Teatro
Qualche preliminare definizione
La parola ‘teatro’ viene dal greco θέατρoν ( thèatron) , spettacolo , a sua volta derivato dal verbo θεάoμαι
guardare, osservare.
La sua caratteristica strutturale, ossia quella di essere collegato alla visività, ne giustifica , dalla classicità ai nostri
giorni, una fruizione ‘allargata’, meno elitaria rispetto ad altri generi letterari. Lo sapevano bene i greci, e
Pericle , nell’Atene del V sec a. C. , in particolare.
( theàomai)
A partire dalla straordinaria esperienza della grecità, la tragedia ha avuto sempre una grande importanza
nell’ambito delle rappresentazioni sceniche ; infatti, nelle sue caratteristiche normative ( cfr. la Poetica di
Aristotele ), trattava , con un lingua di registro elevato , argomenti altrettanto elevati, vicende attinte al mito o
alla storia, grandi conflitti legati a tematiche esistenziali quali il rapporto tra individuo e potere , l’infrazione di
norme umane e divine , il crollo di regni, la rovina di destini individuali come conseguenza di peccati di
orgoglio . I protagonisti di questi conflitti erano re, principi, eroi, personaggi non comuni con i quali non era
possibile alcuna forma di identificazione. Alcuni titoli di grande tragedie classiche : Edipo re , Antigone,
Medea, Prometeo incatenato, Agamennone…
Dobbiamo fare ora un salto di secoli per arrivare velocemente all’argomento che si intende approfondire ,
cioè il teatro italiano ed europeo del’ 800 e del ‘900, e il ‘salto’ ci porta all’intellettuale illuminista Denis
Diderot che nel suo Discorso sulla poesia drammatica , del 1758, sostiene la necessità di creare una ‘tragedia
domestica e borghese’, che si ponga a metà strada fra la tragedia e la commedia tradizionali, e che abbia come
protagonisti personaggi ‘medi’, concretamente inseriti in ambienti familiari, sociali, professionali in cui il
pubblico possa riconoscersi.
Il teatro, dunque, si deve ispirare alla vita della nuova classe emergente della borghesia, rappresentarne e
dibatterne i problemi , affrontando i grandi temi della società alle soglie della sua grande rivoluzione.
1800
Europa :
Le idee di Diderot si impongono pienamente solo nell’ ‘Ottocento, quando risulta evidente da una parte la
decadenza irreversibile della tragedia classica e dall’altra la necessità di rinnovare anche i canoni della
commedia tradizionale.
Il dramma borghese diviene la nuova forma teatrale capace di rappresentare la realtà contemporanea
superando l’antica contrapposizione fra tragedia e commedia.
La parola ‘dramma’ viene dal greco δράμα (dràma) azione, a sua volta derivato dal verbo δράω (,drào), fare,
agire . Le parole sono entità mobili, e nel loro cammino attraverso il tempo talvolta mutano di significato o di
accezione ; così per noi, oggi, ‘drammatico’ è sinonimo di tragico nel senso di luttuoso, di tormentato, di triste .
Ma la parola, al suo nascere , significava semplicemente ‘rappresentazione’, e quando nell’Ottocento viene
usata nel sintagma ‘dramma borghese’ indica una azione scenica i cui argomenti , anche se trattano di situazioni
conflittuali, non necessariamente si concludono in maniera luttuosa.
Il dramma borghese, dunque, è la rappresentazione realistica della vita dell’ emergente borghesia i cui
problemi, le cui vicende, sono trattati e analizzati in modo serio, e non più ‘comico’, come avveniva nella
commedia classica quando si metteva in scena il quotidiano. Il pubblico assiste a storie nelle quali si rispecchia
e si riconosce.
I temi centrali sono: la famiglia , il denaro, le vicende dei singoli individui alle prese con i grandi mutamenti
sociali , di costume, di mentalità.
All’interno della famiglia, la vera ossessione di questo teatro è l’adulterio : lo schema ricorrente è il ‘triangolo’
marito-moglie-amante declinato in infinite variazioni in innumerevoli drammi.
Ai problemi sentimentali si possono aggiungere anche problemi economici, difficoltà a sopravvivere in modo
decoroso con magre entrate, incubi delle ‘cambiali’ che possono gettare nel lastrico e nel disonore i
protagonisti.
Di grande spessore è la letteratura drammatica europea del tempo ; qualche esempio:
-- Henrik IBSEN, norvegese :
Casa di bambola,1879
Nora, la moglie, amata e vezzeggiata come una bambola, dell'avvocato Torvald Helmer, sta preparando l'albero di
Natale. Sopraggiunge inaspettata l'amica Cristina, vedova e bisognosa di aiuto e a lei Nora rivela un segreto: otto
anni prima ha contratto un debito con un certo Krogstad falsificando la firma del padre per poter pagare il
soggiorno in Italia necessario alla guarigione del marito. Per anni ha lavorato per pagare il debito senza riuscire a
liberarsene. La promozione a direttore di banca del marito sembra risolvere ogni cosa, ma Krogstad, impiegato
nella stessa banca, ricatta Nora per ottenere una promozione, Quando Torvald, ignaro di tutto, vorrebbe licenziarlo
per altri motivi, questi minaccia di denunciare ogni cosa se Nora non otterrà di far bloccare il licenziamento.
L'intercessione della donna non ottiene alcun esito e Krogstad mette in atto la sua minaccia inviando una lettera a
casa degli Helmer.
Cristina, che ha riconosciuto in lui un antico innamorato, lo convince a recedere dal ricatto, ma è troppo tardi.
Il contenuto della lettera provoca una discussione violenta: Torvald, invece di capire il sacrificio della moglie, la
rimprovera aspramente, preoccupato unicamente del suo buon nome.
L'arrivo di un nuovo plico contenente il documento con la falsa firma di Nora, che mette fine al ricatto, capovolge la
situazione. Torvald, evitato lo scandalo, si dice pronto a dimenticare ma Nora, comprendendo di non essere mai
stata altro, per il marito, che una bambola anziché una creatura umana, offesa, si ribella e decide di andarsene
abbandonando la casa.
La donna del mare ,1888, in cui l’eroina , lasciata libera dal marito, resiste al fascino della fuga con un forestiero,
poiché la libertà di scegliere non le fa più avvertire il richiamo dell’ignoto.
-- August STRINDBERG, svedese : La signorina Giulia, 1888; Danza macabra, 1901.
-- Anton CECHOV, russo: Il gabbiano, Zio Vanja, Il giardino dei ciliegi" è l'ultima opera teatrale di Cechov.
La storia racconta di un'aristocratica russa che, insieme alla sua famiglia, ritorna nella sua proprietà che
sfortunatamente dovrà vendere per pagare l'ipoteca.
-- George Bernard SHAW, inglese : La professione della signora Warren, 1893,L'opera ha per protagonista
la signora Warren, una prostituta, e la sua pudica figlia Vivie, a cui ha dato un posto al sole nella società; la vana
ricerca di una riconciliazione con la figlia si conclude nel finale quando Vivie deciderà di intraprendere le sue scelte,
in dissenso con i piani della madre.
Candida, 1898, è una donna giovane e bella, moglie del reverendo James Morell, un pastore anglicano progressista
(si professa socialista), oratore eloquente e apprezzato. Candida torna a casa, dopo un periodo di vacanza trascorso
con i bambini lontana dal marito, accompagnata dal giovane Eugene Marchbanks, un timido poeta diciottenne, di
ricca famiglia. Eugene è innamorato di Candida e confessa la sua passione al marito di lei.
Invitata a scegliere fra i due uomini, Candida chiede a ciascuno dei due che cosa possono offrirle. Il reverendo Morell
dichiara che può offrirle la sua protezione, la sua onestà, il suo lavoro, la sua posizione sociale; il giovane Eugene
dichiara che può offrirle solo il bisogno del suo cuore. Candida sa che l'amore non è un sogno sentimentale, ma
abitudine di vita in comune, indulgenza materna e perfino compassione; afferma pertanto che si abbandonerà al più
debole dei due, e sorprendentemente sceglie il marito. Candida spiega che il marito non avrebbe la forza di
sopportare la solitudine; il giovane Eugene, al contrario, ha imparato a vivere senza felicità. I due uomini
riconoscono l'esattezza del giudizio di Candida e il giovane poeta se ne va via per sempre.
-- Oscar WILDE ; irlandese , nei cui drammi l’autore rappresenta in chiave comica e satirica il mondo
frivolo e superficiale della ‘buona società’del suo tempo, ritratta con uno sguardo estremamente critico.
L’importanza di essere onesto ,1895 Satira delle convenzioni teatrali borghesi ottocentesche e del perbenismo
della società di fine secolo, questa commedia innovatrice, ricca di paradossi, è una delle più rappresentate in
tutto il mondo.
Nel titolo è contenuto un intraducibile motto di spirito dovuto all'identità di pronuncia in inglese delle parole
"Ernesto" ed "Onesto", così che potrebbe intendersi anche l'Importanza di chiamarsi Ernesto.
Infatti Ernesto-Onesto è il nome che John Working è costretto ad assumere per guadagnarsi l'amore di Gwuendalen
Fairfax. il suo amico Algernon Moncrieff, innamorato di Cecily Cardew, , si fa credere un suo scapestrato fratello.
Quando John è costretto a dichiarare di non avere avuto mai un fratello e non può più fingere di chiamarsi Onesto, le
cose sembrano precipitare per i due amici; ma, per un'improvvisa piega che prendono gli eventi, si scopre che
Algernon e John sono veramente fratelli e che il vero nome di battesimo di John è realmente Onesto.
Il valore della commedia non sta tanto nella trama quanto nel godibilissimo umorismo del dialogo e nel gioco delle
parole e delle situazioni.
Italia :
■ prima metà del 1800
In Italia, paese di tenaci tradizioni classiciste e con una situazione storico-politica che ne condiziona
pesantemente sia lo sviluppo economico sia lo sviluppo sociale, accanto al teatro tradizionale , cioè commedie
e tragedie di stampo sostanzialmente ancora classico, si sviluppa nella prima metà dell’ Ottocento, un
teatro romantico , il cui massimo esponente è Alessandro MANZONI . Il genere è quello della tragedia,
ma in una nuova forma, lontana dal modello consacrato da Alfieri e da Monti : si tratta della tragedia ‘storica’,
che rievoca fatti del passato rispettandone la veridicità ma integrando la storia con i sentimenti, le passioni, i
moti interiori dei personaggi, cioè quello che la storia non dice.
