostro esserci tolta la vita. Così brevedanonaverbisognodi essereaccorciatadanoi. 10 Ilsuicidioeil cristianesimo Nel Dialogo, rivolgendosi a Platone che proibisce il suicidio, Porfirio grida: «Tu haivintodicrudeltà[…]ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice». Ma Leopardi sta guardando soprattuttoaldilàdellespalle di Platone: ha in mente il cristianesimo. Non lo può dire pubblicamente. Ma nei Pensieri è esplicito. A proposito del modo in cui si configura il rapporto tra religioneesuicidioneltipodi civiltà in cui egli si trova a vivere, scrive: «Se la Religione non è vera, s’ella non è se non un’idea concepita dalla nostra misera ragione, quest’idea è la più barbara cosa che possa esser natanellamentedell’uomo:è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione», che «mette il colmo alla disperata disperazione dell’infelice» (P 816-17). La «natura» rende infelicel’uomo,maglilascia lapossibilitàditogliersidalla vita e dall’infelicità; la ragione «corrompe» il «sistema» primitivo della natura e il risultato è una natura corrotta che proibisce ilsuicidio. La «Religione» appartiene alla natura corrotta. Leopardi lo mostra inP 420-32. Ma in relazione al passo P 816-17, qui sopra riportato, si osservi innanzitutto che la «Religione» è il cristianesimo. Il passo infatti si era aperto considerando la «nostra condizione oggidì», che è «peggiore di quella dei bruti» perché la Religione, dovelanaturaècorrottadalla ragione, proibisce il suicidio. E, nella nostra condizione oggi, la «Religione» non può esserecheilcristianesimo. In secondo luogo, le prime righe appena lette di quel passo non esprimono un’ipotesi: il «se» significa «poiché»; poiché il cristianesimo non è vero, poiché esso non è che un’idea, eccetera. Vera è infatti la ragione. È la ragione, ma non certo il cristianesimo,adaffermarela nullità di tutte le cose. Il cristianesimo crede nella verità di ciò che per la ragione è illusione. Il cristianesimo è illusione. D’altrondeilpassodicecheil cristianesimo è «un’idea concepita dalla nostra misera ragione». In quanto illusione, ilcristianesimostadallaparte dellanatura(einciòstailsuo aspetto positivo); ma non è più natura primitiva, bensì, come si è detto, natura corrotta dalla ragione. Corrompendo la natura, la ragione concepisce quell’«idea», «la più barbara», nella quale il cristianesimoconsiste. Il passo 816-17 dice dunque che, poiché il cristianesimo non è vero e poiché esso è un’idea concepita dalla ragione, esso è il parto più spietato e mostruoso e il massimo dei danni. La critica del Giocatore Nero al cristianesimo non è di non esser vero. Anzi. Il cristianesimo è «mostruoso» perché in esso l’illusione della natura, che rifiuta la morte ma lascia che l’uomo sialiberodiuccidersi,nonsa opporsi all’irruzione della ragione; e d’altra parte si presenta come ragione che proibisce il suicidio minacciando un’infinita pena futura per chi lo compia. Leopardi giustifica in vari modi la dipendenza del cristianesimo dalla ragione, ma si può dire storicamente accertato che ben presto il cristianesimo si è innestato sul tronco della filosofia greca e che il riferimento a Platone, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, è tutt’altrocheimproprio. È esistita sì una «vera e primitiva forza del Cristianesimo», «quel primo fuoco febbrile della nuova dottrina» (P 338), che per Leopardi coincide innanzitutto con la figura di Gesù, che «ravvivò il mondo illanguidito dal sapere» (P 337)eincuilanaturasifece in qualche modo sentire. Ma era una natura attivata e in certo modo partorita dal sapere («dai lumi»): non partorita dal non sapere e dalla natura («non dall’ignoranza e dalla natura»,ibid.).Perquesto,«la vita e la forza ch’ei [cioè il cristianesimo] diede al mondo, fu come la forza che un corpo debole e malato [ossia «il mondo illanguidito dalsapere»]riceveda’liquori spiritosi,forzanonsolamente effimera, ma nociva e produttrice di maggior debolezza» (ibid.). Una «forza» diversa, quindi, dalla «forza» con cui l’opera del genio sente la morte di tutte lecose,ossiadalla«forza»da cui «l’anima riceve vita» (P 261). Il cristianesimo può apparirecomeilmassimodei dannisoloperchiconoscela verità. Se egli spera che le illusioni, dunque anche l’illusione cristiana, tornino in lui «a rifiorire» (come Plotino crede che possa accadere nell’animo di Porfirio),eglinonèancorala nobile natura, che si illude solamente con la potenza del proprio canto. È nell’opera della nobile natura del genio che il cristianesimo può apparireautenticamentecome ilmassimodeidanni. Perchicredeinvececheil cristianesimo sia verità, le cose stanno in modo completamente diverso. Egli non può sapere che il cristianesimo è il massimo dei danni perché gli impedisce di togliersi la vita. Per lui il suicidio è una tentazione da respingere. Inoltre, dopo aver detto che «l’uomo era più felice prima chedopoilCristianesimo»,in P 431 (scritto circa un anno prima di P 816-17) si aggiunge: «Ma oggidì non essendo più possibile tornare allostatodiciviltàantica,pel maggiore incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in questa vita è lo stato di vero e puro cristianesimo». «Vero e puro cristianesimo» è appunto quello di chi, illudendosi, crede che la verità sia contenuta nella Rivelazione divina. In lui il cristianesimo è, senza che egli possa saperlo, la natura in quanto ancora in qualche modo capace di occultare la verità autentica e angosciante della ragione; e dove d’altra parte lanaturaèqualcosacheglisi presenta come ragionevole. (Rationabile obsequium, dice ineffettil’apostoloPaolo;eil pensiero filosofico, soprattutto di Tommaso d’Aquino, intenderà mostrare l’armonia di ragione e fede cristiana.) Lanobilenaturadelgenio sta comunque al di sopra dell’alternativa che è venuta alla luce: quella tra il cristianesimocome«massimo dei danni» e il cristianesimo come lo stato «più felice in questa vita». (Non sembra cheLeopardiabbiasviluppato il discorso in questa direzione, ma lo sviluppo è implicito.) La nobile natura del fiore del deserto è sì, anch’essa, una unione di ragione e natura (anche nel cristianesimo si produce un’aggregazione di queste dueoppostepotenze),ma,siè visto(capp.6-8),nelfioredel desertolanaturaèlapotenza dell’illusione poetica, il «profumo» che consola il deserto. E che quindi è del tutto estraneo a quella forma disperata di «consolazione» incuiconsisteilsuicidio. D’altra parte, anche la nobilenaturaèilmodoincui, dopol’irruzionedellaragione nellanatura,quest’ultimapuò far sentire in maniera ancora più più potente la propria voce, avvicinandosi maggiormente al poeta antico, che rivolge il proprio canto al popolo per accrescere in lui il desiderio divita,dipotenza,difelicità, e dunque presentandogli le proprie opere come destinate a esser godute per l’eternità. («L’immaginazione e le grandi illusioni onde gli antichi erano governati, e l’amor della gloria che in lor bolliva, li facea sempre mirare alla posterità e all’eternità, e cercare in ogni loro opera la perpetuità, e procurarsemprel’immortalità loro e delle opere loro» P 3435.) L’opera del genio entusiasma, dà vita, «apre il cuore e ravviva», conduce il più lontano dalla noia, ossia dalla condizione fondamentaledelsuicidio. È dunque dovuto all’originalità dell’interpretazione data da Leopardi del cristianesimo il passodeiPensierichestiamo perriportare.Apparentemente sconcertante e incompatibile col contesto che abbiamo messo in luce, il passo apre l’importante gruppo di Pensieri(393-435)scrittonel dicembre 1820 e dedicato soprattutto al racconto della Genesi: «Il mio sistema intorno alle cose e agli uomini e l’attribuir ch’io fo tuttooquasituttoallanatura, e pochissimo o nulla alla ragione, ossia all’opera dell’uomo o della creatura, non si oppone al Cristianesimo» (P 393, corsivo mio). In breve, il senso è il seguente (prevedibilecomunque,enon sconcertante, se si tiene presente quanto si è detto nellepagineprecedenti):aldi làdellapropriafedediessere verità,eanzilaveritàsomma –aldilàdellaconfigurazione del cristianesimo che esso generalmente assume ai propri occhi –, è tuttavia ben visibile, per chi voglia guardare,qualcosadibenpiù profondo. La proibizione di DioadAdamodimangiareil frutto della conoscenza del bene e del male è cioè la stessa «misericordia» che la natura, in quanto desiderio infinito di piacere, ha per l’uomo.Èlastessavolontàdi salvezza da parte dell’uomo. Impedendogli di mangiare quel frutto, la natura, così intesa, compie il massimo sforzo per impedire che l’uomo,conoscendoilbenee il male, conoscendo cioè la verità, ne veda l’orrore e divenga infelice, massimamente infelice. Dio (ilcuiprincipio,comeditutte le cose, è il nulla) è pieno di misericordia. Subito dopo il passo riportato all’inizio di questo capoverso,iltestodiceinfatti: «La natura è lo stesso che Dio». Nel suo significato più profondo, il Dio del cristianesimo non è l’Essere eterno e perfetto costruito dalla ragione. Questo Dio razionale, che per Leopardi ha la più compiuta espressione nell’Idea di Platone, rende impossibile la produzione e creazione delle cose, il divenire, e quindi è impossibile.Nonpuòesistere nulla di eterno. Tutto è «in mezzo al nulla». Il Dionatura, invece, vuol nascondere ad Adamo questa verità devastante. Lo stesso infinito desiderio che l’uomo ha del piacere e della felicità avvolge l’uomo nell’illusione salvifica.Maauncertopunto egli ha invece voluto conoscere ed è stato cacciato de paradiso voluptatis, dall’illusione del piacere e della felicità; Leopardi sottolinea che con tale voluptas «s’intende voluttà e felicità terrena, contro quello che si vuol sostenere che all’uomo non sia destinata naturalmente se non se una felicità spirituale e d’un’altra vita» (P 395): la voluptas è, appunto, la natura dell’uomo come desiderio infinito di piacere. La voluptas è Dio, cioè il senso autentico di ciò che nel testo biblico è chiamato«Dio». D’altra parte – osserviamo – a sapere tutto questo dell’essenza profonda del cristianesimo non può essere questa essenza stessa; altrimenti essa conoscerebbe il rapporto che sussiste tra la natura e la ragione, conoscerebbe la ragione, sarebbe ragione, e sapendo quel che l’uomo non deve sapere, saprebbe quel che essastessanondevesapere. 11 Laconoscenzain Adamoenella filosofia Vaanchechiaritoilsensoche la morte può avere per Adamo quando Dio minaccia didarglielaqualoraegliabbia a mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male.Leopardinonsiaccosta esplicitamente a questo problema. Ma, anche qui, la sua risposta è implicita. (Per scorgerla non c’è bisogno di una sapienza diversa da quella che il Giocatore Bianco e quello Nero posseggono. Basta la loro. Il Terzo Giocatore può starsene ancoraindisparteaosservare e narrare come si svolge la partita tra i due. A proposito della morte minacciata da Dio, il problema riguarda infattientrambi.) Dio può minacciare Adamo della punizione suprema solo in quanto è certo che Adamo, pur non avendola mai sperimentata, conoscachecosasialamorte. Bisogna che Adamo sappia che la morte è il male più temibileechequindilatema. E deve anche sapere che la vita che egli sta vivendo è il massimo bene. Conosce allorailbeneeilmaleprima di aver mangiato il frutto della conoscenza del bene e delmale?Diolominacciadel massimomaleedellaperdita del massimo bene e lui capiscelaminaccia;nondice di non avere capito le parole di Dio. Che cosa allora può venire a sapere di più mangiando quel frutto? Leopardi può rispondere a questa domanda. Più difficile che il racconto biblico della caduta sia in grado di fare altrettanto. Leopardi può rispondere dicendo che Adamo sa già, prima di mangiare il frutto proibito, che la morte è il male più grande per chi può morire. E sa già che da ogni maleequindianchedaquello massimo è libero Dio, che è immortale.Quandomangiail fruttoproibito,vieneinvecea sapere che tutto viene dal nulla e vi ritorna, tutto è destinato alla morte, anche Dio: il nulla è il «principio» anche di Dio. Prima della caduta, l’uomo ha una conoscenza «naturale»: «l’uomo sapeva già abbastanza per natura» (cioè peroperadi«Dio»)«tuttociò che gli conveniva sapere. La colpa dell’uomo fu volerlo sapereperoperasua,cioènon più per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper più di quello che gli conveniva[…].Questoenon altro fu il peccato di superbia»: «nell’aver voluto sapere quello che non dovevano e impiegare alla cognizione un mezzo e un’opera propria, cioè la ragione,inluogodell’istinto» (P396-97). La caduta dell’uomo non consiste dunque nel «decadimento della ragione» (P 398), nella «ribellione della carne allo spirito» (P 433), ma «nell’incremento», nel rafforzamento della ragione e dello spirito, e nell’indebolimento della carne.Equestorafforzamento e indebolimento non sono stati illusori, ma reali. Il serpente dice alla donna che lei e il suo compagno, conoscendo, non moriranno, ma saranno come Dio (eritis sicutdii).ELeopardiosserva che se, col peccato, essi diventano preda della morte, tuttavia essi riescono veramenteaconoscereilbene e il male, e a essere dunque «come Dio». «Dunque l’uomo restò veramente simile per la [quanto alla] ragione, restò più sapiente assai di quando era stato creato» (P 398). Dopo aver riportato le parole di Dio: «Ecco, Adamo è divenuto come uno di noi [quasi unus ex nobis factus est], conoscendo il bene e il male», Leopardi osserva che «sebben l’uomo ottenne precisamente quello che il serpente aveva promesso a Eva, cioè la scienza del bene e del male, non però questa accrebbe la sua felicità, anzi ladistrusse»(ibid.).Anchese il testo non lo dice, Leopardi sottintendecheilDioalquale Adamo è riuscito a diventar simile (quasi unus ex eo) attraverso la conoscenza non può essere il Dio che è la stessa natura in quanto desiderio infinito del piacere e che quindi non può essere ragione.IlDioallacuialtezza Adamohasaputoportarsièil Dio che egli conosce sin da quando è stato creato. È l’Onnipotente. Peccando, Adamoèdiventatofilosofo. A proposito di quest’ultima affermazione, possono essere opportuni alcuni chiarimenti sul modo in cui Leopardi intende lo sviluppo storico del pensiero filosofico. Innanzitutto, la filosofia è certamente, sin dall’inizio, la pura ragione che mostra il carattere illusorio, la non verità della vita,diogniformadellavita. Primadellafilosofialavitaè esistere stando all’interno del mito. Appunto perché la filosofia è sin dall’inizio negazionedelleillusioni,essa puòpartorireilcristianesimo. «Laragioneprimadiarrivare a quell’estremo al quale è giunta oggidì [cioè alla situazioneincuilaragione,a differenza di quanto accade nella nobile natura, intende tenersi assolutamente separata dall’illusione], doveva naturalmente spaventarsi di se stessa; e vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose e quindi venirsiadistruggerelavitae il mondo, doveva considerar se stessa come assurda, e concludere che ci doveva essere qualche verità ignota [cioè un contenuto come quello proposto dalla rivelazionecristiana]laquale dasse alle cose quella realtà ch’essa non poteva più scoprire né ammettere» (P 429). Già la ragione antica, dunque, si vede sparire davanti agli occhi la realtà dellecose,vedecioèlanullità dituttelecose.Malaragione antica è anche la filosofia di Platone, cioè l’affermazione piùpotentedellarealtàeterna delle idee, l’affermazione di quell’eternità originaria che costituisce il fondamento della realtà delle cose e della quale, tuttavia, il Giocatore Nero ha mostrato l’impossibilità(cfr.cap.5). Ma nemmeno qui si è in presenza di una contraddizione in cui egli sarebbecaduto.Anchesenon prende esplicitamente in considerazione il problema che stiamo analizzando, Leopardi sta cioè, di fatto, mettendoinluceunatensione – che infine è un’antinomia, unacontraddizione–laquale esiste non nel suo pensiero, ma all’interno della forma iniziale della tradizione filosofica, ossia all’interno della filosofia greca. Vediamo. Rivolgendosi alla vita – all’esistenzaumananeltempo delmito–lafilosofianevede il carattere illusorio, la non verità. Quel che la vita crede di essere non è. È nulla. Questo esser nulla differisce però dall’esser nulla di tutte le cose che la ragione scorge vedendo che tutte sporgono provvisoriamente dal nulla e dunque vedendosele anche in questo senso sparir davanti agli occhi. Tuttavia, come appunto si dice in P 429, anchenell’altrosenso(quello nel quale la ragione rifiuta il mito)laragionesivedesparir dagli occhi la realtà delle cose. Intendo dire che, nei Pensieri, il Giocatore Nero considera esplicitamente una delle due mosse che il Giocatore Bianco compie per riprendersidallo«spaventodi sé stesso» nel vedersi responsabilediquelladuplice forma di annullamento e sparizione delle cose. Il Giocatore Nero considera cioèesplicitamentesoltantola produzione del cristianesimo da parte della ragione spaventata di se stessa. L’altra mossa del Giocatore Bianco (peraltro presupposta dallaprima)èl’affermazione, da parte della ragione, dell’esistenza del Principio eternoedivinodacuituttele coseprovengonoeincuitutte ritornano. La filosofia, allontanando da sé il mito, incomincia con questa affermazione. Separate dal Principio,lavitaelecoseda cui essa è composta sono nulla (nel duplice senso qui soprarilevato);ma,inquanto unitealloroPrincipioeterno, la loro realtà è salvata dal nulla. Il mondo delle Idee eterne di Platone può esser considerato come la forma paradigmatica di tale Principio. E appunto in questo modo lo intende Leopardi.Malagrandezzadi Leopardi,inquantoGiocatore Nero,consistenelmostrareil fallimento di questa volontà disalvarelecosedelnulla.Se dunqueLeopardipuòpensare che, nonostante l’affermazione dell’esistenza del mondo eterno delle Idee, la filosofia di Platone – in