Spirito e molecole - Dr. Giovanni Iannuzzo

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STORIA, NATURA E MOLECOLE: QUALI NUOVI
ORIZZONTI PER LA MEDICINA CLINICA?
GIOVANNI IANNUZZO
La visione moderna della medicina – sia nei suoi aspetti teorici sia in quelli più
strettamente clinici – è un prodotto della filosofia positivista del XIX secolo.
Credo sia condivisibile l’idea che i pro4gressi sia in campo diagnostico, sia in
campo terapeutico che hanno caratterizzato il sapere medico dalla seconda metà
dell’’800 ad oggi siano ascrivibili al poderoso sviluppo nelle scienze di base che
ha consentito l’individuazione di strutture, meccanismi e processi dalla cui
conoscenza, o dalla cui comprensione sono derivati nuovi modi di intendere la
malattia e nuove tecniche per curarla. Insomma, e inevitabilmente, l’accresciuta
conoscenza medica nasce da un’accresciuta conoscenza delle leggi di natura.
Fisica, chimica e biologia in particolare hanno consentito insomma la costruzione
di un modello di riferimento imponente, di un framework teorico all’interno del
quale la clinica ha potuto trovare strade sempre più nuove e precise. Fu così che,
già dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, la medicina si trasformò da
arte approssimativa in scienza sperimentale e sempre più tesa all’obiettivo
dell’esattezza. Si trattò di un processo in qualche modo assai vicino al concetto
espresso dal matematico Henry Poincaré che “non c’è scienza se non del
misurabile”. La ricerca di substrati organici passò lentamente dagli aspetti
macroscopici a quelli progressivamente più microscopici, molecolari, submolecolari; l’attenzione dei ricercatori si concentrò sulla identificazione di
relazioni di causa ed effetto dimostrabili e ripetibili. Di conseguenza la ricerca di
terapie sempre più finemente eziologiche e sempre meno empiriche ha
trasformato di fatto la medicina in una disciplina rigorosa, con importantissime
implicazioni pratiche, sia dal punto di vista individuale sia da quello collettivo e
sociale. Da scienza soft, la medicina si è trasformata in scienza hard. E questo è
un dato di fatto storico.
In apparenza le cose continuano ad andare in questo modo; intendo dire che
questo paradigma “forte” della medicina come scienza si è andato rafforzando
col tempo. O almeno avrebbe dovuto essere così. Stabilita una rotta, la nave delle
nostre conoscenze dovrebbe seguirla imperterrita e sicura. Certo, è possibile che
esista la necessità di correzioni o aggiustamenti, possono esserci imprevisti e
difficoltà, ma tracciata una rotta e verificata la sua praticabilità, la nave affronta
l’oceano con sicurezza, sino alla meta da raggiungere, sino al suo obiettivo, alla
sua terra promessa. Che è un po’ quello che è successo con la fisica, con la
chimica o la biologia. Nella storia di queste scienze aristocratiche si sono
presentati tanti aggiustamenti di rotta, tante difficoltà, tanti periodi di bonaccia.
Le ciurme si sono ammutinate, ed è venuto a mancare cibo ed acqua, ma, per
continuare la nostra metafora, il loro viaggio sugli oceani della conoscenza è
proseguito. Faccio solo un esempio: il passaggio dalla fisica tradizionale alla
fisica quantistica è stato equiparabile ad una vera tempesta, ma le nuove
acquisizioni sulla struttura della materia non hanno cambiato il paradigma
generale delle scienze fisiche o il loro modello di riferimento. Hanno modificato
la rotta, ma la nave ha continuato a navigare in acque tornate sicure. In medicina
è successo qualcos’altro. E’ difficile capire esattamente quando questo qualcosa è
successo. Nella storia della scienza è spesso problematico identificare momenti
storici specifici nei quali si verifica un cambiamento, ciò che muta e le ragioni
del mutare; questi eventi sono più i prodotti di una evoluzione lenta e non tanto
di una esplosione. Nel caso specifico della medicina, appare molto difficile
capire quando il cambiamento sia avvenuto. Credo comunque che possiamo con
buona approssimazione collocare i primi segni di questo cambiamento nel
periodo successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con una vera e
propria esplosione intorno agli anni ’70. Cosa avviene in quel periodo storico?
Avviene semplicemente che il mondo cambia. Vi è un superamento delle
frontiere occidentali ed una sempre più approfondita percezione della diversità. Il
moderno Occidente industrializzato si deve confrontare con altri popoli e culture.
Non si trattò ovviamente di un confronto intellettuale o pacifico. Alla base di
questa caduta delle frontiere vi è la fine del colonialismo, e l’inizio di quel
processo sociale e politico che anni dopo avremmo definito ‘globalizzazione’. La
medicina moderna si confronta con altri modi di fare medicina che esistevano
anche in occidente, ma solo sotto forma di modesta enclaves culturali.