Questo tipo di tragedia ha una finalità patriottica, perché i fatti del passato alludono a situazioni del presente e
incitano per lo più al riscatto un popolo, quello italiano, disperso e sottomesso.
Il conte di Carmagnola, 1820 La rappresentazione drammatica della vicenda si mantiene fedele alla verità
storica, ma rielabora temi e personaggi; distribuita in cinque atti, essa (in base ai criteri enunciati dall’autore
nella Prefazione all’opera) non rispetta le tradizionali unità di tempo e di luogo, svolgendosi in più luoghi e
abbracciando un periodo di tempo di sette anni.
Il protagonista della vicenda del Conte di Carmagnola, che è storicamente documentata e che si svolge nella prima
metà del Quattrocento, è Francesco Bussone, un capitano di ventura il quale, dopo aver prestato servizio presso il
duca di Milano Filippo Maria Visconti (che lo ha nominato Conte di Carmagnola) ed averne sposato una parente,
Antonietta Visconti, cade in disgrazia di quel signore e passa al servizio della Repubblica di Venezia, che gli affida il
comando nella guerra contro il ducato di Milano. Il Carmagnola vince i milanesi nella battaglia di Maclodio (1427),
ma poi il suo comportamento ambiguo e indeciso nel proseguimento della guerra lo mette in sospetto di tradimento
presso i senatori veneziani, che lo richiamano in patria con un pretesto e lo condannano a morte.
Adelchi, 1822 Il soggetto storico dell’Adelchi e il crollo del dominio longobardo in Italia, fra il 772 e il 774, ad
opera dei Franchi. Come Il Conte di Carmagnola, anche l’ Adelchi è diviso in cinque atti, ma presenta due
Cori, e inoltre, a parte la maggior complessità di temi e personaggi, offre un intreccio più ricco e dinamico.
Ermengarda, figlia di Desiderio re dei Longobardi, è stata ripudiata da Carlo (il futuro Carlo Magno) e torna a
Pavia dal padre e dal fratello Adelchi, il quale l’accoglie con caldo affetto e tenta invano di dissuadere il padre dalla
vendetta, e anzi lo esorta a restituire le terre sottratte al papa Adriano. Al messo di Carlo che gli impone la
restituzione, Desiderio risponde con un rifiuto e la guerra è dichiarata. Ma alcuni duchi longobardi sono disposti a
tradire e cospirano in casa di Svarto, un oscuro soldato in cerca di potere (atto I). Carlo è bloccato alle Chiuse di Val
di Susa, una posizione imprendibile difesa da Adelchi. Sopraggiunge Martino, diacono di Ravenna inviato a Carlo dal
vescovo Leone, che nel suo lungo viaggio attraverso le Alpi ha scoperto un passaggio ignorato, che permetterà di
aggirare la postazione longobarda (atto II). Inutili sono i tentativi di Adelchi di opporsi all’inatteso assalto dei
Franchi. Nella sua tenda Carlo premia, ma in cuor suo disprezza, il traditore Svarto, mentre loda l’eroismo di
Anfrido, scudiero di Adelchi, ferito a morte. I longobardi predispongono la difesa delle maggiori città del regno (atto
III, con il primo Coro). In un convento di Brescia, dove si era ritirata, Ermengarda, molto malata, avendo appreso
dalla sorella Ansberga che l’amato Carlo si è risposato, è assalita dal delirio e muore. I duchi traditori fanno entrare
le truppe dei Franchi in Pavia, capitale del regno longobardo (atto IV, con il secondo Coro). Adelchi resiste ancora a
Verona, ma Desiderio è preso prigioniero. Giunge la notizia che Verona è caduta. Adelchi è portato in scena ferito e
morente, di fronte a Carlo e a Desiderio. Muore cristianamente, dopo aver pronunciato nobili e sconsolate parole
(atto V).
[ devi eventualmente inserire : b ) stile c) rifiuto delle unità aristoteliche di luogo, tempo, azione, d)
ruolo del coro ]
■
il periodo post-unitario
dramma borghese
Il primo testo italiano che possa essere definito un dramma borghese è dello scrittore
-- Achille TORELLI , napoletano, I mariti (1867), che gioca sul contrasto tra una nobiltà in decadenza , vuota
e inutile, e un personaggio borghese positivo, solido, onesto, operoso.
L’autore più rappresentativo e conosciuto di questa nuova forma di teatro rimane
-- Giuseppe GIACOSA, con i suoi drammi, tra i quali :
Il marito amante della moglie, 1876
Come le foglie,1900
È un dramma a lieto fine, in cui la giovane protagonista trova l'amore dopo avere pensato al suicidio assillata dalla
pesante situazione economica familiare.
teatro verista
[ devi inserire le caratteristiche della poetica verista]
La poetica verista influenzò anche il teatro, portando a sostituire alla tragedia storica e politica il bozzetto (
cioè il ‘quadretto’) di vita contemporanea e ai personaggi idealizzati ed eroici uomini comuni, oppure
rappresentando magari personaggi storici anche celebri ma colti nella mediocrità realistica della loro vita
privata.
Così fin dal 1871 Pietro COSSA , nel prologo al dramma Nerone, dichiarò che la struttura e lo stile dell’opera
si attenevano alla scuola del verismo e che il protagonista della sua opera non voleva essere il convenzionale
eroe tragico .
Ma l’inizio del teatro verista in senso proprio è assegnato dalla prima rappresentazione di
- Cavalleria rusticana , 1884, di Giovanni VERGA.( Il testo teatrale fu adattato da Targioni Tozzetti e
musicato da Pietro Mascagni)
La storia è ambientata in un paese siciliano di fine ‘800. È il mattino del giorno di Pasqua: il giovane Turiddu, prima
di partire per il servizio militare, giura il suo amore a Lola. Al suo ritorno (circa un anno dopo) però scopre che Lola
s'è sposata con Alfio, il carrettiere del paese. È un duro colpo per Turiddu, che l'ama ancora. Per vendicarsi
dell'affronto subito e superare il difficile momento, corteggia Santuzza, una giovane del paese ma, dopo averla
sedotta, inizia a trascurarla perché passa il suo tempo ad aggirarsi nei dintorni dell'abitazione di Alfio, che è andato
al lavoro, nella speranza d'incontrare Lola. Santuzza, addolorata e preoccupata, cerca Turiddu per avere
spiegazioni sul suo comportamento. Si reca addirittura da Lucia, madre di Turiddu, e le racconta tutto: i suoi
sentimenti per il figlio e il distacco di lui.
All'arrivo di Turiddu tra i due giovani scoppia un'accesa lite, alla quale assiste anche Lola che passa lì vicino per
recarsi alla chiesa per la messa di Pasqua e senza più ascoltare le parole di Santuzza, Turiddu la segue. Santuzza
allora, offesa, decide di vendicarsi e, appena incontra Alfio di ritorno dal lavoro, gli riferisce che Lola gli è infedele.
Finita la messa, Turiddu offre da bere agli amici all'osteria della madre. Offre un bicchiere anche ad Alfio il quale,
sdegnato, lo rifiuta e, nel gesto di abbracciarlo, gli morde l'orecchio e in questo modo lo sfida a duello. Prima di
recarsi alla sfida mortale, Turiddu saluta la madre Lucia e le chiede di avere cura di Santuzza. L'epilogo del duello è
rappresentato dalle grida di una popolana che urla: ”Hanno ammazzato compare Turiddu!”
C’è da dire, a proposito di questo teatro verista, che la realizzazione drammatica ( è del 1896 anche La lupa)
non ha la forza e l’incisività delle novelle : la rigorosa e cruda rappresentazione del mondo popolare presente
nelle opere in prosa viene stemperata e addolcita in una sorta di ‘bozzetto folkloristico’ , cioè in una
dimensione un po’ stereotipata e convenzionale dei personaggi e delle situazioni , che sfocia spesso in un tono
troppo melodrammatico e patetico, negazione evidente del canone verghiano dell’ impersonalità .
1900
Italia
■
il primo ‘900
teatro dannunziano
Nella presentazione di questo nostro approfondimento si è detto che i fruitori di uno spettacolo teatrale sono
maggiori di quelli di qualsiasi altro genere letterario. Ci possiamo spingere oltre e affermare che
potenzialmente tutti, senza alcuna distinzione di alcun genere, possono assistere ad una rappresentazione
scenica,quasi tutti goderne,molti comprenderla.
La ‘democraticità’ del teatro era chiara ( come prima si ricordava), all’Atene del V secolo a.C., tant’è che
Pericle offriva addirittura un obolo a chiunque assisteva agli spettacoli, come risarcimento per la giornata di
lavoro persa.
Ma tanta ‘generosità’ non deve trarci in inganno ; il teatro era la scuola dell’Ellade , secondo una fortunata e
veritiera definizione , e lo era nel senso che, attraverso la rappresentazione di vicende esemplari, i cittadini
assimilavano e facevano propri i valori della collettività, i fondamenti su cui si basava lo stato : il coraggio, l’
aretè (il valore), il rispetto verso gli Dei e le norme del vivere civile , il senso della misura. Il teatro era la
dimensione che funzionava come straordinario veicolo non solo culturale ma anche, in senso lato,
‘ideologico’.
E lo sapevano bene i Gesuiti, (l’ordine religioso fondato nel 1534 da Ignazio di Loyola) , il braccio intellettuale
della Controriforma : a partire dagli ultimi decenni del 1500 in ogni loro Collegio c’era un teatro ! e attraverso
di esso i giovani venivano , è il caso di dire, ‘indottrinati’ e spinti a diffondere i valori più rigidi di un
cattolicesimo sempre più minacciato dalla riforma protestante. [ E’ indicativa la famosissima formula con la
quale i Gesuiti concepivano la formazione scolare dei giovani “ Dateci un fanciullo ora, e sarà nostro per
sempre” ] Forse i non pratesi non sanno che il Convitto Nazionale Cicognini nacque nel Seicento proprio
come Collegio gesuita e non è un caso che al suo interno si trovi un piccolo e splendido teatro….
Ma che cosa ha a che vedere questo nostro discorso con il teatro di Gabriele d’Annunzio ?