quanto filosofia, cioè negazione delle illusioni del mito–siaannullamentodelle cose,cisipuòspiegarecome Leopardi possa giungere a vedere nella filosofia moderna «quell’estremo al quale è giunta oggidì» la ragione. «Paragonando la filosofia antica colla moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente perché i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare [insegnare e fabbricare, appunto,l’Eterno]:laddovela filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare.» «I filosofi moderni, sempre togliendo, niente sostituiscono. E questo è il vero modo di filosofare […] perché in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori» (P 2709-10, maggio 1823). E il toglier sempre dalle cose del mondo senza sostituir niente è vedere in modo sempre più chiaro la loro nullità. Il vedere che getta nella disperazione e nellanoia.Ma–osserviamo– anche qui Leopardi rende esplicitosolounodeiduelati della tradizione filosofica e, certo, quello destinato a farsi largo e ad affermarsi. Infatti, anche la filosofia moderna fino a Hegel non intende rinunciare al Principio eterno delmondoepertantointende salvare le cose dal nulla: affermandoilloroesserunite a tale Principio. Nel mito di Adamo, interpretato da Leopardi, l’uomo vuol diventare Dio in quanto eterno e pertanto vuol distruggerlo, «atterrarlo», ed è «disingannato» rispetto a ciò che Dio vuole fargli credere; ma in realtà apre gli occhi e vede quel che la sua natura (ossia Dio come desideriodifelicità)gliaveva nascosto: vede la verità angosciantedellamorteedel nulla. E in questo senso già lui è filosofo. Nel proprio inconscio,ilraccontobiblicocristianodelpeccatooriginale afferma, per Leopardi, quello stesso stato di cose che egli vederealizzarsinellafilosofia moderna. Nel 1820 Leopardi aveva scritto – anticipando il tema dell’unitàdipoesiaefilosofia nell’opera del genio – che, per evitare l’esito a cui conducelafilosofiamoderna, l’unica «rigenerazione» possibile dipende da una «ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose [cioè «nulla al ver detraendo»] ci ravvicini alla natura», ossia unisca la verità alla potenza dell’illusione poetica. E l’«ultrafilosofia» non può essere nemmeno, ripetiamo, l’unionedellafilosofiaedella religione, perché se «la filosofia indipendente dalla religione, in sostanza, non è altro che la dottrina della scelleraggine ragionata» (P 125), dal momento che non puòesserecheladottrinadel purodesideriodipiacere,cioè del puro egoismo, della pura volontàdipotenza,tuttaviala filosofia, unita alla religione, non è il fiore gentile che consola il deserto nell’unico modo autenticamente efficace, ma è una consolazione che insieme produce il «massimo dei danni». 12 L’etàdellemacchine «Ferrate vie», «moltiplici commerci», «i mercati e le officine». È cioè enormemente cresciuta la potenza delle macchine e dei rapporti economici che esse rendono possibili: «Tanto la possa / infin qui de’ lambicchiedellestorte,/ele macchinealcieloemulatrici/ crebbero, e tanto cresceranno altempo/cheseguirà».Sono espressioni che nella Palinodia al marchese Gino Capponi indicano il progressivo affermarsi della tecnica nel secolo XIX. Nel quale, per Leopardi, ci si illude di potersi opporre allo sviluppo dove la ragione raggiunge il suo inevitabile compimento. Raggiungendolo, essa pervienealpurodisincanto:si separa totalmente dall’incantamento della natura (l’incantamento «mostruoso» e tuttavia a suo modo salvifico che «oggidì» si fa ancora sentire nel cristianesimo) e non è altro che visione della nullità di tutte le cose e genitrice della noia. Il secolo XIX (che si crede «aureo») si illude di poter prendere una strada diversa, quella del «progresso».Siilludedipoter guardare con sufficienza chi siannoia. Eppurela«noia»nonèun semplice stato d’animo. La parola stessa è densa di significato,moltodipiùdella parola «nausea» (Sartre), o della parola «angoscia» (Kierkegaard, Heidegger): «noia» è riconducibile a in odio habere. Dal punto di vista delle istanze della ragione significa l’avere in odio l’incantamento (operato dallanatura)chedàallecose, chesononulla,l’apparenzadi esser reali; dal punto di vista delle istanze della natura significa invece odio per la ragione che atterra e disinganna, distruggendo ciò che, solo, può rendere felice la vita: l’incanto delle illusioni che fanno credere all’uomo di poter vivere una vitareale. In relazione alla storia della ragione il pensiero di Leopardisiconfiguradunque nel modo seguente: nel suo sviluppo, la ragione è destinata a diventare dottrina della noia che avvolge e soffoca l’uomo, infine annientandolo. Ma il secolo XIXsiilludedipotervoltare le spalle a questo processo. Intende essere la forma più radicale di dottrina della volontà di potenza: crede di poteressereragionecapacedi guidare e dominare lo sviluppo del mondo. E la ragione può farlo perché è diventata soprattutto ragione scientifico-matematica, ragionetecnica. Nel proprio secolo Leopardi vede dunque l’età della tecnica. «Età dell’oro» dice ironicamente nella Palinodia. «Età delle macchine», la chiama nella Proposta di premi fatta dall’AccademiadeiSillografi, altro scritto satirico. Nel qualesidiceperòcheilXIX secolo può esser chiamato «etàdellemacchine,nonsolo perché gli uomini di oggidì procedonoevivonoforsepiù meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco e accomodate[…]atantiecosì vari esercizi, che oramai non gliuominimalemacchine,si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita», tanto da non far sembrareutopicounfuturoin cui «gli uffici e gli usi delle macchine» abbiano a «comprendere oltre le cose materiali,anchelespirituali». È chiaro che la potenza dellaragionetecnicanonèla potenza della natura, la potenza cioè delle illusioni. La potenza della ragione tecnica è piuttosto il punto piùaltoacuipuòspingersila potenza della ragione che, «spaventata di sé stessa», ossia della nullità del tutto che essa è riuscita a vedere, aveva pensato di liberarsi dallo spavento evocando il Principioeternodacuituttele cose procedono e in cui tutte ritornano. La potenza tecnica infatti – dove le macchine possono gestire non solo le cose materiali ma anche quelle spirituali – non può essere nemmeno la potenza che risulta dall’unione della ragione alla rivelazione cristiana. Tanto meno quella della tecnica può essere la potenza della nobile natura che competeallaginestra.Ilcanto La ginestra è in proposito potentemente esplicito. Il fuoco del vulcano – la «dura nutrice» – può annullare da un momento all’altro la vita dell’uomo. Dunque può «annichilare in tutto» la civiltà del secolo «superbo e sciocco». Le sorti di questo, checrededipoterrealizzareil «progresso», sono «dipinte» nel deserto che il fuoco annientantehafattoattornoa sé («Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive»). La potenza dell’etàdellatecnicaèdipinta neldeserto.Ècioèundeserto. Nelqualeessapuòguardaree specchiarsievederesestessa: «Quimiraequitispecchia,/ secolsuperboesciocco».Nel desertol’etàdellatecnicapuò vedere lo «scheletro» a cui essa è destinata. Quello di Pompei non è soltanto il «sepolto scheletro» di un’antica città distrutta dalla «duranutrice»:èloscheletro dell’età della tecnica. E il grande e terribile notturno della Ginestra, dove la «sinistra face» si aggira e corre tra le rovine della città (cfr. cap.8), può esser riletto come il bagliore funereo che siaggiraecorretralerovine della ragione tecnica. Illumina lo scheletro della potenzatecno-scientifica. Tuttavia, se il fuoco del vulcano ha fatto il deserto attorno a sé, il fiore del desertoviveancoraeconsola il deserto. Per il Giocatore Nero la potenza del canto, ossia dell’unità di ragione e poesia, è capace di sopravvivere ancora, sia pure per poco, alla potenza della ragione tecnica; anche se i «mondi» (Palinodia, v. 88), le città che ritengono di non aver nulla da temere dal vulcano, ignorano completatamente il fiore gentile o ne possono irridere l’impotenza. È, questa, la sfida che il Giocatore Nero rivolge alla tecnocrazia, alla convinzione cioè che la tecnica sia la forma suprema di civiltà oltre la quale l’uomo non può spingersi. Una sfida, comunque, molto menoutopicadiquantopossa sembrare,sesitienecontodi quanto si è detto nel capitolo 8. Il Giocatore Nero mette anticipatamente in luce quel che l’età della tecnica del XIX secolo non era ancora riuscita a scorgere: che, nonostante ogni sicurezza e potenza date all’uomo dal progresso del sapere scientifico, la Natura, in quanto «empia madre» di ogni produzione e distruzione, può distruggere ogni sicurezza e potenza e di fatto le distrugge. È quanto oggi il sapere scientifico riconosce più o meno esplicitamente quando esclude che le proprie leggi abbiano una verità definitiva echedefinitivasialapotenza daessoraggiunta. Anche nella Palinodia, e anche qui potentemente, viene in luce la mancanza di ogni perché rispetto a quanto accade nella storia dell’universo. Come nel Dialogo la Natura, indolentemente, dice all’Islandese di non sapere quali conseguenze abbiano le proprie azioni per l’uomo, così la Palinodia chiama «gioco reo» l’immane processo di produzione e distruzione delle cose. Non esistono ragioni che lo producano e che l’uomo possa comprendere («gioco reo, la cui ragion gli è chiusa») e tuttavia distrugge l’uomo (e pertanto è «reo»). Non esiste una ragione del «gioco» che non sia a sua voltagioco,perchéaltrimenti essa sarebbe Ragione divina edeterna(quell’Eternodicui il Giocatore Nero ha ormai mostrato l’impossibilità). Il «gioco» è senza perché, terribile «capriccio» di un «fanciullo» che distrugge l’oggetto da lui appena costruito.Inquestosuogioco imperscrutabile la natura crudel, fanciullo invitto, il suo capriccio adempie, e senzaposa distruggendo e formando si trastulla. (vv.170-72) L’impossibilità di una Ragione eterna che abbia a contenere in se stessa il perché del gioco è l’impossibilità di trovare qualcosa in ciò da cui la formazione delle cose proviene e in ciò a cui la distruzione conduce. Poiché tutte le cose sono «in mezzo alnulla»,ilnulladacuitutte provengono e in cui tutte ritornano non può contenere alcunché, è assolutamente nulla, dunque non può contenere nemmeno alcuna spiegazione del loro improvviso venire all’esistenza e del loro uscirne. L’età della tecnica si illude di dominare il mondo, ma è completamente in balìa di questo gioco. Per quanto sia «d’alto artificio» e per quanto la sua opera sia elaborata «con dotta man», non può nemmeno essa riscattare l’uomo dalle «miserie estreme» del suo stato mortale e la natura lo ferisce,«edentroilfere/edi fuor da ogni lato» fino a che egli «giace / alfin dall’empia madre oppresso e spento» (vv. 173-97). La tecnica è impotente perché è anch’essa uno degli edifici prodotti e distrutti dal gioco della natura.Èunodiquestiedifici perché è il culmine della ragione quale dottrina della volontà di potenza; e la ragione irrompe anch’essa senzaalcunperchénell’uomo (cioè nella natura come desiderio infinito di piacere), gettatavi a caso dal gioco della«duranutrice». Elaragione,facendoluce attorno a sé, finisce col vedere la nullità di tutto; quindi col distruggere la volontàdipotenza.Distrugge se stessa in quanto dottrina della volontà di potenza. Da ultimo distrugge se stessa in quantotale,perchédiventalo sguardo che odia la pretesa delle cose di essere reali, e abbandona l’uomo alla noia, al«sentimentomortifero»che uccidendo l’uomo uccide anche la ragione. In questo senso, la ragione è un’alleata dellapropria«empiamadre», perché «ferisce» e spegne l’uomo stando al suo stesso interno. Nella Palinodia non losidiceinmodoesplicitoe si mette in risalto, oltre alle avversità che colpiscono il mortale dall’esterno, la sua interna decadenza fisica: la «forza / ostil, distruggitrice», cheferiscel’uomo,«edentro il fere / e di fuor da ogni lato». 13 Gliitalianiela filosofia Il Giocatore Nero ha avuto partita vinta. Ma è la vittoria della desolazione. Se non esiste alcun Eterno, cade anche ogni fondamento della moraledegliindividuiedegli Stati. Tutto questo è inevitabile, data la premessa da cui entrambi i Giocatori procedono: la convinzione chel’annullamentodellecose e il loro uscire dal nulla sia l’evidenza sovrana. Leopardi mostra i molteplici aspetti di questa desolazione, ritenendo tuttavia che essa abbia già avvolto le società. Tra gli aspetti sociali della desolazione (studiati a fondo nei Pensieri), Leopardi dà spiccoaquellicheriguardano lasocietàitaliana. IlDiscorsosopralostato presente dei costumi degl’Italiani, forse composto nel 1824 (ma pubblicato postumo), intende mostrare che, dopo la Rivoluzione francese, l’Italia «è di costumi notabilmente diversa dagli altri popoli civili». «Le altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto.» Il Discorso si riferisce soprattutto a coloro che sono «forniti del necessario alla vita col mezzo delle fatiche altrui», e che non avendo «bisogniprimi»,cioèprimari, hanno però il bisogno «di trovare qualche altra occupazione che riempia la lorovita»,«ilvuotodellavita cagionatodallamancanzade’ bisogni primi». Nel Discorso si ritiene che tale bisogno facciaaumentareirapportitra gli individui, ossia che per esso (o anche per esso) le societàdivengano«strette». In tali società ognuno considera necessaria alla propria felicità la stima degli altri e per ottenerla mostra a sua volta di stimarli. Questo sentimentoèl’ambizione,che nei tempi moderni ha prodotto il sentimento dell’onore:«un’illusioneesso stesso», però «potentissima» nei popoli civili diversi dall’italiano. L’onore o «stima dell’opinione pubblica» è appunto quel «principio» «minimo» e «quasivile»,dicuisièdetto qui sopra, che però è capace di «rimpiazzare i principii morali» che anche gli stranieri hanno perduto e a «servire di legame» alla società. «Gli uomini politici di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro e lacero.» «Stimano una buona battuta di spirito o un bell’abito né più né meno di una buona azione.»Staperòdifattoche ilbonton,inquestenazioni,è «non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi» e alla tenutasociale. Tutto questo, anche se è pocacosadifronteallegrandi illusioni degli antichi, manca agli italiani (si parla sempre di quelli che non hanno bisognodilavorarepervivere mahannobisognodiriempire il vuoto della vita, però qualche pagina dopo dice che: «il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci»). Gli italiani non hanno nemmeno questo poco. È vero che essi, sul piano morale, sono «filosofi, cioè ragionevoli e geometri» quanto e «forse più» degli altri popoli. Ma la nazione italianadelXIXsecolononè una società «stretta», nel sensosopraindicato:siaperil clima, che spinge a vivere all’aperto piuttosto che passare il tempo nelle «conversazioni» dove lo «spirito» resta sollecitato («il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hannogl’italiani»),siaperché l’Italianonèunanazionema uninsiemedinazioni. Non essendo «società stretta»,l’Italiaèprivadiciò che, si è visto, di tale società è conseguenza: ambizione, sensodell’onore,bonton.Ma ilmotivodifondochespiega la differenza degli italiani viene espresso nel Discorso dicendo che se, da un lato, è certissimo che «l’Italia in fattodiscienzafilosoficaedi cognizionematuraeprofonda dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania», dall’altro è anche certissimo che «gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni». Il motivo? Hanno intuìtolanullitàdellecose,la vanità delle illusioni e della vita, l’infelicità che la accompagna, l’inevitabilità quindichesiridadituttoedi tutti.Lesuddettenazionisono ancora delle illuse, anche se la loro illusione è cosa «minima» e «quasi vile» rispetto alle grandi illusioni. Nelle loro «conversazioni», perquantospiritualieelevate, nonsonriusciteacapirequel che il cinismo del «popolaccio» italiano ha ben intuìto«nellapratica». Il Discorso sviluppa un’ampia analisi della mancanza di «società stretta» inItalia,manonindica(come non li indicava il canto All’Italia)imotivichehanno condotto a questa singolare capacità intuitiva degli italiani e quindi allo stato di disfacimento della loro società. Probabilmente è sottintesa: molto più di altri popoli, essi hanno visto e sperimentato più storia, più mutazioni di assetti politici, più vanità di ciò che era riuscito a imporsi, più vicinanza alla corruzione del sacro.Questa–osserviamo– che pur compete agli italiani che non hanno bisogno di provvedere ai propri bisogni, è pur sempre un’intuizione, un esser «filosofi nella pratica», non «nell’intelletto». È filosofia in senso improprio. L’implicazione necessaria tra l’andare nel nulla da cui si è venuti e l’impossibilità di ogni Eterno e di ogni Legge eterna è infatti una dimensione che, e non solo nei primi decenni del secolo XX, è del tutto inaccessibile alleélitescheinItaliaenelle altre nazioni non hanno bisogno di lavorare (e a maggior ragione è inaccessibile ai «popolacci» di ogni nazione che invece occupano la loro vita per soddisfare questo bisogno). Tale dimensione rimane cioè ancora un «sottosuolo» rispetto alle forme visibili e dominantidellastessacultura filosofica e scientifica del XXIsecolo,ilcuirifiutodelle fondamenta della tradizione occidentale è altrettanto dogmatico della maggior partedelleformeculturaliche invece intendono tener ferme talifondamenta. Sulla base di questo significato polisemico della parola«filosofo»,ilDiscorso puòdirechelaconnessionedi «società stretta», ambizione, senso dell’onore, rispetto dell’opinione pubblica, fa sì che «niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinione pubblica». E «italiani di mondo» sono «quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova» («passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messaeallapredica,allefeste