La medicina che si affaccia agli anni ’70 – percorsi comunque da forti
inquietudini politiche e sociali, da cambiamenti epocali – è una scienza
orgogliosa di se sino all’arroganza. Fiera dei risultati ottenuti in campo
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epidemiologico o sociale (ha vinto pochi decenni prima la battaglia contro la
terribile influenza spagnola, ha sconfitto – sembra definitivamente - grandi
flagelli epidemici come il vaiolo e la tubercolosi, tiene perfettamente sotto
controllo e cura la peste nera, così come tutte le malattie infettive). Nulla sembra
minacciare il suo tranquillo impero scientifico. E’ una pax augustea.
Poi accade qualcosa e la sicurezza delle mura che la moderna medicina
scientifica ha costruito intorno al suo sapere cominciano a vacillare
pericolosamente. Sarebbe compito di uno storico della medicina, ovviamente,
indagare sui fatti che sono all’origine di queste oscillazioni. Io, che storico della
medicina non sono, mi limito a citare pochi eventi che la dicono lunga sulla
prima sconfitta in epoca moderna della medicina per così dire scientifica.
Anzitutto il ritorno di grandi e pericolosissime epidemie. Dopo avere
orgogliosamente sostenuto che nel campo delle epidemie la medicina non temeva
più assalti da virus o batteri, nella seconda metà degli anni ’70 emergono nuove
malattie, quasi tutte provenienti da Paesi in via di sviluppo, che colgono di
sorpresa la medicina: si tratta delle prime febbri emorragiche virali, che in genere
vengono battezzate con nomi esotici, perché realmente è esotico il luogo della
loro origine: la febbre di Nassa, la febbre di Marburg, la spaventosa febbre di
Ebola – con una mortalità che viene quantificata originariamente oscillante fra il
99 e il 100%. Il panico viene contenuto, ma per la prima volta dopo la fine
(spontanea, beninteso…) della grande epidemia di spagnola, la medicina si trova
impossibilita a capire e a curare. L’unica cosa che in qualche modo rassicura è il
fatto che si tratta di febbri per l’appunto esotiche che quindi rendono
estremamente improbabile una loro estensione al di fuori delle zone endemiche.
Insomma, una consolazione della serie “non è roba che ci riguarda”. Le
comunicazioni sono ancora povere e gli spostamenti per via aerea piuttosto
modesti. La cittadella scientifica e medica occidentale può ancora trincerarsi
dentro le mura del suo castello. Ma questa metafora ricorda un celebre racconto
di Edgar Allan Poe, “La maschera della morte rossa” (che guarda caso descrive
una forma di pestilenza che per molti versi ricorda le febbri emorragiche virali):
durante una pestilenza un nobile e la sua corte si rifugiano dentro il loro castello,
pensando così di restare immuni dal morbo. Ma la “morte rossa”, questa
misteriosa e mortale malattia, si insinua nel castello durante una festa – con cibi
abbondanti e allegre danze – e reclama il suo tributo. Bene, è più o meno quello
che succede negli anni ’80. Un altro virus esotico spunta fuori dalle ombre della
foresta pluviale africana. Ma stavolta non vi resta confinato. Quel virus che sarà
poi definito HIV prende le strade del mondo, e da origine alla più spaventosa
epidemia della storia moderna dall’epoca della peste nera medioevale. La
medicina è del tutto priva di strumenti. L’AIDS devasta furiosamente il mondo
occidentale e in pochi anni i morti si conteranno a centinaia di migliaia, gli
infettati a milioni. E’ una catastrofe senza precedenti. Si riesce a individuare
l’agente eziologico, ma passeranno ancora anni prima che si riesca a trovare
forme di terapia che consentono di rallentare il decorso della malattia e
aumentare la sopravvivenza degli ammalati. Ma a sinora non esiste alcun
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vaccino, non esiste alcuna terapia risolutiva e, secondo molti, non esiste
nemmeno una chiara definizione epidemiologica di questa misteriosa malattia.