In realtà d’Annunzio aveva compreso perfettamente il ruolo che il teatro poteva svolgere nella diffusione del
suo verbo superomistico e ,( complice il suo rapporto sentimentale con la grande attrice Eleonora Duse), cercò
di sfruttare al massimo le sue enormi potenzialità divulgative .
I romanzi Le Vergini delle rocce (1895), e il Fuoco (1900), sono opere nelle quali la verbosità retorica e
magniloquente , scoraggia talvolta ad una lettura completa e meditata anche gli addetti ai lavori ……
Il teatro invece si prestava benissimo a coinvolgere un ampio pubblico, e questo perché, nell’Italietta giolittiana,
era diventato anche un luogo di ritrovo elegante e mondano.
Cito dunque un brano tratto libro di testo del Baldi :
“Date queste premesse ideologiche , è ovvio che la drammaturgia dannunziana rifiuti le forme del teatro del
tempo, il teatro borghese e realistico, che metteva in scena con attenta fedeltà gli eventi della vita quotidiana,
specie nella dimensione privata, famigliare e coniugale. D’Annunzio ambisce ad un teatro ‘di poesia’, che
trasfiguri e sublimi la realtà, riportando in vita l’antico spirito tragico, che rappresenti personaggi d’eccezione,
passioni e conflitti psicologici fuori del comune, ed al tempo stesso si regga su una complessa trama simbolica
.”
Ne La città morta (1898), c’è una fusione tra ambientazione moderna e mito antico :
E’ la storia di un incesto e di un delitto che avvengono tra un gruppo di archeologici che portano alla luce Micene,
sullo sfondo di una Grecia arida e assolata.
Nella Francesca da Rimini , rappresentata nel 1901 da Eleonora Duse, la vicenda della mite eroina dantesca
diventa ‘poema di sangue e di lussuria’
Ne La nave, 1908, la tematica superomistica fa le sue prove più evidenti ; la tragedia è in versi,( endecasillabi)
e, secondo le intenzioni dell’autore, doveva rinsaldare la coscienza della stirpe latina, ‘avviata a destini
imperiali’
Sullo sfondo eroico della fondazione di Venezia, Marco Gràtico, “grande e ardito di fare ogni cosa”, è l’ Incarnazione
del tribuno romano e dell’uomo nuovo, scaltro e senza pietà, che cerca l’elevazione al di là della sua semplice
natura umana; l’eroe viene chiamato a liberare il suo popolo di lagunari veneti che hanno smarrito la dignità di
popolo dominante smarrendo la consapevolezza di essere eredi del popolo latino. A Marco Gratico , si oppone la
superfemmina Basiliola Faledra “bizantina”, che agisce attraverso la sua arte seduttiva e sensuale per fiaccare le
fibre del popolo italico. Diventata sacrilega amante anche del fratello di Marco, il vescovo Sergio, aizza i due a
combattersi e nella feroce battaglia il fratello muore. Marco parte infine per conquistare la gloria sul mare mentre
la donna, per sottrarsi ad un umiliante castigo si suicida.
Appartengono a questa tragedia versi che sono diventati famosi
“ […]La patria è su la nave:
Chi guarda innanzi e non chi guarda indietro
ci conduca. Rinati siamo. In mare
ci ribattezza il nostro Dio. La nave
ei dà per cuna al popolo novello.”
“Arma la prora e salpa verso il mondo.” “ Fa’ di tutti gli oceani il mare nostro”
C’è da dire però, a onor del vero, che se nella particolare situazione storico-politica dei primi anni del
Novecento queste e altre consimili tragedie [ Fedra , Sogno di un tramonto d’autunno, La gloria, Più che
l’amore ] riuscirono ad avere un certo seguito di pubblico, oggi risultano poco rappresentabili e , di fatto, non
sono quasi mai rappresentate.
L’unica opera teatrale che continua ad avere una fortuna scenica è
La figlia di Jorio, che d’Annunzio definì ‘tragedia pastorale’, e che fu rappresentata per la prima volta nel
marzo 1904
Il giovane pastore Aligi, sta per andare a nozze con Vienda di Giave: nella casa le sorelle e la madre dello sposo
assolvono i doveri prescritti da un antico rituale. Questa atmosfera di arcaica solennità' è turbata dall'irrompere di
Mila, la figlia del mago Jorio, che, inseguita da una torma di mietitori, per sfuggirli si rifugia presso il focolare, tra lo
sgomento delle donne. Aligi la difende e pone sulla soglia una croce di cera di fronte alla quale i mietitori
indietreggiano. Ormai, però, il rito nuziale è profanato e quindi viene interrotto. Aligi è tornato col suo gregge in
montagna e Mila, compagna casta e fedele, lo segue. Arriva intanto Lazzaro di Roio, padre di Aligi, che, bramoso di
Mila si scontra con il figlio e ne rimane vittima. Quando il parricida è condannato a morte dalla comunità',
sopraggiunge Mila che per salvarlo si assume la colpa di tutto, dichiarando di aver spinto al delitto il compagno.
Mila, condannata come "magalda", salva Aligi e muore sul rogo.
Cito ancora dal testo del Baldi : “ Lo scrittore colloca la vicenda in un Abruzzo primitivo, magico e
superstizioso, mitico e fuori dal tempo, e si compiace di insistere minuziosamente su riti, credenze, oggetti
tipici della civiltà arcaica agricolo-pastorale, con un linguaggio che , in moduli stilizzatissimi, riproduce le
formule del linguaggio popolare ( canti, scongiuri, preghiere, proverbi). Tutto questo non risponde certo ad un
intento documentario, naturalistico: vi è al contrario il gusto tutto decadente per il barbarico e il primitivo, il
fascino esercitato dal popolo contadino e pastorale visto come emblema dell’ irrazionale. La tragedia, dunque
seppure in modi più lirici e rarefatti, prosegue la linea già iniziata con le novelle abruzzesi giovanili ( non a caso
la raccolta definitiva delle Novelle della Pescara era stata pubblicata due anni prima, nel 1902).”
La fiaccola sotto il moggio è un’altra tragedia ‘ abruzzese’, anche se di minore fortuna rispetto a La figlia di
Jorio. Il ‘moggio’ è un’unità di misura di capacità per aridi, specie per granaglie, equivalente a 400 litri circa ;
per estensione indica anche il recipiente che vi corrisponde .Il titolo richiama una espressione biblica :
‘mettere la fiaccola sotto il moggio’ equivale a ‘tacere una verità’, ‘nascondere una virtù’. L’opera ha come
scenario un palazzo cadente, dove una famiglia nobiliare abruzzese consuma la sua fine fra tradimenti e delitti.
Il teatro pirandelliano e il superamento del dramma borghese
Tra gli anni Dieci e gli anni trenta del Novecento Luigi Pirandello è il drammaturgo che meglio sa restituire
nuova linfa al teatro italiano.
Le sue opere mettono in scena situazioni e personaggi tipici del dramma borghese, tuttavia la tematica portante
di questi drammi è di tipo esistenziale, e non sociale.
Pirandello si sofferma sul conflitto fra la spontaneità vitale dell’uomo e la sua costrizione dentro ruoli,
situazioni, regole sociali che ne mortificano lo slancio e l’evoluzione e lo trasformano in una ‘maschera’ rigida
e inautentica. La vita diventa così una finzione, la recita di una ‘parte’ convenzionale che nasconde il volto vero
e in costante mutamento di ogni persona.
Rispetto alla tendenza realistica del dramma borghese classico, Pirandello carica inoltre le tinte, rendendo
personaggi e situazioni fortemente grotteschi e inverosimili, proprio per far risaltare l’ elemento di assurdità
che caratterizza la condizione dell’uomo contemporaneo.
Questi temi sono espressi in dialoghi che ricordano, per il loro carattere spesso filosofeggiante, quelli del
dramma borghese, con la differenza che i personaggi di Pirandello cercano di dimostrare la validità dei loro
punti di vista in maniera insistente, ossessivamente dolorosa , di fronte ad una realtà che non è mai oggettiva –
come lo era nei drammi borghesi – ma appare sempre relativa, inafferrabile, inconoscibile e incomunicabile.
Il metateatro
Nelle opere teatrali più mature Pirandello utilizza anche la tecnica del metateatro o ‘teatro nel teatro’, che
consiste nel rappresentare un gruppo di attori che mette a sua volta in scena uno spettacolo teatrale. Il pubblico
assiste così non a una finzione già perfettamente compiuta, ma ad una finzione che si realizza davanti ai suoi
occhi, ad uno spettacolo che si crea man mano che la recitazione procede: realtà e finzione viaggiano parallele
e si scambiano le parti, così che diventa difficile distinguere l’una dall’altra.
[ devi inserire quello che dalla tua insegnante è stato detto sull’autore e sui testi
teatrali analizzati]
Europa
In Europa, nel ‘900, il desiderio di sperimentare nuove formule e tecniche espressive , portò indubbiamente il
teatro verso una nuova dimensione.
La vera grande rivoluzione è consistita nel fatto che il teatro, accanto ad una funzione di divertimento e talvolta
di vera e propria evasione, ha approfondito la sua dimensione ‘problematica’ ed è diventato anche un luogo
nel quale dare voce a bisogni ed esigenze a cui di rado fino ad allora si era cercato di rispondere mediante gli
strumenti teatrali : istanze etiche, sociali, politiche, conoscitive e spirituali.
Il teatro epico di Bertold Brecht 1898-1956
Si tratta di un teatro che vuole contrapporsi polemicamente a quello borghese che, secondo Brecht, spingendo
lo spettatore a identificarsi emotivamente nell’azione scenica, lo stacca dai problemi reali e gli impedisce di
pensare; il teatro si riduce ad una funzione puramente evasiva , “gastronomica”, secondo la definizione dello
stesso Brecht.
Con il suo teatro ‘epico’ , il drammaturgo tedesco vuole invece che lo spettatore, dinanzi all’ azione scenica,
assuma un atteggiamento attivo, vigile , in modo da arrivare a prendere coscienza dei problemi della realtà.