sacre e profane»). «Non si può negare che filosoficamente e geometricamente parlando, essi non abbiano assai più ragione de’ francesi e degli altri che pensano e operano diversamente, e che per conseguenza in questa parte essi non sieno, quanto alla pratica,assaipiùfilosofi.»In una «totale mancanza d’industria, e d’ogni sorta di attività», «senza prospettiva» e«senzascopo»,edunque,in generale, senza «società stretta» (nel Discorso Leopardi non insiste sulla circostanza che la mancanza di «società stretta» è in gran parte dovuta alla divisione politica dell’Italia del suo tempo),la«vitadegl’italiani» è priva di «uno de’ grandissimieprincipalimezzi che restano oggi agli uomini per non avvedersi affatto dellanullitàdellecoseloroo per non sentirla, benché conoscendola, per non essere nella pratica persuasi della total frivolezza delle loro occupazioni». La società rende cioè possibile che, pur conoscendo la nullità delle cose, non la si senta e in qualche modo, e in certi momenti o tempi, ci si continui a illudere e a dar pesoepregioallavita.Magli italiani non hanno società e quindisono«filosofi». D’altra parte il carattere polisemicodiquestoconcetto di «filosofia» tende a essere riconosciutoeridottoinpassi come questo: «Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tantopiùaddomesticati,eper così dire convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è lasommadituttalafilosofia, cioè la cognizione della vanitàd’ognicosa,esecondo questacognizione,cheinessi è piuttosto opinione o sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai più dell’altre nazioni». La «cognizione» è la filosofia autenticadelGiocatoreNero. È contenuto o atto dell’«intelletto». E differisce dall’«opinioneosentimento». Leopardi sostiene cioè che «intelletto» e «sentimento» possono avere lo stesso contenuto,cheinquestocaso è «la somma di tutta la filosofia»:lanullitàdituttele cose. E implicitamente sostiene che se modi diversi di aver presente lo stesso contenutofannosìcheinessi tale contenuto non sia lo stesso, tuttavia è pur necessario che questi diversi contenutiabbianoqualcosain comune, e che questo qualcosa sia lo stesso nei diversi modi di averlo presente. E se esso è il vero, la verità è presente in modi diversi che però sporgono da unabasecomune. Dunque «gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza» degli altri popoli. Sì che, in Italia, prima ancora del «popolaccio», sono le «classi superiori» a essere «le più ciniche» rispetto a quelle delle altre nazioni. «Incalcolabiliidanni»causati daquestocinismo,sebbeneil cinismo sia l’abito «più conveniente a uno spirito al tutto disingannato e intimamente e praticamente filosofo». Tutto questo non significa che i difetti degli italiani siano assenti negli altri popoli, ma che negli italiani sono «dominanti» e più«dannosi». Il Giocatore Nero prende lamaggioredistanzapossibile dalle élites del proprio popolo, alle quali pur appartiene; ma è insieme inevitabilecheegliinqualche modo si trovi rispecchiato nella vocazione filosofica degliitalianievedainessila matrice dei tratti di Eleandro e di Tristano. D’altra parte è consapevole di aver vinto la partitadecisivaenonpuònon pensare che, se all’estero sono apparse le grandi filosofie che portano alle forme più potenti dell’epistéme messa in opera dalGiocatoreBianco,tuttavia le mosse che hanno fatto vincerelui,ilGiocatoreNero, sono qualcosa di unico, di mai prima apparso nella storia del pensiero filosofico; e non può non vedere che questoeventounicoapparein Italia. Dal dirlo apertamente lo trattiene forse l’interpretazione che egli dà della filosofia moderna, già capace di mostrare la nullità del mondo in cui l’uomo vive. Ma egli non può non scorgere che altro è la filosofia come messa in questione e infine negazione delle opinioni comuni dell’uomo (e, certamente, questo la filosofia moderna riesce a essere), altro è la filosofia che, in base all’evidenza del ritornare nel nulla da cui le cose provengono, mostra l’impossibilità di ogni Eterno e di ogni fondamento eterno della morale individuale e sociale(e,questo,lafilosofia modernanonriesceaesserlo, e all’estero dovrà attendere Nietzsche per riprendere e sviluppare le mosse di Leopardi). Restainfineunproblema, cheLeopardinonaffrontama che forse spiega uno dei motivi per cui egli non ha pubblicato il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (uno dei motivi, diciamo, insieme a quelli chiaramente intuibili a proposito di uno scritto che può sembrare una denigrazione). Si tratta del problema della perdurante coesistenza delle condizioni che hanno condotto alla miseria e al cinismo degli italiani,daunlato,edall’altro della potenza e superiorità della loro lingua, così decisamente affermate e analizzate nei Pensieri. Questo, anche se «il secolo del cinquecento è il vero e solosecoloaureodellanostra lingua e della nostra letteratura[…],anziinquesto pregiosuperinonsolotuttigli altri secoli italiani, ma anche tutti i migliori secoli delle letterature straniere» (P 69095). La lingua italiana «è la più simile alle antiche, e al carattere antico» (P 1003). Lingua, dunque, delle grandi e nobili illusioni. Come può essereancoraparlata(siapure noncomenel«secoloaureo») dalpopolochepiùdituttigli altri quelle illusioni le ha completamenteperdute? 14 Feliceinfelice:l’uomo Rifiutandoilmito,lafilosofia si presenta come epistéme della verità (cfr. cap. 4), conoscenza assolutamente nonsmentibileedefinitiva.E l’epistémedellaveritàponeal proprio fondamento, oltre all’evidenza del divenire dell’essere,ciòcheAristotele chiama«ilprincipiopiùsaldo ditutti».Taleprincipiononsi appoggia su un più fondamentale sapere; ogni altro sapere può essere vero solo se è implicato da tale principio e pertanto solo se non ne è la negazione. Più tardi, questo principio verrà chiamato «principio di non contraddizione». Se ne danno molte formulazioni. Nella formulazione aristotelica suona così: «È impossibile cheallostesso[ente]competa e non competa di essere lo stesso [ente] secondo lo stessorispetto».(Peresempio è impossibile che a una superficie competa e non competa contemporaneamente di essere bianca.) Anche Leopardi lo formula in modi diversi. Per esempio, in P 4129 ne dà la formulazione latina: non potest idem simul esse et non esse («è impossibile che lo stesso [ente] sia e non sia»). Il rapportodellafilosofiaconil «principio di non contraddizione» si costituisce nella dimensione più profonda del pensare. Leopardi lo esplora sin dall’inizio delle sue riflessioni. Si può dire anzi che tale esplorazione costituisca il loro percorso essenziale. D’altra parte, per il «principio di non contraddizione» – che è principio dell’ente in quanto ente, ossia di ogni ente – l’ente è ciò che, in quanto ente, può uscire dal non essere e ritornarvi: può oscillaretrailnullael’essere, e l’ente che ha questa proprietà (gli enti immutabili non l’hanno) è, per l’Occidente, l’evidenza suprema che dunque, si è detto,insiemeal«principiodi non contraddizione» (che invece regola ogni ente) costituisce il fondamento dell’epistémedellaverità. Infatti, se è impossibile chelostessoente(idem)siae non sia (esista e non esista, siabiancoenonsiabianco),è però possibile che lo stesso enteprimanonsiaepoisia,o prima sia e poi non sia (questo essere e non essere è cioè possibile in tempi diversi, secondo «rispetti diversi»). E questo essere e nonesseredeglientinonsolo è possibile, ma, per l’epistéme della verità (e poi perl’interaciviltàoccidentale e,ormai,perl’interoPianeta), è supremamente evidente e innegabile che gli enti che appaiono nel mondo sono appunto questo oscillare tra l’essereeilnulla. Prima di indicare i tratti dell’esplorazione,condottada Leopardi, del rapporto tra l’evidenza del divenire e il principio di non contraddizione,siosserviche quest’ultimo è «principio» in sensodiversodaquelloperil quale il «Principio» è l’Eterno, cioè il Dio che il GiocatoreBiancoaffermaedi cui Leopardi mostra l’impossibilità. E a Leopardi questa diversità è del tutto chiara. Il «principio di non contraddizione» è infatti fondamento del sapere; il Principio eterno è invece fondamento dell’essere. Il Giocatore Bianco ritiene di poter mostrare che sul fondamento del «principio di non contraddizione» è necessario affermare l’esistenza del Principio eterno. Il Giocatore Nero riesce a mostrare che l’esistenza di un qualsiasi Principio eterno implica la negazioneditale«principio», ossia è impossibile, e che quindi il Principio di tutte le cose è il nulla. E riesce a mostrarlo assumendo come fondamento, da un lato, l’evidenza del divenire, cioè il «principio di non contraddizione» in quanto principio degli enti il cui oscillaretral’essereeilnulla è supremamente evidente (e cheancheilGiocatoreBianco riconosce come supremamente evidente), e dall’altrolatoassumendotale «principio» come ciò in base al quale è necessario escludere che l’esistenza dell’Eterno trasformi in un ente il nulla da cui gli enti vengono e in cui vanno (cfr. cap.5). L’esplorazione compiuta da Leopardi del senso del «principio di non contraddizione»–sièdetto– è il tratto essenziale del suo pensiero. Ne esprime la parabola complessiva. Egli tien fermo che, se qualcosa implica la negazione di questo principio, tale qualcosa è l’assurdo più radicale, l’impossibile, il nulla, ciò che assolutamente nonpuòesistere. Tuttavia i Pensieri credono,quasisindall’inizio, di poter mostrare per quale motivo è necessario affermare che l’assurdo, l’impossibile, esiste. Ciò che non può esistere esiste. Dapprima mostrano che l’assurdo esiste all’interno di un àmbito particolare della totalità delle cose: l’uomo; poi mostrano che l’assurdo esiste in ogni cosa, cioè che ognicosaèunassurdo. Quali contraccolpi produca sullo stesso pensiero di Leopardi questa progressiva dominazione dell’assurdo verrà indicato piùavanti.Oravannosentitii motiviperiqualineiPensieri questa dominazione viene affermata. E viene affermata, si è detto, quasi sin dall’inizio. Ciòsignificache,all’inizio,i Pensieri escludono, aristotelicamente, che l’ente in quanto ente sia contraddittorio. Infatti, se Leopardi si allontana ben presto dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, la rigida educazione cattolica in cui crescenellacasapaternasifa sentire ancora nelle prime pagine dei Pensieri. Nelle quali,delresto,ilrapportotra il «principio di non contraddizione» e la dimensione metafisica (soprattuttoquelladeldivino) compare nel modo più autentico, giacché si afferma l’esistenza di quella dimensione perché altrimenti il «principio di non contraddizione» resterebbe negato. E infatti in quelle pagine si afferma quella certa dimensione metafisica che è l’immortalità dell’anima perché altrimenti la realtà umana sarebbe contraddittoria. «Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo […], l’impossibilità di appagare i propri desideri»: «la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale», perchéilsuofinirquisarebbe «una contraddizione formale coldesideriodiesistere»edi essere felice. Sapendosi ridotto a questa vita, l’uomo la detesta fino a uccidersi. «L’uccidersidell’uomoèuna gran prova della sua immortalità»(P 40). L’uomo è essenzialmente desiderio di felicità;manellavitapresente è infelice; se quindi non esistesse un’altra vita l’uomo sarebbe una natura contraddittoria. Ma ancora in P 375 si afferma che «nella natura non si trovano contraddizioni»–nellanatura in quanto «natura primitiva». In P 40 la ragione è sì già vista come antitetica alla «naturaprimitiva»,tuttaviala ragione è allo stesso tempo quel «principio di non contraddizione» che, spingendo il pensiero all’affermazione dell’immortalità dell’anima, liberalanaturadall’assurdo. Ma, poco dopo la stesura di P 40, la ragione viene presentata,neiPensieri,come la visione della nullità delle cose. Leopardi sta per dire che «tutto è nulla» (P 85). Intanto, in P 56, non si dice più che l’infelicità dell’uomo implica l’immortalità dell’anima perché altrimenti la realtà umana (in quanto desiderio di felicità) sarebbe contraddittoria; ma si rovescia il discorso, e cioè si dice che l’uomo è una realtà contraddittoria perché il suo desiderio di felicità è in contraddizione con la sua infelicità. «Tutti gli esseri» hanno «cura di conservare la propria esistenza» e l’esserne soddisfatti;«el’odiarlaonon soddisfarsene» è «un principio contraddittorio; il quale non può stare in natura». «Ora vediamo», ossia è evidentissimo, che nell’uomo «è tanta la scontentezza dell’esistenza, che non solo si oppone all’istintodellaconservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente», cosa «che non può stare in natura se non corrotta totalmente» (corsivi miei). E ciò che corrompelanatura(inquanto «natura primitiva») è la ragione. Irrompendo nella natura e unendosi a lei, la ragioneproduceun«principio contraddittorio», un luogo – la realtà umana – in cui l’assurdo, cioè la negazione del «principio di non contraddizione», esiste. Noi non siamo più capaci di quella felicità che solo la natura può darci, «da che abbiamo conosciuto il vòto delle cose e le illusioni e il niente»dellafelicitàstessa,e questa conoscenza è appunto la ragione che, accadendo, rende non solo possibile, ma reale, nell’uomo, l’assurdo, l’impossibile,ciòcheessendo in se stesso contraddittorio è l’impossibile. Inmargine.Puòsembrare chesoloinapparenza,dunque in modo arbitrario, Leopardi sia giunto a questo risultato. Egli afferma che con l’accadimentodellaragioneil «principio contraddittorio» diventareale–riescea«stare innatura»–perchél’uomoè, essenzialmente, desiderio di essere e di esser felice, e ciò nonostante l’uomo è infelice e desidera di non esser più e siuccide.Èfeliceeinfelice. Sipuòalloraobiettareche questodiscorsodimenticauna delle clausole fondamentali del principio di non contraddizione: l’impossibilitàcheallostesso convengalostessosecondolo stesso rispetto. Non si nega questo principio (dice l’obiezione)sesiaffermache questa superficie è (stata) bianca ieri e non è bianca oggi: appunto perché tale affermazione afferma sì che questa superficie è e non è bianca, ma non afferma che lo sia «secondo lo stesso rispetto»: il «rispetto», il «riferimento» che in questo caso è il tempo. Nello stesso modo (continua l’obiezione), anche ammesso che l’uomo sia essenzialmente desiderio di esistere e di felicità – e quindi è sempre questo desiderio –, tuttavia l’uomo non è sempre infelice, come lo stesso Leopardi riconosce quando afferma che nello stato naturale le illusioni possono rendere felice l’uomo, e che, anche dopo la sventura, l’infelicità, la delusione più profonda, le illusioni «tornano a rifiorire» e basta poco perché ciò accada. L’uomo non è cioè felice e infelice nello stesso tempo. Non c’è dunque un «principio contraddittorio», un assurdo, che divenga realtà. Leopardi ignora questa obiezione. Quindi nemmeno le risponde. Eppure essa non riesce a colpire così facilmente. Leopardi può tener fermo cioè il suo discorso sulla realtà dell’assurdo. Infatti, se l’uomo è felice e infelice in tempidiversi,tuttaviaènello stessotempocheeglisitrova adaverelapossibilitàreale,la reale capacità di diventare felice e infelice. Aristotele chiama «potenza» questa possibilità, onde si dice che l’uomoè,inpotenza,felicee infelice, e lo è nello stesso tempo. Richiamando qui in breve quanto altrove ho determinatamenteconsiderato (cfr. per esempio Fondamento della contraddizione), va rilevato chel’essere in potenza felice è il non essere in potenza infelice: propriamente, l’«essere in potenza felice» sta all’«essere in potenza infelice» così come «bianco» sta a «nero», sicché come è impossibile che la stessa superficie sia nello stesso tempo bianca e nera così è impossibilechel’uomosiain potenza felice e infelice, perché è nello stesso tempo che egli si trova ad avere questa duplice e opposta capacità. Leopardi e l’intero pensiero dell’Occidente credono che tale capacità si trasformi in realtà, ossia che l’essere effettivamente felice e infelice siano il risultato di undivenire dove la felicità e l’infelicità dell’uomo escono dal loro non essere ancora reali (perché erano ancora soltanto la capacità di realizzarsi) e dopo esser diventatirealisenevannonel loro non esser più reali. Ma Leopardi scorge, sia pure da lontano(perchénonconsidera l’obiezione qui sopra indicata),chelacompresenza di felicità e infelicità nell’uomo è il diventar reale dell’assurdo, l’esistenza dell’impossibile. Si aggiunga che Leopardi usa come sinonimi i termini «contraddizione» e «contraddittorio». Quando parla,cioè,delfarsirealtàda parte dell’impossibile in cui la contraddizione consiste, si riferisce al contenuto contraddittorio della contraddizione in quanto atto del contraddirsi. Atto che è reale (e in questa realtà nemmeno Leopardi scorge alcunché di scandaloso), giacché il contraddirsi dell’uomo esiste; ma il «principio di non contraddizione» richiede l’inesistenza del contenuto contraddittorio, impossibile, del contraddirsi, e invece Leopardi afferma (in un primo tempo) l’esistenza di tale contenuto, in relazione a quell’àmbito circoscritto dell’essere che è la realtà umana. (Poi estenderà tale affermazione a ogni àmbito dell’essere.) 