L’AIDS, così come la peste nera, cambia il mondo. Ne cambia la morale, ne
cambia i sistemi di credenze, ne cambia usi e costumi sessuali, ne cambia la
cultura. Ha un violento rebound sia sulla politica sia sull’economia. Non credo
improbabile che uno storico del futuro potrebbe descrivere il mondo moderno
come un mondo prima e un mondo dopo l’AIDS. L’HIV – come evidenzia
Preston - è un virus emergente del Secondo Livello, proveniente dalle foreste
pluviali africane. Le origini esatte ci sono del tutto ignote. Sappiamo solo che,
anche attualmente, è in fase di amplificazione globale; il suo potenziale di
massimo livello di penetrazione nella specie umana è del tutto sconosciuto. Il
problema è che non si tratta di un caso isolato. Il virus di Marburg compare per la
prima volta nel 1967, virus africano che deve il suo nome tedesco al fatto di
essere stato isolato in Germania settentrionale, in un paziente infetto
presumibilmente arrivato con un volo a partenza da Entebbe in Uganda. Ancora
più minacciosa è la prima emergenza dal virus Ebola Zaire (ne esiste una specie
isolata in Sudan e quindi detta Ebola Sudan) che prende il nome dal fiume Ebola,
un affluente del fiume Congo in Zaire. Nel settembre 1976 fa la sua prima
comparsa simultanea in 45 villaggi situati nei pressi delle sorgenti del fiume. La
mortalità è di nove ammalati su dieci. E’ un filovirus e compare dal nulla. Ha
tempi di incubazione così brevi e una mortalità talmente alta ed è localizzato in
una regione così lontana dalle comuni rotte aeree e commerciali occidentali da
non riuscire a diffondersi, Ma, nel 1989 nella cittadina di Reston in Virginia, nel
centro della medicina moderna, a pochi chilometri da Washington, per una serie
accidentale di eventi, il virus di Ebola arrivò negli Stati Uniti attraverso scimmie
di laboratorio importante dalle filippine. Diede il nome ad una specie ulteriore di
visus, l’Ebola Reston. L’epidemia fu limitata sostanzialmente per caso ed una
serie di eventi fortunati. La sensazione generale che se ne ricava è che non solo la
medicina clinica e scientifica ha margini di imprevedibile efficacia, ma anche che
lo stesso concetto di malattia andrebbe rivalutato e ridiscusso. Il concetto di
malattia in generale così come nella sua particolarità ( la malattia specifica)
infatti, non deriva dalla nostra esperienza, elude infatti qualsiasi tipo di giuria
empirica. Si tratta sostanzialmente di un modello esplicativo della realtà e non di
un elemento costitutivo di essa, insomma un’idea che interpreta una realtà
empirica complessa in base ad una filosofia, ovvero ad un sistema di riferimento
patologici selezionati. E’ illuminante in proposito l’esempio suggerito da Grmek:
se “un uomo che soffre, tossisce, sputa sangue e dimagrisce, se il bacillo che si
insedia nel suo organismo e le caratteristiche lesioni dei polmoni esistono nel
senso forte di questo termine, tutt’altro avviene per la tubercolosi, la cui esistenza
è legata a quella di una struttura concettuale ben articolata, a un’ideologia medica
particolare”. Ne deriva che ogni civiltà ed ogni cultura, in ogni periodo storico,
ha una propria concettualizzazione della malattie e non è detto che il modello
moderno occidentale sia l’unico o il più appropriato. La diagnosi medica è
semplicemente l’istituzione di un legame, in un caso concreto, fra la realtà
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osservata e la dottrina nosologica. Un tempo ciò era semplice. Era una
catalogazione, una classificazione. Oggi la situazione è più difficile perché la
definizione si è trasformata da clinica in anatomica, da anatomica in
microanatomica, e da microanatomica in biochimica molecolare. Oggi invece di
descrivere e classificare una entità nosologica in funzione dei suoi sintomi,
ovvero delle sue caratteristiche manifeste, cerchiamo di indovinare la lesione
fondamentale, il vizio nascosto. Può essere utile, in questo contesto, il concetto,
ampiamente elaborato da Grmek, di “patocenosi”. La patocenosi è un insieme di
stati patologici che sono presenti all’interno di una determinata popolazione in un
momento dato; si tratta di un sistema dotato di proprietà strutturali particolari che
deve essere studiato determinando sia qualitativamente sia quantitativamente i
suoi parametri nosologici. La frequenza e la distribuzione di opini malattia
dipendono, oltre che da diversi fattori endogeni ed ecologici, dalla frequenza e
dalla distribuzione di tutte le altre malattie. Inoltre, la patocenosi tende a uno
stato di equilibrio, cosa che si avverte in modo particolare in una situazione
ecologica stabile. Questo implica che due malattie facenti parte di una patocenosi
possono avere fra loro una relazione di simbiosi, antagonismo o differenza. I casi
di simbiosi sono i più frequenti. Dipendono dal fatto che le medesime condizioni
ambientali favoriscono due o più malattie (come le malattie di logoramento in
una società ad avanzato sviluppo tecnologico). Sia a un legame eziologico
(febbre reumatica ed endocardite); sia a un sinergismo genetico; sia a un