Partendo dall’assunto che il teatro, e l’arte in generale, deve “ procurare nozioni e non emozioni”, Brecht
chiede allo spettatore una partecipazione critica allo spettacolo, un’attenzione continua al “messaggio” che
vuole comunicare. Per raggiungere questo fine, la recitazione brechtiana deve essere il contrario di quella
suggerita dal regista russo Stanislavskij : non immedesimazione dell’ attore nel personaggio ma, al contrario,
estraniamento da esso, quasi come se l’attore fosse solo un mezzo per ‘leggere’ il testo e non un interprete
attivamente partecipe. Tradizionalmente la forma spettacolo deve dare l’illusione della realtà, immergere lo
spettatore in un’atmosfera credibile, ma in Brecht è l’esatto contrario: deve palesemente essere una finzione,
affinché il pubblico non dimentichi mai di stare assistendo ad un evento fittizio e sia stimolato alla riflessione.
I temi brechtiani rimandano a situazioni storiche e sociali che lo spettatore deve riconoscere e interpretare : la
guerra come motore di guadagno economico per i grandi affaristi, l’abbrutimento dei singoli davanti alle grandi
tragedie, la lotta per la sopravvivenza, il cinismo dei potenti.
Brecht vuole rompere l’incantesimo ipnotizzante dell’ identificazione: la totale immersione nella finzione
scenica deve essere impedita da procedimenti che spezzino l’illusione di assistere ad un fatto reale :
- vengono mostrati cartelli con i titoli delle scene
- gli episodi vengono divisi da canzoni che introducono riflessioni e commenti sull’azione
- vengono proiettati filmati,
- le scene vengono cambiate ‘a vista’
- al posto delle scenografie naturalistiche del teatro borghese vi sono scenografie essenziali, quasi irreali, o al
limite non c’è affatto scenografia
L’aspetto più innovativo di questo genere di teatro è però la recitazione degli attori:
- essi non devono immedesimarsi nella psicologia dei personaggi, vivere i loro sentimenti rendendoli
realisticamente, con naturalezza, ma devono riuscire a “mostrarli” come dall’esterno. Brecht definisce tale
procedimento ‘effetto di straniamento’.
In tal modo il teatro non è più solo banale forma di divertimento, ma strumento politico, che induce il
pubblico ad una presa di coscienza critica.
Al problema dei rapporti sociali e della società divisa in classi, che sarà poi centrale nella sua drammaturgia,
Brecht comincia ad accostarsi dopo l’adesione al marxismo , nel 1928, a 30 anni.
Nell’ Opera da tre soldi , 1928, rifacimento in chiave grottesca della settecentesca Opera dei mendicanti ,
1728 , di John Gay, con musiche di Kurt Weill, Brecht, rappresentando la vita dei delinquenti e degli
emarginati come specchio del funzionamento della società borghese, conduce una feroce satira di
quest’ultima. E’ in questo testo che cominciano a delinearsi i principi del ‘teatro epico’, che prenderà forma
compiuta un decennio più tardi. Dall’adesione al marxismo nasce anche la serie dei drammi “didattici”: La
linea di condotta , 1930 ; La madre 1930-32 ; L’eccezione e la regola,1930; Santa Giovanna dei macelli
,1929-30 , che denunciano le condizioni di sfruttamento dell’uomo nella società divisa in classi, proponendo
l’alternativa del comunismo.
Negli anni dell’esilio, dopo il 1933, nascono i testi più maturi, in cui lo schematismo dei drammi didattici lascia
il posto ad una più complessa problematicità , in cui cioè il positivo e il negativo non sono così rigidamente
divisi e contrapposti ; nei testi seguenti l’idea brechtiana del “teatro epico” assume la forma più compiuta;
-Madre Coraggio e i suoi figli ,1930, ambientato nel Seicento durante la Guerra dei Trent’anni,ha al centro la
figura di una vivandiera che crede di riuscire a profittare della guerra con la sua astuzia e la sua vitalità, ma ne è
invece schiacciata :vi perde tutti e tre i figli ma nonostante questo non riesce a maledire la guerra stessa perché per
lei è fonte di guadagno, vendendo masserizie e cianfrusaglie nei campi di battaglia;
- Vita di Galileo, che ebbe più versioni dal 1938 al 1955 ,si incentra sulla figura del grande scienziato, iniziatore
della scienza moderna. L’autore affronta qui il tema del conflitto fra scienza e potere: la figura di Galileo , che
abiura le sue scoperte e la veridicità della rivoluzione copernicana per evitare la tortura e forse la morte,
diventa simbolo dell’asservimento della scienza al potere con la negazione della verità. Ogni uomo invece
dovrebbe avere il coraggio di manifestare le proprie opinioni senza subire le intimidazioni di chi usa la forza.
Tuttavia la figura di Galileo non è priva di sfaccettature e sfumature: Brecht volle mettere in scena
un’opera che invece di condannare o assolvere il protagonista, ponesse lo spettatore nella posizione di dover
riflettere sulle grandi tematiche che propone. A dimostrazione di ciò è probabilmente la travagliata stesura del
dramma, di cui Brecht scrisse tre versioni. L’interrogativo di fondo, sostanzialmente, è questo: se lo scienziato
vede la sua libertà di studioso minacciata dal potere, come è giusto che reagisca? Dovrebbe opporsi al potere
con la prospettiva della morte, vedendosi negata la possibilità di continuare a ricercare? Oppure fingere di
accettare le imposizioni del potere pur di proseguire la propria opera, magari di nascosto, e così dare un
altrimenti impossibile contributo all’evoluzione della conoscenza umana?
Nella vicenda dell’abiura scelta dal grande scienziato per avere salva la vita Brecht muove dunque da una
riflessione sul rapporto tra ricerca scientifica e potere per poi esprimere le sue perplessità sulla vasta
problematica della perdita di umanità contenuta in un progresso indiscriminato e cieco che non tenga nel
dovuto conto i bisogni più autentici dell’individuo e delle collettività. Non a caso, infatti, come si diceva, Brecht
riscrisse più volte la Vita di Galileo, modificandola sotto l’influsso delle innovazioni tecnologiche messe in atto
durante la seconda guerra mondiale.
- altre opere di questo periodo : L’anima buona di Sezuan ,1938-40, in cui la protagonista si sdoppia in due
personaggi opposti, ad indicare l’impossibilità di essere buoni in un mondo cattivo ;
Il signor Puntila e il suo servo Matti (1940-41) in cui sono contrapposti un ricco proprietario e il suo servo ;
Il cerchio di gesso del Caucaso ,1944 in cui l’autore è teso ad esaltare le sane energie popolari.
Il teatro dell’assurdo
Eugène Ionesco 1912-1994
Questo autore, romeno ma di lingua e cultura francese, nelle sue opere porta all’assurdo la banalità dei gesti e
delle parole della vita quotidiana:
La cantatrice calva (La cantatrice chauve, 1950, è la prima opera teatrale di Eugène Ionesco. La pièce - definita
dall'autore anticommedia - è il primo esempio di un genere teatrale allora ai suoi albori, il teatro dell'assurdo:
in cui la vicenda subisce uno straniamento tramite l'utilizzo esasperato di frasi fatte, dialoghi contrastanti, luoghi
comuni.
L'enigmatica cantatrice calva che ha dato il titolo all'opera, non compare mai, è disperatamente assente; questa
incoerenza è accentuata anche dal fatto che l'aggettivo “calva” appare incompatibile con l'immagine che si ha di
una cantante,e crea , in tal modo , un senso supplementare di sconcerto.
L'opera è scritta in un atto unico inscenato nel salotto dei signori Smith. Sia gli Smith che i Martin , i loro vicini di
casa,incarnano, secondo i canoni del teatro dell'assurdo, la tipica famiglia borghese: gli Smith ad esempio, abitano
in una villetta a più piani, sono abbigliati in modo impeccabile ed all'antica, trascorrono il tempo spettegolando su
amici e vicini; la signora trova diletto nel pensare a come preparare lo stesso yogurt della vicina, il marito legge il
giornale e fa commenti conservatori sui medici, sullo stato britannico, sull'esercito.
Una grande importanza hanno gli orologi della stanza, che scandiscono il tempo: la pendola suona a caso rintocchi
il cui numero cambia ogni volta.
Nella prima scena i coniugi Smith siedono in salotto arredato di mobili inglesi: il signor Smith legge un quotidiano
fumando una pipa inglese, mentre la signora fila, ripetendo più volte il menu della loro cena, perfettamente
all'inglese.
La cameriera Mary compare, annunciando i coniugi Martin. Gli Smith si dirigono a cambiarsi.
I Martin si accomodano e si comportano come perfetti sconosciuti rievocando ricordi di luoghi dove sono stati
insieme senza però incontrarsi.
Le coppie si ricongiungono, e cominciano a parlare quando il campanello suona più volte, senza che però nessuno
sia alla porta; la signora Smith elabora così la teoria che il suono del campanello corrisponde all'assenza di
qualcuno, anziché alla sua presenza. Infine alla porta compare un pompiere alla disperata ricerca di un fuoco da
estinguere. I personaggi cominciano a parlare, a raccontare barzellette, poi a sbraitare ed infine, con la comparsa
anche della cameriera, ad emettere suoni senza senso. Poi calano le luci.
Il dramma ricomincia daccapo coi Martin al posto degli Smith: la signora Martin discute della favolosa cena inglese,
mentre il signor Martin legge il giornale fumando la pipa, comodamente seduto in pantofole; infine cala il sipario.
L'opera, che dà essenzialmente importanza al dialogo a scapito dello spettacolo, poggia sul linguaggio. Tuttavia,
Ionesco ne altera la funzione tradizionale. Il linguaggio teatrale è, generalmente, un efficace mezzo di
comunicazione, che permette ai personaggi di rivelare i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro intenzioni. Ma,
nell'opera di Ionesco, l’insensatezza delle conversazioni sottolinea invece proprio la difficoltà , se non
l’impossibilità di comunicare. Il linguaggio, nella banalità delle parole, nell'incoerenza delle formulazioni, nella
riduzione a suoni privi di senso , costituisce un'eloquente manifestazione dell'inutilità dell'uomo che non riesce
a trovare il suo posto in un universo assurdo. Ionesco ha proceduto a una vera disintegrazione dell'espressione.
Il dialogo risulta difficile, se non impossibile: ciascuno si trova chiuso all'interno della sua concezione delle
cose, ha la sua idea delle nozioni e delle parole che utilizza e che utilizzano gli altri.
All'interno della Cantatrice calva, le battute sono generalmente brevi, nella maggior parte dei casi, composte da
proposizioni indipendenti, oppure frasi nominali, senza verbo: i personaggi si esprimono brevemente, poiché
non riescono ad elaborare idee logiche, perché non hanno da dire nulla .