15 Natura«saviae coerente»,ilpiacere,la «contraddizionein natura» Come ogni cosa, la ragione accade senza «perché». Ma esiste il perché del suo accadere senza «perché». Tale esistente perché è l’evidenza stessa del venire dal nulla e dell’andarvi, da parte delle cose: è perché questo andare e venire è considerato come l’evidenza assolutamente innegabile (ed è così considerato sin dall’inizio della storia dell’Occidente) che non può esistere alcun «perché» capacediindicareilPrincipio da cui le cose provengono e incuiritornano. Ma esiste anche un motivo (un perché) specifico per cui la ragione irrompe senza «perché» nella natura. La ragione, infatti, mostra la nullitàditutto,lanullitàdella natura,espingeciòcheesiste anonessere;maselaragione fosseimplicatadallanatura– se l’uomo fosse per essenza ragione, cioè conoscenza della verità –, la natura, in quanto essere e volontà di essere, implicherebbe il proprio non essere, sarebbe essa, in quanto tale, un «principio contraddittorio». Dunqueèsenza«perché»che l’uomo venga a essere ragione, conoscenza della verità.Ciòchenonpuòessere necessariamente implicato dalla natura e che dunque è opera del caso non sono infatti le conoscenze prive di verità (quali le illusioni della natura, quelle che Adamo possedeva anche prima di peccare),malaconoscenzain quanto conoscenza della verità. La natura, in quanto natura, che è «tanto savia e coerenteintuttoilresto»,non può essere così «pazza e contraddittoria» nell’uomo, facendogli conoscere ciò di cui egli «non doveva per nessun conto accorgersi», ossia «della sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita», sì che «l’essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principi» (P 66), rende reale ciò che è in se stesso contraddittorio e impossibile. «Nella natura non si trovano contraddizioni»(P375). Questa natura «savia e coerente», che in nessun modo può esser «pazza e contraddittoria» è l’esistenza stessa, considerata in quanto tale, quindi senza ciò che è «contro» di essa (ossia la ragione). «Ella stessa ama la vita,eprocuraintuttiimodi la vita […]. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura fosse morte [se implicasse la ragione, che, mostrando la morte, è “mortifera”], ella non sarebbe. Esser [e] morte son termini contraddittori. S’ellatendesseinalcunmodo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e procurerebbe contro se stessa […]. Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l’esistenza, l’essere, la vita,sensitivaononsensitiva, delle cose» (P 3813, ottobre 1823). A proposito del modo in cui Leopardi afferma che essere e morte sono termini contraddittori, si ribadisca che «morte» significa per lui (come per l’intero sviluppo dellaciviltàoccidentale)«non essere», «annientamento», l’esser diventato nulla da parte di ciò che «mai più» tornerà a essere. Leopardi vede che la morte è «contro natura», nel senso che è contro natura il suo essere conosciuta dall’uomo, il quale pur appartiene alla natura. Per il Leopardi dei Pensieri 3813, 375, 66, la morte-annientamento, in quanto tale (in quanto tale, ossia non in quanto conosciuta) non è in alcun modo «contro natura», cioè qualcosadicontraddittorio.E nonsoloperLeopardi,maper l’interopensieroeperl’intero agire dell’Occidente, dove la morte-annientamento è anzi intesa–stiamocontinuandoa ripeterlo –, come la suprema evidenza, la realtà supremamenteevidente. Nello sviluppo dei Pensieri, la realtà della contraddizione nell’uomo viene ampiamente chiarita come contraddizione della società (si veda Cosaarcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, X). «Il dir società stretta [cioè costruita ad arte dalla ragione e, quindi, diversa dalla coesistenza naturaledipiùindividuidella stessa specie], massime umana, è contraddizione» (P 3788). Nonostante questa specie di ampliamento, che più che all’individuo guarda all’associarsi degli individui, la dimensione in cui la contraddizioneèrealerimane circoscrittaallarealtàumana. Eppure tale ampliamento contribuisce a spingere il pensiero di Leopardi verso una direzione dove la realtà dell’assurdo non compete all’essere in quanto essere umano, cioè in quanto essere che è invaso dalla ragione, maall’essereinquantoessere (anche se dapprima si tratta dell’essere umano, ma, appunto, nel suo non venire invasodallaragione). Se la morte che annienta lavitanonèinquantotale(in quanto tale, e non in quanto conosciuta) «contro natura», ossia non è qualcosa di contraddittorio, tuttavia nel Pensiero 4043 si dice che, essendo l’uomo sempre infelice («occupato o divertito»,cioè«disoccupato» che sia), «la vita è per se stessa un male», cosicché il suo sentirsi e conoscersi meno è il minor male, e anzi «il non vivere […] è semplicemente un bene, […] preferibile di per sé e assolutamente alla vita». Ma la vita è la natura: l’abbiamo risentitoquisopra;lanaturaè «savia e coerente», non va contro se stessa. Sembra che inP4043–esipotrebbedire all’improvviso, se non si tenesse conto dell’intensità e ampiezza dei Pensieri sulla realtà della contraddizione nellasocietà–siincomincia negarlo. Eppure nemmeno in questo caso Leopardi sta smentendo se stesso. Sta invece incominciando a rivolgersi alla natura, intesa noncomedesiderioinfinitodi piacere,macome«giocoreo» chenonpuòessereenonpuò produrre altro che male. La vita che è male di P4043,si può dire dunque, è la natura, considerata appunto come creata da tale gioco. Il concetto di natura come desiderioinfinitodipiaceree le conseguenze di tale concetto permangono, ma di lì a poco, in un Pensieroche fa esplicito riferimento a P 4043, il piacere riceve una configurazione nuova, che noncancellalaprecedentema le aggiunge qualcosa che rafforza la configurazione della vita come male: «Il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e dimorte.Ilpiacereèpiuttosto una privazione o una depressionedisentimentoche un sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un’imitazione dell’insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita e alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore […] Dunque la vita è un male e un dispiacere per sé, perché la privazionediessainquantosi può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poiché naturalmente priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio, fine, e perfezione cheèlafelicità»(P4074). Qui rimane fermo che la natura «primitiva» e «assoluta»,considerataperse stessa, non è contraddittoria («nella natura non si trovano contraddizioni»); e che a renderla contraddittoria è l’accadimento per il quale la ragione fa irruzione nell’uomo come individuo e come essere sociale. Ma la natura, considerata come creatura del «gioco» della produzione e distruzione senzaperché–ossiadelgioco in cui soltanto la morte è eterna –, è male, dispiacere, dolore: «Sola nel mondo eterna, a cui si volve / Ogni creata cosa, / in te, morte, si posa/nostraignudanatura;/ lieta no, ma sicura / dall’antico dolor […]», cioè dal dolore che essa è in quanto creata dal gioco del divenire. È in un breve Pensiero (P 4087), l’unico scrittol’11maggio1824,che viene introdotta in modo esplicito la novità radicale, quella che segna questo ulteriore senso della natura, presente sino alla fine negli scritti di Leopardi: la natura come creatura e aspetto dell’«empia madre». La novità è determinata da un approfondimento della portata e del senso della contraddizione. Appunto questo approfondimento andràorachiarito. Il Pensiero 4087 suona così: «Non è forse cosa che tanto consumi e abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta cheperilpiacere,poichénon èfattasenonperlafelicità,la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perché manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto bisogno difelicitàcioèdipiacere.Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?» (corsivomio). La vita è desiderio di piacere mai soddisfatto, quindièdolore;mailpiacere stesso produce dolore, rende infelice la vita. Anche quel modo di chiudere la riflessione è insolito. Leopardi sta accorgendosi della svolta che il proprio pensiero sta operando. Ora, infatti, non si dice più che la natura è contraddittoria in quantocorrottadallaragione, macheècontraddittoriainse stessa: «Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?». E in qualche modo la domanda si ripresenta nel DialogodellaNaturaediun Islandese («Io soglio prendere non piccola ammirazione»: l’«ammirazione» come stupore provato di fronte all’incomprensibile), che Leopardi compone pochi giorni dopo la stesura di P 4087. Proviamo a sondare la portatadiquestopasso. 16 «L’orribilemistero dellecoseedella esistenzauniversale» Il piacere, la felicità, consuma, abbrevia, rende in futuroinfelicelavita.Iltesto di P 4087 non sta parlando, banalmente, delle conseguenze degli stravizi che alcuni, pochi, possono permettersi. Il «piacere» è il «desiderio infinito» del piacere, sempre inteso, sappiamo, nel senso più ampio, che è innanzitutto la soddisfazione dei bisogni primari dell’uomo, la quale, una volta ottenuta, diventa desiderio di soddisfare bisogni ulteriori, e così all’infinito. (D’altra parte, «quellichenonhannobisogni sono ordinariamente molto piùbisognosidicolorochene hanno», perché «uno de’ grandissimi e principalissimi bisognidell’uomoèquellodi occuparelavita»,P4075). Si può aggiungere che piacere e felicità sono illusione, e all’illusione tiene dietroladelusione,esebbene basti poco perché le illusioni «rifioriscano», tuttavia è proprio questo continuo alternarsi di illusione e delusione a consumare il piacere e la felicità, a distruggere la vita. La vita è dunquedistruzionedellavita; la vita è non vita. L’essere è distruzione dell’essere; l’essere è non essere. La natura in quanto natura è contronatura.Esitrattadella natura umana in quanto natura, non in quanto invasa dalla ragione: della natura in quanto creatura e aspetto dell’«empia madre». Nel DialogodellaNaturaediun Islandese,questoledice:«Sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, perdircosì,deltuosanguee delle tue viscere»: sangue e viscere che quindi non possono che essere esse stesse contro di sé, contraddizioni (impossibilità di essere realtà) che sono realtà. Che le cose stiano in questo modo è d’altra parte dovuto, per Leopardi, alla convinzione (in lui ereditata dall’inizio e dall’intero percorso filosoficoontologico dell’Occidente) che la produzione e distruzione delle cose, in cui consiste l’opera del carnefice della propria famiglia, sia l’evidenza più innegabile. La produzione-distruzione è il divenire del mondo e una volta che lui, in quanto Giocatore Nero, ha mostrato l’impossibilità di un Eterno che sia causa e scopo del divenire, allora ogni cosa è necessariamente nel divenire eneltempo,epertantoèessa, il principio della propria distruzione,ilfondamentodel proprio non essere: è il principiodelproprioesseree – poiché essa è necessariamente un divenire, un diventar altro, e diventandoaltrovadistrutta– alcontempoèilprincipiodel propriononessere:èenonè. Edaccapononsipuòdire cheprimasiaepoinonsia,sì chelacontraddizionesarebbe evitata:nonlosipuòdireper quanto già si è rilevato nel passoInmarginedelcapitolo precedente. Giacché, anche a proposito di una cosa che prima è, la fede nel divenire deveaffermareche,inquesto suo esser prima, essa è capace di essere, ossia è «in potenza» il continuare a essere e, insieme e nello stesso tempo, è «in potenza» il non esser più; e, si è richiamato in quel passo, l’essere in potenza due opposti è qualcosa di contraddittorio, di impossibile. Leopardi percepisce in qualche modo questa contraddizione (contraddittorietà)ehaquindi benmotivodichiedere:«Chi mi sa spiegare questa contraddizioneinnatura?». Stando all’interno della fede dell’Occidente nell’esistenza del divenire, nessuno può spiegargliela. Glielo può spiegare il Terzo Giocatore, ma conducendolo al di fuori di quella fede nel divenire che il Giocatore Nero è il primo e comunque tra i pochi che nel modo più rigoroso si rifiutano di considerare come fede ma assumono come la verità supremamente evidente che implica l’inesistenza di ogni Eterno.EinfattisoloilTerzo Giocatore può considerare come «fede» quel divenire e quel diventar altro che nella sua forma ontologica (cioè come venire e andare nel nulla)èevocatodalGiocatore Bianco (alleato, in questa evocazione, al Giocatore Nero), e che nella sua forma preontologica incomincia da quandol’uomoiniziaavivere sullaTerra. Il passo P 3813 («La natura è vita. Ella è esistenza», eccetera) che abbiamoriportatonelcapitolo precedente non resta dunque smentito da tutte queste considerazioni;essodefinisce uno dei due lati della «contraddizione in vita» che ora è venuta alla luce: il lato per il quale la natura è vita, essere, esistenza, vuole se stessa. In essa (ossia in quanto primo lato) «essere e morte son termini contraddittori», dunque non tendeallamorte,nonècontro se stessa. O di tale passo è smentitalapretesadidefinire in modo completo la natura. IlPensiero4087indical’altro lato, radicalmente opposto al primo, e cioè indica che nonostantel’identitàdinatura e di essere, la natura (ogni cosa)hainsé,insieme,lapiù radicale negazione di se stessa. P 4087 indica cioè l’intera – e inspiegabile – «contraddizioneinnatura». Ciò che Leopardi sta portando alla luce diventa completamente esplicito in P 4099-101. Alla domanda che chiude P 4087 («Chi mi sa spiegare questa contraddizioneinnatura?»)le prime righe di P 4099 rispondono esplicitamente indicando il concetto con cui «non si può meglio spiegare l’orribilemisterodellecosee della esistenza universale» (corsivo mio). Dove, già in partenza, il testo dice che, ora, in questione non è l’essereinquantoumano,ma l’essereinquantoessere,cioè la totalità dell’essere; in questionesono,appunto,«le» cose e l’«esistenza universale»: «Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale» (vedi il mio DialogodellaNaturaediun Islandese, massime in fine) che dicendo essere insufficientieanchefalsi,non sololaestensione,laportatae le forze [della ragione], ma i principi stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento e ogni nostra proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sonoinnatura». Questo principio – il «principio di non contraddizione» appunto – è orasmentitononsoloineda una regione particolare dell’essere (quella umana, la naturacomedesiderioinfinito dipiacere),mainogniessere: la totalità dell’essere (la natura come «esistenza universale», gioco del divenire) lo smentisce. Le contraddizioni esistenti «in natura» – ossia in ogni parte del gioco del divenire in cui l’«esistenza universale» consiste – sono infatti «palpabili». La loro «palpabilità» è la loro evidenza assolutamente innegabile. E poiché l’esistenza delle contraddizioni del divenire possiede un’evidenza assolutamente innegabile, il principio di non contraddizione è «assolutamentefalso». Questa tesi, covata sin quasi dai primi Pensieri, ora esplode. Le sue ripercussioni sul gioco del Giocatore Nero sonogigantesche.Informain un certo senso rovesciata e siapureattraversolanebbia, il Giocatore Nero sta intravedendo il Luogo che il Terzo Giocatore vede e indica (cioè il «destino della verità», cfr. Istruzioni per la lettura). Il Giocatore Nero dice: l’esistenza della contraddizione del divenire è evidente; dunque il principio dinoncontraddizioneèfalso. Il Terzo Giocatore dice altro. Ora limitiamoci a un cenno senza indicarne il fondamento. Egli dice: per quanto a prima vista la cosa possa sembrare inaccettabile, l’esistenza del divenire, inteso come diventar altro e diventare da nulla ridiventando nulla, non è affatto evidente, non è «palpabile»: non è ed è impossibile che sia un contenuto dell’«esperienza», un che di «osservabile», un contenuto «fenomenologico» quale è impossibile che appaia; quindi la contraddizione del divenire – la quale si manifesta, nel Terzo Giocatore, al di fuori della nebbia che avvolge il GiocatoreNero–nonimplica lafalsitàdellanegazionedella contraddizione, ma conferma l’inesistenza del divenire. In breve:ilTerzoGiocatoredice che, non potendoci essere esperienza dell’esistenza del divenire, la contraddittorietà del divenire non implica l’esistenzadelcontenutodella contraddizione, ma è il sintomodell’impossibilitàdel divenire. E si avverta che per il TerzoGiocatorelanegazione autentica della contraddizione non è, come già si è rilevato, il «principio di non contraddizione». Infattiquestoprincipio(cheè principio dell’ente in quanto tale) pensa l’ente andandogli incontro con la convinzione che l’ente può essere un ente che diviene. Ma il Terzo Giocatore mostra che l’esistenza del divenire (inteso come diventar altro e daaltro)nonpuòapparire.È quindi allo stesso tempo impossibile che gli enti che divengono appaiano nel loro esser regolati dal «principio di non contraddizione», il quale,apropositoditalienti, afferma da un lato che quando un ente è è impossibile che esso sia e insieme non sia, e dall’altro lato afferma la necessità che essoprimasiaepoinonsia. Il testo di P 4099-101 continua ribadendo che: «L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo essere felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza […]sonodueveritàtantoben dimostrate e certe intorno all’uomo e a ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza». L’«essere effettivamente» è l’essere comecreaturedivenienti,cioè prodotteedistrutte;equestaè «verità secondo la nostra esperienza», la «palpabilità» del divenire. Il non poter essere felici è la contraddizione che avvolge l’«essere effettivamente». Contraddizione che a sua volta è «verità», ossia esiste veramente:siaperchéèasua volta «palpabile», sia perché èinbaseaipropri«principii», ossia, da ultimo, in base al «principo di non contraddizione» che l’uomo può vedere nella contraddizione ciò che dev’essere rifiutato. E d’altra parte, proprio perché vede l’evidente esistenza della contraddizione, l’uomo vede la contraddizione tra la contraddizione esistente e il «principio di non contraddizione», il principio, tuttavia, «estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento». Il testo aggiunge che se «l’essere, unito all’infelicità, e unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa» – se «l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo» –, d’altra parte non si tratta solodiquestacontraddizione, ma della contraddizione dell’«esistenza universale: «Del resto e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni […]; e tanto evidentipernoiquantoloèla veritàdellaproposizioneNon può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione». Posto anche – sembra dire il testo – che in base al principio di non contraddizione si debba rinunciare o all’evidente esistenzadellacontraddizione o all’evidenza di tale principio (ma, osserviamo, comeèpossibilerinunciarea tale principio se è esso a far compiere questa rinuncia?), «in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione».Èinfattipursempre la ragione a vedere che non solo le cose del mondo, ma tutte le cose divengono, sono nulla perché sono «in mezzo alnulla». 17 L’oscuritàcheavvolge la«vettadella contemplazione» Le vicende del pensiero filosofico non riguardano un mondo «astratto», di cui la «realtà» abbia ben poco a risentire. Esse guidano la storiaconcretadell’Occidente e ormai del Pianeta. Le categorie filosofiche, al cui interno si dispongono i pensieri e le opere dell’Occidente,sonodivenute le categorie dell’intero Pianeta. Per esempio il comunismo marxista e il capitalismo,impensabilialdi fuori del loro contesto filosofico, e da ultimo riconducibili,comeognialtra categoria,alsensogrecodella poiesis e dunque al senso greco della cosa come oscillazione tra l’essere e il nulla. Il Giocatore Bianco e il Giocatore Nero esprimono i due grandi tempi della storia occidentale. Il Giocatore Nero,propriamente,haaperto la strada al secondo di questi due tempi. Nonostante la visibilità del fanatismo religioso, che del resto è una forma di negazione dell’altezza raggiunta dal divino lungo la tradizione dell’Occidente, i popoli stanno progressivamente allontanandosi dalla fede che esista un Essere immutabile, eterno, divino, e che esso sia il Rimedio contro la morte. La filosofia fa da battistrada, ma il tramonto degli immutabili è percepibile in campo politico-sociale, economico, scientifico, artistico, giuridico, nei costumi morali degli individuiedellemasse. Tuttavia il pensiero di Leopardi perviene a un esito analogo a quello dove alcuni decenni più tardi giungerà il pensiero di Nietzsche; e lo stesso discorso si potrebbe fareperilpensierodiGentile. Nonstoriferendomi,ora,alla grande analogia relativa alla distruzione di ogni verità definitiva e di ogni eterno, compiuta da questi tre pensatori (che dunque sono treincarnazionidelGiocatore Nero), ma all’esito, appunto, di questa distruzione. A questo esito e allo sguardo che è capace di decifrarlo si rivolgono questo capitolo e i dueseguenti. Nietzsche chiama «vetta dellacontemplazione»–ossia il punto più alto al quale il pensiero può portarsi – la propria dottrina dell’«eterno ritorno delle stesse cose». A differenza di Leopardi, Nietzsche non pensa il divenire (che è la totalità dell’essere) come produzione e distruzione casuale di mondi e stati di cose sempre diversi, ma come l’eterno ritornodiquell’insiemefinito di cose che casualmente si sono prodotte e sono andate distrutte(sivedaL’anellodel ritorno). Heidegger ha osservato che questa vetta «rimane avvolta in dense nuvole: non soltanto per noi, ma anche per il pensiero più grave di Nietzsche»; «è avvolta in un’oscurità di fronteacuipersinoNietzsche dovette indietreggiare spaventato». I motivi autentici di questo spavento non sono quelli indicati da Heidegger, o quelli che Nietzsche stesso ha presumibilmente indicato, ma sono dovuti a qualcosa chenessunodeiduenéalcun altro abitatore dell’Occidente possono aver visto, sebbene nonsipossaescludereche,in qualche modo, esso trapeli dalle parole di Nietzsche. Sono dovuti alla circostanza cheèpropriol’estremorigore col quale Nietzsche mostra l’inevitabilità della morte di ogni Eterno a condurre con necessitàaquell’Eternocheè l’Eterno ritorno delle stesse cose.Rigorosamentepensato, il concetto del divenire distrugge se stesso. La fede nell’esistenza del divenire, inteso grecamente come poíesis – e ormai dominante ogni pensiero e opera dell’uomo – distrugge se stessa. (Qui non è possibile giustificare questa affermazione, e si rinvia al saggio qui sopra citato e a quelli che riguardano l’attualismogentiliano.) Orbene, l’analogia di cui abbiamo incominciato a parlare qui sopra consiste appuntonellacircostanzache anche, e prima di tutti, Leopardi perviene alla propria «vetta della contemplazione»deldivenire, e che anch’egli, di fronte a essa, arretra spaventato. Ma anchequiilmotivoprofondo di questo spavento non è quello indicato da Leopardi; sebbene,forse,essotrapeliin ciò che egli vede come spaventoso. Ciò che per lui è spaventoso («spaventevole») è la contraddizione (ossia la contraddittorietà)diciòcheè reale: la contraddizione dell’essere, l’esistenza di ciò che non può esistere, l’esistenzadell’assurdo(della quale Leopardi indica tutta una molteplicità di aspetti e modi). «Contraddizione evidente e innegabile nell’ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole [corsivomio];manonperciò menvera:misteriogrande,da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in certomodoanchealprincipio dicognizionenonpotestidem simul esse et non esse» (P 4129, aprile 1825), «è impossibilechelostessosiae insiemenonsia». La vetta della contemplazione,qui,secondo Leopardi, è la negazione di questo principio: la necessità di negarlo perché è l’«ordine dellecose»,l’esistenzastessa (cioè il divenire) ad apparire evidentemente come contraddittoria: «contraddizione evidente e innegabile». L’«oscurità» di questa vetta è estrema («misterio grande») e spaventosa. Si tratta tuttavia di scorgere,aldilàdiquantoil Giocatore Nero riconosce come spaventoso, ciò che produce in lui uno spavento essenzialmente più profondo. Egli è capace di reggere lo spettacolo della infelicità universale: «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altriesserialloromodo.Non gli individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi» (P 4175, aprile 1826). Egli avrà l’ardimento di Tristano e della nobile natura «che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato,echeconfrancalingua, nulla al ver detraendo, / confessailmalchecifudato in sorte». Ma già sei anni prima, sappiamo, aveva scritto: «Io era spaventato [corsivo mio] nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solidonulla». Si tratta dunque di mettereinluceinchesensoil Giocatore Nero può essere avvolto da uno spavento essenzialmente più profondo. Egli non dà alcun esplicito aiuto per capirlo. E non può darlo perché altrimenti, vedremo, dovrebbe abbandonare se stesso e lasciare la parola al Terzo Giocatore, che incomincerebbe la sua partita (cfr.capp.18-20). Intanto va notato che la stesura dei Pensieri rallenta man mano che Leopardi va pubblicando le Operette morali.Inoltre,nei Pensierii riferimenti espliciti alla «contraddizione spaventevole», di cui si parla nell’aprile1825,diventanoin seguito rari. D’altra parte passa quasi un anno da P 4099-101 a P 4129. Passa ancora un altro anno prima che i Pensieri ritornino esplicitamente sul tema della «contraddizione spaventevole». È infatti in P 4169 (marzo 1826) che si parladella«spaventevole,ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica»:chel’esistenzadi ciò che esiste produce necessariamente l’inesistenza dell’esistente, che l’essere dell’enteèilprincipiodelnon essere dell’ente. Questa contraddizione «spaventevole» è la «conchiusione di tutta la metafisica». È la «vetta della contemplazione». La vetta è raggiunta da tempo, e infatti Leopardi si limita a constatarne l’aspetto spaventoso e in sostanza ad affermare che questa constatazione è la conclusionedelpensare. Si capisce allora come, giunto a quella «conchiusione», egli decida, pubblicando le Operette moralieiCantidal1826(Al conte Carlo Pepoli) alla Ginestra, di ripercorrere l’intero arco del suo «sistema» (così egli lo chiama). Ma per un verso ne maschera la radicalità, per l’altro unisce alla filosofia la potenza del grande stile, cioè del canto (una potenza che delrestoèspessogiàpresente nella«prosa»deiPensieri).E sipuòanchecapireperchénel Leopardi delle Operette morali Nietzsche abbia visto il «maggior prosatore» del XIX secolo – prosatore, non filosofo –, traendo però da questa «prosa» ampie tematiche del proprio filosofare, e dunque facendo tortoaLeopardifilosofo.Del quale Nietzsche era ben in grado di scorgere il volto sottolamaschera. Ma, ancora, si può capire perchéilsensodelleOperette morali e dei Canti sia fortemente ambiguo. Giacché, da un lato, l’intento delloroautoreèdipresentarli ailettoriindipendentementee separatamente dai Pensieri, dall’altro sono appunto quest’ultimi a conferire alle Operettemorali e ai Cantila potenza e densità concettuale chelorospetta.Nonèuncaso che un mese dopo la stesura di P 4087, del maggio 1824, in cui chiede chi gli sappia spiegare come possa darsi la «contraddizione in natura» (cfr.cap.15),Leopardiscriva il dialogo dove Eleandro, dopo aver affermato che la filosofia è «dannosissima», e da «estirpare dal mondo» e che le sue verità debbono essere «ignorate o dimenticatedatutti»(cfr.cap. 7), aggiunge: «se ne’ miei scrittiioricordoalcuneverità dure e triste, o per sfogo dell’animo o per consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero […]: laddove, per lo contrario, lodoedesaltoquelleopinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti e magnanimi […]; quelle immaginazioni, belle e felici, ancorché vane, che danno pregioallavita». 18 Checosaspaventail GiocatoreNeroela primamossadelTerzo Giocatore Non è un caso che Eleandro parli come abbiamo sentito alla fine del capitolo precedente, perché «quel misero e freddo vero» a cui eglisiriferisceèappuntociò che ai suoi occhi debbono sembrare le considerazioni svolte nei Pensieri. Eleandro sta esaltando quell’unità di filosofia e di poesia che costituirà l’essenza della nobile natura del fiore del deserto. Dimenticata dev’essere la filosofia separata dalla poesia, non la loro unione. Che anche per Eleandro dev’esser salvaguardata. Egli riconosce infattidi«ricordare»neisuoi scrittileverità«dureetriste», e di dichiarar «false» e «vane» quelle «opinioni» e «immaginazioni» che rafforzano la vita rendendo «nobile», «forte» e «magnanimo» l’uomo. Riconosce il carattere filosoficodeisuoiscritti.Ciò chepuòrisultaredannosoper illettore,Eleandro(Leopardi) lotienepersé,chiusoneisuoi Pensieri. Soprattutto quando il danno è diventato estremo perché la verità è giunta a mostrare la «spaventevole» esistenzadellacontraddizione dovel’essereinquantoessere è il principio del proprio annullamento e non essere. Nelle Operette e nei Canti questa estrema contraddizione è presente soloinmodoindiretto. Tale contraddizione, poi, èmassimamentediversadalla contraddizione dialettica hegeliana. La contraddizione dialetticaèilcontraddirsidel pensiero in quanto intelletto astrattocheseparalecose–o «determinazioni» – dal loro contesto. La contraddizione dialettica è l’errare della conoscenza, non è la contraddittorietà dell’essere in quanto essere. E altro è considerare come errare il contraddirsi del pensiero, altro è affermare che sono le cose stesse a essere in se stessecontraddittorie.Altroè considerare la pazzia dell’uomo folle, altro è affermare, come Leopardi appunto giunge a fare, che la pazziaènellecosestesse.La negazione del «principio di non contraddizione» alla quale Leopardi perviene è quindimassimamentediversa anche dall’opposizione di forze che agiscono nello stessoente,comeperesempio lo scontro tra due opposte tendenze della volontà o dell’istinto all’interno dello stesso individuo, oppure come l’opposizione di amore e odio (eros, neíkos o thánatos) secondo la psicoanalisi di Freud, o secondo la metafisica di Empedocle, alla quale Freud sirichiamaesplicitamente. Per il Terzo Giocatore, dissipare l’oscurità che nel pensiero di Leopardi avvolge la «vetta della contemplazione» del divenire – cioè la contraddizione «spaventevole» – è la prima mossa di questa sua partita. Non è ancora la mossa fondamentale. Tuttavia è questa prima mossa che ora vamessainluce. Si tratta di comprendere, insieme al Terzo Giocatore, che quanto è autenticamente spaventoso per la sopravvivenza del Giocatore Nero è che, se l’essere in quanto tale, cioè ogni ente, è contraddittorio, allora l’immane distruzione da lui compiuta dell’intera tradizione occidentale resta essa stessa distrutta. Il Giocatore Nero distrugge se stesso. (Ma ciò non significa nemmeno che, per questo, il Giocatore Bianco abbia partita vinta. Il Terzo Giocatore glielo impedisce. Comevedremo.) Nel capitolo 5 si è mostrato perché il Giocatore Nero è vincente rispetto a quello Bianco. Egli mostra che se esistesse un Dio eterno, e dunque un «Prototipo» delle cose del mondo – delle cose, cioè, il cui venire dal nulla e andare nel nulla è assolutamente evidenteeinnegabile–,allora il nulla da cui esse provengonoeincuiritornano sarebbe trasformato in un ente che partecipa della positività del Prototipo. Il nulladacuilecosevengonoe in cui vanno diventerebbe infatti un suddito del Prototipo eterno: un suddito che segue le Regole del mondonellequaliilPrototipo eterno fa sentire il proprio dominio, e questo suddito le segue sia prima di diventare l’essere delle cose, sia dopo aver finito di esserlo. Se esiste l’Eterno, il nulla dovrebbe esserne il suddito. Maèimpossibile che il nulla sia un suddito, che sottostia alla Legge di tutte le cose presenti,passate,future,nella quale il Prototipo consiste. Il nullanonsotto-stàperchénon èuno«stare».Seesistesseun Eterno, dunque, il nulla sarebbeunente,ilnonessere sarebbe essere. A questo punto il Giocatore Bianco soccombeperchésialuisiail Giocatore Nero sono assolutamente convinti dell’impossibilitàchel’essere sia non essere: sono assolutamente convinti dell’inviolabilitàdelprincipio di non contraddizione. Quando vince questa partita, ilGiocatoreNerononèinfatti ancora pervenuto all’affermazione della contraddittorietà di tutte le cose. Ma a un certo punto il Giocatore Nero si convince chelarealtàdelmondo,lacui esistenza è assolutamente evidente, smentisce il «principio di non contraddizione». Ritiene di poter rilevare che è la realtà stessaamostrarechel’essere ènonessere,chelostessoèe insiemenonè.Èquicheegli distrugge la propria vittoria sul Giocatore Bianco. Infatti, come può il Giocatore Nero ancora negare l’esistenza di ogniEternoinbasealrilievo che, se l’Eterno esistesse, il non essere sarebbe identico all’essere, e cioè che il «principio di non contraddizione resterebbe violato»? Negando questo principio, egli nega il fondamento della propria vittoriasull’avversario. È in questo modo (cioè dicendoquelchediconoidue capoversi precedenti) che il Terzo Giocatore dissipa l’oscurità che avvolge la «vetta della contemplazione» del Giocatore Nero e mostra il tratto che propriamente deve farlo arretrare spaventato. Il Terzo Giocatore osserva inoltre che ogni forma di pensiero occidentale, affermando l’evidenza del divenire, afferma necessariamente la differenza tra il punto di partenza e il punto di arrivo del divenire stesso. Se si pensa che la legna divenga cenere,osesistacostruendo una casa, si è convinti che la legna, prima di bruciare, non ècenere,echeimaterialicon cuisicostruisceunacasanon sono la casa ormai costruita. Ma questa convinzione è un modo di affermare il «principio di non contraddizione». Anche tutti coloro che, lungo la storia dell’Occidente, si pongono a guardia del divenire delle cose e ritengono che per salvaguardarlo si debba negaretaleprincipio,inrealtà lo affermano. La loro negazione di esso è soltanto un’intenzione. Eancora:ilmodoincuiil Terzo Giocatore dissipa l’oscurità che nel pensiero di Leopardi avvolge la «vetta della contemplazione» del divenire–lavettaconsistente nell’affermazione della contraddittorietà di tutte le cose – è determinato dalla circostanza che quel pensiero è il Giocatore Nero. Intendiamo dire che questo dissipare non può ridursi all’obiezione di carattere formale che può esser rivolta ancheatutticoloroche,senza essere il Giocatore Nero, affermanolacontraddittorietà diognicosa:l’obiezionecioè che, se ogni ente è contraddittorio, allora anche tale affermazione è un ente contraddittorio, ossia è e non èsiffattaaffermazione. D’altra parte Leopardi può replicare dicendo che l’unico ente non contraddittorio è appunto questa affermazione e il «sistema» da essa implicato. In effetti, Leopardi continua fino alla fine a sostenere la verità e quindi la non contraddittorietà del proprio «sistema». Per esempio, ancoranellugliodel1826,in P 4185, mostra ciò che è in grado di escludere un certo tratto concettuale che «pare affattocontraddittorionelmio sistemasopralafelicità». Ma anche questa prospettiva,cheanticipacerte configurazioni della logica contemporanea, sostiene qualcosa di contraddittorio. Infatti,selatotalitàdeglienti si divide in una dimensione contraddittoria e in una non contraddittoria (la quale affermalacontraddittorietàdi quella prima dimensione), allora la dimensione non contraddittoria non potrà avere alcuna relazione con quella contraddittoria, perché tale relazione si riferirebbe a qualcosa che è e non è, e quindi la relazione stessa sarebbe e non sarebbe. Il «sistema» di Leopardi non può avere pertanto nemmeno quella relazione con la dimensione contraddittoria, che consiste nel conoscerla, perché conoscerebbe qualcosa che è e non è e quinditale«sistema»sarebbe unconoscereenonconoscere quelqualcosa. Tuttavia, come si è detto, non è a questo tipo di difficoltà che il Terzo Giocatore intende primariamente rivolgersi quandosiriferisceaciòcheè autenticamente spaventoso per il