complesso gioco di fattori che agiscono contemporaneamente sul piano sociale e
su quello individuale (per esempio: avitaminosi, tifo, malnutrizione e malattie
infettive).L’antagonismo fra due malattie può scaturire dallo stato genetico
dell’uomo e il germe (si veda l’esempio del rapporto fra talassemia e malaria), o
presentarsi come effetto finale di una concatenazione complicata dalle cause più
varie. Le malattie infettive dovute all’assenza di pulizia e all’inquinamento
dell’aria (tifo, dissenteria, ecc.) sono antagonistiche rispetto alle malattie dette di
degenerazione (arteriosclerosi, cancro) già per il semplice fatto che uccidono gli
individui prima ancora che siano invecchiati, esponendosi alla degenerazione. Si
tratta però di una interdipendenza complessiva di tutte le malattie presenti in una
popolazione. Tralascio le valutazioni matematiche che rendono affine il
comportamento della patocenosi con la biocenosi, ovvero l’esame della
distribuzione delle specie, in funzione della loro importanza quantitativa, che
corrisponde ad una serie logaritmica normale (ossia x; x”/2;x3/3…). E’ probabile
che simili regolarità possano essere rintracciate nelle serie di malattie che
appartengono ad una patocenosi in stato di equilibrio. Se l’istituire relazioni
sincroniche fra le malattie in un dato momento storico è un fatto acclarato sino
all’ovvietà, è pur vero che occorre seguire i cambiamenti diacronici delle
malattie. A questo provvede il concetto teorico di dinamica della patocenosi con
due caratteristiche fondamentali: i periodi di equilibrio della patocenosi da un
lato e i periodi di squilibrio della patocenosi stessa dall’altro (rivoluzione
neolitica, urbanizzazione, grandi migrazioni, espansione coloniale, rivoluzione
industriale, nuove migrazioni, globalizzazione). E’ proprio il concetto di
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squilibrio nella patocenosi che ci interessa. [Un esempio attuale di questo
squilibrio è quello della encefalopatia spongiforme, malattia insidiosa e
degenerativa nota con l’eponimo classico di morbo di Creutzfeld-Jacob, che poi
Carleton Gajduseck ritrovò in una epidemia che stava decimando una tribù di
cannibali della Nuova Guinea e che prese il nome di “kuro”. Nel 1976 Gajduseck
ebbe il Nobel per la medicina]. Dobbiamo purtroppo insistere, pertanto, sul fatto
che la medicina non è una scienza esatta, e che le certezze scientifiche della
scienza medica trovano un limite invalicabile in una serie di variabili
intervenienti, molto più ricca di quella delle costanti individuabili. Un esempio?
Il 23 aprile del 1984 il ministro della Sanità del governo americano, Margareth
Heckler, sostenuto da Robert Gallo e dal suo staff, del National Cancer Institute,
a Washington nella sale dell’Huber Humphrey Building, annunciò trionfalmente:
“ Oggi aggiungiamo un altro miracolo alla lunga serie di onori accumulati dalla
medicina e dalla scienza americana. La scoperta di oggi rappresenta il trionfo
della scienza su una malattia terribile”. Gallo aveva individuato un retrovirus
responsabile dell’AIDS, HTLV. E aggiunse che “un vaccino per prevenire la
malattia sarebbe stato prodotto entro i due anni successivi”. Da allora ad oggi
sono passati quasi 25 anni e alcuni milioni di morti per AIDS.
La verità – o almeno una delle verità possibili – è che la proiezione nel futuro è
una fondamentale corruzione intellettuale della medicina, così come delle scienze
contemporanee. La tentazione di prevedere come si evolveranno le cose nel
futuro, implica una forma estremamente sofisticata (quantificabile e verificabile)
di comprensione e valutazione del processo sociale e scientifico. E questo è
estremamente difficile, per quanto al contempo estremamente esaltante, perché la
capacità di proiettare gli eventi nel futuro con una certa esattezza possa estendere
il potere, perché sarebbe un’immensa fonte di insegnamenti nuovi su come
affrontare il presente. Ma oggi lo sguardo che la medicina rivolge al futuro, con
la straordinaria quantità di conoscenze a nostra disposizione, si è tramutato in una
visione catastrofica, una previsione che è sostenuta da strumenti tecnici, primo
fra tutti quello statistico ed epidemiologico. La medicina moderna oscilla fra
timide speranze di pace ed aggressive visioni di guerra. Mi piace, allora, in
proposito, ricordare una bella espressione usata da Susan Sontag [L’AIDS e le
sue metafore] a proposito dell’AIDS: “No, non è auspicabile che la medicina,
come la guerra, diventi “totale”. Né la crisi provocata dall’Aids può essere
“totale”. Nessuno ci sta invadendo. Il corpo non è un campo di battaglia. I malati
non sono né le vittime né il nemico. Noi – la scienza medica, la società – non
siamo autorizzati a passare al contrattacco con qualunque mezzo… E per quanto
riguarda la metafora in questione, quella militare, io direi, se mi è concesso
parafrasare Lucrezio: rendetela a chi fa la guerra”.
© Giovanni Iannuzzo, marzo 2010
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