Samuel Beckett 1906-1989
La visione di Beckett è ispirata ad un nichilismo radicale. La realtà, nelle sue opere, appare destituita di ogni
senso e si risolve in un nulla incombente, senza alternative possibili o speranze. E’ una condizione metafisica,
assoluta che non ha punti di riferimento storici . La dimensione umana stessa si annulla : l’uomo si riduce a
larva, a relitto pietoso o insignificante che qualche volta si protende ancora verso una speranza o ha una
struggente nostalgia di un senso perduto delle cose, ma è inevitabilmente deluso, prigioniero della sua nullità e
della sua degradazione.
Questa tragica e angosciosa condizione è resa da Beckett con toni grotteschi, addirittura comici, con
procedimenti di tipo clownesco che mettono in luce l’assurdità del vivere con uno humor feroce.
La privazione di senso della realtà e dell’uomo si riflette , come in Ionesco sul linguaggio: la parola in Beckett
non trasmette concetti razionalmente strutturati né serve per la comunicazione interpersonale ; il discorso
umano diventa nel suo teatro un insieme di frammenti insensati, senza contenuti né nessi logici , frasi fatte
ossessivamente ripetute, balbettii inarticolati, talvolta versi quasi animaleschi.
Al limite estremo talvolta c’è il silenzio : e difatti alcuni testi non contengono più parole, riducendosi a puro
gesto ( sino a Respiro , dove persino l’azione scompare).
I testi di Beckett offrono soluzioni teatrali rivoluzionarie, che sconvolgono le strutture consacrate. In una realtà
come quella contemporanea non hanno più senso testi drammatici ‘ben fatti’, che rispecchino la visione
tradizionale di un mondo razionalmente ordinato, ed anche i moduli rappresentativi vengono stravolti nel
profondo.
- Aspettando Godot , 1952 : due barboni attendono un misterioso Godot, che non arriverà mai, scambiando
frammenti di dialogo senza senso;
- Finale di partita , 1957 :vi compare un’umanità degradata, un cieco in carrozzella, i suoi due genitori senza
gambe che vivono in bidoni di spazzatura ed un figlio schiavo che cerca sempre di fuggire dal rifugio dove i tre
vivono isolati, ma senza riuscirvi;
- Atto senza parole , 1957 : il dialogo scompare e si hanno solo i gesti di un uomo che non riesce a raggiungere
gli oggetti che calano misteriosamente dall’alto e poi risalgono, lasciandolo solo e immobile ;
- L’ultimo nastro di Krapp , 1959 : un vecchio assume coscienza del vuoto della sua vita ascoltando la propria
voce registrata quando era giovane;
- Giorni felici , 1961 : monologo di una donna quasi sepolta in una specie di pantano o sabbia mobile ;
- Respiro , 1970 : dura solo 35 secondi, senza personaggi né azione: un vagito all’inizio, il lamento di un morente
alla fine e, in mezzo, il buio.
■
Italia
il secondo ‘900
Alcune delle più straordinarie esperienze teatrali del secondo Novecento si sono sviluppate in ambiti che una
implicita gerarchia dei generi relegava abitualmente ai margini della tradizione considerata degna di
trasmissione culturale.
Opere di grande valore letterario nascono infatti, in questo periodo, in diretto rapporto con un patrimonio di
esperienze popolari che vanno dal varietà al teatro dei pupi, dalla rivista al teatro dialettale .
E’ possibile dunque ricondurre a una originaria matrice popolare le opere di alcuni autori-attori nelle quali
gioca un ruolo fondamentale il potere evocativo della parola.
Eduardo De Filippo 1900-1984
Eduardo De Filippo è erede e interprete della tradizione napoletana, ma anche un suo straordinario
rimaneggiatore : infatti ‘depura’ la classica commedia napoletana dei suoi aspetti più buffoneschi e la
arricchisce di tematiche nuove in parte attinte da Pirandello con il quale aveva collaborato per diversi anni. I
suoi lavori trattano il tema del paradosso, delle finzioni e delle ipocrisie imposte dalla società borghese, delle
nevrosi che affliggono la vita di tutti i giorni, dei difficili equilibri familiari, della fatica del vivere. Così, pur
ambientate nel contesto colorito e vivace della città partenopea, le commedie di Eduardo superano la realtà
regionalistica per assumere il valore di una riflessione universale, intrisa di pietà e poesia, sulla condizione
dell’uomo e sulle problematiche della società contemporanea.
Questo ha rappresentato la chiave di un successo ampio e indiscusso che ha scavalcato i limiti del teatro
dialettale per portare Eduardo sulla ribalta delle scene nazionali e internazionali.
Le situazioni descritte nel suo teatro riguardano per lo più un contesto piccolo borghese e mostrano personaggi
che, vivendo in bilico fra tragedia e commedia, trasmettono il senso di un eroismo quotidiano , fatto di gesti
non eclatanti, misurati, profondamente umani.
E’ inoltre quasi impossibile scindere i testi di Eduardo dalla sua interpretazione. Grazie anche al grande
successo televisivo delle sue commedie, il grande pubblico ha conservato memoria della particolare qualità
recitativa di Eduardo, che rende possibile la comprensione del suo straordinario impasto linguistico anche a
chi non conosce il dialetto napoletano.
E’ parte di questo linguaggio più ampiamente ‘recitativo’ il modo in cui la sua figura “ occupa interamente la
scena del teatro, sebbene con una miracolosa tecnica di ‘sottrazione’ dei gesti, del volume della voce, degli
spostamenti, e con l’invenzione di una espressività fatta di dosaggi di pause, di parole, di sospensioni.
Il teatro di Eduardo mette quasi sempre in scena Napoli e i suoi abitanti, e soprattutto la vita dei cosiddetti
‘bassi’,[ gli stanzoni in cui abitano i napoletani più poveri e che si affacciano direttamente sulla strada] e dei
palazzi piccoli-borghesi dei vicoli del centro.
Mentre il teatro otto-novecentesco era stato soprattutto, come si è detto, teatro borghese, Eduardo apre la
scena al popolo: il sipario si apre su interni dimessi, su camere da letto in cui si dorme in troppi, su scene
familiari in cui si litiga in continuazione. Questa umanità insieme tragica e divertente si presenta in scena alle
prese con i problemi di sempre : la miseria, le gelosie, i tradimenti, le menzogne, i segreti.
Tali problemi sono però, evidentemente, problemi di tutti perché nonostante ci sia una perfetta adesione ai
caratteri e ai costumi di una sola città, Napoli, il teatro di Eduardo ha superato e supera i confini regionali e
nazionali: di fatto, insieme a Pirandello e a Dario Fo, Eduardo è l’autore italiano novecentesco più tradotto e
rappresentato nel mondo.
Due sono le fasi della sua attività teatrale:
1) il periodo tra le due guerre , a cui risalgono le commedie maggiormente legate alla tradizione partenopea,
nelle quali l’uso di un linguaggio dialettale è legato ad una comicità ancora piuttosto farsesca ( che ha cioè una
dimensione prevalentemente comica) : Ditegli sempre di sì ,1927 ; Non ti pago,1940 ; Natale in casa Cupiello , 1943
, poi confluite nella raccolta Cantate dei giorni pari
2) gli anni del secondo dopoguerra ;
grazie all’incontro con Pirandello il suo teatro subisce una svolta : le trame si fanno più articolate, i personaggi
diventano più complessi e problematici. E’ questa la fase della drammaturgia eduardiana più matura : Napoli
milionaria ! ,1945 , Questi fantasmi; Filumena Marturano, 1946 ; La grande magia ; Le voci di dentro,1948.
Queste opere sono confluite nella raccolta Cantate dei giorni dispari :
Napoli milionaria ! ,1945
E' la vita del popolo di Napoli, prima, durante e dopo la guerra, vista attraverso la storia d'una famiglia. Il padre è
un tramviere che durante l'occupazione tedesca viene rastrellato e deportato. Dopo l'arrivo degli alleati la borsa
nera prende maggiore sviluppo: la madre, Amalia, con l'aiuto d'un compare, che le fa la corte, fa quattrini a palate.
Passa il tempo: la guerra è finita. Il basso è stato rinnovato e ristrutturato. Amalia, vestita a festa e carica di gioielli
ha fatto fortuna e si è ora associata in commerci poco puliti con Settebellizze (un autista e proprietario di
camion).
La guerra ha lasciato le sue rovine; la famiglia Iovine si sta disgregando: la figlia Maria Rosaria non più sorvegliata
e guidata dalla madre, è rimasta incinta di un soldato americano che l'ha lasciata ed è tornato al suo paese; Amedeo
, il figlio,ruba gli pneumatici delle auto insieme a Peppe 'o Cricco, specializzato appunto ad alzare le auto con la
spalla per sfilare le ruote.
Questa è la famiglia che ritrova Gennaro tornato inaspettatamente in un giorno di festa . Vorrebbe sfogarsi,
raccontare le sue sofferenze e peripezie ma nessuno sta ad ascoltarlo, tutti vogliono festeggiare e non pensare più
alle pene della guerra ormai finita. Per questo si invitano tutti i familiari e i vicini del basso ad una ricca cena.
Gennaro così lascia amareggiato la compagnia e preferisce stare vicino alla figlia più piccola ammalata. «La guerra
è finita», ripetono tutti: Gennaro invece è convinto che ora si stia combattendo un'altra guerra: quella della povera
gente che ha perso, per le sciagure attraversate, tutti i valori e l'onestà della vita precedente e che ora deve
recuperare. Una disgrazia più grande ha colpito la famiglia: la piccola ammalata morirà se non si troverà una
medicina che sembra essere introvabile in tutta Napoli ed il dottore stesso non sa più dove poterla trovare. La
medicina la porterà il ragioniere Spasiano che l'ha dovuta usare per i suoi figli: la darà ad Amalia senza pretendere
niente in cambio anche se, quando si trattava di non far morire di fame i suoi figli, Amalia non è stata altrettanto
generosa non pensando che «Chi prima, chi dopo ognuno deve bussare alla porta dell'altro».
La bambina si salverà se supererà la nottata; Amedeo non è andato a rubare: promette di tornare a lavorare
onestamente, Maria Rosaria resterà in famiglia con il suo bambino. Anche Amalia ha capito di avere sbagliato a
farsi prender dalla brama del denaro ed ora piange sui suoi errori . Gennaro la conforta; ora non rimane che
aspettare: «S'ha da aspetta' Ama' . Ha da passa' 'a nuttata».