Giocatore Nero, e del quale quest’ultimo ha mostratodinonaccorgersi. D’altra parte l’analogia tra il pensiero di Leopardi e quellodiNietzsche,dicuisiè parlato nella prima parte del capitolo precedente, va tuttaviaprecisata. Il pensiero di Nietzsche arriva alla dottrina dell’eterno ritorno. Considerandoquestadottrina, ilTerzoGiocatorerilevache, identificando il divenire e la totalitàdell’essere,ilpensiero di Nietzsche mostra, senza rendersene conto, che il divenire implica quell’Eterno che invece tale pensiero intende radicalmente escludere, e intende escluderlo proprio mediante ladottrinadell’eternoritorno. Il Terzo Giocatore porta alla luce che il pensiero di Nietzsche mostra, senza rendersene conto, la contraddittorietà, cioè l’impossibilità del divenire. Infatti, da un lato, tale pensiero mostra col rigore massimo (quello che si può esercitare sul fondamento della convinzione che il divenireèl’evidenzasuprema e che le cose che esistono sono unicamente cose divenienti e «Dio è morto») che nessun Eterno esiste; dall’altro lato tale pensiero giungeadaffermarequelnon diveniente che è l’Eterno Ritorno, e daccapo vi giunge inevitabilmente, cioè con altrettanto rigore. Nietzsche nonsenerendeconto,main veritàciòdifronteacuiilsuo pensiero arretra spaventato è il trapelare della contraddittorietàdeldivenire. Anche Leopardi, e ben primadiNietzsche,pensache iltuttocoincidaconlatotalità del divenire. «Tutto è nulla», cioè, perché tutto viene dal nulla e vi ritorna. Ma a differenza di Nietzsche egli giunge ad affermare esplicitamente che tutte le cose sono contraddittorie. È questo il significato dell’affermazioneche«tuttoè male» (P 4174). E a questa densità di significato si riferisce«ilmalchecifudato insorte»,chelanobilenatura hal’ardimentodiguardare. NelpensierodiNietzsche è l’inevitabile dottrina dell’eternoritornoafarsìche la distruzione di ogni eterno abbia a implicare inevitabilmente (anche se al dilàdiciòdicuitalepensiero riesce a essere consapevole) la contraddittorietà del concettodidivenire.Noncosì nel pensiero di Leopardi, dove l’esplicita affermazione dellacontraddittorietàdiogni cosavieneagiustapporsialla distruzionedeglieterni,ecioè dove questa distruzione non richiede necessariamente quell’affermazione, ma anzi puòreggersisolonellamisura in cui la esclude. Fermo restando che il «sistema» di Leopardi ha la pretesa di poter mostrare che quella distruzione è inscindibile dal rilevamento della contraddittorietà di tutte le cose. E, sappiamo, questo rilevamento è la convinzione che tale contraddittorietà sia «evidente»: «Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi», dice Eleandro; ma due anni dopo, si è visto, P 4175 afferma che «infelice di necessità» è ogni cosa. Quel che Eleandro non dice e non vuol dire in modo esplicito è che l’«infelicità necessaria» consiste nella necessità che ogni cosa diveniente sia il principio della propria distruzione, ossia è la negazione del «principio» fondamentaledellaragione,il «principio di non contraddizione». La stessa reticenza è riscontrabile anche nelle altre opere pubblicate. Il passo avanti di Nietzsche rispetto a Leopardi è dunque dato dalla dottrina dell’eternoritorno.Maquesta dottrina, si è detto, porta al dissolversi del concetto di divenire.Finoaquestopunto il Terzo Giocatore lascia che siano gli stessi abitatori della fede nell’esistenza del divenire a mostrare, consapevolmente o no, la contraddittorietà dello stesso divenire. Porta soltanto alla luceciòcheessinonpossono riconoscere. 19 IlterzoGiocatore,il destino,ilnonapparire deldiventaraltro SièdettonelleIstruzioniper la lettura che il Terzo Giocatore, a differenza degli altri due che giocano sulla stessascacchiera,vedechela scacchiera è l’Errare. L’Errare estremo. Essenzialmente più profondo di ogni «peccato originale». Lascacchieranonsiappoggia ad alcunché ed è l’Errare estremo; e nondimeno è il sostegnosucuisiappoggiae di cui si alimenta tutto l’errare e la violenza della civiltà occidentale e ormai di tuttalaTerra. Ma il Terzo Giocatore può vedere l’Errare solo in quantovedelaVerità.Nonla «Verità» affermata dal GiocatoreBiancoenegatada quello Nero, ma il senso inaudito della Verità. Propriamente, il Terzo Giocatore è il testimone del vedersi della Verità. Egli, si diceva in quelle Istruzioni, è il dito che indica l’Immenso, il linguaggio che tenta di esprimerlo. Tale linguaggio, aggiungevamo, tenta di indicare ciò che non è un tentativo,mastaaldisopradi ogni tentativo di stare. Appunto per questo lo chiamiamo «de-stino della Verità»(intendendodunqueil «de» del prefisso come indicante non un moto da luogo, ma una intensificazione, come accade, per esempio, in «deamare»e«de-vincere»). Il destino è l’innegabile, l’assolutamente innegabile. Non può essere smentito né da uomini né da dèi. Nessun Onnipotente può piegarlo. È infattiaffermato(losimostra neimieiscritti)anchedatutte le forze e sapienze che intendono negarlo e piegarlo. Giacché è esso a sorreggerle, a esserne il fondamento. Il destinoèlaverità. Da più di due secoli, certo, l’Occidente è negazione di ogni verità definitivaediogniEterno.È negazione a partire innanzitutto dal proprio sottosuolo filosofico, abitato dalle poche incarnazioni del GiocatoreNero.Diessesista considerando, in queste pagine, Leopardi. Il Terzo Giocatore può indicare il destino della verità perché il destino – come stiamo per mettere in luce – mostra la nonveritàdellabaseapartire dalla quale l’Occidente giungeallanegazionediogni verità definitiva e di ogni Eterno; ossia mostra la non verità della fede che l’esistenza del divenire sia l’evidenza assolutamente non smentibile. Stiamo parlando cioè del rovesciamento più profondo rispetto al centro dell’Occidente–anzi,rispetto alcentrodiciòincuil’uomo crededacheegliapparesulla Terra – il centro costituito appunto dalla fede nell’evidenza del diventar altro. Non si dovrà dire, allora, che l’uomo è lo scontro tra questasuafede,dovelaTerra si mostra nel suo essere isolata dal destino, e l’appariredeldestino? Qui si aggiunga soltanto questa definizione formale: il destinoèl’appariredell’esser sé e non altro da sé degli essenti in quanto tali, l’apparire che è il Luogo la cui negazione è autonegazione e dove l’esser sé appare nel suo esser necessariamente implicante l’eternità di ogni essente, ossia dell’essente in quanto tale, l’eternità dunque che non spetta soltanto a un Eternoprivilegiatoedivino,il quale sia convinto della nullità originaria di tutto il resto anche quando egli si propone di trarre fuori dal nullaqualcosadiesso. L’eternitàdiogniessente! Di ogni cosa, relazione, stato del mondo e dell’anima, di ogni attimo, del contenuto di ogniistante,delpiacereedel dolore, e del loro superamento. L’eternità che i mortali credono impossibile perché credono evidente che le cose del mondo o tutte le cose siano prede o figlie del nulla. La cultura non solo filosofico-scientifica dell’Occidentecontrapponele cose che si possono «osservare, «sperimentare», «constatare», «percepire in carne e ossa» – le cose che sono«fenomenologicamente» affermabili: le cose «palpabili», dice Leopardi – alle cose che invece si mostrano all’interno del fantasticare,dell’immaginare, del supporre, del presagire, del pensiero separato dall’esperienza. Per esempio, che ora sia giorno o che questi libri abbiano colori diversi sono cose del primo tipo; che tra gli dèi dell’Olimpo vi sia Apollo, invece, del secondo. (Fermo restando che anche le nostre fantasie sono osservabili, ma non lo sono le cose che nel fantasticare a volte si crede che esistano nello stesso modo in cui esistono questa giornata o questi libri, o che comunque a volte non si crede nel loro carattere fantastico.) Se lungo la storia dell’Occidente possono essere insorti dubbi intorno all’esistenza di cose ritenute in un primo tempo osservabili, tuttavia nessun dubbioèmaisortointornoal divenire (diventar altro) delle cose. Il divenire – abbiamo continuato a ripetere – è l’evidenza assolutamente innegabile. L’eleatismo ha certamente affermato l’illusorietà del divenire, ma ha creduto che, all’interno dell’illusione che avvolge i mortali, ciò che è supremamente osservabile ed evidenteèchelecoseescono dal nulla e vi ritornano. Ma anche nella preistoria dell’Occidentesicredecheil diventaraltrodellecosesiala suprema evidenza. Ne parlano le teogonie, le cosmogonie, le metamorfosi. Il peccato di Adamo è un voler diventar altro. Ogni preistoria è preistoria dell’Occidente.Inessanonsi pensaancorailsensoradicale dell’«essere»edel«nulla»(il senso che viene portato alla lucedall’Occidente),equindi ildiventaraltroedaaltronon èancoraildiventarnullaeda nulla, e tuttavia il diventar altroedaaltro,dapartedelle cose, è la cova in cui matura il senso radicale («ontologico»)cheilpensiero dell’Occidente conferisce all’altro da cui le cose provengonoeincuivanno. Seguiremooraquestafase della partita tra il Terzo Giocatoreegliabitatoridella fede nel diventar altro e da altro,dapartedellecose.Alla loro testa stanno ormai gli abitatori dell’Occidente. E il Giocatore Bianco, prima, e poi il Giocatore Nero – che ora considereremo come espressione di tutte le sue incarnazioni – guidano gli abitatori dell’Occidente. Indicheremo con l’espressione Giocatori del diventar altro l’immensa falange degli abitatori della fede nel diventar altro e da altro, in quanto guidata dal Giocatore Bianco e dal Giocatore Nero (in quanto guidati dall’anima dell’Occidente). Terzo Giocatore – (rivolgendosiaiGiocatoridel diventar altro) – Voi siete giunti ad affermare che le cose(alcuneotutte)vengono dalnullaealnullaritornano; echequestolorodivenireèla supremaevidenza. Giocatori del diventar altro – C’è bisogno di ripeterlo? Comunque sarebbe preferibile dire che si trasformano,perchélacenere, peresempio,nonhaprimadi sé il nulla, ma la legna che verràbruciata(etuttociòche esiste prima della cenere); e la legna, a sua volta, non ha dopo di sé il nulla, ma la cenere (e il calore, e tutte quelle altre forme di energia che si producono con la combustione della legna e quelle che continuano a esistere). La scienza dice che la quantità di energia dell’universorimanecostante, maassumeformediverse. Terzo Giocatore – Sì. E l’esempio della legna che diventa cenere è ottimo per indicare la morte di tutte le cose.Maprimachelacenere venisseaprodursi,cheneera di essa? Esisteva già? E quando la legna sarà diventata cenere, che ne è di essa?Esisteancora? Giocatori del diventar altro – Ovviamente no. Non venirci a chiedere quello che insegniamodaduemillennie mezzo. Terzo Giocatore – Dunque, dire che la cenere non esiste già prima di prodursi e che la legna non esiste più quando è diventata cenere, significa dire che, prima di prodursi, la cenere, in quanto cenere, è ancora nulla, e che, dopo esser diventata cenere, la legna, in quanto legna, è ormai nulla. (Dico «la cenere in quanto cenere»e«lalegnainquanto legna», perché invece – se vogliamo tener conto della legge di conservazione dell’energia –, in quanto la legna e la cenere sono una certaquantitàdienergia,esse non diventano nulla e non esconodalnulla). Maorachiedo:quandola legna (in quanto legna) è diventata nulla, continua forse a essere osservabile, sperimentabile, constatabile? Continua forse, cioè, ad apparire così come appariva prima di diventar cenere? Della legna ci si ricorda, certo,quandoessaèdiventata cenere; ma nel ricordo essa appare forse così come appariva prima di bruciare e morire? Giocatori del diventar altro–Certamenteno! TerzoGiocatore–Eforse dobbiamo dire che, prima, la legnadiventanullaepoinon appare più come appariva prima; o che prima non appare più come appariva prima e poi diventa nulla? In modo che, daccapo, ci sarebbe un tempo in cui è diventata nulla, ma appare ancora con tutti i tratti che essa mostrava prima di annullarsi; o un tempo in cui essa non appare più come appariva prima, ma non è ancoradiventatanulla? Giocatori del diventar altro – Se vuoi dire che l’annullarsi della legna è insiemeilsuononapparirpiù come appariva prima di annullarsi, e viceversa, allora ti rispondiamo di sì, che cioè è necessario sostenere questa simultaneità, e che è necessario rispondere negativamente a queste tue ultimedomande. Terzo Giocatore – Certo, se si crede che le cose si annullinoènecessariocredere che, nella misura in cui esse si annullano, esse non siano più osservabili, sperimentabili, constatabili cosìcomeloeranoprima. Se si crede che le cose si annullino, è necessario credere che, nella misura in cui si annullano, esse escano dall’esperienza, cioè escano dalla totalità di ciò che è sperimentato. Sperimentare è sperimentare un ente: è impossibile sperimentare ciò cheormaièniente. Giocatori del diventar altro – Vediamo dove vuoi arrivare. TerzoGiocatore–Voglio innanzitutto ricordare quel che voi sostenete: che l’andare nel nulla e l’uscirne è l’evidenza suprema, il supremamente osservabile, constatabile, sperimentabile, palpabile. E che sul fondamento di questa convinzione cresce l’intera storiadell’Occidente. Ora, poiché abbiamo convenuto che il nulla che la legna diventa non è sperimentabile, ne segue che nonpuòesseresperimentabile nemmeno l’annullamento della legna e di tutte le cose che si annullano e, ognuna a suomodo,diventanocenere. Inaltritermini,quandola legna brucia appare indubbiamenteunvariare,ma se non appare che il variare conduce al nulla delle cose che vanno variando, allora non si può nemmeno affermare che il loro variare siailloroannullamento. Vedochenonrispondete. Continuerò allora, concludendocosì. Poiché ciò che si annulla esce dall’esperienza nella misura in cui si annulla, è impossibile che l’esperienza attesti che ne sia di ciò che secondo voi è andato nel nulla. L’esperienza tace della sorte di ciò che è uscito da essa, così come la volta del cielo tace della sorte del sole dopoiltramonto. Solo in un secondo momentol’uomodelleorigini parla del suo «tramonto» nel nostro senso. Dapprima egli assiste a quella che per lui è la morte del sole. Quando il soleseneva,ilmondointero sparisce. La notte è il cadavere del giorno, cioè dellavita.Benpiùspaventoso dei cadaveri in cui ci si imbattedigiorno.Quandopoi imortalisiabituanoalritorno del sole, all’alba, allora essi chiamano «tramonto» quella morte. Mainveceditantecose,e tra esse molte gli stanno a cuore, sperimenta che, quando non si mostrano più con i tratti che prima mostravano, non ritornano più, non hanno più le loro albe. Chiama allora «cadavere» il corpo più o meno amato. Una parola, questa, connessa alla parola «cadere»:ilcaderedichinon sirialza«maipiù». E quanto ho detto del presunto annullamento delle cose (ossia del tramonto del sole) va ripetuto del loro presunto uscire dal nulla. Come la volta del cielo non può che tacere intorno alla sorte del sole dopo il tramonto, così essa non può dire alcunché di quel che ne siadelsoleprimacheessosi faccia vedere alle prime luci dell’alba. Accade pertanto chedellecosechenasconosi giungaadirechesonouscite dalnullaperchéprimanonsi eranomaiviste:quasichechi le vede nascere abbia la capacità di sperimentare gli infiniti tempi passati (e comunque la totalità del passato), scorgendo che in essi ciò che è «nato» proprio non c’era, non è mai stato, ossiaeranulla. Con le considerazioni svolte, il Terzo Giocatore sta indicando un Luogo mai esplorato dai mortali. Essi sono convinti che, sia nella sua forma preontologica sia in quella ontologica, il diventar altro sia evidente, sommamente sperimentabile. MailTerzoGiocatoremostra che questa millenaria convinzione implica essa stessalanegazionediciòche sostiene,cioèriconoscecheil diventaraltroedaaltrononè evidenza, non appartiene all’esperienza. Ciò significa che il diventar altro è il contenuto di una teoria costruita sulla base della delusione provocata dal mancato ritorno di ciò che non appare più. (Ma quale uomo ha sperimentato l’infinità dei tempi futuri, e comunque la totalità del futuro,cosìdapotersostenere che quanto è tramontato non ritorneràmaipiù?) Una teoria non afferma qualcosa che si mostra nell’esperienza, ma interpreta l’esperienza.Affermarecheil diventar altro e da altro e il diventar nulla e da nulla è il sommamente sperimentabile significa dunque negare sommamente quell’esperienza che si vuole salvaguardare; significa affermare l’apparire di ciò che non appare e il non apparire di ciò che appare. Come se di giorno si affermasse che è notte e di notte che è giorno. (Leopardi giunge sì ad affermare che tutte le cose sono contraddittorie, ma non può ammetterecheciòcheappare ed è evidente – e per lui ciò che appare ed è evidente è l’infelicità e contraddittorietà di tutte le cose – non appaia. Eppure, pur non potendo rendersene conto, è costretto adammetterlo.) Certo, appare il variare dello spettacolo in cui l’esperienzaconsiste;manon appare l’annullamento, e il venire dal nulla, da parte di ciòchevaviaviaoccupando la scena dell’apparire. Appare, come prima fase della variazione, la legna nel camino prima di essere bruciata, poi appare il suo primo fiammeggiare, e poi le diverse fasi di esso, il suo ridursi, il suo spegnersi lasciando che sia soltanto la cenere a occupare la scena. Ma, ripetiamo: poiché non puòapparirechetalifasi,non apparendo più come apparivano quando occupavano la scena, siano diventate nulla, ne consegue che non può nemmeno apparireilloroannullamento, ossial’annullamentodiquesti stati dell’essere, di questi essenti; e nemmeno può apparire il loro uscire dal nulla. 20 Ilnullaeildestino Si è detto che nel destino della verità appare che ogni essente è se stesso – così continuailTerzoGiocatore– e non è altro da sé. A differenza del «principio di non contraddizione», questo essere sé non solo non è un dogma, ma non è nemmeno un principio che (come appuntoaccadenel«principio di non contraddizione») regola un essere sé di enti di cui si crede che appaia ciò chenonpuòapparire,ossiail loro uscire dal nulla e ritornarvi. Non è un dogma perché appare unito all’autonegazione della sua negazione (si veda in proposito La struttura originaria, Tautotes, Essenza delnichilismo). Qui ci si deve limitare a una metafora, dicendo che l’essere sé che appare nel destinodellaveritàècomeun bersaglio che non può essere colpito perché ogni freccia scagliata contro di esso colpisce se stessa, senza quindi riuscire a colpire il bersaglio. (Agli scritti richiamati e agli altri a essi connessi si rinvia per comprendereperchésialecito esprimere con questa metafora l’essere sé che appare nel destino, e per comprendere il senso concretodiquantosegue.) Ma l’esser-sé-e-non- altro-da-sé degli essenti che appaiono nel destino implica con necessità l’eternità di ogni essente. (Questo implicare con necessità significa che la negazione dell’eternità di tutto è negazionedell’esseresédegli essenti che appare nel destino,nelbersagliochenon puòessercolpito.)Conqueste parole si sta indicando il cuoredeldestino. E il cuore, mostrandosi, mostra un senso inaudito dell’uomo, il suo senso autentico. L’uomo è l’eterno apparire del destino della verità: l’eterno apparire dell’eternitàdiogniessente. Sia pure per cenni, indichiamo perché tutto questovieneaffermato. Imortalicredonochelecose escano dal nulla e vi ritornino. Sono guidati dal GiocatoreBiancoedalNero. Ma se un essente va nel nulla, il risultato del suo annullamento non è semplicemente il nulla, il puronulla. Infatti il nulla, cometale, pensato cioè indipendentemente dall’essente che si annulla, nonèilnullaincuil’essente è giunto. Pensare il nulla in quanto nulla non è pensare il nullainquantoèciòincuiil qualsiasiessentesièperduto. Pensareilnullanonèpensare Silviacheèdiventatanulla. È dunque necessario affermare che un qualsiasi essente,annullandosi,diventa ilnulla-di-questo-essente. E il nulla da cui un qualsiasi essente proviene non è, daccapo, il puro nulla – pensato cioè indipendentemente dall’essente che da esso proviene –, ma è il nulla-diquesto-essente. La fede che un essente qualsiasi vada nel nulla e ne provenga è dunque la fede cheesistauntempo(ilfuturo e il passato di quell’essente) in cui tale essente è nulla. L’espressione nulla-diquesto-essente significa infatti che questo essente è nulla. Questa fede identifica l’essenteeilnulla. Il Giocatore Nero giunge a sostenere che l’identità dell’essere (ente, essente) e del niente è evidente, «palpabile», perché è evidente l’uscire dal nulla e l’andare nel nulla. Ma il Terzo Giocatore ha mostrato che questa «evidenza» è una «teoria»incuivienenegatoil contenutocheautenticamente appare.Ora,illinguaggioche testimoniaildestino(ilTerzo Giocatore) mostra che questa teoria non è soltanto un’interpretazione che in futuro potrebbe risultare fondata, ma è la negazione dell’innegabile essere sé che appare nel destino della verità: è la pretesa di colpire ilbersaglioinviolabile. Questa «teoria» è l’essenza del nichilismo. Il Giocatore Nero incomincia a conferireataleessenzalasua formapiùrigorosa. Esplicitamente, il nichilismoaffermal’evidenza dello sporgere provvisorio delle cose dal nulla, il loro esserne preda e l’essenziale infelicità dell’uomo, ma esclude perentoriamente che il nulla da cui le cose provengonoeincuivannosia identico all’essere che loro compete durante il tempo in cui riescono a sporgere dal nulla. L’affermazione dell’evidenza del diventar altro esclude che l’ente sia niente. Esclude la contraddittorietà dell’ente. È per questa esclusione che va adeguatamente inteso (cfr. cap.21) il discorso col quale il Giocatore Nero afferma la contraddittorietà di ogni cosa e la presenza del nulla nell’esserestesso. Ma va anche rilevato che seilnichilismo,affermandoil diventar dell’essere, ha l’intenzione di non identificarel’essereeilnulla, tuttavia la fede che l’essere diviene implica necessariamente – come si è mostrato – l’identità dell’essere (ossia delle cose, deglienti)edelnulla. È abissalmente difficile smascherare l’essenza del nichilismo,proprioperché,da millenni, essa sta sotto gli occhi,sottosemprepiùocchi, vicinissima, ossia perché è ciòchel’Occidenteconsidera come l’assoluta e assolutamente innegabile evidenza:ilritornarenelnulla dacuisiproviene. Nella sua concretezza, l’esser sé che appare nel destino della verità è invece l’impossibilità che gli essenti escano dal nulla e vi ritornino. Questa impossibilità è il senso autenticodell’eternitàdiogni essente. IlGiocatoreNeroafferma che la contraddittorietà di tutte le cose e quindi l’identità di essere e non essere sono evidentemente sperimentabiliechequindiil «principio di non contraddizione» è falso. Il Terzo Giocatore mostra che l’esser sé che appare nel destino, e pertanto l’opposizione di essere e nulla, è l’autenticamente innegabileecheèimpossibile che l’identità di essere e non essere sia qualcosa di evidentemente sperimentabile, qualcosa che appare. Ripercorriamo il nostro cammino prolungandolo anche,conalcunicenni,oltre iltrattocostituitodallapartita colGiocatoreNero. La filosofia nasce come volontà di indicare la conoscenza che non possa essere in alcun modo smentita: la verità incontrovertibile, definitiva. Dopo due millenni e mezzo sembra che la filosofia abbia rinunciato a questo compito, adottando sempre più i metodi ipotetico-sperimentali della conoscenza scientifica. Se però si è capaci di giungere al nucleo essenziale comune a ogni filosofia del nostrotempo,sipuòscorgere chelafilosofianonripropone, dopo un lungo giro, lo scetticismo ingenuo. Sin dall’inizio la filosofia pensa che il divenire, cioè la temporalità e caducità delle cose del mondo, sia l’evidenzaeveritàimmediata, indubitabile.Sulla base della fede in questa evidenza, dai GreciaHegel,lametafisica– il Giocatore Bianco – ritiene di poter affermare l’esistenza di un Ente (o Ordinamento) perfetto, immutabile, eterno, e pertanto l’esistenza di una verità immutabile ulteriore alla verità del divenire. Nel suo nucleo essenziale la filosofiadelnostrotempo–il Giocatore Nero (cioè le sue rare incarnazioni) – mostra che se quell’Ente perfetto e questa ulteriore verità esistessero non potrebbe esistereildiveniredellecose, che tuttavia, e anche per la metafisica del Giocatore Bianco, è l’evidenza immediata e indiscutibile. Infatti, nel divenire, ciò che ancora non è (ossia è ancora nulla) incomincia a essere, e quando non è più diventa nulla;pertantounEnteouna verità immutabile sarebbero la Legge di ogni futuro e passato, la quale anticiperebbe (e conserverebbe)insétuttociò che diviene e che dunque, in quanto anticipato (e conservato), non potrebbe essere un nulla. Sulla base dellafedeneldivenirequesto risultato è inevitabile. (Lo mostro concretamente in più modi, a partire dal 1978, in alcune mie pubblicazioni comeGliabitatorideltempo, Il nulla e la poesia, Cosa arcana e stupenda, L’anello del ritorno e nell’«Introduzione» a L’attualismo.) Si è mostrato che, tuttavia, il Terzo Giocatore indica la dimensione che sta essenzialmente al di là della vicenda che conduce a quell’inevitabile risultato. In tale dimensione – nel «destino della verità» – non solo appare che la convinzione che il diventar altrosial’evidenzaimmediata e indubitabile; è, appunto, soltanto una fede, ma appare anchechecrederechelecose divengano altro da ciò che esse sono, e divengano da altro, è credere nella contraddizione più profonda: nella più profonda Follia; quella che d’altra parte dominalastoriadell’uomo. Il pensiero filosoficoontologico dell’Occidente costituisce la forma più rigorosa di questa contraddizione, perché, in esso, l’altro (da cui le cose provengono e in cui vanno) viene inteso come quell’assolutamente altro che è il non-essere (il nulla) di ciò che diventa altro e da altro. Nel destino della verità appare pertanto la radicale inconsistenza della fede sulla cui base è inevitabile che la filosofia del nostro tempo giunga a negare ogni verità incontrovertibile e ogni Ente eterno. Si può così comprendere perché il Terzo Giocatore, indicando il destino, possa riferirsi nuovamente alla verità assolutamente incontrovertibile e chiamarla «destino». Il suo contenuto è radicalmente diverso da tutto ciò che lungo la storia dell’uomoèstatointesocome «verità». Infatti, poiché crederechel’essente(ciòche è) sia stato nulla e torni a esserlo è credere nella contraddizione più profonda, è allora necessario che ogni essente sia eterno: ogni essente, e non soltanto un Ente privilegiato rispetto a tuttociòche,diversodalui,è abbandonatoalnulla. La struttura originaria del destino è l’apparire dell’esser-sé-e-non-altro-dasé, da parte dell’essente in quanto essente, cioè di ogni essente (pertanto anche da parte di quell’essente che è l’apparire degli essenti), a qualsiasi «mondo» esso appartenga. Le tesi che sostengono la «relatività ontologica» (alla Quine) o sono forme di scetticismo ingenuo (che pretende di salvare se stesso dalla «relatività»),osonoontologie assolute che presumono di poter indicare il carattere relativo di ogni ontologia. Ma, si è mostrato, l’esser-sée-non-altro-da-sé che appare nella struttura originaria del destino è anche radicalmente diverso dal «principio di identità» e di «non contraddizione» che si sono presentatilungolastoriadella filosofia e delle scienze naturali e logicomatematiche, e quasi sempre presenti con la pretesa di avere valore assoluto. Quei «princìpi» affermano infatti che,soloquandoèesintanto cheè,unente(inquantotale) èsestessoenonèaltrodasé; giacché quando esso non è, ossia quando è nulla, un ente non è nemmeno se stesso e non-altrodasé. Nella struttura originaria appare invece che credere nell’esistenza di un tempo in cuiun(qualsiasi)essentenon èancoraenonèpiùsignifica credere nell’esistenza di un tempo in cui un essente, diventato nulla, è nulla. (L’affermazione «la giornata di ieri è diventata nulla» differisce infatti dall’affermazione: «il nulla è diventato nulla»; entrambe queste affermazioni sono contraddizioni, ma contraddizioni diverse perché la giornata di ieri non è un nulla.I«principidiidentitàe di non contraddizione» apparsi lungo la storia della cultura occidentale sono pertanto affermazioni contraddittorie). Il senso autentico del nichilismo (essenzialmente più radicale del modo in cui Nietzsche e Heidegger intendono il nichilismo) è la fede che gli essenti divengano altro sporgendo provvisoriamente dalnulla. L’impossibilità che un essente sia nulla implica con necessità l’eternità di ogni essente.Maimplicaancheun senso essenzialmente nuovo del tempo e pertanto del variare del mondo. La convinzione che il passaggio dal non essere all’essere e viceversa sia evidenza immediataeindubitabile–un contenuto di esperienza, o «fenomenologico» – è soltantounafede(perchésesi crede che cose e eventi divengano nulla, si crede anchecheessinoncontinuino ad apparire nell’esperienza così come apparivano prima didiventarnulla,echequindi essi escano dall’esperienza nella misura in cui si annientano). L’esperienza nonpuòessereilfondamento in base al quale si afferma che essi sono diventati nulla. Tale affermazione, quindi, non solo è soltanto una fede, ma è a sua volta una fede contraddittoria. L’«uomo» a cui si riferiscono le diverse forme storiche di civiltà è questa fede, che dapprima si presenta nella sua configurazione preontologica epoiinquellaontologicadel pensiero filosofico, e quindi dell’intera civiltà occidentale eormaidelPianeta. Ora si aggiunga che – poiché ogni essente è eterno ed è impossibile che l’uscire dal nulla e l’annientamento degli essenti appaia nell’esperienza – il variare dell’esperienza non può essere che il comparire e lo scompariredeglieterni,ossia è il loro entrare e uscire dal cerchio (eterno) dell’apparire. Questo cerchio non è nel tempo,maincludeiltempo,è l’apparire di tutto ciò che diciamo «passato», «presente»,«futuro».Sièper lo più convinti che la coscienza umana compaia solo a un certo punto dell’evoluzione e che si spengamoltoprimadellafine dell’universo; ma questa convinzione può sussistere solo in quanto essa si fonda sull’appariredellatotalitàdei tempi all’interno della quale si intende collocare la coscienza umana. E tale apparire non solo include il tempo,maanchetuttelecose ritenute esistenti al di là dell’apparire, giacché di esse di può affermare che stanno al di là dell’apparire solo se inqualchemodoappaiono. Taleapparireèappuntoil cerchio in cui entrano ed escono gli eterni, variando il suo contenuto. La variazione non è il diventar altro degli essenti. L’apparire in cui consistequestocerchioeterno è l’apparire stesso della struttura originaria del destino. Essa è appunto l’apparire dell’essere sé di ogniessenteepertantoanche e innanzitutto degli essenti che appaiono, e che compaiono e scompaiono. In questo cerchio consiste l’essenza più profonda dell’uomo – peraltro contrastata ed emarginata dalla fede che cose ed eventi siano un diventar altro (e un diventarnullaedanulla). Sièdettoa)chel’essente nonèl’altrodasé(nonesiste identitàtraessoeilsuoaltro – quindi non può diventare altro),eb)checiòcheappare esiste. Ma nella struttura originaria del destino questi duetrattinonsonoundogma, perché appaiono nel loro esser ciò la cui negazione negasestessa. Infatti l’identità di questa lampada e di questo libro è negazione della struttura originaria del destino solo se la loro differenza appare. Pertanto la negazione della loro differenza si fonda sull’apparire della loro differenza: tale negazione nega se stessa. Analogamente, la negazione dell’esistenza di questa lampada è negazione della strutturaoriginariadeldestino solo se in tale negazione questalampadaappare:anche qui tale negazione si fonda sull’apparire dell’esistenza di questa lampada, e pertanto nega se stessa. (Questo discorso, d’altra parte, non è una «fondazione» di a) e b): come il Terzo Giocatore mostra nei suoi scritti, che la negazione di a) e b) sia autonegazione è una individuazione, o un insieme di individuazioni di a), ossia èunmodospecificoincuisi presenta il non esser altro da sé – sicché quest’ultimo è incontrovertibile solo in quanto appare nel suo includeretalemodo). Nel cerchio eterno dell’apparire entra, in posizione dominante, la fede chelecosedivenganoaltro– echela«natura»el’«uomo» abbiano una storia. Il Terzo Giocatore chiama «Terra» l’insieme degli essenti (natura, uomini, dèi) che sopraggiungono in quel cerchio. La forma originaria della fede è innanzitutto la persuasione che la storia del diventar altro sia la regione con cui l’uomo ha sicuramente a che fare: la persuasione che isola la Terradallaveritàdeldestino. La Terra isolata contrasta pertanto il destino e lo emargina:nonpuòriusciread annientarlo,maattirasudisé il linguaggio, lo vuole tutto per sé e non gli lascia testimoniare la verità del destino. I «mortali» sono gli abitatoridellaTerraisolata. Molto in margine. Quanto è stato accennato intorno alla strutturaoriginariadeldestino è altrove determinatamente considerato dal Terzo Giocatore. (Si veda in particolare La struttura originaria, Studi di filosofia della prassi, Essenza del nichilismo,TautoteseIntorno al senso del nulla.) Vi sono poileulteriorideterminazioni deldestinochevannooltreil trattodistradaincuiilTerzo Giocatore gioca e chiude la partitaincuimostralaFollia delle grandi mosse del Giocatore Nero e quindi anche del Giocatore Bianco. Determinazioni che conducono molto lontano. Quanto segue è «molto in margine» non perché abbia un’importanza minore, ma solo perché tali determinazioni vanno molto oltre il tratto di strada che costituisce il tema di questo saggio. Se ne può quindi omettere la lettura qualora non si voglia uscire da quel tema. Una di tali determinazioni, per esempio, è il senso autentico della volontà:poichéogniessenteè eterno,impossibileènonsolo il diventar altro, ma anche la volontà quale è intesa all’interno della Terra isolata daldestino–intesacioècome forza capace di far diventar altro le cose. La volontà è impossibile perché vuole l’impossibile.Ciòcheaccade (appare), quando la volontà crede di ottenere ciò che ha voluto, è quindi necessariamente altro da ciò cheessacredediottenere. Altro esempio: poiché ogni essente è eterno, esiste una relazione necessaria tra un essente qualsiasi e ogni altroessente;maselavolontà avesse potuto prendere decisioni diverse da quelle che essa ha di fatto prese (se cioè esistesse il cosiddetto «libero arbitrio), non potrebbeesserciunarelazione necessaria tra quell’essente cheèladecisionepresaetutti glialtriessenti).Tuttociòche accade è cioè necessario che accada (si veda in proposito Destinodellanecessità). E, terzo esempio, il contrasto tra destino e Terra isolata è destinato a essere oltrepassato. È infatti necessario che nessuno degli essentichesopraggiungono– e l’isolamento della Terra è un essente siffatto – arresti definitivamente il sopraggiungere. (Che il contenuto di questa affermazione sia necessario significachelasuanegazione implica necessariamente la negazione della struttura originaria del destino. Quel contrasto è oltrepassato, perché altri essenti sopraggiungono nel cerchio dell’apparire del destino; ma insieme è conservato, perché ogni essente, quindi anche il suo apparire, è eterno). Nessuno degli essenti che sopraggiungonopuòarrestare definitivamente il sopraggiungere, diciamo, perché l’apparire della strutturaoriginariadeldestino e di tutte le determinazioni che essa implica necessariamente è la verità dell’essente in quanto essente, e pertanto tale apparire è il «predicato» necessario di ogni essente, ossia è ciò senza di cui nessun essente (quindi nemmeno la Terra) potrebbe