Filumena Marturano, 1946
Napoli: Filumena, una ex prostituta di quarantotto anni, vive da venticinque anni con Don Domenico (Mimì)
Soriano, ricco pasticciere napoletano e suo cliente di vecchia data. In tutti questi anni gli ha fatto da donna di servizio e da "dama di compagnia" amministrando la sua casa come una vera e propria moglie, senza però legalmente
esserlo e tantomeno essere stata apprezzata per la sua dedizione.
Per convincere Don Mimì, (vero don Giovanni incallito che continuava, pur invecchiato, a correre dietro alle donne,)
ad abbandonare la sua vita dissoluta, si finge in punto di morte. Il medico conferma la gravità della malattia e l'imminente morte di Filumena cosicchè Domenico, credendola in fin di vita, decide di sposarla. Il prete celebra le sue
nozze in extremis con la morente. Quando però Mimì scopre che l'agonia di Filumena è stata una messinscena, si
rivolge a un avvocato, che inesorabilmente spiega a Filumena l'inutilità del suo stratagemma perché un matrimonio
contratto con l'inganno non può essere valido.
Domenico crede che tutta quella finzione dovesse servire solo per ottenere denaro. Ma Filumena prende il coraggio
a due mani e gli annuncia per la prima volta il motivo della sua azione. "È un'altra cosa che voglio da te", dice e gli
confessa che ha tre figli, che lei ha cresciuto sottraendo a Mimì regolarmente piccole somme. Domenico è allibito
quando Filumena gli rivela che uno dei tre è figlio di lui stesso.
Dapprima non le crede, ma Filumena gli ricorda di quando una notte lui, Domenico, aveva spento la luce e le aveva
sussurrato: "Filume', facimm' avvedé ca ce vulimmo bene". Ma poi, andando via, le aveva dato, come sempre, cento
lire. Filumena che da allora non aveva incontrato più altri uomini, gli rivela di aver conservato la banconota di
quella notte sulla quale aveva segnato la data del concepimento del (comune) figlio e gliene ridà una metà (la parte
senza la scritta della data, perché lui non possa risalire all'identità di suo figlio), "...perché i figli non si pagano".
Filumena decide quindi di far conoscere loro Don Mimì il quale cerca inutilmente di scoprire quale dei tre possa
essere figlio suo. Ma Filumena non glielo dirà mai perché sa che don Mimì dedicherebbe solo a lui le sue attenzioni,
favorendolo a svantaggio degli altri due. Quindi, se don Mimi vuole essere padre di suo figlio lo dovrà essere per tutti
e tre indistintamente. Perchè "i figli sono tutti uguali".
La fermezza e la profondità del carattere di Filumena, alla fine, lo convincono: Mimì accetta di sposarla e di
riconoscere i giovani come suoi figli, commuovendosi quando, nell'accompagnare i coniugi in chiesa, questi ad un
tratto lo chiamano per la prima volta: "papà".
Dario Fo 1926
Dario Fo è l’attore e autore teatrale italiano vivente più celebre in Italia e all’estero:
Nel 1997 l’Accademia reale di Svezia gli ha assegnato il premio Nobel per la letteratura con la seguente
motivazione :
“ All’ italiano Dario Fo che nella tradizione dei giullari medievali fustiga il potere e riabilita la dignità degli
umiliati”
Nato nel 1926 in provincia di Varese, durante l’infanzia Fo ascolta dalla voce del nonno materno le storie della
sua terra: la memoria di quei racconti influenzerà il suo futuro teatrale.
Nel 1968, sull’onda delle grandi contestazioni studentesche e operaie, insieme con la moglie, Franca Rame(
con la quale aveva fondato nel 1959 una compagnia teatrale) decide di uscire dai circuiti ufficiali dei teatri
stabili sovvenzionati dallo Stato per raggiungere un pubblico più ampio. Dà vita all’Associazione Nuova Scena,
una compagnia teatrale formata da decine di giovani attrici, attori e tecnici. Questo “collettivo teatrale
indipendente” e itinerante mette in scena testi politicamente impegnati ( a sinistra) davanti a un pubblico
nuovo: non più gli intellettuali e i borghesi nei teatri ma gli operai nelle case del popolo, nei cinema, nelle
piazze.
Nei lunghi anni di attività del collettivo, gli spettacoli rappresentati affrontano i temi dell’attualità in chiave
comica, recuperando la tradizione scenica giullaresca, ma è una chiave comica che permette di trattare anche
temi serissimi, come la morte dell’anarchico Pinelli, accusato ingiustamente della strage di Piazza Fontana ,(
uno dei tanti atti di terrorismo degli anni ’70 ) in Morte accidentale di un anarchico.
L’esperienza di Fo va sicuramente ricondotta alla tradizione medievale, nonché alla Commedia dell’ Arte, ma
alla sua formazione e alla sua poetica contribuiscono anche altri fattori : è attento alla ‘velocità’ del cinema di
Charlie Chaplin e negli anni ’50 frequenta la scuola di mimo di Jacques Lecoq ; molti elementi inoltre
avvicinano il suo percorso a quello di Eduardo De Filippo : entrambi infatti esordiscono lavorando su un
genere marginale e popolare come la rivista, spettacolo di genere leggero con scene non legate tematicamente
le une alle altre e per lo più ispirate all’attualità ; sia Fo sia De Filippo, inoltre , sono uomini di teatro completi
e curano i propri lavori a tutto tondo come scrittori, registi, attori e capocomici
Con la sua esperienza Fo ha riabilitato la cultura e la tradizione dei cantastorie. Attraverso la riproposizione
della figura del giullare, poi, Fo porta sulle scene un attore monologante che incarna allo stesso tempo decine
di personaggi diversi
Nelle sue recitazioni il ritmo della narrazione è inarrestabile : tradizione ‘alta’ a tradizione ‘ bassa’ si fondono
e danno vita a un testo nuovo, originale, in cui il grado di commistione è tale da togliere senso alla divisione
stessa di ‘alto’ e ‘basso’, mentre si assiste a un frequente slittamento dal comico al tragico.
Nascendo da una tradizione popolare spesso legata alla contingenza della messa in scena, la forma espressiva
elaborata da Fo richiede all’attore grande capacità di adattamento e di improvvisazione
Al 1969 risale il capolavoro di Dario Fo, Mistero buffo che fu trasmesso dalla Rai nel 1977.
Il titolo del lavoro viene spiegato dallo stesso autore in una prefazione dell’ edizione a stampa : il termine
mistero, di origine greca , era usato nel Medioevo per indicare le rappresentazioni sacre. L’aggiunta
dell’aggettivo buffo vuole indicare che la rappresentazione avviene in chiave grottesca e satirica ma non
blasfema.
Anticamente il giullare, dichiara Fo, non ‘sbeffeggiava’ la religione ma smascherava e denunciava in chiave
comica le manovre furbesche di coloro che, approfittando della religione e del sacro si facevano gli ‘affari
propri’ sfruttando la povera gente.
Per il suo teatro giullaresco e per Mistero buffo in particolare, Fo adopera il grammelot un artificio recitativo
che consiste nel mettere insieme intrecci di parole di lingue e dialetti diversi miste a parole inventate, senza
senso ma di forte suggestione onomatopeica.
Il risultato è un surplus di espressività musicale , in grado di comunicare forti emozioni , specialmente se unito
a gestualità e a mimica.
La struttura del testo è aperta non ne esiste, quindi, un’unica versione perché negli anni sono stati apportatati
tagli, rimaneggiamenti, aggiunte. Questa caratteristica è coerente con l’idea di Dario Fo che il teatro nel
Medioevo rappresentasse una sorta di “giornale parlato” del popolo, in continuo aggiornamento e
trasformazione. Pur nella differenza delle varie redazioni, le figure fisse che popolano Mistero buffo sono
disgraziati, emarginati, folli, ubriachi. I ‘misteri’ sono preceduti da ‘prologhi’ che ne anticipano il contenuto e
l’origine e chiariscono quali caratteristiche avrà la recitazione. Alcuni dei testi che compongono l’ opera :
Moralità del cieco e dello storpio ; La nascita del giullare ; La nascita del villano ; La resurrezione di Lazzaro ;
Il Matto e la Morte
STORIA DEL ‘grammelot’
Presentazione
Prima di proseguire con le giullare dei misteri medievali, permettetemi di eseguire un salto in avanti nel tempo
e raggiungere il nostro Rinascimento. Questo allo scopo di presentarvi il grammelot,cioè il linguaggio del tutto
teatrale inventato dai Comici dell’Arte. All’origine fino a quasi tutto il ‘400 le compagnie di teatro erano
composte da attori dilettanti e occasionali e . Ma a cominciare dalla compagnia diretta da Pietro Beolco detto
Ruzzante (nel primo quarto del ‘500) gli attori cominciarono a riunirsi in gruppi consociati con tanto di statuto
e contratto. Rapidamente si formarono decine di compagnie regolari e di teatranti professionisti a Napoli come
in Sicilia, a Roma e in tutto il resto d’Italia. Senz’altro il Veneto con a capo Venezia vide il formarsi di gruppi
teatrali la cui fama raggiunse ben presto Parigi, Madrid, Londra fino a Mosca e San Pietroburgo.
Quando poi nella seconda metà del ‘500 esplose la Controriforma, l’attacco condotto dalla Chiesa verso gli
intellettuali liberi colpì duramente anche le compagnie di attori associati, cioè i teatranti della Commedia
dell’Arte che spesso godevano della protezione politica e finanziaria dei principi nelle città dove aveva sede
d’origine la loro compagnia. Quei commedianti vennero costretti ad una vera e propria diaspora. Furono
centinaia le compagnie che dovettero emigrare in tutti i paesi d’Europa: Spagna, Germania, Inghilterra. La
maggior quantità di quei teatranti si stabilì nella Francia.
È ovvio che la maggior difficoltà era quella di farsi intendere dagli abitanti di quei paesi che non conoscevano
la nostra lingua. È vero che i comici dell’arte possedevano insuperabili doti di gestualità ed erano veri maestri
della pantomima, ma dovettero creare qualche cosa che permettesse loro di esprimere più profondamente il
discorso del gioco satirico e tragico che andavano proponendo. Cominciarono coll’ impiegare un linguaggio
che potremmo definire pseudo-maccheronico, cioè composto da sproloqui, apparentemente senza senso
compiuto, infarciti di termini della lingua locale pronunciati con sonorità e timbri italianeschi. Via via si
perfezionarono fino ad impiegare, oltre ad una straordinaria gestualità, suoni onomatopeici che realizzavano
l’immagine delle azioni o stati d’animo a cui si voleva alludere. Questo gioco imponeva agli spettatori l’impiego
di una certa dose di fantasia e immaginazione che produceva loro l’insostituibile piacere dello scoprirsi
intelligenti.In Francia le compagnie dei “ Gelosi” e dei “ Raccolti” furono tra le prime a sviluppare questo
genere di rappresentazione. Ma ancor prima della “cacciata” quei comici si erano già esercitati nel loro paese
nel gioco di reinventare “idiomi foresti”.
La fame dello Zanni
Il testo è diviso in due parti che hanno un ritmo e uno stile completamente differenti.
Nella prima sezione, tratta dal prologo, Fo offre allo spettatore e al lettore la cornice di riferimento all’interno
della quale inquadrarre il “ pezzo di bravura” successivo. Il tono è affabulatorio e coinvolgente. Emerge la
grande vocazione didattica di Fo, che riesce a ‘drammatizzare’ una lezione di storia rendendola coinvolgente e
interessante anche per un pubblico non colto. Il linguaggio è chiaro e diretto, vengono messi in evidenza i nessi
causa-effetto. Dopo aver offerto allo spettatore tutte le coordinate necessarie a orientarsi nel periodo storico in
cui l’autore intende calarlo, Fo lo rinfranca sulle sue capacità di comprensione ( “ Non preoccupatevi se
all’inizio non vi riuscirà di afferrare tutto il discorso”) anzi gli prospetta la possibilità di riuscire a capire anche
più di quanto l’autore pensasse di dirgli.
Per la comprensione della seconda parte ci si deve affidare, più che alla capacità intellettiva razionale, al senso
musicale di quanto viene detto, lasciandosi trasportare in un universo di suoni in grado di suscitare delle
sensazioni. Per agevolare la lettura l’autore indica con un carattere tipografico diverso le parole che non hanno
un significato reale, ma che vanno lette come suggestioni onomatopeiche : per il lettore si apre, così, un grande
ventaglio di possibilità interpretative legate alla propria memoria uditiva. L’assurdità della scena descritta trova
il suo acme nel momento in cui, ripulite e arrotolate le budella, lo Zanni inizia a divorarle con gusto in un
crescendo di suoni gutturali che culminano nella rumorosa emissione finale che scioglie la tensione e riporta
alla realtà . Il lauto pasto immaginario non ha diminuito la fame dello Zanni!
Il grammelot più antico è senz’altro quello dello Zanni
Zanni è il prototipo di tutte le maschere della Commedia dell’Arte, padre di Arlecchino, Brighella, Stenterello, Sganarello
ecc... però a differenza di quasi tutte le maschere che hanno nomi e comportamenti inventati, questo ha un’origine reale.
Zanni era il soprannome che fin dal XV secolo i Veneziani davano ai contadini provenienti da tutta la Lombardia,
iPiemonte e le province del Garda e dell’Adda. In particolare i villani di Brescia e Bergamo venivano chiamati “Giani” o
“Joani”. Questi antenati dello Zanni assursero all’attenzione della cronaca in conseguenza dell’esplosione di un fenomeno
straordinario che si sviluppa in quel periodo: la nascita del capitalismo moderno. Pochi lo sanno, ma il capitalismo
moderno è nato in Italia. Quando insieme a Franca si recitava negli Stati Uniti, da Boston a New York fino a Washington,
ogni sera provavo un senso di incredibile orgoglio nello svelare agli spettatori americani che banche, carte di credito,
cambiali sono tutte nostre invenzioni, cioè della nostra borghesia mercantile del cinquecento. Il nuovo capitalismo viveva
soprattutto sul movimento di denari legati alle guerra di conquista coloniale; i banchieri erano così importanti che si
potevano permettere di donare le proprie figlie in spose a re di tutta Europa, come successe alle figlie dei de’ Medici di
Firenze. Senza l’apporto determinante delle banche italiane, in particolare di quelle fiorentine, l’America non sarebbe
stata scoperta o almeno sarebbe stata scoperta più tardi. Il nuovo continente non ha il nome di Colombo suo scopritore,
ma di Amerigo –Amerigo Vespucci –capitano, figlio di banchieri e banchiere egli stesso. É sintomatico che “America”
abbia origine proprio dal nome di un banchiere A cavallo della Controriforma Venezia gode di uno straordinario
sviluppo, le terre conquistate o acquistate grazie all’apporto delle banche in tutto il Mediterraneo fruttano ricchezza sia in
denaro che in derrate alimentari, derrate che invadono i mercati della nostra penisola causando grandi sconquassi. Infatti
il prezzo delle merci offerte era talmente basso che i contadini non riuscivano più a vendere i propri prodotti. Così questi
Zanni disperati abbandonarono le loro terre e si riversarono nelle città e nei porti più ricchi del Nord, in particolare a
Venezia. In grandissimo numero gli Zanni scesero a Venezia con le loro donne a cercare lavoro; accettarono i lavori più
bassi dallo svuotare latrine al facchinaggio al porto, si adattarono al ruolo di sottoservi, quasi schiavi. Le loro donne, oltre
che ricoprire il ruolo di serve e sguattere, si dedicarono alla prostituzione. Il numero delle prostitute in quel tempo, a
Venezia, cresceva a vista d’occhio tanto che l’amministrazione della repubblica cominciò a preoccuparsi seriamente e
indisse un’inchiesta. È quasi automatico, ancora oggi il governo, quando esplodono calamità che turbano l’opinione
pubblica, immediatamente indice un’inchiesta... Poi non se ne fa più niente, ma l’importante è di aver dimostrato una
buona volontà. In seguito a quest’inchiesta, La Repubblica di Venezia scoprì che la bellezza dell’11% dell’intera
popolazione era dedita alla prostituzione. Detto così non fa neanche tanta impressione, infatti nessuno di loro ha accusato
sorpresa o brivido... anch’io come ho letto questa notizia su un testo di storia non mi sono impressionato più di tanto:
11% è una quantità abbastanza accettabile, ma bisogna saperle leggerle le inchieste, analizzate correttamente spesso infatti
riservano sorprese terrificanti. proviamo infatti a rileggere insieme questa percentuale. Cosa vuol dire 11% dell’intera
popolazione? Dunque in quel tempo la popolazione era salita a 160.000 abitanti... quindi cominciamo col dividerla in due
parti, ottantamila maschi mettiamoli da un lato... si prostituivano anche loro, ma in modo del tutto particolare; poi
abbiamo ottantamila femmine, da cui bisogna togliere le anziane, le donne vecchie, ma proprio quelle decrepite perché
non appena stavano in piedi: un po’ di rossetto, due cuscini a far da tette qui... e via che funzionavano che è un piacere!
Poi togliamo le bambine, quelle col moccio, ma come rimanevano in piedi da sole , andavano bene anche loro. Poi
abbiamo le suore, le religiose... per favore, mettiamole da parte senza far ironia o sarcasmo, non è proprio il caso! Poi
abbiamo le ricche, le aristocratiche, le nobili che si prostituivano anche loro, ma ... a prezzi inaccessibili. Ebbene il
restante numero delle femmine corrisponde proprio all’11% dell’intera popolazione. Tutte!!Una delle situazioni tragiche
che hanno portato allo splendore il capitalismo moderno sono sempre state le crisi. Il fenomeno aumentava le
differenziazioni che già esistevano, gente che navigava nella ricchezza e gente ridotta alla fame. “La fame dello Zanni” è il
titolo di questo brano e il personaggio che io vi presento è uno zanni, un facchino delle valli di Bergamo e Brescia senza
lavoro che da giorni non tocca cibo. Il comico che per primo s’è cimentato nel rifare il verso allo zanni disperato per la
fame non conosceva certo il dialetto autentico degli zanni, né tanto meno lo comprendeva il pubblico che assisteva alla sua
esibizione. Il comico doveva quindi inventarsi un grammelot bresciano bergamasco infarcito di termini veneti truccati da
lombardesco delle montagne.
Zanni è un povero che preso dalla fame si addormenta e sogna di mangiare qualsiasi cosa: sogna di avere tre
pentoloni dove cucina polenta, cinghiale e verdure; poi non ancora sazio inizia a mangiare parti del suo stesso
corpo, lasciando solo la bocca a masticare. Svegliatosi e capito che si trattava di un sogno, prima si dispera, poi
(sempre in preda ai morsi della fame) si sazia con una mosca che lo stava infastidendo.
Eccovi il testo e la descrizione de “La fame dello Zanni”. (Lo zanni barcolla, si muove come un ubriaco)
Greulot, nachì stulò(le espressioni in grassetto sono tutte invenzioni onomatopeiche)... me tengo ‘na fame, ‘na
sgandula che pe’ la desperasiùn u zervél me stropia a sgroll. Deo che fame! Gh’ho ‘na fame che me magnaria
anca un ogio (mima di cavarsi un occhio)e me lo ciuciaria ‘me ‘n’ovo (succhia l’immaginario uovo). Un oregia
me strancaria! (Fa il gesto di strapparsi un orecchio) Tuti e doi l’oregi (li mastica con avidità)...ol naso cavaria
(esegue). Oh, che fame tegno! Che me enfrocaria ‘na man dinta la boca, ziò in tol gargaroz fino al stomego e
caò in pratosciò guiu (mima tutta l’azione )e stroncaria da po’le budele, tute le tripe a stroslon fragnao(mima di
cavarsi le budella tirandole fuori attraverso la gola, quindi le arrotola sul braccio)... stropian cordame –
srutolon(finge di strizzarle per ripulirle dalle feci. Scuote la mano nel gesto di liberarsi da tanta zozzeria).Merda!