apparire nel cerchio della struttura originaria (tale apparire è lo sfondo eterno che accoglie la Terra); ma se un essente, sopraggiungendo, arrestasse definitivamente il sopraggiungere della Terra, incomincerebbe ad apparire un nesso necessario tra tale essente e lo sfondo; sennonché è impossibile che un nesso necessario incominciadapparireetanto menoaessere;dunquenessun sopraggiungentepuòarrestare definitivamente il sopraggiungere, e pertanto è oltrepassato; e poiché l’oltrepassante è a sua volta un sopraggiungente, il sopraggiungereèinfinito. Anche l’isolamento della Terra – che è il fondamento dellafedeneldiventaraltroe diventar nulla, ossia della fede nell’esistenza del dolore e della morte – è quindi necessariamente oltrepassato. Dunque oltrepassato da una Terra che salva da esso e nella quale tutto ciò che sopraggiunge manifesta sempre più concretamente la salvezza. La «Gloria» autentica è questo infinito dispiegamento, nello sguardo del destino, della Terra che salva. D’altra parte il dispiegamento può essere infinito solo in quanto è necessario che il destino non sia soltanto la costellazione infinita dei cerchi che accolgonolaTerra,maanche giàdasemprel’appariredella totalità degli essenti, della totalitàchelungoilcammino infinito della Gloria va apparendo in quei cerchi e che tuttavia continua a trascendere tutto ciò che di essa in quei cerchi va apparendo. È infatti necessario che i cerchi del destinosianounamolteplicità infinita e che a essi corrisponda ciò che nella Terraisolataèintesocomela molteplicità degli individui umani.Edènecessariochela morte, che non può essere annientamento, sia un evento cheappareall’internodiogni cerchio (all’interno dell’essenza di ogni esser uomo), e in ogni cerchio appare come il compimento della Terra isolata e il dispiegamento infinito della Terra che salva. Ogni uomo muoreall’internodisestesso. Muore come volontà all’internodisécomecerchio dell’apparire del destino (si vedaLaGloria,Oltrepassare eLamorteelaterra). Oltrepassare la Terra isolata è oltrepassare la struttura dell’errore. Al culminediquestastruttura,la tecnica guidata dalla scienza moderna è la forma più coerente alla fede nell’esistenza del diventare nulla e uscirne e del far diventarenullaefarneuscire. Oggi si comprende che la potenza della tecnica sussiste solo in quanto è accompagnata dal riconoscimento pubblico dellasuaesistenza;manonsi avverte che tale riconoscimento è a sua volta il contenuto di una fede. All’interno di questa fede lo scopo della tecnica è destinatoadiventareloscopo di tutte le forze della tradizione (capitalismo, comunismo, cristianesimo, islam, totalitarismi, democrazia, eccetera) che oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo. La tradizione è destinata al tramonto. Lo scopo della tecnica è l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Poiché il Giocatore Bianco rimprovera allatecnicadivolerfaretutto ciò che si può fare, dimenticando che esistono Limiti inviolabili («divini»), latecnicapuòrisponderesolo se non si appoggia semplicemente sul sapere scientifico (che oggi riconosce tuttavia il proprio carattere ipotetico), ma sul sottosuolo essenziale della filosofia del nostro tempo, cioè sulla dimensione abitata dalGiocatoreNero(cioèdalle sue diverse configurazioni), che mostra l’impossibilità di ogni Limite e di ogni Ordinamento immutabile (si veda, La filosofia futura, Declino del capitalismo, La tendenza fondamentale del nostrotempo,Ildestinodella tecnica, Capitalismo senza futuro). L’essenza della filosofia del nostro tempo conferisce alla tecnica la potenza che a quest’ultima può competere all’interno della fede nel diventar altro. Tuttavia, nemmeno all’interno della Terra isolata la tecnica ha l’ultima parola: il linguaggio che testimonia la verità del destino è destinato a diventare il linguaggiodeipopoli.Inessi, prima del tramonto dell’isolamentodellaTerra,è cioè destinata ad apparire la consapevolezza che il loro agire – il quale è del resto inevitabile prima di quel tramonto–èl’alienazionepiù profondadellaverità. D’altraparteillinguaggio è una forma del voler far diventar altro le cose. Anche il linguaggio che testimonia la verità del destino è una forma siffatta. Il linguaggio vuole che certi eventi (soprattutto visibili e udibili) divenganosegnidicose,cioè altro da ciò che essi sono; e che le cose divengano dei designatiecioèdaccapoaltro da ciò che esse sono. Nel linguaggio che testimonia il destino, la cosa che tale linguaggio vuol far diventare (ha fede che diventi) un designato, cioè altro da sé, è il destino stesso. Il tramonto della Terra isolata è pertanto il tramonto del linguaggio. Nel tempo del contrasto tra destino e Terra isolata, il destino appare avvolto dalla parola, ma in questo caso la storicità della parola non implica la storicità e dunque la smentibilità del suo contenuto,perchéildestinoè l’unica parola la cui negazione è autonegazione: l’unico innegabile (si veda Oltreillinguaggio). Ma ritorniamo, per chiudere queste pagine, alla partitacolGiocatoreNero. 21 «Cosachenonècosa» «Tutto è nulla», dice Leopardi. «Tutto è eterno», dice il Terzo Giocatore, testimoniandoildestinodella verità. La distanza del Giocatore Nero dal destino è infinita: la distanza del Giocatore Nero e del cadavere del Giocatore Bianco che egli si è caricato sullespalle. Già dicendo che «tutto è nulla», Leopardi afferma che ciòchenonèunnullaènulla, ossia che l’essere è nulla. «Un nulla io medesimo»: un nulla io che, essendo un io, nonsonounnulla.Giàquesto Pensiero del 1819 potrebbe far presagire l’affermazione della contraddizione di ogni essere, alla quale giungono i Pensieri qualche anno dopo. Non più che un presagio, tuttavia, perché tutto è nulla nel senso che sporge provvisoriamentedalnulla. Riprendendo uno spunto già apparso nel capitolo 16, chiediamoci:maseauncerto punto Leopardi giunge ad affermare che la contraddizione (intesa come contraddittorietà, non come atto del contraddirsi) esiste, che cioè esiste il non essere dell’essere, e che tutto è contraddizione, e afferma questaesistenzaperchéessaè «evidente», «palpabile», questa contraddizione non è forse, allora, la stessa che il destino nega? Non è forse la stessa contraddizione a venir intesa come necessariamente esistentedalGiocatoreNeroe come necessariamente inesistente dal Terzo Giocatore? Ma, allora, Leopardi non è forse riuscito a scoprire la contraddizione abissale del divenire, cioè dellosporgereprovvisoriodal nulla(lacontraddizionechei mortali ignorano e che soltantoildestinopuòvedere e negare) – salvo poi a considerarla come esistente, anzi come l’unico esistente, perché è convinto di vederla esistente? E non si dovrà aggiungere che egli è ancora troppo vicino ai cadaveri degli Eterni della tradizione dell’Occidente (degli Eterni da lui stesso annientati), perchéeglipossapensareche la contraddizione suprema – l’identità di essere e nulla –, presente nel divenire delle cose, abbia a implicare quel trattoinauditocheèl’eternità diogniesseree,appunto,non abbia a implicare l’esistenza della contraddizione, come invece egli ha effettivamente pensato? La risposta è negativa. No,Leopardinonèriuscitoa scoprire la contraddizione abissale del divenire – quella che per lui sarebbe necessariamente esistente, mentre sarebbe necessariamente inesistente perilTerzoGiocatore.Nonla scopre, anche se si dovrà inoltre dire che la contraddizione che per Leopardièesistenteèunodei punti più avanzati fino ai quali il nichilismo può spingersi senza dover imbattersi nella propria Follia, nell’impossibilità di ciò che esso afferma. Per chiarirequesteaffermazioniil testo di P 4174-4175 è particolarmentesignificativo. «Infelici» non sono soltanto i viventi, ma anche «tutti gli altri esseri al loro modo» (P 4175): «tutto è male» (P 4174): «Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose». Tuttavia, «in metafisica», ossia dal punto di vista che va oltre ogni confine, «il tutto esistente […] non è che un neo, un bruscolo»: «L’esistenza è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità»; ma questa imperfezione è una «piccolissima cosa», e anzi «il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone dell’infinità vera, perdircosì,delnonesistente, delnulla»(P4174). Per ogni cosa, «non v’è altrobenecheilnonessere», il non esser cosa, l’esser «cosachenonècosa».(Tutto èinfeliceperchéè«inmezzo alnulla»,ossiaaognicosasi deve dire addio «per sempre», «non tornerà mai più»,P2243;peròlacosache seneèandatapersemprenel nulla ha raggiunto il suo bene, «lieta no, ma sicura / dall’anticodolor».)InP4174 sidicedunquechel’«infinità vera» del non esistente, del nulla, finirà con l’includere tutto l’esistente, quando esso sarà tutto diventato nulla: quando l’esistente sarà non esistente,quandolacosasarà non cosa, la totalità dell’essere sarà nulla. Nel «silenzio nudo» e nella «quiete altissima» del nulla «questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale […] si dileguerà e perderassi»(Canticodelgallo silvestre). La morte a cui si rivolge il Coro di morti nel DialogodiFedericoRuysche delle sue mummie diventa così la morte dell’esistenza universale: «Sola nel mondo eterna» e infinita, e l’esistenzatuttasarà«lietano, masicura/dall’anticodolor.» Il Pensiero 4174, dell’aprile 1826, non è dunque un’eccezione, ma una prospettiva che il Giocatore Nero ha già acquisito da tempo e in cui si è collocato stabilmente. È tenendo presenti queste mossedelGiocatoreNeroche si è in grado di rispondere, e appunto negativamente, alle domande che sono state formulate in precedenza: appunto perché l’«infinità vera del nulla» include il nulla ditutto ciò che è stato, includel’esserdiventatonulla dell’essere (l’esser diventato nulla da parte dell’essere). Per il Giocatore Nero la «verità» è il diventar nulla che conduce all’inclusione dell’esistenza universale (ossia della totalità dell’essere) nella «infinità vera del non esistente, del nulla». Ossia per lui il prodursi di tale inclusione, dove l’essere diventa non essere, non è la contraddizione abissale dove il diventar nulla implica necessariamente che l’essere sia nulla, non è la contraddizione che è negata daldestinodellaverità,nonè la contraddizione (del nichilismo)chesoloildestino può scorgere. All’opposto, il diventar nulla è l’unico «bene» perché è il superamento di tutte le contraddizioni, e appunto per questol’infinitàdelnulla,che verrà a includere l’esistenza universale,è«vera»rispettoa quel «punto acerbo» che non è più soltanto la vita (come nel Dialogo qui sopra richiamato), ma l’esistenza universale: un «punto» rispettoall’infinito. Infatti per il Giocatore Nero la contraddizione è un male che affligge soltanto l’esistenza, il suo contenuto, non il nulla, l’esser nulla dell’esistenza. Non riuscendo a vedere che la contraddizione autenticamente abissale è credere che l’esistenza (l’essere) divenga, sporga provvisoriamente dal nulla e vi sia quindi un tempo (passato e futuro di ciò che esiste provvisoriamente) in cuil’essereènulla,allora,per scorgere che il divenire di tutte le cose (il divenire, peraltro, che per lui è evidentemente esistente) implica che esse siano e non siano, ha bisogno di considerare qualcosa d’altro dal loro divenire in quanto tale, per esempio l’irruzione della ragione nel desiderio infinito di piacere, o il rapporto tra l’infelicità di tutte le cose e il loro essere («l’essere, unito all’infelicità, e unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa»,P4099). In relazione all’«infinità vera del nulla», dunque, la contraddizionedelnonessere dell’essere, quella che per Leopardi è veramente esistente, non è la stessa di quella che il destino nega (non è la stessa contraddizione a venir intesa come necessariamente esistentedalGiocatoreNeroe come necessariamente inesistente dal Terzo Giocatore: Leopardi non è riuscito a scoprire la contraddizione abissale che i mortali ignorano e che soltantoildestinopuòvedere e negare). In altri termini, il Giocatore Nero dice che l’esistenzaènullaintendendo che essa esce dal nulla e vi ritorna:nondiceche,proprio perché si crede che l’esistenzaescadalnullaevi ritorni, proprio per questo si pensa e si crede che l’esistenza sia nulla e che questo sporgere provvisoriamentedalnullasia pertanto la contraddizione estrema. Lo mostra il modo in cui egli, si è visto, mette in luce l’esistenza della contraddizione di tutte le cose. Per esempio, la natura «misericordiosa» nasconde la verità, ma la ragione irrompe nella natura e allontana, indebolisce la misericordia fino a cancellarla: invasa dalla ragione, la natura (l’esistenza) è contro se stessa. Oppure: la vita è desiderio di piacere, ma è dolore. Oppure: la vita è desiderio di piacere, ma il piacereènegazionedellavita («un abbandono e un oblio della vita», «stato contrario alla vita», cfr. cap. 15). Oppure: «L’essere effettivamente,eilnonpotere in alcun modo essere felice» («due verità […] ben dimostrate»)implicanochela stessa cosa sia e non sia (P 4099-101,cfr.cap.16). Sono esempi di contraddizioni che, certamente, per Leopardi scaturiscono dal diventar altro, dall’andare delle cose nel nulla da cui provengono, ma che, appunto, riguardano l’esistenza,lecosedivenienti, l’esistenza del divenire. Proprio per questo la contraddizione esistente non è dovuta al loro andare nel nulla, ma al loro venire all’essere. È il loro essere a produrre la contraddizione: «L’esistenza è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità»: l’imperfezione, l’irregolarità, la mostruosità della contraddizione, dell’impossibile, dell’assurdo fattisi realtà. Cosicché, per ognicosa,«nonv’èaltrobene che il non essere», il non esser cosa, l’esser «cosa che nonècosa»,ilnonessercosa che è l’«infinità vera del non esistente,delnulla»(P4174). Il pensiero di Leopardi passa vicinissimo alla «cosa che non è cosa» che è implicata dal divenire, la nomina, ma la nomina senza trasalire, senza scorgere, appunto,che«cosachenonè cosa» è l’assolutamente impossibile, necessariamente implicato dal divenire. Afferma invece che «il non essere», inteso come «cosa che non è cosa», è l’unico bene («non v’è altro bene»). A trattenerlo e a chiuderlo in questa cecità vi sono due millenni e mezzo di filosofia ediciviltà,edietroaessiv’è l’intera storia dell’uomo. E ancora: come pretendere che, dopo la grande partita vinta col Giocatore Bianco, egli abbia anche la forza di trasformarsi nel Terzo Giocatore e giungere a riveder le stelle e dire che proprio il diventar altro implical’esser«cosachenon è cosa», cioè l’assolutamente impossibile, che proprio per questo tutte le cose sono eterne? Tuttavia Leopardi, identificando il non essere (delle cose) e l’esser «cosa chenonècosa»,èinqualche modoinprocintodivoltareil capoversolestelle.Masenza saperlo. Il Terzo Giocatore, infatti, ha già mostrato che il risultato dell’annullamento nonèilpuronulla,ilnullain quantotale,maèl’essernulla da parte della cosa che è diventata nulla. Questo risultato non è il nulla che è nulla, bensì è la cosa che è nulla,ilnon-nullacheènulla: è appunto la cosa che non è cosa,ilnonesseredellacosa. La contraddizione abissale deldivenirestasottogliocchi diLeopardi,inqualchemodo egli l’ha snidata, ma senza saperlo, quindi non la vede. Crede anzi che sia l’unico «bene». Nonlapuòvedere,carico com’è della fede che l’annullamento delle cose uscitedalnullasial’evidenza assolutamentenonsmentibile. Egli è in qualche modo in procinto di voltare il capo verso le stelle, perché questa imminenza rimane congelata. Nonvoltailcapoperchénon gli è possibile negare l’evidenzadeldiventaraltroe affermarel’eternitàditutto.E d’altra parte è in procinto di voltarlo: sia perché le contraddizioni dell’esistenza, che egli scorge, le intende come conseguenza dall’andare nel nulla da cui l’esistenza proviene; sia perché – lo si è appena rilevato–vedecheilnullain cui le cose vanno e da cui vengono è il loro nulla, vede che il non essere, implicato dal divenire, è identico all’esser «cosa che non è cosa». Pensare l’assurdo come esistente e il nulla dellecose significaportarsiinunodegli estremi avamposti fino ai qualil’essenzadelnichilismo puòspingersirimanendotale: oltre di essi questa essenza entrerebbe in un territorio dove sarebbe costretta a svanire. Non potrebbe nemmeno riconoscere la propriaFollia,perchésarebbe ildestinoamostrarla,giacché solo il destino potrebbe mostrarlaconverità. Perquestosipuòdireche se il Giocatore Nero è infinitamente lontano dal Terzo Giocatore, del Terzo Giocatore egli è anche un interlocutore privilegiato. Gli èinqualchemodovicino.Chi è sceso nelle estreme profondità della Terra si è allontanato dal Cielo. Ma, se avesse proseguito ancora, e avesse quindi rovesciato il capo, le stelle avrebbe infine potuto giungere a rivederle, lasciandocadereaterralesue vesti nere e lasciando apparire il destino della verità, che eternamente appare. Indice Istruzioniperlalettura 1.Piangereimorti 2.«Inmezzoalnulla»e«il naufragarm’èdolcein questomare» 3.Dal«desiderioinfinitodel piacere»al«fior gentile» 4.LapartitatrailMitoeil GiocatoreBianco 5.LapartitatrailGiocatore BiancoeilGiocatore Nero 6.Ilfilosofo,ilpoeta;loro separazioneeloro unità 7.Lucidellamorteedelcanto 8.Lapotenzadellanobile natura 9.Ilsuicidio 10.Ilsuicidioeilcristianesimo 11.LaconoscenzainAdamoe nellafilosofia 12.L’etàdellemacchine 13.Gliitalianielafilosofia 14.Feliceinfelice:l’uomo 15.Natura«saviaecoerente», ilpiacere,la «contraddizionein natura» 16.«L’orribilemisterodelle coseedellaesistenza universale» 17.L’oscuritàcheavvolgela «vettadella contemplazione» 18.Checosaspaventail GiocatoreNeroela primamossadelTerzo Giocatore 19.IlterzoGiocatore,il destino,ilnonapparire deldiventaraltro 20.Ilnullaeildestino 21.«Cosachenonècosa»