Deo quanta merda de repien! (Soffia come in un lungo tubo e ne ottiene un pernacchio dai timbri grevi e profondi
con contrappunto di falsetti scurrili) FRUUOOOH... SPROH... FESCIOUAAAH... TRIFIHIEE!(Scuote l’immaginaria canna
di budella, quindi inizia a masticarla e ingoiarla come fosse una interminabile salsiccia. Mastica e commenta)
Sgnagui que brossolo smagnasent lüganegosa... Gne, gna gnitraguì (rutto finale emesso con soddisfazione. Si
accarezza il ventre salendo fino alla gola. Deluso e disperato) Ohi, la fame che tegno! Me magnaresse i monti, le
valàde, le nivule (punta lo sguardo in alto lontano)E, bon par ti, Deo, ch’et sit lontan! At magnaria tüto ol
treangolo in sü la crapa, i cheruben d’entrono (pausa, poi ridendo crudele)... at gh’hai paura, ah?! (Si rivolge al
pubblico come scorgendolo solo in quell’istante)Ohi, quanta zente!... smonluat specandot... me voraria sciernir i
pì tenerin e poe ciuciarmei fin a i osi. Deo che fam! Straguonante!(Barcolla)... moro! Sento strabocarse le
budela che sbate come campane en drofegnam direndon direndooola (muove fianchi a sbattere e fa oscillare il
ventre. All’istante si blocca e si guarda intorno sopreso)
En do son mi? Cosa che m’è capitò? Una cusina?! Son derentro a ‘na cusina imbostonada de stuvie (stufe),
padele, pentolon e marmite... ohi!, gh’è anca robada cusinare! Presto (quasi dandosi ordini)cata ‘sto pentolon,
piàsalosul fogostrabuscen che svurgula. Agua! (mima di afferrare un bacile e rovescia acqua nella marmitta sul
fuoco. Sbatte un gran ventaglio per incitare le fiamme)Fogo, fogo... boia! De tüti i diavuli, sprugit fiame
d’enferno... büje! BLIC BLOC BLIC Sale! ‘Na bela salada gosa (esegue) la canela (mima di afferrare un bastone
da polenta e con quello agita l’acqua)Vaì! Sbordela, che mo te dago de grignire (masticare) (fa il gesto di afferrare un
sacco e lo solleva) Pulenta... oh, Santa pulenta, mais spulentàt (rovescia il contenuto del sacco nel paiolo. Nello
sbattere il sacco, questo gli cade nella gran pentola)Ohi demoni! Me tromborlà ol saco in tel bujon! (Afferra il
bastone e con quello muove dentro la pentola nel tentativo di ripescare il sacco ormai vuoto. Non ci
riesce)Maladicto sacon,vegne fora! Sorte! No ti vol sortir? Bon, buie puranco, bestia! Te magno anca
ti.(Rapidissimo abbandona il bastone e afferra un mazzo di rami secchi, lo immerge nel fuoco, lo ritira incendiato e
lo infila in un immaginario camino)Fogo, fogo (sempre dandosi ordini)‘na marmita padela su ‘sto fiameton
incalorado (agita la padella e vi rovescia qualcosa)Oeli, songia, bütiro (grasso di maiale). (Fa saltare il soffritto.
Mima di gettare aglio e altri sapori)Ali, scigola, rosamrì... sbati, salta. (Abbandona per un attimo la padella e
afferra qualcosa su un ipotetico tavolo)Carna! Carnasa santa morbedosa (afferra un coltellaccio)a tochi!
(Mima di calare fendenti rapidi sul pezzo di manzo. Ritrae veloce l’altra mano e la osserva preoccupato)
Boia! Per ‘na sfirzola no’ me tajavo un dido... l’ongia: me son tajà giosto l’ongia! (Raccoglie i tocchi di
carne e li scaraventa nella padella. Quindi la solleva facendo volare la carne per poi riprenderla da gran giocoliere)
Diaol inzopa! Me burlà tüto(si china raccogliendo i tocchi da terra e li ributta nella padella)Vino
(finge di afferrare una piccola damigiana e versa il vino, si ritrae come aggredito da una fiammata di vapore.
Quindi annusa)Che parfumo! Bon, bon che apreso te magno!
(Si ricorda all’istante della polenta. Afferra il bastone e lo remena dentro il paiolo)Zira, sgorlassa pajon brucugnant!
(Si rigetta sulla padella e la agita mentre con l’altra mano mena la polenta. Sculetta con natiche e ventre per darsi
il tempo)Struja, sbacchia, smena svalugné scorievò
(come ispirato, lascia ogni cosa per recarsi più in là sul palcoscenico. Mima di attizzare un altro
fuoco. Ci pone sopra una pentola e rapidissimo versa strutto e altri ingredienti per il soffritto)
Grasa de purzel, bogna de stüsa,arborì canèla (getta velocemente ogni ingrediente come in un rito religioso.
Mima di rincorrere un pollo) pulastu vegne chi-ló... che t’ha scueli (allunga il braccio e con velocità da gatto afferra
il pollo e gli torce il collo. Emette grida disperate da pennuto scannato)
CAIECOOO SGRIEE IOCCHIRECHE... TOC! (Si osserva la mano destra dopo uno scatto repentino)Sé stacà: gh’ho
strampà neto la crapa! (Si porta l’immaginaria testa del pollo alla bocca e la divora in un botto)
Bon! (Getta il pollo nella pentola e la solleva con scatti da maestro cuoco. Uno sguardo rapido all’altra padella
dove frigge la carne. Allunga un braccio, con la mano afferra il manico e fa saltare la padella. Anche l’altra
mano agisce in contrappunto. Girando netto sul dorso, afferra il bastone e rimesta la polenta, ma le pentole sono tre
e lo Zanni può agire solo con due braccia. Quindi spregiudicato, come fosse prassi normale, si infila il bastone fra le
natiche e agitando le medesime continua a far saltare padella e pentola eseguendo una danza davvero spassosa e
funzionale) Stralup pelosoo vuoi, vuoi, balengo patrafé spignì, vuoi, vuoi!
(Con scatti rapidi abbandona quella danza, afferra la padella del primo fuoco e rovescia il manzo
stracotto dentro la marmitta della polenta. Infila il bastone nel paiolo e rimesta con forza, gridando)Ah, pulentun,
carnassa svergula impastò!
(Quasi come indemoniato si avventa sull’altra padella)Polastro, a vegni... te magni
straculò!(Afferra con le mani il pollo, ma si scotta) Ohi, che brusatada! La furzina (forchetta) SGNAC
(Infila il pollo con un forchettone. Quindi afferra un coltellaccio e mena fendenti verticali sul pollo) A tochi te fago
polun anca a ti... STRAC STRAZAC! Boia ol dido, me son tajàt ol dido!( mima di afferrare il tocco di dito che è
rotolato a terra. Lo raccoglie e lo avvicina al tronco mozzo piagnucolando) ol me dido, poareto destacà! No
gh’ho pì el dido (lo osserva, lo solleva avvicinandolo al viso, quindi voracissimo se lo mangia)Bon!
(Quindi rovescia il pollo fatto a pezzi dentro la marmitta della polenta, infila il bastone e lo agita
“roversando” e sbattendo il pastone succoloso. Afferra i manici del gran paiolo, pianta bene i piedi a terra, solleva il
paiolo e, inarcando le reni e spingendo il ventre in avanti, attacca le labbra al paiolo.
Si ingoia tutto il pastone fumante. Rimette a terra la marmitta a mezzo svuotata, afferra il bastone ne rimena i
bordi per intingerli nel restante papocchio. Si porta alla bocca il bastone a mo di mestolo una, due,tre volte finché
non finisce per infilarsi in gola tutto il bastone.
Lo Zanni resta impalato. Si agita, da botte a scatto col ventre, il petto e le natiche finché fa a pezzi il palo e lo
digerisce con gran rutto finale.
Perplesso si porta le mani alla bocca ed esclama) Pardon!
(Una lieve pausa. Lo zanni sembra risvegliarsi. Si guarda intorno, si palpa il ventre. Lamentoso, addolorato)
L’è staìto un insognamento... tüto sojamente un suegno. No’ è vera, no’ gh’ho magnao... (si guarda la mano)
nemanco ol me dido m’e magnò! (Piange )Stuveico smalarbeto vignon! Imperchè m’è fàiti ‘sti schersamenti de
bofoneria (Piange ed emette un lamento quasi infantile)
EHIEE, OHIEEE
(Il lamento si trasforma nel ronzio acuto di un moscone)
VUHE EE VUHIII
(Lo zanni lo segue mentre l’insetto fastidioso gli vola intorno. Il moscone compie evoluzioni beffarde intorno al suo
naso, poi allarga i giri, va via. L’insetto sembra sparito, ma ritorna più insolente che mai e va a posarsi sul naso dello
zanniche resta bloccato con gli occhi che si incrociano sulla sua canappia. Le dita di una sua mano s’arrampicano
lungo il collo mentre quelle dell’altra scendono dalla nuca. Cercano di circondare il moscone: veloce la mano che sta
sulla fronte scatta e afferra l’insetto infame. Sprizzando gioia inaudita lo
zanni urla) L’ho catao! L’ho catao!
(Sbircia fra le dita serrate e esclama radioso)
Bello!
(Torna a sbirciare, quindi al pubblico) Grosso, grasso!
(Infila due dita della mano libera fra quelle dell’altra chiusa a trappola. Mima di estrarre, stretto fra due dita, il moscone.
Lo mostra al pubblico con gesto trionfante) Va che bestia! (Stupefatto)
Che animal!
(Gli stacca una zampina e la mostra) Un parsiutto! Va che giambon sbrigulante!(L’azzanna, mastica vorace
e ingoia goloso mugolando per il piacere. Quindi afferra l’altra gambina e la descrive)
Ohi questa che grassonassa! Straprosiutto d’un gambeton!
(Lo sbrana con sospiri e deglutisce ispirato. Considera la carcassa dell’insetto ed esclama)
Oh, le aline... bele quatro aline!
(Le stacca delicato e le inghiotte rapido. Assapora) Bone... dolze e gh’è dei disgrasiò che i büta via!
(Osserva ispirato quel che rimane dell’insetto)
Che petoron: questo me lo magno tüto entrego
(mima di afferrare da una saccoccia una piccola saliera. La scuote come per cospargere il succulento boccone
di sale. Quindi porta l’ultimo tocco alla bocca, lo mastica lento come per goderne lo straordinario sapore. Mugola a
ogni masticata ed emette un grido quasi a imitare un orgasmo da infarto. De
glutisce, con un gran sospiro si batte una gran manta sul petto e trionfante se ne va esclamando)
Che magnàda.